Un giorno all’improvviso…e intanto
il fiume scorre “Mi chiedevi spesso di scrivere un
romanzo
sulla tua vita. Mi parlavi della tua
infanzia, della tua giovinezza in tempo
di guerra. Adesso che non ci sei,
raccoglierò i frammenti della tua storia e,
raccontando i tuoi ultimi giorni, ti riavrò
accanto per non soffocare di ricordi
inespressi. Riporterò il tuo tempo, papà,
eternerò i tuoi giorni attraverso parole che
non si smarriranno nel segreto viale di
cipressi.”
A mio padre Gerardo, indimenticato
Come succedeva ormai da una settimana, anche quella mattina di febbraio
mi avviai verso l’ospedale. Sola, mentre la luce del sole illividita da
nuvole minacciose mi accompagnava nel doloroso tragitto in macchina, ero
in preda a mille pensieri. Le ruote consumavano l’asfalto viscido, altre
vetture bucavano il travaglio della mia solitudine richiamandomi ad
un’attenzione svogliata, doverosa ma ingombrante. Avevo dormito male ma
non ci facevo più caso…Avevo fretta e l’ansia mi faceva desiderare che
tutto passasse, che rimanesse solo un brutto momento da vivere
pazientemente e da ricordare tra le esperienze da dimenticare.
Una voce “dentro” mi infastidiva, mi suggeriva eventualità oscure che si
vogliono ignorare. Un presentimento si insinuava mellifluo ma non volevo,
non dovevo pensare.
Da lontano, finalmente, la sagoma imponente dell’ospedale, issato tra
nuvoloni grigi, freddo gigante di inquietudine. Un tuffo al cuore. “In una
di quelle stanze c’è mio padre – mi son detta tra me e me – la persona che
mi ha dato la vita…Papà, non è possibile che io stia vivendo tutto questo,
forse sto sognando”. Mi vengono in mente le parole di Calderon de la
Barca, date quasi per scontate in citazioni più o meno banali, ma mai come
in quel momento assertrici di verità. “La vida es sueño”, un sogno che è
anche un’illusione, una metafora dell’essere che non si concretizza perché
si dilegua. Dov’era il mio passato, dove il mio futuro se non ritrovavo
più una direzione? Il timone della mia vita, colui che mi aveva insegnato
a crescere, mi aveva educato all’onestà, al vivere corretto, che aveva
contribuito alla formazione del mio bagaglio umano, era lì, steso in un
letto, inerme di fronte alla sofferenza, annientato da un ineluttabile
percorso obbligato che ognuno deve compiere.
Dalla tangenziale, finalmente, ho imboccato l’uscita per l’ospedale. Avevo
fretta di riabbracciare mio padre ma, nello stesso tempo, avrei voluto
ritardare quel momento per continuare a pensare e nel pensiero costruire
una realtà che non fosse la vera realtà. Due giorni prima avevo provato
l’angoscia di un risveglio impietoso. L’infermiere che assisteva papà
durante la notte mi aveva telefonato all’alba per dirmi che, proprio
durante quella nottata, mio padre aveva avuto un’emorragia interna
abbastanza grave. Mi faceva male ricordare quegli interminabili momenti di
attesa fuori dalla sua stanza, mentre il suo corpo sfibrato era tra le
mani dei medici. Sentivo ancora nelle orecchie le loro voci concitate:
“Bisogna fare una trasfusione…”. L’infermiera su e giù dalla stanza ed io
che, ad ogni movimento, tentavo di penetrare con lo sguardo attraverso lo
spiraglio che si creava tra la porta ed il muro ma vedevo solo il letto
attorniato dai sanitari e dalle macchine. “Il battito sta calando…Proviamo
con il defibrillatore” – e giù scariche…su mio padre. Una vertigine
improvvisa…Nella sala d’attesa ho guardato mio fratello che tentava di
nascondere le lacrime ma i suoi occhi arrossati non mentivano. Un silenzio
forte, presente, cupo. Uno sguardo, tra di noi, carico di frasi non dette,
di speranze disperate, di temute conferme. Un camice bianco e l’invito
silenzioso ad entrare uno per volta e per brevi attimi nella stanza dove
ancora una volta si era combattuta una battaglia. “Può entrare in
camera…solo per un momento, non lo affatichi”. In punta di piedi, timorosa
di non reggere ma ansiosa, ho visto finalmente papà, circondato da
macchine insondabili, il volto catturato in una maschera collegata ad un
respiratore e che, nonostante tutto, aveva conservato la dolcezza
inconfondibile dei lineamenti. Un’idea di respiro si intravedeva
attraverso la trasparenza dei tubi. Avevo le gambe piantate sul pavimento,
non riuscivo a muovere un passo eppure avrei voluto abbracciarlo, correre
da lui in uno slancio d’affetto, accarezzargli la fronte diafana. Un misto
di indefinibili sensazioni durate un’eternità. “Papà, sono qui – stentava
la voce a venir fuori – è passato tutto, cerca di stare tranquillo”.
