I Le origini Canto l'armi pietose e il capitano? le donne, i cavalier, l'armi e gli amori?... Non propriamente: canto te, Milano, le tue vicende fin dai primi albori, le gesta dei tuoi uomini preclari, da Belloveso al sindaco Ferrari. Gli àuguri sacri, quando tu nascesti, non chiesero presagi agli avvoltoi, né di te si curarono i Celesti; né illustri figli di superbi eroi, dagli occhi foschi di predestinati, scavarono per te solchi quadrati. Celti raminghi sulla tua pianura edificaron qui, tra il fango e il gelo, povere case senza architettura: neppure l'ombra, ohibò, d'un grattacielo! L'anno preciso? Quando il borgo sorse, in verità, nessuno se n'accorse. Consacrato non fu da nessun atto, né fu cinto di mura e di castella. In quanto al nome, semplice ed esatto: «lan» vuol dir terra in gallica favella, onde l'antico nome Mediolano: «terra di mezzo» del lombardo piano. Fu una tribù degl'Insubri, allorquando regnava a Roma re Tarquinio Prisco, che fondò Mediolanum, al comando del duce Belloveso. Io non capisco, piuttosto, come mai quel capo celta proprio in quel luogo stabilì la scelta. Era una plaga piatta e acquitrinosa, senza risorse, senza allettamenti: neppure un fiume, un lago, una qualcosa che lusingasse quelle antiche genti: ci fosse stata almeno una collina, anche all'altezza della Madonnina! E invece niente, mentre lì vicino, a poche leghe, c'eran molti laghi, e ricchi fiumi (il Po, l'Adda, il Ticino), fertili terre e paesaggi vaghi. Ma Belloveso, senza esitazione, piantò le tende in mezzo a quel nebbione. Avrà detto ai suoi fidi: «Il luogo è brutto, ma son tempi di guerre e d'invasioni, e penso che nessuno, dopo tutto, vorrà prendersi qui reumi e geloni per conquistar le nebbie e le paludi» (L'eco rispose in gallico: «T'illudi!») Poteva Belloveso immaginare che quella sua città grama e succinta avrebbe attratto poi, come zanzare, guerrieri e condottieri d'ogni tinta? che il borgo su quel suo celtico «lan» sarebbe diventato il gran Milan?... Potevan prevedere i nostri padri che a venticinque secoli da allora, con tanti luoghi comodi e leggiadri, pronti ad offrire un'ottima dimora, gente su gente, che il nebbione ammalia, sarebbe accorsa qui da tutta Italia?.. Come ciò accadde, e dopo quali eventi, è detto nei capitoli seguenti.III Milano capitale dell'Impero d'Occidente (286 d.c.) Per opera di Cesare, che avanza ed occupa la Gallia, l'Inghilterra e in parte la Germania, l'importanza di Mediolano cresce, e in pace e in guerra: ne ha fatto, quell'invitto condottiero, il centro e il fulcro dell'immenso Impero. E non soltanto un centro militare: è una città che traffica, lavora, ha scuole, apre botteghe a tutt'andare, offre ogni ben di Dio già fin da allora, e in ogni attività, modestia a parte, sa già applicar le regole dell'arte. Cesare, molto fine di palato, solo a Milano può assaggiare il burro (per quanto non ancora sigillato con sopra un marchio di colore azzurro); e vi si ferma spesso e volentieri, rifornendosi lí d'armi e d'artieri. È lui che poi, con tanto di diploma, dà la cittadinanza ai Cisalpini; e già Milano è bella come Roma: palazzi, mausolei, templi, giardini (giardini che dai sindaci futuri ricoperti saran con brutti muri). É dimostrato che lo stesso Augusto, unico «grande» di quel tempo d'oro, trova Milano piena di buon gusto: soltanto, non gli va, quando nel Foro (dov'ora è San Sepolcro), dispiaciuto, vede una statua dedicata a Bruto. «Ma come? Ha ucciso Cesare, mio zio, e voi gli fate pure il monumento!... » Gli rispose il pretore: «Augusto mio, devi saper che qui non s'è mai spento l'antico amore per la libertà...». E il monumento fu lasciato là. Poi, nel secondo secolo, Traiano, nuovi templi vi edifica agli dei e adorna d'una reggia anche Milano, che nell'anno 286 diventerà la sede della corte; e Roma, da quel dí, ce l'avrà a morte. Ma Roma non è piú quella di prima: è una città corrotta e turbolenta, sicché Milano, nonostante il clima, da molto alletta i Cesari e li tenta. (Il Palazzo c'è già, ci son le terme: basta installarvi un paio di caserme.) Governare da solo è un affar serio, pensò l'illustre e saggio Diocleziano e, agendo dopo tutto con criterio, divise in due l'impero, a Massimiano - un suo devoto e bravo generale - affidando la parte occidentale. Sceglie per sé l'Oriente: l'alterigia del popolo romano assai lo tedia, e già da tempo ha pronta la valigia per trasferirsi in Asia, a Nicomedia. Dice al collega: «Me ne vo laggiù; con i Romani te la vedi tu! ». Ma dopo fu deciso, di concerto, di traslocar più su la capitale: meglio Milano: è più tranquilla, certo, e soprattutto è molto più centrale. Ed andarono insieme a inaugurarla: che festa, amici! Ancora se ne parla... (E a capitale ancor la si promuove: non ha importanza se il governo è altrove.) V L'invasione dei Goti (378) L'opera di Ambrogio Finalmente ha ceduto, e in quel medesimo anno (se v'interessa, era il trecento settantaquattro) Ambrogio avrà il battesimo e il vescovato. Un vescovo portento: chi ne ha visti di simili, a Milano e non qui solamente, alzi la mano! Non dovrà studïar la teologia per farsi prete, non gli serve niente: egli sa tutto, è un'enciclopedia. Ed unisce un gran polso a una gran mente: i più fieri tiranni, anche se inerme, affronta e inchioda con parole ferme. Appena eletto vescovo, si reca dal sommo imperator Valentiniano; e lí molte parole egli non spreca, ma con linguaggio semplice ed umano gli spiffera: «Il dovere d'un Augusto, principalmente, è quello d'esser giusto. E tu giusto non sei: sei prepotente, governi con la frusta e con la scure, ignori la pietà. Tieni presente che, prima o dopo, morirai tu pure e, se vi son dei grandi fra i mortali, gli scheletri però son tutti uguali». L'imperatore, nuovo a quel linguaggio, stupisce, resta lí come un agnello, ma diverrà piú tenero e piú saggio... Dice: «Quest'uomo ha fegato e cervello». Ma questo è niente: il cuore di quell'uomo! Un cuore grande quattro volte il Duomo. E ne darà la prova, soprattutto, quando i ribelli Goti da Adrianopoli, vittoriosi, seminando il lutto ed il terror fra i soggiogati popoli, giungon sull'Alpi: le città padane suonano a stormo tutte le campane. L'invasione dei barbari comincia, con un contorno di feroci stragi, ed a Milano e in tutta la provincia è un affluir di profughi randagi (il che dimostra che lo sfollamento non l'ha inventato il nostro Novecento). Come far fronte a quell'immane flutto di scempi, di saccheggi e di massacri? Ambrogio, soccorrevole, dà tutto, spoglia le chiese, vende i vasi sacri d'oro e d'argento, e il ricavato n'offre a chi piange, a chi tribola, a chi soffre. Libera i prigionieri, con quell'oro pagando ai Goti il prezzo del riscatto. E gli ariani lo accusano: «Il tesoro alla Chiesa di Cristo egli ha sottratto!». «Sì, l'ho sottratto e non me ne vergogno: d'oro e d'argento Dio non ha bisogno», replica Ambrogio. E con accesa fede, tra l'infuriare della carestia, rivolge ardenti appelli a chi possiede perché più assista i poveri e più dia, e tiene memorabili sermoni, bollando l'avarizia dei ricconi, gridando lor: «Spremetevi, pitocchi!». Come vedete, un vescovo coi fiocchi... VII Ambrogio contro i ricchi e gli usurai Ambrogio spesso fu rappresentato con in mano una verga o uno staffile, ch'egli d'usare non s'è mai sognato, severo sí, ma d'indole gentile: checché ne dica un gonfalone storico, il suo fu uno staffile metaforico. Ché, nello staffilar con la parola, era un maestro e, senza alzar le mani, in chiesa e fuori, con o senza stola, bollava gli atti ingiusti e disumani, e le cantava in faccia apertamente anche all'uomo piú illustre e piú potente. Staffilava gl'iniqui gabellotti, biechi strumenti d'un sistema infame: per far fronte alle tasse, eran ridotti, agricoltori e artefici, alla fame. (E noi che, inveterati brontoloni, ci lagniamo dei moduli Vanoni!) Bollava a sangue i ricchi possidenti, che ammassavan vastissime fortune: diceva che la terra è dei viventi, un bene ai ricchi e ai poveri comune, che sono tutti uguali sotto il sole (ma dove ho inteso già queste parole?...). «Avete parchi simili a foreste - diceva - ed ignorate quei vassalli che non hanno un ricovero e una veste, mentre dei costosissimi cavalli, orgoglio della vostra scuderia, sapete tutta la genealogia; e date a quei cavalli freni d'oro, mentre negate il soldo ad un pezzente: voi, sfruttatori dell'altrui lavoro, siete dannati irreparabilmente, morrete in preda a orribili rimorsi...» (ma dove ho inteso già questi discorsi?). Ambrogio, soprattutto, se la piglia con l'usuraio cupido e perverso, che spinge tanti padri di famiglia a gesti disperati. Ora è diverso, e grazie a leggi meno primitive c'è gente che sui debiti ci vive. Allora no, non c'era da scherzare: chi non pagava i debiti, signori, non aveva altra scelta: o al cellulare, o schiavo dei suoi stessi creditori. Adesso il creditor, con piú giustizia, generalmente muore d'itterizia... Ma, nonostante Ambrogio e i suoi sermoni, gli uomini restan sempre tali e quali: Giove non lancia piú fulmini e tuoni, ma guerre e guai funestano i mortali; la gente, in un'eterna pantomima, s'ammazza come prima, piú di prima. Ora è la volta d'un usurpatore, Massimo, che il terror sparge a Milano ma da Bisanzio un grande imperatore, l'ultimo grande imperator romano, Teodosio, giunge e, pieno d'energia, fa finalmente un po' di pulizia. E allorquando Teodosio, invitto duce, di nuovo accentra nelle proprie mani tutto, l'Impero, è Ambrogio che lo induce ad abolire i riti dei pagani. Ma prepotenti, avari ed usurai nessuno ad abolir riuscirà mai: in tutti i tempi e con mutate fedi, te li ritrovi sempre in mezzo ai piedi! IX Morte di Teodosio (395) e di Ambrogio (397) Stilicone Vinto e soppresso un altro usurpatore (un patrizio pagano a nome Eugenio), muore a Milano il grande imperatore, fra il compianto di tutti. Uomo di genio, lascia agli eredi il rinnovato impero, ma il genio se lo porta al cimitero. Parlò innanzi al suo feretro, nel Duomo, Ambrogio: «Ebbi con lui qualche dissenso», piangendo egli esclamò, «ma amai quest'uomo, che preferiva il biasimo all'incenso e non sdegnò, contrito peccatore, di prosternarsi ai piedi del Signore. La sua corona non mancò di spine, ma fu un uomo dabbene, e il vero elogio egli lo avrà da Dio». Ma ormai la fine s'avvicinava per lo stesso Ambrogio: Milano perderà, con quel sapiente, un signore squisito e intelligente. Grande ed umano insieme: era, l'ingresso della sua casa, aperto in tutte l'ore; v'entrava, senza chiedere permesso, tanto il mendico che l'imperatore: per parlargli, non era necessario interpellare prima il segretario. Sempre gentile e affabile. E Milano ereditò da lui la cortesia, la franchezza, il buon senso e l'ambrosiano gusto d'un humour tinto d'ironia; nonché il coraggio di mostrare i denti, se occorre, agli arroganti e ai prepotenti. Milano aveva allora un avveduto governatore, il bravo Stilicone, un generale vandalo, tenuto già da Teodosio in gran reputazione: da poco giunto qui dal suo paese, pur si sentiva mezzo milanese. Quando seppe che Ambrogio era morente, egli si rese conto del disastro; capì che presto, inesorabilmente, scomparsa anche la luce di quell'astro, sul vecchio mondo, gramo e sprovveduto, sarebbe sceso il buio piú assoluto. Convocati i piú anziani ed i migliori fra i cittadini, il capo del governo parlò cosí: «Desidero, signori, che il vostro Ambrogio preghi il Padre Eterno perché, dati i pericoli dell'ora, lo tenga in vita per qualche anno ancora». Ingenuo Stilicone... Non è tanto ch'egli ha abbracciato la novella fede: se, come gli hanno detto, Ambrogio è un santo, un santo non può far ciò che piú crede? «Penso che Cristo nulla abbia in contrario e lasci Ambrogio in vita: è necessario!» Ma Dio, purtroppo, non si sottomette ai desideri d'un governatore; e il 4 aprile del '97 di quel secolo quarto, Ambrogio muore. Purtroppo, Stilicone era nel vero: addio Milano, addio romano impero... Ben presto udrete orribili novelle, che vi faranno accapponar la pelle. XI Caduta dell'Impero d'Occidente (476) Il regno di Teodorico Nell'anno 471, giunge a Milano il fosco Ricimero: rude soldato e barbaro tribuno, diventato padrone dell'Impero, egli elegge, secondo i propri gusti, e dopo sgozza i cosiddetti Augusti. Ma c'è un Augusto che si dà dell'arie e vuol fare da sé: si chiama Antemio. Ricimero, con truppe mercenarie, a cui promette... Roma come premio, marcia sull'Urbe e ammazza il dissidente, che fra l'altro è suo suocero: che gente!... E lotte ancora, e crimini: chi vince, chi perde; ancor vendette di tiranni, usurpatori in tutte le province, stragi, saccheggi... Passano cinque anni, ed il piú grande impero della storia finisce senza onore e senza gloria. Arriva il re degli Eruli, Odoacre, a cui prima Milano apre le porte; prende Ravenna e, procedendo alacre (non occorre gridare «O Roma o morte!»), entra nell'Urbe, dove con le buone manda Romolo Augustolo in pensione. Milano, intenta a riparare i danni, non s'accorse neppure che l'impero era caduto: ormai, da cinquant'anni esso esisteva solo nel pensiero. Ed ecco una valanga d'Ostrogoti precipitar fin qui da lidi ignoti. Orde affamate, messesi in cammino con le donne, coi figli e col bestiame dal Nord ingrato, in cerca di bottino e d'un piú caldo e fertile reame, han sentito parlar d'uno Stivale, che sarebbe davvero l'ideale. Col loro capo, il re Téodorico, vinto Odoacre, giungono a Milano. Chiuder le porte al barbaro nemico ed a difesa asserragliarsi? È vano: siamo a corto di fegato e d'eroi... - Signori, accomodatevi anche voi!... Prosegui per Ravenna il biondo sire, dove Odoacre s'era rifugiato: manda a costui dei messi e gli fa dire che vorrebbe concludere un trattato; gli propone un incontro e in un convito gli dà con un pugnale il benservito. Re Teodorico non curò Milano: come sua sede preferí Verona. Reggeva i Milanesi un capitano, chiamato «difensore», una persona eletta col suffragio popolare, che il re si limitava a sanzionare. Milano prosperò stupendamente, oprando e amministrandosi da sé; non era stata mai cosí fiorente: scuole, commerci, industrie, mentre il re, fra una caccia alla volpe e un assassinio, consolidava il gotico dominio. Milano, dunque, si trovò benone, pur già gravata di cospicue tasse. E i Milanesi dicono a ragione: «Oh, se il governo ci dimenticasse!...». Quella pacchia, però, durò ben poco: trent'anni appena e ricomincia il gioco... «Milano rasa al suolo»: è questo il titolo che avrà, purtroppo, il prossimo capitolo. XIII Vanno e vengono... (Vanno i Goti, vengono i Longobardi) Dov'è Milano? Dove le sue chiese, le sue torri, i suoi parchi e le sue donne?... Non v'è piú che un deserto: al ciel protese, le scheletrite sedici colonne delle sue Terme appaion da lontano, a ricordar che lí sorse Milano. Rimane il Circo: al ferro ed alla fiamma ha resistito la massiccia mole; ma non c'è nessun gioco, ora, in programma: e, scioltasi la neve, il nuovo sole piú non vi trova che dell'ossa ignote e bianchi teschi dalle occhiaie vuote. Ma se Aquileia, la città romana dalla furia degli Unni incenerita, restò un ricordo nella storia umana, presto a Milano ritornò la vita: i Milanesi alle città vicine preferiron gli sterpi e le rovine. Si rimboccan le maniche: al lavoro! Là, dove un giorno s'innalzò una reggia meravigliosa di granito e d'oro, di cui nel mondo ancor si favoleggia, sorgon le prime timide capanne, costruite col fango e con le canne. S'utilizza ogni rudero, ogni buco, per aprirvi un negozio, un'officina... Narsete, intanto, il generale eunuco, con una forte armata bizantina, sbarca in Italia e dopo egregie imprese, per quanto eunuco, libera il paese. O, meglio, scaccia i barbari, costretti a ritornare nelle proprie tane; ma, fin d'allora, questi benedetti «liberatori» ce n'han date grane! Prepotenze, angherie, nuove rapine... onde il proverbio: al peggio non c'è fine. Ma presto i Bizantini fan fagotto: scendon dalla Pannonia i Longobardi, nell'anno 568, piú feroci dei Goti e piú gagliardi, e, anch'essi