Racconti di Matteo Bucciarelli


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La luna di Piotr
Solo ad una cosa gli riusciva di pensare: lo sciogliere nel vento caldo dell’estate d’ogni singolo ricordo. I ricordi. Lui forse neanche ne possedeva di ricordi, forse non ne aveva mai avuti e, nel caso, mai li avrebbe riguardati. Il passato lo stava vivendo ora, il futuro gli appariva in sogno ed il presente non era mai esistito.
Sentiva uscire da sé ogni parola che stava pronunciando e non si preoccupava affatto dell’effetto che avrebbe ottenuto con il suo sguardo assente.
Un’ombra che si aggirava nel buio; era una figura dai bordi incerti che si muoveva lentamente tra le folle, nelle strade, sotto al cielo tristemente azzurro. Il sole scaldava, illuminava sadicamente ogni suo gesto involontario; lo guardava nella sua apparente, taciturna serenità, ma la Luna lo conosceva nelle sue lotte, nei suoi pentimenti mai compresi, nei suoi dolori lancinanti e nel buio del suo tormento. Spesso trovava compagnia in uno sguardo, sollievo in un sorriso: squarci di luce.
Piotr Von Gastel era tuttavia un ottimo lavoratore che, sempre puntuale, timbrava il suo cartellino alla compagnia di assicurazioni, nella quale era impiegato ormai da una quindicina d’anni, senza mai vedersi registrare un ritardo e senza mai sentirsi rimproverare per una mancanza o per una distrazione sul lavoro.
Quest’uomo sembrava non essere mai uscito dal suo ufficio; la sua vita, per chi lo ha conosciuto (se davvero esiste qualcuno che possa affermarlo), potrebbe essere descritta da una breve serie fotografica che si ripete all’infinito su una lunga striscia di carta già ingiallita dal tempo.
Un uomo. Un individuo e niente più. Un’esistenza solitaria che non cerca la compagnia dei suoi simili, ma che, nel suo profondo inconscio, necessita di comprensione e di approvazione.
A quanto pare la sua infanzia non venne caratterizzata da grandi eventi e neanche l’adolescenza pare averlo scosso nell'intimo. Calma piatta su tutti i fronti.
Piotr Von Gastel. Titolo essenziale sull’etichetta posta al centro della copertina. Un quaderno ordinato, scritto in ogni sua pagina con grande rigore: lettere nere di media grandezza si susseguono senza alcuna esitazione, spesso virgole, spesso decisi punti.
Ciò che una persona si aspetta da un manoscritto è totalmente ribaltato dalla visione di quelle pagine, ciò che dovrebbe essere un diario personale, un epistolario di passioni viene del tutto sovvertito in “Piotr Von Gastel”. Non ci sono tracce di cancellature, non sbavature, non ripensamenti; tutto è ordine e ragione.
La forma tuttavia potrebbe generare pregiudizi ed una certa diffidenza nei riguardi dei contenuti. Il lettore, a questo punto, potrebbe anche fabbricarsi mille lecite congetture sulla genialità di quel solitario, uniforme individuo descritto fino a questo momento; si potrebbe pensare che, dietro la staticità di una sagoma scura, si possa scatenare un turbinare di passioni, un portentoso uragano di colori.
Tutto ciò non è concepibile nell'estrema coerenza dell’impiegato Piotr Von Gastel.

“ giovedì,
Mi sono recato al lavoro alle ore 8.05, con buon anticipo sull’orario, sedutomi nell’atrio ho atteso le ore 8.25 per poi timbrare il cartellino alle ore 8.30 precise.
Ho completato il lavoro sulla pratica n.2047, così da sottoporlo al giudizio del capo del mio settore per le ore 12.15.
Alle12.25 …”

Probabilmente questo estratto può già considerarsi sufficiente per comprendere quanto Piotr Von Gastel sia stato un uomo stabile e incolore.
La notte, però, arriva sempre ed arriva per tutti. Il mondo la attende con pazienza e, a braccia incrociate, la accoglie come si accoglierebbe un vecchio amico che ti ricorda i peccati del passato. Un sorriso laconico sempre si stampava sulle labbra di Piotr quando, guardando attraverso i vetri, scorgeva la Luna farsi sempre più bianca e bella. Non si potrebbe dire cosa provasse in quei momenti il diligente impiegato, ma Lei lo stesso lo guardava di rimando e solo per lui vestiva di bianco.
