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16 Dicembre

Nella grande pianura

di Umberto Bellintani

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Poesia

Pagg. 296

ISBN 9788804749035

Prezzo Euro 20,00

Canti della pianura

Sarà forse un caso, ma in questa piatta pianura, vicino a un corso d’acqua di grande rilievo come il Po, secoli fa nacque un poeta che con la sua prima opera, Bucoliche, cantò di questa natura, ubertosa anche per l’abbondanza d’acqua del grande fiume e dei suoi affluenti; ebbene, dopo tanto tempo, e questa volta mi riferisco al secolo appena trascorso, è nato un altro artista che con i suoi versi rivela le stesse sensazioni ed emozioni. Diverso è lo stile, completamente difforme è la struttura, ma lo spirito che dà vita all’idea, che nobilita la creatività accomuna Umberto Bellintani a Publio Virgilio Marone.  Entrambi hanno visto la luce fra due fiumi, per Bellintani il Po e il suo affluente Secchia, per Virgilio sempre il Po e il suo affluente Mincio. 

Sono coincidenze che appaiono tanto più particolari ove si guardi al loro grande amore per la natura; ci troviamo quindi di fronte a poeti territoriali, benché Virgilio risulti indubbiamente padrone di una universalità, rara e e avvincente come poche, ponendosi su un altro livello, e con ciò senza togliere nulla alle indubbie qualità di Bellintani. I tramonti, con le prime ombre della sera che cala rasserenante, i lunghi silenzi, l’isolamento che consente la campagna sono tematiche che ricorrono nel poeta di San Benedetto, uomo che sente il respiro del fiume e della grande pianura e che ne reinterpreta le sensazioni che avverte il suo animo. Eppure, a fronte di tanta serenità, immancabile emerge il rapporto con la morte, lancinante  ( Più d’una rete luceva sulle acque, / stillando il sole; di poi si sommergeva. / Ed era un giubilo d’allodole quando / al pescatore sotto riva emerse / il  giovinetto da quel fondo, il corpo cereo. / Allora il pianto della madre ruppe in gridi / e quello muto d’altre donne dilagò / ed era greve. /….), o struggente ( Passo di viso in viso e ritrovo il fanciullo / che un crudo morbo mi tolse alla schiera / degli astuti nel gioco dei banditi. / Ha nelle mani il suo arco di robinia / ed è forato nel piede, mi conduce / sulla strada di un dolce ricordo. /  / Ezio, mi senti? Sono io, / sono io qui venuto alla tua tomba / e t’ho portato un coccodrillo modellato / colle mani di allora. / / I veri amici sono morti ad uno ad uno / e chi da morte non mi chiama non ha il volto / che amavo, il volto dell’infanzia.) L’ultima poesia mi ricorda, per l’emozione che comporta, un’altra, a me particolarmente gradita, quell’Aquilone con la quale Giovanni Pascoli, nel cantare la morte giovinetto di un compagno, canta anche la morte della gioventù. Ebbene anche in Bellintani l’età, che tanti definiscono giustamente la più bella, non è vista con nostalgia o con rimpianto, ma solo come la fine definitiva di un periodo che infatti mai più potrà tornare. 

Uomo di pianura, anzi della terra in cui affonda le radici per cercare se stesso, il poeta di San Benedetto è tuttavia capace di trasmettere in versi il respiro della natura, la forza arcana della stessa, in una visione arcaica che credo non abbia eguali nella poesia del secolo scorso. Però non mi si venga a dire che parla di un mondo che non c’è più, perché invece c’è ancora, all’apparenza mutato, ma il cui spirito permane, un soffio di esistenza che resiste alle barbarie umane, alle distruzioni scellerate, e che l’animo, aperto, spalancato del poeta chiaramente avverte e di cui dà contezza.

Ed ecco che allora si comprende che fil rouge ricorrente della morte non è altro che un aspetto del ciclo della vita con il quale si avvia il processo del ricordo, l’unico perché qualcosa resti di tutta un’esistenza.

Sono tante le poesie di questa raccolta, e del resto abbracciano un lunghissimo periodo di tempo, in una varietà di argomenti che se non stupisce almeno per certi aspetti sorprende. Ma su tutte è la natura che fa da padrona e ricollegandomi a quel fil rouge di cui ho accennato mi permetto di riportare l’ultima lirica, come definitive sembrerebbero le ultime volontà in essa espresse e che riassumono sì il pensiero di Bellintani, ma anche le caratteristiche di questa gente di pianura che vive accanto al grande fiume. Si intitola Anche per me quella bandiera: “ anche per me una bandiera rossa, / e un po’ di gente malvestita da Bardelle / venda da Brede, da Camatta, Pontevecchio / in bicicletta, con le brache di fustagno / lise e la vecchia mantellina di una volta. / Voglio morire d’inverno, in misura che l’uomo è sulla terra: / povera cosa, malcerta, non sicura / d’essere uno o nessuno , un topo o un gatto, / una ciabatta, un coccio nero di bottiglia / per l’altrui piede o per il proprio.  / Anche per me dunque quella rossa / bandiera popolana. E in tutta fretta 7 mentre la neve sfarfalla il vento rigido / io sia calato nella fossa. Quando ritorni / alla sua casa ciascuno e all’osteria / per ricordarmi quel poco che mi basta / udirli ancora, un minuto prima che / morte completa mi abbia interamente. / Intanto dico che sarà per me un conforto / anzi una gioia sapermi con la povera / Tina Mazzali. Rammentatela. Vi prego.”.

Non credo sia necessario che aggiunga altro, perché Umberto Bellintani, come tutti i poeti, quelli grandi, deve essere solo letto, lasciandoci trascinare dal flusso di immagini e di pensieri che i suoi versì, così evocativi, sono lì in paziente attesa per essere colti.

Umberto Bellintani (San Benedetto Po, Mantova, 1914 - Mantova 2000) poeta italiano. Al centro dei suoi versi, aspri e insieme vibranti di affetti, è il paesaggio natale, un mondo paesano che fa da scena alla grazia dell’infanzia, al dolore comune degli uomini, a improvvise aperture mistiche: Forse un viso tra mille (1953), Paria (1955), E tu che m’ascolti (1963). Pur continuando a scrivere, scelse per molti anni di non pubblicare, ma nel 1998 diede infine alle stampe Nella grande pianura, il suo libro più importante, e Canto autunnale.

Renzo Montagnoli

 

 

 

11 Dicembre

Guerra di spie.

I servizi segreti fascisti, nazisti e alleati.

1939-1943

di Mimmo Franzinelli

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia

Pagg. 312

ISBN 9788804678632

Prezzo Euro 14,50

Spie, contro spie e doppiogiochisti

Libro dopo libro non posso che apprezzare sempre di più questo storico in grado di rendere avvincente una materia, non di rado ostica, come la storia; le sue capacità di strutturare nel migliore dei modi i saggi che scrive consente di leggere con piacere senza nulla togliere alla necessaria completezza e obiettività. Anche nel nel caso di “Guerra di spie. I servizi segreti fascisti, nazisti e alleati 1939 – 1943” si riesce ad avere una visione completa e per niente superficiale di un’attività sempre presente in tempo di pace, ma ancor più intensa in caso di guerra. Il periodo di osservazione è invero limitato, ovvero fino all’armistizio del 1943, con i nostri Servizi Segreti ormai incapaci di  entrare in questo gioco, soprattutto dopo il 25 luglio, quando non solo viene a mancare la figura istituzionale di Mussolini, ma anche chi gli succede, Badoglio e il suo governo, sembrano e sono incapaci di condurre con abilità l’uscita dalla guerra, tutti preoccupati di non far trapelare nulla ai tedeschi, i quali invece sono ben informati.

Il saggio è impostato logicamente in capitoli che non sono slegati fra loro, grazie all’ordine in cui sono esposti. Nel primo Franzinelli parla esaurientemente del SIM (Servizio informativo militare), nel secondo racconta dei tentativi degli alleati di introdurre agenti entro i confini italiani e di effettuare anche azioni di sabotaggio, con il terzo poi si descrivono le dinamiche all’interno delle organizzazioni spionistiche italiane, dei loro rapporti con il potere politico nel periodo che intercorre fra la fine della primavera del 1943 e il famoso 25 luglio con la caduta di Mussolini, senza tralasciare, anzi ben evidenziando il crescente sviluppo dei servizi segreti tedeschi già prima di questa data.

Come al solito le fonti sono numerose e riportate alla fine del saggio, che comprende, con finalità volte a consentire ulteriori approfondimenti, anche un “Dizionario spionistico” con schede che evidenziano le organizzazioni interessate, nonché figure dello spionaggio citate nel testo, i rapporti al Duce sullo spionaggio militare, una varietà di documenti relativi alla guerra segreta e a lettere scritte dal carcere.

Peraltro c’è un’ulteriore chicca, e cioè un inserto con le fotografie dei protagonisti di “Guerra di spie”, in alcuni casi nella loro duplice veste di arruolati con falso nome nei servizi nemici e di condannati a poche ore dalla loro fucilazione.

Sono sicuro che chi è interessato alla lettura avrà modo di soddisfare le sue curiosità e al termine sarà in grado di comprendere l’importanza di questa attività che, per ovvi motivi, soprattutto in tempo di guerra cerca di restare nell’ombra, sia che si tratti di spionaggio che di controspionaggio.

Mimmo Franzinelli (Cedegolo, 1954) studioso del fascismo e dell´Italia repubblicana, componente del comitato scientifico dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione "Ferruccio Pari", è autore di numerosi libri, fra cui: per Bollati Boringhieri, I tentacoli dell´Ovra (1999, premio Viareggio 2000), Rock & servizi segreti (2010) e Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia (2011); per Mondadori, L´amnistia Togliatti (2006), Il delitto Rosselli (2007), Beneduce. Il finanziere di Mussolini, con Marco Magnani (2009), Il Piano Solo (2010), Il prigioniero di Salò (2012), Tortura (2018); per Rizzoli, La sottile linea nera (2008). Con Feltrinelli ha pubblicato: La Provincia e l´Impero. Il giudizio americano sull´Italia di Berlusconi, con Alessandro Giacone (2011), Delatori. Spie e confidenti anonimi: l´arma segreta del regime fascista (UE 2012), Il Giro d'Italia. Dai pionieri agli anni d'oro (Feltrinelli, 2013), - per gli Annali della Fondazione Feltrinelli - Il riformismo alla prova. Il primo governo Moro nei documenti e nelle parole dei protagonisti (ottobre 1963-agosto 1964), con Alessandro Giacone (2013) e Fascismo anno zero (Mondadori 2019). 

Renzo Montagnoli

 

 

 

5 Dicembre

Il bambino di Salisburgo

Mozart, l’interminabile infanzia

di Edgarda Ferri

Solferino Edizioni

Biografia

Pagg. 240

ISBN 9788828211365

Prezzo Euro 16,50

 

Libertà va cercando...

Mi è venuta improvvisa la voglia di citare la Divina Commedia, laddove, nel Purgatorio, Virgilio si rivolge a Catone l’Uticense presentandogli Dante e gli dice Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta” con riferimento al suicidio del politico romano, un atto estremo per non incappare nell’umiliazione di chiedere la grazia a Giulio Cesare.

Viene logico chiedersi che relazione ci sia fra un personaggio vissuto nel primo secolo avanti Cristo e il grande musicista austriaco che consumò la sua breve esistenza nella seconda metà del diciottesimo secolo.

Una risposta esauriente si può trovare nella bellissima biografia scritta da Edgarda Ferri, che evidenzia l’irrefrenabile desiderio del compositore salisburghese di essere finalmente libero di condurre la propria esistenza, senza la presenza oppressiva del padre che, con continui ricatti, gli impose di vivere secondo il suo punto di vista, incurante delle legittime aspirazioni del figlio. A differenza di Catone Mozart non si suicidò, ma di certo, unitamente alla circostanza che si era appannato con la maggiore età il mito del bambino prodigio, aveva finito per condurre un’esistenza grigia e senza soddisfazioni, comportandosi come un fallito anche se non lo era e non accettando quella normalità che non gli era mai stata propria. Per dirla in breve non si suicidò, ma nulla fece per vivere.

Il libro è bello, sotto ogni aspetto, la narrazione di Edgarda Ferri è puntuale e precisa, nulla le sfugge di una vita così intensa quale è stata quella di Mozart durante l’infanzia; descrive bene i personaggi, soprattutto Leopold Mozart, il padre padrone del piccolo genio, un uomo che vede nel figlio quella possibilità di successo e di fama da lui sempre agognati e mai raggiunti. La brama di arrivare incombe continuamente sul piccolo Mozart, escludendo perfino la sorella Nannerl, che pure avrebbe avuto grandi possibilità di affermarsi con il suo talento musicale. Le descrizioni dei viaggi, gli incontri con i reali dell’epoca, la felicità infantile di Amadeus che con il trascorrere degli anni, raggiunta la maggiore età, si trasforma in insoddisfazione, stante la pressione paterna, l’incapacità del giovane di sottrarsi a questo vincolo opprimente, il declino fra ristrettezze tali che, da morto, finirà in una fossa comune, sono descritti mirabilmente e con una vena di compassione  per un uomo a cui non fu permesso di vivere normalmente.

Secondo me Mozart è stato il più grande compositore di tutti i tempi, un compositore universale, stante la sua grandezza nella musica classica, in quella sacra, in quella sinfonica e in quella operistica, ma è stato anche e soprattutto un essere umano che ha cercato sempre, senza mai ottenerla, un po’ di libertà.

Da leggere, più che un consiglio è una raccomandazione.

Edgarda Ferri è nata a Mantova e vive e lavora a Milano. Scrittrice, saggista, giornalista ha esordito nel 1982 con Dov´era il padre, un romanzo che rimane tuttora un ritratto fondamentale e un punto di riferimento per un´intera generazione. Ha pubblicato inoltre, Contro il padre (1983), La tentazione di credere (1985), Il perdono e la memoria (1988), Luigi Gonzaga (1991), Quello che resta di Cristo dopo 2000 anni (1996) e, per Mondadori, Maria Teresa (1994), Giovanna la Pazza (1996), Io, Caterina (1997), Per amore (1998), L'ebrea errante (2000), Piero della Francesca (2001), La grancontessa (Le Scie, 2002), Letizia Bonaparte (2003), L'alba che aspettavamo (2005), Il sogno del principe (2006), Rodolfo II (2007), Uno dei tanti (2009).

Renzo Montagnoli

 

 

 

30 Novembre

Pianure d’obbedienza

di Marina Minet

Macabor Editore

Poesia

Pagg. 96

ISBN 979-12-81459-18-2

Prezzo Euro 13,00

introduzione di Silvano Trevisani con una nota a margine di Maria Pina Ciancio
 

Fides est machina vitae

La poesia, come tutte le arti, affronta e svolge diversi temi che sono nelle corde o nelle aspirazioni di chi ne scrive; così possiamo trovare la poesia  d’amore, quella filosofica, quella naturalistica solo come esempio per citarne alcuni. Non mancano peraltro la poesia filosofica, così come quella religiosa, ma ce n’è anche una particolare ed è quella spirituale, che può essere confusa con la religiosa per certe attinenze, ma non lo è. Innanzi tutto si tratta di composizioni in versi non schematizzate e che io definisco poesie dell’anima, contraddistinte da una progressiva ricerca in se stessi dell’Assoluto, in un crescendo di emozioni che può portare al misticismo.

Questo  preambolo, che ha lo scopo soprattutto di portare all’analisi di questa raccolta di Marina Minet, fa già intendere come io veda la sua arte poetica, in una dimensione che non è consueta e che porta a diverse situazioni e stati d’animo che ben si riflettono nei versi. Frequenti sono le note dolenti che, però in forza di una fede ragionata e profonda, si convertono in prove delle finalità della vita, che, come nel caso della perdita della madre, possono lasciare addolorati e attoniti, ma che finiscono con l’essere un percorso obbligato, comune a tutti i mortali, per andare nell’oltre, per arrivare a quell’elevazione a a quella perfezione a cui l’autentico credente aspira. 

Ho notato, e apprezzato, il dialogo che ogni tanto si instaura con l’Entità superiore, frutto di una catarsi intimistica, in cui il proprio IO diventa portavoce della divinità (…./   Tu solo incarni la dimora / la tela del tessitore sacro / che ci coltiva santi / Dell’anima sei il colle da scalare  / e il tuo podere è in noi, fertile zolla / …).

Posso solo immaginare, non conoscendo direttamente la poetessa, che la sua sia una vita di costante e continua riflessione, di ricerca della fede, un fuoco auto alimentato che riscalda il cuore e che porta a quella gioia che nulla ha di terreno, ma che si libra in volo come una colomba fra gli ulivi (Se mai c’è stato un giorno in cui non mi eri accanto / Signore, io non lo ricordo / Vi erano stanze allora, arse come grembi nei deserti / e giare di lacrime arginate come albe di novembre / quando il giorno tarda ad affacciare /…).

Appare evidente che chi è permeato da una così rilevante spiritualità tenda a vedere il mondo con occhi diversi da noi tutti ed è così anche per una tragedia ricorrente e che purtroppo è sempre attuale come la guerra. Per quanto ovvio, una persona sensibile è contro la guerra e vede le sofferenze che provoca, se non direttamente coinvolta, con un senso di pietà; nel caso di Marina Minet c’è invece un’autentica partecipazione e quindi il suo sentimento è più profondo, è una compassione ( Quali lamenti racconta la terra / ieri le madri cullavano l’alba e ancora è così / Le braghe degli uomini puzzano ancora / si sente il latrato dei cani fin dentro le ossa / Gli estremi dei poli congiungono le frasi / di chi la pietà la conserva nei polsi / fra le lancette degli orologi rotti / Il no che richiude le porte / Le tasche dei morti contengono niente / l’ultima preghiera ch’era in vita / finita a metà con il pianto dell’infanzia / freddato dagli scoppi /

soldati di rabbia per chi li comanda / soldati d’amore per chi li saluta / le file che restano rimpiangono la noia / gli abbracci segreti e i petali dei fiori / caduti sopra i tavoli / al grido dei bambini in festa).

In una persona così la preghiera rappresenta lo strumento per elevarsi e anche per lenire le sofferenze; mia moglie, cristiana di confessione ortodossa, mi dice spesso che la preghiera aiuta quasi come una medicina, nel senso che oltre a sanare i problemi dell’anima, lenisce anche le malattie del corpo. E le credo, perché la preghiera è un esercizio che fortifica lo spirito. E’ certamente vero, perché nell’esergo che accompagna Un fiore all’inverno ( Devo rendere un fiore all'inverno / un fragile germoglio / che possa abbandonare questo mondo / stringendo la certezza del ritorno /…) si dice È nella sofferenza che si apprende la preghiera. Del resto le preghiere che intonavano i martiri cristiani costituivano la forza per vincere il timore delle sofferenze e della morte; la preghiera è una supplica a Dio, affinché possa meglio vedere chi la eleva e venirgli in soccorso.

In queste poesie, nate in un arco di tempo non breve, tuttavia è presente un argomento che generalmente si cerca di dimenticare, ma che è parte della vita stessa e mi riferisco alla morte, l’ultima tappa del percorso terreno. 

Uno si aspetterebbe chissà quali elucubrazioni e invece è un messaggio d’amore grazie alla fede, sia che sia il ricordo di una persona cara che è venuta a mancare (In certi istanti, dov’è la sola umanità / a renderci chi siamo / diamo il congedo a tempi lontani / devoti al nostro sangue / e a tutto ciò che resta nel mistero / Cosa sappiamo dell’innocenza / del corpo arreso sotto la daga / guardando le piaghe degli altri / come rivoli di pioggia noi perforiamo i sassi / prima che la pena sia compiuta / e che la mano tenda il suo conforto /...), sia che si tratti direttamente di chi scrive (Quando un giorno verrete alla mia tomba / non bussate come solita è la gente / accendete la presenza col silenzio / mormorando un perdono controvento / fra le gore delle siepi / Fischiettando, rallegrerete i marmi / con l’olio della lampada sul capo / versato a goccia piena, d’abbondanza / per rischiarare il tempo già accaduto / …). In ogni caso il tutto è accompagnato e sostenuto dalla fede, quella fede che la guida anche nello scrivere i versi, specchio di un’anima limpida che dona all’esistenza una visione scevra da ogni materialità.

Se devo essere sincero, per quanto bella, non è una poesia per tutti, è una poesia per chi privilegia la sacralità dell’esistenza, per chi cerca di amare il prossimo come se stesso, per chi considera l’applicazione del Vangelo come scopo di questa vita.

Marina Minet nasce a Sorso in Sardegna, ha vissuto otto anni in Basilicata e attualmente vive ad Ariccia. Ha pubblicato le seguenti monografie poetiche: “Le frontiere dell’anima” (Liberodiscrivere® edizioni, 2006), “Il pasto di legno” (Poetilandia, 2009), l’ e-book “So di mio padre, me” (Clepsydra Edizioni, 2010), “Onorano il castigo” (Associazione Culturale LucaniArt, 2012), il racconto breve “Lo stile di Van Van Gogh” (Associazione Culturale LucaniArt, 2014), le sillogi poetiche “Delle madri” (Edizioni L’Arca Felice, 2015), “Scritti d’inverno” (a cura del premio Città di Taranto, 2017), “Pianure d’obbedienza” (Macabor, 2023).

Fra le pubblicazioni ricordiamo la partecipazione numerosi romanzi collettivi al femminile.  Il racconto-poema “Metamorfosi nascoste” è apparso nell’antologia “Unanimemente” a cura di Gabriella Gianfelici e Loretta Sebastianelli (Ed. Zona 2011). Le sue poesie hanno ricevuto numerosi premi a livello regionale e nazionale. Collabora al Magazine LucaniArt e da anni si occupa di divulgare la sua passione per la poesia, attraverso l’ideazione e la realizzazione di interessanti “video poetry” che è possibile visionare sul suo canale You tube.

Sito Web: https://marinaminepoesie.wordpress.com/

Renzo Montagnoli

 

 

24 Novembre

L’ufficiale e la spia

di Robert Harris

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa

Pagg. 448

ISBN 9788804724704

Prezzo Euro 13,00

 

J’accuse

L’affare Dreyfuss è stato indubbiamente il caso più noto di condanna di un innocente in forza di pregiudizi razziali prima, e di delirio di onnipotenza dopo, quando ci si accorse che il condannato non era colpevole.

Alfred Dreyfuss, ufficiale di artiglieria alsaziano ed ebreo, fu imputato di tradimento unicamente sulla base di un documento rinvenuto nell’immondizia dell’ambasciata tedesca a Parigi, documento scritto a mano con una calligrafia simile alla sua. E poiché la prova non era sufficiente per una condanna, si provvide a costruirne altre, peraltro in modo dilettantesco.

Condannato alla deportazione perpetua nella tremenda isola del Diavolo nei pressi della Guyana francese, la sua sorte sarebbe stata segnata se uno dei militari che avevano preso parte al suo arresto, l’allora maggiore Georges Picquart, divenuto capo del Controspionaggio non avesse per caso notato alcune incongruenze nelle prove d’accusa. Dato che la storia è lunga, non sto a scriverla tutta, anche perché è nota, sto solo a evidenziare come un fatto del genere sia potuto avvenire anche per un rigurgito nazionale di antisemitismo; basti solo sapere che occorse parecchio tempo per porre rimedio all’ingiustizia, che lo stesso  Piquart fu incriminato per aver cercato di portare alla luce la verità, che ci furono diversi processi prima che Dreyfuss fosse riabilitato e reintegrato nell’esercito con il grado di maggiore. Andò ancora meglio al tenente colonnello Picquart, prima espulso dall’esercito, poi riammesso con il grado di generale di brigata e che riuscì anche a diventare Ministro della Guerra.

Da questa vicenda ampiamente conosciuta Robert Harris ha tratto un romanzo storico, il più possibile aderente allo svolgimento dei fatti, che vengono narrati proprio da Georges Picquart.

Se devo essere sincero avevo il non infondato timore, prima di leggere, di potermi trovare di fronte a una specie di polpettone, perché la storia è complessa, i personaggi sono numerosi e pressoché tutti veri e spesso di grande notorietà, come Georges Clemenceau ed Emile Zola, quello della famosa lettera pubblicata su L’aurore il 13 gennaio 1898 e rivolta al Presidente della Francia che comincia con “J’accuse”.

Invece è risultato un romanzo che, oltre a essere di notevole interesse, è di facile e appassionante lettura.

Harris ricrea nel migliore dei modi l’ottusità di un certo mondo militare disposto a tutto pur di non dover ammettere l’errore, l’ignoranza diffusa di un popolo che prova ancora la cocente delusione per la sconfitta subita dai tedeschi nel 1870 e che trova, nella sua incapacità di darsi pace, i capri espiatori più facili, gli ebrei. Così il tradimento di cui è incolpato Dreyfuss ha il suo peso nell’ossessione del nazionalismo, ma lo è ancor di più perché ebreo, e ovviamente è visto male e allo stesso modo chi, cercando la verità, difende un uomo, che ha il difetto di essere ebreo.

Il libro è semplicemente stupendo, si inizia a leggere e non ci si fermerebbe mai, nonostante le sue 448 pagine. A titolo di notizia, nel 2019 è uscito nelle sale cinematografiche un film tratto dal romanzo, diretto da Roman Polanski; la pellicola ha avuto grande successo e fra i numerosi riconoscimenti si è anche aggiudicato Il Gran premio della giuria alla 76a Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia.

Non credo sia necessario aggiungere altro.

Robert Harris (Nottingham, 7 marzo 1957), laureato alla Cambridge University, è stato giornalista alla BBC, e uno dei più noti commentatori dell'"Observer" e del "Sunday Times".

È diventato famoso in tutto il mondo nel 1992 con Fatherland, il cui successo lo ha inserito a pieno titolo nel ristretto gruppo di autori che hanno ridefinito e ampliato i confini del thriller. Successo confermato da Enigma (1996), Archangel (1998), Pompei (2003), Imperium (2006), Il ghostwriter (2007), da cui è stato tratto un film diretto da Roman Polanski, Conspirata (2010), L'indice della paura (2011), L'ufficiale e la spia (2014), Conclave (2016), Monaco (2018), Il sonno del mattino (2019). Prima di dedicarsi interamente alla narrativa ha scritto numerosi saggi, fra cui una celebre inchiesta sui falsi diari del Führer, I diari di Hitler (2002). Tutte le sue opere sono edite in Italia da Mondadori.

Renzo Montagnoli

 

 

 

18 Novembre

Poesie scritte all’aria aperta

di  Emilio Paolo Taormina

Giuliano Ladolfi  Editore

Poesia

Pagg. 134

ISBN 9788866446965

Prezzo Euro 12,00

 

 

Tanta serenità

A me piace un po’ tutta la poesia, ma devo ammettere che quella che parla d’amore, anche quando è struggente come nel caso di un sentimento non corrisposto, mi offre una pace interiore ben difficilmente riscontrabile nel caso di altri argomenti trattati. Ed è per questo motivo che quando mi è stata prospettata la possibilità di leggere l’ultima silloge pubblicata e scritta da Emilio Paolo Taormina, autore da me sconosciuto come reputo tanti altri meritevoli di attenzione, saputo che si parlava anche d’amore mi sono ritagliato gli spazi di tempo necessari per poter leggere.

Dico subito che il poeta siciliano è di vecchia scuola, non nel senso negativo, ma per evidenziare che per lui – e in questo sono più che d’accordo – non c’è la ricerca di una moda tanto moderna che porta a scrivere composizioni sovente incomprensibili e soprattutto prive della indispensabile armonia.

In Taormina c’è un certo ritorno al classicismo che troviamo nei versi di autori di fine ‘800, ma senza arrivare a metriche rigide, a rime varie, le sue poesie sono in grado di presentare una struttura armonica che è l’elemento necessario per poter suscitare l’interesse del lettore; poi vanno ovviamente aggiunti anche i contenuti, altrimenti sarebbero composizioni fini a se stesse, ricami pur apprezzabili, ma che poco o niente lasciano dentro. Per quanto riguarda la sostanza qualcuno, impropriamente, potrebbe parlare di romanticismo e invece qui si tratta di felici scelte, di metafore indovinate, di un insieme di elementi che rendono assai piacevole e costruttiva la lettura ( dal muro che recinge / l’aranceto / pende un frutto / grande come un sole / così alto / che nessuno può / raccogliere  / forse non esiste / è il tuo sorriso). Non bastasse il tema a me caro dell’amore c’è l’altro, per nulla inferiore come gradimento, della natura, una natura che l’autore riesce a pennellare, come se invece di un foglio di carta avesse davanti una tela, così che non è un’iperbole dire che dipinge scrivendo (mi soffoca il blu del mare / sento affievolirsi il respiro /nei battiti del polso / mi avvelena la cicuta del tramonto / vorrei appendere alla luna / una ghirlanda di alloro / la tunica bagnata del sangue / di cesare / assassinare marzo con trenta / pugnalate / l’ulivo non conosce la sua ombra / balbetta nel vento / catturo il verso prendendolo / per la coda come un fulmine).

La mente spazia spinta dai palpiti del cuore e agli occhi riporta le sensazioni, le emozioni che solo la natura e anche l’amore possono dare.

C’è un’anima di ragazzino in questo autore, c’è un entusiasmo giovanile che stupisce considerando che Taormina è per data di nascita un uomo più che maturo, uno di quelli – e vale anche nel mio caso – che qualcuno, non so se per ironia o per rispetto, ama definire diversamente giovani.

Credo però che l’età quando si provano ancora certi sentimenti, quando ci si strugge per un panorama che incanta o si gioisce per la persona che si ama abbia poco o nulla a che fare con l’anagrafe; quando c’è ancora un intenso piacere di vivere quale emerge dai versi (rammendo e rattoppo il cuore / come la giacca che ha consumato / i gomiti sui banchi del liceo / penetro le mani nella sabbia / della spiaggia le svuoto lentamente / come una clessidra / il nome di una ragazza senza volto / lei non ha mai saputo che l’ho amata / le ho parlato su uno specchio), gli anni non contano, nemmeno si avvertono in un’esistenza vissuta pienamente.

Queste poesie sono cibo per la mente e per l’anima e infondono una serenità che è un toccasana (una stella naufragata / s’è addormentata sulla spiaggia sui comignoli / e le banderuole / vagiscono i sogni / la brezza pigola / in un nido di barche / la luna come / un vecchio pescatore / fuma la pipa in cima / all’eucalipto / l’amore e la poesia / sollevano gli uomini / senza saperlo / come una piuma), hanno un positivo effetto universale, perché è proprio vero che l’amore e la poesia permettono agli uomini di volare, di sentirsi leggeri, di staccarsi dalla materialità a cui ci condanna un naturale fondo di egoismo.

Mi piacerebbe scrivere ancora e gli argomenti non mi mancherebbero, ma che altro potrei aggiungere su un libro che parla da sé, a cui il lettore si affeziona e rasserenato la sera lo posa sul comodino, spegne la luce e può beatamente sognare in rosa?

Emilio Paolo Taormina è nato a Palermo nel 1938.

Sue opere sono state tradotte in albanese, armeno, croato, francese, inglese, portoghese, russo, greco, tedesco, spagnolo, ebraico.

Ha pubblicato molti libri di poesia e sei romanzi, tra cui Archipiélago, ed. Plaza & Janés, con testo a fronte spagnolo di Carlos Vitale. Barcellona 2002, La stanza sul canale, Palermo 2005, Lo sposalizio del tempo, edizioni del foglio clandestino, Sesto San Giovanni, 2011, Le regole della rosa, edizioni del foglio clandestino, Sesto San Giovanni, 2014, La cengia del corvo, edizioni del foglio

clandestino, 2016 e con testo a fronte spagnolo di Carlos Vitale, ed. peccata minuta, Barcellona 2016 e con testo a fronte in armeno di Hiacob Symonian, Erevan, 2016, Cronache da una stanza, ed. l’arciere del dissenso, 2017, Palermo, Gelsi neri, ed. la linea dell’equatore,2018, Parnassius apollo, ed. l’arciere del dissenso, 2018, Il giardino dell’elleboro, ed. la linea dell’equatore di Fabrizio Orlandi, 2019, nel 2020 Il sorriso del tulipano e nel 2021 Ore piccole (ambedue con Giuliano Ladolfi). Dopo Il fonografo a colori del 1970 ed. Siculiana, Palermo, ha pubblicato molti quaderni e libri con il logo l’arciere del dissenso e la Forum quinta generazione di Giampaolo Piccari. Da cinquanta anni non partecipa a premi letterari. In prosa ha pubblicato: Elvira des Palmes, Palermo 1991 (ristampa Giuliano Ladolfi, 2022), La pioggia di agosto, Marina di Patti, 1993, Il giusto peso dell’anima, Palermo, 1999, Inchiostro, Sesto San Giovanni. 2011, Passeggiata notturna, ed. l’arciere del dissenso.
emiliopaolo@taormina-bendrien.it

Renzo Montagnoli

 

 

 

12 Novembre

Le ultime lune

Quando la felicità è nel passato

di Furio Bordon

Marsilio Editori

Narrativa

Pagg. 80

ISBN 9788831776387

Prezzo Euro 10,33

La felicità è tutta nel passato

 Le ultime lune è una pièce teatrale in due atti scritta da Furio Bordon nel 1992 quando era direttore artistico del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia e che debuttò nel 1994 il 10 novembre al Teatro Carlo Goldoni di Venezia per la regia di Giulio Bosetti  e l’interpretazione di Marcello Mastroianni (il padre), di Erika Blanc (la madre) e di Giorgio Locuratolo (il figlio). Fu un immediato successo, tanto che il dramma è stato tradotto in venti lingue e rappresentato in trenta paesi.

Perché questo straordinario esito favorevole, che cosa ha indotto migliaia di spettatori ad accorrere per vedere questa pièce?

Si tratta dell’argomento trattato, di quella vecchiaia che è propria di tutti gli esseri umani, e che Furio Bordon ha saputo fare oggetto di una particolare riflessione, da cui scaturiscono i drammi, piccoli e grandi, e anche le dolcezze di questa ultima età. Nella vicenda dell’anziano che è per l’ultima volta nella sua camera, solo e  in attesa del ritorno dal lavoro del figlio che lo condurrà poi a una casa di riposo, si specchia ineluttabile un destino di tanti a una certa età e proprio a una certa età, non potendo vivere in funzione del futuro, si vive del passato; è così che l’uomo inganna il tempo che gli manca per la partenza conversando con la moglie morta da molto tempo, un colloquio struggente  che ripercorre tutta una vita e che gli fa dire “ La felicità è tutta nel passato.” Poi, arriva il figlio e ii discorso diventa fra vivi, con qualche bisticcio anche, e ancora con gli interventi della moglie, che è quella parte dell’anima del vecchio che lo rende ritroso a lasciare la casa, consapevole che la prossima dimora sarà quella in cui finirà con il morire. E’ molto bello anche il tentativo, blando, del figlio di trattenerlo, blando perché comprende le ragioni del padre, ma è anche vero che non si sente di avere fra quelle quattro mura un morituro, a parte l’egoismo di avere a disposizione una camera in più per i figli. Finisce il primo atto e si arriva al secondo, con l’anziano che ormai ospitato a Villa Delizia si è ritagliato un angolo di indipendenza in una soffitta dove coltiva una pianta di basilico, quasi a voler affermare il desiderio di veder crescere una vita fra tante che lentamente si spengono. E lì, nell’attesa di oltrepassare l’ultima porta, accomunati tutti dallo stesso destino come i soldati in una trincea, lui, in un ultimo sussulto, decide di non lasciarsi andare, di non anticipare la sua dipartita, riscopre la sacralità della vita che merita di essere vissuta fino all’ultimo, con l’unico desiderio di scegliere il tempo per la sua morte. Gli piacerebbe tanto a Natale, con il grande albero illuminato, in mezzo alla piazza, mentre la neve cade lenta.

Sì, la felicità è nel passato, ha proprio ragione Furio Bordon.

Da leggere, è un capolavoro.

Furio Bordon è nato e vive a Trieste. A ventisei anni lascia la professione di avvocato per dedicarsi alla scrittura e alla regia teatrale. Ha diretto il Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, il Teatro Romano di Trieste, il Mittelfest Prosa di Cividale.
Il suo maggior successo, Le ultime lune, è stato tradotto e allestito all’estero in venti lingue.

Renzo Montagnoli

 

 

7 Novembre

Enigma

di Robert Harris

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa

Pagg. 383

ISBN 9788804393641

Prezzo Euro 13,00

  

Un romanzo stupendo

Ultimato di leggere questo libro mi sono accorto che la tensione che mi aveva trasmesso era ancora palpitante, una sensazione che raramente mi era accaduta con altri romanzi del genere. Se per circa tre quarti si è presi dalle difficoltà che incontrano i decifratori inglesi per leggere in chiaro i messaggi tedeschi, un lavoro più da scrivania che da agenti segreti quali noi conosciamo, la parte finale ha un’accelerazione notevolissima e l’azione prende il sopravvento. La trama è veramente ben congegnata e come al solito parte da alcune verità, come appunto la macchina Enigma, un dispositivo elettromeccanico per cifrare e decifrare i messaggi, utilizzato dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Nonostante fosse stata più volte modificata e potenziata, un folto gruppo di esperti riuscì a violarla e furono proprio gli inglesi, guidati dal grande matematico Alan Turing, a ideare il sistema Ultra di decodificazione, grazie anche al fatto di aver potuto  mettere le mani nella primavera del 1941 su un apparato Enigma intatto e sui documenti di cifratura, reperiti nell’interno di un sommergibile tedesco catturato dopo un attacco dello stesso a un convoglio alleato. 