distruggendo a tutto spiano, l'anno seguente arrivano a Milano. La povera Milano, o bene o male, in trent'anni di pace o poco meno, benché non fosse piú la capitale, era risorta e funzionava in pieno. Diceva il forestiero stupefatto: «Di nuovo è un gran Milan! Come avrà fatto?... C'eran per tutti un pane ed un piccone; né si trovava un solo milanese che all'emigrato, barbaro o terrone, si sognasse di dir: «Va al tuo paese!» Purtroppo, (disarmati, non codardi) non lo disser neppure ai Longobardi... Era, in quel tempo, vescovo Onorato (fu fatto santo, in seguito, anche lui): «Fratelli», disse al popolo prostrato, «arriva Belzebú, ragion per cui io me la filo a Genova. In compenso, vi raccomando a Dio, ch'è buono e immenso». Insieme a lui fuggirono i potenti; si rifugiaron, altri, in quel di Como; rimasero in città solo i pezzenti, gli animosi e gl'invalidi. Nel Duomo, pregava il popolino umile e imbelle: «Speriamo almeno di salvar la pelle, col vescovo Onorato e col Governo che ci han raccomandati al Padre Eterno!» XV Fine del regno longobardo (774) Pipino il Breve e Carlo Magno I Longobardi son rimasti, in tutto, duecentosedici anni in mezzo a noi: ci fu, tra loro, piú d'un farabutto, non mancaron, però, santi ed eroi; e, per la verità, c'è chi sostiene che fu in complesso un popolo perbene. Mostrava, nei riguardi del bel sesso, un vivo senso di cavalleria: coloro che si prendono il permesso di molestar le donne per la via, pagar la multa (novecento soldi), o vanno dentro come manigoldi. Se un tale ad una donna preme un dito e questa lo denunzia, il poveraccio, o si rassegna ad esserne il marito, o paga e tace; se le tocca un braccio, la multa è doppia; se le sfiora il mento (o il corpo, peggio ancora), è il fallimento! Cosí pure, va incontro a grosse pene chi si fidanza e poi, stanco o deluso, la promessa di nozze non mantiene... Tutte leggi che caddero in disuso: fortuna! (Con un simile rigore, oggi saremmo tutti a San Vittore.) Certo, vivendo in mezzo agl'Italiani, le scuole frequentandone e le chiese, divennero piú docili ed umani, anche se imbarbarirono il paese, a cui lasciaron solo, andando via, alcune usanze e il nome «Lombardia». Ma non andaron via: la loro terra era ormai questa, dopo duecent' anni; furon disfatti in seguito a una guerra, che mutò solo il nome dei tiranni, e restaron fra noi, non piú distinti, ma accomunati e mescolati ai vinti. C'era un'Italia, ormai quasi compatta (sia pure conquistata con la forza), che pian piano li assimila e si adatta a quei guerrieri dalla dura scorza, che non sanno, però, che cosa sia e a cosa serva la diplomazia. Non sanno che col papa, per esempio, devono agir col massimo riguardo, o il Santo Padre, chiuso nel suo tempio, dice: «È straniero pure il longobardo: straniero per straniero, tanto vale... Pipino è il Breve e lungo è lo Stivale». Fu dopo la metà del 700: re Astolfo assedia Roma, furibondo perché il papato aspira al sopravvento; allora, il papa - Stefano secondo - chiama in aiuto i Franchi, e re Pipino è piú che pronto a mettersi in cammino. Pipino il Breve è un re che la sa lunga ed accarezza sogni di conquista; non ci vuol molto perché a Roma giunga, cogliendo i Longobardi alla sprovvista: conclusa quella rapida campagna, regala al papa il Lazio e la Romagna. Il successor d'Astolfo si rivolta: papa Adriano ripeté l'invito, e a scendere in Italia, questa volta, è Carlomagno. Misero, tradito, conobbe la disfatta e il vituperio quel re che si chiamava Desiderio. Ed un pio desiderio, fatalmente, restò un'Italia unita e indipendente. XVII Usi e costumi del secolo VIII Milano al tempo di Carlo Magno Carlo, ignorante come i Longobardi, ai tempi suoi passò per un sapiente, ma imparò solo a leggere piú tardi (ed a scrivere mai correttamente), pur accogliendo tutta una coorte d'artisti e di poeti alla sua corte. Come insegnante ha un prete mantovano, che trema tutto quando gli fa scuola. E alquanto indietro, il re... «Dimmi, Milano come si scrive? con un'elle sola?» «Sí, sacra maestà, cosí direi: un'elle può bastar... ma faccia Lei!» Fu certo, fra i re barbari, il piú grande e un sogno carezzò nella sua mente: sulle rovine antiche e memorande ricostruir l'Impero d'Occidente. E compì molte imprese leggendarie, ma non sottrasse il mondo alla barbarie. Nell'800, il giorno di Natale, ha la corona del Romano Impero: papa Leone, in un pontificale, esalta il santo e invitto condottiero... Un condottiero sí, fra i piú gagliardi, ma da siffatti santi Iddio ci guardi! È un uomo dalle mire ambiziose, che ostacoli non vuol sulla sua strada: parlan di lui le abbandonate spose e i Sassoni passati a fil di spada. Ma non è colpa sua: son quelli i tempi, tristi e selvaggi, arroventati ed empi. Solo la forza impera: nel paese ch'era stata la patria del diritto, a giudicare i crimini e le offese il codice non serve, è ormai proscritto; e son solo la spada ed il bastone a decider chi ha torto e chi ha ragione. Vale poco la vita e, se vi è tolta, l'omicida non paga che un'ammenda, mentre a chi ruba, per la prima volta, si strappa un occhio, perché il ladro intenda; se recidivo, gli si taglia il naso, e poi... la testa, se non è persuaso. Intanto, nel continuo parapiglia (le guerre, l'incertezza del domani), pei dolci e casti affetti di famiglia non c'era posto: gli uomini, lontani, a battersi pel re; le loro spose, sole per anni, ardenti e desïose. Né, come Cristo per la Maddalena, le leggi conoscevan la pietà per le donne fedifraghe: la pena di morte e basta. (Bella crudeltà! Se il mondo fosse ancor cosí severo, oggi sarebbe tutto un cimitero...) E bimbi appena nati, in modo infame, nei fossi, fra gli sterpi o su una via abbandonati al freddo ed alla fame... Questo il quadro dei tempi. Tuttavia, nel buio di quel secolo inumano, c'è una fiaccola accesa, ed è Milano. Quante volte: «Carneade!», voi direte, traversando un piazzale cittadino: «chi fu questo Dateo?»... Fu un arciprete, colui che il primo «Ospizio del bambino» fondò, mediante pubbliche collette, nell'anno 787. Milano, già da allora, ha una sua legge, ch'è la legge del cuore: il grande Ospizio accoglie i trovatelli e li protegge contro la fame, la miseria e il vizio, li prepara alla vita che s'avanza, dando loro un mestiere e una speranza. Nella città, c'è un'aria di benessere, di gentilezza; i pellegrini e i poveri sono alloggiati, senza tante tessere, negli «Spedali» o in pubblici ricoveri; per i veggiôn (miracolo a quei dí!) pranzo gratuito tutti i venerdí. Rinata come ai tempi dell'Impero, a detta d'un poeta longobardo, Milano è ricca e bella: il forestiero ne resta affascinato al primo sguardo; delle città d'Italia è la regina (pur se non c'era ancor la Madonnina). E soprattutto, i re, come vedrete, li tollerava al più...sulle monete. XIX L'arcivescovo Ansperto da Biassono (868-881) Volge l'anno 868, quando è fatto arcivescovo un prelato, Ansperto da Biassono, uomo assai dotto e, certo, all'alto ufficio il piú indicato, unendo alla virtú della sapienza la bontà, l'energia, l'intelligenza. L'impero carolingio ormai si sfalda, ed ecco il nostro povero paese, dove la guerra è in permanenza calda, costretto a sciropparsi le contese e le rivalità d'illustri ignoti, che fan di professione... i pronipoti: infatti, ad aumentare il parapiglia nell'infelice Regno, ogni persona, che vantava un legame di famiglia con Carlo Magno, ambiva alla corona (e avevan, nove mogli, al franco sire fornito discendenti a non finire...). Chi si fa agnello, il lupo se lo mangia; e Ansperto da Biassono, un gran cervello, fra tutti quei pericoli, s'arrangia a fare il lupo invece dell'agnello, ed - un gran cuore - cerca al tempo stesso di trarre in salvo il gregge a lui commesso. Egli si fece il capo incontrastato della Dieta italiana dei signori ch'eleggevano il re; ma se in passato il «sí» di quei simbolici elettori era soltanto una formalità, Ansperto impose: «il re s'elegge qua». Giovanni ottavo, un papa autoritario, vuole avocare a sé quel privilegio e, pei suoi fini, a un grande feudatario vuol dar l'Italia ed il potere regio: certo Bosone, duca di Provenza; ma ad Ansperto non va quell'invadenza. «Tu pensa a incoronar l'imperatore», risponde al papa, «perché il re è affar mio». Giovanni, allora, acceso di furore, convoca l'arcivescovo restio, a Pavia prima e dopo a Roma: invano! L'altro, piú duro: «No, resto a Milano». Giungon messi da Roma, ai quali Ansperto oppone un invariabile «non posso», nel mentre conferisce - di concerto con gli ottimati - il trono a Carlo il Grosso. «Ah, questa è grossa!» esclama il papa: «l'unica è colpire costui con la scomunica». Lungi però dall'essere deposto, come speravan, forse, i suoi nemici, non solo restò, Ansperto, al proprio posto, ma cacciò dentro i messi pontifici, che nel nome del papa e del Signore eran venuti a dargli un successore. Il papa s'era illuso: i Milanesi amavan troppo Ansperto da Biassono, dal quale si sentivano difesi e ch'era un tipo energico ma buono. Fu lui, suppongo, (un mio parere esprimo) che: «Milan e pô pù» disse per primo. Vibrante d'entusiasmo e d'amor patrio, la rese ancor piú bella e piú sicura, davanti a Sant'Ambrogio aggiunse l'atrio meraviglioso, restaurò le mura, quasi in rovina, eresse ospizi, chiese, e tutto ciò (pensate!) a proprie spese (mentre adesso i potenti, assai piú scaltri, le spese, ohimè, le fan pagare agli altri). XXI L'invasione degli Ungheri (899-900) Ugo di Provenza Per gl'Italiani il secolo funesto si chiude con un ultimo sconquasso: hanno deciso gli Ungheri (e, del resto, non c'è nessuno a contrastargli il passo) d'uscire anch'essi dalle proprie tane per visitare le città padane. Affini agli Unni, barbari feroci, devastan tutto, bruciano paesi, campi... Ma questa volta, oltre alle croci, impugnan anche l'armi i Milanesi, e Landolfo, arcivescovo e soldato, non lascia la città come Onorato. Sant'Ambrogio diventa una fortezza, prosecuzione delle antiche mura; la gente pur se all'armi è poco avvezza, si batte con magnifica bravura. Attila ormai da tempo è seppellito: e questa volta il barbaro è servito! Morto il fiero Landolfo, ch'era stato l'animatore della resistenza, l'arcivescovo Andrea, mal consigliato, invita Lodovico di Provenza: «Vuol venire in Italia?» gli propone: «avremmo un regno a sua disposizione». L'arcivescovo aveva un suo disegno, come, del resto, i suoi predecessori: dare a un oscuro feudatario il regno, privilegi ottenendone e favori, e se avanzava, il re, delle pretese, rispedirlo senz'altro al suo paese. Lodovico, nell'anno 900, arriva dal suo feudo provenzale e, proclamato re, tutto contento, a Roma ha la corona imperïale; ma presto, poi che il re vuol far sul serio, gliene faran passare il desiderio. Costretto a rinunciare alla corona, se ne va via, ma l'Alpi ridiscende, prende prima Milano e poi Verona, dove, sicuro ormai, pianta le tende; ma Berengario poi, Verona invasa, gli cava gli occhi e lo rimanda a casa. Sotto un altro: Rodolfo di Borgogna. E Berengario, per cacciarlo via, chiama in aiuto gli Ungheri (vergogna!), che a ferro e fuoco mettono Pavia; ma dopo sconta il gesto scellerato e per mano d'ignoti è trucidato. Il trono è offerto ad Ugo di Provenza: sembrava un galantuomo ed è un ribaldo, che ha sete di ricchezza e di potenza: per darne il posto al figlio suo Teobaldo, egli tentò, benché gli fosse amico, d'uccider l'arcivescovo Arderico. Venne scoperto il subdolo attentato, e scese in piazza il popolo ribelle, ma per salvar la vita del prelato parecchi ci rimisero la pelle, e il re, dagl'indignati cittadini, fu costretto a tornar nei suoi confini. Resta sul trono il giovane Lotario, suo figlio, ch'è un ragazzo di buon cuore; ma il padrone di fatto è Berengario, nipote dell'ucciso imperatore: è marchese d'Ivrea, ma sta a Milano, dove complotta e intriga a tutto spiano per tornare a Pavia, poiché si crede dell'italico regno il vero erede. XXIII Bonizio e Landolfo da Carcano Fine del millennio Nell'anno 961, Ottone primo - il Grande - entra a Milano, dove Valperto, che stimò opportuno invitarlo quaggiù, fa del sovrano, nella Dieta tenuta in Sant'Ambrogio, un commovente e sperticato elogio. Afferma: «È il solo, in tempi cosí duri, che possa darci la tranquillità e contro tante insidie ci assicuri». I Milanesi dicono: «Sarà...», batton le mani senza convinzione e toccan ferro, pur gridando... «Ottone!». Proclamatolo re, dopo, il medesimo Valperto a Roma il teutone accompagna, e questi da Giovanni dodicesimo è unto imperatore in pompa magna, ed indi nominar fa re d'Italia il figlio Ottone, ancora quasi a balia. «Il principino, certo, è un po' immaturo, ma questo è un trono a molti rischi esposto», pensa, «per cui, per esser piú sicuro, credo sia meglio prenotargli il posto. Per ora tutto va col vento in poppa: la prudenza, però, non è mai troppa». A questo l'arcivescovo, s'intende, non s'è prestato gratis et amore: egli in cambio otterrà ricche prebende, terre e castelli dall'imperatore, cosicché la diocesi diventa sempre piú forte, grande ed opulenta. Intanto, i re deposti e i loro eredi non si dan pace e, morto il primo Ottone, si metton lo Stivale sotto i piedi, mentre a Milano, a farla da padrone, è Bonizio da Carcano, un signore beneficato dall'imperatore. È un vecchio gentiluomo del contado, che regge la città senza controllo e fa salire all'arcivescovado il giovane Landolfo, un suo rampollo, che, usando del potere a tutta briglia, fa di Milano un feudo di famiglia. Insorge allora il popolo indignato ed ammazza Bonizio: una tragedia... Landolfo fugge e, dopo aver chiamato il nuovo Ottone, che Milano assedia, ha una trovata piena di saggezza, e la tragedia termina in bellezza: dicendosi pentito dei suoi falli, non solo ai suoi seguaci egli dispensa, vincolandoli a sé come vassalli, feudi e ricchezze della sacra Mensa, ma con terre, castelli e benefici placa ed a sé guadagna anche i nemici. E forma, con quel gesto di furbizia, pur frantumando i beni della Chiesa, i quadri della prossima milizia: quei feudatari, pronti alla difesa dello stesso arcivescovo, man mano, diventeranno il nerbo di Milano. Ottone fa buon viso al brutto scherzo, parte per Roma e trova guerra e morte. Il figlio adolescente, Ottone terzo, ben presto seguirà la stessa sorte, in quella Roma, dove sta accadendo il finimondo in un groviglio orrendo. Del resto, per quell'anno novecento novantanove è atteso il finimondo davvero, come un incubo, un evento fatale e ineluttabile: secondo l'Apocalisse, i frati e le sibille, l'alba non vi sarà dell'anno 1000. Vana paura: per fortuna, ancora, su quell'umanità di sangue sazia, sorse la luce della nuova aurora... Ho detto per fortuna: o per disgrazia? Perché la luce dell'aurora nuova a diradar le tenebre non giova, ed il nuovo millennio, indubbiamente, darà dei punti a quello precedente. XXV Ariberto d'Intimiano (1018-1045) Anno 1018: Arnolfo muore, ed al suo posto i «grandi» di Milano, con il permesso dell'imperatore, eleggono Ariberto d'Intimiano, che siede sulla scranna episcopale con in pugno la spada e il pastorale. E abbiamo un arcivescovo a cavallo, piú soldato che prete, ma dabbene: il gran signore e l'umile vassallo tratta da uguali, ed alle curve schiene sembra già dir, fra un'ave e un paternostro: «Su con la vita! L'avvenire è vostro». Generoso, dinamico, moderno, volle aperte le scuole a tutti quanti, a spese proprie e a spese del governo, dando buoni stipendi agl'insegnanti, che non eran costretti, come adesso, a scioperare o a rinunziare al lesso. Andò in Germania ed a Corrado il Sàlico - il successore del secondo Enrico - promise a cuor leggero il regno italico e in lui non vide il prossimo nemico. Fu il suo piú grande errore, egli lo ammette: lo incoronò nel 1027. Poiché i Pavesi opposero un rifiuto, spinse Corrado ad assediar Pavia: questa - è pur vero - aveva sempre avuto verso Milano un po' di gelosia, ma il doloroso e tragico episodio l'antica gelosia trasformò in odio. Ora Ariberto vuole imporre a Lodi certo vescovo Ambrogio: i Lodigiani, che apprezzan poco i burbanzosi modi, coi Milanesi vengono alle mani ed han la peggio; d'onde, altr'odio ardente contro Ariberto e tutta la sua gente. Due classi, intanto, s'urtano a Milano: i capitani, o militi maggiori, immediati vassalli del sovrano, del vescovo o del conte, e i valvassori, che, oppressi da quei grandi, coi plebei scendono in piazza: è il 1036. Poiché Ariberto non si sente in grado di domare gl'insorti, in preda all'ira chiama il funesto imperator Corrado e addosso molti guai cosí s'attira, perché quel prete energico e manesco non piace troppo al Cesare tedesco. Questi accettò l'invito, tuttavia, con una mira subdola e segreta: infatti, convocatolo a Pavia, in una breve e tempestosa dieta, arrestò l'arcivescovo d'urgenza e ammanettato lo mandò a Piacenza. Milano, alla notizia, arde di sdegno e di dolore: vergini e matrone, nobili e servi, senza alcun ritegno, si strappano le vesti, e in processione, a piedi nudi, vanno i capitani accanto ai valvassori e ai popolani. Trascorsero due mesi, ed Ariberto, complici alcuni frati piacentini, scesa la notte, dopo ch'ebbe offerto vino e liquori ai propri secondini e questi sprofondarono in letargo, usci dalla prigione e prese il largo. Non vi dico il delirio di Milano, le feste alla Basilica Maggiore... Folle di rabbia, decretò il sovrano, come Vitige, il suo progenitore, che la città ribelle e turbolenta fosse distrutta dalle fondamenta. Questa volta, però, signor Corrado, saranno i Milanesi a trarre il dado... XXVII La guerra civile (1042) La morte di Ariberto (1045) Adesso capitani e valvassori si dividon le cariche a Milano e sempre piú quei pessimi signori aggravano sui deboli la mano: cosí, con l'aumentare dei padroni, sono aumentati i mali ed i... «bidoni». Si, ma la plebe adesso ha un'altra scorza, poi che con l'armi ha avuto da Ariberto la coscienza della propria forza e, vinto il feudalismo in campo aperto, non è disposta a tollerarlo in casa; però, la nobiltà non n'è persuasa. Un popolano, un giorno, casualmente, per strada un valvassore urta col braccio; questi si volge e livido, furente, atterra con la spada il poveraccio, ma s'alzan cento braccia in una volta in sua difesa. E scoppia la rivolta. Dal furore del popolo inseguiti, s'asserragliano in casa in tutta fretta, ma fuggon dopo, i nobili atterriti, giurando inesorabile vendetta. Ed Ariberto, ormai provato e stanco, finisce col partire al loro fianco. La plebe ha un capo: il giudice Lanzone, una di quelle splendide figure che una crociata o una rivoluzione trovano sempre, quando son mature. Egli, benché d'origine patrizia, è coi ribelli e ha sete di giustizia. Aveva, la Milano medievale, sei porte: Ticinese, Vercellina, Nuova, Romana, Renza od Orientale (oggi Porta Venezia) e Comasina. Lanzone suddivide gli abitanti fra le sei porte (quelle piú importanti) Gl'irati capitani e valvassori assedian la città per ben tre anni: tre anni di vendette, di dolori, d'inique stragi e d'inauditi affanni; ma i popolani, dalla testa dura, resiston sempre, chiusi entro le mura. Lanzone, alfine, vista decimata Milano dalla fame e dal nemico, avanza una proposta disperata, ch'è approvata dai suoi: chiamar Enrico, per salvar la città che si dilania in quell'atroce guerra. E va in Germania Enrico terzo volentieri accetta, ma impone ferrei patti; onde Lanzone rinuncia alla vittoria e alla vendetta, torna a Milano, e senza esitazione va nel campo nemico, alza le mani e chiede di parlar coi capitani. Gli tenne su per giú questo discorso: «Cari signori, arrivano i Tedeschi; io li ho chiamati, senza alcun rimorso, perché, vinti da voi, staremmo freschi. Non vi sembra piú logico e piú umano chiederci scusa e stringerci la mano?» Si scese a giusti patti e, finalmente, ai nobili Milano apri le porte. Tornò il vecchio Ariberto, ormai cadente, fra le sue mura ad aspettar la morte, dicendo a chi piangeva: «Asciuga il pianto: vado tranquillo innanzi al nostro Santo». Riposa in Duomo, accanto a quella croce che un giorno dal Carroccio leggendario vide fuggire il téutone feroce, sgominato da un popolo bonario, di cui egli destò nella coscienza la prima fiamma dell'indipendenza: popolo di mercanti e d'artigiani, ma che, se occorre, sa menar le mani. XXIX Federico Barbarossa Imperatore (1152) Il primo assedio di Milano Benché retta a repubblica, Milano continua ancor pro forma, tuttavia, ad eleggere il re, purché il sovrano dopo tre giorni se ne vada via. Gli piace la città? Non l'ha mai vista?... Ci tornerà da semplice turista. Sono soltanto i Consoli che adesso governan il Comune, e ne fan parte i popolani e i nobili: lo stesso arcivescovo è ormai quasi in disparte; e le guerre e le paci e le alleanze sono decise in pubbliche adunanze. In poco piú d'un secolo, le guerre furono ventisei: contro Pavia, Lodi, Cremona, Como ed anche terre oltre i confini della Lombardia, Novara, Parma... I guai sopravvenuti, Milano, insomma è lei che li ha voluti. Intanto, Federico Barbarossa, eletto imperatore dei Tedeschi, comincia presto a far la voce grossa e ad affermar, con modi padroneschi, ch'egli è deciso a far l'imperatore, da ubbidirsi per forza o per amore. Manda a Milano un messo, a ricordare i suoi diritti sull'antico Regno; ma i consoli, fra l'ira popolare, leggono il «breve» e con superbo sdegno, mostrando al messo il libero vessillo, calpestan poi l'imperial sigillo. Federico, saputo di quel gesto, scende in Italia e, cinta la corona nell'amica Pavia, senza un pretesto, stringe d'assedio e stermina Tortona, come per dire: «Attenti, son venuto!» ai Milanesi e a chi dà loro aiuto. Ciò fatto; verso Roma egli procede, mentre a Milano, contro il Barbarossa, mastro Guitelmo, specie d'Archimede, intorno alla città scava una fossa, rinforza torri e ponti levatoi, alza un bastione e dice: «Ed ora a noi!». Nell'anno 1158, un poderoso esercito nemico giunge a Milano. In seguito a un complotto, tradendo i Milanesi, a Federico, dopo una breve e indomita difesa, il conte di Biandrate offre la resa. L'8 settembre, i consoli e i primati - l'arcivescovo Oberto in prima fila - sfilano scalzi innanzi agli alleati (ch'erano in tutto circa centomila, fra Tedeschi e Italiani) e il popol tutto segue i maggiori con le vesti a lutto. Nella Dieta sui prati di Roncaglia, presenti i dottoroni di Bologna, giureconsulti e giudici di vaglia, è il fulvo imperatore (altro non sogna) riconosciuto il solo, il vero, il giusto gran successore del divino Augusto. La bandiera con l'aquila imperiale è issata sulla torre del Comune. Viene instaurato il giogo piú brutale, ma troppo l'oppressor tende la fune, allorché vuole imporre alla città un proprio magistrato: il podestà. Milano insorge e al grido: «Fora! Fora!» scaccia i Tedeschi dalle proprie mura; il Barbarossa furibondo, allora, dichiara i Milanesi - con scrittura stilata dai felsinei magistrati - contumaci, ribelli e rinnegati. E sono posti al bando dell'Impero: Milano sola contro il mondo intero! XXXII La ricostruzione di Milano La fondazione d'Alessandria La battaglia di Legnano (1176) Giunse la bella e santa primavera dell'anno 1171: trombe e campane, in enfasi guerriera, chiaman di nuovo il popolo a raduno; ed è davvero il popolo sovrano, ch'è ritornato nella sua Milano. Risorgono le torri, le distrutte mura, le case; in preda a un'euforia meravigliosa, vi lavoran tutte le maestranze della Lombardia; giungono aiuti e il plauso piú cordiale da tutte le città dello Stivale. Intanto, una città - di piú ridotto formato - dalla Lega era fondata, nell'anno 1168, sul Tanaro e la Bormida, chiamata col nome d'Alessandria, il che si spiega: papa Alessandro è il capo della Lega. Quella città-fortezza, che fu eretta per tagliare Pavia dal Monferrato, ebbe i tetti di paglia, per la fretta, sicché, sprezzante, pur se un po' seccato: «Città di paglia!» disse il Barbarossa. Ed a momenti ci lasciava l'ossa... Ordinò furibondo, tuttavia, che la nuova città fosse sepolta, quando, dal Monferrato e da Pavia sollecitato, per la terza volta in Italia calò, sei anni dopo: polverizzar la Lega era il suo scopo. Passò dalla Savoia ed Alessandria assediò per sei mesi inutilmente: non ha dinanzi una belante mandria, come pensò, ma un popolo furente; e la città, nell'epica battaglia, si rivelò di ferro e non di paglia. L'imperatore vuol trattar la pace e accetta un compromesso a Montebello; ma all'improvviso ridiventa audace, poiché giunge un esercito novello dalla Germania, che gli dà manforte. E Como all'invasore apre le porte. Dilaga intorno il pànico: che fare?... Si stacca dalla Lega anche Tortona; Bergamo e Lodi sembrano esitare, Pavia tradisce, è incerta anche Cremona... Supplicare perdóno al Barbarossa? Milanesi, giammai: meglio la fossa! Meglio la morte che l'obbrobrio e l'onta! Meglio la fine, se non c'è piú scampo, fratelli... E allora che Milano affronta «a lancia e spada il Barbarossa in campo», ed è in quei dí che trova anche Milano il suo Sigfrido: Alberto di Giussano. È lui che, mentre cedono i Lombardi dinanzi ad un nemico assai piú forte, presso Legnano, con i suoi gagliardi novecento guerrieri della Morte accorre ed in un impeto di gloria salva il Carroccio e ottiene la vittoria. I Lombardi inseguirono il nemico per otto miglia; venne conquistata la spada dello stesso Federico, che sparve nella mischia disperata: giunse a Pavia che già l'imperatrice si riteneva vedova infelice. Non lo pianga, signora, è troppo presto, ne avrà ancora per anni: è nel '90 ch'egli infatti morrà, dopo il bel gesto compiuto guerreggiando in Terrasanta; in quella Terrasanta ove ha deciso d'andarsi a guadagnare il paradiso (ché qui, se non l'aiuta il Padre Eterno, a momenti lo mandano all'inferno). XXXIV Federico II contro Milano Pagano della Torre Del Barbarossa emerito nipote, Federico secondo odia Milano (né, certo, l'amicizia ne riscuote): uomo moderno, illuminato e strano, coltiva l'arte, venera la scienza, non sdegnando, però, la prepotenza. Vuol vendicar lo zio: vuol, finalmente, esser d'Italia l'unico signore. Piú che Milano e lui, sono, idealmente, a fronteggiarsi papa e imperatore coi loro rispettivi paladini: si fan la guerra Guelfi e Ghibellini. E fu una lotta che non ebbe tregua per un quarto di secolo. Milano, senz'altro, alla politica s'adegua del severo pontefice romano, per cui s'affretta a mettere in funzione il tribunale dell'inquisizione. Con l'aiuto d'un frate demagogo, Oldrado da Tresseno - il podestà - manda schiere d'eretici sul rogo, cosí purificando la città da una genia malefica e funesta, ch'osa pensare con la propria testa... È nel 1237 che Federico valica i confini che, deciso a far le sue vendette, con torme di Tedeschi e Saracini polverizza sull'Oglio, a Cortenuova, i Milanesi, il cui valor non giova. Dello spietato zio degno discepolo, fa massacrar dai suoi feroci lanzi i prigionieri, impicca Pietro Tiepolo, podestà di Milano, e i pochi avanzi del Carroccio spedisce con orgoglio al Senato romano in Campidoglio. Il nobile Pagano della Torre, ricco signore della Valsassina, gli sbandati rianima e soccorre, verso le proprie terre li incammina, li accompagna poi fino a Milano, che gli è assai grata di quel gesto umano Due anni dopo accade a Federico quello ch'è già accaduto al Barbarossa: sbaragliano l'esercito nemico i Lombardi, chiamati alla riscossa, Federico parte, buono buono, scomunicato da Gregorio nono. L'arcivescovo e i nobili, a Milano, la propria autorità vogliono imporre, il minacciato ceto popolano invita allor Pagano della Torre, ché lo difenda, accanto al podestà, contro i soprusi della nobiltà. Non è soltanto un abile tribuno: è un uomo giusto, semplice, clemente; e nel 1241, quand'egli muore, il popolo piangente, purtroppo, insieme a lui seppellirà la pace e, peggio ancor, la libertà. Lo ricorda un'epigrafe e lo dice - in Chiaravalle, dove è sotterrato - almo liberator, frutto felice di questo suolo... Quando il suo casato dominerà, Pagano della Torre discendere faran dal prode Ettorre, o addirittura dal gran padre Adamo (da cui, del resto, tutti discendiamo). XXXVI La sconfitta di Ezzelino da Romano (1259) Martino della Torre (1259-1263) Bella la Lombardia: grassa, fiorente, ricca dei piú pregevoli prodotti dei campi e delle industrie, indubbiamente faceva gola a molti signorotti, in specie ad Ezzelino da Romano, che aspirava al dominio di Milano. È una figura tra le piú malvage del sanguinoso tragico Duecento: il suo nome è sinonimo di strage, d'ira, di crudeltà, di tradimento. Fece dovunque vittime a migliaia, morte sul rogo o sotto la mannaia. È a lui che i fuorusciti milanesi chiedono aiuto. Indomito, Martino, insieme ai Mantovani e ai Cremonesi, sull'Adda affronta e sgomina Ezzelino, che, ferito in quell'epica giornata, rende al demonio l'anima dannata. Dopo di che, Martino della Torre è di Milano il capo incontrastato; ed è saggio e magnanimo, ma incorre fatalmente nell'ira del papato, in un momento in cui per tutto il mondo dilaga un fanatismo furibondo. Percorrevan l'Italia i Flagellanti: degl'invasati, stretti dal cilicio, che predicavan le virtú dei santi, povertà, penitenza, sacrificio; ottime e sagge cose tutte queste, ma che con sé portavano la peste. Martino, intorno alle turrite mura, forche disseminò per ogni dove: il mistico drappello ebbe paura andò, prudente, a flagellarsi altrove, perché neppure i santi, a nostro avviso, hanno fretta d'andare in paradiso. Martino, non contento, da Milano scacciò dopo il legato pontificio: degli Ubaldini il nobile Ottaviano, che amava piú le gemme che il cilicio pretendeva gli venisse offerto un «pezzo» dell'altare d'Angilberto. Disse indignato il cardinale: «Io parto, ma con Martino farò presto i conti», a Roma indusse il papa Urbano quarto a creare arcivescovo un Visconti (poi che il diritto il popolo perdé di darsi un arcivescovo da sé). Martino si ribella e papa Urbano gli lancia l'interdetto. Tuttavia, quand'egli muore, il popol di Milano ne accompagna la salma all'Abbazia di Chiaravalle e piange addolorato il suo signor, sia pur scomunicato. A Martino succede un suo fratello, Filippo, ma Milano ha un vero capo quando, anche quegli sceso nell'avello, a lui succede il favoloso Napo: è, tutta la sua vita e la sua storia, un'orgia di battaglie e di baldoria. Fu il tipico signore del Duecento, un secolo convulso e stravagante, fazioso, fanatico, violento, spesso feroce: il secolo di Dante, in cui l'arte rinasce: una sublime festa di forme, di colori e rime. (Vi saran delle età ben piú funeste, senz'arte, senza rime e senza feste...) XXXVIII La Signoria Viscontea (1277-1447) Matteo Magno Intraprendenti ed abili, i Visconti, di beni di fortuna ancor sprovvisti, nonostante i fantastici racconti adulatorii dei genealogisti, inosservati scesero a Milano da un modesto castello del Verbano. Con Ottone arcivescovo comincia l'ascesa del serpente visconteo, che di Milano e tutta la provincia, segnatamente ad opra di Matteo, il pronipote e successor d'Ottone, diventa il potentissimo padrone. In quanto all'arcivescovo, che ottenne la signoria coi bandi, le torture e i tradimenti, vecchio ottantottenne moriva fra i rimorsi e le paure, voltate al mondo ormai le curve spalle, nell'antica Abbazia di Chiaravalle. Matteo, tribolatissimo, nell'anno 1302, saprà l'esilio, e i Torriani a Milano torneranno, accolti da una folla in visibilio, che in Guido della Torre risaluta la libertà, da tempo già perduta. Fin quando Enrico settimo, chiamato dal profugo Matteo, vuol ricomporre l'aspro dissidio e l'odio smisurato ch'esiste fra i Visconti e i della Torre; però pretende, insieme alla corona, centomila fiorini: e non canzona. Guido e Matteo si mettono d'accordo per scacciare i Tedeschi, ma - sventura! - Enrico non è cieco e non è sordo, e ha molte spie: scoperta la congiura, mette al bando i Torriani, ed ecco invase e devastate ancor le loro case. Matteo, piú furbo, invece si prosterna al sire, si dichiara suo gregario, gli giura fede e obbedienza eterna, sí ch'è creato imperial