La Luna, unica a non saper mentire, era lì: puntuale al loro appuntamento. Lei sola, delicata, sapeva avvolgere dolcemente tutta la vita di Piotr; rendeva il mondo attorno a lui più lieve, più leggero e sopportabile.
Ogni movimento, giù in strada, era calmo e misurato; persino le luci del traffico, i giornali svolazzanti sui marciapiedi, il cane randagio, lo straccione, l’ubriaco e il poliziotto.
Lei faceva ogni cosa solamente per lui; Piotr ne era convinto. Mai, tuttavia, egli scrisse di ciò nel suo quaderno; è probabile che, secondo Von Gastel, le emozioni avessero un luogo diverso nel quale agire. Le parole di Piotr, scritte o distrattamente pronunciate, non furono mai emozioni; lui non amava mischiare oggetti diversi: se Dio aveva creato il mondo con un certo ordine, ciò doveva essere rispettato dall’uomo, creatura al di sopra del creato.
Senza averlo mai saputo Piotr era poeta, senza avere mai scritto la parola ”amore”, era artista. Il suo cuore batteva al pari di qualsiasi uomo sensibile e passionale, ma tutto rimaneva al suo interno, nell'intimo suo ordine. Egli era l’arte nel silenzio moderato di una notte, lui non gradiva l’esagerazione della forma e l’emozione gridata, non lo avremmo mai visto rosso in volto per amore o pallido per spavento, mai.
Perché sventolare in aria i propri sentimenti, perché strapparli violentemente dalla nostra intimità e issarli al cielo? Perché impazzire per avere uno sguardo, perché lo schiaffo, l’insulto al tuo nemico?
Tutto questo si chiedeva e molto altro gli turbinava nella testa mentre, solo, guardava Lei. Lui amava -sì- e odiava, sentiva crescere l’angoscia e provava il brivido del timore, ma non come qualsiasi altra persona, molto più profondamente e con una più grande consapevolezza.
Questo suo esemplare modo d’essere non traeva origine da una natura egoista o da una particolare tendenza al sopraelevarsi nei confronti della “massa”. No. Piotr sapeva di essere un uomo come gli altri e sapeva di non essere speciale, di non appartenere alla casta del privilegio. Lui lo sapeva e ciò lo portava alla comprensione, ad una passiva solidarietà per il prossimo. Sentimenti che il suo animo vedeva passare senza esserne sconvolto; li viveva in maniera distaccata e, allo stesso tempo, compassionevole: ” la realtà è così fissata e decisa, la tua buona intenzione può solo graffiarla in superficie.”.
Mai nessuno lo udì pronunciare queste parole, forse mai le pronunciò, ma la Luna sapeva e brillava di rimando su quella realtà, vestendola di un velo d’illusoria speranza.
Piotr sorrideva; ancora sorride.      

Suonava solo per me
“ Io sono questo momento, sono questo istante infinito che mi racchiude” disse la donna.
“Cosa vuoi da me?” riprese l’uomo.
“Sei tu che mi hai desiderato, solo tua è stata la scelta di avermi accanto proprio ora.”
Seguì una lunga pausa di silenzio, durante la quale i due si guardarono perdendosi l’uno nell’altra. La donna mostrava un volto e un contegno che solo forzatamente risultavano distaccati, quanto le sue parole volevano lasciare trasparire: la tradiva un lieve tremore delle pupille e il mordicchiarsi nervoso del labbro inferiore.
Alla fine, con voce stentorea, si rivolse ancora all’uomo: “Suona qualcosa per me” e aggiunse un soffocato “ti prego”.
Non avrebbe mai saputo dire, se qualcuno glielo avesse chiesto, come quello strano violino era entrato nella sua vita. Non ricordava un solo giorno della sua esistenza in cui non lo aveva suonato.
Dalle fitte nebbie della vecchia memoria riemergevano i mille volti e i mille paesi che aveva incrociato nel suo vagabondare, nella sua continua ricerca di storie nuove da affidare alle dure corde dello strumento. Alle volte gli capitava di pensare all’infanzia, sempre constatando l’inconsistente brumosità di quel periodo troppo remoto; piccoli episodi, come una caduta sulla ghiaia di cui ancora portava i segni sulle mani o una corsa verso un treno fumante e irraggiungibile, spesso riaffioravano vividi nelle sensazioni ma sfuocati nelle immagini lasciandolo sperduto e solo nel mondo.