La possibilità di conoscere in chiaro i messaggi cifrati del nemico fu di fondamentale importanza per gli esiti della guerra, al punto che gli inglesi misero a punto un complesso sistema di intercettazione e decifrazione; il romanzo parla soprattutto di quest’ultima attività, con un genio della matematica Tom Jericho che viene richiamato urgentemente in servizio prima del tempo da un periodo di riposo della mente sovraffaticata dalla complessità dei calcoli. E’ con questo rientro a  Bletchley Park, nota anche come stazione X, luogo a 75 Km. da Londra e principale sito di crittoanalisi del Regno Unito, che prende avvio una vicenda intricata, ma ad alta e crescente tensione.

L’ambientazione è resa in modo estremamente realistico e anche la descrizione dei protagonisti è di elevato livello, come la fine analisi psicologica.

Il bello però del romanzo è che quando si crede di aver capito tutto ci si accorge che ci sono ancora dei punti oscuri che necessitano di essere chiariti e l’autore lo fa immediatamente, seguendo un percorso di ineccepibile logicità. Da Enigma è stato tratto, come nel caso di altre opere di Robert Harris, un film, uscito nelle sale nel 2001, diretto da Michael Apted e interpretato da Dougray Scott e Kate Winslet, che riscosse, come il libro, un grande successo.

Da leggere, è un capolavoro nel genere delle spy story.

Robert Harris (Nottingham, 7 marzo 1957), laureato alla Cambridge University, è stato giornalista alla BBC, e uno dei più noti commentatori dell'"Observer" e del "Sunday Times".

È diventato famoso in tutto il mondo nel 1992 con Fatherland, il cui successo lo ha inserito a pieno titolo nel ristretto gruppo di autori che hanno ridefinito e ampliato i confini del thriller. Successo confermato da Enigma (1996), Archangel (1998), Pompei (2003), Imperium (2006), Il ghostwriter (2007), da cui è stato tratto un film diretto da Roman Polanski, Conspirata (2010), L'indice della paura (2011), L'ufficiale e la spia (2014), Conclave (2016), Monaco (2018), Il sonno del mattino (2019). Prima di dedicarsi interamente alla narrativa ha scritto numerosi saggi, fra cui una celebre inchiesta sui falsi diari del Führer, I diari di Hitler (2002). Tutte le sue opere sono edite in Italia da Mondadori.

Renzo Montagnoli

 

 

 

2 Novembre

Il Piccolo Principe 

di Antoine de Saint-Exupéry

Giunti Editore

Narrativa

Pagg. 128

ISBN 9788809795839

Prezzo Euro 7,50

 

Il bambino che è in noi

Ci si può chiedere che senso abbia leggere oggi, o meglio rileggere, una favola a cui mi sono avvicinato, se la memoria non m’inganna, che avrò avuto all’incirca undici-dodici anni anni, e quindi più di una sessantina di anni fa. I motivi possono essere i più vari, quali ritrovare un sogno di giovinezza, ma credo soprattutto che si sia trattato di verificare se quest’opera - che non avevo disprezzato, ma che neppure mi aveva entusiasmato - alla luce di un’abbondante maturità potesse confermare il lontano giudizio, oppure se dovesse esserci una variazione, in positivo o in negativo, dello stesso.

In questa rilettura pesa non poco l’esperienza maturata, il disincanto che è proprio dei vecchi, la difficoltà di vedere con gli occhi di un bambino. Eppure, non posso nascondere che la favoletta ha un suo fascino, rammentando che nella vita sono importanti valori come l’amicizia, l’amore, l’altruismo, senza dimenticare che in noi c’è un bene inestimabile, quell’innocenza propria dei bambini che dobbiamo cercare di conservare nonostante il trascorrere del tempo, le gioie e soprattutto i dolori che accompagneranno la nostra esistenza. In questo senso Il piccolo principe, più che una favola, è un sogno a occhi aperti fatto da un uomo maturo negli anni, ma fanciullo nell’animo, un uomo che ha trovato nel volo quella libertà che ha sempre cercato e che gli ha consentito quella saggezza che è propria di quell’omino, il piccolo principe, giunto sulla terra, guarda caso, dal cielo, su un asteroide. Chi viene da lontano, chi non è inserito in un sistema, può vedere meglio le storture dello stesso ed è quello che fa questo essere spaziale, con una lezione di civiltà di rara efficacia. E’ il mondo degli adulti oggetto delle critiche, adulti che hanno persa la purezza dei bambini, ed ecco allora l’importanza di conservare dentro di sé  l’innocenza primitiva.

Certo è che viene spontaneo il raffronto con Il fanciullino di Giovanni Pascoli, perché entrambi gli autori, in epoche certamente diverse, hanno saputo cogliere il segreto per un mondo migliore, un mondo in cui ci si possa ancora stupire delle piccole cose, dove l’affetto non deve avere interessi e in cui sia possibile ritrovare noi stessi quali eravamo prima dell’età adulta, spesso immemori dei sogni e dei desideri di quando eravamo bambini.

In pratica con Il piccolo principe Antoine de Saint-Exupery ci insegna che dobbiamo vedere con il cuore, perché quello che conta, l’essenziale, è invisibile ai nostri occhi.

E’ una grande messaggio, scritto da un uomo che con il tempo è diventato un mito e come tutti i miti è pure immortale, perché nulla si sa della sua fine, del perché non sia ritornato durante la guerra da una missione, ma soprattutto perché immortale è il messaggio che ci ha lasciato con Il Piccolo Principe.

Se avevo delle riserve quando espressi il mio giudizio una sessantina di anni fa, queste sono sciolte e il risultato è che mi ha talmente soddisfatto da raccomandarne la lettura ai bambini, ma anche ai grandi, perché, cercando dentro di noi,  è sempre possibile trovare almeno una traccia di quel bimbo che eravamo.

Antoine de Saint Exupéry, scrittore francese (n. Lione 1900 - m. nel Mar Tirreno 1944). Traspose nei suoi scritti la propria esperienza di pilota militare e civile, sublimandola in una meditazione sulla vita che si configurò come un'etica eroica fondata sull'ascesi e sul sentimento dell'onore e della fraternità. Il suo nome è legato soprattutto alla favola allegorica Le petit prince (1943; trad. it. 1949): giunto sulla Terra da un pianeta lontano, il piccolo principe - immagine metaforica del fanciullo che sopravvive nell'uomo - soccorre l'aviatore e ne è a sua volta soccorso, condividendo con lui le stesse esperienze.

Di famiglia aristocratica e cattolica, attratto dal volo fin dall'età di 12 anni, fu pilota militare durante il primo dopoguerra, quindi pilota civile di grandi linee e protagonista di varî raid. Mobilitato allo scoppio della seconda guerra mondiale, dopo l'occupazione della Francia si trasferì a New York, e negli anni 1943-44 compì varie missioni belliche: il 31 luglio 1944 decollò dalla Corsica, ma non fece più ritorno.

OPERE

Esordì con le novelle di L'aviateur (1925), ma si affermò come romanziere con Courrier sud (1928; trad. it. 1959), ambientato in Africa. Tra le sue altre opere si segnalano Vol de nuit (1931; trad. it. 1959), vero e proprio dramma della responsabilità ispirato alla sua esperienza in America del Sud; Terres des hommes (1939; trad. it. 1942), sorta di saggio autobiografico intriso di misticismo, scritto dopo un raid New York-Terra del Fuoco; Pilote de guerre (1952; trad. it. 1959) e Lettres à un otage (1943; trad. it. in Pilota di guerra, 1959), ispirati all'attualità politica; la delicata favola allegorica Le petit prince (1943; trad. it. 1949). Postumi apparvero Citadelle (1948; trad. it. 1978); Carnets (1953; trad. it. in Pilota di guerra, 1959); Lettres de jeunesse à l'amie inventée (1953); Lettres à sa mère (1955); Un sens à la vie (1956; trad. it. 1967); Écrits de guerre (1982). Nel 2007 è stato edito in Francia il volume Manon, danseuse et autres textes inedits (trad. it. 2008), in cui sono raccolti novelle, lettere e frammenti scritti da S.-E. tra il 1925 e il 1943.

(da Enciclopedia Treccani)

Renzo Montagnoli

 

 

 

24 Ottobre

Il soldato perduto

di Gilles Marchand

Neri Pozza Editore

Narrativa

Pagg. 224

ISBN 9788854526808

Prezzo Euro 17,00

 

Amore e guerra

Sulla tragedia della guerra e con intenti pacifisti sono stati scritti due libri, giustamente diventati famosi, Niente di nuovo sul fronte occidentale, di Erich Maria Remarque, e Un anno sull’altipiano, di Emilio Lussu; inoltre ci sono state altre pubblicazioni, valide, ma di minor fortuna, e fra queste ho avuto occasione di leggere circa quattro anni fa quel gioiellino di Ballata senza nome, di Massimo Bubola, noto autore di musica leggera prestato occasionalmente alla letteratura. 

E’ invece di questi giorni la mia lettura di Il soldato perduto, di Gilles Marchand, un francese che ha un trascorso di batterista in un gruppo rock. Ebbene, sono rimasto notevolmente impressionato da questo romanzo di amore e di guerra, in cui la retorica è bandita sin dall’inizio, anzi potrei dire che trionfa l’anti retorica con descrizioni che sanno essere asciutte e drammatiche quando serve e che assumono una nota poetica quando è indispensabile.

In breve è la storia della ricerca di un soldato di cui non si sa più nulla, su incarico della madre aristocratica e danarosa, ricerca condotta da un reduce della Grande Guerra nel corso della quale ha avuto la mutilazione della mano sinistra. Nonostante questa disgrazia, anche per non pensarci, non aveva rinunciato a combattere, ma, stante l’invalidità, grazie a una protesi posticcia, era stato messo a condurre degli autocarri lungo la Via Sacra che portava a Verdun. Finita la guerra è tornato a casa e ha potuto riabbracciare l’amata che tuttavia in poco tempo è stata stroncata dalla febbre spagnola. Solo, convinto anche di non aver fatto del tutto il suo dovere, arrotonda la pensione con incarichi di familiari che vogliono sapere dove si trova il loro caro, dato per disperso. E’ appunto questo il caso di Emile Joplain, un ragazzo sensibile e poeta, innamorato di una cameriera che serviva in famiglia, amore contraccambiato, ma irriducibilmente osteggiato dalla madre di lui. La ragazza, cacciata dal servizio, ritorna casa, in Alsazia, ma scoppia la Grande Guerra.  Il mutilato si appassiona a questa indagine e cerca di ricostruire i passi dei due amanti, che, benché divisi, si cercano. E’ un’indagine che apre squarci sugli orrori della guerra, sull’insensatezza degli uomini, sulle miserie di tanti poveri cristi e viene così a sapere di una donna che di notte vaga nella terra di nessuno, fra le opposte trincee, e si ferma di fronte ai feriti chiedendo loro se sanno dove si trovi il suo amato. Sembra una favola, tanto che non sapendo il nome della donna viene chiamata la Figlia della Luna. Ma quella che sembra una leggenda non lo è, è un grande, infinito atto d’amore.

Non vado oltre perché l’indagine ha la tensione del giallo e poi ovviamente si arriva alla soluzione, che non è proprio quella che il lettore spera.

E’ inutile che dica che questo romanzo ingenera un grande pathos, è un’emozione continua e crescente, è un’attesa fatta di speranze e di delusioni, è il piacere, in una tragedia, di leggere dei versi sublimi, così che si arriva alla fine più che mai convinti dell’inutilità delle guerre, riassunta peraltro in una frase del libro che riporto e che dice tutto, riguardo a dei prigionieri tedeschi:

“ Se avessimo saputo che un crucco non era altro che un francese che parla tedesco avremmo fatto fatica a continuare a sparargli addosso.”.

Leggetelo, non ve ne pentirete, e credo proprio che non pochi  in qualche loro sogno vedranno  la Figlia della Luna aggirarsi di notte su un campo di battaglia.

Gilles Marchand è nato a Bordeaux nel 1976. Dopo essere stato batterista in un gruppo rock, dal 2010 si è dedicato esclusivamente alla scrittura. Il soldato perduto è il suo quarto romanzo e nel 2023 è stato selezionato per il Prix des Libraires, il Prix littéraire Rosine Perrier, il Prix Libr’à Nous ed è finalista al Prix Libraire en Seine.

Renzo Montagnoli

 

 

18 Ottobre

Come un atomo sulla bilancia.

Storia di tre anni di fabbrica

di Luisito Bianchi

Sironi Editore

Narrativa

Pagg. 282

ISBN 9788851800574

Prezzo Euro 14,50

 

Fra gli operai
La vita di Luisito Bianchi è stata sempre quella di un essere coerente con la propria fede, in cui il concetto evangelico della gratuità è irrinunciabile. Ma Luisito, come sacerdote e come uomo, aveva necessità di lavorare per vivere, pur accontentandosi di molto poco e così lui che aveva rinunciato allo stipendio statale di insegnante di religione in una scuola si mise a lavorare; fece il benzinaio, fece l’inserviente all’Ospedale Galeazzi, occupazione che dovette lasciare per assistere la madre ammalata, e trovò anche un lavoro come operaio. In quest’ultima veste il 5 febbraio 1968 varcò i cancelli della Montecatini di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, come operaio turnista incaricato della lavorazione dell’ossido di titanio.   Non a caso scelse la fabbrica, lo fece per comprendere sul campo i problemi del lavoro e per poter evangelizzare gli operai. Da questa esperienza durata circa un triennio è uscito questo libro, del tutto particolare perché a tratti può sembrare un romanzo, e altre volte invece sembrerebbe un diario o addirittura una raccolta di notizie di cronaca. Quel che è certo è che di quel periodo, delle impressioni avute, degli accadimenti che ci sono stati Luisito ha scritto, alcune volte anche ripetendosi, magari in forma diversa, ma quelle sensazioni, quell’insegnamento che ne ha ritratto costituisce un unicum nei libri sul mondo del lavoro.

In particolare vede con chiarezza la posizione subordinata dell’operaio, per così dire una figura che per la sua debolezza intrinseca rispetto al capitale è lo schiavo dei tempi moderni. Le sue osservazioni rivelano acutezza soprattutto quando rileva il ruolo dei sindacati, sempre più propensi ad accordi che non incidono sul ruolo subalterno dei propri rappresentati.

La grandezza del sacerdote e dell’uomo è nel portare avanti il discorso di una Chiesa che sia veramente casa di tutti gli uomini, soprattutto di quelli più deboli, ribadendo il concetto espresso nel Vangelo della gratuità, e quindi di una Istituzione priva di tesori e di potere, a differenza di quella che è sempre stata.

Sarebbe così  una casa comune senza prevaricazioni dove si dà gratuitamente ciò che Dio gratuitamente ha dato. E’ un concetto bellissimo, ma di dubbia realizzazione, conoscendo bene, oltre alle caratteristiche degli ecclesiastici di palazzo, quelle di tutti gli uomini, ivi compresi gli operai.

Luisito a questa regola della gratuità si è attenuto tutta la vita, è stato certamente uno dei pochi e forse proprio per questo sarebbe meritevole di un riconoscimento tardivo, una beatificazione che però, credo, non gli sarebbe gradita, perché direbbe che ha fatto solo il suo dovere di autentico cristiano.

Da leggere, come tutte le opere di Luisito Bianchi.

Luisito Bianchi (Vescovato, 23 maggio 1927 – Melegnano, 5 gennaio 2012) Sacerdote dal 1950, è stato insegnante e traduttore ma anche operaio, benzinaio e inserviente d'ospedale,cappellano presso il monastero di Viboldone (Milano). Ha pubblicato fra l’altro: Salariati (1968), Gratuità tra cronaca e storia (1982), Dittico vescovatino (2001), Simon mago (2002), Dialogo sulla gratuità (2004) e Monologo partigiano (2004). Con Sironi ha pubblicato Come un atomo sulla bilancia (2005),   I miei amici. Diarii (2008) e La messa dell'uomo disarmato (2002), il suo grande romanzo sulla Resistenza, elogiato da critica e pubblico.
Hanno detto di lui: «Un punto di riferimento per chi ama la letteratura, per i critici e per i lettori che hanno trovato nei libri di questo autore un seme di verità, una parola vera e necessaria» (Avvenire); «Un autore di densissimo spessore umano e spirituale» (La Stampa); «Don Luisito Bianchi è sempre stato ed è un prete "scomodo", di quelli pronti a mettersi in gioco» (L'Unità).

Renzo Montagnoli

 

 

12 Ottobre

I confini dell'acqua - Fotopoesie
di Valentino Vitali, Carmen Lama (Autore)
Youcanprint - Pagg. 134 - ISBN 9791221436594 - Euro 20,00

Il libro I confini dell'acqua di Valentino Vitali e Carmen Lama è una "dichiarata opera di fotopoesia, simbiosi di luce e parole, di immagini visive e verbali, intreccio originale di immediatezza visiva e condensazione semantica. Se è vero che nella fotografia come nella poesia il significato non è mai fissato definitivamente e, soprattutto, non è contenuto esclusivamente all'interno dell'opera ma dipende invece (anche) da un fruitore che – ne abbia coscienza o no – lo costruisce e ricostruisce in base a un numero inafferrabile di fattori, tra i quali la propria sensibilità, la cultura, il contesto, lo stato d'animo, etc., nella fotopoesia la natura dell'interazione tra foto e testo poetico dilata ulteriormente il potenziale semantico dell'immagine. [...]
Qui, in particolare, la poesia di Carmen Lama (che, per inciso, richiama alla mente la "cornice" fotografica) non è mai ancillare didascalia dell'immagine che, al contrario, illumina mentre se ne lascia illuminare.

D’un istante perfetto
Non lumi di memoria né ricordi
ma solo la bellezza dell’istante
che non si perderà
incastonato com’è fra cielo e lago

mentre vagano gli occhi alla ricerca
dello sguardo poetico che ha colto
lo stupore il silenzio l’abbandono


Anche se il lemma non compare nei vocabolari (e non soltanto in quelli italiani), il termine fotopoesia e le sue molteplici varianti – tra tante: fotopoema, fotopoetry, fotoverso, fotograffiti, – vengono ormai da lungo tempo impiegati per designare una forma d'arte in cui poesia e fotografia, poste su un piano di pari dignità, si intrecciano simbioticamente per dar vita a un prodotto artistico nuovo, originale, complesso e unitario al tempo stesso.

La prima attestazione dell’uso della parola si fa risalire al 1936, e per quanto l’accostamento tra immagini e versi sia già ampiamente praticato, la sua presenza nel titolo di una raccolta (Photopoems: A Group of Interpretations through Photographs di Constance Phillips) offre al termine una indiscutibile legittimazione.

Sin dalle esperienze pionieristiche delle avanguardie novecentesche, poi riprese con interesse crescente dalla fine degli anni ’50, si osserva come e quanto gli artisti subiscano il fascino dell’interlinguaggio, derivandone sempre nuove posture nei confronti della realtà e raffinando strumenti per operare feconde intersezioni tra le arti. È indubbio che la pratica fertile delle contaminazioni tra discipline artistiche abbia contribuito a sfumarne i contorni, lasciando emergere aspetti di sorprendente continuità al di là degli steccati categoriali.

In generale, gli studi che nel corso del Novecento affrontano le questioni messe in campo da questo genere di fenomeni artistici, anche muovendo da vertici e prospettive diverse, pongono comunque l’accento sull’importanza di non limitarsi a pensare alla ‘con-fusione’ delle arti come a mere sovrapposizioni o giustapposizioni, come esito di una semplice sommatoria, ma di coglierne la costituiva natura di eventi dotati di nuova e diversa dinamicità, interattività, imprevedibilità, ed esortando a pensarle come vere e proprie simultaneità produttive, secondo l’espressione che Adriano Spatola utilizza nel suo celebre saggio Verso la poesia totale (1969).

Non difformemente, del resto, pur non muovendo da interessi estetici quanto piuttosto di ordine conoscitivo, nel campo degli studi sperimentali sulla percezione la Psicologia della Gestalt perveniva già a inizio secolo a conclusioni analoghe, quando affermava che il tutto è più della somma delle parti, sancendo definitivamente un principio che avrebbe mostrato la propria forza investendo ogni ambito culturale e ponendosi come premessa a ogni discorso sulla complessità.

Ed è proprio avendo bene in mente tale stimolante complessità che si offriranno giusto ascolto e aperto sguardo al libro di Valentino Vitali e Carmen Lama, dichiarata e ottimamente compiuta opera di fotopoesia, affascinante simbiosi di luce e parole, di immagini visive e verbali, intreccio originale di immediatezza visiva e condensazione semantica.

Se è vero che nella fotografia come nella poesia il significato non è mai fissato definitivamente e, soprattutto, non è contenuto esclusivamente all’interno dell’opera ma dipende invece (anche) da un fruitore che – ne abbia coscienza o no – lo costruisce e ricostruisce in base a un numero inafferrabile di fattori, tra i quali la propria sensibilità, la cultura, il contesto, lo stato d’animo, etc., nella fotopoesia la natura dell’interazione tra foto e testo poetico dilata ulteriormente il potenziale semantico dell’immagine e quella silenziosa pensosità di cui parla Byung-Chul Han ne La salvezza del bello (2019), ne rivela il nascondiglio, dispiega senza spiegare, e, contemporaneamente, offre enfasi all’istantaneità del testo poetico e alla sua densità.

Esattamente come raccomandato nel «Manifesto di fotopoesia», esito delle interessanti collaborazioni tra Robert Crawford e Norman McBeath, rispettivamente poeta e fotografo britannici, così come le fotografie non dovranno porsi quali illustrazioni dei testi poetici ma opere d’arte che risuonano insieme a essi, le poesie siano ben lungi dall’essere mere descrizioni delle immagini.

Qui, in particolare, la poesia di Carmen Lama, dettato trasparente, eleganza formale ricercata e raggiunta dentro forme chiuse che rivelano un orecchio affinato da letture vaste e lungamente meditate (e che, per inciso, richiamano alla mente la “cornice” fotografica) non è mai ancillare didascalia dell’immagine che, al contrario, con assertiva pacatezza, illumina mentre se ne lascia illuminare.

I temi rappresentati – l’inesausta aspirazione alla bellezza, la cattura dell’istante, l’umanissima tenzone con il tempo, il suo inarrestabile fluire, e, su tutto, il paesaggio, segnatamente quello lacustre, un paesaggio che, zanzottianamente, è anche «orizzonte psichico» – emergono nell’armonico rincorrersi di versi e luce, insieme agli interrogativi fondamentali sulla percezione visiva, sullo scarto irriducibile tra visione e sguardo, tra realtà e immagine. La poesia talora riflette su sé stessa, sul privilegio della meraviglia, sulla propria responsabilità; si arrovella sul rapporto tra parola e cosa: «Scrivo “pozzanghera”/e già si muove un riflesso di luce/nell’acqua fangosa che forma la parola/che “è” la stessa parola». Nel farsi sempre più sfumato dei confini «fra soggetto e oggetto», tra sé e mondo – sono confini d’acqua, del resto, che, già a partire dal titolo della raccolta, ossimoricamente sfuggono alla presa – l’io lirico sembra maturare una nitida visione metapoetica: «La trasparenza della fotografia/è uno sguardo che si spinge lontano/(…)/talvolta con serendipità/scopre angoli nascosti/porta alla luce dei veri tesori», recita un testo particolarmente pregnante.

«Il rapporto tra poesia e fotografia è di rottura e serendipità, appropriazione e scambio, evocazione e metafora», scrive Michael Nott nel suo saggio Photopoetry, 1845 – 2015. A critical history (2016): quella di Lama è dunque una netta dichiarazione di poetica. Mentre i suoi versi e la fotografia evocativa di Vitali portano in scena, appropriandosene, la sensuale bellezza dei luoghi ritratti («sono questi i miei luoghi», scrive la poetessa), si occupano simultaneamente di ciò che è visibile e di quanto non lo è. Le parole che Antonio Prete dedica al saggio di Yves Bonnefoy, Poesia e fotografia (2014) lo spiegano con invidiabile chiarezza: «(…) nell’implacabile rivelazione del caso, della nuda materia, dell’assenza che la fotografia ha introdotto, ci può essere, grazie all’alleanza tra lo sguardo del poeta e lo sguardo del fotografo, una nuova presenza, un nuovo tempo. Un’immagine salvata. Il nulla non avrà trionfato».

Patrizia Sardisco

 

 

 

I carnefici del Duce

di Eric Gobetti

Laterza Editori

Storia

Pagg. 192

ISBN 9788858151396

Prezzo Euro 18,00

 

Anche noi fummo dei carnefici

E’ ancora in uso la vulgata degli “italiani brava gente”, riferita al comportamento dei nostri soldati nel corso della seconda guerra mondiale, ma si tratta di una formula auto assolutoria, benché ci siano stati effettivamente italiani dal comportamento umano. Purtroppo non sono stati pochi quelli che avrebbero meritato di finire davanti a un tribunale per essere giudicati per i gravi fatti compiuti, fatti raccapriccianti che nelle nostre colonie e nei Balcani hanno assunto le caratteristiche del genocidio. Quindi, come i famigerati tedeschi, ci sono stati anche i criminali italiani, che pur tuttavia non hanno pagato per le loro gravi colpe.

A parte il famoso processo di Norimberga, nel dopo guerra in Germania vi furono altri numerosi procedimenti giudiziari, conclusi con diverse condanne, ivi comprese le pene capitali, in buona parte eseguite (i tribunali della Repubblica Federale giudicarono 16.740 cittadini tedeschi, con 16 condanne a morte e 116 all’ergastolo). Lo stesso dicasi per il Giappone, dove sentenze con l’irrogazione della pena capitale sono state frequenti (i processi furono all’incirca diecimila con centinaia di condanne a morte).

Da noi invece, a parte i pochi processi che potremmo definire una farsa, poco è mancato che agli incriminati  fosse concessa una decorazione.

Le motivazioni risiedono soprattutto nel fatto che chi ebbe a giudicare era ancora legato all’ideologia fascista, o parte attiva della casta militare, insomma per farla breve tutti i nostri criminali di guerra scamparono alla giusta condanna, con il risultato che quando un popolo non fa i conti con il suo passato è irrimediabilmente condannato a ripetersi negli errori.

Per fortuna che gli storici hanno preso atto della menzogna insita in “Italiani brava gente” e hanno portato alla luce i tanti casi di criminalità bellica, come per esempio Filippo Focardi con “Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale”, edito da “Laterza”, Gianni Oliva con  “Si ammazza troppo poco. I crimini di guerra italiani 1940 – 43”, pubblicato da Mondadori e Angelo Del Boca con “Italiani brava gente? Un culto duro a morire”, edito da Neri Pozza.

Eric Gobetti con questo “I carnefici del Duce” vuole anche lui portare alla luce fatti e misfatti dei nostri militari, sia nelle colonie (Etiopia e Libia), sia nei Balcani, zona geografica dove la nostra presenza avrebbe dovuto essere pacificatrice e dove invece provocammo, ad arte, tensioni e scontri fra i vari gruppi etnici, armando gli uni contro gli altri, sloveni, croati, serbi, e montenegrini, senza ritrarre vantaggi da questo nostro comportamento.  

Il saggio di Gobetti va oltre la segnalazione di singoli eccidi, perché ricerca il livello di responsabilità, soprattutto, oltre alle colpe dei comandanti, quelle dei soldati, quasi sempre militari non di carriera. Che cosa spinse questi esecutori materiali a mettere in pratica l’ordine criminale, che motivazioni avevano? Le risposte sono diverse: il contesto di violenza in cui operarono e commisero gli eccidi, un’idea del tutto ignobile, per quanto inculcata, di una patria che cercava uno spazio vitale con l’aggressione sistematica, il razzismo verso i coloni arabi e gli slavi, visti come esseri inferiori, e anche altri, tutti peraltro riconducibili al martellante indottrinamento di un ventennio di fascismo. Del resto, non ci si può esimere dall’evidenziare che qualora un regime stimoli la parte peggiore di noi questa finisce con il mostrarsi, con una violenza quasi sempre ingiustificabile, se non nel desiderio dell’individuo di diventare carnefice per sentirsi quello che non è, e cioè forte e coraggioso.

Non si tratta purtroppo di casi isolati, ma di centinaia, se non addirittura di migliaia di questi carnefici che spesso provavano ebrezza nell’uccidere e che così si credevano eroi (basti pensare ai quasi ventimila abitanti di Addis Abeba, trucidati dopo l’attentato a Graziani, in quello che a tutti gli effetti fu un progrom, con una caccia indiscriminata agli etiopici, non solo dei soldati, ma anche dei privati cittadini italiani). Poi ci fu invece chi riuscì a conservare la propria umanità, ma ciò non toglie che i nostri comportamenti furono generalmente ben poco apprezzabili, come per le sistematiche razzie di cibarie e altro, che immiserì gli occupati, quando non accadde di peggio, come nel caso dei circa trecentomila greci morti di fame.

Di certo non possiamo assolvere tutto con un “Italiani brava gente”, se non vogliamo un giorno funesto ricadere nelle stesse colpe; gli anni sono passati, chi doveva essere giudicato è ormai scomparso, ma ciò non toglie che è giusto parlare di certi nostri comportamenti, affinché soprattutto i giovani sappiano che durante la guerra e le nostre occupazioni coloniali fummo tutt’altro che bravi.

Eric Gobetti (6 marzo 1973, Torino) è uno studioso di fascismo, Seconda guerra mondiale, Resistenza e storia della Jugoslavia nel Novecento. Autore di due documentari (Partizani e Sarajevo Rewind), esperto in divulgazione storica e politiche della memoria, ha collaborato più volte con il canale televisivo Rai Storia. Tra i suoi libri: Alleati del nemico. L'occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943) (Laterza, 2013); La Resistenza dimenticata. Partigiani italiani in Montenegro (1943-1945) (Salerno, 2018); E allora le foibe? (Laterza, 2021).

Renzo Montagnoli

 

 

 

7 Ottobre

Le sorelle Lacroix

di Georges Simenon

Edizioni Adelphi

Narrativa

Pagg. 171

ISBN 9788845936968

Prezzo Euro 18,00

Odio implacabile

Strana famiglia quella delle sorelle Lacroix: Matilde, sposata con un pittore vanesio che sta pressoché tutto il giorno rintanato nel suo atelier, con due figli, Jacques insofferente della vita monotona che caratterizza la casa, e Genevieve, una mistica che si è messa in testa di morire al compimento del diciottesimo anno; Leopoldine, coniugata con un tubercolotico che non c’è mai, perché sta sempre in Svizzera a curarsi, e la figlia Sophie, poco presente, quasi una figura di contorno. Ciò che caratterizza però queste persone è l’odio insanabile fra le due sorelle, che ha un origine ben precisa e che verrà svelata nel corso della narrazione (e non sarò di certo io a parlarne per non togliere ai lettori il piacere della scoperta). In realtà quella è una famiglia in cui l’odio è il motore per poter continuare a vivere, per consentire un permanente stato di tensione che è quasi una droga per le due sorelle. La vicenda è semplice nel complesso e c’è anche una tendenza a colorarla di giallo, senza che necessariamente vi sia un morto ammazzato.

Simenon, come sua caratteristica, fornisce un quadro di una famiglia borghese, in cui accanto all’odio è presente uno squallore che turba chi legge, anche perché la caratterizzazione dei personaggi e la fine analisi psicologica sono ai massimi livelli.

Le sorelle Lacroix sono delle figure, in negativo, difficilmente dimenticabili, un colpo da maestro del romanziere belga, verso le quali tuttavia mostra un atteggiamento di pietà, perché sono due esseri che per vivere hanno bisogno di odiarsi.

Da leggere, senza dubbio. 

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».

Renzo Montagnoli
 

 

 

2 Ottobre

Dialogo sulla gratuità

di Luisito Bianchi

Gribaudi Editore

Narrativa

Pagg. 160

ISBN 9788871527888

Prezzo Euro 10,00

Sono indispensabili più riletture

Luisito Bianchi, per parlare della gratuità, ha adottato un metodo del tutto particolare, che consente di non stancare il lettore e di venire incontro con le risposte alle sue possibili domande. Ha immaginato infatti una conversazione fra un credente e uno scettico, e non un ateo perché questo, chiuso nella sua convinzione, non avrebbe posto domande, a differenza di un dubbioso il quale ha necessità di trovare un’adeguata e convincente risposta a tutti suoi quesiti.

In una società come la nostra che del tutto inconsciamente - ormai sono più di due secoli che si comporta così – tende a cercare sotto l’aspetto sociale una contropartita a ciascuna sua prestazione, in pratica un costante do ut des, il discorso cristiano della gratuità, che dovrebbe essere alla base di ogni credente e ancor più di ogni sacerdote, può sembrare incomprensibile, per non essere definito addirittura totalmente utopistico.

Però, l’autentico cristiano, deve potersi distinguere per questo concetto basilare della gratuità e del resto il Vangelo in proposito non è soggetto a interpretazioni contrastanti, anzi è chiaro ed è la risposta a qualsiasi domanda: chi crede deve dare senza contropartita, senza chiedere qualcosa in cambio.

E’ evidente che il concetto si scontra con l’uso ormai radicato di trarre da qualsiasi propria prestazione il massimo vantaggio economico possibile. Ma perché deve essere gratuito il donare del cristiano? Perché in questo modo restituisce quanto Dio gli ha donato gratuitamente e questo dono della divinità trae origine dall’unico modo con cui può rapportarsi con gli uomini, dato che è impossibile, essendo solo l’amore, che faccia calcoli interessati. Pensate un attimo come sarebbe bello se ognuno di noi si donasse agli altri, i quali a loro volta si donerebbero a noi. Non ci sarebbero più proprietà, i confini sarebbero qualcosa di ignoto e non essendoci più beni da sottrarre alla disponibilità di altri non ci sarebbero più guerre. Purtroppo però l’esperienza insegna che il Vangelo non è mai stato applicato nella sua integralità se non da pochissimi e quindi la gratuità è quella che possiamo definire una chimera.

Nel libro Luisito Bianchi interpreta tre parti: quella del credente, quella dello scettico, nonché quella dell’euchairista, il cui compito è di sintetizzare gli aspetti positivi dei due dialoganti. Ne scaturisce un libro indubbiamente non facile, perché da un lato c’è una nostra inconsapevole ritrosia ad accettare la gratuità e dall’altro c’è un verbo religioso che sovente esula dalla materialità delle nostre convinzioni, e di ciò l’autore è consapevole definendo le sue inevitabili riflessioni come fumose, ma anche aggiungendo che ciò che non è facile e che impegna particolarmente necessita inevitabilmente che vi si torni su più volte, senza lasciarci scoraggiare dal primo approccio.

Da leggere, seguendo anche i consigli di Luisito Bianchi.

Luisito Bianchi (Vescovato, 23 maggio 1927 – Melegnano, 5 gennaio 2012) Sacerdote dal 1950, è stato insegnante e traduttore ma anche operaio, benzinaio e inserviente d'ospedale,cappellano presso il monastero di Viboldone (Milano). Ha pubblicato fra l’altro: Salariati (1968), Gratuità tra cronaca e storia (1982), Dittico vescovatino (2001), Simon mago (2002), Dialogo sulla gratuità (2004) e Monologo partigiano (2004). Con Sironi ha pubblicato Come un atomo sulla bilancia (2005),   I miei amici. Diarii (2008) e La messa dell'uomo disarmato (2002), il suo grande romanzo sulla Resistenza, elogiato da critica e pubblico.
Hanno detto di lui: «Un punto di riferimento per chi ama la letteratura, per i critici e per i lettori che hanno trovato nei libri di questo autore un seme di verità, una parola vera e necessaria» (Avvenire); «Un autore di densissimo spessore umano e spirituale» (La Stampa); «Don Luisito Bianchi è sempre stato ed è un prete "scomodo", di quelli pronti a mettersi in gioco» (L'Unità).

Renzo Montagnoli

 

 

 

27 Settembre

Brutti incontri al chiaro di luna

di William Stanley Moss

Edizioni Adephi

Storia

Pagg. 212

ISBN 9788845932472

Prezzo Euro 19,00

Rapimento e fuga

Il 26 aprile del 1944 due ufficiali inglesi, il capitano William Stanley Moss e il maggiore Patrick Leigh Fermor, entrambi membri del SOE, il braccio operativo dei servizi segreti, con l’aiuto di tre partigiani locali rapirono a Creta il comandante tedesco dell’isola, il Generale Heinrich Kreipe. Il piano, meticolosamente studiato, prevedeva inoltre che l’ufficiale tedesco fosse trasportato attraverso l’isola, transitando dal monte Ida di mitologica memoria fino alle spiagge meridionali per lì essere imbarcato su nave con destinazione l’Egitto. Se la prima parte dell’operazione era di abbastanza semplice realizzazione, grazie al travestimento con divise tedesche dei due ufficiali inglesi, il resto si presentò da subito di notevole difficoltà, nonostante gli aiuti tangibili dei partigiani cretesi. Infatti il sequestro scatenò la reazione delle truppe germaniche che batterono il territorio palmo a palmo, senza risultati però, poiché dopo giorni e giorni di scarpinate, gli audaci rapitori, sempre tirandosi dietro il loro ostaggio stranamente abbastanza collaborativo, giunsero all’appuntamento convenuto e conclusero felicemente la missione.