Lentamente aprì gli occhi. Sembra un atteggiamento normale ma quando vedi
e ti accorgi che una persona non apre gli occhi capisci che non c’è più.
Mio padre c’era ancora, mi guardava implorandomi silenziosamente, forse di
smettere di soffrire. Cosa aveva provato durante quelle ore interminabili
tra le mani dei medici? Cercava le mie parole che in quel momento non
avevano la forza di essere dette. Scrutava sul mio volto segni di
rassicurazione e manifestava mute domande: “Ce la farò? E’ arrivato il mio
tempo? Cosa accadrà quando i miei occhi non avranno la forza di riaprirsi
al mondo?” Tutto questo mi chiedeva mentre io mi disperavo e illogicamente
tentavo una recita pietosa. La vita è una beffa. Ti inganna, ti stordisce
illudendoti con sprazzi di felicità e poi ti pugnala con l’inesorabile
sentenza. Chi avrebbe potuto riconoscere in quell’uomo prostrato,
attraversato da tubicini con flebo sospese come doni su un albero della
cuccagna, devastato da edemi ed ematomi, il mio papà, il mio grande e
generoso papà, solido come una quercia, limpido come una sorgente di
montagna, prodigo come un campo di grano. Supplicavano i suoi occhi
risposte vane. Quante volte si era affidato alle mie cure, durante il
percorso della sua malattia, e riponeva grande fiducia in me, rassicurato,
a volte, quando aveva malesseri inusitati e preoccupanti. Allo stesso
modo, in quel momento, dopo aver “ripreso” a vivere cercava parole
confortanti con uno sguardo che scolpiva sempre più il mio dispiacere.
A tutto ciò ripensavo mentre salivo le scale dell’ospedale e mi sentivo il
cuore pulsare in gola. Ad ogni rampa sostavo per permettere al battito di
rallentare e anche per un bisogno ulteriore di prepararmi a rivedere papà.
Avevo un’oscura percezione che probabilmente scaturiva dall’angoscia
provata giorni prima. L’odore nauseabondo del disinfettante si mescolava
al respiro corto che avevo una volta arrivata nella vasta sala d’attesa
del sesto piano. Il solito tram-tram del personale di servizio mentre
entravo nella stanza dove mio padre mi aspettava. Era sveglio, quella
mattina, e mostrava i segni della lunga nottata passata in compagnia della
solita maschera d’ossigeno tenacemente avvinghiata al suo viso sofferente.
La mia voce, lontana da me stessa tanto da non sembrare mi appartenesse,
risuonò forzatamente vivace: “Papà, sono qui…Allora, che mi dici? Come sei
stato questa notte?”- inutile chiederglielo. Sapevo già quanto fosse
difficile riposare in quella posizione supina, con quella maschera
sigillata che insufflava aria ma toglieva respiro. Aveva il viso gonfio ed
erano evidenti i segni lasciati sulle guance dalle cinghie strette
accuratamente attorno al capo per non permettere la fuoriuscita di alcun
refolo d’aria. Ho voltato lo sguardo verso la finestra. Benché fossero
ancora le sette del mattino, in realtà l’attività del personale
ospedaliero era già fervida. Rumori di carrelli, via vai di gente per i
cambi di turno, fermento tangibile di operosità. Dall’alto di quel sesto
piano si poteva vedere bene il cielo che, prima completamente minacciato
da nuvole sinistre, man mano si andava schiudendo a balbettanti lembi
d’azzurro pallido frastagliato da antenne e cime di palazzoni scuri. Fuori
da quella stanza, verso un orizzonte irraggiungibile…era lì che avrei
voluto dirigere il mio corpo… Avere le ali e fuggire via dall’oppressione
che mi sprofondava nel dirupo.
