Racconti di Spartacus


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Leggi le poesie di Spartacus

I silenzi sospesi
Mi piace venire in questo posto, non appena mi è possibile, ascoltare il silenzio che qui regna sovrano. Chiudo gli occhi e vedo immagini che nessun altro potrà mai vedere: sono ricordi che si riallacciano al presente, volti di cui non ricordo più il nome e che si avvicendano nella mente, oppure sembrano uscirne quasi a strappi, come i coriandoli lanciati per carnevale. S’alternano a visioni di paesaggi  di località che non ho mai visto, ma che tanto mi sarebbe piaciuto visitare; sono sprazzi dipinti nel cervello che si compongono secondo l’estro del momento e come le idee che nascono all’improvviso mi provocano un senso di stupore, come l’aver scoperto qualche cosa che era sempre stato lì, ma che i miei occhi non riuscivano a scorgere.
Sì, mai come in questo posto riesco a creare con una forza insopprimibile che ha solo la necessità di un ambiente adatto per poter prorompere.
Passano gli anni, le stagioni si avvicendano, oggi cammino sulle foglie morte, che ancora, svolazzando, cadono dagli alberi. Gli alberi, così silenziosi, muti, ma che parlano con le loro forme,  spesso contorte come se anche per loro esistesse la sofferenza di vivere, loro che ogni anno sembrano morire in questo periodo, per  tornare poi a rivivere la primavera successiva. A me non è concesso un simile privilegio e già l’autunno è in corso, una lunga estenuante stagione che mi intorpidisce lentamente, in un silenzio interno che poco a poco, senza che me ne potessi accorgere, mi ha sopraffatto.

L’unica voce che è in me è quella della mente, appunto con queste immagini che riesce a creare per abituarmi al distacco e così si affievolisce la realtà, le emozioni si smorzano, nulla può turbare questo deserto dei sensi.
Io chiamo tutte queste cose i silenzi sospesi, perché per gli altri non ci sono, ma sono come a mezz’aria, all’intorno, dentro di me, in ogni mia cellula e quando questo stato di equilibrio precario verrà meno ne resterà solo uno, totale, definitivo, di cui non potrò però accorgermi.
- Venga, Signor Paolini, dobbiamo tornare, si è fatto tardi. La sua visita giornaliera al cimitero dell’ospizio è terminata.
Saranno brave queste infermiere, ma rompono decisamente; è così bello starsene nel silenzio assoluto, in un tempo tutto mio e, tac, ecco che devo per forza rientrare nella quotidianità, in quel vivere civile fatto solo di gestualità ripetute, di abitudini insensate.
- Si appoggi a me; ecco, così, piano, piano, un passo dopo l’altro e arriveremo giusto in tempo per la cenetta. 
Sentila com’è gentile e premurosa, ma tutto ha un prezzo; mio figlio vede la soluzione di ogni problema con il denaro e so bene che quelle poche volte che viene a trovarmi le allunga un bigliettino da 100 euro.
Mio figlio, un perfetto uomo d’affari, abile, intelligente, ma senz’anima. Delle volte mi chiedo se è nato così o lo è diventato per colpa mia. Preferisco la seconda soluzione, perché così almeno avrebbe un significato starmene rinchiuso in questo carcere da cui si esce solo con i piedi in avanti, anzi non si esce proprio, perché sono stati talmente furbi che al suo interno ci hanno costruito anche il cimitero, e nel posto più bello, in fondo al parco, vicino al torrente, così che venga voglia di andarci a stare. Mi ci sto abituando poco a poco: per ora ci vado con i miei piedi, ma poi mi ci dovranno portare e non avrò più al fianco l’infermiera che mastica la gomma americana, si fuma una sigaretta ed è impaziente che finisca la mia ora d’aria. Non sa che la vita è fatta anche di questi silenzi, durante i quali mi accorgo di esistere.
- Ecco, vede che siamo arrivati; adesso si va a lavare le mani e poi si mette a tavola. Sento un profumino…gran bella cena quella che l’aspetta.   
Se lo dice lei, è segno che s’accontenta di poco. Non che il vitto sia scadente, anzi è di discreta qualità, ma quello che manca ai pasti è il piacere di stare a tavola, quel piacere che ho sempre provato in famiglia. Allora il cibo sembrava ancor più buono di quello che in effetti era, perché era l’essere insieme che dava soddisfazione, dava un senso a qualsiasi cosa, anche a una necessità fisiologica quale può essere nutrirsi. E poi si parlava, e anche si scherzava. Ora, invece, sembra che siamo tutti lì per prendere una medicina: non è l’appetito che sembra mancare, ma il piacere di doverlo soddisfare. E’ un silenzio diverso quello che aleggia durante il pasto, è una sorta di rassegnazione stanca che si ravviva a ricordarmi che ogni gesto, ogni consuetudine di un tempo non ha più nessun significato.