Scritto sulla base del diario tenuto per l’occasione da William Stanley Moss, che molto opportunamente ha saputo raccordare gli episodi della fuga riuscendo in tal modo a ricreare la scorrevolezza di un romanzo, Brutti incontri al chiaro di luna sembrerebbe più un’opera di creatività che un resoconto storico, un po’ anche per la sottile ironia, tipicamente inglese, che lo permea e che rende la lettura per nulla affaticante, anzi gradevole.

Resta tuttavia una domanda, relativamente alla vicenda: a che pro rapire Kreipe? In effetti il piano era stato elaborato per mettere le mani sul suo predecessore, il feroce generale Friedrich-Wilhelm Müller, un criminale di guerra, ma il trasferimento di quest’ultimo rischiò di vanificare mesi di lavoro e allora si decise di procedere lo stesso con un’azione puramente dimostrativa, che ebbe però una vasta risonanza e fornì un’ulteriore prova dell’ormai inarrestabile disfacimento della macchina bellica tedesca.

Anni fa ho avuto modo di vedere il film tratto dallo stesso, Colpo di mano a Creta, interpretato da Dirk Bogarde e da David Oxley, pellicola che mi era piaciuta, e quindi è stato naturale voler verificare la corrispondenza fra il testo scritto e il lungometraggio ricavato dallo stesso. Mi hanno soddisfatto entrambi, anche se il film è secondo me più riuscito, non ha quella lentezza che ho trovato nel libro e che smorza non poco lo stato di tensione che deve avere per forza accompagnato i rapitori nel loro viaggio verso la salvezza.

Comunque Brutti incontri al chiaro di luna resta un’opera sicuramente interessante e meritevole di lettura.

Ivan William Stanley Moss MC, comunemente noto come W. Stanley Moss o Billy Moss (15 giugno 1921, Yokohama – 9 agosto 1965, Kingston) era un ufficiale dell'esercito britannico nella seconda guerra mondiale e in seguito uno scrittore, giornalista, giornalista e viaggiatore di successo.

Renzo Montagnoli

 

 

23 Settembre

Il tribunale del Duce.

La giustizia fascista e le sue vittime (1927-1943)

di Mimmo Franzinelli

Arnoldo Mondadori Editore S.p:A.

Storia

Pagg. 303

ISBN 9788804673705

Prezzo Euro 22,00

Come stroncare il dissenso

Il Tribunale speciale del fascismo, fortemente voluto, oltre che dal duce, anche dall’Ovra, l’organizzazione volontaria per la repressione dell’antifascismo, entrò in funzione il primo di febbraio del 1927 e continuò a operare fino al 25 luglio del 1943. Superati, non senza patemi d’animo, gli effetti nefasti del delitto Matteotti, il regime vide la necessità di stroncare qualsiasi velleità di oppositori ormai clandestini per ottenere, se non il pieno consenso del popolo italiano, almeno la possibilità di dominare senza il benché minimo ostacolo e la nuova istituzione giuridica, alla cui guida erano chiamati fascisti di comprovata fede, andava bene allo scopo, contribuendo ad alimentare un’atmosfera di sospetti e di terrore tipica di tutti i totalitarismi ed indispensabile per potersi reggere. Nel solo primo decennio giudicò ben 10.693 imputati, assolvendone tuttavia 7.581 e irrogando pene, compresa quella di morte, per la differenza (76 furono le condanne a morte, di  cui 58 eseguite). Non si creda tuttavia che questo tribunale avesse piena autonomia decisionale, perché in effetti in non pochi casi concertò con il duce condanne e relative pene.

Restavano tuttavia in mano al collegio giudicante ampi poteri, quasi sempre sfruttati a vantaggio personale, il che accentua il senso di disgusto che prende il lettore nel leggere questo interessantissimo saggio di Mimmo Franzinelli. La circostanza che tuttavia più sgomenta è che, a liberazione avvenuta, con il decreto di amnistia di Palmiro Togliatti i componenti del Tribunale speciale non solo non ebbero a patire conseguenze penali, ma furono reintegrati nella magistratura ordinaria, mentre i loro condannati continuarono a essere trattati come sovversivi. Si spiega così l’immaturità di un popolo incapace di fare i conti con il proprio passato e così pronto a ricadere nei medesimi errori. Il saggio di Franzinelli è ben strutturato e aiuta non poco a comprendere come era questo tribunale e come ebbe a funzionare. Di capitolo in capitolo ( Una giustizia speciale, I tre presidenti, Magistrati in camicia nera, I processi per gli attentati a Mussolini, Plotone d’esecuzione, Gli irriducibili, Delitti d’opinione, Segreti e retroscena, Donne alla sbarra, Il Tribunale in guerra e Soppressione ed eredità del Tribunale speciale) si ha un quadro completo del famigerato Tribunale speciale e di certo non basato su illazioni, ma supportato da prove documentali come sempre espressamente citate in appendice.

Quel che stupisce però nel libro è che alla completezza della disamina e delle notizie si accompagna una narrazione organica e chiara, tale da rendere la lettura veramente gradevole, elemento non frequente nel caso di saggi storici e che impreziosisce notevolmente l’opera.

Mimmo Franzinelli (Cedegolo, 1954) studioso del fascismo e dell´Italia repubblicana, componente del comitato scientifico dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione "Ferruccio Pari", è autore di numerosi libri, fra cui: per Bollati Boringhieri, I tentacoli dell´Ovra (1999, premio Viareggio 2000), Rock & servizi segreti (2010) e Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia (2011); per Mondadori, L´amnistia Togliatti (2006), Il delitto Rosselli (2007), Beneduce. Il finanziere di Mussolini, con Marco Magnani (2009), Il Piano Solo (2010), Il prigioniero di Salò (2012), Tortura (2018); per Rizzoli, La sottile linea nera (2008). Con Feltrinelli ha pubblicato: La Provincia e l´Impero. Il giudizio americano sull´Italia di Berlusconi, con Alessandro Giacone (2011), Delatori. Spie e confidenti anonimi: l´arma segreta del regime fascista (UE 2012), Il Giro d'Italia. Dai pionieri agli anni d'oro (Feltrinelli, 2013), - per gli Annali della Fondazione Feltrinelli - Il riformismo alla prova. Il primo governo Moro nei documenti e nelle parole dei protagonisti (ottobre 1963-agosto 1964), con Alessandro Giacone (2013) e Fascismo anno zero (Mondadori 2019). 

Renzo Montagnoli

 

 

 

16 Settembre

Senilità

di Italo Svevo

Garzanti Edizioni

Narrativa

Pagg. XXXVI-202

ISBN 9788811363552

Prezzo Euro 8,00

 

Vivere nel grigiore

Secondo romanzo, dopo Una vita, Senilità venne dato alle stampe nel 1898 per i tipi della Ettore Vram. Tuttavia, non era sconosciuto al pubblico, almeno quello locale, perché era stato pubblicato in 79 puntate (dal 15 giugno al 16 settembre 1898), peraltro con parecchi refusi, sul quotidiano irredentista triestino “L’Indipendente”. In breve è la storia di Emilio Brentani, un uomo di poco conto, incapace di prendere le decisioni che contano, infelice per aver tanto bramato l’amore e il piacere senza averli però raggiunti. In lui ormai vive una sorta di rassegnazione e di abulia, tipica dell’uomo che si lascia prendere e trasportare dal vento dell’esistenza, chiuso nei suoi ricordi, atteggiamento questo proprio di una vecchiaia spirituale, da cui appunto il titolo Senilità. Detto così sembrerebbe un romanzo con una trama pressoché assente, ma non è così; ovviamente non aggiungo altro, perché ben mi guardo di togliere a chi interessato il piacere della lettura. Svevo, che rammento non è il cognome dell’autore, che si avvale di uno pseudonimo, perché in effetti si chiamava  Aron Hector Schmitz , e parlava indifferentemente in tedesco e in italiano, laddove l’italiano è una lingua mutuata dal triestino, non nutre simpatia nei confronti di Emilio Brentani, ma si fa supportare da una nota ironica in quanto per certi aspetti il personaggio principale assomiglia all’autore stesso, costretto a un lavoro, quello di banca, che non gli piace e che pratica solo per necessità economiche. Pur tuttavia, al di là di quello che può essere lo spunto autobiografico, Senilità ha uno scopo ben più ampio, mettendo ben in evidenza  le frustrazioni, l’insoddisfazione dell’intellettuale della piccola borghesia, dividendo la società fra lottatori, che cercano di emergere, e contemplatori, che si limitano a essere spettatori del palcoscenico su cui si svolge la commedia dell’esistenza. E nel romanzo queste due classificazioni sono ben rappresentate da quattro personaggi, quasi a voler dimostrare che l’autore ha saputo ben osservare, senza intervenire nel ciclo della vita, rientrando quindi nella categoria dei contemplativi.

Da ultimo una notizia e cioè che dal romanzo nel 1962 è stato tratto un film, con lo stesso titolo, diretto da Maro Bolognini e interpretato da un eccellente Anthony Franciosa, nella parte di Emilio Brentani, nonché da Claudia Cardinale, Betsy Blair e Philippe Leroy.

Per quanto superfluo il consiglio è senz’altro di leggere questo libro.

Italo Svevo, pseudonimo di  Aron Hector Schmitz (Trieste, 19 dicembre 1861 – Motta di Livenza, 13 settembre 1928) Di famiglia ebraica per parte di madre, e di padre tedesco, compì gli studi medi in Baviera; nel 1879 si iscrisse all'Istituto superiore di commercio di Trieste, ma l'anno seguente, per problemi economici familiari, dovette trovare un impiego in una banca, dove lavorò per vent'anni. Fu questo anche il periodo del suo apprendistato letterario: cimentatesi in articoli, abbozzi di racconti, pagine autobiografiche, nel 1890 fece uscire a puntate, su «L'Indipendente», la sua novella 'L’ assassinio di via Belpoggio'.
Nel 1892 pubblicò il suo primo romanzo, 'Una vita'. Nonostante la già evidente abilità del narratore, il romanzo passò inosservato; identica sorte toccò sei anni dopo al suo secondo libro 'Senilità' (1898), storia dell'amore di un non più giovane letterato per la sfuggente Angiolina.
Seguì a queste delusioni un lungo periodo di silenzio.
Dopo essersi sposato con Livia Veneziani e aver avuto un figlio, nel 1899 entrò come socio nella ditta commerciale del suocero, della quale assunse in seguito la direzione. Per ragioni di lavoro risiedette in Inghilterra, Francia e Germania.
Fu questa una fase di quasi totale rimozione della letteratura.
Nel 1905 conobbe J. Joyce (che a Trieste viveva facendo l'insegnante d'inglese). Solo nel 1923 pubblicò un'altra opera, il romanzo 'La coscienza di Zeno', che Joyce fece conoscere al famoso scrittore e critico V. Larbaud e che nel 1925 venne favorevolmente recensito da Eugenio Montale sul periodico «L'Esame». Del 1927 la novella 'Vino generoso' e del 1928 la raccolta di racconti 'Una burla riuscita'. Proprio nel 1928 Svevo moriva per un incidente automobilistico.
Postumi: 1930 'La novella del buon vecchio e della bella fanciulla'; 1949 le novelle 'Corto viaggio sentimentale'; 1954 un volume di Saggi e pagine sparse; 1960 le Commedie, sei testi (tra cui è da ricordare soprattutto 'Il marito').
La cultura di Svevo poggia sulla conoscenza dei classici italiani, tedeschi, francesi, ma anche sulla dimestichezza con la filosofia di Schopenhauer e soprattutto, sulla "frequentazione” del pensiero di Freud.
Nell'ambito dela letteratura italiana l'opera di Svevo segna il trapasso dal verismo a una nuova visione e descrizione del reale, più analitica e introversa, svincolata da certe «cristallizzazioni» tradizionalmente presenti nella narrativa, quali il personaggio, le ordinate categorie temporali, l'univocità degli eventi.
I dati realistici vengono usati sempre più come specchi per chiarire i complessi e contraddittori moti della coscienza.
Al centro delle proprie storie Svevo pone pur sempre un solo personaggio (al quale gli altri fan da coro, per lo più antagonista): un individuo abulico e infelice, incapace di affrontare la realtà e che a essa costantemente soccombe, ma che nello stesso tempo tenta di nascondere a se stesso la propria inettitudine, sognando evasioni, cercando diversivi, giustificazioni e compensi.
L'opera di Svevo è stata di volta in volta avvicinata (non senza ragione) a quella di Proust, Joyce, Kafka, Musil, Pirandello, e costituisce uno dei momenti più importanti della letteratura europea del Novecento.

Parzialmente tratta da: Enciclopedia della Letteratura Garzanti

Renzo Montagnoli

 

 

11 Settembre

Oblio e perdono

di Robert Harris

Arnoldo Mondadori Edtore S.p.A.

Narrativa

Pagg. 444

ISBN 9788804749837

Prezzo Euro 22,00

Caccia implacabile

Dalla penna dell’autore di Fatherland, un bellissimo romanzo distopico da cui è stato tratto l’omonimo film di grande successo mirabilmente interpretato da Rutger Hauer, è uscito questo libro che mi ha letteralmente avvinto dalla prima all’ultima pagina. Corre l’anno 1660 e in Inghilterra ritorna la monarchia dopo gli undici anni della repubblica di Oliver Cromwell, repubblica nata con la condanna a morte eseguita per decapitazione di Re Carlo I Stuart, a cui ora è subentrato il figlio Carlo II che vuole un taglio netto con il passato, perseguitando i ribelli e dando in particolare la caccia a quelli che hanno sottoscritto la sentenza grazie alla quale il padre è stato giustiziato. E’ così che vengono rintracciati quasi tutti i firmatari, che vengono poi condannati a morte, ma  c’è chi riesce a fuggire, in particolare Edward Whalley e suo genero William Goffe. Non si nascondono in Inghilterra, ma riescono a salpare per l’America e ad arrivare là nelle nuove colonie. Sulle loro tracce il governo mette Richard Nayler, un autentico mastino, grato per l’incarico anche perché in tal modo conta di concretizzare una vendetta personale. I due uomini, seguaci del puritanesimo, per quanto aiutati dai confratelli, conducono una vita errabonda, fatta di paure e senza prospettive. Non vado oltre, perché se dovessi raccontare tutto farei un dispetto a chi intende leggere il romanzo e poi anche perché, per quanto dovessi cercare di essere succinto, finirei comunque per essere eccessivamente prolisso, circostanza certamente non idonea per una piacevole lettura a video.

Preferisco invece soffermarmi sui pregi dell’opera e sull’unico difetto, che lascio per ultimo.

La caccia all’uomo che intraprende Nayler e che durerà una ventina d’anni impone al romanzo un ritmo incalzante, con l’inevitabile desiderio del lettore di sapere le mosse successive; l’atmosfera non manca, anzi è ricreata in modo pregevole, con questi due uomini che sono in fuga senza concrete speranze di cambiare la loro sorte, in una tensione che a tratti sgomenta. Anche l’ambientazione è resa benissimo, con la descrizione del mondo dei puritani, della vita nelle nuove colonie, con i contatti non sempre pacifici con i nativi.

Pur senza dilungarsi nella descrizione della fisionomia dei protagonisti (i due uomini in fuga e il loro cacciatore)     l’autore riesce a ricreare l’aspetto di questi uomini, che varia mano a mano che passano gli anni, in un susseguirsi di eventi di cui progressivamente diventiamo partecipi.

La vicenda è veramente riuscita (Harris, in una nota iniziale, premette che è la libera ricostruzione di una storia vera, cioè la ricerca dei regicidi e in particolare di Edward Whalley e William Goffe, personaggi esistiti veramente e oggetto della caccia di Richard Nayler, protagonista che invece è del tutto inventato; i fatti, le date e i luoghi sono poi quelli in cui si è svolta questa caccia  implacabile). Insomma, siamo in presenza di un romanzo storico basato su fatti realmente accaduti e forse anche per questo è in grado di avvincere così tanto. La conclusione poi non è per nulla scontata ed è la classica ciliegina sulla torta.

E l’unico difetto? L’unico difetto è che arrivati  a pagina 444, l’ultima del libro, la lettura purtroppo termina, nonostante la disponibilità a conoscere eventuali ulteriori sviluppi.

Da leggere.

Robert Harris (Nottingham, 7 marzo 1957), laureato alla Cambridge University, è stato giornalista alla BBC, e uno dei più noti commentatori dell'"Observer" e del "Sunday Times".

È diventato famoso in tutto il mondo nel 1992 con Fatherland, il cui successo lo ha inserito a pieno titolo nel ristretto gruppo di autori che hanno ridefinito e ampliato i confini del thriller. Successo confermato  da Enigma (1996), Archangel (1998), Pompei (2003), Imperium (2006), Il ghostwriter (2007), da cui è stato tratto un film diretto da Roman Polanski, Conspirata (2010), L'indice della paura (2011), L'ufficiale e la spia (2014), Conclave (2016), Monaco (2018), Il sonno del mattino (2019). Prima di dedicarsi interamente alla narrativa ha scritto numerosi saggi, fra cui una celebre inchiesta sui falsi diari del Führer, I diari di Hitler (2002). Tutte le sue opere sono edite in Italia da Mondadori.

Renzo Montagnoli

 

 

 

4 Settembre

L'orsacchiotto

di Georges Simenon

Edizioni Adelphi

Narrativa

Pagg. 160

ISBN 9788845937507

Prezzo Euro 18,00

Una vita insoddisfacente

Il professor Jean Chabot, medico ginecologo, è un professionista affermato, con una clinica di proprietà e un incarico all’università. Dovrebbe, pertanto, essere un uomo appagato, ma non lo è, perché conduce un’esistenza di assoluta monotonia, fatta di clinica, casa e amante. E’ un individuo incapace di relazionarsi con passione con gli altri, compresi i suoi familiari e anche la segretaria, ultima delle amanti in ordine di tempo. Ciò nonostante tutto sembra procedere regolarmente in questo percorso esistenziale in cui l’abitudine regna sovrana. Come chiuso in un bozzolo vive senza particolari entusiasmi e patemi d’animo, in un un crescendo di monotonia di cui pare non accorgersi fino a quando apprende di una giovane suicida ripescata nella Senna, una ex inserviente della clinica con cui aveva avuto un amplesso fugace una notte e che gli era sembrata, semi addormentata come lo fu in quell’occasione,  un orsacchiotto nel letto di un bimbo. Se i motivi del tragico gesto non erano noti, certa era la sua gravidanza, giunta al quarto mese, di cui con ogni probabilità era da ritenersi responsabile Chabot. In un’altra persona sarebbe subentrato un senso di rimorso, nel nostro professore invece si incrina qualcosa, comincia a fessurarsi quel bozzolo di certezze in cui è rinchiuso. Inizia così una progressiva discesa all’inferno, contraddistinta da tanti piccoli episodi, come  un’incertezza nel corso del travaglio di una partoriente, di cui il medico non trova ragione senza darsi pace, fino a quando si rende conto  di quanto la sua vita  sia insoddisfacente. Incapace di un effettivo trasporto verso i suoi familiari e addirittura anche verso la sua sua segretaria e amante comprende l’inutilità della sua esistenza, consapevole che quella posizione di prestigio raggiunta con la sua professione non può assolutamente garantirgli il piacere di vivere. Non vado oltre, per non togliere al lettore il piacere di una lettura che lo porterà, assai interessato, a un finale logico, anche se in un certo senso imprevisto.

Con un personaggio come Chabot e con una trama così Simenon, abilissimo nella fine analisi psicologica, è andato sicuramente a nozze e in effetti non si possono che apprezzare i vari approfondimenti. C’è però anche un altro piano di lettura, non infrequente nelle opere di Simenon, e cioè la condanna di una borghesia falsa e vacua, una classe sociale che lo scrittore belga, nonostante ne sia parte, francamente detesta.

Per il resto ritroviamo le consuete note positive relative alle descrizioni dei luoghi e alla capacità di ricreare, senza sbavature, la giusta atmosfera.

Quindi, la lettura, sebbene non facile, è indubbiamente consigliata.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».

Renzo Montagnoli

 

 

27 Agosto

Baci a occhi aperti.

Scritti sulla Sicilia

di Matteo Collura

Edizioni TEA

Saggistica

Pagg. 480

ISBN 9788850258376

Prezzo Euro 16,00 

Sicilia e sicilianità

In una nota all’inizio del libro l’autore spiega che lo stesso è nato dalla richiesta di alcuni lettori, richiesta che lo ha lasciato perplesso avendo già scritto molto sulla Sicilia e che comunque ha ritenuto di esaudire mettendo insieme, nel modo più ordinato e leggibile, quanto aveva fino a ora dato alle stampe, ma togliendo qualcosa e aggiungendo qualcos’altro. Inoltre fornisce una spiegazione dello strano titolo, Baci a occhi aperti, cioè i tanti baci che ha dato alla Sicilia costringendosi a non chiudere gli occhi, assaporandone il piacere e – aggiungo io – non tacendo quegli aspetti che positivi senz’altro non sono. 

Va anche rilevata l’onestà nell’indicare sempre in questa nota da quali libri e pubblicazione ha tratto i testi. In particolare riscontro che due da me sono già conosciuti avendoli a suo tempo letti e cioè In Sicilia e L’isola senza ponte, mentre non avevo ancora preso in mano, peraltro ripromettendomi di farlo quanto prima, Sicilia, la fabbrica del mito.

Pezzi aggiunti e altri tolti nulla tolgono alla valenza di questo collage di saggi sulla Sicilia, una carrellata completa su questa terra straordinaria e sui suoi altrettanto straordinari abitanti, nulla tacendo, come già ho detto, sulle loro virtù e sui loro difetti, soprattutto per questi ultimi che costituiscono una tara che si portano dietro da parecchi anni, anzi da secoli, e che sono un freno a qualsiasi ipotesi di sviluppo in senso economico. In particolare viene ancora una volta rimarcata l'immagine di un popolo dalla natura irredimibile (come scriveva Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo), al pari del paesaggio su cui in perfetta sintonia si muove, personaggi di una commedia della vita dalle infinite rappresentazioni, uomini e donne, in perenne contraddizione con ciò che è e che non dovrebbe essere e con ciò che non è e che invece dovrebbe essere.  Sembra quasi impossibile questa discrasia in una terra che ha dato i natali a eccellenze come Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Tomasi di Lampedusa, tanto per citarne solo alcuni, ma forse ciò è possibile perché dalle contraddizioni può nascere quella mente che vede oltre l’apparenza e scorge anche il percorso del futuro prossimo. 

Lo stile di Collura è quello solito, dove il solito non deve essere considerato frutto di una valutazione restrittiva, ma semplicemente una conferma di quelle che sono le qualità espositive di un autore il cui livello di cultura è indubbiamente assai elevato, circostanza tuttavia che non appesantisce lo sviluppo dei concetti espressi, che anzi sono da apprezzare per una completezza non disgiunta da un gradimento di chi legge.

Del resto un saggista che ha scritto le biografie di Luigi Pirandello e di Leonardo Sciascia, scendendo a esaminare approfonditamente non solo l’aspetto letterario, ma anche quello psicologico, è necessariamente un uomo capace di osservare senza remore e di rendere partecipe il lettore delle sue conclusioni.

Baci a occhi aperti è un libro utile per chi ha gia approfondito tutta la saggistica di Matteo Collura, perché così gli è possibile avere risposte a domande che si è posto nel corso delle letture dei singoli volumi, ma è anche addirittura indispensabile per chi voglia avere ben più di un’idea di quest’isola e dei suoi abitanti, la cui sicilianità non è frutto di semplicistici luoghi comuni, ma, come ben esprime l’autore, è il risultato di un coacervo di contraddizioni che a ben guardare, magari in misura più ridotta e meno appariscente, contraddistingue tutti gli italiani.

Per quanto ovvio, questo libro è senz’altro da leggere.

Matteo Collura (Agrigento 1945), dopo una giovanile esperienza di pittore e dopo aver intrapreso la professione giornalistica, ha esordito in letteratura con il romanzo Associazione indigenti, pubblicato nel 1979 da Einaudi su approvazione di Italo Calvino. È autore della biografia di Leonardo Sciascia Il maestro di Regalpetra (TEA, 1996) e del romanzo sulla vita di Luigi Pirandello Il gioco delle parti (Longanesi, 2010). Ha pubblicato numerosi altri libri, la maggior parte dedicati alla sua terra d’origine; tra questi: Sicilia sconosciuta (Rizzoli, 1984; 2016); Baltico (Reverdito, 1988); In Sicilia (Longanesi, 2004); Qualcuno ha ucciso il generale (Longanesi, 2006); L’isola senza ponte (Longanesi, 2007); Alfabeto Sciascia (Longanesi, 2009); Sicilia. La fabbrica del mito (Longanesi, 2013). È inoltre autore di Novecento. Cronache di un secolo italiano dal terremoto di Messina a Mani Pulite (TEA, 2008) e del romanzo La badante (Longanesi, 2015). Sua la versione teatrale del romanzo di Leonardo Sciascia Todo modo. Scrive articoli di cultura per «Il Messaggero» e il «Corriere della Sera». Risiede a Milano.

Renzo Montagnoli

 

 

 

22 Agosto

D'argilla e neve

di Maria Pina Ciancio

Giuliano Ladolfi Editore

Poesia

Pagg. 78

ISBN 9788866446897

Prezzo Euro 10,00

Nostos

Di Maria Pina Ciancio ho già letto due sillogi, Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro, e Tre fili d’attesa, una plaquette che mi ha confermato, anche se in realtà non ce n’era bisogno, le sue qualità poetiche. Tanto vale che richiami i pregi che nobilitano i versi, cioè una scrittura in punta di penna, lieve e dolce al tempo stesso, con parole non certo gridate, ma sussurrate. Mai enfatica, quasi timorosa di mostrare il suo cuore, pur tuttavia ha la straordinaria capacità di entrare nei cuori di chi legge.

Le stesse considerazioni valgono per questa nuova raccolta , D’argilla e neve, dove il tema trattato è a lei particolarmente caro, visto che sua produzione ne è uniformata, e mi riferisco alla nostalgia per la regione di origine della sua famiglia, la Basilicata (lei è nata in Svizzera) e abita ad Ariccia nel Lazio, dopo aver trascorso parte della sua infanzia fra la Confederazione Elvetica e il nostro Meridione. 

Questo nostos  ha il sapore di un rimpianto persistente in cui si strugge la poetessa, perché tante patrie tendono inevitabilmente a spaesare, rendendo quasi una chimera quella Lucania di cui sentimentalmente si sente parte e dove cerca di far riaffiorare le radici (avevo sette anni e un sogno: / quello della terra rossa dentro al petto. / Arrivammo con la Calabro-Lucana c’era maggio / c’era il tutto dei bambini in quel ritorno / …../ La Svizzera lontana / Terra madre, amara, cruda senza braccia / ovunque andassi ovunque ti cercassi / al ciglio della strada o sopra i tetti rossi / ovunque).

A differenza di altri poeti che hanno cantato il Sud, unendo alla nostalgia il lamento per una secolare arretratezza, magari anche con toni forti, come nel caso di Vincenzo D’Alessio, in Maria Pina Ciancio prevale nettamente il sentimento della nostalgia, e ciò anche nella scia di un altro grande poeta lucano, Rocco Scotellaro, tuttavia meno intimo, più generalista, quale si addice proprio a un sindacalista.

E ciò che più riaffiora nel ricordo è l’infanzia, senz’altro l’età più bella, con un apprezzamento notevole per le cose semplici, per le amicizie, per il piacere di rendersi utili avendo in cambio un piccolo vantaggio (Per dieci lire e un sorriso, sfilavamo ginestre ferendoci a sangue l’incavo delle dita. /….  ).

Di altra natura sono le ultime liriche, ricomprese in una piccola raccolta, intitolata “Il riparo della neve”, sempre intimistiche e che potremmo definire d’amore, ma è sempre presente in sottofondo quella terra per cui si strugge e che avverte come propria se pur lontana, nel senso di qualcosa che si è dovuto abbandonare; è proprio questa costrizione ad alimentare la nostalgia di un territorio ove affondano le radici familiari,  al punto di terminare il libro con cinque poesie in dialetto lucano.

Sono sincero, se per ognuna non avesse riportato in calce la traduzione in italiano, non le avrei lette, per evidenti motivi di difficoltà di comprensione e avrei sbagliato, perché sono una chicca, come questa: Tienimi sopra le ginocchia / come un tempo / quand’ero bambina // e la testa senza pensieri / si perdeva in una storia lontana / dove io non sapevo / e nessuno moriva.

In ogni caso non c’è nulla, nemmeno un verso che possa cadere nella banalità, o peggio nella retorica dell’emigrante tormentato, no, ci sono solo flussi di emozioni, sentimenti che si affacciano con pudore sulla carta e che sembrano chiedere al più un po’ di empatia, ma lo fanno con discrezione, quasi con il timore di ferire.

Da leggere, ovviamente.

Maria Pina Ciancio di origine lucana è nata in Svizzera nel 1965. Trascorre la sua infanzia tra la Svizzera e il Sud dell’Italia e da qualche anno vive nella zona del Castelli Romani.
Viaggia fin da quand’era giovanissima alla scoperta dei luoghi interiori e dell’appartenenza, quelli solitamente trascurati dai grandi flussi turistici di massa, in un percorso di riappropriazione della propria identità e delle proprie radici.
Ha pubblicato testi che spaziano dalla poesia, alla narrativa, alla saggistica. Tra i suoi lavori più recenti ricordiamo 
Il gatto e la falena (Premio Parola di Donna, 2003), La ragazza con la valigia (Ed. LietoColle, 2008), Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro (Fara Editore 2009), Assolo per mia madre (Edizioni L’Arca Felice, 2014), Tre fili d'attesa (Associazione Culturale LucaniArt 2022), D'argilla e neve (Ladolfi Editore, 2023).
Nel 2012 ha curato il volume antologico Scrittori & Scritture – Viaggio dentro i paesaggi interiori di 26 scrittori italiani.
Suoi scritti e interventi critici sono ospitati in cataloghi, antologie e riviste di settore. Recentemente è stata inserita nelle collettive: Orchestra (a cura di Guido Oldani) LietoColle 2010; Il rumore delle parole – 28 poeti del Sud (a cura di Giorgio Linguaglossa), Edizioni EdiLet 2015, Sud – Viaggio nella poesia delle donne (a cura di Bonifacio Vincenzi) Edizioni Macabor 2017.
Con il libro “Storie Minime e una poesia per Rocco Scotellaro” nel 2015 ha vinto la X Edizione del Premio Letterario “Gaetano Cingari”; nel 2014 il Premio Internazionale della Migrazione – Attraverso L’Italia  e il  Premio Letterario Città di Cerchiara – Perla dello Jonio (con un testo tratto dalla raccolta); nel 2009 il Premio “Tremestieri Etneo” (Targa Antonio Corsaro).
Ha fatto parte di diverse giurie letterarie, è presente in numerosi cataloghi e riviste di settore.
È presidente dell’Associazione Culturale LucaniArt 
lucaniart.wordpress.com

Renzo Montagnoli

 

 

 

30 Luglio

La morte delle sirene.

Un'indagine di Elio Sparziano

di Ben Pastor

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa

Pagg. 512

ISBN 9788804753124

Prezzo Euro 19,00
 

La lotta per il potere

Ennesimo appuntamento con il comandante Elio Sparziano, un personaggio indubbiamente interessante uscito dalla fertile mente creativa di Ben Pastor. In questo romanzo, la cui trama si svolge nel 306 d.C., allorché l’impero romano sta attraversando uno dei periodi più oscuri della sua lunga storia, con la lotta feroce per la successione nel passaggio dalla prima alla seconda Tetrarchia, l’imperatore Galerio affida a Elio Sparziano una delicatissima operazione diplomatica con destinatario l’ambizioso Massenzio. Il comandante, nell’attesa di essere ricevuto da lui, si ferma a Sorrentum, creduta l’antica dimora delle sirene e  dove, accanto alla vicenda principale, se ne innesta un’altra, relativa s provare la colpevolezza o l’innocenza di un presunto parricida.

La carne al fuoco non manca, ma non c’è il rischio che bruci, perché troppa è l’abilità di Ben Pastor nell’evitare confusioni di personaggi, cadute di ritmo e inutili lungaggini, così che, nonostante le 512 pagine e il notevole numero dei protagonisti principali e secondari, si arriva piacevolmente alla fine, apprezzando ancora una volta la capacità della narratrice.

Peraltro, se la vicenda, particolarmente intricata, ha la sua importanza ed è in grado di appassionare anche il palato più esigente, quella che mi è piaciuta di più è l’ambientazione, resa con scrupolo e benissimo. Si ha l’impressione di camminare pari passo con Elio Sparziano, di essere al suo fianco quando si trova nelle taverne o quando entra nei bordelli; la sua ansia di sapere, le sue paure, le sue indecisioni diventano le nostre, per non parlare del suo sincero amore per la tenutaria egizia Thermuthis, donna bella e intelligente, che ogni lettore, pur facendo una sua personale raffigurazione, vede come un’ombra fuggevole, e pur tuttavia splendente, quando incontra Elio.

Con ogni probabilità c’è sempre a fronte un approfondito lavoro di ricerca grazie al quale è possibile calarci nell’impero dell’epoca, condizione del resto indispensabile per arrivare  a quell’attrazione che è nei sogni di ogni autore.

Prima di arrivare all’ultima pagina avevo il timore che in questa lotta feroce per il potere, che non guarda in faccia padri, figli, mogli, fratelli, sorelle, il nostro Elio Sparziano ci lasciasse, ma per fortuna non è stato così, il che fa ben sperare che Ben Pastor abbia in serbo altre avventure da raccontarci.

La lettura, per quanto esposto, è senz’altro raccomandabile, anche perché l’opera, oltre a consentire di trascorrere ore piacevoli, è in grado di contribuire a una crescita culturale, narrando di un’epoca lontana; pur in presenza di una notevole creatività,  Ben Pastor è capace di restare sostanzialmente aderente agli eventi,  così che nelle sue linee essenziali la storia è rispettata.

Scrittrice italoamericana, all'anagrafe Maria Verbena Volpi, nata a Roma il 4 marzo 1950, ma trasferitasi ben presto negli Stati Uniti, ha insegnato Scienze sociali presso le università dell'Ohio, dell'Illinois e del Vermont. Oltre a Lumen, Luna bugiarda, Kaputt Mundi, La canzone del cavaliere, Il morto in piazza, La Venere di Salò,  Il cielo di stagno, - ovvero il ciclo del soldato-detective Martin Bora (pubblicati da Hobby&Work a partire dal 2001 e poi da Sellerio) - è autrice di I misteri di Praga (2002), La camera dello scirocco, omaggi in giallo alla cultura mitteleuropea di Kafka e Roth (Hobby &Work), nonché de Il ladro d'acqua (Frassinelli 2007), La voce del fuoco (Frassinelli 2008), Le vergini di pietra La traccia del vento (Hobby & Work 2012), una serie di quattro thriller ambientata nel IV secolo dopo Cristo.
Nel 2006 ha vinto il Premio Internazionale Saturno d'oro come migliore scrittrice di romanzi storici. Le sue opere sono pubblicate negli Stati Uniti e in numerosi Paesi europei.
Un suo racconto è incluso nell'antologia Un Natale in giallo (Sellerio 2011).
Nel 2014 esce La strada per Itaca (Sellerio) e nel 2020 Il ladro d'acqua (Mondadori).

Renzo Montagnoli

 

 

 

15 Luglio

Nuto Revelli.

Vita, guerre, libri

di Giuseppe Mendicino

Priuli & Verlucca Editori

Biografia

Pagg. 128

ISBN 9788880689300

Prezzo Euro 9,90

 

La storia vista dal basso

Quel che apprezzo sempre di più negli scritti di questo autore, oltre alla passione che affiora qua e là, è la capacità di parlare di un altro scrittore e delle sue opere in modo semplice, accattivante, ma non per questo non esauriente. Se uno vuole sapere chi fosse Mario Rigoni Stern, quale  importanza ha rivestito in campo letterario non deve far altro che sfogliare uno dei numerosi lavori di Mendicino sul narratore di Asiago, certo che passerà poi inevitabilmente a leggerne i libri.

Appassionato di montagna, di quel mondo e di quelle genti che la abitano, Mendicino riesce a calarsi perfettamente negli autori di cui scrive e ciò si può anche riscontrare nella sua biografia di Nuto Revelli, scrittore piemontese che ha vissuto come Stern la tragica esperienza della ritirata in terra di Russia. I punti di unione fra questo narratore e Mario Rigoni Stern sono tuttavia di più, perché sono accomunati  dalla   passione per i luoghi di origine, per quelle montagne su cui hanno compiuto tante escursioni e per le genti che le abitano, montanari abituati al duro lavoro poco remunerativo, spesso taciturni, diffidenti con gli estranei, ma  che, quando cominciano a conoscere chi si avvicina a loro e a prendere fiducia, aprono completamente i loro cuori. 

