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Antologia poetica
L'amore - La donna - Morte dei propri cari - Affetto per i propri cari - Tristezza e solitudine - Il dolore - La nostalgia - Racconto di un episodio - La natura - Gli animali - Gli oggetti - I desideri - I ricordi - Il poeta e se stesso - Il poeta e i luoghi - Il poeta si diverte - La poesia per i poeti -

RACCONTO DI UN EPISODIO



Il rondone
Il rondone raccolto sul marciapiede
aveva le ali ingrommate di catrame,
non poteva volare.
Gina che lo curò sciolse quei grumi
con batuffoli d’olio e di profumi,
gli pettinò le penne, lo nascose
in un cestino appena sufficiente
a farlo respirare.
Lui la guardava quasi riconoscente
da un occhio solo. L’altro non si apriva.
Poi gradì mezza foglia di lattuga
e due chicchi di riso. Dormì a lungo.
Il giorno dopo riprese il volo
senza salutare.
Lo vide la cameriera del piano di sopra.
Che fretta aveva fu il commento. E dire
che l’abbiamo salvato dai gatti. Ma ora forse
potrà cavarsela.
(Eugenio Montale)

 


 

Goal
Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce,
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.
 
La folla – unita ebbrezza – par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.
 
Presso la rete inviolata il portiere
– l’altro –è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasta sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa – egli dice – anch’io son parte.
 (Umberto Saba)


Johnnie Sayre
Babbo, non potrai mai sapere
quanta angoscia mi strinse il cuore,
per la mia disubbidienza, quando sentii
la ruota spietata della locomotiva
mordermi nella carne viva della gamba.
Mentre mi portavano dalla vedova Morris
vidi ancora nella valle la scuola
che marinavo per salire di nascosto sui treni.
Pregai di vivere finché potessi chiederti perdono-
e poi le tue lacrime, le tue rotte parole di conforto!
Dal sollievo di quell’ora mi venne felicità infinita.
Tu fosti saggio a far scolpire per me:
<< Strappato al male a venire >>.
(Edgar Lee Masters, trad. di Fernanda Pivano)

Favoletta alla mia bambina
Non pianger bimba, non t’accrescer pene;
da sé ritorna, se torna, il tuo bene.
 
Un merlo avevo, coi suoi occhi d’oro
cerchiati, col palato e il becco d’oro;
cui di pinoli e di vermetti in serbo
nascondevo un tesoro.
Schivo con gli altri; con me, di ritorno
dalla scuola, festoso; e tutte, io dico,
intendere sapeva il caro amico
le mie parole; onde il dolce e l’acerbo
di due anni a lui dissi, a lui soltanto.
E un giorno mi fuggì; fuor del poggiolo
mi fuggì nella corte. Alto il mio pianto,
alto suonava; alle finestre intorno
corse la gente ad affacciarsi; invano
lo perseguivo, il caro nome invano
ripetevo; di tetto in tetto errando,
più sempre in vista piccolo e lontano,
irridere pareva al grande mio
dolore, al disperato dolor mio.
 
Quel che ho sofferto non puoi bimba tu
saperlo; tutto era perduto; e quando
io non piangevo, io non speravo più,
 
l’alato amico ritornò egli solo
alla sua casa, all’esca d’un pinolo.
(Umberto Saba)
 

 L’ornitologo pietoso
Raccolse un ornitologo pietoso
un espulso dal nido. Come l’ebbe
in mano vide ch’era un rosignolo.
 
In salvo lo portò con il timore
gli mancasse per via. Gli fece, a un fondo
di fiasco, un nido; ritrovò quel gramo
l’imbeccata e il calore. Fu allevarlo
cura non lieve, ed il dispendio certo
di molte uova di formiche. E ai giorni
sereni, ai primi gorgheggi, l’esperto
in un boschetto libertà gli dava.
<< Più – diceva al perduto, e lo guardava
a terra e in ramo cercarsi – il tuo grazie
udrò sommesso >>. E si sentì più solo.
(Umberto Saba)

Le prime tristezze
Ero un fanciullo, andavo a scuola, e un giorno
dico a me stesso: << Non ci voglio andare >>
e non andai. Mi misi a passeggiare
solo soletto fino a mezzogiorno.
 
E così spesso. A scuola non andai
che qualche volta da quel triste giorno.
Io passeggiavo fino a mezzogiorno
e l’ore… l’ore non passavan mai.
 
Così il rimorso teneva il mio cuore
in quella triste libertà perduto,
e qual ansia, mio Dio, d’esser veduto
dal signor Monti, dal signor dottore!
 
Pensavo alla mia classe, al posto vuoto,
al registro, all’appello (oh il nome, il nome
mio nel silenzio) e mi sentivo come
proteso su l’abisso dell’ignoto.
 
E mi spingevo fin verso i giardini
od ai viali fuori di città;
e mi chiedevo: << Adesso, chi sarà
interrogato, Poggi o Poggiolini? >>

O fra me ripetevo qualche brano
di storia (Berengario, Carlo Magno,
Rosmunda) ed era la mia voce un lagno
ritmico, un suono quasi non umano.
 
E quante quante volte domandai
l’ora ad un passante frettoloso ed era
nella richiesta mia tanta preghiera!
Ma l’ore… l’ore non passavan mai.
 
Chi mi darà, chi mi darà quell’ore
così perdute dell’infanzia mia?
Non tu, non tu che tanta nostalgia
e tanto affanno mi ridesti in cuore,
 
non tu, non tu che la tua fronte chini
per tacermi una lacrima o il pensiero
ch’è sulla soglia del tuo ciglio nero
e nemmen Poggi e nemmen Poggiolini.
(Marino Moretti)

 


La petite promenade du poète
Me ne vado per le strade
strette oscure e misteriose:
vedo dietro le vetrate
affacciarsi Gemme e Rose.
Dalle scale misteriose
c'è chi scende brancolando:
dietro i vetri rilucenti
stan le ciane commentando.

La stradina è solitaria:
non c'è un cane: qualche stella
nella notte sopra i tetti:
e la notte mi par bella.
E cammino poveretto
nella notte fantasiosa,
pur mi sento nella bocca
la saliva disgustosa. Via dal tanfo
via dal tanfo e per le strade
e cammina e via cammina,
già le case son più rade.
Trovo l'erba: mi ci stendo
a conciarmi come un cane:
da lontano un ubriaco
canta amore alle persiane.
(Dino Campana)

Bert Kessler
Colpii l'ala dell'uccello,
benché volasse verso il sole al tramonto;
appena echeggiò lo sparo, si levò
sempre più alto tra sprazzi di luce dorata,
finché si rovesciò a capofitto, le penne arruffate,
qualche piuma sospesa nell'aria,
e cadde come piombo sull'erba.
Feci qualche passo, scostando i cespugli,
finché vidi uno schizzo di sangue su un tronco
e la quaglia riversa tra le radici fradice.
Allungai la mano, non c'erano rovi,
ma qualcosa la punse e la trafisse e la gelò.
E poi, in un baleno, scorsi il serpente a sonagli -
le grandi palpebre sugli occhi gialli,
la testa arcuata, affondata nelle spire,
un viluppo schifoso, color cenere,
o di foglie di quercia sbiadite sotto strati di foglie.
Restai impietrito mentre si ritraeva e srotolava
e cominciava a strisciare sotto il tronco,
poi mi afflosciai sull'erba.
(Edgar Lee Masters, trad. Alberto Rossatti)
 

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