Che senso può avere fingere l’indifferenza verso il proprio stato?
- Signor Paolini, scusi, ma c’è una visita per lei: suo figlio.   
L’ultima volta è venuto due mesi fa, sempre in orari strani; allora stavo per andare a letto, ma non mi ha fatto rinviare il sonno e se l’è sbrigata in una decina di minuti, tanti per lui, pochi e troppi per me, a seconda di come si veda la questione. Pochi, ripeto, perché mi illudo sempre che possa rivolgermi la parola aprendosi quell’animo che non ha, troppi perché è insopportabile quella sua ostentazione di naturalezza, come se fosse venuto a trovarmi a casa, anziché all’ospizio.
- Papà, ti trovo splendidamente.
Ecco che cominciamo proprio bene; adesso attaccherà le solite litanie: gli affari, il successo, parla, parla solo di lui, come se davanti non ci fosse nessuno, ma una platea costituita da una miriade di suoi cloni.
- Non ho potuto venir prima per via del lavoro, sai, insomma, se non si fatica non si guadagna e per fortuna che io sono il migliore.
E ti pareva che fosse il contrario.
- Perché non parli, perché non mi dici niente? Sono anni che sembri nemmeno ascoltarmi. Ti devo dare una notizia che è una bomba: mi è nato un maschio e abbiamo deciso di chiamarlo Carlo, come te. Sei felice? Dai, dimmi che sei felice?
Potrei esserlo, ma fra la possibilità e la realtà di una cosa il divario è enorme. Dovrei essere contento perché mi è nato un nipotino che mai potrò vedere? Dovrei rallegrarmi perché gli hanno dato il mio nome? No, questo nuovo essere mi è e resterà più sconosciuto di mio figlio, per il semplice motivo che non ne potrò sentire il calore, né lui potrà sentirsi mio nipote. Quanto ho desiderato un tempo di diventare nonno, di vedere nel figlio di mio figlio sbocciare un’esistenza a cui contribuire con lo spegnimento della mia!
- La prossima volta che vengo ti porto una sua foto. Adesso purtroppo devo andare, ma ritornerò ancora e cerca di star bene.
A che pro star bene? Per rinviare la fine dei miei giorni, per continuare a recitare la parte di un uomo a cui la vita non può offrire più nulla? Parla, parla e dice solo delle cazzate; questa volta almeno è rimasto meno del solito. Queste parentesi in un’esistenza monotona e già di per se stessa insopportabile danno un senso di squallore e ti fanno sentire esattamente quello che sei: del tutto inutile.
Ho deciso che non ceno e che vado a letto subito, a godermi il silenzio della camera, in quel buio a cui mi sto sempre più abituando e che celandomi tutto nasconde anche l’immagine di un vecchio stanco di vivere. Ma non resto solo; fra me e il nulla di questa massa scura c’è l’unico amico che mi è rimasto, fedele, sempre presente purché lo desideri: il silenzio.     

Un giorno come un altro
"Acc..!" Porca la miseria, ma nevica…" e gettò da un lato i cartoni ormai infradiciati che gli erano serviti a rendere meno insopportabile il freddo della notte. Si alzò lentamente, barcollando, gli occhi ancora semichiusi, la bocca impastata dall'alcool del giorno prima. Passò le mani sulla testa, aggiustandosi i capelli, ormai ribelli a qualsiasi pettine, visto che non si ricordava da quanto tempo non fossero stati oggetto delle forbici del barbiere, al pari della barba del tutto incolta. Si mise i due indici in bocca, poi così inumiditi li passò sul contorno degli occhi: a fare quella vita non c'erano tante comodità e fra queste, soprattutto d'inverno, latitava l'acqua calda. A vederlo così, ricoperto da più strati di abiti usati e sgualciti, i capelli e la barba di colore grigio sporco, gli si sarebbero dati tranquillamente una settantina d'anni, ma lui ne aveva solo cinquanta ed erano ormai quasi due lustri che faceva una vita da barbone o, come si definiva lui, quasi ghignando, da rifiuto della società.
Ma era giunto il momento di muoversi per vedere se si poteva trovare un po' di alcool, nell'attesa di fare un salto a mezzogiorno alla Parrocchia dell'Immacolata, dove Padre Lorenzo faceva sempre trovare una minestra calda per i diseredati.