Nuto Revelli, a differenza di Rigoni Stern a cui con l’armistizio dell’8 settembre 1943 si sono aperte le porte di un lager tedesco, è riuscito invece a non farsi catturare ed è diventato uno dei primi partigiani, facendosi apprezzare per rettitudine, capacità di comando e virtù militari, tanto da diventare uno dei capi della Resistenza.  Entrambi, come moltissimi italiani, prima della drammatica esperienza della guerra erano fascisti, ma poi hanno capito che quel regime non era altro che apparenze senza sostanza e la maturazione conseguente ha portato uno al rifiuto di riprendere le armi per una causa sbagliata e persa, preferendo la sofferta esperienza del lager, mentre l’altro a imbracciare il mitra per un riscatto, per la difesa di un popolo dall’oppressore tedesco e dal suo servo fascista.

Revelli spiega molto bene questo cambiamento con La guerra dei poveri, opera nella quale c’è la riscoperta del semplice valore umano.

Tuttavia, sarebbe riduttivo pensare che lo scrittore cuneese si limitasse alla memorialistica, perché i suoi interessi vanno ad approfondimenti delle cause della guerra e allo studio della condizione, senza speranza, delle genti delle sue montagne.

E’ forse proprio con queste indagini della vita dei montanari che la figura di Revelli assume una particolare importanza che va oltre il campo letterario, ma che si fionda in quello sociologico, fornendo un ritratto di una esistenza contadina in montagna nel suo crepuscolo, perché i giovani migrano verso le città, a lavorare in fabbrica, a condurre una grigia esistenza in un condominio.

Puntuale Mendicino ha posto in risalto questo importante aspetto della produzione di Revelli, un uomo che dopo essersi diplomato geometra, aveva avviato la carriera militare, passando dall’Accademia di Modena, ma che ha poi trovato la sua via, un senso da dare alla vita grazie ai drammatici giorni di una fuga disperata nella neve e nel freddo.

Da leggere, senz’altro.

Giuseppe Mendicino è considerato il maggior esperto dello scrittore Mario Rigoni Stern. Con Laterza ha pubblicato Mario Rigoni Stern. Un ritratto (2021). Ha redatto la voce Mario Rigoni Stern del Dizionario Biografico degli Italiani (Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani) ed è autore di Mario Rigoni Stern. Il coraggio di dire no (Einaudi, 2013), Mario Rigoni Stern. Vita, guerre, libri (Priuli & Verlucca, 2016), Portfolio alpino (Priuli & Verlucca, 2018) e Nuto Revelli. Vita, guerre, libri (Priuli & Verlucca, 2019). È socio accademico del GISM (Gruppo italiano scrittori di montagna) e collabora con le riviste «Doppiozero» e «Meridiani Montagne».

Renzo Montagnoli

 

 

 

10 Luglio

La vita immaginata

(2019 – 2023)

Con 14 <<profili>> della cultura

di Felice Serino

Youcanprint

Poesie e saggistica

Pagg. 417

ISBN 979-12-21481-26-6

Prezzo Euro 26,90

 

Un’opera corposa, ma varia

Ben 417 pagine che, anche considerando la settantina destinata ai profili di noti artisti, comprovano l’ingente produzione poetica di Felice Serino nell’ultimo periodo, cioè dal 2019 fino quasi a oggi. E questa copiosità nel creare versi è una delle altre caratteristiche di questo autore che sono più ampiamente tratteggiate nella mia presentazione dell’opera costituita da tre sillogi (Dell’indicibile, Trasparenze e La vita immaginata, donde il nome del libro). Voler parlare in modo esauriente di tutte le poesie si presenta impossibile, sia in termini di tempo che di spazio. Di conseguenza ho dovuto impostare il commento critico in modo che risultasse sintetico, ma nonostante ciò gli estimatori di Serino non potranno che trovare conferme. Che la sua poetica sia una continua analisi introspettiva è fuor di dubbio, tematica che solo in apparenza è limitativa, poiché la ricerca continua del nostro “io” è in grado di svelare nuovi risvolti con il trascorrere del tempo e anche con l’acquisizione dell’esperienza; pertanto non vi è nulla di ripetuto, eventualmente c’è qualcosa di già noto nelle linee generali, fermo restano quella sua capacità di permeare i versi di un alone di magia, con quell’evanescenza che li rende gradevoli, ma non banali.  In narrativa potrebbe far venire in mente il realismo magico di Giuseppe Bonaviri o di Gabriel García Márquez, anche se non è proprio così, ma sostanzialmente il richiamo non è azzardato. Il suo è un particolare modo di esporre che penso di aver spiegato con scrupolo nella presentazione e che riporto di seguito:”Il poeta, di origini napoletane, ma dimorante a Torino, è un artista di lungo corso che via via negli anni ha affinato il proprio modo di verseggiare, e ciò è facilmente riscontrabile leggendo le sue composizioni in ordine temporale, fermo restando quella ricerca introspettiva che è materia propria dell’autore uso ad approfondire con progressività. Nel contesto di ricerca di ciò che può rivelare il proprio Io si nota particolarmente, apprezzando, una visione evanescente che dona particolare fascino, ammantando il verbo di magia, all’intero corpo. I versi tendono a volare, a superare confini naturali per congiungersi a un mondo di fantasia, la cui porta, lo stargate, è in attesa di essere valicata. In questo universo che si potrebbe definire poetico Serino s’invola, novello Ulisse verso un’Itaca che è la propria dimensione interiore, un’avventura senza fine in cui conta di più la conoscenza che si incontra nel percorso che il raggiungimento della meta. E tutto procede in una sorta di limbo, un sogno che porta ad altra dimensione, e in cui con maggior chiarezza è possibile leggere dentro di sé, in una visione che continua a essere evanescente, una sorte di ectoplasma che avvince e respinge. Si resta attoniti, anche sgomenti spettatori di una metamorfosi, di una trasformazione che è un’implosione della persona stessa, e, comunque, il tutto si riassume, si comprende con chiarezza.”. In ogni caso resta una personalità artistica peculiare, tanto che è difficile, se non impossibile, ipotizzare a quale corrente si ispiri. Un esempio che chiarisca il tutto è costituito da una poesia tratta dalla silloge La vita immaginata. Mi riferisco a Proiezioni (proiezioni del Suo pensiero siamo / vaganti tra realtà e sogno – in cerca / d'un'isola felice – viaggio / nell'infinito di noi / isole noi stessi – pure / ognuno anello d'una / catena senza inizio e fine). Ovviamente non è l’unica poesia, perché ve ne sono altre che possono ben illustrare il concetto esposto, ma per me questa costituisce forse l’esempio più lampante. Una novità poi è costituita da questi profili che, così come scrive Serino, hanno un filo spirituale che li lega ed è dato dall’amore nel campo della cultura e dell’arte. Non sono pochi, sono quattordici, un po’ biografia, un po’ analisi critica, e sono relativi a personaggi ben conosciuti (Dino Campana, Dylan Thomas, Vincenzo Cardarelli, Simone Weil, Nella Falzolgher detta Nil, Salvador Dalì, Maurice Maeterlinck, Kahlil Gibran, Arthur Rimbaud, Pier Giorgio Frassati, Rudolf Steiner, Jakob Lorber, Joe Bosquet, Teresio Zaninetti). Come è possibile notare non tutti sono poeti, anche se presentano caratteristiche di artisti o che comunque li ricollega all’arte; si tratta di analisi necessariamente brevi, ma non trascurabili, nel senso che Serino, che evidentemente ha ritenuto di particolare importanza questi artisti, ha fatto di tutto per presentarceli in modo accattivante, così che il lettore possa comprendere il rilievo che gli stessi hanno. Penso ci sia riuscito, resta solo da chiedersi il perché di tale lavoro che, tuttavia, è evidentemente il frutto di una passione fino a ora segreta, di cui ha voluto rendere edotti i terzi.

In questo libro c’è veramente tanto, ma è vario e proprio per questo si legge con piacere, certi che, fra le tante proposte, non sarà impossibile trovare quella che può soddisfare maggiormente.

Felice  Serino è nato a Pozzuoli nel 1941 e vive a Torino.

Copiosa la sua produzione letteraria (tra le raccolte di poesia: “La vita nascosta”, “Vita trasversale e altri versi”, “La vita immaginata”); ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici. E’ stato tradotto in nove lingue.

Intensa anche la sua attività redazionale.

Sue pubblicazioni sono presenti in Academia.edu e in Alessandria today.

Per notizie dettagliate, qui: http://www.literary.it/ali/dati/autori/serino_felice.html

Renzo Montagnoli

 

 

 

5 Luglio

Rosso da morire

di Fiorella Borin

Copertina di Vincenzo Bosica

Edizioni Solfanelli

Narrativa

Pagg. 160

ISBN 978-88-3305-367-7

Prezzo Euro 12,00

 

J’accuse

Non si può dire che Fiorella Borin, come persona e come narratrice, sia priva di una particolare attenzione per i meno fortunati, per gli esseri indifesi, e fra questi naturalmente donne e bambini.  In tanti anni che leggo le sue opere, oltre ad apprezzare il suo stile, costituito da una scrittura snella, ma efficace, e da uno svolgimento delle trame senza intoppi o cedimenti, tale da appassionare chi legge, ho potuto verificare la sua straordinaria creatività, che ha applicato pressoché totalmente al romanzo storico, genere in cui veramente eccelle. E’ stato pertanto una sorpresa l’incontro con Rosso da morire, perché si tratta di un thriller inquietante, ambientato in una località di fantasia del litorale veneto. Devo dire che la cosa mi ha incuriosito, anche perché abituato a leggere tanti polizieschi in cui il protagonista è la chiave di volta del successo, tanto che è sempre quello per ogni autore, nel caso di Rosso da morire non credo che Fiorella Borin sia alla ricerca di un personaggio investigativo da riproporre in altri lavori, mentre sono più che convinto che la finalità del libro sia diretta a rivoltare, come un materasso, una certa società, virtuosa in apparenza, ma corrotta e marcia fino al midollo, in questo caso identificata con certi ambienti imprenditoriali del Nord-Est. Quindi, più che romanzo giallo, seppure lo è, si tratta di un “j’accuse” sicuramente condivisibile. Peraltro la trama poliziesca regge dall’inizio alla fine, l’atmosfera di tensione è ben presente, insomma può essere letto anche come romanzo giallo, però io preferisco l’altro fine che non poteva mancare in una persona seria e sensibile come Fiorella Borin. Non intendo scrivere altro, non voglio rischiare di svelare una vicenda capace di creare un vero pathos; preferisco piuttosto fare alcune considerazioni che si possono così riassumere:

1) L’esordio nel genere giallo è senz’altro positivo;

2) si ritrovano tutte le caratteristiche già apprezzate nei romanzi storici;

3) quindi il libro è sicuramente da leggere, ma, forse sono un inguaribile nostalgico, il mio cuore corre sempre ai romanzi storici e in particolare a quel piccolo gioiello che si intitola I ragazzi del ciliegio, che ho avuto il piacere di rileggere agli inizi dell’anno, un libro che è un grande messaggio di umanità, senz’altro il capolavoro di Fiorella Borin.   

Fiorella Borin, nata a Venezia nel 1955, laureata in psicologia, Fiorella Borin per un breve periodo ha insegnato storia e filosofia negli istituti superiori. Nei primi anni Novanta ha iniziato a proporsi come narratrice, vincendo prestigiosi premi letterari e pubblicando più di trecento novelle e alcuni romanzi storici ambientati nel XVI secolo. Ha collaborato con numerose riviste letterarie e con periodici a diffusione nazionale. Per onorare la memoria del padre, reduce di Russia, ha scritto molti racconti sulla seconda guerra mondiale, alcuni dei quali sono confluiti nel romanzo I ragazzi del ciliegio. 1918-1945 (Solfanelli, 2019).
     Con Alberto Perdisa Editore ha pubblicato nel 2003 La Signora del Tempio nascosto; con Tabula fati Il bosco dell’unicorno (2004), Il pittore merdazzèr (2007), La strega e il robivecchi (2010), La firma del diavolo (2010) e Christe eleison (2011). Con Edizioni Solfanelli ha pubblicato nel 2012 Il pellegrino spagnolo (Premio Thesaurus 2013, Premio Locanda del Doge 2013) e nel 2014 Le voci mute. Nove storie veneziane (Premio Roccamorice 2015). Con Edizioni Cento Autori l’e-book Premiata Ditta Marina & Piccina (2015). Con Edizioni della Sera il romanzo I giorni dello sgomento (Premio Narratori della Sera 2017, Premio La Girandola delle Parole 2019).
     Recentemente ha pubblicato in e-book il breve romanzo di guerra La ragazza del capitano e alcuni lunghi racconti di genere giallo-noir (due dei quali scritti a quattro mani con Rino Casazza) nella collana History Crime di Delos Digital.
     Altri racconti sono inclusi nelle antologie edite da Tabula fati Raccontami l’Abruzzo vol. 2 (a cura di Rita La Rovere), L’Ammidia (a cura di David Ferrante), Fantasie d’Oriente (a cura di Adriana Comaschi), Briganti d’Abruzzo (a cura di Valentino Di Persio), Magare (a cura di David Ferrante), nella rivista "Dimensione Cosmica" n. 7 e nell’antologia Enigmi in camicia nera edita da Torre dei Venti nel 2021.

Renzo Montagnoli

 

 

 

29 Giugno

L' anello forte.

La donna: storie di vita contadina

di Nuto Revelli

Edizioni Einaudi

Saggistica

Pagg. 536

ISBN 9788806238339

Prezzo Euro 15,50

 

La voce delle ultime fra gli ultimi

“ Qui si è incominciato a star meglio nel 1956-1957. Ed a star bene dal 1960, con la grande emigrazione. Uh, tanti sono emigrati, un terzo del paese. Qui nel 1952 c’erano ottomila abitanti, oggi siamo quattromilatrecento. Ecco perché ‘ste ragazze non si sposano più al Nord. Il padre tiene la pensione, la madre anche, e qualche pezzettino di terra. La ragazza custodisce i vecchi, e mangia. Invece prima… (...)Ah, qui la vita è dura per la ragazza che non si sposa. Passati i quarant’anni diventa come un pezzo di legno (…).”

E’ indubbio come Nuto Revelli abbia sempre inteso dar voce ai poveri, agli umili, per portare alla luce la loro condizione che altrimenti potrebbe risultare ai più sconosciuta. Lo ha fatto con La guerra dei poveri, un conflitto visto dal basso, dove tanti poveri diavoli sono mandati al macello e che nello sfacelo di uno stato, minato alle fondamenta dalla vanagloria di pochi, ritrovano dentro di loro le radici della dignità di vivere, di quell’umanità che non è propria di chi li ha sacrificati inutilmente, esseri immondi che li hanno traditi e beffati; ne ha scritto poi con Il mondo dei vinti, vere e proprie testimonianze della vita contadina, una vita che ora non c’è più, un’esistenza misera di autentica sofferenza  in un mondo dolente e pregno d’ignoranza, ma che comunque aveva dei valori oggi sconosciuti, univa persone dove oggi si dividono, trovava nel poco e nel pressoché niente il necessario per vivere.

Con L’anello forte proseguono le interviste di Revelli volte a far emergere un mondo che all’epoca non era proprio solo delle valli del Cuneese, ma di tutta l’Italia che popolava le terre brulle e le montagne, con la differenza che a essere interpellate sono solo le donne, vero punto di unione della società contadina, donne che partoriscono figli, li allevano, assistono i familiari anziani, lavorano in campagna e nella stalla, esseri che nonostante i sacrifici e le privazioni riescono ancora ad avere un po’ di dolcezza e che erano il catalizzatore di ogni famiglia che viveva della terra.

Revelli, con il suo magnetofono, ha raccolto ben duecentosessanta testimonianze, di cui sessanta di donne che provengono dal Meridione e che si sono accasate sposando dei piemontesi. Il tutto è avvenuto negli anni sessanta, quelli famosi del miracolo economico, delle fabbriche che reclamavano gli operai (nel Cuneese avevano piantato le fondamenta aziende come la Michelin e una Ferrero che era ancora ben lungi dal diventare la padrona del cioccolato). La mano d’opera veniva dalle campagne che si spopolavano, interi villaggi diventavano deserti, restavano sulla terra solo anziani e donne, a penare per mettere in tavola la minestra, donne coraggiose, anche se non avevano altra prospettiva che non quella di dissanguarsi per strappare ai campi il minimo necessario per vivere. In pianura c’era un mondo che si urbanizzava, in collina e in montagna ce n’era uno che si spopolava.

Nasce così un cimitero della storia, una Spoon River dei contadini, uno squarcio su un mondo che sta per scomparire, condannato dal fatuo benessere dell’attività industriale.

Le donne diventano delle eroine, il collante di un mondo che ne impedisce la scomparsa, perché la terra è avara, ma le donne sono ancor più avare e non vogliono liberarsi di quella galera che è anche le radici della loro esistenza.

L’anello forte è un capolavoro, è l’unica possibilità di dar voce a chi voce non ha e che nel silenzio, nella fatica di vivere realizza la sua dignità.

Nuto Revelli (Cuneo, 1919-2004), ufficiale degli alpini in Russia e protagonista della Resistenza nel cuneese, si è battuto per anni per dare voce ai dimenticati di sempre: i soldati, i reduci, i contadini delle campagne piú povere. Tra i suoi libri, tutti editi da Einaudi, La guerra dei poveri (1962), La strada del davai (1966 e 2010), Mai tardi (1967 e 2008) , L'ultimo fronte (1971 e 2009) , Il mondo dei vinti(1977), L'anello forte (1985) Il disperso di Marburg (1994 e 2008), Il prete giusto (1998 e 2008), Le due guerre (2003 e 2005). 

Renzo Montagnoli

 

 

 

24 Giugno

Il primo sole dell'estate

di Daniela Raimondi

Editrice Nord

Narrativa

Pagg. 400

ISBN 9788842935414

Prezzo Euro 19,00

Tutto nasce e finisce a Stellata

“Sono nata in un giorno di neve, con le grondaie bianche e gli uccelli fermi sui rami.”
Mi sono detto che se la prima riga del prologo era questa, cioè una fotografia poeticamente intensa di un giorno d’inverno, l’opera non poteva che essere attraente, qualunque fosse stato lo svolgimento di una trama che, pur riallacciandosi al primo libro (La casa sull’argine) ha ambientazione e non pochi personaggi diversi  dalla precedente. Sermide e Stellata infatti appaiono lontane, le ritroviamo solo all’inizio e alla fine, simboli di una circolarità che è testimonianza che tutto nasce e tutto finisce lì, in riva al Po.  C’è un io narrante, Norma, figlia di Guido e di Elsa che rievoca gran parte della sua esistenza, dalla nascita al paese alla rinascita, come potremmo anche definirla, sempre in paese.  Norma assiste all’ospedale la madre, malata terminale per un cancro, e racconta, per lei, per sua mamma e ovviamente anche per noi la sua vita, certamente non poco movimentata e combattuta fra un grande amore e una delusione altrettanto grande. Il palcoscenico degli eventi non è più Stellata, ma Londra e per un breve periodo anche il Brasile, eppure non viene mai meno in sottofondo, fra il  turbinio degli eventi, quell’inconsapevole desiderio di poter trovar rifugio nelle proprie radici. Non si tratta del “buen retiro” pronto ad accogliere chi desidera un po’ di pace e tranquillità dopo una lungo periodo di lavoro, ma è la culla dove sono nati e cresciuti i Casadio e in cui continueranno assai probabilmente ad affacciarsi al mondo, magari solo facendo una visita al cimitero dove riposano gli avi.

Il romanzo, con la sua ambientazione in una metropoli, con le diverse caratteristiche di vita inglese può sembrare di primo acchito completamente avulso dalla saga dei Casadio, ma non è così e a tratti riappaiono, magari in una figlia, le caratteristiche somatiche di Viola Toska, la zingara che sposando Giacomo Casadio ha innestato nella discendenza una presenza esotica e in alcuni casi anche magica grazie alla quale Neve, la nonna di Donata, quando rideva spargeva intorno un profumo assai dolce che richiamava frotte di api; non si devono poi dimenticare le capacità divinatorie proprie dei gitani che esprimeva ricorrendo ai tarocchi, caratteristica che si ritrova solo nelle donne di famiglia e non in tutte.

La narrazione di Norma prosegue fino all’ultimo respiro della madre, una donna con cui è sempre stata in conflitto, a cui la figlia ha attribuito un egoismo intimo, giudizio aggravato dal tradimento con il fratello del marito. E di amori andati a male, di passioni violente e sfrenate il libro abbonda; del resto anche in ciò si vede il sangue gitano di Viola, ma se l’infelicità sembra trovare fertile terreno in altri lidi, che siano l’Inghilterra o il Brasile poco importa, poi tutto si aggiusta, magari con l’aiuto del tempo, che trascorre implacabile, in riva a quel Po che scorre lento verso la foce e che sembra portare via con sé gli attriti, le delusioni, i sogni infranti di chi è lì ritornato per ridare un senso alla propria vita.

Se La casa sull’argine è molto bello, Il primo sole dell’estate è addirittura superiore, è una grande prova di maturità letteraria di Daniela Raimondi.

Daniela Raimondi è nata in provincia di Mantova e ha trascorso la maggior parte della sua vita in Inghilterra. Ora si divide tra Londra e la Sardegna.
Ha pubblicato dieci libri di poesia che hanno ottenuto importanti riconoscimenti nazionali. Suoi racconti sono presenti in antologie e riviste letterarie. La casa sull’argine, edito da Nord, e uscito nel 2020 è stato il suo primo romanzo e nel 2023 è uscito, sempre per i tipi della Nord, Il primo sole dell’estate.

Renzo Montagnoli

 

 

 

18 Giugno

Mussolini racconta Mussolini

a cura di Mimmo Franzinelli

Laterza Editori

Storia autobiografia

Pagg. 336

ISBN 9788858150733

Prezzo Euro 20,00

 

Chi era Benito Mussolini

Mimmo Franzinelli ha curato questa specie di antologia, scegliendo con cura le lettere, i discorsi pubblici, le trascrizioni delle telefonate, i diari, insomma tutto ciò che Mussolini ha espresso nella sua vita; opportunamente, poi, c’è un’introduzione dello stesso storico, che tende a spiegare la correlazione che esiste fra i fatti storici e quanto riportato con le parole del duce, a cominciare dai diari che cominciò a scrivere addirittura nel 1911. Devo dire che mi ha colpito l’italiano di buona levatura, ben curato anche, circostanza che tuttavia era da aspettarsi, attesa l’importanza che il duce dava alla parola, tanto che si può dire che il suo ventennio vide tante parole, ma pochi fatti. Inoltre, il libro, riporta una chicca e precisamente il risultato dei dialoghi fra Mussolini e il giornalista tedesco Emil Ludwig, che volle descrivere la vita di un dittatore in pubblico e in privato. Per quanto poi concerne la perdita di potere intervenuta con la famosa riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943 vengono riportate le frequenti lettere indirizzate all’amante Claretta Petacci e in ordine alla prigionia che subì nell’agosto dello stesso anno ci sono le sue riflessioni. Per finire viene pubblicato il famoso discorso, l’ultimo, pronunciato al Teatro Lirico di Milano il 16 dicembre 1944.

Dal tutto ne scaturisce una particolare autobiografia che potrebbe anche costituire la testimonianza storica più veritiera di un ventennio, ma non è così, perché l’uomo Mussolini è fondamentalmente un bugiardo che tende a nascondere i propri errori o attribuirli ad altri, e a ingigantire i propri meriti, inventandosi risultati mai raggiunti, cioè una vera e continua falsificazione della realtà. Forse il Mussolini più sincero è quello della Repubblica Sociale Italiana, pur considerando la strenua difesa del suo operato e le giustificazioni, sovente campate in aria, delle sue decisioni precedenti.

Per spiegare meglio chi fosse Mussolini mi permetto di riportate alcuni estratti del volume partendo da come ebbe a descrivere con Emil Ludwig i rapporti di un dittatore con il suo popolo.

Un dittatore può essere amato. Quando la massa nello stesso tempo lo teme. La massa ama gli uomini forti. La massa è donna. Non esiste alcuna influenza di donne sugli uomini forti. La massa per me non è altro che un gregge di pecore finché non è organizzata. Non le sono affatto ostile. Soltanto nego che possa governarsi da sola. Ma se la si conduce, bisogna reggerla con due redini: entusiasmo e interesse. Chi si serve solo di uno dei due corre pericolo. Il lato mistico e il politico si condizionano l’un l’altro. L’uno senza l’altro è arido, questo senza quello si disperde nel vento delle bandiere.”

Tuttavia, il Mussolini più veritiero è quello della sconfitta definitiva, cioè di quando comprende che per lui è finita e c’è una sorta di rassegnazione, quasi che con le sue parole intendesse chiedere compassione, come in una lettera dell’aprile del 1945 “ Io oramai considero la mia vita finita e il mio ciclo chiuso. Non ho più né speranze né illusioni, e le parole – faticose- non consolano. Tutto è finito per me, così come per tutti quelli che donano senza raccogliere nulla.” Tranne l’ultimo periodo, che costituisce un’estrema e inutile difesa, c’è tutta l’amara considerazione di una sconfitta definitiva e senza speranza.

Con questa lettura ho potuto rafforzare la mio opinione su Benito Mussolini, un uomo che in altre circostanze non sarebbe stato diverso, ma che di sicuro non avrebbe potuto portare un paese alla rovina, proprio perché sotto l’aspetto psicologico alternava momenti di euforia ad altri di depressione, alla violenza delle parole e dei toni seguivano minuti di silenzio in cui mostrava con la mimica facciale un vivo compiacimento, insomma era affetto da una malattia ciclotimica, rientrante fra i disturbi bipolari, non disgiunta dal suo desiderio sessuale che non è un’esagerazione definire sfrenato. Si può quindi ben comprendere come un simile individuo fosse inadatto a intraprendere qualsiasi impresa e a maggior ragione a governare un paese.

A Mimmo Franzinelli non si può che dire bravo per la realizzazione di questo libro che mostra inequivocabilmente chi fosse Benito Mussolini.

Mimmo Franzinelli (Cedegolo, 1954) studioso del fascismo e dell’Italia repubblicana, componente del comitato scientifico dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione "Ferruccio Pari", è autore di numerosi libri, fra cui: per Bollati Boringhieri, I tentacoli dell’Ovra (1999, premio Viareggio 2000), Rock & servizi segreti (2010) e Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia (2011); per Mondadori, L’amnistia Togliatti (2006), Il delitto Rosselli (2007), Beneduce. Il finanziere di Mussolini, con Marco Magnani (2009), Il Piano Solo (2010), Il prigioniero di Salò (2012), Tortura (2018); per Rizzoli, La sottile linea nera (2008). Con Feltrinelli ha pubblicato: La Provincia e l’Impero. Il giudizio americano sull’Italia di Berlusconi, con Alessandro Giacone (2011), Delatori. Spie e confidenti anonimi: l’arma segreta del regime fascista (UE 2012), Il Giro d'Italia. Dai pionieri agli anni d'oro (Feltrinelli, 2013), – per gli Annali della Fondazione Feltrinelli – Il riformismo alla prova. Il primo governo Moro nei documenti e nelle parole dei protagonisti (ottobre 1963-agosto 1964), con Alessandro Giacone (2013) e Fascismo anno zero (Mondadori 2019).

Renzo Montagnoli

 

 

 

11 Giugno

Briciole

di Manola Di Tullio

Presentazione di Giulio Biagi

Edizioni Tabula Fati

Poesia

Pagg. 80

ISBN 9791259881793

Prezzo Euro 10,00

 

Approccio soddisfacente

Leggo nella biobibliografia che Manola Di Tullio ha pubblicato esclusivamente racconti, in parte editi ”a solo”, in parte in raccolte antologiche con altri autori.  Questo dato è importante per sapere se sia la prima volta che ha dato alle stampe delle poesie e se è la prima volta, come dai dati sembrerebbe, ci troviamo di fronte a un esordio, da esaminare con maggiore attenzione e anche con più comprensione. Ciò premesso, questa silloge, dall’accattivante titolo “Briciole”, presenta caratteristiche di eterogeneità, nel senso che i temi svolti sono plurimi, il che può essere un elemento che dovrebbe aiutare nell’effettuare questa prima valutazione. Si va infatti da liriche in cui prevale l’aspetto emotivo a quelle che sono pacate e a volte amare riflessioni sugli aspetti dell’esistenza. E’ così che ci imbattiamo in versi come questi: “C’è una lunga strada dai tuoi occhi al cielo. / Fremito e lucore.  / Bolle di parole evanescenti / lasciano tracce di emozioni / e corrono / dal cuore all’infinito e oltre”; ma anche come questi: “Son finite le parole , / slittate sull’asfalto / frenate dalla noia. / Ingoiate, bloccate, ignorate / mai dette, mai pensate, mai nate.”.

Eterogeneità, ho scritto all’inizio, e trova puntuale conferma, come se i versi fossero frutto – e probabilmente lo sono – di sensazioni ed emozioni nate in epoche diverse, non ricercate, totalmente spontanee. Questo per quanto concerne i contenuti, ma per quanto riguarda la forma, la struttura, cosa si può dire? Credo che volutamente non ci sia la ricerca della semplicità di espressione, ma le poesie, senza arrivare a essere del tutto criptiche, non sono immediatamente comprensibili, e questo è anche un bene, perché così il lettore è costretto a soffermarsi per le opportune riflessioni. C’è anche una ricerca degli effetti per così dire speciali: “Ho visto nascere il vetro. / Sabbia, fuoco, meraviglia. / Disordine che splende  / incurante degli ordini perfetti.”. Poche parole ed ecco come si fa il vetro e io mi sarei fermato a “meraviglia”, perché i due versi successivi, per quanto ne comprenda il significato, sembrano appesi alla struttura. E a proposito della struttura, qui mi sembra che la poetessa debba lavorare un po’, perché è sovente disomogenea, con un ritmo disuguale e in pratica poco armonica. Niente comunque di irrimediabile, tanto che sono convinto che con un po’ più di applicazione e l’acquisizione di una maggior  esperienza anche questo importante aspetto dovrebbe diventare ottimale.

Secondo la mia opinione, in questa raccolta ci sono quindi elementi positivi, per i contenuti, mentre ci sono aspetti che sono senz’altro da migliorare, compito che ritengo assolutamente non improbo .

Quindi la strada intrapresa sembra già soddisfacente in questo primo percorso, sta all’autore renderla migliore nei giorni a venire.

Manola Di Tullio è nata a Pescara nel 1972. Vive e lavora a Montesilvano come assistente amministrativo in un istituto comprensivo. La scrittura è per lei una cura per l’anima. Ha pubblicato tre racconti brevi per NarrAgenda (Delmiglio Editore, Verona) e una “dedica” nella raccolta Cronache di un tempo senza tempo (Tabula fati, Chieti 2020). Ha partecipato con racconti alle antologie a cura di Silva Ganzitti Metti un pomeriggio d’estate agli Stati Generali (Tabula fati, Chieti 2021) e Metti un pomeriggio d’estate agli Stati Generali 2 (Tabula fati, Chieti 2023).

Renzo Montagnoli

 

 

 

5 Giugno

Ora che tutto mi appare più chiaro

di Giuseppe Carlo Airaghi

puntoacapo Editrice

Poesia

Pagg. 112

ISBN 9788866793823

Prezzo Euro 15,00

Studi stilistici

Quando ho occasione di leggere le opere che un autore via via propone ho anche l’opportunità di verificare come si evolve lo stile e così è capitato anche con Giuseppe Carlo Airaghi, un poeta che ho incontrato con una silloge, edita da Fara, dal titolo Quello che ancora restava da dire. E’ stata una piacevole scoperta anche perché come ho evidenziato nella mia recensione si tratta di un’opera che di primo acchito instaura con il lettore un filo di empatia, frutto, soprattutto, al di là del valore intrinseco delle poesie, della pressoché immediata comprensione, circostanza non frequente oggi specialmente quando il contenuto è particolarmente profondo. Successivamente mi ha incantato il Monologo dell’angelo caduto, una raccolta ben diversa dalla precedente, perché in questo poemetto c’è un’evidente ricerca di un nuovo percorso espressivo che sia in grado di andare ben oltre l’esternazione del proprio “io”.  Con Ora che tutto mi appare più chiaro c’è un ulteriore passaggio stilistico, peraltro a fronte di una eterogeneità dei temi svolti. In particolare ho riscontrato una ricerca visiva schematica volta a creare atmosfere e a esprimere riflessioni, come appare evidente nel Capitolo intestato Notti periferiche, laddove con i simboli di certe metropoli si evidenzia un’insoddisfazione esistenziale a cui fa riscontro, come palcoscenico, un degrado sociale (Al margine della lista delle immagini / appuntate per descrivere la notte / c’è una pozzanghera / folgorata dall’insegna di un bar / dove si inscenano / modesti calvari paesani, /…). E’ una tematica che ho notato nelle sue precedenti produzioni, ma che qui è esposta in modo capace di rendere tangibili determinate sensazioni. Dove però c’è un effettivo stravolgimento, più che stilistico concettuale, è con Autobiografia apocrifa. A tratti, come a creare un habitat poetico, c’è un certo afflato pascoliano, non fine a se stesso, ma ben raccolto e inserito in un discorso di cui la natura, nelle sue interazioni, è la vera protagonista ( Nel cortile lievita una parete / verde di gelsomino. Piantata / la primavera in cui di comune accordo  / decidemmo di sfidare la sorte. / Ospitò in estate un nido di merli, / incauti. I gatti di casa / non gli lasciarono scampo. /….) E c’è chiara ed evidente una corrispondenza fra paesaggio e sensazioni, come per esempio in Una nevicata annunciata (Sotto una nevicata annunciata / da un’avanguardia di luce e di gelo / cammino lungo il percorso pedonale / dove d’estate seccano al sole i fichi non colti / e le merde dei cani. / Calzo scarpe inadeguate. / Mi gela il freddo dei bambini /a cui piace il freddo sulla faccia, / il suono dei passi in frantumi, / e lacrime di vento sul bordo degli occhi. /….). Questa affinità fra natura, che come sappiamo non ha coscienza, e sensazioni è riscontrabile anche nel capitolo L’estate perenne, e quasi a sottolineare questa connessione vi è anche addirittura un’Elegia (All’ora di cena cominciavamo a bere. / Oltre la cornice della finestra / tutto il disordine della stanza / si manteneva a malapena in equilibrio / sopra i rami spogli del pino marittimo in giardino. /…).

Considerato l’esito positivo di Monologo dell’angelo caduto, Airaghi si deve essere chiesto perché non replicare, non tanto gli angeli, ma i monologhi, ed ecco allora i Monologhi di scena, niente di eclatante in verità, ma comunque un utile esercizio che probabilmente è venuto prima di quello ben più valido dell’angelo caduto.

Mi piacerebbe dire altro, soprattutto cenni su quei capitoli che non ho qui citato, ma ahimè il tempo è tiranno ed è necessario pertanto che arrivi a una conclusione.

Come già scritto c’è stata una variazione dello stile, più che altro un affinamento e anche una ispirazione che talora è frutto di studi pascoliani, talaltra, più moderna, ma meno frequente e ironica, ricorda per certi aspetti Bukoski, più presente questa, a mio avviso, in passato. In ogni caso, l’impressione che ho ritratto da questa raccolta è che per Airaghi  il poeta è sempre schiavo di se stesso, incapace di trovare una nota lieta dell’esistenza, vista invece come un progressivo sprofondamento nel nulla, come a dire che se dal nulla veniamo, nulla siamo e nulla diventiamo. 

In parte sono d’accordo, in parte no, perché nel mondo l’unico essere pensante è l’uomo e sta a lui cercare e trovare un senso della vita. Ciò nonostante, credo  che nei versi di questa raccolta sussista uno spiraglio per una salvezza dell’essere umano, perché altrimenti non si spiegherebbero i riferimenti, altamente espressivi, alla natura.

Da leggere.

Giuseppe Carlo Airaghi è nato e vive in provincia di Milano. Ha pubblicato le raccolte di poesia Quello che ancora restava da dire (Fara Editore, 2020), La somma imperfetta delle parti (Ladolfi Editore, 2021), il poemetto Monologo dell’angelo caduto (Fara Editore, 2022) e il romanzo I sorrisi fraintesi dei ballerini (Fara Editore, 2021). È stato finalista o vincitore dei concorsi letterari “Lorenzo Montano”, “Europa in versi”, “Terre di Virgilio”, “Città di Monza”, “Poesia a Napoli”, “Versante ripido”, “Città di Arcore”, “Prestigiacomo” e “Lago Gerundo”.
Renzo Montagnoli

 

 

31 Maggio

La strada del davai

di Nuto Revelli

Edizioni Einaudi

Storia

Pagg. 593

ISBN 9788806243715

Prezzo Euro 18,00

 

I racconti degli ex internati in Russia

Nel corso della seconda guerra mondiale la nostra spedizione in Russia a fianco dell’alleato tedesco si concluse tragicamente con una ritirata; in mezzo alla neve e a un freddo polare i nostri soldati patirono le pene dell’inferno e tanti morirono lungo il tragitto, mentre pochi riuscirono a ritornare a casa; altri, catturati dai russi, iniziarono invece un percorso di immani sofferenze che ne falcidiò una buona parte e solo un numero veramente esiguo poté tornare in patria nei mesi successivi alla fine del conflitto.

