Poesie di Renato Aymone


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Sopra un incontro erotico andato a monte nel motel Paradiso di Forlì.
Fu a Forlì (chi mai si scorda!),
nella stanza di un motel,
che la corda tu tagliasti,
cara Amanda, sul più bel.

Via fuggisti con la scusa
che ci avevi gente a casa,
che non era buona cosa
di non farcisi trovar.

Ti pregavo: "Amanda mia,
se tu parti, che vai via,
che mi lasci qui soletto,
che farò sopra quel letto,
che farò senza di te?
Che farò coi due guanciali,
su quel lercio copriletto?
Mi ci faccio un bel balletto?
mi ci faccio il cataletto
dove poi mi genufletto
sul fantoccio che sei te?
Per la quale e per il come
non ci trovo ora una gnome,
ma però, mia cara Amanda,
questa si è massima santa:
chi ti incanta poi ti pianta!

Di rimando: "qui c'è il bar,
ci hai la tele dirimpetto,
bitter, coca, salatini
patatine e popcorn...
Puoi dormire difilato,
puoi tenerti poi quietato
con le soap e con i talk,
con le fiction e i tg,
o un catartico intervallo
ritagliarti acciambellato
nell'attesa dello sballo!"

"Non andar, caro mio bene,
qui mollandomi tapino.
Non ho sonno, e per la tele
mica son venuto qui;
qui non venni con la piena
né per coca e patatine,
bruscolini e salatini!
Qui ci venni, mia sirena
per un dolce tête-à-tête,
con rovente rendez-vous.
Niente meno e niente più!

Meglio, allora, più la Standa,
meglio più l'ipermercato,
meglio pur lo zoo col panda
o un museo del libro antico;
meglio starsene in veranda
col lettore, auricolato,
rimirare il cielo aprico;
farsi un po' di bricolage
nel rifugio del garage;
o in amaca, sfaccendato,
contemplare il pergolato,
con sua pigna maturanda.
Per il come e per la quale,
questo è tutto, cara Amanda!".

"Vado, pranzo, poi ritorno,
me li levo già di torno,
vedrai, caro, lì per lì.
Me la cavo in un sol giorno.
Corro. Addio. Tu aspetta e spera,
senza starmi più così".

All'orlo, allora, della sua mini-
gonna mi abbranco, mi sbianco,
mi vedo già supino allo spedale;
mi prostro a lei, ginocchioni,
tremulo, colmo di ambascia
come fedele in un chiostro
presso l'icona speciale
di Santa Rita da Cascia,
e la prego: "mia donna fatale,
se fuggi, allora a che vale
che siamo venuti fin qui?

Te lo dico, e pur con gran rispetto:
mi ti volevo tutta spupazzare
fin quando mi veniva il mal di mare,
e tu ti spupazzavi tutto a me;
mi ti volevo tutta compulsare
dalla tua chioma bionda fino ai piè
sopra quel letto grande, ondoleggiante
come il tuo seno tremulo e perfetto;
mi ti volevo tutta consultare
come un codice raro, un palinsesto,
come un atlante, un'enciclopedia,
come preziosa mappa di tesoro,
io pellegrino per ogni tua via;
e tutta perlustrare: mari e monti,
e seni e golfi e valli e colli e stretti,
mia terra di vacanza e di ristoro.
Mi ti volevo tutta scandagliare,
tuo Marco Polo viaggiatore in China,
novo Milione sopra te dittare;
mi ti volevo circumnavigare
come De Gama l'Africa selvaggia
in cerca di ricchezze e droghe rare;
e sempre via mare andare a tondo
attorno a te, novello Magellano
che a giro corse l'universo mondo;
di te favoleggiar cose mirande
con cura grande ed incision perfetta
come a suo modo fece il Pigafetta;
e te cuccare ancora, poi mappanda,
come Cook la Nuova Zelanda;
le tue Colonne d'Ercole varcare
come Odisseo che vi levò la randa,
o tu che rechi il fato tuo nel nome,
fulgida Amanda!

Poi ti volevo tutta decorare
di petali di rose e di pansé
di fiordalisi, rosolacci e nonti-
scordardime. Ma tu ti rompi i ponti
e me mi pianti qui senza uno sbocco,
relitto, afflitto, misero pitocco,
mentre poc'anzi re!

Trattieniti, Amanda, e ti prometto
che, senza mai toccar cibo o bevanda,
noi ci godremo come viso a viso
le meraviglie d'ieri e del presente,
col paradiso in fine, indubbiamente,
così come dichiara adesso e qui
nel nome, assai preciso,
questo tale motel di Forlì".