Dall’epoca in cui le tracce della storia umana vennero ricoperte completamente dal pesante asfalto l’uomo si era fermato, si era nascosto – come succede agli oggetti inutilizzati – in un angolo buio dove nessuno lo avrebbe potuto trovare.
In quel luogo gli capitava di rievocare gli spiriti del suo passato che apparivano sulla soglia, nitidi e carichi di avvenimenti. La donna, ne era certo, lo aveva accompagnato in ognuno dei suoi viaggi polverosi per le strade del mondo. Ogni tanto la vedeva spuntare da un angolo, un vicolo, da un portico qualsiasi delle migliaia di paesi che l’avevano ospitato. Dapprima pensò si trattasse solamente di coincidenze oppure di somiglianze create dalla sua immaginazione, addirittura giunse ad ipotizzare che la donna fosse nient’altro che aria, una sua personale visione dovuta senz’altro all’esistenza solitaria dentro la quale si era cullato da sempre. Con il passare degli anni si abituò alla discreta presenza di lei, reale o irreale che fosse non gli importava: sapeva che al suono del violino la donna si sarebbe affacciata e sporta verso di lui.
L’uomo era un personaggio singolare nella sua modesta ed umile ordinarietà, aveva infatti l’aspetto di un semplice contadino: la camicia di stoffa grezza e i pantaloni di tela ricoprivano un corpo asciutto e nerboruto perfettamente mimetizzabile nella massa dei lavoratori davanti ai quali suonava.
C’era sempre un momento i cui, nelle domeniche e nei giorni di festa dei borghi rurali, il brusio della piazza lentamente scemava e contemporaneamente si lasciava emergere il suono sincero del violino. Le note si susseguivano in un intreccio naturale e narravano, sussurrando le parole dolcemente, le storie di luoghi indefiniti e lontani. Quella non era una musica da ballare, come la maggior parte della musica che entrava solitamente nelle orecchie della gente, ma era soave come il canto di un angelo e leggera come il battere d’ali di una farfalla. La folla ascoltava in silenzio senza il coraggio di fiatare o di guardarsi l’un l’altro, ognuno aveva la sensazione di essere completamente solo immerso in una luce avvolgente e calda, ognuno si sentiva a casa. In quella atmosfera irreale compariva lei, bella e vera come le melodie che viaggiavano nell’aria.
Era sempre ricoperta da un mantello grigio che ne lasciava visibile solo il volto, pallido ma illuminato da due occhi verdi e profondi, luminosi e impenetrabili come una fitta boscaglia nella quale a stento può entrare un raggio di sole. I lineamenti di quel volto, sottili e lievi, potevano essere stati disegnati solamente dal tocco sfiorato di pennello del Creatore.
Quello sguardo, quel volto in quei momenti esistevano solo per lui; pareva che nulla avrebbe potuto distrarre la donna dal suonatore di violino e dai suoi racconti. Lui presto si accorse della donna, della sua costante presenza e si convinse, si illuse di essere solo con lei e di suonare, di creare solo per lei e ancora di vivere, di viaggiare con lei.
Forte delle sue convinzioni, l’uomo instancabilmente si spostava di villaggio in villaggio con il solo violino come bagaglio e proprietà, con la costante speranza di rivedere ancora il volto della donna materializzarsi alla successiva esibizione. Egli viveva della sola cosa che in ogni momento aveva saputo fare: suonare il violino; così suonava nelle piazze, nelle strade e nelle locande che, a quel prezzo, gli concedevano vitto e alloggio. Il dono straordinario che gli permetteva di vivere aveva assorbito e riempito da sempre tutte le sue energie, i suoi sforzi, le sue motivazioni.