Si avviò, con quella sua andatura altalenante, strascicando i piedi, stretti in scarpe sottomisura, e si accinse ad attraversare il prato dei "mai nati", chiamato così perché la sera vi si rifugiavano in auto con i clienti le prostitute della zona, lasciando poi i segni inequivocabili del frettoloso rapporto consumato. Ogni tanto, nel suo andare, scalciava qualcuno di questi fiori di lattice e non era per nulla difficile che potesse accadere, vista l'abbondanza; e fu così che, grazie ad una pedata, emerse dalla neve quello che non avrebbe mai immaginato di trovare: un portafoglio di pelle nera, bello gonfio. Si guardò intorno per sincerarsi che non vi fosse qualcuno, poi si chinò a raccoglierlo; le mani, intirizzite, gli tremavano quando l'aprì e gli occhi presero a brillare a vedere tutto quel denaro. Contò e ricontò, ed il risultato era sempre quello:ben 5.000 Euro in tagli da 100 e da 50, una fortuna inaspettata. Nascose il portafoglio in tasca, tenendovi premuto il braccio nel timore che potesse involarsi, guardò il cielo grigio di quel rigido 25 dicembre e cominciò a sognare ad occhi aperti.
"Dunque, per prima cosa vado in un albergo di non troppe pretese, no, meglio ancora, in un grande albergo; sto dentro la vasca da bagno un paio d'ore, immerso nell'acqua fumante, centellinando un cognac dei migliori. Poi mi faccio mandare il barbiere a sistemare i capelli e la barba…Dunque, poi…Ah sì, non sarà facile trovare un negozio di abbigliamento aperto il giorno di Natale, ma, nel caso, mi faccio un bel guardaroba: dall'intimo allo smoking tutta roba rigorosamente di marca. A mezzogiorno e sera mi faccio portare in camera delle prelibatezze ed infine, quando cominceranno a chiudersi gli occhi, mi potrò coricare fra lenzuola di seta, nel caldo ristoratore della camera. Questo sarà proprio un Natale da ricordare!" ed allargò le braccia al cielo, quasi volesse stringerselo a sé.
"Però, non vorrei che si insospettissero: un disgraziato come me con tanti soldi di sicuro attirerebbe l'attenzione del maitre dell'albergo; mica posso dirgli che ho trovato un portafoglio e neppure che ho ereditato! Mi verrà un'idea, se faranno delle domande ed intanto andiamo."
Giunse così nei pressi dell'Excelsior, un 4 stelle fra i più rinomati della zona; rallentò il passo e gli ritornarono i dubbi, ma accentuando la pressione del braccio contro il portafoglio nella tasca gli tornò la sicurezza e fece per entrare dalla grande porta a vetri.
"Fermati, dove vai straccione! Gente come te non ne vogliamo." Era stato un ragazzetto in divisa a guardia dell'ingresso.
Si fermò, con il mondo che sembrava crollargli addosso, poi arretrò, allontanandosi.
Eh sì, lui altri non era che un rifiuto della società e poco importava che ora avesse i soldi per rientrare nell'ordine costituito, che di sicuro l'avrebbe rifiutato anche ben sbarbato ed elegantemente vestito, perché chi cade così in basso, chi lascia la struttura costruita dagli uomini non può più rientrarvi. E non perché così volessero gli altri, ma perché così aveva voluto lui in un altrettanto fredda giornata d'inverno di una decina di anni prima, di ritorno dal funerale della moglie, una persona così dolce e gentile che gli aveva permesso di tollerare l'iniquità delle strutture sociali, l'abnorme macchina su cui o sali negando te stesso, o ti devi accontentare di vederla passare, senza mai fermarsi per raccogliere te.
Era il suo destino e nulla avrebbe potuto cambiarlo, tanto meno 5.000 Euro; era meglio restituirli a chi li aveva persi nel frettoloso pagamento di un illusorio atto d'amore. Di certo l'avrebbe ringraziato e magari gli avrebbe dato anche una mancia e così il problema di reperire la dose d'alcool di quel giorno sarebbe stato risolto nel migliore dei modi.
Aprì il portafoglio, guardò fra i documenti e sulla carta d'identità lesse: Amedeo Semproni, di professione dirigente d'azienda, residente in Via Toscanini, 15.
"Semproni ti farò passare un bel Natale" disse fra sè accelerando il passo.