Nuto Revelli, che visse l’esperienza della ritirata riuscendo a tornare a casa per poi diventare partigiano dopo l’8 settembre del 1943 e che della sua esperienza scrisse un diario (Mai tardi) volle dar voce ai superstiti dei gulag sovietici, intervistandone tanti e riunendo queste testimonianze in questo libro, La strada del davai, dove “davai” vuol dire vai avanti ed era ciò che le guardie russe gridavano agli italiani prigionieri che in lunghe marce forzate cercavano di arrivare alle stazione dove li attendevano i treni per portarli nei campi di concentramento in Siberia.

Ci sono pertanto tante storie quanti sono gli intervistati e nella sostanza si assomigliano un po’ tutte, visto il comune destino; quel che varia però sono i singoli accadimenti e il modo di vedere quanto accaduto da parte degli interessati.

Si tratta di voci che parlano di fame, di membra congelate, di corpi trascinati nella neve, di morti lasciati lungo il cammino, di tanti che decedevano ogni giorni nei carri bestiame che portavano i prigionieri ai gulag. Quindi ciò che sostanzialmente fa la differenza è il punto di vista di questi attori loro malgrado; tutti però concordano sulla straordinaria disponibilità del popolo russo, sempre pronto ad aiutare i nostri e sull’assenza di malvagità delle guardie dei campi di concentramento, circostanze non da poco visto che noi eravamo i nemici.

Per completare le testimonianze della tragica ritirata c’è nel volume una seconda e ultima parte, più contenuta, dedicata a quelli che, come l’autore, sono riusciti a uscire dalla sacca in cui erano stati rinchiusi dalle truppe sovietiche. Benché si possa parlare di fortunati, anche per loro si è trattato di un’esperienza devastante, di cui porteranno il segno tutta la vita.

Il lavoro di Revelli non deve essere stato proprio facile, perché si è trattato di collazionare i risultati di tante interviste, ma per ognuna quel narrare della propria esperienza in prima persona finisce con il coinvolgere il lettore che ritrae l’impressione di avere davanti il narratore, arrivando in alcuni casi a percepire quella sofferenza che ancora riemerge a distanza di diversi anni e che non è solo per quella patita direttamente, ma anche per gli amici, per i tanti che non ce l’hanno fatta e sono rimasti sepolti in terra russa.

Imperdibile.

Nuto Revelli (Cuneo, 1919-2004), ufficiale degli alpini in Russia e protagonista della Resistenza nel cuneese, si è battuto per anni per dare voce ai dimenticati di sempre: i soldati, i reduci, i contadini delle campagne piú povere. Tra i suoi libri, tutti editi da Einaudi, La guerra dei poveri (1962), La strada del davai (1966 e 2010), Mai tardi (1967 e 2008) , L'ultimo fronte (1971 e 2009) , Il mondo dei vinti(1977), L'anello forte (1985) Il disperso di Marburg (1994 e 2008), Il prete giusto (1998 e 2008), Le due guerre (2003 e 2005)

Renzo Montagnoli

 

 

 

 

25 Maggio

Letizia Bonaparte.

Vita, potere e tragedia della madre di Napoleone

di Edgarda Ferri

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Biografia

Pagg. 318

ISBN 9788804520719

Prezzo Euro 14,96

 

La matriarca

Che Napoleone Bonaparte sia stato un personaggio storico di grande interesse è testimoniato dalle numero biografie che lo riguardano; meno scontata è l’attenzione per sua madre, Maria Letizia Ramolino, conosciuta anche come Madame Mère, in quanto genitrice dell’imperatore dei francesi. Scrivere della sua vita, soprattutto di quella condotta dopo la caduta del figlio e il suo esilio a Sant’Elena potrebbe sembrare di scarsa rilevanza, e invece non lo è, e la prova è data da questa sua biografia, uscita dall’abile penna di Edgarda Ferri. Ne scaturisce la figura di una matriarca, una donna dal polso fermo che ama indubbiamente i figli, soprattutto Napoleone, ma che cerca di plasmarli alle sue caratteristiche di persona devota, benché non indulgente, ferma e incrollabile nei suoi propositi. Era nata ad Ajaccio il 24 agosto 1750, allorché la Corsica era parte della Repubblica di Genova; di famiglia nobile convolò a nozze all’età di 14 anni – era incinta – con Carlo Maria Buonaparte, più vecchio di lei di 4 anni. I due ebbero dodici figli, due dei quali nati morti e altri due deceduti in giovanissima età, restando così in vita Giuseppe, Luciano, Luigi, Girolamo, Elisa, Paolina, Carolina e Napoleone, il futuro imperatore dei francesi. Il libro, molto opportunamente, tralascia il periodo dell’ascesa da Generale a Primo Console e poi a Imperatore di Napoleone e, ovviamente con riferimento al tema, quegli anni vissuti da Maria Letizia, sia perché si sarebbe corso il rischio di scrivere un’opera mastodontica, sia perché il personaggio della madre assume particolare importanza nei suoi sforzi per liberare o rivedere i figlio, segregato a Sant’Elena dagli inglesi.  Però l’ex imperatore è tenuto in costrizione nell’isola atlantica dal 1815 al 1821, anno della sua morte, ed è proprio questo lasso di tempo che porta alla ribalta la figura e l’opera della Ramolino. Si batterà come una leonessa, bacchettando gli altri figli, i quali nella disgrazia generale pensano più a se stessi che a quel fratello artefice prima delle loro fortune e poi della loro caduta. Tutto il denaro, sia quello in contanti che le aveva lasciato il figlio, sia quello derivante dalla vendita di beni mobili e immobili viene speso con il solo scopo di avere notizie da Sant’Elena e con la speranza, che si affievolisce di anno in anno, di ottenerne la liberazione, magari con un colpo di mano. In questi sei anni le vicende di Letizia e del figlio procedono di pari passo ed è di particolare interesse l’ultimo scorcio di vita dell’imperatore, in pratica un prigioniero anche se all’apparenza ancora riverito, con la dignità che gli resta degli anni felici che acuisce però ancor più il disagio proprio di chi non ha più potere. Alle speranze e alle illusioni di Madame Mére si contrappongono la volontà degli inglesi di isolarlo per sempre e il male in crescendo che lo porterà alla morte (probabilmente un tumore) il 5 maggio 1821. Sua madre tuttavia gli sopravviverà di altri quindici anni, quindici anni a cui Edgarda Ferri dedica quasi metà del libro.  Cosa accadde in quel periodo per meritare così tanta attenzione?

Un buon numero di pagine è costituito dalle testimonianze di coloro che erano presenti a Sant’Elena e che in lettere inviate a Madame Mère e ad altri familiari stretti di Napoleone descrivono gli ultimi giorni di vita dell’imperatore e la sua dipartita da questo mondo.

Poi, pur non venendo meno  il dolore per la scomparsa di quel figlio che non ha potuto vedere nemmeno da morto, le sensazioni si affievoliscono, subentra una rassegnazione che è anche propria della tarda età, si ingenera una generale sfiducia che porta Letizia a perdere poco a poco la figura di matriarca e oltre ai primi malanni (la cecità) e incidenti della vecchiaia (cade lungo una scalinata rompendosi il femore) si accentuano i dispiaceri per quei familiari così diversi da Napoleone, spendaccioni, pieni di debiti, incapaci di essere perfino l’ombra dell’augusto fratello, ed ecco, come se non bastasse questo quadro desolante, che cominciano i lutti, con strane e improvvise morti. Sembra quasi che una maledizione sia calata su quella famiglia da quel fatale 18 giugno 1815 allorché a Waterloo l’armata francese subì una sconfitta che non fu solo di una battaglia, ma che chiuse una guerra e consacrò un definitivo regolamento di conti con Napoleone. Si potrebbe dire che ormai la vita di Letizia procede stancamente verso la soglia finale, impietrita di fronte alla tragedia familiare. E’ una lunga serie di lutti e così muoiono i nipoti, ma soprattutto dopo una breve vita minata dalla tubercolosi viene a mancare il Re di Roma, Napoleoni Francesco Giuseppe Carlo, il figlio del grande imperatore e di Maria Luisa d’Austria. E’ il 22 luglio 1832 quando il giovane Franz (così era stato chiamato alla corte austriaca) chiude gli occhi per sempre a Vienna, un colpo micidiale per Letizia che sperava sempre di vederlo, illudendosi anche che potesse seguire le gesta del padre, ritornando sul trono in Francia.

Dopo gli anni sono di attesa per il passo fatale e Letizia, ormai ridotta a un lumicino dalla tremula fiamma, si spegne in silenzio, con i parenti lontani, il 2 febbraio 1836. Il suo corpo viene sepolto a Corneto (Tarquinia) nella chiesa delle monache passioniste  e da lì nel 1851 sarà traslato nella cripta della cappella imperiale di Ajaccio, fatta costruire da Luigi Napoleone, figlio di Luigi Bonaparte e Ortensia de Beauharnais, diventato imperatore dei francesi con il nome di Napoleone III.

Edgarda Ferri con questa biografia si è superata, perché, sempre brava come in altre occasioni, ha saputo tenere ben distinti i tanti personaggi, dando vita a una narrazione che avvince dalla prima all’ultima pagina. Personalmente ritengo che sia la sua opera migliore fra quelle sue che ho letto, un autentico capolavoro la cui lettura è senz’altro raccomandata.

Edgarda Ferri è nata a Mantova e vive e lavora a Milano. Scrittrice, saggista, giornalista ha esordito nel 1982 con Dov’era il padre, un romanzo che rimane tuttora un ritratto fondamentale e un punto di riferimento per un’intera generazione. Ha pubblicato inoltre, Contro il padre (1983), La tentazione di credere (1985), Il perdono e la memoria (1988), Luigi Gonzaga (1991), Quello che resta di Cristo dopo 2000 anni (1996) e, per Mondadori, Maria Teresa (1994), Giovanna la Pazza (1996), Io, Caterina (1997), Per amore (1998), L'ebrea errante (2000), Piero della Francesca (2001), La grancontessa (Le Scie, 2002), Letizia Bonaparte (2003), L'alba che aspettavamo (2005), Il sogno del principe (2006), Rodolfo II (2007), Uno dei tanti (2009).

Renzo Montagnoli

 

 

19 Maggio

The green eye of the fields – L’occhio verde dei prati

di Donatella Nardin

Fara Editore

Poesia

Pagg. 144

ISBN 978-88-9293-031-5

Prezzo Euro 13,00

La sacralità della natura

Donatella Nardin sembra avere una particolare passione per la natura e per le interazioni fra la stessa e gli esseri umani; ho potuto notare questa sua attitudine con le precedenti sillogi Terre d’acqua e Rosa del battito. Non è quindi per nulla strano la riproposizione di questa tematica con la nuova raccolta L’occhio verde dei prati il cui titolo è già di per sé molto esplicativo ed è quello della poesia iniziale (L’occhio verde dei prati, risvegliato, / fa nido bevendo la nuda / chiarità del mattino / come le vite care appese alle finestre /

del loro infinito mancare, / come il biondosole, amore riverso / tra le scapole azzurre rotte / da assenze, commiati, afasie. /…). Peraltro, proprio da questi versi emerge un elemento nuovo, lo stile che cerca di rompere con il passato per giungere a un linguaggio espressivo più immediato, ricorrendo a termini più ricercati, come nel caso di “chiarità” che ben esprime la trasparenza e la luminosità  dell’aria, o addirittura ne conia di nuovi, unendo un sostantivo a un aggettivo, “il biondosole”, sempre con lo scopo di trasmettere con più efficacia il messaggio insito nella lirica.

In quest’ottica, nella costante immersione della natura che ci circonda, la poetessa giunge a proporre un caleidoscopio di colori, che vanno dal giallo  di Una granita al limone all’azzurro del cielo di Per un attimo almeno. Sarei però molto incompleto se mi limitassi a evidenziare questa immersione della natura e se non parlassi anche delle sempre presenti interazioni con la stessa, degli stati d’animo esposti con visioni di ciò che ci circonda, come nel caso di Il nettare biondo (Piovvero allora diafane / lacerazioni sui volti / inerti, sottili. / Fu un avvinghiare di nuvole / dall’amaro risvolto / quel non essere presenti / alla vita, spillare a fatica / dai succhi sapienti il nettare / biondo per poi misurarne / l’audacia. / Orgoglio di malcelata / mestizia, fu un deporsi / sul fianco abbacinato del poco / il patire tacendo per anni / e anni e secoli ancora.) Come dice bene Carla De Angelis nella sua prefazione si ritrova in questi versi, ma anche in tutti quelli della raccolta, la sacralità della natura, la grande madre di noi tutti che spesso dimentichiamo e consideriamo serva dei nostri voleri e piaceri.

Questo concetto, che sta prendendo piede e che è un ritorno a considerarci non al di sopra, ma parte della natura stessa, mi consola, perché l’uomo sta piano piano ritrovando il suo ruolo nel caos perfetto della creazione e in quanto tale ricomincia ad apprezzare nel giusto modo il piacere di vivere.

Da un senso della vita puramente materiale ed edonistico che caratterizza la nostra società si passa così nella poesia di Donatella Nardin a una visione trascendente, a un’Arcadia contemporanea di un mondo in cui la natura, che a noi sembra diventata nemica, è invece il catalizzatore indispensabile per una nostra redenzione, per un ritorno a quei valori e a quei sentimenti che la pura materialità non ha cancellato, ma solo celato.

La poetessa conferma quindi ancora una volta, e in modo ancor più esplicito, la sua visione della vita, il senso da dare alla stessa, quelle sensazioni ed emozioni che riusciamo a cogliere in noi solo se siamo in grado di comprendere  che il mondo non siamo noi, ma che noi siamo parte del mondo.

Da leggere, indubbiamente.

Donatella Nardin è nata e risiede a Cavallino Treporti (VE). Dopo gli studi classici, ha lavorato nel settore turistico. Sue poesie e racconti, premiati in numerosi concorsi letterari, sono stati inseriti in antologie di diverse case editrici (LietoColle, Empiria, La Vita Felice, Puntoacapo, Terre d’ulivi…), in alcune riviste anche straniere, in siti web e lit-blog. Alcune sue liriche sono state tradotte in inglese, francese e giapponese. In poesia ha pubblicato: con Il Fiorino la silloge In attesa di cielo e la raccolta di haiku Le ragioni dell’oro; con Fara Terre d’acqua Rosa del battito. Sue sillogi sono state di recente premiate e inserite nei volumi: L’altra metà del cielo Ibiskos Ulivieri 2021), Distanze obliterate (Puntoacapo 2021) e Premio di Poesia Città di Mestre 2022 (Mazzanti Libri). In uscita la raccolta poetica Il dono e la cura (Aletti Ed.) con versione in arabo di Hafez Haidar.

Renzo Montagnoli

 

 

 

14 Maggio

Le stragi nascoste.

L'armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001

di Mimmo Franzinelli

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia

Pagg. 418

ISBN 9788804519744

Prezzo Euro 11,50

 

Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato

Nel corso della seconda guerra mondiale l’occupazione del suolo italico da parte dei tedeschi diede luogo a un sistema di terrore analogo a quello che in Europa caratterizzava la presenza delle truppe naziste. In Italia però non c’erano solo i soldati del Reich a compiere atrocità, ma purtroppo altri italiani si macchiarono di analoghi reati e mi riferisco ai membri, a diverso titolo e livello, della Repubblica Sociale Italiana. Per quanto possa sembrar strano, finita la guerra i responsabili di tante efferatezze non pagarono, nel senso che le condanne furono veramente poche, pochissime quelle alla reclusione, ancor meno quelle a morte. In particolare, oltre a un occhio di riguardo di parte della magistratura di nomina fascista, ci pensò anche l’amnistia di Togliatti a dare una mano a questi criminali, ma peggio ancora fu l’insabbiamento di ben 695 fascicoli processuali sui crimini di guerra nazi-fascisti, che in pratica scomparvero dalla Procura generale militare, per poi essere ritrovati nel 1994 in un armadio situato in uno sgabuzzino con le ante appoggiate al muro. Lì c’erano notizie su eccidi, omicidi, saccheggi, con testimonianze e perfino con i nomi dei colpevoli da rinviare a giudizio. Una simile mole di materiale, volutamente occultata, diede la prova che la rappresaglia era una vera e propria tattica terroristica preventiva e che quindi non avveniva, salvo rari casi, come una naturale, seppure esagerata reazione alle azioni dei partigiani.

Il libro di Franzinelli parla organicamente di questi anni di terrore, ma anche di quelli, in cui finito il terrore, si sarebbe dovuto vedere la punizione dei colpevoli, ma invece non fu cosi per diversi motivi, che l’autore evidenzia, e che rappresentano un’ulteriore vergogna per l’Italia. 

L’opera è veramente completa ed è articolata secondo un filo logico che si estrinseca in un’ampia trattazione degli eccidi e delle violenze contro la popolazione, per passare poi al periodo inquisitorio immediatamente successivo al 25 aprile 1945, con i processi cosiddetti scomodi, indi per arrivare all’apertura del famoso armadio, con tutti gli scheletri che conteneva, lasciando un’ultima parte ai conti con il passato, purtroppo pochi e incompleti. Come sempre il tutto è corredato da una notevole e precisa documentazione, l’indispensabile per uno storico che scrive sulla base di fatti comprovati e non su voci raccolte qua e là.

Per concludere la mancata punizione dei criminali sia nazisti che fascisti è ancor più vergognosa dell’armadio della vergogna e fa venire in mente la famosa locuzione chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, come se l’impossibilità di far tornare in vita le vittime di tanta crudeltà potesse chiudere la questione, la cui mancata risoluzione comporta per il nostro popolo, stante l’incapacità di fare i conti con il passato, la possibilità che lo stesso ritorni, con tutte le sue nefaste conseguenze.

Mimmo Franzinelli (Cedegolo, 1954) studioso del fascismo e dell´Italia repubblicana, componente del comitato scientifico dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione "Ferruccio Pari", è autore di numerosi libri, fra cui: per Bollati Boringhieri, I tentacoli dell´Ovra (1999, premio Viareggio 2000), Rock & servizi segreti (2010) e Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia (2011); per Mondadori, L´amnistia Togliatti (2006), Il delitto Rosselli (2007), Beneduce. Il finanziere di Mussolini, con Marco Magnani (2009), Il Piano Solo (2010), Il prigioniero di Salò (2012), Tortura (2018); per Rizzoli, La sottile linea nera (2008). Con Feltrinelli ha pubblicato: La Provincia e l´Impero. Il giudizio americano sull´Italia di Berlusconi, con Alessandro Giacone (2011), Delatori. Spie e confidenti anonimi: l´arma segreta del regime fascista (UE 2012), Il Giro d'Italia. Dai pionieri agli anni d'oro (Feltrinelli, 2013), - per gli Annali della Fondazione Feltrinelli - Il riformismo alla prova. Il primo governo Moro nei documenti e nelle parole dei protagonisti (ottobre 1963-agosto 1964), con Alessandro Giacone (2013) e Fascismo anno zero (Mondadori 2019). 

Renzo Montagnoli
 

 

 

11 Maggio

                                      

Scarabocchi d’inchiostro, di Vincenzo Patierno
edito Montecarlo edizioni
Recensione di Bernardini Ciro   

Non gli resta che la penna a Vincenzo Patierno per aprirsi, riempendo d’inchiostro fogli bianchi, firma del suo vissuto.
Sembra che la scrittura sia una sua necessità, come lo è per tutti coloro che hanno questa passione
del resto, forse per tirare fuori il suo lato che non sa far conoscere tramite la voce e gli atteggiamenti;
un indole sensibile celata dietro una muraglia issata mattone dopo mattone nel corso degli anni?                                                  
Scarabocchi d’inchiostro è una raccolta di quindici racconti brevi, quindici mondi diversi in cui l’autore
ha cercato di usare una scrittura leggera, a tratti ironica, in un caso premonitore, in due narrazioni ricordando la sua nonna Giuseppina, in tutti i racconti punta soprattutto ad emozionare il lettore.
Alcuni racconti li ha ambientati in zone popolari della sua città, senza mai far uscire fuori le negatività
di Napoli, i protagonisti sono semplicemente gente comune; anzi sembra voler risaltare le bellezze delle vie e vicoli e il bello di viverci. 
Storia d’amicizia e di bullismo, il subire bullismo ai tempi della scuola, vittima l’autore stesso, l’unico amico che troverà, a sostenerlo moralmente, sarà un cuoco cipriota; Shiarrael e Mattia, il superamento di certi luoghi comuni e integrazione, dato che la protagonista femminile è una Rom; Amore scaturito dal sisma dell’80, l’autore s’inventa il sbocciare di un amore in momenti e tempi tragici, che è stato il sisma dell’80, che devastò parte della Campania; Sogno che dura una vita, la protagonista  rivive in sogno momenti dell’infanzia, ormai ricordi assopiti; Don Ferdinando Piccariello, il protagonista ci parla delle pecche di alcuni abitanti del suo quartiere, celando le sue, e fa una riflessione sulle esequie, diceva Eduardo in mente sua quando le persone lo fermavano e si complimentavano << Io scrivo su di voi, voi siete i protagonisti delle mie commedie.>>; Il terno di Sant’ Antonio, una vicenda che vede una donna imprigionata nel matrimonio  con un uomo che si rivela l’opposto di quello che era stato nel fidanzamento, ma questa volta un miracolo dà la spinta ad Antonietta di uscirne; Racconto popolare, ci porta nel dopoguerra, quando a Napoli vi erano centinaia di case chiuse, ma non è racconto sulla prostituzione del tempo; Regalo di compleanno,
il dono è la nascita di una vita inaspettati; Uno degli ultimi carcerati di Terra Murata, carcere di Procida,
un giallo commedia, in cui Michele si trova a vivere una vera e propria peripezia; Teresa la lattarola, racconto un po’ particolare: la protagonista, scoperto, alla morte del marito, che costui aveva un’altra famiglia a Milano inizia a concedersi agli altri uomini per crescere i figli; Storia di un torinese emigrante
a Napoli, vede un emigrazione all’incontrario, se pur per amore, spazio anche per il paranormale; 
Il destino si mise d’impegno, racconto triste e forte, in cui, per ironia della sorte, alla protagonista,
vittima di rapimento, il destino è più benevolo rispetto alla madre e al fidanzato,  mentre il padre si rifà
una vita; La  magia della scopa  dal manico di legno e la coda come la cometa, è una fiaba sulla Befana, l’autore è come se raccontasse una fiaba che gli raccontava nel periodo la nonna Peppa quando era piccino;
Antonio e la sirena fanciulla, è una leggenda in cui un viandante, ormai attempato, ha un incontro,
sulla battigia di una spiaggia di Amalfi, con una giovane sirena; Lo sfogo di Gaia: la Terra è a  dirci
che gli uomini sono immemori e piaga parassita; cosa che è saputa.

 

 

8 Maggio

Fiori di campo

Sentimenti espressi in versi

di Ernesto Flisi

Booksprint Edizioni

Poesia

Pagg. 51

ISBN 9788869906282

Prezzo Euro 14,90

 

Primi passi poetici

Quella vena malinconica che ho percepito durante la lettura di Sulle rive dei fossi trova conferma anche in questa raccolta, Fiori di campo, prima pubblicazione dell’autore avvenuta nel 2016. Pure qui si  intrecciano ricordi e visioni della natura e con ogni probabilità sono i primi a segnare l’amarezza che sta alla base dei versi (E così te ne sei andata, / rannicchiata e piccola in un letto bianco / di un ospedale prefabbricato, / azzurro e anonimo, / tra filari pioppi schierati, / perso in una campagna / fervente di coltivazioni e trattori. / ….). Si tratta di una visione non certo lieta, perché se la morte, che è naturale nel ciclo della vita, non può mai ispirare allegria, quella atmosfera asettica data dal tipico letto d’ospedale porta già in sé il freddo della fine, toglie ogni calore che un sentimento può comunicare; più che la tristezza per la dipartita colpisce l’abbandono, questo ospedale prefabbricato, anonimo, tra i filari schierati come quelli dei viali che portano ai camposanti, isolato un una campagna dove l’unica vita sembra essere quella produttiva dell’uomo.

Ritengo poi che anche in Ciliegio sia presente quella figura femminile (che nella prosecuzione della lettura scoprirò essere la madre) che nel letto d’ospedale è piccola e rannicchiata, come un passerotto implume, raccolto in se stesso nel momento del trapasso. In questa poesia si rammenta -  bellissimo connubio di natura e memoria - questa figura, colta in un normale atteggiamento ( Davanti alla finestra guardavi / l’aia assolata, il tuo orto / che curavi con passione / e mille segreti, / ma soprattutto quel maestoso ciliegio , / coperto di fiori ad ogni primavera. / …). La tenerezza con cui il ricordo è rievocato mi ha ha confermato che si tratta della mamma, come comprovato anche dai successivi versi (.../ Poi un giorno / nemmeno la sedia a rotelle / è bastata più / a a tenerti abbarbicata / alla povera casa di sempre. / / “Sai mamma, là ti cureranno, / qui non hai i mezzi / poi tornerai.../…). E’ una pietosa bugia che un figlio si porta appresso sperando solo che la genitrice gli abbia creduto, ma generalmente lei fa finta di crederci, sa che di più non è possibile, che la vita fugge inesorabile e vorrebbe che non corresse per il figlio. E quasi a chiudere il cerchio del discorso con Memoria si arriva all’ultima dimora (Non amo i cimiteri di città, / l’incessante andirivieni, / i pettegolezzi rumorosi, /  i monumenti sontuosi, / fiera della vanità. /... / Amo questo camposanto, / delimitato da una bassa muraglia, / sprofondato nella campagna, / contornato da campi di grano, / in vista del fiume, /…).Ecco come può essere addolcita la morte, con una visione agreste, con un paesaggio, che, pia illusione, si spera che il defunto possa apprezzare, perché comune a ciò che vedeva in vita. E’ proprio in questo connubio fra ricordo e natura che si ritrova la sacralità della morte, quella ritualità interiore che sembra oggi ormai persa e che tanto invece era propria di una società in cui il sentimento non era esibizione, ma un’intima emozione che solo lo sguardo lasciava trapelare. Di questo mondo passato è evidente il rimpianto, tanto maggiore a chi si lega ai cicli immutabili della natura, che è la primigenia fonte di ispirazione, purché si sia capaci di osservarla.

Poiché si tratta con ogni probabilità delle prime poesie scritte non mi meraviglia questo intimo dolore per una scomparsa, perché mettere giù dei versi è anche un modo per elaborare il lutto, è uno sfogo con cui si prende coscienza di un evento irreparabile ed è naturale un accentuato lirismo, che poi non ho ovviamente riscontrato nella successiva silloge Sulle rive dei fossi, proprio perché l’assimilazione del lutto si è conclusa. Pur in presenza degli inevitabili limiti derivanti da una naturale inesperienza devo tuttavia rilevare come la struttura delle poesie sia già bene impostata e come i riferimenti alla natura costituiscano già un elemento qualitativo più che apprezzabile (.../ Ruotano le stagioni, / cambiano i colori, / mutano i suoni, / si alternano i silenzi, / così diversi, uguali mai. / ….). Ne discende quindi che la lettura di questa raccolta è più che gradevole, tanto che è sicuramente consigliata.  

Ernesto Flisi è nato a Viadana, in provincia di Mantova. Ha trascorso tutta la sua vita nella scuola, da docente e dirigente scolastico. Come autore di versi, ha pubblicato nel 2016  “Fiori di campo” per Book Sprint edizioni e nel 2022 “Sulle rive dei fossi”, quest’ultima edita in proprio. Altre composizioni sono state pubblicate in vari anni nei “Quaderni del caffè letterario”, guidato da A.M. Cirigliano, editi a Mantova da Il Rio; altre ancora in pubblicazioni sparse. Ha collaborato a diversi studi di storia locale. Da segnalare una monografia edita nel 2019 dalla Società Storica viadanese, intitolata “Il Commissario e l’Arciprete”, incentrata su un forte contrasto tra l’autorità religiosa e quella austriaca poco prima della proclamazione dell’Indipendenza dell’Italia.

Renzo Montagnoli
 

 

 

2 Maggio

Mai tardi.

Diario di un alpino in Russia

di Nuto Revelli

Edizioni Einaudi

Narrativa

Pagg. 224

ISBN 9788806246662

Prezzo Euro 12,00

 

Cronaca di giorni terribili

Nuto Revelli, uscito dall’Accademia Militare di Modena con il grado di sottotenente, assegnato alla fanteria nel corpo degli Alpini, nel 1942 partì volontario per il fronte russo con la Seconda Divisione Alpina Tridentina, inquadrato nel battaglione “Tirano” del 5° reggimento alpini. Già sulla tradotta per raggiungere i campi di battaglia cominciò a dubitare delle tronfie parole e delle promesse del fascismo, scoprì quanto il nostro alleato tedesco ci disprezzasse, ebbe modo di vedere la triste sorte degli ebrei. Di questi giorni di viaggio, della permanenza in prima linea e della lunga tragica ritirata conservò un diario pressoché giornaliero, scritto con calligrafia minutissima onde risparmiare spazio. A differenza del Sergente nella neve di Mario Rigoni Stern che racconta  dello stesso periodo di tempo e dei medesimi luoghi ed eventi, ma in forma di romanzo, pur conservando  i fatti nell’esatto accadimento, il diario è naturalmente più succinto, ma anche più immediato, con i periodi snocciolati a raffica che mostrano l’atroce realtà delle cose, senza lasciare spazio a interpretazioni e a riflessioni, solo ciò di cui Revelli fu testimone, una cronaca tesa, asciutta che riesce a rendere con grande efficacia la tragedia di quei giorni. Proprio per questo, appunto perché è una cronaca dei fatti, è di grande impatto sul lettore che vive le continue delusioni per la disorganizzazione del nostro esercito, per le ruberie pressoché istituzionalizzate, per l’incapacità di molti dei comandanti, per la retorica che prevale pressoché sempre sulla logica. Ne esce un quadro aspro, dolente, monta nel lettore la stessa rabbia che doveva aver provato Revelli, unita alla delusione per essersi accorto di aver sempre vissuto prima nella menzogna imposta da un regime in disfacimento.

Soprattutto la ritirata nella neve, con un freddo polare, fa diventare i superstiti, il cui numero si assottiglia sempre di più, dei dannati che si aggirano in un girone dantesco, in una bolgia in cui le colonne degli sbandati si ostacolano a vicenda e dove resiste ormai in pochi l’umana pietà. E’ un si salvi chi può in una marcia che lascia dietro di sé veicoli incidentati, armi e zaini, corpi e anche morenti, a cui non è possibile prestare il minimo soccorso.

In questo quadro è inevitabile che non si creda più al fascismo, lo si consideri colpevole dello sfacelo, si comincino a odiare i profittatori che sono presenti anche in quei tragici giorni, monti un odio implacabile nei confronti dei tedeschi, che considerano i nostri soldati semplicemente dei servi, nei cui confronti usare a piacimento tante prepotenze.

Nuto Revelli riuscirà a uscire dalla sacca in cui lui e gli altri erano accerchiati, tornerà in Italia e già nel 1946, a guerra finita e dopo un’esperienza di grande Partigianato, prenderà di nuovo in mano questo diario e lo farà pubblicare con il titolo Mai tardi Diario di un alpino in Russia, perché tutti, soprattutto quelli che non c’erano,  non solo potessero, ma dovessero sapere.

Da leggere.

Nuto Revelli (Cuneo, 1919-2004), ufficiale degli alpini in Russia e protagonista della Resistenza nel cuneese, si è battuto per anni per dare voce ai dimenticati di sempre: i soldati, i reduci, i contadini delle campagne piú povere. Tra i suoi libri, tutti editi da Einaudi, La guerra dei poveri (1962), La strada del davai (1966 e 2010), Mai tardi (1967 e 2008) , L'ultimo fronte (1971 e 2009) , Il mondo dei vinti(1977), L'anello forte (1985) Il disperso di Marburg (1994 e 2008), Il prete giusto (1998 e 2008), Le due guerre (2003 e 2005). 

Renzo Montagnoli

 

 

 

26 Aprile

Winesburg, Ohio

di Sherwood Anderson

Edizioni Einaudi

Narrativa

Pagg. XII-234

ISBN 9788806206420

Prezzo Euro 20,00

 

Una pietra miliare della narrativa americana

Winesburg, Ohio è una raccolta di racconti di Sherwood Anderson pubblicata nel 1919, prose che scritte fra il 1915 e 1916 erano già state pubblicare singolarmente su alcune riviste. Vi si narra delle vite di alcuni personaggi della cittadina di Winesburg sul finire del XIX secolo, con un filo conduttore che è rappresentato da George Willard, un giovane giornalista interessato alle vite solitarie di questi individui, secondo uno schema che, pur con le evidenti differenze, può essere assimilato alla famosa Antologia di Spoon River che all’epoca di stesura di questi racconti era già conosciuta grazie alla pubblicazione fra il 1914 e il 1915 su una nota rivista letteraria, il Reedy’s Mirror di Saint Louis.

Tutti i soggetti hanno una doppia vita, del tutto normale e banale quella pubblica, ma nevrotica e caratterizzata da passioni incontrollabili quella privata, peculiarità che sono diventate l’emblema descrittivo degli Stati Uniti, con innumerevoli applicazioni in campo letterario e cinematografico. Per certi aspetti, quindi, il libro costituisce una pietra miliare della narrativa statunitense, rivelandosi precursore di opere successive di diversi romanzieri, fra i quali uno fra i miei preferiti, Kent Haruf. Se lo schema rappresenta una indubbia innovazione, l’originalità delle opere è pure ragguardevole, e trattandosi di racconti è pregevole averli raccordati con la figura del giornalista del locale quotidiano, che accompagna i lettori a far conoscenza con i personaggi di Winesburg.

Il mondo descritto è ancora rurale, di una civiltà preindustriale, un microcosmo osservato nel periodo di passaggio da un’impronta socio-economica all’altra e questo senza dubbio è un altro dei pregi dell’opera. E’ una società lontana nel tempo, che sembra appena uscita dalla guerra civile, con il fascino agreste di un’epoca i cui ritmi erano assai più blandi di quelli che si sono imposti con la civiltà industriale. La piccola comunità di Winesburg è descritta in questo suo cambiamento, fra il desiderio di resistere per non perdere le proprie radici e la speranza di entrare in un mondo migliore, e tutto questo è scritto con garbo, senza enfasi, ma puntuale e conciso in ciò che veramente conta.

I personaggi non sono pochi e per alcuni è naturale affezionarsi, come nel caso di Alice, una donna che invecchia con il ricordo di alcune fugaci ore d’amore, nell’attesa del ritorno di uomo ben sapendo che non avverrà mai, macerandosi nella consapevolezza, che poco a poco prende corpo, di una vita che sarà solo di solitudine.  Oppure non si può restare insensibili di fronte alla triste storia di Wash Williams, telegrafista diventato misogino per colpa della moglie. Chi più, chi meno, questi protagonisti hanno una personalità che possiamo riscontrare anche in nostri simili contemporanei e addirittura potrebbe capitare di specchiarci in qualcuno di loro, ma sono tutti esseri pulsanti, che mai si potrebbe credere frutti della creatività di uno scrittore.

Il loro gradimento è lasciato alla sensibilità del lettore che in ogni caso non potrà che convenire sulla notevole capacità dell’autore di effettuare una fine analisi psicologica delle sue creature.

Da leggere.  

Sherwood Anderson (Camden, Ohio, 1876 - Colón, Panamá, 1941) scrittore statunitense. Il luogo mitico della sua immaginazione fu Clyde nell’Ohio, dove visse gli anni formativi nell’esercizio precoce di vari mestieri, tra i ricordi, ancora vivi, della frontiera, fino alla prima delle sue fughe, che lo portò a Cuba, nel tentativo di partecipare alla guerra ispano-americana. Sposato, direttore di una fabbrica di vernici, un giorno abbandonò d’improvviso famiglia e lavoro per seguire la vocazione di scrittore, dapprima a Chicago, dove conobbe Lee Masters, Sandburg, Dreiser, poi a New York e a Parigi, dove incontrò Gertrude Stein. Dopo il primo romanzo, Il figlio di Windy McPherson (Windy McPherson’s son, 1916), basato su materiale autobiografico, A. raggiunse la fama con la raccolta dei Racconti dell’Ohio (Winesburg, Ohio, 1919), nei quali analizzò le angosce, la solitudine e i desideri repressi degli abitanti di una piccola città modellata sulla Clyde della sua giovinezza. Nelle opere successive tornano gli stessi temi: il disadattamento, lo smarrimento dell’individuo in una società sempre più meccanizzata. In Povero bianco (Poor white, 1920), per esempio, l’analisi delle sofferenze di un inventore solitario s’intreccia alle vicende di una città che si corrompe col progredire dell’industrializzazione; in Riso nero (Dark laughter, 1925) la disinibita cultura afro-americana è contrapposta alla sterile civiltà bianca. Con la franca esposizione delle frustrazioni sessuali e delle aberrazioni di molti suoi personaggi e, ancor più, con la creazione di una mitica provincia americana, abitata da giovani ribelli, da sognatori, da «diversi», in fuga dalla storia, A. ebbe un’influenza di rilievo su alcuni scrittori a lui contemporanei come Hemingway e Faulkner, e con il suo stile deliberatamente semplificato, fondato sull’uso del «colloquiale» e su riprese «musicali», secondo la lezione di Mark Twain e di Gertrude Stein, offrì una nuova gamma di possibilità espressive alla narrativa imperniata sullo studio della vita americana.