“Papà, proviamo a bere un sorso d’orzo?” - mi avvicinai sperando di
convincerlo a fare colazione – senza aspettarmi nessun risultato. Infatti,
scosse lentamente la testa in segno di diniego e accennando alla tortura
di quelle cinghie che gli immobilizzavano il capo. Sul monitor al suo
fianco, i suoni erano regolari ed i valori che si illuminavano ad
intermittenza sembravano contenuti. “Guarda, papà, se mi prometti di bere
un po’ d’orzo, chiamo il medico e gli chiedo di togliere quella brutta
maschera. Vuoi?”. Lo vidi all’improvviso rasserenato. Voleva respirare da
solo, voleva sentirsi liberato, affrancato dalla stretta di quell’aggeggio
infernale che lo allontanava dal respiro del mondo. Arrivò, frattanto, il
medico che, prima di togliere il “ragno” ( come era definita in gergo
sanitario quella maschera), prese il valore della saturazione e, dopo una
verifica, concesse finalmente a mio padre il permesso di sciogliere quelle
cinghie. Non so quali sentimenti si stessero accavallando in quei momenti
dentro di me…Osservavo ogni movimento ma non vedevo perché il mio
pensiero, tumultuoso, navigava su un mare gravido di onde. Una
soverchiante tempesta di impressioni mi scuoteva eppure ero lì, costretta
a parlare, a recitare, a compiere gesti quotidiani…prendere il tovagliolo,
adagiarlo sul suo petto, imboccare papà con cucchiaini d’orzo annacquato,
far festa per ogni piccolo centellino trangugiato, proprio come con i
bambini nelle loro prime pappe. Istanti preziosi avviluppati in un
turbinio di attese che non si fanno scrupolo di fiaccare le ultime
briciole di speranza. Dopo la mia “piccola” vittoria ho lasciato che,
tranquillamente, si adagiasse sul cuscino ed io sono rimasta in piedi,
accanto a lui, a carezzare la sua fronte, la cui pelle sottile si
riscaldava sotto le mie dita. Avrei voluto quei momenti solo per me ma
l’infermiera di turno, violando quella preziosa intimità, mi richiamava
all’ordine, invitandomi perentoriamente ad uscire dalla stanza. Che
assurdità! Quale fastidio potesse arrecare la mia presenza al capezzale di
mio padre non lo saprò mai, né mi perdonerò di aver ubbidito a
quell’invito. Non avrei dovuto eseguire educatamente quanto richiestomi.
Ma la buona educazione mi imponeva di essere ligia e, mentre prendevo la
mia roba, un’altra carezza… “Torno fra poco, papà…aspetto fuori, in sala
d’attesa.” Lo sguardo di sconforto di mio padre. Non lo potrò dimenticare
mai, finché avrò vita, fino all’ultimo dei miei giorni ed oltre, se ci
sarà. Mi ha trafitto con i suoi occhi, sperando che io reagissi a
quell’imposizione ma in quel momento, così particolare e così carico di
tensione, la solita infermiera mi raggiunse invitandomi più bruscamente ad
uscire. Abbozzai un cenno di saluto con la mano. “Sono qui fuori… ci
vediamo fra poco”.
Non ti avrei più rivisto! No, non potevo credere al medico che, dopo
appena mezz’ora trascorsa in quella sconfinata sala d’attesa, mi fece
cenno di avvicinarmi. “Signora…venga” – “Che succede?” – in un balzo fui
da lui, sulla soglia della grande porta metallica a vetri opachi che
divideva il reparto dalla sala d’attesa dove avevo stazionato frastornata,
senza alcuna voglia di fare conversazione né tanto meno di leggere.