E così, mentre la neve cadeva sempre più fitta, arrivò in Via Toscanini, una bella zona residenziale della media borghesia con amene villette circondate da giardini e piccoli condomini. Al n. 15 sorgeva proprio una piccola palazzina a due piani; il portone era aperto ed entrò: già lungo le scale si sentiva un vociare confuso, un vero e proprio alterco. E solo quando arrivò davanti alla porta d'ingresso dell'appartamento di Semproni potè intendere chiaramente di che si trattava.
"Porco, sei un porco" urlava una voce femminile.
"Ma no, ti assicuro amore che per me ci sei solo tu" e probabilmente questa doveva essere la voce di Semproni.
"Come se non lo sapessi che vai con la prima donna che trovi, magari pagandola anche profumatamente, e poi mi vieni a dire che hai smarrito il portafoglio."
"Cerca di ragionare; ieri c'è stato tanto da fare, ero stanco e non so come l'ho perso."
"Sei un disgraziato!"
Ritenne opportuno a questo punto suonare e gli aprì una donna di mezza età, con gli occhi fuori dalle orbite.
"Vada via, non faccio la carità ad un pezzente!"
"Signora, a dir la verità sono venuto a riportare il portafoglio."
In un attimo, dietro la donna, apparve la figura del Semproni, un uomo sulla cinquantina, dall'aspetto un po' flaccido.
"Eccomi, sono Semproni"
"Mi dica dove l'ha trovato" urlò la donna.
Il Semproni si agitò ulteriormente, rivolgendogli uno sguardo supplichevole.
"In questa via, signora, era fra il bordo del marciapiedi ed un auto parcheggiata" e consegnò all'uomo il portafoglio. Questi lo afferrò, ne estrasse le banconote, le contò due volte ed esclamò trionfante "Il denaro c'è tutto e ci sono pure i documenti. Grazie … Buon Natale."
Gli caddero le braccia: neppure la mancia.
Si volse per andarsene, allorché il Semproni parve ricordarsi di qualche cosa e gli allungò, quasi gettandogliela addosso, una banconota da 50 Euro.
L'artigliò immediatamente e prese a scendere le scale, mentre nell'appartamento la lite riesplodeva.
Si era quasi fatto mezzogiorno ed era quanto mai opportuno accelerare, per quanto possibile, il passo per arrivare in tempo per la zuppa calda della Parrocchia dell'Immacolata.
Il percorso non era breve e lungo la strada ebbe tempo di pensare al buon utilizzo di quei 50 Euro che teneva stretti in pugno: c'era la possibilità di bere almeno per una settimana, una fortuna insperata, anche se alquanto ridimensionata rispetto alle ben più eclatanti prospettive immediatamente successive al ritrovamento del portafoglio.
E così, fra un progetto e l'altro del tipo di liquore da acquistare, arrivò alla Parrocchia.
Si ricordò allora che era il giorno di Natale e si sovvenne che tutti gli anni, in quella ricorrenza, il pasto offerto era sensibilmente migliore e si rallegrò. Infatti non ebbe di che lamentarsi, perché fu un pranzo in piena regola, dall'antipasto al dolce, e per finire, dopo il solito sciacquoso caffè, ebbe la gradita sorpresa di sorseggiare, al caldo, un bicchierino di grappa. Padre Lorenzo, a fine pasto, si avvicinava ai commensali, un pregevole quadro delle miserie umane, e per ognuno aveva parole di conforto. Quando arrivò da lui, gli chiese che ne pensasse di quella giornata e forse sperava che esprimesse il suo pensiero dal punto di vista religioso, ma non fu così; era sempre stato un agnostico e non trovò di meglio che raccontargli quello che gli era capitato. Non omise nulla, nemmeno della faccenda della mancia di 50 Euro, e Padre Lorenzo si limitò a dirgli che aveva fatto bene a comportarsi così. Indi gli diede un pacchettino "E' un regalino da poco: due cioccolate e un pezzo di torrone. Dopo, quando vai, se ti senti di passare dalla chiesa, ma vedi tu, vai a vedere il presepe e nel locale dietro la canonica la mostra sulle Missioni; non hai obblighi; solo se ti senti."
E si sentì; nella penombra della navata laterale si fermò a guardare le statuine della natività e si sovvenne di quando, bambino, indugiava di fronte alla stessa scena preparata con infinita pazienza da suo padre: memorie di un tempo lontano, che riaffioravano nella sua mente dopo anni di buio; e così rivide la sua cameretta, i suoi giochi, l'epoca in cui inconsapevolmente era stato felice.