Renzo Montagnoli

 

 

 

21 Aprile

Strèuse. Strane e straniere in Sicilia

di Marinella Fiume

Iacobelli Editore

Storia e biografie

Pagg. 216

ISBN 9788862527729

Prezzo Euro 15,00

 

Donne strane

Marinella Fiume non poteva nascere che femmina, tanta è la sua innata vocazione per cercare di arrivare a un mondo in cui la parità fra uomini e donne non sia solo una gentile concessione dei primi; se avesse avuto i natali nel grigiore del Regno Unito, e fra la fine del XIX secolo e gli inizi del successivo, avrebbe rischiarato di viva luce quella terra aderendo con la massima convinzione al movimento delle suffragette. Tuttavia, ancora molto c’è da fare per raggiungere questa benedetta parità e la dottoressa Fiume ci mette molto del suo impegno, dando vita a incontri, a movimenti e soprattutto ai suoi scritti, ultimo dei quali è questo Strèuse, un libro strano, sicuramente non esattamente classificabile come genere, ma rientrante senza dubbio nell’ambito della storia. Già il titolo non può che incuriosire, anche se molto più semplicemente, onde passare quanto prima ai contenuti, in dialetto siciliano significa strano, strambo, stravagante, insolito, ma anche straniero. E furono tante queste “strane”, non poche delle quali straniere a tutti gli effetti, che più o meno dalla fine del Settecento visitarono la Sicilia, o decisero di risiedervi. Sono 32 i capitoli dell’opera  e altrettante sono le donne di cui si parla; in verità non proprio tutte donne nel senso stretto del termine, ma in alcuni casi esseri femminili frutto della mitologia greca, fra le quali le sirene, il cui canto incantatore nell’Odissea Ulisse volle udire, facendosi legare stretto all’albero maestro della sua nave, mentre invece i suoi compagni di viaggio si otturarono i condotti delle orecchie con della cera. In effetti la sirena, metà donna metà pesce, è una visione metaforica dell’essere femminile, seducente, incantatrice, tanto da far perdere la testa agli uomini, ma costretta dalla sua condizione a non condurre un’esistenza normale. Questo capitolo in fondo è un’introduzione, con delle donne così diverse da quelle che seguiranno negli altri, fra le quali mi limiterò a citarne solo alcune.

Per esempio Elena Thovez è una lady inglese che approdò a Scordia in provincia di Catania, dove si fermò e anche morì. Sposata al barone Francesco De Cristofaro, un democratico e sostenitore dei garibaldini, iscritta alla loggia massonica, persona di notevole cultura, costituì in quel piccolo borgo una altrettanto piccola, ma innovativa Atene.

Sempre dal Regno Unito, i cui abitanti di un certo livello economico mostravano di prediligere le terre bagnate dal mare di Liguria, Campania e Sicilia, arrivò anche Florence Trevelyan che ebbe il pregio di trasformare in modo radicale  Taormina facendola diventare una vera e propria città-parco. Da notare che il secolo è il XIX e che quindi le donne non avevano ancora alzato la cresta, come si suol dire.

Gli anni passano, si viaggia già nel XX secolo, ma non mancano le insolite, come Annie Messina, nipote della più famosa narratrice Maria Messina, e scrittrice pure lei, anche se con minor fortuna. Che aveva di strano pertanto? Da giovanissima si trasferì con la famiglia in Egitto, ad Alessandria, al seguito del padre Salvatore, console generale d’Italia, restandovi una ventina di anni, per poi ritornare in Italia a Roma e stabilirsi lì fino alla morte avvenuta nel 1996. Fra sabbie, piramidi e minareti restò incantata dall’Oriente e scrisse sotto gli influssi della cultura del luogo firmandosi Gamilah Ghali. Le sue sono storie permeate di fascino orientale, con la presenza insolita di un erotismo maschile omosessuale. E’ indubbio che a parlare di rapporti fra califfi e giovinetti, principi e ragazzini schiavi occorreva un bel coraggio, sia perché l’omosessualità è esplicitamente condannata dal Corano, sia perché all’epoca la morale corrente italiana non l’accettava.

Senza accorgermene ho divorato le pagine, con l’entusiasmo di sapere di queste Stréuse, ognuna delle quali ha una sua storia ben precisa di cui non si può non cogliere il senso, perché ci sono donne che più delle altre reclamano la loro presenza al mondo, sono quelle che in epoche diverse cercano di emergere dal grigiore delle consuetudini che soffocano, soprattutto chi è del sesso debole. Forse non lo sapevano, ma con le loro azioni hanno dato il contributo perché la donna potesse continuare nel suo procedere di avvicinamento all’uomo, per arrivare alla tanto sospirata e ancora non raggiunta parità.

Strèuse è un libro di piacevole lettura che incuriosisce e spesso riesce ad avvincere, scritto con mano sicura e con la passione di chi combatte da tempo una battaglia iniziata tanti anni fa e ancora non prossima alla fine.

Marinella Fiume, nata a Noto (Sr), laureata in Lettere classiche, è dottore di ricerca in Lingua e letteratura italiana. È stata sindaca del Comune di Fiumefreddo di Sicilia (Ct) e socia fondatrice e presidente dell’Associazione fiumefreddese antiracket e antiusura “Carlo Alberto Dalla Chiesa”. Già responsabile della Commissione Arte e cultura della Fidapa e presidente del Soroptimist “Val di Noto”. Ha pubblicato saggi, biografie, racconti, romanzi, sceneggiature, canzoni; nella rivista Notabilis cura la rubrica fissa “Donne che ballano coi lupi”. Ha ricevuto diversi premi per il suo impegno sociale e la sua produzione letteraria, tra gli altri, il Premio “Franca Pieroni Bortolotti” della Società delle Storiche e del Comune di Firenze (2000).

Tra le sue opere: Feudo del mare La stagione delle donne (2010); Di madre in figlia – Vita di una guaritrice di campagna (2014); La bolgia delle eretiche (2017); Ammagatrìci (2019); Le ciociare di Capizzi (2020); Strèuse. Strane e straniere in Sicilia (2023).

Renzo Montagnoli

 

 

 

 

16 Aprile

Il commissario e l'arciprete.

Pietro Fornoni e don Antonio Parazzi: un caso controverso nei rapporti tra il clero e l'amministrazione austriaca a Mantova (1848-1862)

di Ernesto Flisi

Edizioni Società Storica Viadanese

Saggio storico

Pagg. 124

ISBN 9788894357028

Prezzo Euro 15,00

Uno scontro fra passato e futuro

Siamo portati a leggere i grandi avvenimenti storici, quello che più comunemente viene definita la Grande Storia, perché, a parte l’indubbio desiderio di conoscenza, si arriva più velocemente a un accrescimento culturale. E’ così che guerre, personaggi determinanti e significativi, e altri fatti entrano nei libri che sono maggiormente diffusi. Ci sono però altri eventi assai meno noti e che pur tuttavia sono di aiuto per uno studio della storia, sono fatti locali, dissidi o anche addirittura liti che, se studiati e portati alla ribalta, concorrono a una maggior conoscenza di un’epoca. E’ questo il caso di Il commissario e l’arciprete, un saggio che ha scritto Ernesto Flisi dopo approfondite e immagino lunghe ricerche presso l’Archivio di Stato di Mantova e l’Archivio Storico Diocesano di Cremona. Il fatto di cui l’autore scrive non è forse eclatante per la nostra attuale mentalità, ma per quella esistente all’epoca (il tutto si svolge fra il 1849 e il 1862) è di grande risonanza, perché lo scontro, senza esclusione di colpi, fra un esponente non di basso livello della amministrazione austriaca e un sacerdote finisce con l’essere, anche se apparentemente non lo è, una vera e propria battaglia fra il potere imperiale asburgico che ha iniziato la sua decadenza e una nuova visione, meno autoritaria, di uno stato che inizia a sorgere, quello italiano. Il casus belli è, se vogliamo, poca cosa, è un abuso di potere di Don Antonio Parazzi, parroco di Santa Maria Assunta e San Cristoforo Castello di Viadana, nonché investito di altri incarichi, fra i quali  quello di Direttore dell’Orfanotrofio Femminile. Ed è appunto in quest’ultima veste che il religioso, nell’estate del 1856, contravvenendo al regolamento dell’Istituto che prevede che le orfane siano dimesse al compimento del diciottesimo anno, ritiene che sia necessario che vi possano rimanere fino al ventunesimo, e in tal senso mantiene ospite tale Caterina Minari. Pietro Fornoni, Commissario Distrettuale di Viadana, già Commissario Provinciale di Polizia, non è della stessa idea, anzi è decisamente contrario ed inizia così un contenzioso che si trascinerà nel tempo fino alla sconfitta del Fornoni, uomo ligio al potere austriaco, che aveva avuto la stima del maresciallo Radetzky quando questi era Governatore generale del Lombardo-Veneto e che dopo la nostra sfortunata prima guerra di indipendenza aveva avviato una politica estremamente restrittiva, soffocando qualsiasi movimento che avesse anche solo l’apparenza di opporsi all’Austria. Ebbene Fornoni fu uno dei suoi più rigidi esecutori in un periodo in cui condanne detentive ed esecuzioni furono numerosissime. Non sto a raccontare gli sviluppi della vicenda, che vide contrapposte in pratica due fazioni, con reciproci scambi di accuse, anche pesanti (il Fornoni è descritto come un rozzo, e probabilmente lo era, e come un impenitente donnaiolo, e forse non lo era). Don Parazzi di per sé era inattaccabile e allora si coinvolsero quelli che erano a lui vicino. Se agli inizi il comportamento di Fornoni, il cui caso fu sottoposto a indagine, fu ritenuto non criticabile, successivamente, con il pensionamento del vecchio governatore avvenuto il 28 febbraio 1857, a cui subentrò Massimiliano, fratello di Francesco Giuseppe, e che aprì un po’ il pugno di ferro con cui Radetsky aveva fino ad allora amministrato il Lombardo-Veneto, l’azione del commissario fu vista in un’altra luce, anche per effetto del concordato fra Chiesa e impero austriaco con cui si era posto rimedio a non pochi contrasti; il vento non soffiava più a favore del Commissario, ma non se ne accorse fino a quando gli arrivò fra capo e collo la sospensione dall’incarico e successivamente il trasferimento ad altra sede. Non ritornò più a Viadana anche perché, conclusa la seconda guerra di indipendenza, l’Austria perse la Lombardia e parte della provincia di Mantova, fra cui il viadanese. Il Fornoni ne soffrì parecchio, sia per la sconfitta militare dell’impero asburgico che per quella personale nella sua lunga battaglia con l’Arciprete, tanto che, anche perché di salute cagionevole, morì a soli 45 anni.

La vicenda, particolarmente complessa, all’inizio è  narrata con un ritmo lento, direi opportunamente lento in modo che il lettore possa prendere conoscenza degli attori principali, poi accelera, con un susseguirsi di tanti colpi di scena degni di un thriller. Questo crescendo appassiona, anche perché si è curiosi di vedere come finisce; in ogni caso non viene mai meno uno schema rigorosamente storico, lasciando pressoché nulla alla fantasia dell’autore, anche se mi sembra di capire che abbia nutrito un po’ di simpatia per il Fornoni. Quindi si è trattato di uno scontro fra una persona rappresentate l’assolutismo e un’altra di spirito liberale, ma anche di una lotta fra Stato e Chiesa, entrambi indubbiamente autoritari, con il primo del tutto rigido, ma con il secondo che non sconfessava, quando necessario, sacerdoti per così dire progressisti, come il Parazzi .

La vicenda è senza dubbio interessante, ma quel che più conta è raccontata veramente bene e in modo tale da avvincere il lettore.

Ernesto Flisi è nato a Viadana, in provincia di Mantova. Ha trascorso tutta la sua vita nella scuola, da docente e dirigente scolastico. Come autore di versi, ha pubblicato nel 2016  “Fiori di campo” per Book Sprint edizioni e nel 2022 “Sulle rive dei fossi”, stampato in proprio.  Altre composizioni sono state pubblicate in vari anni nei “Quaderni del caffè letterario”, guidato da A.M. Cirigliano, editi a Mantova da Il Rio; altre ancora in pubblicazioni sparse. Ha collaborato a diversi studi di storia locale. Da segnalare una monografia edita nel 2019 dalla Società Storica viadanese, intitolata “Il Commissario e l’Arciprete”, incentrata su un forte contrasto tra l’autorità religiosa e quella austriaca poco prima della proclamazione dell’Indipendenza dell’Italia.

Renzo Montagnoli

 

 

12 Aprile

Verde Eldorado

di Adrian Bravi

Nutrimenti Editore

Narrativa

Pagg. 176

ISBN 9788865949030

Prezzo Euro 17,00

L’incontro di due civiltà

In contrapposizione a un’epoca come la nostra in cui continuano i flussi migratori dalle terre misere dell’Africa, in passato c’è stata  una migrazione al contrario, dalla più evoluta Europa alla selvaggia America del Sud; nel primo caso c’è un’umanità derelitta che è alla ricerca  di una dignità di vita, mentre nel secondo erano uomini di mare abbagliati dal miraggio dell’oro.  E’ di alcuni di questi navigatori che parla Verde Eldorado, riuscito romanzo di Adrian Bravi, narratore argentino che risiede in Italia e che da tempo ha scelto di scrivere in italiano. Si narra la storia di Ugolino, ragazzo veneziano rimasto orrendamente ustionato nell’incendio della sua casa, tanto che gira con un cappuccio che cela alla vista degli altri il suo volto devastato dalle fiamme, e che, incoraggiato dal padre, amico di Sebastiano Caboto, e che vede così una soluzione del problema di un figlio ormai diventato un peso per la famiglia,  prende parte alla spedizione del navigatore veneziano per cercare un passaggio più breve per arrivare alle Molucche, terra di spezie. La trama è quanto di più intrigante si possa trovare al giorno d’oggi, un’avventura che potrebbe richiamare quelle frutto della fantasia di Salgari, ma il cui intento è ben diverso. Ci si può stupire per la bellezza dei paesaggi descritti, per la capacità di trasmettere sensazioni, per l’abilità di emozionare con fatti apparentemente normali, ma non si può sorvolare sull’incontro di due civiltà, ognuna con i suoi pregi e con i suoi difetti, con due mondi che vengono a contatto e che evidenziano il diverso senso da dare alla vita. Infatti  per gli indios del Rio de la Plata sono determinanti il rispetto per la natura e l’immersione nella stessa, mentre sono la brama della ricchezza e la materialità che ossessionano i navigatori europei, aspetti antitetici di un viaggio di cui Caboto cambia la destinazione per tentare di arrivare a un mitico Eldorado, per cercare l’irraggiungibile, e il giovane Ugolino ne uscirà trasformato. Catturato con alcuni suoi compagni dagli Indios, dovrà assistere alla loro uccisione, dovrà vedere con orrore le loro carni diventare cibo per questi antropofagi. Lui si salverà perché diverso per il suo viso sfigurato dal fuoco e dall’incontro con i selvaggi cambierà la vita e il destino del giovane veneziano; poco a poco si avvicinerà a questi indios, ne assorbirà le usanze,  i suoni e gli odori, cedendo loro in cambio un po’ della sua civiltà. Diventerà l’uomo dei due mondi che cercherà in ogni modo di conciliare, in un’ottica di reciproca integrazione. Alla Città dell’oro non arriverà mai e così anche Caboto, ma l’Eldorado non è lì, è in quel villaggio dove è nata una nuova civiltà.

Verde Eldorado è indubbiamente un romanzo ambizioso, ma riesce a raggiungere in buona parte i suoi scopi; il lettore deve solo stare attento a non lasciarsi trascinare dalla trama avventurosa, a cui può pur tuttavia lasciarsi andare, ma con giudizio; infatti è opportuno fermarsi ogni tanto per riflettere sulla grandiosa opportunità di un mondo nuovo che ci offrono Ugolino e il suo creatore Adrian Bravi.

Adrian N. Bravi (San Fernando, Buenos Aires, 1963) lavora come bibliotecario presso l’università di Macerata. Nel 2004 comincia a scrivere in italiano: dopo l’esordio con Restituiscimi il cappotto (Fernandel, 2004), ha pubblicato con nottetempo La pelusa (2007), Sud 1982 (2008), Il riporto (2011), L’albero e la vacca (nottetempo/Feltrinelli 2013) con il quale è stata inaugurata la collana indies di Feltrinelli e ha vinto il Premio Bergamo 2014, L' inondazione (2015). Nel 2015 l’editoriale argentina Sofia Cartonera ha pubblicato una breve raccolta dei suoi racconti, Después de la línea del Ecuador. Nel 2012, il cortometraggio di Andrea Papini ispirato al romanzo Il riporto ha vinto la prima edizione del Premio Bookciak 2012.
Nel 2019 Exòrma pubblica L'idioma di Casilda Moreira.

Renzo Montagnoli

 

 

 

3 Aprile

La milionesima notte

di Carla Malerba

Fara Editore

Poesie

Pagg. 64

ISBN 978-88-9293-038-0

Prezzo Euro 12,00

In un tempo sospeso

(Mi disegna la notte / un ventaglio di immagini / sparse / tra il vero e l’ombra / che mai mi abbandona. / Al buio scrivo parole / che la mente illumina / e guida la mano / il pensiero del nulla che siamo.).

E’ l’ultima poesia di questa raccolta, con una chiusa che mi riporta alla realtà, il pensiero del nulla che siamo, un verso che si contrappone all’atmosfera sospesa che mi ha accompagnato durante tutta la lettura, in un tempo indefinito, forse lungo, forse breve, ma quando si è assorti, quando si è presi dallo scorrere delle parole, dalle immagini che si formano, scompaiono e ritornano in una serie di dissolvenze incrociate, non si ha più il senso del tempo. Sono entrato in queste poesie curioso, dato il particolare titolo (mi continuava a venire in mente la raccolta di racconti orientali Le mille e una notte), e sono bastati pochi versi (Che buone cose / certi incontri,/ aiutano / quando ci si volta / a scorrere / la turpitudine dei tempi, / di mille e mille anime / la storia / ad ogni pagina scritta.) per essere rapito, un’immersione pressoché istantanea nel fascino della parola che non è urlata, ma sussurrata, non è imposta, ma proposta. E così tutto cambia, entro in un mondo che non ha né giorno, né notte, in un tempo appunto sospeso. E sospeso sono stato pure io, nel fluire dei versi che dolci dolci mi incantavano ( Tremano / le foglie di maggio / a questo vento invece / che è autunnale / e soffia contro i vetri / per entrare.). Forse sognavo, forse mi illudevo di toccare il cielo, ma la poesia è anche questo, è la capacità di trasmettere sensazioni e, soprattutto emozioni. Ricordo pure che mi sono detto : “ Questa donna venuta dal deserto, dalle sabbie roventi, dal vento impetuoso e infuocato ha la leggerezza della brezza di una sera di settembre, ma anche la capacità di aprirsi come una porta appena accostata, e che ci trovi dentro? Non una stanza vuota, né chincaglieria, ma visioni di una natura serena, sentimenti di un’anima in pace con se stessa, il piacere di essere.”.

Mentre leggevo non mi sono mai chiesto se le poesie fossero belle, perché non ne avevo il tempo, rapito come ero, una sensazione piacevole a cui appunto ha posto fine la chiusa di cui prima ho detto, con l’incantevole ossimoro di scrivere al buio parole che la mente illumina, ma con l’umiltà di avere la consapevolezza della nostra limitatezza e con la convinzione che solo con la poesia ci può essere consentito di toccare il cielo – aggiungo-  perché durante la lettura se non l’ho toccato, ci sono andato comunque vicino.

La serenità che è in Carla Malerba è contagiosa, perché la trasmette attraverso i suoi versi, che sono da leggere in silenzio o ascoltando qualche brano di musica classica, magari di un autore che non ha bisogno di presentazioni, Wolfgang Amadeus Mozart. E’ come se le note di Una piccola notte di musica scendessero dall’alto ad abbracciare le parole dei versi e insieme facessero nascere  una sinfonia di immagini celestiali.

Di conseguenza, la lettura è indubbiamente consigliata.

Carla Malerba è nata a Tripoli (Libia), ma dal 1970 risiede in Italia. Nella città natale pubblica, giovanissima, i suoi primi versi. Iscritta alla Facoltà di Lettere Moderne a Catania, interrompe gli studi universitari a seguito di eventi politici. Si laurea presso l’Università degli Studi di Siena. Ha insegnato Lettere ad Arezzo, città nella quale vive. Nel 1999 pubblica a Cortona la sua prima raccolta Luci e ombre, seguita nel 2001 da Creatura d’acqua e di foglie (Ed. Calosci, Cortona). In esse i temi della perdita e del dolore si fanno pressanti anche se, a tratti, la memoria assume una funzione salvifica. Con le raccolte Di terre straniere Vita di una donna (pubblicate con La Vita Felice, Milano, 2010 e 2015) riprende i temi del viaggio esistenziale e degli affetti. Poesie future (Puntoacapo 2020) e La milionesima notte (Fara, 2023) sono i suoi due ultimi lavori. Ha vinto diversi premi.

Renzo Montagnoli

 

 

 

1 Aprile

Recensione del romanzo Fuorbando di Clemy Scognamiglio, edito Dialoghi

In un borgo campano, sulla cima di montagna a picco sulle nuvole, il cingolare delle ruote di un carro irruppe nel silenzio del pase, sul finire di un pomeriggio di aprile.
Agli occhi accorsi fece la sua apparizione un arcobaleno: scintillò contro la calce viva delle case, il fitto dedalo di vicoli, modulando l’eco del passaggio dove si dileguò con la discrezione di una curva, finchè si spense. Al suo interno erano sedute tre donne, dissero alcuni…

L’Italia unita è il sogno, troppo grande per essere inteso da tutti.
Ci vollero ventitré anni perché questo succedesse, ma per la popolazione meridionale se ne era andato uno straniero  e ne era giunto un altro.
Ci fu un incremento del brigantaggio, i soldati dell’esercito sconfitto, allo sbando, entrarono tra le file dei briganti.
Il confine tra resistenza e brigantaggio era sottile, confondibile.
Fu anche grazie al popolo che meno di mille uomini potesse risalire lo stivale dalla Sicilia a Teano, sconfiggendo l’esercito del regno delle due Sicilie.
Ma chi piange dei propri sbagli piange se stesso?
A tutt’oggi nel meridione si ha la sensazione, o forse è consapevolezza, che l’unità d’Italia è stato
ed è un qualcosa di geografico e niente altro.

L’autrice, in modo crudo e senza fronzoli, ci regala, in una scrittura a volte intrecciata ma oculata e attenta le vicissitudini e i drammi che il tempo di quei giorni, l’Italia era appena stata unificata, propinava. 
La stessa cosa lo fa con i tanti che trascinando fagotti o al massimo valigie di cartone e spago cercarono di sfuggire alle angherie e drammi partendo per quella che doveva essere l’America.
Una ricerca di prospettiva di vita migliore, ma che alla fine restavano delusi, come quelli che oggi cercano la loro America  arrivando nel nostro paese, dopo un viaggio allucinante.
Le vicende di Maria, di Carmelina e il padre, e di altri protagonisti possono essere benissimo la realtà difficile di tante persone che partivano allora come possono essere benissimo la realtà difficile di tante persone che stanno giungendo nel nostro paese oggi.
La persona del “ciclero” era attuale allora come è attuale ai nostri tempi.

Uruguay 1873, era un mattino di lunedì, il 25 agosto, quando Maria  vide la prima volta i padroni della fattoria Perez.
L’Uruguay, in questo caso, fu la sua America di destinazione ideale  solo per poche ore.
L’illusione smise nel labirinto del sobborgo dove era destinata da emigrante.
Nessun posto al mondo è l’America.
Gli italiani, soprattutto quelli del meridione, erano considerati della stessa risma dei neri.
Il razzismo era ed è la vergogna esercitata apertamente.
Il non conoscere non ci deve infondere dubbi e paure sullo sconosciuto.

Vincenzo Patierno

 

 

 

29 Marzo

Le origini del potere.

La saga di Giulio II, il papa guerriero

di Alessandra Selmi

TEA Edizioni

Narrativa

Pagg. 384

ISBN9788850266081

Prezzo Euro 13,00

Un grande affresco storico

Papa Giulio II (Albisola, 5 dicembre 1443 – Roma, 21 febbraio 1513), al secolo Giuliano della Rovere, è anche conosciuto come il Papa guerriero, perché, nel periodo del suo pontificato, che va dal 1503 al 1513, promosse numerose guerre per liberarsi dei vari poteri che prevaricavano la sua autorità temporale, e lo fece con la massima determinazione e con il coraggio propri più di un uomo d’armi che di un religioso al comando della Chiesa.

Però avviso che chi si dispone a leggere questo romanzo storico che riguarda appunto Giulio II potrebbe non dico restare deluso, ma arrivato alla fine potrebbe chiedersi notizie sul suo pontificato, perché in queste 384 pagine si parla solo del prima, cioè del periodo che va dal 1471, anno in cui fu eletto al trono di Pietro con il nome di Sisto IV lo zio Francesco della Rovere. E’ pertanto molto indovinato il titolo dell’opera, perché le origini del potere sono quelle degli anni in cui Giuliano della Rovere brigò per diventare il capo della Chiesa.  Per quanto si tratti di un romanzo storico l’autrice si è attenuta sempre a fatti veritieri, eventi che sono la testimonianza di un mondo in cui la spiritualità era decisamente messa da parte e nella lotta che vediamo, aspra, con delitti anche, fra Giuliano della Rovere e Rodrigo Borgia c’è tutto un periodo storico che ha caratterizzato l’Italia nella seconda metà del XV secolo, con sullo sfondo altre figure che non sono proprio comparse, come Lorenzo de’ Medici e gli Sforza, in un grande e riuscito affresco che nobilita un lavoro ben strutturato, che non ha mai un momento di cedimento e che avvince dall’inizio alla fine. Fra l’altro c’è tutto ciò che può piacere al lettore, dalla figura carismatica del fraticello Giuliano che arriva a Roma a piedi per assistere all’incoronazione dello zio, che subito mette in pratica il nepotismo nominandolo cardinale insieme ai cugini Pietro e Girolamo Riario, alla sua lunga storia d’amore con Lucrezia Normanni, da cui avrà una figlia, un amore per niente platonico, ma molto carnale. E poi c’è la descrizione della Roma dell’epoca, della guerra fra le famiglie Orsini e Colonna, della miseria diffusa fra i suoi abitanti, dalla morte che, sotto forma di pestilenza, livella tutti. Non manca anche un’analisi psicologica approfondita, a cui non sfugge nessuno dei principali protagonisti, insomma  Le origini del potere è un’opera senz’altro riuscita e ci si augura che sia la prima parte, visto che il sottotitolo è La saga di Giulio II, il papa guerriero, e considerato che che appunto il libro finisce con la notizia che quella mattina nel conclave,  al primo scrutinio, viene eletto pontefice Giuliano della Rovere, che poi scelse di chiamarsi Giulio II. Era stata una lunga attesa, piena di intrighi, con altri papi prima di lui, ma alla fine tanto aveva brigato che c’era riuscito. Come ogni buona saga sarebbe logico un seguito con un libro sul suo pontificato, che durò dal 1503 al 1513. Tuttavia, non posso esimermi dall’evidenziare la particolare bellezza delle ultime pagine, allorché a fronte del tradimento di un suo compaesano  che aveva avviato alla carriera religiosa, pronto a punirlo nel modo più atroce, Giuliano, sentite le motivazioni che tanto gli ricordavano i patimenti e gli affronti subiti da lui stesso in convento, ha un crollo momentaneo, lui che è sempre inflessibile scopre di possedere anche il senso di colpa, tanto da indurlo piangendo a chiedere perdono, graziando altresì quella vittima che era pronta a espiare la sua colpa.

Da leggere, lo merita.

Alessandra Selmi (Monza, 1977) è una scrittrice ed editor italiana. Ha collaborato come editor con diverse case editrici, e` titolare dell’agenzia letteraria Lorem Ipsum, dove si occupa di scouting ed editing, insegna Scrittura editoriale nell’ambito dei master dell’Universita` Cattolica di Milano. Dalla sua esperienza sono nati i libri E così vuoi lavorare nell’editoria. I dolori di un giovane editor (Editrice Bibliografica, 2014) e Come pubblicare un giallo senza ammazzare l'editore (Editrice Bibliografica 2016). La terza (e ultima) vita di Aiace Pardon è il suo primo romanzo, edito da Baldini e Castoldi nel 2015, cui sono seguiti Le origini del potere. La saga di Giulio II, il papa guerriero (2020) e Al di qua del fiume. Il sogno della famiglia Crespi (2022) entrambi pubblicati da Nord.

Renzo Montagnoli

 

 

 

25 Marzo

Sulle rive dei fossi

di Ernesto Flisi

Premessa di Silvana Luppi

Edito in proprio

Poesia

Pagg. 62

Prezzo Euro 10,00 (*) Gli eventuali proventi derivanti dalla vendita di questa pubblicazione, una volta detratte le spese vive, saranno devoluti in beneficenza.

Natura e ricordi

Si tratta di un nuovo autore, nuovo per me, perché Ernesto Flisi non è al suo esordio con questa raccolta che sostanzialmente raggruppa tre sillogi tematiche (Il pentagramma della vita, Il succedersi del tempo, Caratterizzazioni umane). Se anche gli argomenti trattati sono diversi c’è un legame fra tutti ed è dato da una vena crepuscolare che accompagna le poesie. Non è tristezza, bensì qualcosa di meno gravoso, ma che evidentemente è innato, perché è più esatto parlare di malinconia. E questa nota mi sembra una caratteristica degli autori rivieraschi del Po che fino ad adesso ho esaminato, dai viadanesi Ernesto Flisi e Gabriele Oselini alla sermidese, ormai da tempo extra muros, Daniela Raimondi, e potrei inserirmi anch’io, visto che da più di una quarantina di anni risiedo a Borgo Virgilio. Questa comunanza non mi sembra un caso, perché evidentemente il fiume, il grande Po, anche se ora è ridotto quasi a un rigagnolo, esercita un influsso su chi è radicato sulle sue sponde, tanto è vero che ci unisce un comune amore per la natura e per i ricordi. Sono questi ultimi soprattutto a determinare una vena malinconica, forse per un inconscio rimpianto di ciò che è stato (ovviamente di bello) e che mai più ritornerà. In ordine a questo preambolo non intendo andare oltre perché  mi pare giusto approfondire il discorso della poetica di Ernesto Flisi.

Mi sembra un autore dall’animo mite, visti i toni pacati, mai ridondanti e senza che sia incline a una perniciosa retorica. Quasi a voler confermare ciò che dianzi ho esposto il rimpianto è tangibile nei versi come nel caso di Passato  (Non torneranno più / i fiori di questa estate. / / I sorrisi negati, / saranno, / irrimediabilmente, / perduti. / Forse resterà / un amaro rimpianto, o, / peggio, / un inconsapevole astio. /…). E’ vero, ci sono stagioni, quelle della vita di ognuno, che non torneranno più e si potrà arrivare a un punto che si rimpiangerà ciò che si avrebbe potuto fare, e non si è fatto, e ci si lamenterà di ciò che si è fatto e non si sarebbe dovuto fare.

Peraltro Flisi scrive dei punti  fermi della vita di ogni individuo, come la casa e l’amore, nonché del succedersi del tempo con cui prendiamo coscienza del nostro esistere, grazie a precisi punti di riferimento, che possono essere, per esempio, il Capodanno (All’alba / si ricompone / la gelida notte, / dopo l’amara festa, a celebrar la vita che fugge. /…)., ma soprattutto ai Ricordi (Ricordo un’aia / in un assolato meriggio ( di abbacinante luce / e festosi bimbi / a rimescolar, disteso, / il granturco a seccare. /…).  Come si può notare, sono ricordi tipicamente padani e rurali, come l’aia con sopra il mais raccolto e sgranato, di continuo rimescolato affinché si secchi uniformemente. Per quanto ovvio poi ce ne sono altri, ma motivi di tempo e spazio mi impediscono di parlarne, tanto più che mi corre l’obbligo di un’ultima annotazione sulle caratterizzazioni umane, fra le quali mi ha colpito Soffio, con quell’accenno misurato e pacato, ma che costituisce un’inesorabile premessa (Ci passa accanto / come soffio di brezza / la vita / imperscrutabile, / inarrestabile, impalpabile. /…), una poesia che è il paradigma della malinconia, con la consapevolezza della nostra temporaneità che ci costringe a vivere su un palcoscenico in cui siamo precari attori che cercano di comprendere il senso della commedia prima che cali il sipario.

La raccolta mi sembra riuscita, sia per la struttura che rende piacevole la lettura, sia per i contenuti che di certo non mancano, e graziose sono anche le illustrazioni che di tanto in tanto si accompagnano ai versi. Per un’opinione abbastanza esauriente sull’autore invece occorrono altri testi da esaminare, ma ho la sensazione che possano essere dell’ottimo livello di questo.

Ernesto Flisi è nato a Viadana, in provincia di Mantova. Ha trascorso tutta la sua vita nella scuola, da docente e dirigente scolastico. Come autore di versi, ha pubblicato nel 2016  “Fiori di campo” per Book Sprint edizioni. Altre composizioni sono state pubblicate in vari anni nei “Quaderni del caffè letterario”, guidato da A.M. Cirigliano, editi a Mantova da Il Rio; altre ancora in pubblicazioni sparse. Ha collaborato a diversi studi di storia locale. Da segnalare una monografia edita nel 2019 dalla Società Storica viadanese, intitolata “Il Commissario e l’Arciprete”, incentrata su un forte contrasto tra l’autorità religiosa e quella austriaca poco prima della proclamazione

dell’Indipendenza dell’Italia. Nel presente lavoro emerge l’attenzione alle vere

questioni della vita umana, che non trovano quasi mai riscontro nelle comunicazioni di massa. Sullo sfondo campeggia sempre l’occhio

meravigliato per la campagna padana. Sono gradite valutazioni, suggerimenti e altro all’indirizzo flisiernesto@libero.it

Renzo Montagnoli

 

 

 

21 Marzo

Sotto la Sua mano

di Piero Chiara

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa

Pagg. 168

ISBN   978-8804115649

Prezzo Euro 10,00

 

Contro il logorio della vita

Anni fa c’era una pubblicità in televisione di un noto amaro definito come il rimedio contro il logorio della vita moderna. Se a questo logorio aggiungiamo attualmente i drammi della guerra in Ucraina e in Siria, quelli del terremoto che ha colpito soprattutto la Turchia e quello dei naufragi in cui incappa gente disperata, una persona normale non si può dimostrare insensibile, ma ci sono evidenti contraccolpi sulla sua psiche. Non è più sufficiente la magica bevanda, ma  per avere un minimo di tranquillità occorre estraniarsi e il modo migliore è di leggere un libro che non ponga ulteriori problemi, ma che costituisca un sano svago pur senza che riporti delle totali banalità. Per questo abbiamo un autore, purtroppo già scomparso, che è senz’altro uno dei migliori narratori che ci sia stato nel nostro paese e mi riferisco a Piero Chiara, il cantore delle piccole realtà e anche l’uomo che con la sua innata ironia, nel prendere in giro i comportamenti umani, finisce con l’accettare se stesso, riservando analogo trattamento a chi legge le sue opere.

Prendiamo questi tre racconti, riuniti in un unico volume a cui è stato dato come titolo quello del primo, Sotto la Sua mano. Sono pochi, certamente, ma oltre a essere abbastanza lunghi sono anche vari. L’inventiva dello scrittore è dimostrata ampiamente, cosa di cui non dubitavo, ma in uno dei tre arriva a superarsi e mi riferisco proprio al primo, quello del titolo. Come noto ad Arona c’è il santuario eretto in onore di San Carlo Borromeo, con la sua gigantesca statua, da tutti chiamata il Sancarlone, meta di continui pellegrinaggi, complice anche il panorama che si può godere salendo dall’interno fino in cima, alla testa. Ebbene, la creatività di Chiara trasfusa ad ampie mani nel racconto parte da epoca remota, addirittura romana ai tempi dell’imperatore Settimio Severo, allorché il procuratore Tito Cornasidio, appassionato di antichità, compra, pur con i dubbi del caso, i resti del famoso colosso di Rodi, resti costituiti da una certa parte anatomica che per decenza non nomino, ma che con un po’ d’intuito il lettore può indovinare, reperto che, attraverso diverse peripezie, giunge in Italia fino ad arrivare nei pressi di Arona dove per cause di forza maggiore viene abbandonato per essere poi ritrovato secoli dopo e utilizzato nella fusione della statua del Sancarlone, per la precisione per la testa e per le mani. A rendere un po’ più attendibile l’invenzione Chiara parla di una sua visita a un sacerdote suo lontano parente per una ricerca in cui viene casualmente a conoscenza di questo ritrovamento in epoca romana. L’ironia è assicurata, lo stile fresco, giovanile dell’autore coinvolge il lettore che si costringe a credere come vera la vicenda e proprio per questo le risate non mancano. Chi pensa che possa trattarsi di un’offesa alla religione stia tranquillo, perché San Carlo Borromeo non viene toccato nella sua santità, anzi è pure lui vittima di questa sorta di scherzo che è tuttavia una necessità, stante la penuria di bronzo e la necessità di ultimare la statua.