La sua esistenza era, in maniera indissolubile e misteriosa, avvinghiata alle corde dello strumento; ogni momento ed ogni azione dell’uomo era legata a quel violino di legno scuro, al ricciolo del suo manico, agli indecifrabili segni che ne ricoprivano il retro. Quando il mento dell’uomo poggiava sull’incorruttibile liscezza del legno, quando la mano prendeva posizione sulle dure corde il mondo scompariva dalla sua vista e si trasformava in un immenso azzurro popolato da nuvole di cotone. Il silenzio più totale e carico di tensione come ogni silenzio eccessivo, lo invadeva e lo spingeva a continuare. Allora la mano destra si impossessava dell’arco portandolo al contatto con le corde. A quel punto nel silenzio si apriva un varco tenue come il primo bagliore dell’aurora che giunge dall’orizzonte sconosciuto, un piccolo ronzio si levava nell’azzurro trasformandosi con impercettibile lentezza e precisione in nota. Il crine di cavallo selvaggio scorreva sull’acciaio morbidamente, senza fretta, e la nota diveniva sempre più nitida e forte. Crescendo d’intensità il suono cambiava ed aveva inizio quel magico intreccio chiamato melodia. Rapito dai suoi stessi movimenti e cullato dai suoni da lui stesso creati, l’uomo vagava con lo sguardo fra le nuvole alla ricerca di lei. Al fissarsi dello sguardo su quello di lei, la musica subiva un’ulteriore mutazione: l’armonia diventava stabile e delineata, sbocciava completamente in tutti i suoi colori e profumi. Poi, nuovamente, la donna non si offriva alla sua vista e ancora le melodie tornavano sognanti, sfumate cariche di desiderio, tensione verso l’infinito fino al nuovo sporgersi di lei, alla nuova esplosione musicale.
Il tempo rappresentò sempre per l’uomo, una dimensione del tutto ininfluente, superflua. Non esisteva, era completamente assente mentre suonava: per quello che gli importava le sue esibizioni potevano durare molte ore o qualche minuto, non avrebbe cambiato nulla alla sostanza e, probabilmente, la stessa sensazione si trasferiva nelle menti degli ascoltatori. Si dice che una volta l’uomo suonò tutta una giornata, dal sorgere del sole al suo tramonto senza alcuna pausa e che il pubblico, l’intera popolazione di un borgo dimenticato, non si mosse di un solo millimetro fino a che l’ultima nota non svanì nel silenzio della campagna. Alcuni attenti osservatori aggiungono poi il particolare secondo il quale l’ignoto villaggio, una volta applaudito il violinista, si comportò come se fosse ancora mattina e infischiandosene dell’oscurità, pretese la celebrazione della messa domenicale dal povero parroco che, sconsolato dall’assenza di fedeli molte ore prima, si era già abbandonato al sonno.
Il tempo, inoltre, non gli pesava neppure nel susseguirsi delle stagioni da molti vissuto come un’impietosa minaccia, non si rendeva conto della proverbiale “acqua passata” tanto che non aveva l’abitudine di ricordare i suoi giorni da bambino o la sua famiglia, di contare i paesi visitati o le melodie create. Unico punto di riferimento era il suo violino, unica distrazione il volto misterioso della donna; distrazione che comunque egli visse e percepì nell’unico modo che Dio gli aveva dato per comunicare al mondo la sua presenza: sfiorare le corde di quell’ambiguo strumento.
Il tempo attese, paziente come nessun altro, e spietato si vendicò del violinista, della sua noncuranza. Tutto d’un tratto l’uomo si rese conto che il mondo in cui stava viaggiando non era più il suo. All’improvviso aprì gli occhi: vide uomini in giacca e cravatta, non più contadini dall’aspetto umile e lo sguardo fiero, sincero come la brina luccicante dell’alba; vide donne frettolose, decise a diventare più uomini dei loro mariti e meno donne delle loro madri; vide bambini dispotici e solitari quanto dei vecchi amareggiati da una vita di privazioni.
Suonava ancora il suo violino agli angoli delle strade, fra l’indifferenza e la fretta spasmodica della gente, sforzandosi di rimanere se stesso nella musica, ma inevitabilmente le sue melodie rispecchiarono la vita frenetica che si agitava sull’asfalto. Non riusciva più ad elevarsi, come sempre aveva fatto, al di sopra della realtà: si sentiva avvinghiato, invischiato e pesantemente ancorato ad una terra sconosciuta e irrimediabilmente estranea. Quando anche i suoi viaggi divennero impossibili a causa dei veloci mezzi che percorrevano le strade, trasformandole in dure, grigie distese, l’uomo decise di uscire definitivamente di scena.
Vagò per le ultime, deserte, colline per dimenticarsi di se stesso e del mondo ma, una volta fermatosi, il passato si impossessò della sua mente e lo fece vivere nei ricordi.