vicario, sborsando ancora un mucchio di fiorini, strappati ai dissanguati cittadini. In tal modo, Matteo si mette contro tutti i guelfi d'Italia; e tuttavia, costretto a piú d'un sanguinoso scontro, si batte con la massima energia. Il papa lo scomunica, e son quelle l'ore piú brutte per il gran ribelle. Spera di far morir papa Giovanni con arti di magia: chiede consiglio anche a Dante Alighieri (che in quegli anni trascorreva a Ravenna il duro esiglio), nella speranza che il poeta eterno possa cacciare il papa nell'inferno. Gi'inquisitori lo dichiaran reo di molte colpe: ce n'è tutto un mazzo; terrorizzato, il povero Matteo cede il potere al figlio Galeazzo, mentr'egli, innanzi al popolo plaudente, recita il Credo e grida ch'è innocente. E quando rese l'anima al Signore, fu sepolto in segreto a Crescenzago, fra pochissimi fidi, nel timore che il romano pontefice, non pago, potesse fare insulto all'ossa sue. Era il 1322. Quell'uomo forte, illuminato, audace, soltanto allora ritrovò la pace. XL Giovanni, Arcivescovo e Signore di Milano (1349-1354) Bernabò Visconti (1385) Non può dirsi davvero che sia stato uno stinco di santo il buon Luchino: valoroso politico e soldato, ebbe fama d'insigne libertino. E la bella cugina Margherita, per la propria virtú, perdé la vita. Margherita era moglie d'un Pusterla: Luchino n'è invaghito - si bisbiglia - e, poiché non riesce a persuaderla, monta un complotto e a tutta la famiglia taglia la testa... (Chi ti legge piú, povero e grande Cesare Cantú?) Rimasto solo capo, alla sua morte, il fratello arcivescovo Giovanni è un uomo sveglio, coraggioso e forte: se gli si addicon poco i sacri panni, in quanto a cuore, fegato e cervello, bisogna fargli tanto di cappello. Petrarca, spregiatore di sovrani, si fermò a lungo presso quel signore e disse che, fra i principi italiani, Giovanni di gran lunga era il migliore; nè a lui soltanto tributò un elogio, ma a tutta la città di Sant'Ambrogio. Giovanni, con l'astuzia e con l'audacia, s'impadroní di Genova e Bologna; e, pieno di risorse e di tenacia, altri fastigi ed altre mete sogna, dopo aver fatto ancora mirabilia nel Veneto, in Piemonte ed in Emilia. Contava allor, lo Stato visconteo, ben ventisei città, ch'egli lasciò ai tre nipoti. Spentosi Matteo, restaron Galeazzo e Bernabò: cosí, diviso è il solido dominio (diviso... fino al prossimo assassinio). Morto poi Galeazzo, a lui succede, residente a Pavia, Gian Galeazzo, suo figlio, e aspira ad essere l'erede dello zio Bernabò (strano ragazzo: mentre lo zio lo crede un bonaccione, è, viceversa, un abile volpone). Però, quel Bernabò... Di lui si narra ch'era un tiranno della peggior spèce: natura nevrastenica e bizzarra, solo il buon Dio può dir quante ne fece, bruciando preti e frati, e amando i cani (n'ebbe a migliaia) assai piú dei cristiani. Ma fu un uomo politico avveduto; fu un italiano, e amava il suo paese, che, intransigente, audace ed evoluto, contro i papi ed i re sempre difese. Un po' superbo sí, ve lo consento: si fece far da vivo il monumento... Il fiero Bernabò, sempre occupato tra nuove guerre, triboli e scompigli, ebbe anche il tempo (dove l'ha trovato?...) di far venire al mondo trenta figli: fra questi, Caterina, che al nipote diede in isposa con cospicua dote. Questi, apprendendo che lo zio regala ai cinque figli maschi - a quelli, ossia, avuti da Regina della Scala - tutte le terre della Signoria, tira fuori gli artigli, per lo avanti nascosti con prudenza a tutti quanti. Decide, un giorno, in pio pellegrinaggio d'andare al Sacro Monte di Varese, cosí scrive allo zio: vuol fargli omaggio... gli vada incontro a Porta Ticinese. Lo zio ci va, soletto e disarmato, in groppa ad una mula: è imprigionato. Gian Galeazzo, con malvage accuse, prima contro di lui montò un processo; nel castello di Trezzo, ove lo chiuse, poi lo fece ammazzar quell'anno stesso. Va detto, tuttavia, ch'ebbe ogni cura nel dargli una superba sepoltura... Milano esulta: la promessa ha avuto di pagar meno tasse. E ci ha creduto... XLII Il Ducato sotto i due ultimi Visconti Spartì lo Stato fra Giovan Maria Filippo Maria, ragazzi ancora, presto la potente Signoria, malgovernata, se ne andò in malora. E la madre, assistita da un Consiglio, che custodisce e l'uno e l'altro figlio. Col primo d'essi, uscito di custodia, un piccolo Nerone entra in iscena: contro la madre, ch'egli teme ed odia, ordisce una congiura e l'avvelena; la sua vita è tutta, a conti fatti, una storia d'inutili misfatti. Finché, un giorno, l'ingrato ed infingardo duca, che l'odio pubblico s'attira, mentre si reca a messa a San Gottardo, è assassinato; il popolo respira, ma il ducato, in dieci anni d'anarchia, s'è ridotto a Milano ed a Pavia. Fu Filippo Maria, l'altro fratello, il successore: questi ha dimostrato d'aver del padre l'animo e il cervello, ricostruendo il labile ducato. Delitti, anch'egli ne commise tanti, ma non è, quella, un'epoca di santi. Anzitutto, sposò la vedovella (ed i quattrini) di Facino Cane, donna che a quarant'anni era ancor bella e aveva in dote un patrimonio immane, con alcune province e l'agguerrito esercito di Cane (il fu marito). E, grazie a quell'esercito, Filippo riconquistò Milano. Sconoscente, alla signora poi preparò il cippo: l'accusò d'una tresca inesistente e il capo le mozzò, ragion per cui ella avrà detto: «Il vero... Cane è lui!» Servendosi del braccio e della mente di Francesco Bussone, il «Carmagnola», un generale onesto ed eccellente che di Facino Can crebbe alla scuola, portando fra i nemici lo sterminio, presto ricuperò tutto il dominio. Ma poi si disgustò col condottiero, la cui fama nel mondo era già altissima: n'era geloso, il duca; e quel guerriero passò al servizio della Serenissima, che coi Visconti, per antichi torti, si trovava da tempo ai ferri corti. Dopo i nuovi successi viscontei, ben conoscendo di Filippo i piani, nel 1426 Firenze s'alleò coi Veneziani: era, in quel tempo, l'unica città che ancor credesse nella libertà. E l'anno successivo, nel bresciano, il Carmagnola, traboccante d'odio, si vendicò del duca di Milano nella grande battaglia di Maclodio: uno dei piú romantici macelli, dove i fratelli uccisero i fratelli. Dopo una breve pace, nuovamente gli avversari ricorrono alla forza; Milano, minacciata, in quel frangente trova il suo nuovo eroe: Francesco Sforza; e il vecchio condottier, ch'egli sbaraglia, perde a Soncino l'ultima battaglia (non solo, ma accusato di congiure, la testa perderà sotto la scure). XLIV La pace di Lodi (1454) Magnificenza della corte sforzesca Nel '50 Francesco entra a Milano, con la Bianca Maria, da Porta Nuova, il popolo l'acclama: un po' di grano un po' di pace chiede; altro non giova a una plebe stremata,ed impotente, che nulla aspetta e piú non crede in niente Consegnano allo Sforza, i reggitori, lo stendardo, le chiavi ed il sigillo della città. Sei giorni di clamori di bisboccia, e il popolo è tranquillo: perché alla libertà piú non si pensi, bastan qui pure, ormai, pane e circensi... Nel 1451 sorge la nuova Lega antisforzesca; ma, a conti fatti, non c'è piú nessuno, dopo la lunga fregola guerresca, che ancora di pestarsi ha desiderio... E c'è un altro pericolo, il piú serio: con la caduta di Costantinopoli, la travolgente marcia mussulmana minaccia da vicino tutti i popoli, compresa la potenza veneziana, che, volendo una pace in tutti i modi, s'accorda con lo Sforza in quel di Lodi. E, dopo innumerevoli convegni, è stipulato un patto, intorno al quale si stringon le repubbliche ed i regni disseminati in tutto lo Stivale, Roma compresa; fu, la mezzaluna, almeno per Francesco, una fortuna. Sta di fatto, però, che molta gente vanta diritti sulla signoria; vi aspira la Francia, specialmente, divenuta una grande monarchia, forte, ricca, unitaria, il cui sovrano pretende, oltre che Napoli, Milano. Gian Galeazzo, in anni ormai remoti, aveva dato in moglie a un Valois sua figlia Valentina, ed i nipoti rivendicano a sé l'eredità; senza dir di parenti d'ogni sorta, che aspettan di dividersi la torta. Già bellicoso, prepotente, audace, l'antico condottier muta registro: aspira adesso all'ordine e alla pace, con la Francia, grazie a un suo ministro, il calabrese Cicco Simonetta, un'alleanza a stringere s'affretta. E la pace che regna, o bene o male, in pace può votarsi il buon Francesco ad abbellir la propria capitale, pur se molti lo guardano in cagnesco. Milano a quel magnifico signore deve il Castello e l'Ospedal Maggiore. E con la rocca estense di Ferrara, con la casa dei Medici a Firenze ed altre corti il suo Castello in gara accoglie le piú belle intelligenze: poich'egli aveva, semi-analfabeta, l'anima d'un guerriero e d'un poeta. Finché, nell'anno millequattrocento- sessantasei, Francesco venne a morte: lasciò di figli un vero reggimento, non tutti nati dalla pia consorte Bianca Maria Visconti, con la quale fu molto piú modesto e piú frugale; ma alcuni maschi, tipici campioni, glieli diede anche lei: pochi ma buoni... XLVI La Signoria di Lodovico il Moro (1480-1508) Leonardo da Vinci Dell'indignato popolo a dispetto, nell'anno 1480, assunta la tutela del «duchetto», padrone ormai di fatto, il Moro vanta la signoria piú solida e piú forte di tutta Italia e la piú ricca corte. È un uomo astuto, colto e raffinato, è il gran signore del Rinascimento: come suo padre, accoglie nel ducato artisti e letterati di talento; fa sfoggio d'una pompa favolosa, sí che dir «Sforza» o «sfarzo» è l'ugual cosa. Ininterrottamente si svolgevano nel fastoso castello di Milano (d'autunno nel castello di Vigevano) splendide feste di sapor pagano, che organizzava, eclettico e fecondo, un genio fra i piú celebri del mondo. «Son pittore, architetto, artificiere, esperto in ogni idraulico lavoro, ed in tempo di guerra anche ingegnere»: era Leonardo che scriveva al Moro, nel 1482, elencando cosí le virtú sue. E presto in quella corte ebbe un ufficio: suonatore di lira... Era ammirato, comunque, pei suoi fuochi d'artificio piú assai che come artefice e scienziato. Ma Lodovico, un uomo intelligente, comprese ch'era un genio veramente. Molte altre cose, invece, non comprese: fra queste, una politica italiana; e alla rovina condannò il Paese, quando, per soddisfar la smania insana che aveva per gl'intrighi, ond'era schiavo, fece venir fra noi re Carlo ottavo. Aveva dato al giovane nipote (il vero titolare del ducato, pur se costui, rimasto a mani vuote, se ne stava tranquillo e rassegnato) in isposa Isabella d'Aragona, che molto ambiva alla ducal corona. Ed era stato celebrato il rito con la piú strabiliante delle feste. Dopo, anche il Moro diventò marito, sposando la gentil Beatrice d'Este... Furon quelle due donne a dare il «via» alla tua perdizione, Italia mia! ... Donna Isabella scrive al re di Napoli, suo nonno, piena d'ira e di dispetto (quando il Moro e il nipote erano scapoli, l'accordo fra i due Stati era perfetto); scrive Isabella, sempre piú infelice, che la duchessa è lei, non la Beatrice. Ed ecco che ad accrescere il pasticcio, smentendo qualche chiacchiera salace, Gian Galeazzo, debole e infermiccio, ha un figlio maschio e assai se ne compiace; ma nasce, al tempo stesso, un figlio al Moro: l'erede, adesso, chi sarà di loro?... Non vi dovrà pensar Gian Galeazzo, che presto morirà nel suo castello coi suoi pallidi sogni di ragazzo senza salute, «immacolato agnello»; ma ci pensa Isabella, e scrive al nonno, e smania e non riesce a prender sonno: tanto piú che Beatrice osa sfoggiare superbe gemme, delle sue piú rare... XLVIII Fine di Lodovico il Moro (1508) Massimiliano Sforza Uomo di pochi scrupoli, Luigi, anticipando il primo Buonaparte, per arricchir la corte di Parigi fece man bassa sui tesori d'arte - libri, quadri, ceramiche, gioielli, - spogliandone le chiese ed i castelli. Dopo, con molto tatto e molto fiuto, cercò d'accattivarsi i Milanesi; li alleggerí di questo o quel tributo, creò un Senato dai poteri estesi disse ai cittadini sottomessi: «Potete amministrarvi da voi stessi». Ma lo straniero è sempre uno straniero; poi questi Francesi, in fede mia, han sempre un che di tronfio, un che d'altiero, dietro lo schermo della cortesia; i Milanesi, stufi anche di loro, pensan che quasi quasi è meglio il Moro. E il Moro, con gli Svizzeri e i Tedeschi, riconquistò le terre del ducato: per breve tempo: con rinforzi freschi tornarono i Francesi, e il disgraziato, presso Novara (fin da allor fatale), fece una fine quanto mai banale. Il cardinale Ascanio, suo fratello, con diecimila fanti ed...un cannone, è a Milano che assedia nel Castello i pochi avanzi della guarnigione: potrebbe il Moro ancor dargli manforte, se avesse cuore di sfidar la morte... Ma quel cuore non l'ha (babbo Francesco aveva, indubbiamente, un'altra stoffa): travestito da armigero tedesco, tenta la fuga...Ha un'aria alquanto goffa (che soldato è costui, con quella pancia?...) e, impacchettato, è poi spedito in Francia. Morí, nel millecinquecento ed otto, nel castello di Loches in prigionia, sognando ancora un ultimo complotto, sicuro della sua diplomazia, convinto, con la fede piú granitica, d'essere stato un dio della politica... Piú fortunato, Ascanio il cardinale (il re di Francia si lasciò commuovere) ottiene di tornar nello Stivale e giunge a Roma, dove il Della Rovere - Giulio II -, papa antifrancese, vuol « liberar dai barbari » il Paese. Dopo varie vicende ed aspre guerre, vinti i Francesi, il buon Massimiliano, figlio del Moro, ottiene le sue terre, entrando con gli Svizzeri a Milano (perché allora, degli altri piú frenetici, facevano la guerra anche gli Elvetici). Passan tre anni, e re Francesco primo scende in persona sui lombardi piani, non rinunciando a quel Ducato opimo; e a Melegnano, insieme ai Veneziani, in una memorabile battaglia lo Sforza ed i suoi Svizzeri sbaraglia. Comandava l'esercito francese un capitano dalle gesta ardite: Gian Giacomo Trivulzio, milanese, maresciallo di Francia...Vi stupite? Nemico degli Sforza, a cuor leggero si vendicò, passando allo straniero: l'amor di patria è un pallido ricordo, a cui l'orecchio, e peggio il cuore, è sordo.. L La dominazione spagnuola (1536-1706) E Milano è spagnuola. Carlo quinto, con il Del Vasto, suo governatore, lentamente vi soffoca ogni istinto di libertà, d'orgoglio e di valore: la scaduta città, pur d'aver pace, non si ribella piú, ma paga e tace. L'imperatore, poi, cede il ducato a suo figlio Filippo: e qui comincia, dopo un superbo e fulgido passato, la storia d'una piccola provincia: la città degli Sforza e dei Visconti seppe il piú triste e scialbo dei tramonti. Carlo si rifugiò, non piú sovrano, in un convento dell'Estremadura: poteva ritirarsi anche a Milano, fra quelle vecchie e decadenti mura; la capitale dell'antico Impero sembrava, infatti, un mezzo monastero. Altri imperi sorgevano: sui mari si navigava verso nuove terre, e favolose gesta di corsari anticipavan le future guerre, fra romanzeschi e leggendari eventi. E i Milanesi e gl'Italiani? Assenti. Quella Milano già protagonista della storia italiana ed europea, considerata terra di conquista, vivacchiava cosí, senza un'idea, con la sola idea: «Viva la Spagna, viva la Francia, basta che se magna!» C'era un Senato, che serviva solo ad arricchire i membri e il presidente, ad approvar del Cesare spagnolo i soprusi, le gride e l'apossiente (destinato all'alloggio e alla diaria d'una nostra Ambasciata immaginaria). Imitando i padroni castigliani, gli oziosi e fanatici patrizi profondono il denaro a piene mani cercan solo impieghi redditizi: il commercio, l'industria ed il lavoro son contrari al buon gusto ed al decoro. Infatti, la peggiore delle offese è sentirsi chiamar: «vile meccanico!»