Il secondo racconto si intitola La banca di Monate e già da qui è più che mai logico aspettarsi qualcosa di particolare, perché se è vero che Monate, con il suo lago, esiste, è altrettanto vero che con quel termine sono designate le fesserie, o per restare nello spirito di Chiara, le coglionate. Si tratta di una satira del mondo finanziario, ritratto garbatamente, ma anche con tono deciso; è inoltre rappresentativo dell’Italia nel periodo che si apre con la fine della Grande Guerra e che si chiude con l’avvento del fascismo, in un luogo in cui si sviluppano tante iniziative industriali, accompagnate dal sistema bancario. Sinteticamente è quasi un giallo con una soluzione finale che ahimè anticipa i tempi e rispecchia di come adesso va il mondo.

Terzo e ultimo è Il giocatore Coduri, una descrizione perfetta di questo personaggio, quasi un’istituzione del bar del paese, un personaggio a suo modo misterioso che sembra insostituibile, anche perché perde regolarmente e altrettanto regolarmente paga, tanto che ci si chiede come faccia ad avere così tanto denaro; per il resto è insignificante tanto che quando muore, se ci si attendeva qualche contraccolpo, questo non c’è, perché era  una figura che si notava quando era presente, ma la cui assenza si fa presto a dimenticare.

Da leggere.  

Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.

E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedrò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti(1986).

Renzo Montagnoli

 

 

16 Marzo

Sotto la sabbia dorata

Prigionia in Africa

di Daniele Astolfi

Edizioni Tabula Fati

Pagg. 144

ISBN 979-12-5988-159-5

Prezzo Euro 12,00

 

Guerra e prigionia

Fra le cose lasciate alla sua morte da Antonio Astolfi figura anche un manoscritto ingiallito, centoquindici fogli di carta che costituiscono il suo diario della guerra in Africa e della successiva prigionia. Il nipote Daniele, oltre a sentirsi in dovere di leggerli, li ha anche opportunamente trascritti, a beneficio non solo suo e dei familiari, ma, grazie alla pubblicazione, anche di terzi che così, leggendo, sono venuti a conoscenza del dramma che ha colpito tanti italiani che hanno combattuto in Libia. Personalmente il mio interesse è stato un po’ diverso, perché pagina dopo pagina ho cercato di ripercorrere gli stessi itinerari, di rivivere gli stessi eventi della guerra mio padre, che era presente nella stessa epoca e nei medesimi luoghi, non come fante delle Camicie nere, bensì come sottufficiale dell’artiglieria contraerea. Avevo sperato, dalla foto di copertina che riproduce un cannone da 90/53 (il pezzo antiaereo più moderno in dotazione al Regio Esercito) che anche Antonio Astolfi fosse un artigliere e magari un compagno di batteria di mio padre, ma come ho indicato non è così; rimane però la stessa esperienza, nello stesso teatro e nei medesimi giorni. Quindi leggendo del nonno dell’autore è come se rivivessi l’analoga vicenda di mio padre, con gli stessi sentimenti e perfino le stesse sofferenze. Antonio Astolfi aveva già una pratica d’Africa avendo militato in Libia prima della guerra e mi par di capire che gli fosse maturato qualche dubbio sull’invincibilità degli italiani, dubbio accentuato già all’inizio del conflitto, con i disordini organizzativi, con i mezzi inadeguati, con lo scarso cibo e la ancor più scarsa acqua; la controffensiva nel dicembre 1940 del generale inglese Archibald Wavell tolse ogni dubbio, acclarò drammaticamente la nostra impreparazione e così Antonio Astolfi fu partecipe di una sanguinosa ritirata che si concluse per lui con la prigionia. Come mio padre fu tradotto al campo di Ismailia in Egitto, un lager dei peggiori, dove il cibo era una rarità e pure l’acqua non abbondava, forse più simile a un lager tedesco che a una struttura di detenzione. Per fortuna mio padre vi rimase poco a differenza di Antonio che vi soggiornò diversi mesi. E poi i trasferimenti in treno, con gli egiziani che non si limitavano a sfottere i prigionieri, ma tiravano loro dei sassi e, quando passavano sotto i ponti, gli orinavano in testa. Poi, finalmente, uscì un raggio di sole con il trasferimento, via nave, in Sud Africa, al grande campo di Zonderwater dove, per fortuna, il comandante, il sudafricano Hendrik Prinsloo, si rivelò persona dotata di grande umanità (mio padre mi ha parlato spesso di questo campo, di un soggiorno che non poteva definirsi ideale perché mancava la libertà, ma di mesi trascorsi senza più patemi d’animo, nell’attesa con la certezza, più che con la speranza, di un ritorno in patria che ogni giorno si avvicinava).

E infine il rientro in Italia, un’Italia tutta da ricostruire, e con la gente che stentava a credere a quanto raccontavano i reduci. Ma la vita, quella vera, fra gli affetti, ricominciava.

Da leggere, per chi desidera una diretta testimonianza storica, per chi non può sapere cosa significhi il sacrificio, affinché si possa comprendere che i libri di storia, per quanto utilissimi e completi, non possono mai riportare i timori, le ansie e il dolore di chi, in quei fatti così scientificamente descritti,  è stato  ignoto protagonista. 

Daniele Astolfi, nato ad Arsita (Te) nel 1959, risiede a San Giovanni Teatino (CH). Laureato in Sociologia all’Università “Carlo Bo” di Urbino. Giornalista pubblicista, collabora con il quotidiano “Il Messaggero”. Vicesegretario (collaboratori) del Sindacato Giornalisti Abruzzesi. Ha pubblicato alcune sue poesie in Cuore, viaggio nel pensiero (Alfonso Mammarella Editore 1991) e in Una luce in fondo al tunnel a cura di Luigi A. Medea (Cannarsa Editore, 1992). Attualmente ricopre il ruolo di export manager in un’azienda italiana

Renzo Montagnoli

 

 

11 Marzo

Implicita missione

La fotosintesi della memoria

di Claudia Piccinno

Fara Editore

Poesia

Pagg. 80

ISBN 978-88-9293-027-8

Prezzo Euro 12,00

Virtuosismo con contenuti

Non si può certo dire che Claudia Piccinno non ritragga soddisfazioni dal suo “poetare”, perché, a parte i gradimenti espressi dai suoi molti lettori, le note critiche e le recensioni sempre gratificanti, ha anche riconoscimenti in concorsi di pregio, dove si misura con altri artisti di grande qualità, tenzoni involontarie, ma da cui esce quasi sempre bene, insomma al podio è certamente abituata.  E’ accaduto così anche per il Narrapoetando 2023 che l’editore Fara propone da tempo ogni anno a verseggiatori e a prosatori. Implicita missione è la raccolta presentata in concorso e che ha ottenuto il prestigioso riconoscimento. Ho potuto leggere con calma, a tratti, ponderando se del caso di volta in volta le riflessioni che sorgono spontaneamente e ho rilevato innanzitutto che le quattro sezioni di cui si compone la silloge (Poesie varie, Haiku, Tautogrammi e Dediche) rappresentano la capacità dell’autrice di variare nel campo stesso di quest’arte antica e immortale (basti pensare al riguardo la presenza degli Haiku, di questa forma direi anche tecnica tipica del lontano Oriente, del Giappone, ma che ha preso piede un po’ ovunque; se non bastasse, il ricorso ai tautogrammi rispolvera una specie di gioco di origine medievale.). E’ una ecletticità che non sacrifica l’arte poetica per stupire, no, è funzionale alla stessa, e non si tratta nemmeno di accademismo, bensì di capacità, di virtuosismo, che restano qualitativamente quelli a cui ormai ci ha abituato, virtuosismo che porta Claudia Piccinno a giocare con le parole, ma senza sacrificare i contenuti.

Ciò premesso, mi sembra che in questa silloge la poetessa ci proponga la sua visione metafisica del mondo e dell’esistenza, partendo dal presupposto dell’astrazione dal presente che è l’unica soluzione per poter espandere la propria voce quale risultato di un procedimento di analisi interiore. E in questo lavorio emergono, filtrati, ma non appannati, i sentimenti come in Tra gli Ulivi (Tornano / quando si soffre / i volti di chi / abbiamo amato. / Vuoto il battito / muta la voce / ci si aggrappa / a un sentire lontano. /…). E fra questi volti non possono mancare quelli familiari, quelle persone che per noi hanno rappresentato un esempio e che ci hanno insegnato gli scopi dell’esistenza, come nel caso di A mio padre (Profumano delle tue arance / le mie mani. / E ti rivedo in sogno / nei momenti di pace / quando ti si allargava il cuore / in un sorriso. / Profumavano di terra le tue mani / Di tabacco e eau d’Hermes. / Contraddizioni e friselle / mandorle e fichi / dolcezza e stupore. / Grama fu la tua infanzia / ma nel bello trovavi conforto. / Profumano delle tue arance / le mie mani / / in quel profumo… rivedo te.). Questi, versi, palpitanti, capaci di trasmettere emozioni quasi con violenza presentano tanti aspetti positivi, come il ritmo, il preambolo di una storia di affetti e la chiusa che è fulminante, ma poi quasi olfattivo è anche  un miscuglio di profumi, da quello delle arance, del tabacco e, penetrante, l’afrore della terra. Viene voglia di respirare a pieni polmoni, è una poesia che profuma e questo profumo si trasmette, come quello delle arance dalle mani del padre a quelle della figlia. Queste composizioni fanno parte delle poesie varie, la sezione più ampia, sulla quale ci sarebbe tanto ancora da dire, ma purtroppo il tempo e lo spazio sono pochi.

Per chi non conoscesse il tautogramma dico subito che non è un esercizio facile  perché comporre versi le cui parole cominciano tutte con la stessa lettera e ovviamente dando un senso compiuto non è da tutti. Un esempio? Eccolo fra quelli “in b” (Biascicavi bavose balbuzie, / bellicosamente blateravi. / Beccheresti briciole di baci / ballando bruschi boleri / boicottando belle ballerine / borseggiatori e bombaroli./ …).

Salto gli Haiku che sono ampiamente gradevoli e passo alle dediche che chiudono la raccolta e sigillano così nel migliore dei modi un’opera di indubbio valore. Sono poche, mirate, e la mia preferita non è quella a un poeta famoso o comunque a personaggi del passato anche lontano, ma quella che riguarda una bimba al suo primo compleanno, con tutta una vita davanti e con gli auguri di chi è già nel corso della vita e che con ogni probabilità guarda a quella piccina con una inconscia punta d’invidia, perché adesso che sappiamo come è, che abbiamo le nostre esperienze, ci viene spontaneo  pensare come sarebbe bello poter ricominciare.

Da leggere, senza dubbio.

 Claudia Piccinno è docente, traduttrice, autrice di numerosi libri di poesia, di prefazioni e saggi critici. Direttrice per l’Europa del World Festival Poetry fino a settembre 2021, medaglia d’oro al Frate Ilaro 2017, vincitrice Ossi di Seppia 2020, ambasciatrice per l’Italia del World Institute for Peace e di Istanbul Sanat Art, Ape d’argento del Comune di Castel Maggiore per meriti culturali. Tra i vari premi internazionali, gli ultimi: Global Icon Award 2020 for Writers Capital International Foundation, The Light of Galata (Turchia 2021), Sahitto International Jury Award (Bangladesh 2021), Premio alla Cultura Città del Galateo (Roma 2021), Aco Karamanov (Macedonia 2021), Ajtan Zhiti (Kosovo 2021). È responsabile della rubrica Poesia per La Gazzetta di Istanbul e redattore per l’Europa della rivista turca Papirus (Artshop).

Collabora con vari blog, e-magazine e riviste cartacee, tra cui: MenabòVerbumpressCiaoMagOur PoetryIl PorticcioloFarapoesia

Renzo Montagnoli

 

 

10 Marzo

1977. ALLA VALLE DEI MULINI DI GRAGNANO DI VINCENZO PATIERNO (IVVI)

recensione di Salvatore Amato

La vita da scout forma il carattere e crea amicizie che possono durare tutta la vita, ed è proprio quello di cui ha bisogno il protagonista Vincenzo, un ragazzo da burla facile e dagli scherzi non sempre ortodossi.

Ma certa gente ha un gene talmente ribelle che rischia di farsi radiare anche dagli scout, ma non c’è tempo per pensarci; qualcuno grida: “Al fuoco” e la vicepreside finisce “a culo in terra”.

I mulini imperano sulla valle, sembrano i Titani padri delle divinità dell’Olimpo, hanno sorrisi verticali a cui si arrampicano storie di risa e gioventù, amori e drammi, reminiscenze catartiche e misteri, sembrano destinati all’abbandono e hanno la certezza che qualcuno si ricorderà di loro.

I ricordi pascolano a piedi scalzi, l’aroma dei campi è sapore di casa, la pizza è ancora più buona quando offre la casa, le abilità di Aurelio mandano il pubblico in visibilio, la gente recita la preghiera prima della processione, Don Alfonso è un po’ effeminato, ha occhiali con lenti più spesse dei vetri antiproiettile e una nonna che trova un sacco di lavori di restaurazione, se le si offre la possibilità di usufruire di una manodopera gratuita.

La vita degli scout responsabilizza i ragazzi e serba sempre qualche avventura, per i profani è interessante scoprirla, per chi l’ha fatto è sempre un piacere rievocarli dall’almanacco delle rimembranze.

Tra le pagine c’è odore agreste, di spensieratezza e gioventù, i ricordi sono vivi, lasciano segni indelebili che gli anni non sbiadiranno, trascinano il lettore dentro la storia e lo guidano con un sorriso sornione in un passato che sembra risplendere sul fondale della maturità. Come coralli, incantano e si prendono in carico la responsabilità estetica, rovistano nel verbo, affinché questo possa rendere almeno l’idea della gioia di quei ragazzi che non avevano smartphone per guardare il mondo e dovevano “accontentarsi” di farlo con i propri occhi.

Un romanzo che si consuma in fretta questo di Patierno, un romanzo che si fa leggere a cuor leggero con notevole appagamento; scorre e cattura, forse è meglio se leggi solo un’altra pagina che si è fatto tardi, sussurra la voce interiore, ma neanche lei è immune dai piaceri letterari e senza accorgersi si divorano altri tre capitoli.

Dallo scoutismo alle tinte dei gialli d’annata è un battito di ciglia, l’intrigo e il mistero donano nerbo a una lettura già potente di suo per altri espedienti, poi a risolvere l’enigma potrebbe essere chi meno ti aspetti.

Le sorti dei mulini lasciano un sapore posticcio, ma ci si può solo consolare con quello che furono per ritrovarli maestosi, amici giganti, guardiani della vallata, testimoni silenti di amicizie, amori, misteri e passioni.

 

 

6 Marzo

Come vento cucito alla terra

di Ilaria Tuti

Edizioni Longanesi

Narrativa

Pagg. 384

ISBN 9788830459175

Prezzo Euro 20,00

 

Una storia di ribellioni e d’amore

“L’amore è sutura./ Sutura e non benda, sutura - non scudo /

(Oh, non chieder difesa!),/ sutura, con cui il vento è cucito alla terra,/ con cui io a te sono cucita.” (Marina Cvetaeva)

I romanzi gialli di Ilaria Tuti con protagonista il commissario Teresa Battaglia non mi hanno convinto, per i motivi che ho spiegato nelle mie recensioni. Invece mi è piaciuto Fiore di roccia, un’opera che dà giustamente risalto alle portatrici carniche della Grande Guerra e in cui, oltre all’abnegazione di chi rischiando la vita portava in trincea munizioni e viveri, sono ben tratteggiate queste figure femminili che, per fame, si sostituiscono agli uomini  in un ingrato e pericoloso lavoro.

In Come vento cucito alla terra protagoniste sono ancora le donne, le prime lady doctors; infatti Ilaria Tuti porta alla luce una storia forse dimenticata, vale a dire quella del Women's Hospital Corps (WHC), la prima unità medica fondata da Flora Murray e Louisa Garrett Anderson.  Quindi, anche in quest’opera viene posta in risalto la preziosa figura della donna che si rivela di grandissimo aiuto con interventi chirurgici a militari francesi e inglesi feriti nel corso della Grande Guerra. Queste dottoresse, autentiche suffragette, sono esistite veramente, così come non è un’invenzione il Women’s Hospital Corps; invece la trama, ben articolata e anche molto avvincente, è frutto di creatività.  

Il libro è quindi una storia di donne, ma è anche una storia di emancipazione, una tappa dell’infinito percorso, ancor lungi dall’esser concluso, per arrivare alla parità fra sessi diversi. Agli inizi del secolo scorso le donne  potevano anche studiare da medico e laurearsi pur fra mille difficoltà, ma esisteva il preconcetto che il gentil sesso, per sua natura, incline all’emozione e alla commozione, non fosse adatto a eseguire interventi chirurgici. Il Women’s Hospital Corps dimostrò invece che questi pregiudizi erano del tutto infondati, preconcetti che erano radicati in qualsiasi classe sociale, al punto che agli inizi non pochi feriti si opponevano fermamente all’idea di essere operati da una donna. In questo quadro generale, nell’orrore di una guerra (al riguardo le descrizioni dei campi di battaglia sono veramente notevoli) si innestano due storie che sembrano procedere parallele, ma che progressivamente si avvicinano fino a incontrarsi. I protagonisti di queste due vicende che finiscono per intersecarsi sono Cate, una dottoressa di padre inglese e madre italiana, di famiglia benestante, che però in pratica l’ha rinnegata, nubile con una figlia piccola a carico, e Alexander, capitano di fanteria, proveniente da una famiglia di alto lignaggio, ma di altrettanto alta insensibilità. La prima soccorre Alexander nella terra di nessuno e ricuce con notevole abilità il suo viso sfregiato da un colpo di baionetta; Cate fa delle suture che sono degli autentici ricami, ricami che inizieranno a fare i soldati feriti nella convalescenza al Women’ Hospital, attività dapprima osteggiata, perché ritenuta non virile, ma che darà i suoi frutti allentando le tensioni da guerra, aiutando gli invalidi ad accettare la propria sorte, insomma costituendo uno svago creativo indispensabile per una guarigione soprattutto della mente.

Come vento cucito alla terra è una storia di ribellioni e d’amore, perché ribellione è quella di Cate che reclama la dignità femminile attraverso la parità fra uomo e donna e ribellione è pure quella di Alexander alle convenzioni, alla rigida educazione familiare la cui l’ubbidienza deve essere cieca; ma è anche una storia d’amore fra loro due, una relazione che non avrebbe potuto nascere se non avessero saputo alzare la testa e ritrovare quella libertà innata che solo le regole non scritte di una società rigida possono soffocare.

Non vado oltre, perché mi pare che sia opportuno, oltre che giusto, lasciare ai lettori la scoperta di come procederà e finirà il romanzo.

Si tratta indubbiamente di un’opera eccellente e pertanto la lettura è sicuramente consigliata.

Ilaria Tuti è nata il 26 aprile 1976 a Gemona del Friuli, in provincia di Udine. Ha studiato Economia. Appassionata di pittura, nel tempo libero ha fatto l’illustratrice per una piccola casa editrice. Nel 2014 ha vinto il Premio Gran Giallo Città di Cattolica. Il thriller Fiori sopra l'inferno, edito da Longanesi nel 2018, è il suo libro d'esordio. Tra i suoi libri ricordiamo anche: Ninfa dormiente (Longanesi, 2019) e Fiore di roccia (Longanesi, 2020). Del 2021 il romanzo La luce della notte, il ritorno dell'amatissima Teresa Battaglia in un romanzo di rinascita e speranza. Sempre per Longanesi pubblica nel 2021, Figlia della cenere e nel 2022, Come vento cucito alla terra.

Renzo Montagnoli

 

 

 

28 Febbraio

HAIKU per un anno

di Franca Canapini

Disegni di Alice Bigozzi

Youcanprint

Pagg. 104

ISBN  979-1221446012

Prezzo Euro 10,00

 

Ricami d’oriente

E’ da tempo che cerco di scrivere poesie, con risultati che a volte mi soddisfano, ma che più spesso non mi appagano. Comunque sono cocciuto e continuo imperterrito, anche perché mi diverto. Ho provato diverse tipologie di componimenti poetici, ma non mi sono mai cimentato con l’haiku. Al di là della forma canonica di tre versi di complessive diciassette more (che noi chiamiamo sillabe) ha lo schema 5/7/5. Però l’haiku non si differenzia solo per la metrica, ma anche perché rappresenta l’estrema sintesi di un pensiero, senza la necessità di un titolo, però con la presenza di un riferimento a una delle stagioni dell’anno. In questo senso il tema svolto, o meglio la riflessione, finisce per avere come oggetto la natura. Forse mi sbaglio, ma l’impressione che ne ho ritratto è che si tratti di versi dolci, gentili, ornamentali, ma anche con contenuto, una specie di ricami, meglio ancora di ricami d’oriente.

Premetto che non mi azzarderò a cimentarmi con gli haiku, ma ho voluto vedere un po’ più chiaro dopo aver letto un libriccino di un’amica, i cui haiku mi sono risultati in buona parte gradevoli. Per quanto abituato a scrivere recensioni anche di libri di poesia, questa volta me ne guardo, preferendo eventualmente dimostrare i motivi del mio gradimento. Sarebbe da dire che, più che note critiche, intendo esporre delle sensazioni, come per esempio per questo: Slancio vitale / il cappero sul muro / a tutto sole. (L’impressione è che si ponga il risalto la voglia di vivere del cappero nonostante le difficoltà di un terreno non proprio ospitale).

Altro esempio è Rosa canina / intenerisce maggio / acute spine. (In questo caso è evidente una specie di ossimoro fra un maggio tenero e le spine che feriscono).

Non intendo però tediare oltre, anche perché, essendo profano in materia, correrei il rischio di deragliare. Però voglio chiudere con un ultimo haiku: Furiosa l’acqua / gorgoglia tra le pietre /Cerca la valle. (Caratteristico è il dinamismo del fluido che piomba dall’alto dei monti per arrivare nella valle, cioè al piano).

Da che libro sono stati tratti questi haiku? Da HAIKU per un anno. Chi è l’autore? E’ un’autrice, una vecchia conoscenza che già mi ha abituato con le poesie delle sue riuscite raccolte e che si diletta anche con la narrativa (molto bello il suo Dal fondo. I miei primi dieci anni). 

Insomma si tratta di Franca Canapini, un nome, una garanzia.

Franca Canapini, nata a Chianciano Terme (Si), risiede ad Arezzo dal 1975. Laureata in Materie Letterarie presso l’Università degli Studi di Perugia, è stata Maestra nella Scuola Primaria e Professoressa di Lettere nella Scuola Secondaria di primo grado.

Della poesia (e della scrittura in generale) dice “ La poesia, per me, è folgorazione da cui scaturisce una piena magmatica di suoni, immagini, pensieri, emozioni che necessita trovare foce in parole scritte. Scrivere è stato il sogno più bello della mia giovinezza. Ora, in età matura, il sogno è diventato esaltante progetto di vita.”

A partire dal 2010 ha pubblicato 7 raccolte di poesia, un romanzo, una raccolta di favole, un romanzo breve e un racconto, per le quali pubblicazioni ha ricevuto premi e segnalazioni. Fa parte del Consiglio dell’Associazione degli Scrittori Aretini Tagete ed è membro di giuria di alcuni premi letterari.

Suoi lavori si trovano in diverse antologie e riviste di poesia, in vari siti e blog letterari e nel suo blog personale: www.lie­ve2011.wordpress.com

Sito personale: www.francacanapini.weebly.com

Renzo Montagnoli

 

 

 

24 Febbraio

Omaggio alla Catalogna

di George Orwell

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia

Pagg. 280

ISBN 9788804509844

Prezzo Euro 9,50

 

Forse il miglior reportage sulla guerra di Spagna

George Orwell partecipò alla Guerra di Spagna in qualità di miliziano del POUM (Partito Operaio di Unificazione Marxista), partito quindi di sinistra, ma decisamente antistalinista. Pertanto, la sua narrazione è il frutto dell’esperienza maturata, che se non ha una valenza generale per questo conflitto, tuttavia comprende una disamina approfondita dei contrasti, spesso violenti, esistente nella variegata compagine antifascista. Come testimonianza dell’aspetto bellico sono rimasto sorpreso per quanto risulti diverso da quello descritto in romanzi sullo stesso teatro di guerra, uno per tutti Per chi suona la campana di Ernest Hemingway. Infatti vi è descritta una campagna statica, in trincee, simile a quella della Prima Guerra Mondiale, con l’unica differenza, non da poco ovviamente, rappresentata dalle rare occasioni di scontri e quindi con perdite limitatissime. Con ogni probabilità ebbe occasione di operare in un settore del fronte relativamente quieto, ma se il pericolo di restare ucciso era tutto sommato modesto, per il resto c’erano tutti i problemi della guerra di posizione, la cui descrizione è veramente pregevole. La pioggia incessante, il fango che rende difficile camminare, la promiscuità in ricoveri di fortuna, la scarsità delle armi e delle munizioni, il vestiario inadeguato e ridotto a brandelli, la compagnia certamente non desiderata di topi e pidocchi sono un palcoscenico dove di importante dal punto di vista bellico non accade nulla, così che fra i miliziani regna la noia nell’attesa dell’avvicendamento che li porterà nelle retrovie a Barcellona.  Il tanto sospirato riposo nella capitale della Catalogna non si rileverà però tale, perché scoppia quella che appare una rivoluzione e invece è il tentativo di prendere il potere dei comunisti stalinisti per niente favorevoli  alla rivoluzione permanente che vorrebbero gli anarchici. Dagli scontri, in verità di modesta entità, Orwell esce indenne, ma ritornato al fronte viene colpito alla gola da una pallottola, che gli impedirà a lungo di parlare e gli imporrà una lunga convalescenza, resa complicata anche dal fatto che, abolito il POUM, i comunisti gli danno la caccia, tanto che con notevole difficoltà troverà riparo e salvezza all’estero.

Al di là della narrazione dell’esperienza maturata di particolare rilievo è l’analisi svolta della situazione e del voltafaccia dei comunisti che non esitarono, per liberarsi del POUM, di arrivare ad accusarlo di connivenza con le forze franchiste, insomma di essere una quinta colonna fascista volta a impedire quella rivoluzione che i comunisti stessi volevano invece fermare. Per far questo non esitarono a corrompere giornalisti di testate estere, una tecnica di disinformazione che è una costante prima dei sovietici e poi dei russi.

Omaggio alla Catalogna costituisce pertanto uno dei più importanti reportage sulla guerra civile in Spagna e per Orwell una presa di coscienza che lo porterà a un rifiuto netto di ogni totalitarismo.

Imperdibile.

George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair, nacque a Motihari (India) il 25 giugno 1903 e morì a Londra il 21 gennaio 1950. Giornalista e scrittore è giustamente ricordato soprattutto  per due suoi romanzi di notevole spessore: La fattoria degli animali e 1984.

Renzo Montagnoli

 

 

19 Febbraio

Guarda le luci, amore mio

di Annie Ernaux

L’orma Editore

Narrativa

Pagg. 112

ISBN 9788831312844

Prezzo Euro 13,00

 

Uno specchio della realtà sociale

L’origine di questo libriccino (112 pagine) è un incarico che Annie Ernaux ha ricevuto nel 2017 dall’editore francese Seuil di un libro per la sua collana “Raccontare la vita”. In pratica, con un tema così vasto, c’è solo l’imbarazzo della scelta, ma la narratrice, recente premio Nobel per la letteratura, ha avuto un’idea originale e ha pensato che non ci può essere miglior specchio della realtà sociale parlando di ciò che si incontra e si vede in un grande polo d’attrazione quale può essere l’ipermercato. E’ così che Ernaux registra, come in un diario, le visite che effettua in un anno al suo Auchan, a questo tempio del consumismo in cui la gente affluisce nel corso di una giornata, gente di tutti i tipi. C’è chi deve fare i conti con il magro portafoglio, altri che sono attratti irresistibilmente da pseudo sconti e acquistano assai di più di quel che sarebbe necessario. Insomma, fra i richiami melliflui del capitalismo commerciale si aggira una varia umanità che l’occhio attento di Ernaux è riuscito a cogliere e che poi con la consueta abilità ha trasferito su carta. Le visite della scrittrice sono anche dovute alla necessità di acquistare i prodotti per l’indispensabile alimentazione, ma non manca mai l’ironia con cui riesce a cogliere le contraddizioni di questo grande mercato che affascina e disorienta, che invoglia a fare acquisti (penso che sia capitato a tutti che, entrati per acquistare due prodotti, se ne vedano altri in offerta, altri ancora a prezzo normale, ma che o per novità o per altro sono un richiamo irresistibile; il risultato è che si finisce con l’arrivare alle casse con il carrello pieno o quasi). Con così tanta gente che vi accorre l’ipermercato sembrerebbe un luogo di aggregazione e invece non lo è,  è un posto dove chi si sente solo acuisce questa sensazione, perché tutto è attrezzato affinché il cliente entri, compri e paghi, senza che ci sia la possibilità di sedersi e parlare con qualcuno, dialoghi anonimi che invece si presentano puntuali nelle file delle casse.

Con questo libro Ernaux ci presenta i tanti difetti e i pochi pregi della nostra società, non facendo sconti nemmeno per se stessa, e lo fa con il solito garbo, con quella scrittura scorrevole, semplice, ma anche efficacissima, che la contraddistingue. Certo non siamo ai livelli del superlativo Una donna, ma si tratta di un’opera piacevole in cui troveremo anche tanto di noi.

Annie Ernaux  (Lillebonne, 1 settembre 1940) è una scrittrice francese vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura 2022. Di famiglia operaia, ha vissuto fino all’adolescenza in Normandia, mantenendo in seguito un forte legame con l’ambiente sociale d’origine e le tematiche della differenza di classe. Ha esordito con il romanzo Gli armadi vuoti (Les Armoires vides, 1974), nella tradizione del realismo sociale, cui è seguito Il posto (La place, 1984), ricostruzione del proprio ambiente familiare. Nei romanzi successivi ha continuato a indagare, in un linguaggio «vero», che si vuole oggettivo e depurato da evasioni stilistiche o di finzione romanzesca, i luoghi e le sensazioni della propria autobiografia al femminile: Passione semplice (Passion simple, 1991), La vita esteriore (La vie extérieure, 2000, nt), Perdersi (Se perdre, 2001, nt), L’uso della foto (L’usage de la photo, 2005, nt), L'altra figlia (L'autre fille, 2016). Gli anni (Les années, 2008), pubblicato da L'orma nel 2016, è vincitore del Premio Strega Europeo 2016 e finalista del Premio Sinbad 2015 - Narrativa straniera. Con L'Orma ha pubblicato Memoria di ragazza (2017), La vergogna (2018) e La donna gelata (2021).
Nel 2022 è vincitrice del Premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione: "per il coraggio e l'acutezza clinica con cui scopre le radici, le estraneità e i vincoli collettivi della memoria personale".

Renzo Montagnoli

 

 

14 Febbraio

La Sanseverino.

Giochi erotici e congiure nell'Italia della Controriforma

di Gigliola Fragnito

Edizioni Il Mulino

Storia

Pagg. 216

ISBN 9788815290632

Prezzo Euro 24,00

 

La frenesia di vivere

Se si passa per Colorno, grazioso paese nei pressi del Po in provincia di Parma, è pressoché doveroso fare una visita alla sua famosa Reggia, soprattutto da quando è stata restaurata dopo anni di utilizzo inappropriato (era un ospedale psichiatrico). Le sue oltre 400 sale e il magnifico giardino rappresentano un’indubbia attrattiva, ma non è solo una questione artistica l’interesse per questo palazzo ducale, perché lì, sul finire del 1500 e gli inizi del 1600, ci fu una corte assai famosa e questo per merito di Barbara Sanseverino Sanvitale, contessa di Sala e signora di Colorno. Era una donna esuberante, famosa per la sua bellezza e anche per la frenesia con cui conduceva la sua esistenza, tutta dedita al divertimento, non escluso quello erotico. Anzi sotto quest’ultimo aspetto Barbara Sanseverino e i componenti della sua corte erano piuttosto noti; in quelle sale si folleggiava, ma anche si parlava di poesia, si ascoltava la bella musica, si tenevano feste che duravano giorni e giorni, insomma la reggia era un autentico tempio del piacere. Ma, anche quando era in trasferta, Barbara continuava in questa vita di eccessi, un autentico faro che chiamava a sé tutti i gaudenti. E questo benché fosse sposata, con prole anche, insomma era un carattere del tutto particolare, invocava una libertà che per i tempi era un po’ troppo in anticipo. Le feste, i piaceri della carne però non la distraevano dal difendere i suoi piccoli possedimenti, ambiti notevolmente da Ranuccio I Farnese, duca di Parma, un personaggio a tinte fosche teso continuamente ad ampliare il suo potere. Per quanto ovvio fra lui e i Sanvitale non correva buon sangue, tanto più che questi ultimi erano in stretta amicizia con Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova, che era detestato da Ranuccio a causa del matrimonio con sua sorella Margherita durato appena due anni e annullato per una malformazione fisica della sposa che non permetteva di consumarlo.

Il Signore di Parma, peraltro, sempre teso ad ampliare il suo potere, provvide a limitare i diritti dei nobili del suo ducato provocando un generale malcontento al punto che ordirono una congiura, probabilmente anche stimolati dal potente Vincenzo I. Scoperta la cospirazione, la reazione di Ranuccio fu spietata, i partecipanti furono imprigionati e quasi tutti condannati alla pena capitale. Fra essi c’era anche Barbara Sanseverino, la cui testa fu mozzata ricorrendo a un mannarino, che si usa solitamente per gli animali, .anziché a una mannaia. Si concludeva così tragicamente la vita di una donna che comunque spese bene, come desiderava, gli anni della sua esistenza.

Di lei ci parla la storica Gigliola Fragnito con La Sanseverino, un saggio ben strutturato, in grado di presentare un ritratto completo, sia dal punto di vista degli eventi che della psicologia del personaggio. Se c’è un appunto da fare, l’unico è lo stile un po’ accademico che, per restare strettamente connessa ai fatti, implica una narrazione che in alcuni punti può apparire greve. Nel complesso però l’opera ha una sua valenza perché permette di comprendere un’epoca e una protagonista, la cui spumeggiante vitalità era frutto di una libertà  del genere femminile troppo avanti per quegli anni.

Gigliola Fragnito ha insegnato Storia moderna nell’Università di Parma. Con il Mulino ha pubblicato anche «La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura» (1997, nuova ed. 2015), «Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna» (2005), «Cinquecento italiano. Religione, cultura e potere dal Rinascimento alla Controriforma» (2012), «Storia di Clelia Farnese. Amori, potere, violenza nella Roma della Controriforma» (2013, nuova ed. 2016), «Rinascimento perduto. La letteratura italiana sotto gli occhi dei censori» (2019).

Renzo Montagnoli

 

 

7 Febbraio

Le Vergini di Pietra

di Ben Pastor

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa

Pagg. 412

ISBN 9788804683896

Prezzo Euro 14,00

 

Un Cuore di tenebra nel terzo secolo d.C.

Un’altra avventura di Elio Sparziano, incaricato dall’imperatore Galerio di rintracciare il generale romano Paullo Curzio, che ha disertato in Armenia, dove di fatto avrebbe dato vita a un regno facendosi chiamare Ter Vishap, il signore dei draghi. Dei tre episodi che finora ho letto questo è senza ombra di dubbio il migliore, presentando elementi di giudizio particolarmente validi, al di là di quella che può essere la trama, in verità intricata, ma ben congegnata. Il lungo viaggio che porterà Elio da Trebisonda, porto sul Mar Nero alle Vergini di Pietra, picchi rocciosi che vegliano sul passo che immette nei domini di Ter Vishap è uno di quelli che è ben difficile dimenticare, per ricchezza di informazioni, per capacità descrittive in grado di presentare agli occhi del lettore panorami inconsueti, facendo entrare gradualmente in un’atmosfera che sembra sospesa nel tempo. Come tutti i percorsi umani che presentano diversi gradi di difficoltà a cui l’itinerante viene sottoposto è un lungo viaggio dentro di sé, a scoprire le proprie qualità, a far emergere i difetti, a maturare esperienze che gettano basi solide per il futuro. E’ una terra selvaggia, di terremoti, di piogge dirompenti, di arsure devastanti, infestata da ragni giganteschi e da predoni per i quali la vita di un uomo vale meno di zero. La scrittura di Ben Pastor è particolarmente immaginifica ed è al servizio di ciò che è la perfetta antitesi del bene, cioè il male, un male che può assalire inconsapevolmente un uomo nel suo sfrenato desiderio di potenza fino a poter decidere dell’esistenza dei suoi simili; in fin dei conti Ter Vishap, che Elio Sparziano troverà, non è altro che un uomo simile al Kurtz di Cuore di tenebra, un individuo che nel suo desiderio di onnipotenza crede di essere un Dio. In un drammatico scontro finale, pagine che sono un capolavoro, emergerà la miseria morale di Ter Vishap, ritornato, in prossimità della morte Paulo Curzio, un mortale come tutti, la caduta di un dio ritornato uomo. In questo viaggio Elio incontrerà tanti personaggi, alcuni stimabili, altri laidi, ma da tutti avrà da imparare qualcosa, né mancherà un’occasionale parentesi di un amore erotico con una ex prostituta in origine circense, Tarantula, che negli amplessi che gli riserverà gli farà tanto più apprezzare il desiderio di un amore fatto di sentimenti, come quello con Anubina, l’ex prostituta egiziana che lui aveva comprato e che, innamorandosene, aveva liberato.