Passò poi alla mostra delle Missioni, affollata dai parrocchiani: c'erano prodotti dell'artigianato della lontana Africa e poi tante fotografie: visi di bambini smunti, con i ventri gonfi, la fame e la mancanza di ogni speranza che si leggeva in quegli occhi.
Alla fine del percorso c'era un cesto dove la gente, se ne aveva voglia, deponeva le offerte. Quando vi arrivò aveva le lacrime agli occhi; ripensò al pasto caldo che aveva appena consumato, al presepe nella chiesa, a quello che gli faceva suo padre, a quell'infanzia così lontana di cui cominciava ad avvertire prepotente il rimpianto; come sarebbe stato bello ricominciare, ripartire da zero, rinascere.
Si avvicinò al cesto e con mano tremante, perché vedeva così sfumare la sua scorta di alcolici, lasciò cadere la banconota di 50 Euro.
Quando fece per uscire, Padre Lorenzo lo trasse da parte.
"Lo so che non sei un credente e non posso farci niente, ma Dio è amore e l'amore che c'è in te è grande, è immenso. Guarda i miei parrocchiani: brava gente, ma depongono il loro obolo e così mettono a posto la loro coscienza. Non conta quanto hanno dato, ma cosa e come hanno dato; tu, amico mio, hai dato tutto quello che avevi, hai dato il tuo cuore. Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti in parrocchia; non posso permettermi di pagarlo, ma tre pasti al giorno ed un letto caldo, anche se è poco, glielo posso assicurare. Ce ne dici? Sarebbe un modo per ricominciare, per aiutare chi ne ha veramente bisogno ed in tal modo aiuteresti anche te stesso; la vita, ricorda, merita sempre di essere vissuta e non gettata alle ortiche, come fino ad ora hai fatto. Pensaci, non ti faccio fretta, perché per te il posto ci sarà sempre."
"Grazie, Padre, ci penserò. Buon Natale e grazie ancora."
Se ne uscì con quella sua andatura ciondolante e si avviò a compiere uno dei tanti giri senza meta.
Guardò le luminarie, spente; osservò le auto procedere lentamente sulla neve, i bambini che facevano baloccate e si disse "Natale, è un giorno come un altro", ma poi si fermò, e prepotente riemerse il ricordo di tutti gli episodi della giornata, dal ritrovamento del portafoglio, alla lite fra i coniugi, alla mancia di 50 Euro, ai ricordi di infanzia sopiti che miracolosamente erano riapparsi dall'oblio, alle parole di Padre Lorenzo.
"Sì, ormai ho deciso; domani mattina presto, al risveglio, andrò in parrocchia e mi metterò a disposizione di Padre Lorenzo. Voglio tornare a vivere. Ed a pensarci bene Natale non è un giorno come tutti gli altri."
Già scendevano le ombre della sera ed era meglio mettersi alla ricerca di un riparo.
Respirò a fondo l'aria fredda, quasi a volerne sentire il profumo, e si avviò, strascicando i piedi.   

Il ladro di sogni
Per chi non lo sapesse ancora, non c'è un'unica terra, ma ce ne sono due, così come ognuno di noi non è unico, ma ne esiste, spesso sconosciuto, un altro, di cui ignoriamo o preferiamo ignorare l'esistenza. Questa è la storia di uno dei tanti, o meglio di due in uno dei tanti.
Il luogo ed il tempo non contano, perché ciò che importa è il personaggio, nel nostro caso il ragionier Tal dei Tali. Statura media, età media, occhi grigio medi, capelli di media lunghezza,
insomma un perfetto sconosciuto come ci capita di vederne ogni giorno, senza che ci lasci traccia.
Un volto normale, anonimo, un portamento elegante consone al lavoro svolto ed all'ambiente sociale a cui appartiene: potrei essere io, potreste essere voi.
Il ragioniere sta andando al lavoro come ogni giorno, sempre alla stessa ora, identico il percorso, il traffico caotico, il ritardo. Una vita normalissima, sposato, due figli, una bella casa, un buon posto, uno stipendio più che dignitoso, insomma un tipico rappresentante del ceto medio. L'autoradio gracchia sempre le stesse cose: la politica, ormai insulsa, la cronaca nera, lo sport ed il nostro ragioniere ormai ne percepisce solo il suono.
Ecco siamo arrivati al crocevia dei lavavetri, ignobili sozzoni che fingono di pulirti il parabrezza per avere in cambio qualche spicciolo; c'è da far battaglia perché non appoggino la spazzola sul vetro, magari rigandolo, di quell'auto nuova di cui val la pena di pavoneggiarsi.