... Non c'è giustizia: il piccolo borghese esce di casa in preda a un vero pànico, a meno che non sia raccomandato a un don Rodrigo o ad un Innominato. I servi dei Trivulzio - è risaputo - un giorno, uscendo dalla santa messa, fanno la pelle a un tale che ha battuto il cagnolino della principessa. Assolti, va da sé: quel cattivone meritava davvero una lezione... Le gride si susseguono alle gride: tasse su tasse per pagar le guerre del re di Spagna, guerre fratricide spesso, piú spesso su remote terre. Mancava solamente, a quanto par, una gabella «sobra el respirar». Quell'ansia di ricchezza e di prestigio, ch'era stata virtú dei Milanesi, è dileguata in un ambiente grigio, dove si trovan, sí, potenti cresi, ma che han fatto quattrini a profusione sotto l'insegna della corruzione. E Tomaso Marino, genovese, che s'arricchí col reddito del sale, in Piazza Scala, non badando a spese, costruí quel palazzo colossale, in cui profuse autentiche fortune, che sarà poi la sede del Comune. (Le tasse, che da lí son decretate, forse sono perciò cosí salate...) LII La grande peste (1630) Federico Borromeo Cugino di San Carlo, Federico - che piú tardi occupò la nostra sede - gli rassomiglia: indomito nemico d'ogni soperchieria: la stessa fede, gli stessi scatti umani e generosi. E il cardinale de «I Promessi Sposi». A Milano donò l'ancor fiorente Biblioteca Ambrosiana: la cultura in lui trovò un apostolo fervente; la carità trovò la sua piú pura fonte, all'amore e all'umiltà commista, in quel cuore d'asceta e d'umanista. E quando un'altra e ben piú atroce peste, come un'ira di Dio, stroncò Milano, in lui - nell'ore tragiche e funeste di quella lunga notte - il gregge umano, nella città prostrata dall'orrore, trova un pietoso e intrepido pastore. Fu nel 1629, per la guerra di Mantova, che il male, già propagato in Allemagna e altrove, portato dall'esercito imperiale, fece il suo nuovo ingresso in Lombardia, che già soffriva per la carestia. Prima, la fame: l'anno precedente, com'è ben noto, il dí di San Martino, nel centro di Milano - esattamente, nella Corsia dei Servi - il popolino, dopo una serie di mancati pranzi, ha saccheggiato il Forno degli Scanzi. Ora, la peste: dopo il primo assaggio, si scatenò nell'anno successivo. E invano: «Non è un morbo di passaggio, badate, è contagioso ed infettivo» spiegavano il Settala ed il Tadino all'allegro Senato cittadino. Profughi, mendicanti, vagabondi, piovuti qui da tutte le contrade, sono ammucchiati sui giacigli immondi del Lazzaretto o nelle stesse strade: il contagio dilaga... E i senatori? ed il governo? Cercano... gli untori! Emissari francesi, o forse agenti veneti, questi ignobili figuri vanno spalmando... d'infernali unguenti tutto, le porte, i catenacci, i muri... Ma a che vi parlerei di queste unzioni? Signori, rileggetevi il Manzoni. La città, dal terrore, è come pazza, popolino, patrizi, autorità... Son giustiziati tal Guglielmo Piazza (il commissario della Sanità!) e Gian Giacomo Mora, un parrucchiere, perché... sorpresi ad ungere un quartiere Poi la casetta del barbiere venne distrutta, e tra la polvere e il pietrame, provvista d'una epigrafe solenne, sorse al suo posto la Colonna infame, per eternar l'obbrobrio degli untori e la sagacia dei governatori... Gian Giacomo, oggi, in quello stesso sito dove un giorno - al Carrobbio - ebbe dimora, ha una sua strada: i posteri han capito (troppo tardi per te, povero Mora!), sia pure in parte e in netta minoranza, che l'infamia peggiore è l'ignoranza... Scampan, di Milanesi, a quell'inferno solo sessantamila cittadini, che aiuti non aspettan dal governo: un governo di ladri e di strozzini; da soli, rimboccandosi le maniche, affrontan le fatiche piú titaniche. E fecero miracoli, da soli, pur appestati ancor dagli Spagnoli... LIV Milano sotto l'Austria Il governo illuminato di Maria Teresa e di Giuseppe II Altra guerra europea per la Polonia, un Paese da noi molto lontano; ma Francia ed Austria, senza parsimonia, estesero la guerra anche a Milano, dov'entrò, coi Francesi, il sardo re, nel 1733. Sperava di restarci e, viceversa, dopo tre anni, in seguito a un accordo, a ritroso il Ticino egli attraversa: lascia fra i Milanesi un buon ricordo, ma via si porta, annesse al proprio Stato, le piú ubertose terre del ducato. Ferdinando von Traun, governatore col ritorno dell'Austria in Lombardia, punisce con il massimo rigore chi parve difettar d'austrofilia durante l'interregno del Savoia, ed un conte Biancani affida al boia. Un'altra guerra, un'altra successione: quella dell'Austria, per Maria Teresa che, grazie alla «prammatica sanzione», non da tutti accettata, al trono è ascesa: son sette anni di guai, che a tutto spiano delizian, come sempre, anche Milano. Nel 1748, quando... scoppiò la pace d'Aquisgrana, a un relitto il ducato era ridotto: su quel relitto l'ottima sovrana la pratica tentò delle riforme, che per quei tempi fu una cosa enorme. Quasi materna, piena di fervore: «Collaboriamo» disse ai Milanesi, e questi si prestarono di cuore; i risultati furono inattesi: conobbe la città, sotto gli Austriaci, cinquant'anni fecondi ed idilliaci. E Giuseppe secondo, «correggente» dapprima con la madre imperatrice, poi solo, illuminato e intelligente, con pugno fermo e spirito felice, appoggia le riforme della mamma e, morta lei, ne amplifica il programma. Agricoltura e industrie rinsanguate, benefici ecclesiastici aboliti, tasse ridotte o ridimensionate, sciolta la Compagnia dei Gesuiti. Pio sesto, impressionato, corre a Vienna, ma Giuseppe non cede e non tentenna. Solo color che attentano allo Stato han la pena di morte, mentre viene soppressa la tortura: il suo trattato famoso «Dei delitti e delle pene», dal contenuto logico ed umano, Cesare Beccaria non scrisse invano. Sommo disprezzo verso gl'ignoranti, le scuole aperte a tutti i cittadini (e che scuole, signori, e che insegnanti! la poesia trionfa: il buon Parini fustiga con la satira severa la gioventú bruciata di quell'èra. Nel 1778 s'inaugura la Scala, il nuovo altare sacro ad Euterpe, mentre il suo ridotto è il gran centro mondano. E a vigilare su tanta pace e tanta disciplina, s'innalza verso il ciel la Madonnina... Ma l'austriaco -s'intende - è sempre austriaco, e Giuseppe, per quanto illuminato, accentrator dispotico e maniaco, sopprime, col Consiglio e col Senato, tutto ciò che a Milano e in Lombardia può ricordar l'antica autonomia. La piú gretta censura imperversando, libri, giornali, stampe parigine sono vietati, ma, di quando in quando, nascostamente varcano il confine, venduti a peso d'oro, e vanno a ruba fra quei signori in redingote e tuba... Finché giunge una nuova che scompiglia tutti: a Parigi cade la Bastiglia. LVI Dalla Repubblica Cisalpina alla Repubblica Italiana (1797-1802) Nell'antico Broletto, già sacrario del vecchio patriziato, ora s'insedia il Municipio «rivoluzionario», che recita convinto la commedia della rivoluzione: e, in man la spada, il piú accanito è il prete Lattuada. La coccarda fatidica all'occhiello le cose piú impensabili consiglia: si vorrebbe distruggere il Castello, come in Francia han distrutto la Bastiglia; si grida «morte ai preti!» a perdifiato... Rivoluzione a scoppio ritardato. Il nove luglio del '97, Milano inaugurò la Cisalpina, e la nuova Repubblica si dette ad imitar la Francia giacobina, benché affidata a cinque Direttori, grassi borghesi o nobili signori. Nella villa Crivelli di Mombello (adesso manicomio provinciale), Napoleone anticipa un modello di corte tra borghese ed imperiale, e riceve l'omaggio cittadino, sognando già lo scettro e l'ermellino. Ma assente lui (partito per l'Egitto), due anni dopo, a Brivio ed a Cassano l'esercito francese era sconfitto e gli Austro-Russi entravano a Milano: il Direttorio, ohimè, levava i tacchi, e Milano applaudiva, ora, i cosacchi! Ma s'illudeva, e li applaudi per poco: i Francesi, al confronto, eran dei santi... Legge marziale, taglie, coprifuoco, massacri, le sconcezze piú aberranti. Il flagello durò tredici mesi: «Sant'Ambrogio, rimandaci i Francesi!...» E nel 1800, in primavera, Napoleone varca il San Bernardo fra nevi eterne, abbatte ogni barriera, arriva come un lampo in suol lombardo, ed il giorno quattordici di giugno vince a Marengo ed ha l'Europa in pugno. Ristabilisce ancor la Cisalpina, dove l'antico motto egli rilancia, ma aggiunge: «religione e disciplina»; adesso è il Primo Console di Francia, non ama i giacobini ed i plebei, non è piú l'uomo del '96. Ed ecco la Repubblica Italiana proclamata al Congresso di Lione, non Cisalpina piú, né Transpadana, e la presiederà Napoleone, sangue lui pure della nostra gente: Melzi d'Eríl n'è il vicepresidente. Chi può dir l'entusiasmo ed il delirio degl'Italiani in seno all'assemblea? Dopo secoli d'onta e di martirio, nasce la patria, la sublime idea carezzata da Dante e da Petrarca, pur se un mezzo straniero è il suo monarca Entra a Milano, nuova capitale della nuova Repubblica, Murat sul suo cavallo; un po' meno marziale, Melzi lo segue. Tutta la città, traboccante di gioia e d'emozione, sorride alla dolcissima illusione: per secoli divisi e sottomessi, gl'Italiani ritrovano se stessi. LVIII Milano romantica I cospiratori Restaron, dell'età del Bonaparte, la facciata del Duomo, il Foro, l'Arco della Pace, pregiate opere d'arte, la strada del Sempion, l'Arena, il Parco; restò la poesia di Carlo Porta, ed un'idea restò, ciò che piú importa: l'idea di patria, ancora un po' indistinta forse, ma viva. E l'Austria inutilmente vuol ricreare nella città vinta l'antico clima con l'antica gente: la soddisfatta, docile, distesa, brava Milano di Maria Teresa. Milano è un'altra, è un centro di pensiero, scossa da un nuovo fremito di vita, è stanca ormai del giogo forestiero, stanca d'esser dagli altri custodita: c'è un desiderio di menar le mani, comune a tutti, e ricchi e popolani. C'è una gioventú nuova, insoddisfatta, bruciata dalla neve della steppa, disposta a tutto, basta che si batta; ed a Milano imperversò la Teppa: liti, legnate, inutili complotti, pur di dare fastidio ai poliziotti. E se la nobiltà conservatrice va in Duomo, pel ritorno del padrone, a cantare il Te Deum, ed è felice d'aver la sua paterna protezione, e se le vie ripullulan di frati, lavorano, nell'ombra, i congiurati. Fra i nobili, c'è pure un Federico Confalonieri, e i Porro, e i Verri, e i Bossi, che nel tedesco vedono il nemico e, da sogni di gloria ancor sommossi, van congiurando contro il dispotismo con il fervore del romanticismo. Sono arrestati i primi carbonari: Pallavicino, Pellico... Una schiera di personaggi illustri e familiari conoscono la forca, la galera, l'esilio (per maggiori informazioni, v'invito a consultar «Le mie prigioni»). Ed il calvario del Confalonieri? Trascorse quindici anni in prigionia, fra gli atroci aguzzini e gli sparvieri del carcere moravo. E tuttavia, forse, ad incuter piú paura a Vienna son gli eroi del pensiero e della penna: Manzoni, Grossi, Torti, Romagnosi, Berchet, Cattaneo... Esaltan gl'Italiani «Marco Visconti» ed «I Promessi Sposi», e i sogni dell'Italia di domani, mentre nelle fredde aule di Pavia è la scienza ufficiale in agonia. La «Rivista Europea», sorta da poco con Carlo Tenca e Cesare Cantú, dà esca apertamente al sacro fuoco, è la diana della gioventú. E già, tra un mondo raffinato e dotto, la contessa Maffei tiene salotto... Ferdinando d'Asburgo, imperatore, viene a Milano a farsi incoronare; non vi trova però molto calore, sia pur tra le parate e le fanfare: trentatré anni or sono, era diverso, ed il ricordo ancor non s'è disperso. Signori, è perché adesso sul Sagrato manca qualcosa: il tricolore è assente!... Francesco primo s'era già vantato di far cader Milano lentamente: constateranno gli ultimi suoi eredi che Milano è pur viva e sempre in piedi; constateranno (e li abbia il Cielo in gloria) che non la forca può fermar la Storia. LX Il ritorno degli Austriaci e il decennio della Reazione Francesco Giuseppe Il giorno dopo, arriva Carlo Alberto in assetto di guerra. Ha fatto tardi, sempre indeciso, eternamente incerto, giungendo in mezzo a noi quando i Lombardi si son già liberati e al piemontese sembrano quasi dir: «Va' al tuo paese!...» Fra i membri del Governo Provvisorio, intanto, e fra gli stessi cittadini, è cominciato il gran contraddittorio, perché chi vuole il re, chi vuol Mazzini, tutti animati dall'idea sballata che l'Austria ormai sia bella e liquidata. Dopo adeguate chiacchiere, il Governo statuisce una Guardia Nazionale per aiutar con animo fraterno l'esercito del re: quel re spettrale, grigio, che ha fede solo - poco scaltro - nei propri generali e in nessun altro. Ma a Milano lo spirito è ormai spento delle cinque fatidiche giornate. La «primavera del Risorgimento» avrà una triste e ingloriosa estate: ligi alle loro idee senza costrutto, quei generali han rovinato tutto. Temono questa folla battagliera, vogliono far da sé: popolo, a casa!... E dopo il breve guizzo di Peschiera, ecco la Lombardia di nuovo invasa, ecco Custoza, il venticinque luglio, la ritirata, il pànico, il subbuglio... Milano vuol difendere i bastioni, ma i generali chiedono la resa. Sotto palazzo Greppi, in via Manzoni, dove s'è chiuso il re, la folla accesa, pronta a morire sulle barricate, urla, tirando alcune schioppettate. È il cinque agosto: il tragico schiamazzo verso sera si placa. Clandestino, scesa la notte, il re lascia il palazzo e con suoi fidi parte per Torino. Radetzky, l'indomani, a mezzogiorno preciso, puntualmente è di ritorno. I Milanesi, in centoventi mila, fuggon dalla città lungo il Sempione... E cominciò l'orribile trafila di dieci anni di forca e di bastone nella vinta città martorizzata, dove infieriva la canea croata. Corda e bastone. L'Austria era decisa a far dimenticare il Quarantotto e a rinverdire una corona intrisa di lacrime e di sangue, a un aquilotto dai promettenti artigli destinando il trono del mellifluo Ferdinando. Il nuovo e giovanissimo tiranno è Francesco Giuseppe, il nipotino: ha fede nella forca, e lo sapranno le fosse del Castello... Ma il destino, nell'ombra, già matura: è un Tessitore, che tesse la sua tela tricolore. «Tiremm innanz», in quella dura attesa dirà Milano con Antonio Sciesa. LXII Le tempeste del dopo (dal 1860 al 1900) Ed ecco la Milano del '60, risorta a nuova vita, intraprendente, piena di slancio; una città che vanta già fin da allora un traffico imponente che frastuono, con le loro rozze, gli omnibus a cavallo e le carrozze! Duecentotrentamila cittadini, eternamente presi dalla fretta: re Vittorio, a dirigerne i destini, ha nominato sindaco il Beretta, la prima delle cui disposizioni è un corpo di cinquanta «cappelloni». Contrariamente ai soliti gendarmi alla sbirraglia armata di moschetto, solo cinquanta vigili senz'armi, armati al piú d'un semplice libretto: una mazza simbolica e un'enorme tuba caratterizzan l'uniforme. Esperimento insolito: risulta che per tenere i Milanesi a bada vale piú la minaccia d'una multa che un cannone piazzato sulla strada; ed anche per virtú di quel libretto regna a Milano un ordine perfetto. Da allora la città, sempre in aumento, piú non si stringe intorno al vecchio Duomo (quei cinquanta son or mille e trecento, senza piú mazza dall'argenteo pomo, senza la tuba ed i calzoni blu; le carrozze non si vedon piú). La Milano artigiana si trasforma: nasce la grande industria, ovvero, l'arte di far denaro, e non c'è piú chi dorma, chi non s'affanni; giunge d'ogni parte gente convinta di trovar l'America (e non era un'idea tanto chimerica). Ma l'ordine non dura... L'Italietta cerca una sua politica, fra molte difficoltà: la Storia non aspetta, ed i Cavour non nascono due volte. E poi, fra discorsoni e battimani, l'Italia è fatta, sí, ma gl'Italiani?... Diceva bene Massimo D'Azeglio: «far gl'Italiani»... In tutto lo Stivale, c'è chi borbotta che si stava meglio quando si stava peggio: è naturale; l'Italia fu per secoli divisa la vera unità non s'improvvisa. Intanto, fra le masse milanesi si fa sempre piú strada un'idea nuova, che va mettendo i nervi dei borghesi i nervi del governo a dura prova: da un cielo nuvoloso oltre ogni dire fa capolino il sol dell'avvenire. Ferve la lotta fra le opposte schiere, nutrita da una stampa rigogliosa: con Torelli-Viollier nasce «Il Corriere», con Cavallotti «Il Gazzettino