Il violino giaceva in un angolo della spelonca -la sua prima casa- inutilizzato, ciononostante l’uomo riviveva e ricercava pazientemente le melodie del passato. La musica che gli aveva resa possibile la sopravvivenza, giungeva alla mente chiara e leggera come era sempre stata ed egli la mimava come se avesse lo strumento ancora tra le mani. Stranamente si sentiva indegno di afferrare nuovamente il suo violino, sentiva che sarebbe stato un atto di indicibile egoismo suonarlo solamente per se stesso, tuttavia non riusciva a ricordare perché lo aveva fatto vibrare in tutti quegli anni di vagabondaggio fra gente che non conobbe mai per nome.
Così si cullava nella sua grotta lontana, in una continua opera di ricostruzione e distruzione musicale senza emettere alcun suono, ad occhi chiusi immaginava di poggiare ancora il mento sul legno, di impugnare ancora l’arco, di produrre armonie che gli parevano inutili.
Avvenne in un qualsiasi di quei giorni solitari che l’uomo percepì un sentimento emergere dal profondo; non avrebbe saputo dire di cosa si trattasse, né avrebbe potuto dargli un nome, ma lo accolse con un vago senso di sollievo e di speranza.
Proprio in quel giorno apparve sulla soglia lei, la donna: i suoi occhi verdi erano gli stessi di sempre così come il suo mantello grigio svolazzante alla brezza della sera.
L’uomo si alzò in piedi e la guardò avanzare, con un gesto lento della mano lei si liberò dal cappuccio che le copriva i capelli: una chioma lunga e nera fluttuò per un eterno istante nell’aria, riponendosi alla fine sulle spalle con estrema dolcezza.
La donna entrò nella piccola caverna a passi lenti. La luce lunare la illuminava di grazia e la rendeva leggera come un sogno. L’uomo ebbe timore che scomparisse al primo suo movimento, così se ne restò immobile senza fiatare. Non era invecchiata di un giorno dalla prima volta che l’aveva vista entrare timidamente nella sua vita, lui invece – come ebbe modo di constatare durante il suo ritiro dal mondo – sentiva le ossa fragili scricchiolare ad ogni passo e la sua immagine riflessa dalla pozzanghera ai suoi piedi appariva ogni giorno più simile ai ritratti dei vecchi profeti che aveva visto nelle chiese.
“Eccomi. Sono venuta a prenderti, a portarti con me” disse lei, con una voce simile ad un soffio freddo nella notte. L’uomo si sforzò di risvegliare la voce che aveva in corpo ormai da troppo tempo e sospirò la domanda che lo aveva accompagnato in molti dei suoi viaggi e dei suoi sogni: “Chi sei?”        

L’ultimo sogno
Lungo la strada correva via, lontano. Sembrava che nulla lo potesse convincere a fermarsi, pareva preso da una rapida follia da cui non voleva svegliarsi.
Tutt’intorno era la campagna inaridita da un’estate soffocante, il vento muoveva stancamente i primi passi in quel tardo pomeriggio mentre il sole, altrettanto lentamente, si stava per posare delicato sopra l’orizzonte.
Il cielo era già viola quando, nel silenzio circostante, si udì un tonfo seguito da un breve sussulto di sassolini e quando gli uccelli, dai loro rami, si accorsero di un uomo steso a terra, immobile. Il volto giaceva sulla ghiaia e vi rimase per qualche lungo istante; poi si mossero le braccia e il busto si voltò trascinando, pesanti dietro a sé, il collo e il capo. Il giorno morente vide un volto sconvolto dalla fatica ma che, tuttavia, lasciava trasparire una raggiunta serenità.
L’uomo respirava profondamente, senza fretta, guardando fisso il primo opaco bagliore delle stelle. Il silenzio continuava a regnare su tutta la pianura; per miglia e miglia l’unico rumore, e segno di vita, era quel respiro lento che, man mano, divenne regolare e pacifico.
Durante la notte gli parve di udire delle voci; si era addormentato in pochi minuti dopo la caduta ed erano passate, da allora, due o tre ore - da quello che poteva ricordare -. Fu allora che dei passi si fecero sempre più vicini e due voci divennero più chiare.
Due vecchi bianchi come la Luna conversavano in una lingua sconosciuta, li scorse appena uscirono dalla penombra di alberi e cespugli: fu una visione sfuocata che, passo dopo passo, si fece nitida e distinta.