Non c'è il solito lercione, un ragazzotto che, anziché pulire i parabrezza, dovrebbe darsi una bella spugnata, consumando almeno un bel pezzo di sapone. Strano, perché era immancabile con la sua petulanza e la sua insolenza.
C'è invece, al suo posto, una ragazzina smunta, con i capelli untuosi raccolti a trecce: evidentemente anche in quest'attività c'è il turn-over.
Neppure l'avesse scommesso, nel momento di impegnare l'incrocio il semaforo passa al rosso.
Piede sul freno, l'auto che slitta sull'asfalto bagnato, si gira e colpisce con violenza la lavavetri.
"Porca miseria, ci mancava anche questa. Cosa aspettano a toglierli di mezzo!"
Accorre gente, i vigili, tutti si affannano in una gara di falsa pietà per soccorrere la vittima ed il nostro ragioniere? Niente; resta seduto al suo posto e pensa "Un altro ritardo in ufficio, l'appuntamento con il cliente X mancato, le scocciature dei verbali, ma che ritornino al loro paese questa feccia dell'umanità.."
I vigili lo invitano a scendere e, quasi scocciato, acconsente, ed è allora che la vede veramente, scorge quegli occhi neri che fissano il vuoto, nota la bocca aprirsi ed appena ode queste sbiascicate parole " Non è colpa sua; non avrei dovuto star sull'incrocio."
Il ragioniere non sente più nulla, la ragazzina è svenuta e viene caricata sull'autoambulanza, sale anche lui, lascia tutto in mezzo all'incrocio, perché è accaduto qualche cosa di incredibile, una metamorfosi. E mentre a sirene spiegate il mezzo si allontana può scorgere evanescente, accanto all'auto, confusa fra la folla, la figura del ragionier Tal dei Tali.
Possibile una cosa del genere? Si tocca le mani, si stropiccia gli occhi, guarda nel vetro opaco del finestrino riflesso il suo volto: tale e quale il ragionier Tal dei Tali, nessuna differenza.
Le resta accanto, sempre, anche quando si addormenta sotto l'effetto dei sedativi; le bagna la fronte, le accarezza il viso e quando scendono le ombre della notte non si stacca ancora dal letto ed ascolta la ragazzina che, nel dormiveglia, parla, racconta i suoi sogni.
Terre lontane, miseria inclemente, la mamma, il babbo, i fratellini lasciati laggiù, la speranza di portare a loro un minimo di aiuto, le guerre, fra poveri ed altri poveri, il desiderio di un ritorno alla propria casa, ai propri usi, alla propria vita, il sogno disperato di un essere disperato.
Il ragioniere ascolta, gli occhi fissi ed umidi, un senso di disagio per il contrasto fra quel mondo ed il suo. Ed è tanto assorto che non si accorge che la ragazzina, dieci, forse dodici anni, si è risvegliata e lo osserva.
"Scusami…"
Si scuote dal suo torpore "Come?"
"Scusami…"
La stringe a sé, l'abbraccia, la bacia, mentre le lacrime gli rigano le guance.
Ventiquattro ore dopo viene dimessa ed il ragioniere ritorna a casa. E' cambiato, se ne sono accorti tutti in famiglia; non se la prende più con il governo, è diventato straordinariamente calmo ed è sempre assorto, come se la sua mente fosse altrove.
Ogni mattina la cerca all'incrocio, ma non la trova; anche la sera al ritorno si guarda intorno invano: niente.
Sono passati ormai diversi giorni dall'incidente e di lei si sono perse le tracce.
La mente del ragioniere però è sempre là, in quel villaggio donde è venuta, in quel sogno del letto d'ospedale. E' cambiato molto in ufficio: è diventato più comprensivo, ha perso la sua consueta irritabilità.
"Vive come in sogno", dicono di lui, oppure "E' cambiato dopo l'incidente"
Hanno ragione gli uni e gli altri, perché lui ha riscoperto la parte migliore di se stesso, quella linfa vitale inaridita dalle convenzioni.
E' bastato un niente: un incidente ed il furto di un sogno per diventare umano.   

Nessuna pietà
Il nastro d'asfalto si avventava contro di me, mentre lo stridio delle gomme nelle curve mi rimbombava nelle orecchie. L'importante era correre, volare, lasciare dietro di me quel luogo ed arrivare al rifugio. Ogni tanto si sentivano dei suoni cupi provenire dal baule: era il verme che scalciava, ma l'avevo legato bene: quattro giri di corda, la bocca tappata con il nastro adesivo ed un bel cappuccio in testa.