rosa»; sull'«Avanti!» si batton senza sosta Turati, Bissolati ed Andrea Costa. Un finale di secolo drammatico: ci umilia ad Adua il barbaro abissino; il capo del partito democratico, Felice Cavallotti, il paladino dell'Ideale, è ucciso in un duello; il general Pelloux apre macello... È il '98: nuove barricate; tratti in arresto i capi socialisti; le strade di Milano insanguinate; stato d'assedio ed altre cose tristi: fra il vecchio e il nuovo un tragico dissidio... Due anni dopo, a Monza, il regicidio. Ma passa la tempesta, e a gonfie vele naviga un dolce mondo al latte e miele... LXIII La dittatura e la guerra Milano semidistrutta - La ricostruzione Nel novecentosei (Pace e Progresso: s'inaugura il traforo del Sempione), è il «gran Milan» che supera se stesso con una nuova grande Esposizione; è una città che prospera tranquilla si gode la Galli e il Ferravilla. E cosí s'annunziava, il Novecento, un secolo pacifico e fecondo, portato all'agiatezza e al godimento; e, viceversa, vide il finimondo: una bomba scoppiata a Seraievo ci ricacciava in pieno Medioevo. Secolo iniquo, in fatto di tiranni vanta un primato senza precedenti: non narrerò la storia di quegli anni, gli orrori, le rapine, i tradimenti, quel sogno di pace e di benessere affogato nel sangue e nelle tessere... La Milano borghese è impressionata, poi che il Comune il popolo conquista la città si trova amministrata da una Giunta di marca socialista, quando l'Italia viene, a capofitto, travolta anch'essa nel mondial conflitto Gran galantuomo, il sindaco Caldara, pur contrario alla guerra per principio (ed egli a viso aperto lo dichiara), mette se stesso, mette il Municipio tutte le risorse di Milano al servizio del popolo italiano. Non giovò la vittoria del '18: l'Italia dalla prova usci sfiancata. Un dopoguerra torbido e corrotto spianò la strada a una canea sfrenata: fu la sagra dei profittatori sotto il manto imperial dai tre colori. Regna a Milano, divenuta culla del « fascio primigenio », la violenza; la borghesia col fuoco si trastulla, plaudendo all'«uomo della Provvidenza», inizia quel ventennio di baldoria, su cui sorvola questa nostra storia. Nel 1939, i dittatori provocan la guerra, nel '43 scendon le nuove orde tedesche sulla nostra terra, che, con nostrani transfughi in combutta, occupan la città quasi distrutta; quasi distrutta in un fatale agosto da un diluvio di bombe americane: ma i cittadini, tutti al loro posto, pur annientati dal disastro immane, sanno far fronte, ed è con loro il clero, al tiranno di casa e allo straniero. In venti mesi di carneficina, sotto il giogo piú infame e piú violento, rivive una Milano clandestina, degna dei fasti del Risorgimento. E, finalmente, il venticinque aprile, si ritornava al vivere civile. Nella stessa città dov'ebbe inizio - nel '19 - quella dittatura che trascinò l'Italia al precipizio, la spaventosa e ignobile avventura, l'atroce e sanguinoso baccanale si concluse sul tragico Piazzale. Milano, liberatasi dai ceppi, presto rimarginò le sue ferite; ebbe sindaco, prima, Antonio Greppi, un socialista generoso e mite, indi il Ferrari, e, senza la Ghestapo, si rimboccò le maniche e... daccapo! Cosí risorse la città operaia, in un'ansia di vita e di riscossa, come risorse dopo il truce Uraia, come risorse dopo il Barbarossa: tornata piú di prima a rifiorire, marcia serena verso l'avvenire. La guerra è un episodio sciagurato, sepolto negli archivi del passato LXIV Il rinnovamento di Milano La Galleria Vittorio Emanuele Milano a nuovo tutta si rimette, dal vecchio centro alla periferia: è re Vittorio, nel '67, che viene a inaugurar la Galleria, la bella Galleria, di cui Milano fa il suo ritrovo pubblico e mondano; quasi un salotto piccolo-borghese, vestito d'un intonaco di storia: dei quattro passi d'ogni milanese diventerà la mèta obbligatoria, il monumento - stile floreale - piú insigne del passeggio nazionale. È la centrale dell'appuntamento, è la mecca dell'ore piccolissime, l'eco immediata d'ogni avvenimento, la succursale delle recentissime, dove passan la farsa e la tragedia, sedendo spesso ad una stessa sedia. Nell'81, poi, l'Esposizione ottiene un formidabile successo: è un superbo spettacolo, che pone Milano all'avanguardia del progresso e ne fa, tra un magnifico decoro, il tempio dell'industria e del lavoro La Milano romantica è finita: quando, nel maggio del '73, passava il buon Manzoni a miglior vita, portava malinconico con sé, seguito dall'unanime compianto, tutto un passato verso il camposanto. Ma l'arte ha una superba fioritura, in un fervore di rinnovamento (ricorderemo la «Scapigliatura»), e tutti gli scrittori di talento, di cui l'Italia serberà memoria, hanno a Milano il crisma della gloria. Certo, non nasce piú nessun autore che a don Lisander possa star vicino, come mancherà al Porta un successore, al mago del dialetto meneghino, colui che seppe, come per miracolo, dar dignità di lingua anche al vernacolo. Milano di grand'uomini ne ha tanti, e vedi statue a piedi e statue equestri ai suoi dotti, ai suoi prodi ed ai suoi santi (non tutte di grandissimi maestri); però, del Porta, nella sua Milano, il monumento cercheresti invano. Aveva un monumento alquanto frusto, che fu distrutto dai bombardamenti, lui che trovava di cattivo gusto l'odio, la guerra e i metodi violenti, pur se queste eran rose, ai tempi suoi, in paragone a quel che avvenne poi... Era un uomo modesto, il nostro Porta, un semplice impiegato comunale; a un talento, però, di quella sorta un po' di marmo non starebbe male. Non chiedo un monumento in Piazza Duomo, che ricordi il poeta e il galantuomo; ma dico al nostro primo cittadino: «É vero ch'Ella è nato a Pordenone e che, se pur capisce il meneghino, ha poco tempo a sua disposizione per legger la Ninetta del Verzee, o Fraa Diodatt, o Giovanin Bongee, ma non ritiene che sarebbe giusto raffazzonargli almeno un mezzo busto?» LXV La città dei grattacieli La fiera di Milano Non so se fra la gioia od il cordoglio dei vecchi meneghini piú fedeli, Milano sempre piú, piena d'orgoglio, diventa la città dei grattacieli. Ci guadagna l'estetica, o ci perde? Non era meglio, forse, un po' di verde?... I pareri, si sa, sono discordi; troviamo, infatti, il solito ottimista, che si sente commosso nei precordi e che proclama, alla superba vista - di quei giganti sorti dall'asfalto: «E proprio una città che tende all'alto!» C'è invece il pessimista recidivo, dal «mugugno» tenace e intransigente, che in fondo vede un unico motivo pel quale il grattacielo è conveniente, dato che sulla terra, a quanto pare, ormai non c'è piú niente da... grattare. La Madonnina guarda esterrefatta: ormai ci ha fatto l'occhio pure lei, è vero, e tuttavia - per quanto piatta, senza un colle o un'altura, - amici miei, forse amava cosí la sua Milano, ferma al secondo, al terzo, al quarto piano coi suoi vecchi cortili e i suoi balconi dall'aspetto tranquillo e popolare, e le sue grige case sui bastioni, piene di poesia crepuscolare: la Madonnina, ohibò, di questo passo, la guarderemo un dí... dall'alto in basso! Ma, dopo tutto, i nostri Milanesi non hanno torto se si dan qualche aria; a dimostrarne le virtú palesi, basta la loro Fiera campionaria: è il progresso meccanico che stila l'antologia dei sogni del Duemila. Nel 1919, era nata l'idea; ricordo vivo, che i vecchi Milanesi ancor commuove: Porta Venezia, l'anno successivo, vide la Fiera (in forma di pagoda: lo stile che in quel tempo era di moda). In redingote, come allor s'usava, il Sindaco, con dietro gli assessori, andò sul posto, fece la sua brava concione innanzi a mille espositori ed il nastro tagliò, gridando: «Evviva! Bisogna incoraggiar l'iniziativa». Venne, dopo, la guerra, e una gragnuola di bombe la ridusse a un polverio. Gasparotto giurò, col pianto in gola: «Milanesi, fratelli, popol mio, anche se quest'idea può sembrar matta, rifaremo la Fiera». E fu rifatta. Oggi è l'emblema della cornucopia, questa, è la sagra dell'intelligenza, è il «venghino signori» in bella copia e innalzato all'ennesima potenza, è un concerto sinfonico ideale, orchestrato da un Wagner industriale; è la centrale degli affari d'oro, il non plus ultra dei prodotti in serie; è la «pagella tipo» del lavoro, con dieci e lode in tutte le materie. Mamma Italia la guarda e se n'estasia: questa è la Fiera per antonomasia... Ed è un atto di fede, soprattutto: mentre, armato di ferro e di cobalto, il mondo rischia d'essere distrutto da un piú tremendo e tenebroso assalto, fervido e insonne il cuore di Milano spera e confida nel buon senso umano. E qui vi lascio, ripetendo anch'io: Milanesi, fratelli, popol mio! Fine | II La conquista romana La discesa di Annibale (218 a.C.) Continuamente, a Roma i nostri Galli con la guerriglia davano molestia, o rifornivan d' armi e di cavalli i suoi nemici; e Roma andava in bestia, ed aspettava solo l'occasione per ridurre il pollaio in soggezione. Quando fní la prima guerra punica, e tutta la penisola italiana fu in suo potere, disse Roma: «L'unica è impossessarsi della Val Padana e, dando loro una mazzata in testa, far sí che i Galli abbassino la cresta». Gl'Insubri, tuttavia, resisteranno per lungo tempo: il contrastato acquisto dovrà soltanto compiersi nell'anno 222 prima di Cristo, quando Milano, stanca del macello, aprì le porte al console Marcello. Le porte?... Eh no! Da calcoli schematici, quella borgata senza simmetria andava allor da via Filodrammatici fino al Carrobbio e a piazza Beccaria. Roma v'entrò con una sua coorte, senza bisogno di sfondar le porte. Ma Cartagine è lí che guarda e aspetta: sembrava giunta all'ultimo respiro, ed è risorta; e ha sete di vendetta: la guida alla riscossa «Annibal diro», che dalla Spagna conquistata muove, agitando la folgore di Giove. Come tanti altri popoli, da Roma ormai completamente sopraffatti, i Milanesi, a scuotere la soma, sperano solo in quel castigamatti. Oppressi dai Romani prepotenti: «Ha da veni!» ripetono fra i denti. Ed Annibale venne: in fretta e furia, scende da l'Alpi come una valanga, assoggetta il Piemonte e la Liguria, varca il Ticino, e tutto par che infranga: sul suo cammino: in breve è a Mediolano che gli fa festa e gli darà una mano. Roma diverrà poi la «Città Eterna», ma passò allora dei gran brutti istanti. Annibal fra il nebbione intanto sverna, accampandosi lí con gli elefanti; cosa nuova in quel luogo ed in quel clima: quasi del Circo Togni un'anteprima. Finí come finì: per sedici anni Roma terrorizzò, l'eroe tremendo, ma Roma vinse, e dopo lunghi affanni, di nuovo, minacciando o combattendo, assoggettò gl'Italici, compresi - naturalmente - i Galli milanesi. Certo, Milano ci rimase male, ma dové riconoscere: «Che gente (quella di Roma antica, è naturale), disciplinata, seria, intraprendente! Se vinciamo il rancor, piú o meno sordo, con quella gente si può andar d'accordo». Ed un secolo dopo aiutan Mario, i Teutoni a schiacciar presso Vercelli. Hanno mutato usanze e dizionario, parlano ormai latino anche i pivelli, «fundacarius» chiamando il fundaghè e dicendo «danarium» per danè. (Ora il latino non lo sanno piú, neppure usciti dal Liceo «Berchet».)IV Milano cristiana Lotte fra cattolici e ariani Ambrogio vescovo (374) Ora ha l'aspetto d'una roccaforte, Milano, cinta di robuste mura: conta trecento torri e sette porte, che la rendon piú salda e piú sicura. E la bellezza, dai suoi marmi offerta, fa rimaner la gente a bocca aperta. In archi e terme e portici gareggia con lo splendore della Roma antica; il Palazzo dei Cesari troneggia superbo fra il Carrobbio e Porta Cica. E vi sono un ippòdromo e un'Arena, dinanzi a cui San Siro oggi fa pena. Furon anni felici e riposanti, per quanto, prima di lasciar l'impero, Diocleziano di martiri e di santi seminasse la via del cimitero, nella speranza di stroncar quel culto, che sembrava di Roma il male occulto. Torture, iniquità, stragi nefande... Ma nel 313, a Milano, con un editto Costantino il Grande dà il proprio crisma al culto cristiano. Il mondo, tuttavia, credente o eretico, in tutti i tempi è il solito bisbetico. Ecco che un Ario, prete alessandrino, ha forti dubbi sulla Trinità: «Soltanto il Padre è un essere divino, ma non il Figlio», predicando va; ed a Milano e dappertutto manda i suoi seguaci a far la propaganda. I cristiani si scindono in due schiere: nei templi, nelle case, per le strade si pestano fra loro ch'è un piacere, pongon mano ai coltelli ed alle spade; mancan soltanto le mitragliatrici... E i pagani sogghignano felici. È condannata la dottrina d'Ario, ma proseguon le lotte a piè sospinto: morto il vescovo Aussenzio, autoritario, ariano indefettibile e convinto, non sa chi debba eleggere, Milano, se un vescovo cattolico o un ariano. E tumulti, e disordini... È prefetto dell'Alta Italia Ambrogio, un magistrato che in breve tempo il massimo rispetto, grazie alla sua bontà, s'è guadagnato: aborre le ingiustizie e la violenza, ed oltre tutto è un pozzo di sapienza. Milanese? Ma no: nato a Treviri, nella Germania, è qui governatore. Quel giorno, per sentir qual aria spiri, s'affaccia alla Basilica Maggiore, e il popolo, che l'ama e che lo stima, rimane un po' sorpreso a tutta prima. É un uomo di gran cuore e di gran tatto, del quale tutti tessono l'elogio; e all'improvviso il popolo, compatto, vuol dargli il vescovato: «Am-bro-gio! Am-bro-gio!». Lui si schermisce, alquanto imbarazzato: «Ma se non son neppure battezzato!». «Meglio ancora!». Ed Ambrogio: «Ma che idea! Se per la prima volta entro in un duomo!». «Non ce ne importa», insiste l'assemblea: «vogliamo finalmente un galantuomo!». «Sceglietelo fra voi!». «Dove lo peschi? ...». Ma Ambrogio duro, come i suoi Tedeschi. E fa del tutto per mostrarsi indegno, si finge libertino e sanguinario, invita donne equivoche a convegno, mentre accade, di solito, il contrario: c'è chi, per ottenere il cadreghino, si finge, invece, un santo e un cherubino. Ma i Milanesi - è un fatto - hanno un gran fiuto: «Am-bro-gio! Am-bro-gio! ... » e infine egli ha ceduto. VI I pagani tentano la riscossa La risposta d'Ambrogio Ora c'è il guaio dell'imperatrice Giustina: il figlio è ancora adolescente, ed è lei che comanda e che infelice rende Milano e tutto l'Occidente. Saranno brave in casa, ma al governo, le donne, amici miei, sono un inferno! I Goti sono sempre una minaccia, gli usurpatori premono alle porte, e la Giustina pensa a dar la caccia al nostro Ambrogio: Ambrogio è troppo forte, il popolo lo adora, e a lei non garba quel santo con la mitra e con la barba. Fattasi ariana, vuol sostituire il buon pastore con un nuovo Aussenzio; ma Ambrogio non è tipo da subire un sopruso del genere in silenzio, e asserragliato nella cattedrale sfida lo stesso esercito imperiale. Esorta i suoi fedeli a restar calmi e, senza far ricorso alla violenza, a opporre solo le preghiere e i salmi contro le spade della prepotenza. E cantando il Te Deum e il Sursum corda, fece tagliare ai militi la corda... Ora i pagani affermano che sono gli antichi dei, traditi e spossessati dei loro templi, a minacciare il trono, Roma, l'impero e gl'itali penati: «È la vendetta dell'irato Giove a sottoporci a cosí dure prove!». È Simmaco, prefetto e senatore, che si esprime cosí, da Roma eretica spedendo al nuovo augusto imperatore una missiva fervida e patetica, in cui, nel nome dell'antica gloria, reclama il culto della dea Vittoria. «È l'Urbe sacra», quasi in un singulto il nostalgico esclama, «o sommo duce, è Roma che ti parla: è questo il culto che impose la sua legge e la sua luce, che scacciò i Galli e Annibale respinse, che a sé l'Italia e tutto il mondo avvinse». «Cose da pazzi!» a lui risponde Ambrogio. «Dunque, tenendo Cristo in vilipendio, voi degli antichi iddii fate l'elogio, di quelli che fra un'orgia ed un incendio, o fra uno stupro ed un'esecuzione, adoraron Caligola e Nerone». «Non si vincon le guerre», egli dichiara, «sacrificando pecore agli dei, o sgozzando bovini innanzi all'ara sacra alla dea Vittoria o a chi per lei. Dite piuttosto, e