L’uomo li guardava avvicinarsi e provava a sondare nella mente per ritrovare il luogo dove, forse, aveva già udito quelle strane parole. A circa dieci metri da lui, i due vecchi si fermarono e, come se stessero cercando qualcosa nel prato, ruotarono più volte il capo in diverse direzioni fino a che non gli posarono lo sguardo addosso. Li vide dirigersi verso di lui a grandi passi e fermarsi al suo cospetto; immediatamente sentì il bisogno di alzarsi in piedi, come per rispondere a un muto appello.
I due volti che aveva innanzi erano candidi, entrambi contornati da una fitta barba come di ghiaccio, lunga fino a metà del busto; gli occhi emanavano saggezza, azzurri e grigi come il cielo d’inverno lo fissavano con comprensione, ma allo stesso tempo con severità. Un cappuccio grigio scendeva loro sulla fronte e un lungo vestito del medesimo colore li avvolgeva leggero e sinuoso nelle sue pieghe.
Uno dei due vegliardi stringeva nella mano destra un lungo bastone nodoso, al quale appoggiava tutto il suo peso in quell’incedere zoppicante che lo distingueva dal compagno.
Rimasero per qualche istante a guardarlo negli occhi assonnati con quell’aria grave, ma rassicurante che, in fondo, lo faceva sentire a proprio agio.
“Noi sappiamo” disse il vecchio col bastone, facendosi leggermente più avanti “sappiamo e comprendiamo”; l’uomo ascoltava senza muovere ciglio, “tuttavia è l’ora che tu ci segua, Sivad”.
Sivad era il suo nome, ma non provò stupore alcuno nell'udirlo pronunciato da quelle sagge labbra.
“Vi seguirò; non ne comprendo il motivo, né conosco la destinazione, ma farò ciò che voi mi ordinerete” rispose, con lo sguardo perso nel vuoto.
Il secondo vecchio, che era stato silenzioso fino a quel momento, avanzò di un passo e disse: ”Guarda nel tuo cuore Sivad: solamente nel tuo cuore troverai la risposta, se davvero la vuoi cercare”
Sivad ebbe paura, un brivido gli corse veloce lungo tutta la schiena e gli sembrò che il mondo tremasse con lui.
“Non temere Sivad, non affliggere ancora la tua debole anima” riprese il primo vecchio “Sei già fuggito troppe volte dalla tua storia e dalla vita degli altri uomini. La Verità è dentro di te e urla per farsi ascoltare, ascoltala prima che davvero sia troppo tardi.”
Sivad barcollò, gli parve di perdere i sensi e, come per sorreggersi da una improvvisa oppressione, si aggrappò al braccio del vecchio col bastone.
Poco dopo si accorse di trovarsi fra le braccia del secondo vegliardo, sentiva la sua barba accarezzargli il volto sospinta dal vento e dai passi del vecchio. Udì ancora le due voci esprimersi in quella lingua sconosciuta, così strana e fredda, ambigua e oscura che ebbe un altro intenso momento di panico, seguito dallo stesso forte tremore che, poco prima, lo aveva costretto a soccombere. Cercò di liberarsi da quella sensazione, si concentrò e contrasse, con tutta la forza che poté raccogliere, ogni muscolo del corpo; lo sforzo gli parve immenso, insostenibile e cadde in un sonno profondo.
Una maestosa tempesta regnava sulla cima di un monte, lui si trovava alle pendici di quell’altura spaventosa avvolta da una nera corona di nubi. Seduto morbidamente su di un verde prato illuminato dal sole si godeva il roboante spettacolo; scorgeva spesso figure umane piccole come formiche che, a tratti, venivano illuminate dai lampi. Quegli uomini parevano fuggire disperati verso il basso: correvano freneticamente e, inciampando nelle sporgenze della roccia, molti di loro cadevano nel vuoto da alti dirupi. Sivad ne udiva le grida spaventate, poteva quasi distinguere le parole che si urlavano l’un l’altro per infondersi coraggio. Non si sentiva toccato dalle urla, né provava compassione per quel gruppo di disperati che stava vedendo morire. Ciò che Sivad sentiva crescere dentro di sé era piuttosto una attrazione, era affascinato dalla potenza del cielo in tempesta, dal fragore della pioggia che scrosciava giù dal monte levigandone le frastagliate superfici rocciose. Aveva la sensazione di assistere alla creazione di un grande diamante, un gioiello di immensa bellezza veniva forgiato davanti ai suoi occhi dalla forza dirompente della Natura. Sivad era un privilegiato, non gli era chiesto di soccombere a una tale furia, ma aveva il permesso di assistervi da un luogo sereno e isolato.