Ecco finalmente la baita, dove avevo trascorso tante ore gioiose con Lui, ricordi che ora mi torcevano lo stomaco, sogni, speranze, tutto ormai svanito. E quel che era rimasto era solo dolore e collera, un sentimento che emergeva da ogni parte di me, in un crescendo incontrastabile.
Fermai l'auto e mi guardai intorno: non c'era nessuno e chi avrebbe potuto esserci in quell'umida giornata di novembre nei pressi di una baita a 1.500 metri d'altezza. Aprii il baule, mi caricai il corpo sulle spalle ed arrancando entrai. Scaricai il fagotto sull'assito di legno e mi asciugai il sudore che imperlava la fronte.
Eccolo il verme dinnanzi a me, l'essere abominevole che, dopo averne abusato, aveva soppresso il mio bambino. Catturato dalla giustizia, liberato dalla giustizia per un cavillo legale, non sarebbe più potuto sfuggire alla mia giustizia. La sorte era stata decisa ancor prima della sua cattura, ma la morte sarebbe stata troppo poco: la sua doveva essere una lunga, estenuante agonia..
Gli tolsi il cappuccio e due occhi attoniti mi fissarono. Bene, molto bene, il verme ha paura e perciò l'esecuzione sarebbe stata più efficace. Pedofili li chiamano, bruti, violentatori, esseri infami, e non ci sono parole che possano descriverli e che permettano di spiegare la mia angoscia e l'odio che mi avvolgono. Il mio bimbo, così dolce, così innocente, ancora all'alba della vita, rapito, stuprato, seviziato ed infine strangolato! Ecco chi sono questi individui: esseri schifosi che si sentono forti con i deboli e che non possono tollerare l'innocenza. "Papà, che cos'è l'innocenza?" mi aveva domandato un giorno ed io gli avevo risposto, imbarazzato " Fidarsi del prossimo."
E lui si era fidato del prossimo che me lo aveva ammazzato.
"Tieni, delinquente, un calcio è appena l'antipasto!"
Si alzò un gemito soffocato; gli strappai il nastro adesivo che gli chiudeva la bocca, perché lo volevo sentir bene urlare di dolore, implorarmi la pietà che non gli sarebbe mai stata riservata..
"Perché l'hai fatto, voglio sapere il perché; perché una ragione, un motivo ci deve pur essere."
"Non lo capiresti mai."
Gli mollai un altro calcio, questa volta in viso e vidi con soddisfazione la pelle rompersi e sanguinare.
"Come puoi pensare di giudicarmi, come puoi sapere se io capirò, oppure no? Me lo devi dire, altrimenti sarà un calcio dopo l'altro" e per dar forza alla frase allungai con violenza il piede e questa volta la punta della scarpa colpì la bocca, spaccando il labbro inferiore.
L'uomo non emise nemmeno un gemito, mi fissò negli occhi, sputò saliva mista a sangue ed infine.
"Tuo figlio, od un altro era lo stesso, purché giovane, con l'innocenza sul volto…"
"Sei un porco, un maniaco sessuale, sarebbe da tagliartele…"
" Sì, c'è anche l'aspetto sessuale, ma è di riflesso, perché se proprio vuoi saperlo il massimo del piacere è il senso di onnipotenza, il sapere che puoi fare di quell'essere qualsiasi cosa, come adesso tu con me."
"Sei proprio pazzo a paragonarmi a te e questa motivazione non mi garba, non mi è sufficiente…"
"Puoi torturarmi, continuare a scalciarmi, ma questa è l'unica e vera motivazione, e che tu ci creda o no è quella che muove il mondo; questa è la legge del più forte, quella praticata da tutti i potenti.
Pensa alle guerre: quanta sete di potere si cela dietro di loro; eppure, un capo di stato che inizia una guerra non viene condannato, mentre uno come me viene punito. Non trovi che il mondo sia ingiusto?"
"Ma sono cose completamente diverse…"
"Dici? Non ne sarei così sicuro se fossi in te; là sono omicidi legalizzati, nel mio caso sono comportamenti vietati, ma le motivazioni sono le stesse per entrambi."
"Pazzesco; poco a poco sei tu che fai il processo a me."
"No, mi hai chiesto una spiegazione ed io te l'ho data, e ti assicuro che non ce ne sono altre.
Se io sono colpevole, egualmente colpevoli sono tutti i potenti che soffocano i deboli."