in ciò non vi contrario, che non si trovan piú Camillo e Mario; che i vostri antichi consoli son morti da lunga data, e i loro discendenti hanno voluto rialzar le sorti di Roma massacrando gl'innocenti; che il padrone di casa, quello vero, batte alle porte del consunto impero: ed il padrone è il popolo, che atroce la fame morde e sogna un focolare. Esso ha trovato un simbolo, una Croce, che lo esorta a sperare, a perdonare e ad aborrir la spada ed il coltello: in ginocchio, signori! E giú il cappello!» (Ed il popolo ha ancor quella speranza, a mille e seicent'anni di distanza.) VIII La strage di Tessalonica (390) L'imperatore umiliato Si stabili fra Ambrogio e il gran Teodosio una feconda e nobile amicizia. Celebrarono insieme, in un simposio, un'aurora di pace e di giustizia: cin cin!... Milano è in festa e con fervore batte le mani al sommo imperatore. Teodosio, tuttavia, benché credente, non solo, ma cattolico esemplare, lungi dall'esser mite, è un prepotente e sta lì, con tanti altri, a dimostrare che non basta il battesimo soltanto a far d'un uomo un angelo od un santo. Soffriva anch'egli di ferocia cronica, né rifuggi dal sangue e dal delitto. Era a Milano, quando a Tessalonica il popolino, a causa d'un editto, insorse e al grido di «governo ladro!» un'intera città mise a soqquadro. Fu una grave rivolta: il disgraziato governatore ci lasciò la pelle. Arse d'ira Teodosio ed indignato volle punire la città ribelle. Ambrogio lo esortò: «Càlmati e aspetta! Pessima consigliera è la vendetta». Ma il sire, per sottrarsi all'influenza del buon pastore, andò fuori Milano ed una inesorabile sentenza, senza esitar, vergò di propria mano. «Ambrogio mi dia pure del tiranno, quei levantini me la pagheranno!...» Quindicimila inermi cittadini vennero uccisi a scopo rappresaglia, con selvaggio furor: donne, bambini, vecchi, sgozzati dalla soldataglia. Il mondo inorridito, esterrefatto, apprese la notizia del misfatto. L'imperatore, dopo qualche giorno, rïentra col suo seguito a Milano; si direbbe, però, che spiri intorno aria di fronda: il popolo cristiano lo condanna in silenzio, egli lo avverte: le strade, al suo passaggio, eran deserte. Con tutto ciò, Teodosio, un bel mattino, si reca alla Basilica Maggiore. C'è, sulla porta, Ambrogio: «Un assassino non entra nella casa del Signore, o aggiunge al suo delitto il sacrilegio», cosí gli dice in atto di dispregio. Torna a palazzo il principe restio e da Ambrogio sollecita il perdono. «Non a me devi chiederlo, ma a Dio: scender tu devi dall'aurato trono e al cospetto del popolo, piangendo, dirti pentito del misfatto orrendo». Cosí, quel capo avvezzo alla corona si piegò a terra, ed il purpureo manto, che avviluppava la regal persona, s'insudiciò di polvere e di pianto. Solo allora Teodosio entrò nel tempio: fu veramente un memorando esempio. Non vi son santi che d'un tal miracolo siano capaci piú, divino Ambrogio. I nuovi «grandi», senza alcun ostacolo, stan preparando al mondo il necrologio (e se il grande ai tuoi tempi era uno solo, son oggi in quattro a sostener quel ruolo): oh Sant'Ambrogio, vedi se ancor puoi farti un piccolo salto in mezzo a noi!... X La discesa degli Unni (468) Attila entra a Milano L'Impero è da Teodosio, fatalmente, diviso fra i due figli: al figlio Onorio, ch'è il piú scemo dei due, dell'Occidente spetta il bacato scettro imperatorio; e lui stesso ne affretta la rovina, munito d'un cervello di gallina. Nel 402, quando Alarico supera l'Alpi e scende su Milano, a ricacciare il barbaro nemico è Stilicone: il futile sovrano, Onorio, che il pericolo dissenna, fa le valige e parte per Ravenna. La sorellina sua, Galla Placidia, istiga Onorio sconsigliato e imbelle, che, spinto dal sospetto e dall'invidia, a Stilicone farà poi la pelle: cosí scompare l'ultimo... pompiere, mentre la casa è ormai tutto un braciere. Alla riscossa il barbaro s'accinge, non contrastato piú: l'Impero è in coma. E re Alarico, al grido «Dio mi spinge», nel 410, occupa Roma e sottopone a un sacco furibondo quella città che ha saccheggiato il mondo. Mentre l'atroce barbaro flagella l'Urbe, che fu dei Cesari dimora, Milano è salva: la sua buona stella l'ha preservata. E la preserva ancora quando - e Romani e barbari disfatti - scende in Italia il gran castigamatti. Attila, re degli Unni, è il nuovo lupo che Dio scatena sull'umano gregge. Gl'imperatori, in un silenzio cupo, tremano imbelli nelle loro regge, e l'indifeso popolo, compunto, si rifugia nei templi: Attila è giunto! Ha un brutto muso e, come i suoi guerrieri, se lo deturpa per sembrar piú brutto; i paesi trasforma in cimiteri, tutto distrugge e, dopo aver distrutto, si vanta, innanzi all'opera superba, ch'ove lui passa piú non cresce l'erba. Furenti orde di bruti al suo comando, orrendi mostri dalle steppe scesi, sono arrivati qui, tutto spazzando col ferro e con il fuoco. I Milanesi girano in processione per le vie, recitando preghiere e litanie. Eusebio, il santo vescovo, li sprona, ché in Dio ripone le speranze tutte. Giungon torme di profughi: Verona, Vicenza, Brescia, Bergamo distrutte, come un apocalittico uragano, il «flagello di Dio» piomba a Milano. I Milanesi, intanto, son fuggiti: come altrove, anche qui libero ingresso... Ma che bella città! Gli Unni stupiti guardan templi e palazzi; Attila stesso (e ben sappiamo ormai chi sia costui): «E proprio un gran Milan!» dice anche lui. Egli s'insedia nell'ambita reggia, di cui nulla di simile ha mai visto; da un capo all'altro la città saccheggia, brucia le chiese e i simboli di Cristo, spoglia i palazzi dei fastosi arredi... Milano, tuttavia, rimane in piedi. Colmo d'oro, di gloria e di corone, Attila poi ritorna in Ungheria, grazie al sommo pontefice Leone, da Roma accorso con la croce pia; e, dopo tutto, il barbaro feroce si piegò solo innanzi a quella croce. I Milanesi gridano al miracolo, ringrazian Dio con un Te Deum solenne e accendon ceri in ogni tabernacolo, poi che Milano trovan quasi indenne: preghiere e litanie l'hanno salvata... Ma la cosa è soltanto rimandata. (Preghiere e litanie quanto volete, ma il miracolo, ohimè, non si ripete!) XII La dominazione gotica Milano rasa al suolo (539) Era un brutto dominio, peggiorato dopo che i Goti, con sistema antico, sugli scudi innalzarono un soldato, analfabeta come Teodorico (firmava con il segno della croce), ma di lui piú cafone e piú feroce: re Vitige. Il suo giogo era opprimente, rese la vita simile a un calvario. Giustiniano, imperator d'Oriente, manda allora in Italia Belisario, il quale, colti i Goti alla sprovvista, marcia su Roma e in breve la conquista. Milano, illusa, ordisce una congiura: Dazio da Agliate, il vescovo, va a Roma, incontra il generale e gli assicura: «Se aiuti il Nord a scuotere la soma, anche con poche truppe, i Milanesi sono già pronti a sollevarsi». «Intesi!» Belisario mandò mille soldati. I Milanesi dissero: «Si spreca il bizantino!», alquanto amareggiati (non si smentisce l'avarizia greca). Ma il vescovo, sicuro del successo, a sollevarsi li spronò lo stesso. Nipote del terribile Vitige, che minaccia in furor fulmini e tuoni, verso Milano Uraia si dirige coi Goti e gli alleati Borgognoni, gente, piú o meno, della stessa risma. E lí succede un vero cataclisma. Da troppo tempo ignari di battaglie, saliti sulle mura, i Milanesi, quasi senz'armi e senza vettovaglie, all'assedio resistono sei mesi; e Belisario, intanto, non si muove. È l'anno 539. Solo per fame la città s'è arresa. I Greci si salvarono; anche Dazio, l'ispiratore della folle impresa, se la squagliò, scampando a quello strazio, e poté raccontar l'orrenda storia (fu fatto santo, e il Cielo l'abbia in gloria). Chi pagò fu Milano. Il maledetto Uraia esegui gli ordini a puntino, poiché Vitige re gli aveva detto: «Se lasci in vita un solo cittadino, se una pietra soltanto in piedi resta, peggio per te: ti taglierò la testa!» Fu il piú terrificante dei massacri: la furia si scagliò contro gl'inermi: sgozzati i preti sugli altari sacri e sterminati validi ed infermi, vecchi e fanciulli, poi, casa per casa, fece della città tabula rasa. Indi, l'ultimo oltraggio: in ginocchioni, le belle e fiere donne milanesi furon date in regalo ai Borgognoni e tratte schiave in barbari paesi, dannate nelle valli di Savoia alla vergogna, al freddo ed alla noia. Addio, bellezze e glorie di Milano, sotto un mucchio di cenere sepolte! E tuttavia risorgerà, pian piano: l'era accaduto già diverse volte. E ancora le accadrà lungo il cammino, ché risorgere sempre è il suo destino e, nel secolo sesto o nel ventesimo, il mondo è su per giú sempre il medesimo. XIV La dominazione longobarda (569-774) Eran guerrieri dai selvaggi istinti: appendevano ai crini dei cavalli le mozze teste dei nemici vinti, a somiglianza degli antichi Galli. Li conduceva il celebre Alboino: certo, un gran re, ma che caratterino!... Costui, feroce d'animo e di viso, a famose tragedie offri lo spunto, poiché sposò la figlia d'un re ucciso, colmò di vino il cranio del defunto e lo porse alla moglie (era un'oriunda scandinava anche lei): «Bevi, Rosmunda! Immaginate i nostri Milanesi, gente perbene, affabile, educata, ad aver a che far con quegli arnesi e a subirne le leggi e la parlata! Fortuna che, trovandovi poche acque, a quei signori la città non piacque: neppure un fiume, un lago!... E re Alboino, storcendo il muso, non vi si fermò: le preferí Pavia col suo Ticino e, non lontano, un altro fiume, il Po, scegliendola per propria capitale. Alboino, però, finirà male. Rosmunda, che all'invito del consorte bevve in quel teschio come in una tazza, giurò vendetta, e un giorno nella corte, per mano d'un armigero, lo ammazza. Poi sposa l'uccisore e lo avvelena, ma muore insieme a lui: tutta una scena... Tutta una storia: storia di delitti, di vendette, di scandali, di guerre: morte e catene ai popoli sconfitti, a cui tolgon, quei barbari, le terre. Ridotto a un colabrodo il Bel Paese, diventeran civili a nostre spese. Finché, sul trono insanguinato, Autari - il puro, il forte, il bello - arbitro siede: rispetta i vinti, innanzi ai loro altari s'inchina e abbraccia poi la loro fede; fa di tutta l'Italia un regno unito, che in trentasei ducati è ripartito. Milano è appunto sede d'un ducato: prendon dimora i duchi longobardi in un austero ed ampio fabbricato, chiamato «Curtis ducis», che piú tardi, corrompendosi il suono a mano a mano, sarà «Cordusio», al centro di Milano. Ma questa è sempre la città simbolica e moralmente è ancor la capitale: è là ch'Autari sposa una cattolica, bella, gentile e un po' sentimentale; ed è con gioia che Milano brinda ai nuovi sposi: Autari e Teodolinda. Poco, però, giovò la conversione dei Longobardi: Roma è loro ostile, ed è ostile a Milano, che a ragione rimane la metropoli civile: non ha importanza che il Governo stia a Ravenna, a Verona od a Pavia. I Longobardi accusano il pontefice: È un intrigante!»; il papa, di rimando: «Levi le tende il barbaro carnefice!»; e mentre il re vuol Roma al suo comando, Roma vuol tutto nelle proprie mani: ci van di mezzo i poveri Italiani... (Roma vuol tutto, eh già! Come vedete, signori miei, la storia si ripete.) XVI Carlo Magno a Milano (778) Anche re Carlo, presto imperatore, non sembra un tipo assai raccomandabile: a parer mio, più fegato che cuore (ebbe nove consorti in pianta stabile e in maniera piuttosto disinvolta le piantò quasi tutte, una alla volta). Ma, soprattutto, agì senza criterio ripudiando l'ottima Ermengarda, figlia del poi sconfitto Desiderio, ultimo re di stirpe longobarda (sulla tragedia scritta dal Manzoni piansero almeno tre generazioni). È vero che re Carlo non divise le terre conquistate fra i suoi prodi, ma le città d'Italia sottomise da vincitore e ad angeli custodi vi stabilì, voraci ed insolenti, i conti franchi, armati fino ai denti. I duchi longobardi, a... conti fatti, furon degli angioletti, in paragone: re Carlo, nonostante i suoi misfatti, fu detto Magno, a torto od a ragione, ma quei suoi conti... magna che ti magna, in Italia trovaron la cuccagna. E chi aveva sperato, a cuor leggero, in un'Italia libera dal giogo, dovette constatar che lo straniero, qual ch'egli sia, di qualsivoglia luogo, giunga a cavallo, o qui drizzi la prua, ... è meglio che rimanga a casa sua. Carlo, nel far ritorno al suo paese, sostò a Milano e battezzò la figlia, ma litigò col clero milanese, provocando a momenti un parapiglia, perché disse, grattandosi la barba: «Questo rito ambrosiano non mi garba». Che ne capiva lui di rito e rito? Ma ingraziarsi il papa è il suo disegno, potergli dir: «Son io che t'ho elargito, piú che mio padre, un vero e proprio regno; ed or, soppresso il rito indipendente, Milano è tua, sia pur spiritualmente». Non vi, riuscì. Nel tempo di cui parlo, era a Milano vescovo Tomaso (che fu il primo arcivescovo): re Carlo gli piacque poco. E disse al ficcanaso: «Lei, dunque, è `franco', sarò franco anch'io: qui cominciamo male, signor mio! Sappia che Ambrogio, assai piú che un ricordo, pei Milanesi è un simbolo e una face: se vuole con costoro andar d'accordo, dia retta, maestà, li lasci in pace!». E per protesta il popolo, frattanto, canta a gran voce gl'inni del suo Santo. Il barbaro signor capi il latino e tornò in Francia, dopo che sovrano d'Italia elesse il giovane Pipino, suo primo figlio, e fece di Milano - quella Milano indocile e plebea - la sede d'una piccola contea. Pavia rimane ancor la capitale. Milano, a certi onori indifferente, non solo, a quanto par, non se l'ha a male, ma s'affretta a lodar l'Onnipotente: lasciata al suo lavoro e ai suoi commerci, si sente meglio. Sire, arrivederci. (Se ha bisogno, però, di nuovi servi, se li procuri altrove. E si conservi.) XVIII Milano contro l'Impero carolingio Gli arcivescovi Anselmo e Angilberto Secolo di barbarie: ma in quegli anni dell'800, in mezzo alla foschia, mentre i tiranni seguono ai tiranni, sui grigi piani della Lombardia s'avverte, contro il barbaro padrone, il primo soffio della ribellione. Morto a Milano il giovane Pipino, lascia un figlio illegittimo: Bernardo; e Carlo Magno, il nonno, al nipotino dà il nuovo Regno... «Come! A quel bastardo?» E, morto Carlo, Ludovico il Pio, suo figlio, dice: «No! Quel regno è mio». È in quel, tempo arcivescovo a Milano, un uomo intraprendente, a nome Anselmo, il quale incita il giovane sovrano, Bernardo, a ribellarsi e a cinger l'elmo: vi sono intorno a lui molti italiani, desiderosi di menar le mani. L'arcivescovo Anselmo ha un piano ardito: vuole staccar l'Italia dall'Impero e farne, finalmente, un regno unito, non soggiogato piú dallo straniero; e ormai Bernardo è un principe di casa, pur se dal nonno fu l'Italia invasa. I Milanesi insorgono: li sprona quasi un risveglio dell'ardore antico; e molte altre città, come Cremona, scendono in campo contro Ludovico. Ma questi, coi suoi Franchi, assai piú forti, sceso d'Oltralpe, sgomina gl'insorti. Era l'anno 817. Il nuovo vincitor sale sul trono, e invan Bernardo gli si sottomette, lo zio non vuol concedergli il perdono: non contento d'averlo ai suoi ginocchi, (fortuna ch'era... Pio!) gli cava gli occhi. Il deposto arcivescovo e Bernardo furon sepolti insieme in Sant'Ambrogio, dove c'è ancora, offerta al nostro sguardo, un'iscrizione che ne fa l'elogio. E insieme a loro scese nell'avello un sogno troppo audace e troppo bello. Malgrado quella tragica avventura, Milano non rinunzia alle sue mire: nell'ombra, c'è qualcosa che matura, l'avverte anche Lotario, il nuovo sire, quando a Milano, con il muso storto, chiama il nuovo arcivescovo a rapporto. Angilberto saluta re Lotario con un semplice cenno della testa; il principe, piuttosto autoritario, a stento sa frenar l'ira funesta: «Perché non ti prosterni innanzi a me? Ti credi un nuovo Ambrogio?... Io sono il re!» Risponde l'arcivescovo Angilberto, guardandolo negli occhi: «Signor mio, non sono un nuovo Ambrogio, questo è certo, ma pure tu non sei Domineddio». Non è il solo arcivescovo, è Milano che non fa piú l'inchino ad un