Neanche l’ immancabile libro che, solitamente mi accompagna ovunque, ha
avuto il potere di distrarmi da pensieri pesanti come macigni, da
presentimenti insinuanti e devastanti che sfilavano in quei minuti vissuti
in attesa. Avevo tentato di leggere qualche pagina ma, in quei momenti,
anche “Le Confessioni” di Sant’Agostino non erano servite a far cambiare
direzione alla mia angoscia. Mi accorgevo di scorrere con lo sguardo sulla
stessa frase senza afferrarne il senso. La mia solitudine e la solitudine
di mio padre. Due solitudini, due diversi mondi che hanno visto il loro
orizzonte velarsi di un tempo intangibile. “Il tempo è un’invenzione
dell’anima” mi ritornava in mente la frase di Sant’Agostino, ma il tempo è
dunque un’illusione peregrina che fluttua assecondando le situazioni. Non
so quanto sia trascorso del mio tempo ma quando il medico ha poggiato la
sua mano sulla mia spalla e mi ha detto: “Si è addormentato sereno…Non ha
sofferto”- non ho capito allora se stessi vivendo o sognando di vivere,
non ho concretizzato se quelle parole fossero effettivamente dette o
immaginate, se io, sola, in quella stanza, fossi ancora io o l’immagine di
me vista attraverso uno specchio. Non ho parlato. A che servono le parole
quando c’è una folla disordinata di riflessioni che si accalcano, che ti
invadono e ti lasciano senza voce? Mi sono rannicchiata su me stessa,
quasi a parare un colpo forte allo stomaco. “Signora, si faccia coraggio.
Ha smesso di soffrire.” – mi giungevano ovattate le frasi che sentivo
sincere ma mio padre, dov’era? In quella stanza dove l’avevo lasciato
salutandolo oppure nel mio cuore che era braccato da quel dolore violento,
insopportabile? “Non posso entrare lì dentro…”- continuavo a ripetere tra
me e me – “mio padre rimane accanto a me, qui, tra le mie mani che hanno
ancora le sue carezza tra le dita…Te ne sei andato così, senza dirmi una
parola…Se n’è andata una parte di me”.
Raggomitolata sempre più su me stessa, lacrime cristallizzate,
pietrificate dalla fredda consapevolezza che non avrei più ritrovato mio
padre. In quel momento ho sentito le ruote della barella, ho guardato
istintivamente attraverso la porta e l’ ho visto, libero finalmente dalla
stretta della maschera e dal travaglio di tubi, aghi e fili arrampicati
sulle braccia tumefatte ed ho ripensato alle parole del medico…”era
sereno…ha chiuso gli occhi dolcemente…”.
“Era una tua peculiarità la dolcezza e ti ha accompagnato fino alla fine.
Il mio tempo si è fermato. Il tempo della mia infanzia, delle corse verso
le tue braccia tese che poi mi sollevavano in aria e mi riportavano giù.
Il tempo della mia giovinezza, quando ti sedevi accanto a me sognando di
ascoltare un pezzo al pianoforte suonato senza troppi errori, dovuti
soprattutto all’emozione di averti vicino. Quanto interesse dimostravi per
i miei studi quasi che fossi tu, privato da ragazzo dal poter studiare
musica, a eseguire quelle melodie. Intonavi le romanze celebri ed io, che
accompagnavo al pianoforte, mi sentivo importante, consapevole che la
musica innalza l’animo, contribuisce a sentirsi parte di un mondo
universale. Il tempo della maturità scandito dalla tua instancabile fede
che ha sorretto le mie debolezze, ha creduto nella forza della vita che si
è rinnovata nel miracolo della nascita di mia figlia. La tua euforia nel
sentirti chiamare “Nonno” dalla nipotina desiderata sopra ogni cosa. La
tua pazienza nel sopportare i suoi scompigliamenti tra i tuoi capelli
candidi sottoposti alle tenere angherie dell’unica ed amatissima nipote,
reginetta del tuo cuore. Il tuo sorriso… la tua voce…i tuoi occhi…chiusi
per sempre.” Si susseguivano immagini lontane e presenti, ore intense e
felici, mescolate a rapidi e disperati sussulti inespressi mentre restavo
immobile. Era come se la tua stessa immobilità avesse trasfuso in me
rendendomi incapace di compiere qualunque gesto o azione.
Solitario il pensiero, in un furioso sovrapporsi di istanti, flashback e
riecheggiamenti, rincorre…si aggrappa…si adagia su riverberi di vita
vissuta che ora sono perle di memoria.
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