Gli eventi mutarono rapidamente: un lampo e Sivad si trovò sulla cima della montagna mentre, poco sotto di lui, un uomo lo incitava a scendere; un secondo lampo; immediatamente un rumore assordante lo travolse: le pietre sulle quali era seduto lo sollevarono con forza, scaraventandolo nell'aria fredda e scura. Non udiva più alcun suono e un dolore lancinante lo mordeva alla schiena, era terrorizzato e gridava con voce strozzata tutta la sua disperazione.
Si destò, dunque, spaventato e sconvolto. Aprì gli occhi, ma vide solo qualche contorno sfuocato; si accorse che le palpebre e le guance erano bagnate di calde lacrime. Sentiva ancora male alla schiena e si rese conto di essere sdraiato sopra a un freddo pavimento di mattoni; una volta asciugati gli occhi con le mani, vide due muri che si estendevano per una ventina di metri davanti a lui, sui quali si aprivano dieci porte, cinque alla sua destra e altrettante a sinistra. Si alzò in piedi barcollante e ruotò su sé stesso per meglio rendersi conto del luogo in cui si trovava: si trattava di un lungo corridoio chiuso alle due estremità, notò, inoltre, che le dieci porte erano sprovviste di maniglie o tiranti e che si potevano distinguere fra loro solo grazie a piccole incisioni scolpite, da mani esperte, nella parte superiore. Raffiguravano simboli, segni di cui non comprendeva il significato: linee in obliquo, punti e semicerchi, piccole stelle e croci. Ogni porta era fornita di tre segni non allineati, ma disposti a formare un immaginario triangolo equilatero.
Tutto era avvolto nel silenzio, nessun rumore o voce giungeva da dietro le porte ed un luce chiara illuminava a giorno il corridoio, pur non essendoci finestre o aperture di alcun tipo.
Sivad non riuscì a capire da dove provenisse una tale quantità di luce e si accorse, inoltre, che il suo corpo non faceva ombra in nessuna direzione, né sulle bianche pareti, né sopra il grigio pavimento.
Confuso, ma per niente scosso, Sivad si sedette nuovamente al centro della stanza. Il tempo passava e lui aspettava che qualcosa accadesse in quel luogo tanto strano; non sentiva la fame, la sete e tutto ciò di cui un uomo ha bisogno: si sentiva sereno ma, al tempo stesso, un timore lontano, profondo nel suo cuore, tentava di portare la sua attenzione altrove. Ogni volta che Sivad ne avvertiva la remota presenza, lo ricacciava negli abissi della coscienza portando lo sguardo ancora sulle porte e sui loro ambigui simboli.
Nel punto del corridoio in cui si era seduto si trovavano, alla sua destra e a sinistra, le terze porte di entrambe le pareti; d’un tratto, dritto davanti a lui, vide l’ultima porta di destra aprirsi violentemente verso l’interno. Un’ombra scura e rettangolare si estese, in un istante, di fronte ad essa; si udì un forte rumore di vento sbattere contro la parete antistante e rimbalzare verso Sivad, ancora seduto ad aspettare. Il vento stava percorrendo il tragitto verso di lui e, nero, freddo e sinuoso, prendeva corpo. Man mano che lo vedeva avanzare, Sivad sentiva gelare il sangue nelle vene e, quando lo travolse impetuoso, non riuscì a compiere alcun gesto.
Qualche secondo dopo il clamore cessò e, una volta che la porta si richiuse, il silenzio regnò nuovamente sovrano.
Ora Sivad giaceva sdraiato sulla schiena, abbattuto da quella potenza inattesa. Gli vollero altri lunghi momenti per riprendersi dall’impatto e dallo stato di panico che, per la terza volta, lo aveva reso impotente. Troppe sensazioni lo avevano pervaso nelle ultime ore e ne stava uscendo lacerato nello spirito, come mai gli era accaduto in tutta la sua vita. Sivad era solito fuggire ogni tipo di sentimento, sapeva di non potervi resistere con la sua gracile anima abituata alla tranquillità.
Nei lunghi anni passati a vagare nel mondo si era formato una coscienza distorta, mai corretta da nessun tipo di scelta radicale. Aveva sempre vissuto in bilico fra il bene e il male e, ogniqualvolta una decisione o un bivio gli si posero dinanzi, fuggì.