Le Vergini di Pietra è quello che si può definire un romanzo stupendo.

Scrittrice italo americana Ben Pastor, all'anagrafe Maria Verbena Volpi, nata a Roma il 4 marzo 1950 ma trasferitasi ben presto negli Stati Uniti, ha insegnato Scienze sociali presso le università dell'Ohio, dell'Illinois e del Vermont. Oltre a Lumen, Luna bugiarda, Kaputt Mundi, La canzone del cavaliere, Il morto in piazza, La Venere di Salò,  Il cielo di stagno, - ovvero il ciclo del soldato-detective Martin Bora (pubblicati da Hobby&Work a partire dal 2001 e poi da Sellerio) - è autrice di I misteri di Praga (2002), La camera dello scirocco, omaggi in giallo alla cultura mitteleuropea di Kafka e Roth (Hobby &Work), nonché de Il ladro d'acqua (Frassinelli 2007), La voce del fuoco (Frassinelli 2008), Le vergini di pietra La traccia del vento (Hobby & Work 2012), una serie di quattro thriller ambientata nel IV secolo dopo Cristo.
Nel 2006 ha vinto il Premio Internazionale Saturno d'oro come migliore scrittrice di romanzi storici.

Le sue opere sono pubblicate negli Stati Uniti e in numerosi Paesi europei.
Un suo racconto è incluso nell'antologia Un Natale in giallo (Sellerio 2011).
Nel 2014 esce La strada per Itaca (Sellerio) e nel 2020 Il ladro d'acqua (Mondadori).

Renzo Montagnoli

 

 

2 Febbraio

Una donna

di Annie Ernaux

L’orma Editore

Narrativa

Pagg. 99

ISBN 9788899793470

Prezzo Euro 15,00

L’elaborazione del lutto

Mi è occorso poco tempo per leggere questo libriccino e ancor meno per rileggerlo, perché le pagine sono poche (in tutto 99) e lo stile è talmente scorrevole che scivola via, come una goccia di pioggia sul vetro di una finestra.

In breve la storia è questa: la madre dell’autrice, anziana e malata di Alzheimer, ricoverata in una struttura specializzata, muore. L’evento, per quanto certo e comune a tutti gli esseri viventi, diventa un dramma per la figlia; quella consapevolezza che chi l’ha messa al mondo e l’ha cresciuta non c’è più e che non potrà più rivedere accanto a sé necessita di un inconscio, ma indispensabile processo di elaborazione che si estrinseca nel ricordo, a partire da quello che ha appreso da altri della vita della sua genitrice quando questa era ancora una bimba. Poi, il tempo scorre e dal matrimonio della madre nasce lei, Annie, ed è allora che la memoria frutto di accadimenti che l’hanno toccata si fa più dolorosa, emergono caratteri, dolcezze, contrasti, è un film la cui pellicola si svolge senza poterla fermare. Affiorano anche punte di rimorso per quello non detto o fatto e che si sarebbe dovuto dire o fare, e anche quello che si è detto e si è fatto, e non si sarebbe dovuto né dire né fare. E’ un percorso obbligato, l’unico perché possa essere attutito il dolore e sia accettata la morte di una persona cara come un evento del tutto naturale. E’ una cesura netta con il passato, tanto che il libro si conclude con queste parole: “Non ascolterò più la sua voce. Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi gesti, la sua maniera di ridere e camminare, a unire la donna che sono alla bambina che sono stata. Ho perso l’ultimo legame con il mondo da cui provengo.”.

A primo colpo può sembrare un racconto banale, perché in fin dei conti tutti ci siamo passati, ma il genio dell’artista è nel rendere del tutto eccezionale ciò che è solitamente normale, è la capacità di dire e scrivere con parole semplici, ma mirate quella che è la vita, appassionando chi legge, avvincendolo, consentendogli di essere partecipe all’elaborazione di un lutto che, se non ha già sperimentato, prima o poi diventerà una fase della sua esistenza.

E’ il primo libro che leggo di questa autrice francese che ha ricevuto nel 2022 il prestigioso Premio Nobel per la letteratura e mi è piaciuto, mi ha avvinto dalla prima all’ultima pagina, ho partecipato alla elaborazione del suo dolore come se sua madre fosse stata mia madre, perché anch’io ho percorso dentro di me lo stesso doloroso itinerario dopo la scomparsa della mia genitrice. Io non ho saputo però raccontarlo, mentre lei ha vergato sul foglio le parole di un intimo tormento, fino a quando – ne era ben consapevole, avendone timore – lo stratagemma della memoria, che tanto serve a mantenere in vita un defunto, sarebbe crollato con la definitiva certezza della perdita della persona cara.

E’ un libro di grande sensibilità e di rara bellezza e quindi è senz’altro più che meritevole di lettura.
Annie Ernaux  (Lillebonne, 1 settembre 1940) è una scrittrice francese vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura 2022. Di famiglia operaia, ha vissuto fino all’adolescenza in Normandia, mantenendo in seguito un forte legame con l’ambiente sociale d’origine e le tematiche della differenza di classe. Ha esordito con il romanzo Gli armadi vuoti (Les Armoires vides, 1974), nella tradizione del realismo sociale, cui è seguito Il posto (La place, 1984), ricostruzione del proprio ambiente familiare. Nei romanzi successivi ha continuato a indagare, in un linguaggio «vero», che si vuole oggettivo e depurato da evasioni stilistiche o di finzione romanzesca, i luoghi e le sensazioni della propria autobiografia al femminile: Passione semplice (Passion simple, 1991), La vita esteriore (La vie extérieure, 2000, nt), Perdersi (Se perdre, 2001, nt), L’uso della foto (L’usage de la photo, 2005, nt), L'altra figlia (L'autre fille, 2016). Gli anni (Les années, 2008), pubblicato da L'orma nel 2016, è vincitore del Premio Strega Europeo 2016 e finalista del Premio Sinbad 2015 - Narrativa straniera. Con L'Orma ha pubblicato Memoria di ragazza (2017), La vergogna (2018) e La donna gelata (2021).
Nel 2022 è vincitrice del Premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione: "per il coraggio e l'acutezza clinica con cui scopre le radici, le estraneità e i vincoli collettivi della memoria personale".

Renzo Montagnoli

 

 

29 Gennaio

Ucraina. Alle radici della guerra

Tutti i perché sull’invasione russa

di Diversi Autori

a cura di Matteo Zola

Paesi Edizioni

Saggistica

Pagg. 222

ISBN 9791280159885

Prezzo Euro 13,00

 

Guerra in Ucraina, come e perchè

L’attuale conflitto fra Russia e Ucraina pone indubbiamente molte domande, a cui i talk show televisivi non sanno dare risposte attendibili, stante le posizioni in contrapposizione degli intervenuti che quasi sempre esprimono opinioni senza avere conoscenza approfondita del problema. Si aggiunga poi la capillare politica di disinformazione praticata dalla Russia da decenni e si può quindi ben comprendere come la gente possa apparire disorientata, non riuscendo a comprendere soprattutto che cosa ci sia all’origine di questa guerra.

East Journal è un quotidiano di attualità e politica dell’Europa orientale che si può leggere su Internet  e come tale ovviamente dà largo spazio al conflitto in Ucraina con servizi che nel complesso, oltre a essere sufficientemente attendibili, non sono spiccatamente di parte pur prendendo le difese di uno stato sovrano invaso da un altro, come nel caso appunto dell’Ucraina.

E Ucraina. Alle radici della guerra, è appunto il libro di East Journal, con il quale, in modo equilibrato, seppure non equidistante, come ha scritto Anna Zafesova nella prefazione, si cerca di dare le risposte ai tanti quesiti che in proposito si pone la gente comune. Quindi, per ogni domanda, c’è una risposta che cerca di far luce sul quesito posto, senza la pretesa che sia l’assoluta verità, ma con la certezza che chi scrive sia persona competente, che da anni studia i problemi dell’Europa orientale e soprattutto quello dei rapporti mai idilliaci fra i paesi satelliti dell’ex Unione Sovietica e la Russia. Sono ben quindici le domande, del tipo: perché proprio l’Ucraina? E’ colpa della Nato? Ci sono i nazisti al governo? Ecc. Se non fosse per un senso di rispetto verso gli autori che hanno cercato di essere il più possibile esaurienti in modo semplice e quindi facilmente comprensibile ai più, potrei definire questo libro un manuale sull’attuale conflitto in Ucraina, ma in realtà è molto di più. Personalmente seguo, sulla base delle notizie giornalistiche, Putin fin dal 2002, perché in occasione del suo brutale intervento in Cecenia già allora paventai un pericolo concreto per l’umanità, e quindi non sono del tutto a digiuno in ordine a quelle che sono le origini di questa guerra; di conseguenza posso dire che il libro non è un semplice manuale, ma presenta gli approfondimenti indispensabili per essere di notevole aiuto a chi vuole  capire, a tutti quelli che non amano i preconcetti, ma che desiderano almeno un po’ di verità. Per ricerche che vadano ulteriormente in profondità si dovranno chiamare in causa gli storici che, però, in costanza degli eventi, sono impossibilitati a intervenire, perché la storia richiede che i tempi che studia siano già trascorsi, lasciando appunto ad altri la cronaca, l’attualità.

Ucraina. Alle radici della guerra mi è piaciuto e pertanto lo ritengo meritevole di lettura.

Alessandro Ajres, slavista all’università di Torino; Ilona Babkina, redattrice e allieva del MIREES; Oleksiy Bondarenko, docente all’università di Warwik; Andrea Braschayko, giornalista di Valigia Blu e Il Foglio; Giovanni Catelli, scrittore e giornalista; Davide Denti, dottore di ricerca a Trento e funzionario alla Commissione europea; Michael L. Giffoni, diplomatico; Sofiya Stetsenko, redattrice e allieva MIREES; Matteo Zola, giornalista professionista e direttore di East Journal. Questi i nomi di chi ha scritto il libro.

Renzo Montagnoli

 

 

 

24 Gennaio

Ipotesi di misura

di Francesca Bavosi

Fara Editore

Poesia

Pagg. 96

ISBN 978-88-9293-067-4

Prezzo Euro 10,00

opera poetica I classificata al Faraexcelsior

Così è la vita

Ogni volta che mi trovo per le mani un libro di poesia di un autore che mi è sconosciuto sono preso da un torpore agitato, quasi un ossimoro che cerca di rendere più chiaro il mio stato d’animo, perché leggere è semplice, ma accogliere in se stessi le parole e i pensieri di un altro non è facile. Che vorrà dire, dove vorrà andare a parare, che motivazioni sono alla base, sono tutte domande che mi frullano per il cervello e a cui cerco di dare risposta tentando di immedesimarmi nell’autore. Francesca Bavosi per me è una sconosciuta, e mi scuso con l’interessata, perché questa mia affermazione non vuole essere un pregiudizio, ma spiega le difficoltà che incontro, a volte maggiori, a volte minori, dipende soprattutto dalla chiarezza dei versi, dall’interpretazione che  può essere data agli stessi, dalle tematiche affrontate. Dopo questa premessa, che ritengo opportuna, voglio passare alla disamina dell’opera, alle mie sensazioni, alle emozioni che mi ha fatto nascere.

Innanzi tutto rilevo, con piacere, che la forma dei versi è funzionale allo scopo, senza svolazzi o ricorsi a immagini d’effetto, ma quel che più conta mi è sembrata una poesia che già in prima lettura è capace di trasmettere il messaggio che inevitabilmente porta. E’ un mondo concreto, non evanescente, né astrattamente costruito quello che è alla base delle poesie; si tratta di riflessioni su aspetti del contingente, come in Torpore (Questo finire d’estate degradante / gorgoglia nei tombini zuppi / e intorbida il sangue, arrivano / dalle finestre zaffate di bitume / come il rantolo della stagione /e scandiscono le ore – troppo poche – / che mi separano da lunedì. / Arranco – le valigie sopra il letto – / tra i gusci di conchiglia e le provviste / per l’inverno pensando alla cicala / che muore da qualche parte muta / e ringraziando la sua vita /

della mia più feconda.). Ci sono tutti gli aspetti di una stagione, l’estate, la cui fine è imminente, compreso lo stato d’animo della poetessa, con quella certezza che il tempo delle vacanze è finito e che si dovrà tornare al lavoro, con quelle ore, troppo poche, che separano dal lunedì. E cosa resta di questa stagione? I gusci di conchiglia raccolti in riva al mare, ma questo è già il passato, occorre pensare al futuro con le provviste per l’inverno. Si riprende il solito ripetitivo tran tran, in una vita che non è piena come quelle delle cicale che sono prossime a morire.

Resta il fatto che la natura ha un aspetto preminente, come nel caso dell’elegia equinoziale, equinozio di primavera, con la soffusa descrizione delle sensazioni  che affiorano con la nuova stagione ( Ai racconti segreti dei tetti / ai fantasmi tra i ciliegi / / alle parole importanti nelle sporte / e all’eco delle mani stupite / / alla casa antica sotto il passo / all’amico pino / / la primizia notturna della mite stagione. / / La tua primavera ha già / un nuovo sole. ).

Stagioni che iniziano, altre che finiscono, ritmano il trascorrere del tempo  e in questo srotolarsi di ore, di giorni, di mesi si vive, pronti a recepire i segnali della natura che cambia, anche noi parte della stessa.

In fin dei conti, con queste poesie Francesca Bavosi, parlando della vita, parla di se stessa, delle sue sensazioni, delle sue emozioni, si apre non nel cantuccio di un confessionale, ma in un libro in cui si svolgono le pagine non come elenco di peccati, ma come una silenziosa voce che scaturisce dall’anima. 

Francesca Bavosi è nata e vive a Fano (PU). Laureata in Lettere classiche all’Università di Urbino, insegna con gratitudine in una scuola della sua città. Alcuni suoi testi sono stati selezionati in concorsi nazionali e internazionali (5° Premio De Palchi Raiziss, Presidente di giuria Giovanni Raboni; 4° Premio Nazionale Novella Torregiani; VI Premio Città di Conza; Premio Zeno 2021).

Renzo Montagnoli

 

 

20 Gennaio

 

Recensione del libro “Fiorita di stelle”, raccolta poetica di Paola Mara De Maestri

Prefazione di Hafez Haidar (candidato al Premio Nobel per la pace e la letteratura)

Copertina dell’artista sondriese Marinella Milani

             

Un Cosmo Poetico, di Alfred Palma

Ho sempre amato e rispettato il ruolo, il talento e il contributo delle donne in ogni genere d’arte: fra tante altre le pittrici Mary Cassatt (americana), Rosa Bonheur (francese) e Frida Kahlo (messicana); le scrittrici George Sand, ossia Aurore Dudevant (francese), Françoise Sagan (francese), Agatha Christie e le sorelle Brönte (inglesi); i soprano Maria Callas (greca) e Renata Tebaldi (italiana) opera lirica; altre cantanti in diverse forme musicali, particolarmente quelle classiche, soprattutto nel campo lirico e pianistico. Poi le poetesse: Elizabeth Barrett Browning (inglese) Sylvia Platt ed Emily Dickinson (americane), Mary Meilak (gozitana), Doreen Micallef (maltese), e le tre poetesse italiane: Antonia Pozzi, Alda Marini e Paola Mara De Maestri.

   Ed è stata proprio quest’ultima, che pochi giorni fa mi ha gentilmente regalato una delle sue più  recenti collezioni di poesie,  col titolo deliziosamente etereo Fiorita di Stelle (Aletti Editore); un libro di 82 pagine, con una copertina cattivante e 40 poesie davvero belle, scritte con la mano e le penne dell’anima e del cuore; poesie raggruppate con cura sotto titoli diversi come: Inno alla vita, Canto d’amore, All’ombra del ricordo, Donne, La prima roccia, Ritratti, Il tempo e Pensieri.

   E proprio ogni titolo estende e intensifica con una grande sensitività  il senso poetico di Paola Mara De Maestri oltre l’anima, il cuore, i sentimenti dolcemente musicali e femminili, che spesso diventano macchioline scintillanti di un’aura cosmica. Veramente, ogni poesia sa di armonie eteree, piccoli preludi fioriti e profumati, che passano ritmicamente da un  sentimento all’altro; l’umanità della poetesse vola come una dolce brezza primaverile da un titolo all’altro; ogni poe-preludio varia in chiave, colore e armonia, per fare finalmente un vero inno affascinante e glorioso alla Poesia.

   Fiorita di stelle, dedicato dalla poetessa al figlio Gioele, inizia con una prefazione molto interessante di Hafez Haidar e si chiude con una nota biografica della De Maestri, che contiene tutto ciò che uno vorebbe sapere di questa donna, di questa bravissima poetessa, che continua ad abbellire e nobilitare la poesia italiana

Alfred Palma, è un poeta, autore e il traduttore maltese per eccellenza, che con grande maestria ha affrontato la traduzione maltese della Divina Commedia di Dante. Si è anche occupato in passato della traduzione dei 38 drammi e sonetti di Shakespeare, oltre ad altre grandi opere di Oscar Wilde, Voltaire, DH Lawrence e Thomas Mann. Ha ricevuto il prestigioso Premio “Dante” nel 2021, riconoscimento assegnato dal Comitato di Malta a chi promuove e tutela la lingua italiana nel mondo.

Breve nota biografica:

Paola Mara De Maestri, nata a Sondrio il 3 marzo 1970, insegnante, poetessa, pubblicista, collabora con il portale internet Tellusfolio ed è Direttore del periodico “Il Talamonese”. È Consigliere di È Valtellina ed è responsabile della sezione Laboratorio Poetico. Ideatrice e curatrice della “Bottega Letteraria de ‘l Gazetin" e di tante iniziative e concorsi letterario-figurativi per adulti e bambini, realizzate in collaborazione di enti, scuole e associazioni italiane ed estere. Come autrice ha conseguito numerosi riconoscimenti a concorsi nazionali ed internazionali ed è stata pubblicata in molte antologie poetiche. Alcuni suoi componimenti sono impressi su stele o su monumenti (Valtellina, Piemonte, Calabria). Nel 2014 la poesia “Il milite”, già presente nella pubblicazione “Anni perduti” (memorie di guerra) di Emilio Tonelli è stata  riportata su una delle targhe che sono state infisse alle steli in pietra,  del  Viale dei Caduti  di Piea (Asti). Nel luglio 2017 la poesia “Ricordo l’alluvione” è esposta sul monumento realizzato dall’Amministrazione Comunale di Fusine in occasione dei trent’anni dall’alluvione del 1987. Il 4 agosto 2019 la poesia “Madre” impressa su stele di ceramica viene adagiata ad un muro di un edificio storico di Rocca Imperiale (Cosenza), ne “Il Paese della Poesia, in quanto vincitrice dell’XI edizione del Concorso Internazionale di Poesia “Il Federiciano 2019”.Nell'autunno 2001 ha pubblicato con la Casa Editrice Libroitaliano il primo libro intitolato "Dentro la vita". Nel 2004 ha visto le stampe la seconda raccolta di poesie dal titolo "L'amore parla piano" Bellavite Editore. Nel 2008 è uscita la sua terza raccolta personale dal titolo “Il pane del sorriso” edita dalla Casa Editrice Giulio Perrone. Nel giugno 2010 è uscito il quarto libro dal titolo "Aquiloni d'argento", edito dal Circolo Culturale F/N Morbegnese Nel 2014 esce “Con gli occhi del cuore”, edita da Ti pubblica. È del 2018 “Un noce fa primavera” edito da  Kimerik. Del 2022 l’ultima pubblicazione dal titolo “Fiorita di stelle” con Aletti Editore.


 

 

 

18 Gennaio

Chiamate la levatrice

di Jennifer Worth

Sellerio editore Palermo

Narrativa

Pagg. 493

ISBN 9788838931444

Prezzo Euro 15,00

 

Dedicato a chi aiuta a nascere

In tutta sincerità non avrei mai letto questo libro se non mi fosse stato segnalato da un amico, che l’aveva particolarmente apprezzato e che a sua volta l’aveva preso in mano probabilmente in forza della professione di ginecologo da lui svolta. Onestamente devo dire che non ero particolarmente entusiasta dell’idea di leggerlo, temendo, chissà perché, descrizioni di carattere medico, ma per fortuna non è stato così; anzi, Chiamate la levatrice, frutto dell’esperienza maturata in diversi anni dall’autrice in qualità appunto di levatrice, è un’opera particolarmente interessante, anche perché, pur essendo basata su un diario, è stata stilata come un vero e proprio romanzo, con un “IO” narrante che è appunto Jennifer Worth.  

Ambientato a Londra, nell’Est Side, il porto della città, agli inizi degli anni Cinquanta, al di là della descrizione degli eventi, cioè dei parti, di cui l’autrice è stata protagonista, Chiamate la levatrice è anche un ritratto impietoso, ma sincero, delle condizioni di vita della povera gente, inasprite dalle difficoltà economiche conseguenti la guerra da poco finita. Ci sono descrizioni che richiamano le situazioni di estrema indigenza così ben descritte da Archibald Cronin e da Charles Dickens in tante loro opere con la differenza che i due narratori, pur osservando situazioni reali, erano ricorsi alla loro vena creativa, cioè inventando fatti e personaggi, mentre nel caso di Jennifer Worth si tratta di vicende realmente accadute in cui lei è stata testimone e sovente coprotagonista.

Il grigio di una metropoli la cui aria è ammorbata dalle industrie finisce con il diventare anche quello della vita di tanti miserabili senza speranza e in quanto tali particolarmente prolifici, tanto che famiglie con una decina di figli non erano da considerare una rarità (nel libro c'è una donna al suo ventiquattresimo parto); tuttavia, l’autrice è capace di descrivere situazioni e personaggi con un senso di autentica pietà e con un profondo rispetto per ogni individuo, per il ricco e per il povero, per l’erudito e per l’incolto.

Comunque, se uno non ha mai assistito a un parto, qui ha l’opportunità di essere reso opportunamente edotto, ma in modo semplice ed efficace, così che  si finisce con l’appassionarsi a quel grande evento che è la nascita. Peraltro, accanto a tanti umili personaggi, ci sono anche le figure delle giovani levatrici e delle suore del convento di Nonnatus House, descritte con autentica tenerezza e se agli inizi della sua esistenza con queste religiose Jennifer è agnostica, poco a poco sente maturare qualcosa in lei che se forse non è ancora fede, però è in corso di divenire, e questo senza un insegnamento religioso, senza approfondimenti teologici, ma con l’esempio della vita quotidiana di queste monache, votate a soccorrere la povera gente e a far nascere i bambini.

Chiamate la levatrice si legge con grande piacere e quindi è sicuramente consigliabile.

Jennifer Worth (Clacton-on-Sea, 25 settembre 1935 – 31 maggio 2011),  infermiera fino agli anni Settanta, e dopo musicista, ha scritto una trilogia dedicata alla sua esperienza come levatrice nell’antica zona proletaria di Londra: Call the midwife (2002), Shadows of the Workhouse (2005) e Farewell of the East End (2009).
La prima opera, Chiamate la levatrice, è stata pubblicata in Italia nel 2014 da Sellerio. In Gran Bretagna ha venduto oltre un milione di copie e la BBC ne ha tratto una serie televisiva, distribuita in numerosi Paesi.

Renzo Montagnoli

 

 

11 Gennaio

Il cappotto di astrakan

di Piero Chiara

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa

Pagg. 205

ISBN 9788804720485

Prezzo Euro 12,00

 

Un gioiellino

L’anno è il 1950 e un italiano di quarant’anni arriva a Parigi, con lo scopo di trascorrervi un tempo non predeterminato e magari di poter imprimere una svolta decisiva alla propria vita, nonché per non essere da meno di alcuni suoi compaesani che vi hanno soggiornato e che di questa permanenza raccontano al caffè del paese. Dopo un breve periodo in un alberghetto trova una camera presso la vedova Lenormand a un prezzo irrisorio, a particolari condizioni, quali non portare ospiti, non spostare nulla di quello lasciato dal precedente abitante  e sopportare la presenza ostile del gatto Domitien. Nel corso delle sue escursioni parigine ha modo di conoscere una ragazza, Valentine, con cui allaccia una relazione. Quando non è a zonzo per le vie della città si diverte a leggere i numerosi libri della biblioteca presente nella camera ammobiliata e in particolare alcuni scritti non molto chiari presumibilmente di chi lì l’ha preceduto. La vedova Lenormand, personaggio d’altri tempi e di struttura ampiamente robusta, gli racconta di avere un figlio, Maurice, che gli somiglia moltissimo, fuggito in Indocina con una giovane di quel paese; dato che l’inverno è prossimo e comincia a far freddo gli dona un cappotto di astrakan che era stato in precedenza del figlio. Non vado oltre, perché la trama, sebbene non gialla, merita di non essere completamente svelata, presentando certi eventi che danno una svolta a una vicenda fino a lì nel complesso non particolarmente originale, ma nemmeno banale.

A prima vista si potrebbe pensare a un racconto autobiografico, visto che il protagonista proviene da Luino, che c’è la citazione del caffè del paese con i frequentatori dediti al gioco del biliardo, che si parla di una precedente visita, per quanto da internato in Svizzera, ma così non è, atteso che lo stesso Chiara alla fine del romanzo precisa che è da escludere una sua partecipazione ai fatti narrati. Personalmente credo che invece, sia pure un po’ camuffata, ci sia la personalità dell’autore in un’opera all’apparenza di poco conto, ma che presenta più piani di lettura. Il desiderio di evasione dalla quieta e monotona vita di paese verso la grande città è un’aspirazione plausibile, come quella di lasciarsi condurre per mano dal fato, con quella ineluttabilità degli eventi che scandiscono la vita di ognuno di noi. Inoltre c’è anche l’impossibilità di opporsi al proprio destino, con il protagonista che è e resterà un provinciale, magari con l’ebrezza di un salto in un mondo molto diverso dal suo, ma con l’inevitabile ritorno alle proprie radici, dove condurre un’esistenza senza scossoni, in un grigio che anziché deprimere finisce con il confortare.

Quindi, sotto un’apparenza dimessa si cela un’opera di notevole livello, scritta in modo impeccabile e di facile e assai gradevole lettura.

Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.

E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedrò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti(1986).

Renzo Montagnoli

 

 

 

10  Gennaio

L’alveare assopito

di Angela Caccia

Fara Editore

Poesia

Pagg. 72

ISBN 978-88-9293-070-4

Prezzo Euro 10,00

Opera poetica I classificata al  Faraexcelsior

Quando la classe non è acqua

Già il titolo di questa raccolta mi ha incuriosito, perché ho pensato a un’arnia, sempre brulicante di api al lavoro, silenziosa nei mesi invernali mentre gli insetti provvedono al riposo stagionale.  Mi sono detto che forse il titolo vuole significare un momento di quiete, di riflessione dell’umanità sempre presa dalla frenesia del lavoro, dagli impegni quotidiani, da faccende consuete o anche inventate in un una società che sembra trovare la sua ragione di essere solo nella rincorsa del successo e del guadagno. E’ stata un’impressione e come tale la riporto per spiegare come io abbia poi affrontato la lettura delle poesie che non sono monotematiche e per certi aspetti è tanto meglio, ci sono più occasioni per divertirsi. Sono rimasto colpito inoltre dalla ricerca del colore, sì perché non poche poesie hanno a che fare con i colori, che finiscono con il diventare tante pietruzze di un mosaico che, accostate, danno immagini alla silloge.

“….Il po’ di verde sconsolato / annusava ovunque luce / rovistava in sacche di grigio / ed abbandono / la condanna del colore / fu la fatica di nascere rosa”

“Navigatori del liquido celeste / in formazione serrata verso / rotte radiose sui tanti canti della terra /…”

“ Si spegne l’azzurro e / la senti strisciare arrampicarsi / cadere e nel tonfo asfaltare l’opaco…”

Forse, mi sono detto, la fonte di ispirazione è stata unica ed è arrivata al punto di dare alle pennellate di colore la vena di un artista, un grande artista:  “Questa finestra ora / incupita era un Van Gogh /…”.

Con ogni probabilità sono stato tuttavia troppo impulsivo, troppo precipitoso, perché i colori rappresentano una parte, peraltro abbastanza esigua delle poesie, ma non essendo la silloge monotematica sono presenti altri argomenti di cui scrivere, come  ho potuto apprezzare soprattutto nel caso della natura: “ Infallibile regia della natura / partecipiamo al congedo della rondine / sulla rampa ripida dell’autunno / e tutti a cercare l’ultima rosa/…”.

Certo se è più piacevole leggere poesie che trattano più argomenti però è più difficile scrivere poi una recensione, si corre il rischio di essere prolissi, di  divagare un po’ troppo, insomma si rischia di porre l’autore in secondo piano. Se è poi vero che  l’Autore, con la “a” maiuscola, è in quanto tale per la qualità del suo prodotto, non posso che piacevolmente constatare che anche qui ritrovo quell’Angela Caccia sensibile, precisa, raffinata e armonica che ho potuto apprezzare in tanti lavori precedenti. Verrebbe da dire, e non si sbaglierebbe, che la classe non è acqua. Al riguardo basta leggere questi pochi versi, presi da alcune poesie:

“ Le case basse di un villaggio di pescatori / la riva a poche spanne / il rumore della risacca come certi / rosari nella bocca degli anziani / le barche un po’ /

tediate al pari di auto in sosta al market /…”;

“ Il cielo di stanotte sta in una ciglia / di luna – intorno e distanti – costellazioni / …”;

“ Dell’alba l’adagio di suoni / furtivi come piccole ossa di / uccelli che sgranchiscono / …”.

Credo che sia possibile per tutti rilevare le felici scelte creative, vere e proprie invenzioni che in poche parole propongono visioni e atmosfere di grande effetto, e non si tratta di preferenze determinate da virtuosismo, ma di periodi che sono strettamente legati alla poesia e al concetto che si vuole esprimere, perché è evidente come il risveglio del mondo all’alba presenti una serie di suoni che piano piano si espandono, superando la soglia del silenzio, e annunciando, con il sole che sorge, il nuovo giorno. In così poco c’è molto, direi c’è tanto, e soprattutto non asetticamente, con grazia, e questa è la poesia che dona la “a” maiuscola all’autore.

Non è un caso pertanto se ha vinto anche questo premio  nel periodico concorso indetto dall’editore, ma attenzione, io non mi faccio influenzare dai risultati, il valore di un’opera è intrinseco, indipendente da coppe e medaglie, e qui c’è tutto, per il piacere di chi leggerà e anche per la soddisfazione che ho ritratto scrivendo la presente.

Angela Caccia ha pubblicato con Fara: Il fruscio feroce degli ulivi (2013), Il tocco abarico del dubbio (2015) e Accecate i cantori (2017). Con Lietocolle Piccoli forse (2017). Vari i contributi nel web, in particolare in Versante Ripido. È stata recensita in poesia.corriere.it, Satura, Patria Letteratura, RAI Poesia, Oubliette magazine, La Repubblica di Napoli nella rubrica di Eugenio Lucrezi e La Repubblica di Firenze nella rubrica di Alba Donati. Finalista al Morra 2022 con liriche contenute nel presente libro, ha tre superbe passioni: poesia, ceramica e scacchi.

Renzo Montagnoli

 

 

 

Le ciociare di Capizzi

di Marinella Fiume

Iacobellieditore

Saggistica storica

Pagg. 128

ISBN 9788862525275

Prezzo Euro 16,00

Le marocchinate

Forse sono più note le violenze perpetrate dai goumier marocchini dopo lo sfondamento della linea Gustav, avvenuto nel maggio del 1944, probabilmente per effetto di quel capolavoro di cinematografia italiana che risponde al nome di La Ciociara. Purtroppo questi soldati dell’Africa del Nord si comportarono così in Italia ovunque furono impiegati, in pratica dalla Sicilia alla Toscana, e a farne  conoscenza per primi e a sopportarne le violenze furono proprio i siciliani, soprattutto donne di qualsiasi età, dalla bambina alla vecchietta, ma non furono risparmiati nemmeno gli uomini, in particolare i giovinetti.

In pratica quasi tutta la penisola ebbe a conoscere l’orrore delle marocchinate, un neologismo che potrebbe indurre a credere a fatti di poca importanza e invece si trattò di un fenomeno rilevante, che ebbe pesanti conseguenze su chi ne fu vittima: malattie veneree, danni fisici, a seguito di percosse e altro, turbe psichiche, e in non pochi casi dopo circa nove mesi il frutto dello stupro.

Di quel che accadde in Sicilia (correva l’estate del 1943 e l’isola era teatro di grandi combattimenti dopo lo sbarco degli alleati che avevano dato vita all’operazione Husky), in particolare a Capizzi, un piccolo centro dei Nebrodi, viene raccontato in Le ciociare di Capizzi, un libro con cui Marinella Fiume, sempre dalla parte delle donne, parla del terrore diffuso da queste truppe marocchine, che non si accontentavano di rubare, ma usavano anche violenza alle donne e ai giovinetti. A raccontare  verbalmente alla scrittrice siciliana quei fatti non sono le vittime, che molto spesso hanno preferito tacere, per pudore, ma anche per sconforto, bensì le nipoti, che hanno saputo dalle nonne, perché quel silenzio osservato in pubblico non c’è stato ovviamente in privato, un po’ per uno sfogo da femmina a femmina, un po’ per mettere in guardia le discendenti da ipotetici, ma non infondati pericoli.

Grande merito di Marinella Fiume è non aver generalizzato, non avere insomma intavolato uno spirito razzista, preferendo invece la ricerca del contesto e delle responsabilità, da ascrivere queste ai comandanti francesi, che in pratica diedero carta bianca a gente che veniva da tribù in cui la violenza poteva considerarsi lecita. A ciò inoltre si deve aggiungere che le lamentele rivolte ai comandi alleati, con la preghiera di far cessare le violenze, rimasero inascoltate. Per fortuna ci furono i siciliani che si difesero e non pochi di questi taglia gole non ritornarono più in Africa, uccisi con bastonate, oppure evirati e poi sepolti ancora vivi.

In questo contesto assume particolare valenza uno studio sociologico di queste popolazione marocchine per comprendere il perché del loro comportamento; è fin troppo evidente che c’era una base costituita da convinzioni ataviche sui diritti assoluti dei combattenti, ma proprio per questo chi di dovere avrebbe dovuto limitarli e non lo fece, il che equivalse a una tacita autorizzazione a consentire gli eccessi. Del resto, proprio nella stessa seconda guerra mondiale, si fecero notare, usando sistematicamente violenza alle donne tedesche, anche i russi, che, guarda caso, stanno mostrando analoghi comportamenti anche in Ucraina, nel corso di questo conflitto, segno che c’è probabilmente un’attitudine al riguardo, che però i comandanti si guardano bene dal contrastare.

E’ un libro che Marinella Fiume ha sentito in modo particolare, sia per la sua costante politica volta al riscatto femminile, sia perché fra tutti gli abusi di cui sono vittime le donne quello sessuale è il più grave, è quello che lascia strascichi pesanti che non scompariranno mai. In particolare è riuscita, pur conservando l’anonimato delle interlocutrici, a dare voce a chi voce non ha più, ma soprattutto, senza giustificare i marocchini autori di violenze, poveri selvaggi utilizzati militarmente per la loro capacità di usare nel migliore dei modi il pugnale, è stata capace di alzare il dito accusatore verso chi ha permesso questo, vale a dire i comandi alleati, sovente inclini a considerare gli italiani inferiori e fra questi, ancor più inferiori, i siciliani. Completa questo interessante saggio storico un’appendice di Maria Pia Fontana dal titolo Una prospettiva psicosociale sugli stupri di guerra, un’analisi attenta sulle cause e sugli effetti delle battaglie sul corpo delle donne.

Se a parlare, per interposta persona, sono le abusate di Capizzi, il fenomeno è però molto più esteso, così che si tratta di uno studio sulla violenza dei maschi nei confronti delle femmine nel corso delle guerre.

Da leggere, senza dubbio.

Marinella Fiume, nata a Noto (Sr), laureata in Lettere classiche, è dottore di ricerca in Lingua e letteratura italiana. È stata sindaca del Comune di Fiumefreddo di Sicilia (Ct) e socia fondatrice e presidente dell’Associazione fiumefreddese antiracket e antiusura “Carlo Alberto Dalla Chiesa”. Già responsabile della Commissione Arte e cultura della Fidapa e presidente del Soroptimist “Val di Noto”. Ha pubblicato saggi, biografie, racconti, romanzi, sceneggiature, canzoni; nella rivista Notabilis cura la rubrica fissa “Donne che ballano coi lupi”. Ha ricevuto diversi premi per il suo impegno sociale e la sua produzione letteraria, tra gli altri, il Premio “Franca Pieroni Bortolotti” della Società delle Storiche e del Comune di Firenze (2000).

Tra le sue opere: Feudo del mare La stagione delle donne (2010); Di madre in figlia – Vita di una guaritrice di campagna (2014); La bolgia delle eretiche (2017); Ammagatrìci (2019); Le ciociare di Capizzi (2020).
Renzo Montagnoli

 


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