Ma tu irritata a un tratto ti scrollasti
sfilandomi l'orlo dalla mano,
poi giunta sulla soglia pronunciasti:
"spupàzzati da solo, mio sovrano,
come ti aggrada, e tu ci hai la risorsa.
Esperto sei, ti penso, del monologo,
quando in difetto sei per fare un duetto.
A me si addice andare, come ho detto,
dagli ospiti che ci ho, mò mò, di corsa".

Fior di Romagna, Amanda benedetta,
così mi abbandonasti, senza epilogo
e senza neanche cominciare il prologo,
sul tuo ritorno a farmi vano astrologo,
talché ripiena fu la mia disdetta,
che il mondo ne grida ancor vendetta!

Tre giorni son rimasto solitario,
più mesto del passero eremita,
a Forlì, nel motel Paradiso,
guardando la tele, ingoiando
crocchette di riso e supplì;
come un derviscio in preghiera,
sul materasso ondulando,
ad acqua, del letto, che blando
fingeva una lenta crociera
tra i cieli di quel paradiso
sognato e perduto così
in un motel di Forlì.

Monacazione repentina a Monza con abbandono di moroso
Ti ricordi quando a Monza,
con la moto nella mota
volesti farti monaca?
Fu allora che ti dissi:
"ci fai o ci sei gonza?
Magari fatti bonza,
o pigliati una sbronza!"
Ma tu restavi immota
come a te stessa ignota,
con anima devota,
come chi fissa e ponza
la mota in moto a Monza.

Poi mi dicesti a ruota
lisciandoti una gota:
"ormai sono vocata,
questa è la mia fermata.
Sono una trota all'amo,
su su, non farmi il gramo,
niente più bramo ormai
che monacarmi qui".

Fu allora che sentii calda la traccia
di un pianto furtivo lungo il viso
e accanto me la strinsi in quell'incanto.
Vedevo dalla moto la mia faccia
come affondare in quella scura mota;
sentivo la mia testa rotolare
come una ruota in quella melma diaccia.
Le dissi ancora: "pensaci, Veronica,
magari fai la sarta, l'entraineuse,
l'elettricista, la parlamentare,
o la bagnina, oppure la sciampista...
Ma monica! Una cosa cosi trista..."

Mi prese le due mani
come per farmi cuore,
sbronza, però d'ardore
per Dio nostro Signore.
"Tu cercati - mi disse -,
cercati un altro amore
che sia di me migliore.
Quello mio vero è nato
per caso su una moto
da questo limo beato".
Discese e sparve, eterea,
seguendo un colonnato...

E adesso che ci faccio
su questa moto a Monza?
Con neve, pioggia e grandine,
da allora è qui che giaccio,
la faccia tra le mani,
il cuore in quella mota,
perduto ogni domani.
Ma a casa non ci torno
senza la mia Veronica,
che mi sparì di torno
quel dì per farsi monica,
e mi ammollò così.

Congedo
Dato che il mondo è fatto a scale,
(e chi le scende e chi invece le sale),
e chi monta e chi smonta, e chi vede
e chi passa, e chi piglia e chi lascia
                             (e inoltre è vario,
come sentenzia l'altro detto),
a te che sei la prediletta mia,
tutto ti lascio e vado via, chiquita.

Ti lascio i marabù, le penne a fera,
il pesce cane, il gatto col Bagatto,
gli hot dog, il due di spade, gli alambicchi,
le rose, le corride, la spirale,
gli onischi, le ammoniti, gli specilli,
i dumi, i duomi, il dòmino, il domani…

Ti lascio Sorrento e Marechiaro
(e una voce che canta: Ohi Marì),
le ortiche, il salnitro, il curaro;
ti lascio Capri ed Ischia, 'a fenestella,
e uno scugnizzo che saltella e fischia:
                              Oi stella stella…

e l'Epomeo con Procida ti lascio,
Nisida, con rezze e con lampare
e Piedigrotta, i capperi, il Vesuvio,
Coroglio,Tragara, e un mandolino
che piange nascosto nella notte:
                             Nun ghi vicino…

e un alito ti lascio, mia nennella
di neve e di limoni, due tornesi,
la nèpeta e la menta sui balconi,
le spingole francesi, i faraglioni,
l'origano, la Grotta, la cannella,
le gelse more, vongole e forcine

con questo mare verde senza fine.

Ti lascio l'aspirina e gli aquiloni,
i mocassini, i moduli, le more,
i càntari, i citofoni, i paguri,
la ceralacca, i bisturi, le trine,
il Tommaseo-Bellini, il lago d'Orta,
le ruspe, i caducei, le blatte, il tango

e la mia mano, la mia mano morta.