"Di questo passo, insomma, nessuno sarebbe colpevole, perché secondo te questa violenza, questo desiderio di onnipotenza sarebbe innato nell'uomo…"
"E' così ed anche tu stai scoprendolo; nella tua vita non avresti mai pensato che il tuo lato oscuro emergesse e prendesse il sopravvento; ti senti forte con davanti uno più debole…"
"Ma tu sei l'assassino, il mostro che ha ucciso mio figlio!"
"Questo è stato l'elemento che ha fatto scoccare la scintilla, ti ha fatto scoprire il male che è in te."
" E allora, nel tuo caso, qual è stato l'elemento, bastardo?"
"Me lo vado ancora chiedendo e non sono ancora riuscito a darmi risposta; in me
alberga da tempo immemorabile questa passione per i bimbi, questo desiderio di soggiogarli, di impormi a loro e non ti so spiegare la ragione di questa mania."
"Allora non sei pentito?"
"Il pentimento è un'assurdità dell'uomo, è il mezzo per liberarsi dal rimorso e mettere in pace la propria coscienza. No, non sono pentito, ma non sono nemmeno soddisfatto; come dici tu sono un mostro, uno dei tanti mostri che si manifestano in tanti modi: c'è chi uccide, c'è chi sfrutta la povera gente, c'è chi illude inutilmente. Il mio vero problema, sai, è che sono un uomo senza amore, e non pensare solo al sentimento esistente fra un uomo ed una donna. L'amore è un concetto ben più complesso: tu amavi il tuo bambino, ami tua moglie, sei sicuro di amare l'umanità?
Altro genere di amore, più grande che ben pochi hanno conosciuto: il donare se stessi senza chiedere nulla in cambio. Io non ne son capace, ma qualcuno c'è riuscito."
"E nemmeno mio figlio hai amato, almeno in un certo modo?"
"Vedi, il desiderio sessuale è determinato unicamente dalla soddisfazione di disporre di un essere, come più ti aggrada."
"Sei pazzo, pazzo…"
"No, anche nel tuo caso, se non c'è quel particolare amore così raro."
"Sono stanco di sentirti, basta!"
"Fai quel che vuoi, sei tu l'onnipotente ora."
Mi sembrava di impazzire, con quei concetti così capovolti ed astrusi; come poteva pretendere di insegnarmi com'è la vita un uomo simile; no, non era possibile.
Ma intanto la collera si era affievolita, l'odio cieco si era assopito e piano piano affiorava in me una pietà nascosta; quell'uomo, quell'assassino non era più uno sconosciuto, era un essere con tanti problemi che aveva bisogno di essere aiutato.
Ero sconvolto per il male che gli avevo fatto, gli asciugai il sangue che ancora usciva dalle ferite, gli sciolsi i nodi, lo misi su una sedia e lo fissai negli occhi:
"Promettimi che non lo farai più, che nessun altro essere soffrirà ancora per te."
"Non posso prometterti una cosa simile; non sono cambiato, sono sempre stato così."
"Volevo vendicarmi, ma non ce la faccio; mi ripugna, mi vergogno…"
"Tu sei una gran brava persona, in te l'amore è più forte del male; potessi essere così pure io! Forse, un giorno…"
"Vai via, corri, fuggi, sparisci dalla mia vita!"
"Grazie, uomo" e fuggì lungo il viottolo di montagna.
Da quel giorno non l'ho più rivisto, neppure in Tribunale durante il processo di appello che questa volta lo vedrà senz'altro riconosciuto colpevole, senza cavilli o quisquilie giuridiche.
La mia giornata è sempre la stessa; di pomeriggio, verso sera, vado al cimitero, a trovare mio figlio. Gli parlo, mi sembra che sia lì che mi ascolti, ma è solo un sogno che il tempo non riuscirà mai a cancellare.
Anche oggi vado, oggi che è il giorno prima della sentenza. Piove, anche se è primavera; imbocco il vialetto e mi fermo: sono passati dei mesi, ma non posso dimenticare quel volto. E' lì, accanto alla tomba del mio bambino, e piange; sono singhiozzi convulsi che scuotono il suo corpo. Mi avvicino e si accorge di me.
"Non ce la faccio più; povero bimbo, ma che cosa gli ho fatto!"
"Sei pentito?"
"Non so, ma vorrei che potesse tornare a vivere. E' da giorni che mi si contorce lo stomaco, che mi rendo conto di quello che ho fatto."
"Ed allora perché, come mi ha riferito il mio avvocato, quando il giudice ti ha chiesto se eri pentito hai detto di no?"
Si asciuga le lacrime, s'incammina lentamente verso l'uscita e mi mormora "Non c'è colpa senza condanna. Nessuna pietà: è giusto."


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