Era questo il motivo del suo scorrazzare di paese in paese, del suo vivacchiare da piccolo uomo timoroso che non dava e non voleva amicizia da nessun essere vivente. Nessuno seppe mai quale fu l’origine della sua vita da equilibrista sopra il mondo, nessuno ebbe mai occasione di conoscere quell’uomo schivo e senza pace come davvero andrebbe conosciuta ogni persona.
Sivad parlava con la gente solo per necessità; quando doveva trovare alloggio, lavoro o cibo allora si rivolgeva con distacco a chiunque incontrasse che poteva ispirargli una minima dose di fiducia. Non era considerato il tipo di uomo con cui parlare affabilmente del tempo e del governo, tutti lo vedevano come una persona riservata, una specie di eremita costretto a vivere fra loro.
Non trascorse mai più di qualche mese nello stesso luogo, cosicché la gente del posto non avesse il tempo per accorgersi della sua presenza e potesse dimenticarlo in pochi giorni. Si trattava di un ometto basso di statura, magro e con il volto perennemente stanco; in generale la sua figura non destava timori o sospetti: passava perlopiù inosservato, com’era nelle sue intenzioni.
Per la seconda volta udì quel suono: l’ultima porta a sinistra si era spalancata con la medesima velocità della precedente e con la stessa violenza, anche l’ombra proiettata di fronte ad essa ricalcava entità e grandezza di quella che l’aveva preceduta. Un inquietante, profondo silenzio invase il lungo ambiente in cui Sivad era stato trasportato. Il silenzio divenne ancora più pesante e l’aria parve trasformarsi e soffocarlo lentamente. Questa volta Sivad cercò di resistere e, per raccogliere e disporre di tutte le sue forze, si alzò in piedi.
Le membra pesanti come macigni e il capo grave sul collo irrigidito. Gli occhi volevano chiudersi ma, con un grande sforzo, costrinse la palpebre a non abbassarsi. Resistette per qualche minuto, fino a quando la porta, con un tremendo clamore si chiuse, lasciandolo cadere pesante sul duro pavimento.
A Sivad pareva di dover sostenere prove terribili, mai era stato così sconvolto durante la sua esistenza. Da quel luogo sconosciuto, questa volta non poteva fuggire, si sentiva costretto ad affrontare tutte quelle ondate improvvise senza soccombere: non era in suo potere fare nulla di diverso.
Inoltre, ciò che subiva alla schiusura delle porte, non faceva altro che acuire la pesantezza di quel masso in fondo al cuore; ora la sensazione di timore che pareva tanto lontana, si stava avvicinando inesorabile all’occhio della mente, ormai non poteva più distrarlo o volgerlo altrove.
All’apertura, in questo caso dolce e silenziosa, della seconda porta alla sua destra Sivad percepì crescere nel petto un calore portentoso, divampante. Il respiro sembrava non voler più uscire dal corpo e, d’improvviso, ebbe voglia di correre e gridare. Per qualche minuto le porte chiuse lo videro dimenarsi freneticamente, scomposto nei movimenti e con occhi spiritati e persi su e giù dal corridoio, finché non si bloccò al cospetto della porta aperta. In quell’istante gli parve di vedere, immersi in una luce abbagliante, lunghi capelli dorati svolazzare sinuosi e due occhi azzurri di cielo guardarlo sorridenti; poi nulla: la porta si chiuse.
Allora Sivad cadde in ginocchio appoggiando la fronte sul caldo legno, le lacrime cadevano lente rigando, dolci e graffianti, il viso impallidito.

* * *

Il corridoio, le dieci porte furono il paradiso, l’inferno e il purgatorio di Sivad. Per lunghi anni e secoli le porte si aprirono scaraventando quel piccolo uomo dagli abissi della Disperazione alle cime della Gioia per vederlo, ogni volta, lacerato, cadere senza il tempo di rialzarsi.
Sivad pagava così, senza sosta, la sua indolenza emotiva, l’egoismo e il cinismo; non vi fu fine a tale supplizio neanche quando la pesante Verità trovò la via d’uscita, quando la carogna del Ricordo annegato tornò a galla nella sua mente soffocando, ancora una volta, la debole anima.
Ormai il piccolo uomo aveva perso ogni occasione per salvarsi, l’orrendo destino lo aveva atteso e lui, fuga dopo fuga, lo aveva raggiunto.

 

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