Ti lascio a te la pece con la pace,
i panda, le granate, il carovita,
le preci, i proci, i bronzi di Riace,
i doppi ziti, le viti… la vita;
e i timbri, il salnitro, i basilischi,
le lobbie, le sinopie, l'acquaragia,
le pipe, le forbici, i flabelli,
le lime, i pennelli, le sibille,
la canfora, i fosfeni, le foreste,
i dischi dei Platters e le meste
                         mie glauche pupille…

Ti lascio il basilischi, le autostrade,
gli arazzi, i fusibili, i batraci,
gli ottoni, gli ottani, le dentiere,
i lecca-lecca, le forche e il ricordo
                         delle mie chiome nere.

Le mitrie poi ti lascio con le renne,
i violini tzigani, l'amor de lohn,
lo spleen ed il phon, le crociere,
i long drink e le viole, i pellicani,
lo zolfo, il ready made, i sette nani,
i sexy-shop, il new deal, le voliere,
il radicchio, le banche, lo shaker,
                            il meccano, il fox-trot.

Ti lascio ancora me che ormai ti lascio
e me mi lascio pure mia chiquita.
E qui mi sottoscrivo con l'impronta
(tienila come mio pegno finale)
                           delle mie cinque dita.  

Ballata dal del tempo
Il tempo, intanto, indifferente va.
C'è chi oggi cade e chi domani
cadrà.
Ma che fa (mentre il tempo che viene
già va)?
Dopo il giorno viene la sera,
dopo l'inverno la primavera.
Ti volti un po' qua, ti giri un po' là:

già è scesa la notte e la-riu-là.
Sogni, cavalli, dame, fortune,
niente e nessuno dal tempo è immune.
Pianti, speranze, i no come i sì
sfumano in niente alla fine del dì.
Tutto già corre alla fossa comune,

signore e signori, e la-riu-lì.
Regge, castelli, mode, festini,
pianti e stornelli di mandolini,
sussurri e grida, voci di notte,
presto nel niente scendono a frotte.
Vani i singulti con i desiri,

fatue le veglie con i sospiri.
Palpiti, attese, fole e mattane
mietono rapide falci e frullane.
Tutte le cose quaggiù son vane
larve che migrano in carovane:
calano a tondo nello sprofondo,

ché tale è il mondo da quando è mondo.
A dirla con parole ancor più piane,
da trivio sì, ma certo non ruffiane:
tutto in un amen se ne va a puttane.
Ma non vi dogliate, signore e signori,
ché, come ben si dice, in alto i cuori!

E in alto, ancora, ciò che più vi pare,
se breve è l'ora che s'ha qui a sostare.
Prima di uscirne con la testa rotta,
facciamoci perciò una piedigrotta.
Soffi la tofa e gema il putipù,
chiamato per giunta caccavella;

e il tamburello frema accompagnando
la tarantella al ritmo dei sonagli.
Triccheballache fino in cielo scagli
suoi secchi colpi naccherando l'aria,
tritandola dentro i suoi pestelli.
Scetavaiasse, ruvido violino,

i suoi sonagli mesca al tamburello
tra assaggi di torroni e casatielli,
migliacci, mustacciuoli e susamielli,
granite, antrite; e generoso vino
si versi copioso dalla botte
finché non giunga l'alba del mattino.

E tutto tace. Orsù, che si sbaracca!
Buonanotte al mondo, a chi lo prese
sempre in saccoccia e a chi si diede
alla bisboccia, al gioco ed agli amori.
Buonanotte ai suonati e ai suonatori.
Signore e signori, il tempo è scaduto:

chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto.
Cala il sipario, scende la tela,
fischi ed applausi qui fan lo stesso
su questo muto palco dismesso,
sul vacuo palco di questa mela.
Finita è, signori, ormai la partita.

Lavoratori e non lavoratori,
di qui si smamma senza buonuscita
con una mano avanti ed una dietro,
qui non si sfoglia più la margherita,
qui si misura con un solo metro.
Avanti, in carrozza! Si parte, signori!

Il treno è diretto e senza motori,
senza binari né controllori.
Non ci si paga nemmeno il biglietto.
Tutto è gratuito il soggiorno, ma: viaggio
di sola andata e niente ritorno.
Basta, però, che quasi è fattogiorno!

Venere addio (con Bacco e con tabacco)!
Finita è la raccolta e chiuso è il sacco.
Addio gli amari come i dolci amori!

Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori!
Glauco Vale


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