sovrano; e in sé già sente, come un fiore in boccio, il libero Comune ed il Carroccio. XX La discesa di Arnolfo (894) Guido di Spoleto e Berengario Tutto andò bene, o quasi, finché visse l'arcivescovo Ansperto da Biassono (al quale il papa, ravveduto, scrisse un messaggio di pace e di perdono), ma, lui scomparso, dopo alcuni mesi ricominciano i guai pei Milanesi. Un vero sindacato di malanni: nell'883 la peste, e poi tutta una serie di tiranni, nonché di guerre inutili e funeste. Ora a pestarsi e a fare un diavoleto son Berengario e Guido di Spoleto. Per il momento Berengario è vinto e Guido è il nuovo re. Fugace gloria, anche se a Roma, poi, Stefano quinto gli cinge la corona imperatoria: il successore, ossia, papa Formoso trova quel Guido assai pericoloso. Trova che un italiano imperatore pel papa è un troppo scomodo vicino; per cui decide: «Un mio predecessore chiamò in aiuto il franco re Pipino; io, per calmar quel tipo un po' manesco, farò di meglio: chiamerò il tedesco». Il tedesco era Arnolfo, che discese coi suoi soldati e, un popolo fuggiasco terrorizzando, devastò il paese, percosse, uccise (il conte bergamasco, che volle opporsi a quelle bieche torme, fu appeso sulle mura, in uniforme). A Milano non trova resistenza; le porte gli spalancano i Pavesi; ma, fattasi giurar obbedïenza da vescovi, da duchi e da marchesi, tradito dai nuovissimi vassalli, se ne riparte il re, con gli occhi gialli. «La sconterete!» dice, e in tutta fretta ritorna giú (conosce ormai la strada) e, sfogata la sete di vendetta passando i suoi nemici a fil di spada, giunge nell'Urbe e con solenne rito ha la corona come benservito. Poi torna in patria e muore. Berengario, uscito da un ricovero segreto, s'accorda con Lamberto, un sanguinario figlio del morto Guido di Spoleto: nello Stivale, largo ed accogliente, ci si può stare in due comodamente. Cosí, se lo dividono, e Milano spetta proprio a Lamberto: è una sciagura! Essa non ama il giovane sovrano, né vuol regnanti fra le proprie mura; ma l'arrabbiato re, nell'ottocento novantasei, la prende a tradimento. Saccheggia la città, case ed uffici, e, chi piú ruba e trucida, piú loda, impicca o cava gli occhi ai suoi nemici, castigo che in quei tempi era di moda; ma un giorno (e furon botte meritate) è ucciso, mentre dorme, a bastonate. Comunque, quell'orribile saccheggio Milano, offesa, se lo lega a un dito. Re Berengario, nel timor del peggio, se ne resta alla larga, un po' avvilito; parte pel Sud e, debellati i Mori (disse: «I Lombardi sono assai peggiori»), è fatto imperator, ma da Milano, finché avrà vita, resterà lontano. XXII La discesa di Ottone I (951) Nell'anno 948 moriva l'arcivescovo Arderico, e Berengario, dopo aver corrotto parte del clero (ché il sistema è antico), fece sí che la carica toccasse al francese arcivescovo Manasse. Un'altra parte proclamò Adelmano, un vecchio milanese, ed in tal modo furon due gli arcivescovi a Milano, e i cittadini si pestavan sodo: chi riveriva e s'inchinava all'uno, chi all'altro dei due preti e chi a nessuno. Intanto, l'invadente Berengario, nell'uso dei veleni molto esperto, toglie di mezzo il povero Lotario e con suo figlio, il giovane Adalberto, è da Manasse incoronato re: «Tanto», disse, «il padrone ero già me!». Resta la bella vedova Adelaide del morto re Lotario. Ella ricusa la mano d'Adalberto e nuove faide prepara dal convento ov'è rinchiusa: scrive al re di Germania, il biondo Ottone, invocandone aiuto e protezione. Questi, accogliendo il lusinghiero invito, scese in Italia, soggiogò Milano e, della bella vedova invaghito, ne ottenne, dopo, la contesa mano (ottima donna, che un primato vanta: con due mariti, venne fatta santa). Fuggiti a briglia sciolta, in preda al pànico, Berengario secondo ed Adalberto si prostran poi dinanzi al re germanico, umili e vili, e dopo avergli offerto l'Italia in feudo, giurano ad Ottone eterna obbedienza e soggezione. Quando, scornati, tornano a Pavia, gl'Italiani li guardano in cagnesco, rinfaccian loro: «Bella porcheria!», e non han torto: infatti, dal tedesco fu, da quel giorno, il misero Stivale considerato un feudo personale. Un Valperto dei Medici, al servigio d'Ottone, presentatosi a Milano al fine di dirimere il litigio annoso tra Manasse ed Adelmano, soffia il posto ad entrambi (onde dir s'ode che fra i due litiganti il terzo gode). Proclamato arcivescovo, Valperto litiga presto con i due regnanti, soprattutto col giovane Adalberto, che ha maniere un po' brusche ed arroganti e di Milano, con la prepotenza, vorrebbe far la propria residenza. Milano ha un privilegio secolare: niente re dentro casa; il sole brucia, troppo vicino, ed essa, a quanto pare, non ebbe mai nei re troppa fiducia, disposta ad acclamare ogni sovrano, purché sia bravo e se ne stia lontano. Disse Valperto ai suoi concittadini: «Dovevate vederli, questi eroi, dinanzi al grande Ottone: due agnellini! E sfoderan gli artigli innanzi a noi... Poi che a subirli non son piú disposto, chiamo il padrone, ché li metta a posto». Questo chiamare la tedescheria è diventata, insomma, una mania... XXIV Re Arduino e l'Arcivescovo Arnolfo (1002-1015) Fine dei re d'Italia Ottone terzo, in cerca di leggiadre donne e di... rogne, anch'egli, anima illusa, in Italia calò come suo padre, ma questa volta con un'altra scusa: ridurre alla ragione ed al silenzio il rivoltoso « console» Crescenzio. Questi sognava la restaurazione dell'antica Repubblica Romana. Invitato dal papa, il terzo Ottone, ammalato di gloria e di mattana, vinse Crescenzio e gli mozzò la testa: una vittoria che gli fu funesta. Muore in quell'anno stesso: 1002; e non è, pei Tedeschi, lieve impresa in patria riportar le spoglie sue, lungo le strade di un'Italia offesa ed umiliata, che gridando «Abbasso!», ora ch'è morto, gli contrasta il passo. E mentre ancora il feretro è in cammino, chi s'avvantaggia della breve ondata d'entusiasmo patriottico è Arduino, il marchese d'Ivrea, che, radunata una dieta a Pavia, vuol su due piedi per sé l'Italia e per i propri eredi. E ottiene la corona. Intanto, Arnolfo, succeduto per voto popolare al defunto arcivescovo Landolfo, era andato a Bisanzio, a procurare una sposa ad Ottone in quella corte, mentre il tedesco sposò poi la morte. L'arcivescovo Arnolfo era in vïaggio, quando Arduino re veniva eletto; rincasato, però, non fece omaggio al nuovo sire: gli sembrò scorretto quel farsi incoronar con tanta furia, mentr'era assente lui: quasi un'ingiuria. Due anni dopo, Enrico di Baviera (fatto poi santo), il nuovo re germanico, scende in Italia: mutano bandiera, all'arrivo del re, colti dal pànico, e vescovi e signori, al suo destino abbandonando il povero Arduino. Questi fugge ed Enrico entra a Pavia, che non lo accoglie troppo volentieri e presto insorge: «Se ne vada via, non ne vogliamo piú di re stranieri!». E il re, per castigar quegli abitanti, incendia la città (che strani santi!). Incoronato dopo imperatore, di prepotenza - al posto dell'antico, che d'Arduino è un fervido fautore - insedia ad Asti un vescovo Olderico. Milano accoglie il vescovo deposto, decisa ad aiutarlo ad ogni costo. Arnolfo, allora, risolutamente il popolo indignato aduna in piazza e si muta da prete in combattente: lascia la cotta e indossa la corazza, dinanzi ai Milanesi, che entusiasti impugnar l'armi urlando: «Ad Asti! Ad Asti!». Asti s'arrende. Intanto, re Arduino in buona parte riconquista il regno; ma al ritorno d'Enrico, a capo chino, vinto dallo sconforto e dallo sdegno, gridando contro Arnolfo al tradimento, il fosco re si chiude in un convento. Gli era contrario, Arnolfo, che pensava di liberarsi ormai d'ogni tutore, di fare a meno, in quell'Italia schiava, tanto del re che dell'imperatore. E presto, aperto a tutte le fortune, sarà Milano un libero Comune: gl'imperatori, come il fosco sire, andranno anch'essi a farsi benedire... XXVI I Milanesi sconfiggono l'Imperatore (1037) Il Carroccio I Milanesi, in un fervore insonne, fabbrican armi, accumulano scorte; tutti intorno alle mura, uomini e donne, vecchi e fanciulli, a rinforzar le porte. Il poderoso esercito imperiale pose un assedio che gli fu fatale. Data di gloria fu, nell'anno mille e trentasette, il 19 maggio; i Milanesi fecero faville, prodigi di valore e di coraggio: guidati dal medesimo Ariberto, sconfissero il nemico in campo aperto. Nel giorno santo della Pentecoste, Corrado tolse il campo ed andò via; le schiere dei suoi téutoni, scomposte, in piena fuga giunsero a Pavia. E, dietro, l'arcivescovo che, prode, incita i suoi ragazzi a darle sode... Spronato da Corrado e dai Pavesi, il compiacente Benedetto nono scomunica Ariberto, ai Milanesi un vescovo imperial mandando in dono; ma quelli gli fan fare le valige, ché nemmeno lo vogliono in effige. L'irato imperatore incendia Parma, sfogando contro gli altri i suoi furori; e tuttavia Milano non disarma, anche quand'egli adesca i valvassori, con una legge, a spargere zizzania. Indi, deluso, se ne va in Germania. Ma prima di partire, il maledetto convoca i suoi vassalli (che di lui, assai probabilmente, avranno detto: «Piú che un Sàlico è un... sadico costui!») e, contro i Milanesi, essi gli fanno il giuramento d'una guerra all'anno. Per difender la gente del contado, esposta ogni anno a quella scorreria ordinata dal perfido Corrado ai feudatari della Lombardia, il tenace arcivescovo l'addestra a maneggiar la spada e la balestra. E per destar nel popolo inesperto il senso della patria, ancora in boccio, al centro dell'esercito Ariberto pone il solenne civico Carroccio, simbolo della patria e dell'onore, intorno a cui si vince, oppur si muore. Nel 1039, gl'imperiali tornarono all'assalto, ma la morte, proprio, non è il peggior di tutti i mali, e, poco prima che le nostre porte quei prepotenti avessero raggiunto, s'apprese che Corrado era defunto. Si ritennero sciolti i suoi vassalli dal giuramento e con disinvoltura subito indietro volsero i cavalli; ma i Milanesi, usciti dalle mura, diedero loro tante e tante botte, da farli rimaner con l'ossa rotte. Successor di Corrado, il figlio Enrico riconosce Milano indipendente, chiama Ariberto, lo saluta amico, e questi può disfarsi, finalmente, della corazza e rivestir la tunica. Anche il papa ritira la scomunica... di cui nessuno piú si ricordava (disse Ariberto: «Già, chi ci pensava?») XXVIII La guerra patarinica (1056-1075) E dopo, che ne fu di quel Lanzone, che strenuamente il popolo difese? Divenne forse l'arbitro, il padrone, l'idolo del Comune milanese? O, sia pur senza cariche speciali, venne onorato il primo fra gli uguali? Nemmen per sogno: preso dai patrizi vendicativi e chiuso in una torre, è sottoposto a orribili supplizi, né un solo cane in sua difesa accorre (è vero, dopo tanto accanimento, piú tardi gli faranno il monumento...). Comunque, per lo meno in apparenza, fra nobili e plebei nessun rancore, non c'è fra loro alcuna differenza, e dallo stesso Enrico imperatore, nella prossima Dieta di Roncaglia, sarà sancito il patto che li eguaglia. Ma sembra che per ora abbiano solo la libertà di prendersi a legnate... Morto Ariberto, un prete campagnuolo, detto Guidone, o Guido da Velate, che sarà poi di Roma il gran nemico, ne prende il posto per voler d'Enrico. Pur se da molto tempo Pietro e Ambrogio - Roma e Milano - si guardavan male, la guerra aperta (e il suo martirologio) ebbe un motivo quanto mai banale: i preti, quando l'uzzolo li coglie, hanno il diritto o no di prender moglie? Benché il Sommo Pontefice lo vieti, Guidone lo permette e lo consiglia, si può esser - dicendo - ottimi preti e insieme buoni padri di famiglia; lo stesso Sant'Ambrogio, uomo di mondo, del resto, l'ammetteva: uomini, in fondo... La potenza e il denaro, tuttavia, hanno corrotto il clero milanese: oltre ad esercitar la simonia, i preti ricchi, in modo ormai palese, se non han moglie, in barba alla dottrina, han sempre in casa qualche concubina. E la Chiesa di Roma ebbe buon gioco nel mandare i suoi messi a sollevare - gettando nuovamente olio sul fuoco - contro il piú ricco il ceto popolare, e specie contro i ricchi sacerdoti, concubinari e simoniaci noti. Milano si divise in due fazioni e la guerra iniziò dei Patarini, parola che significa straccioni: fu il nome dato a quei concittadini che si batteron per... vent'anni scarsi, per impedire ai preti d'ammogliarsi. Il prete Arialdo ed un Landolfo Cotta dei Patarini assumono il comando, ma i veri dirigenti della lotta sono Anselmo da Baggio ed Ildebrando, quel monaco dal piglio perentorio, che dopo diverrà papa Gregorio. La caccia agli ecclesiastici ammogliati provoca per le vie scontri violenti; Milano è sotto un incubo: attentati, saccheggi, incendi, insidie, tradimenti... E ci scappan due martiri: Arialdo e l'irruente chierico Erlembaldo. Guidone ebbe la peggio, e la contesa, che tanto insanguinò questa città, fini con la vittoria della Chiesa e dei tribuni della castità. E per i preti il nodo coniugale piú non si stringe: è proprio un grosso male? Afferma il Berni che, fra tante doglie, la peggiore di tutte è l'aver moglie... XXX L'assedio e la resa di Milano 1160. I Cremonesi assedian Crema, il Barbarossa avanza coi Lombardi alleati: i Milanesi fortifican le mura a tutt'oltranza, mobilitando il popolo compatto... È il 25 agosto: ed ecco, a un tratto, suonare a stormo tutte le campane, cupo presagio alla città sgomenta: brucia la casa di Lanfranco Cane a Porta Comasina; invan si tenta di domare le fiamme: il vento è forte: arde mezza città, brucian le scorte... Non resta piú che un ultimo rimedio (la resistenza ormai sarebbe vana): cercar soltanto d'impedir l'assedio mediante la guerriglia partigiana, molestando i Tedeschi, nell'attesa d'organizzar di nuovo la difesa. Ma il fiero imperator, svernato a Lodi, nell'anno 1161, decide alfine di piegar quei prodi con un'arma infallibile: il digiuno; fa intorno alla città terra bruciata, ché non vi cresca un filo d'insalata. Dopo di che, s'accampa alla Commenda; e chi s'azzarda a uscire dalle mura è fatto segno ad una caccia orrenda, che si concluderà con la tortura: nel miglior caso, tornerà a Milano senza un occhio, un'orecchia od una mano. Milano, infine, stretta dal cilizio, soccomberà: la fame non perdona. E il primo marzo. E cominciò il supplizio: andati a Lodi i consoli in persona, al Barbarossa dalla dura grinta resero la città stremata e vinta. Trecento cavalieri avendo a scorta, gli alfieri, il giorno 4, deporranno le trentasei bandiere - sei per porta - solennemente ai piedi del tiranno, umili, scalzi, senza dir parola, baciando il fango appreso alle sue suola. Mastro Guitelmo gli darà le chiavi della città sgombrata; e il Barbarossa gli abitanti vedrà, simili a schiavi, sfilare in quell'orribile Canossa, mentre il Carroccio, ornato come in guerra, lento s'abbasserà toccando terra. Misericordia imploreranno invano le donne, i vecchi, i pargoli innocenti nati al dolore, con le croci in mano tutti, prostrati come penitenti. L'imperatore, dall'aurato trono, muto e superbo, negherà il perdono. Dirà soltanto, perfido e glaciale: «Peccato non sia qui la mia signora!»... E vorrà che la scena, tale e quale, giunta sua moglie, si ripeta ancora: capite, pure il bis, come a teatro!... Poi, su Milano passerà l'aratro. (Ma occorre dir che, in questo, gl'Italiani gli diedero una mano, anzi, due mani...) XXXI La distruzione di Milano (1162) La Lega Lombarda e il Giuramento di Pontida (1167) I Milanesi vengono scacciati dalla città. Sogghigna il Barbarossa: «Non piú Guitelmo, i miei stessi alleati, ora, a Milano... scaveran la fossa, ché, come un giorno ad opera d'Uraja, dalla faccia del mondo essa scompaia». Lodi distruggerà Porta Orientale; Porta Cica, Pavia; la Vercellina sarà data a Novara; è naturale che a Como spetterà la Comasina; è affidata a Cremona la Romana, la Nuova al Seprio ed alla Martesana. Ed i nemici (a dirsi ancor piú orrendo, perché italiani!) sfogano il rancore, saccheggiando, bruciando, distruggendo, con l'arme in pugno e con la rabbia in cuore. E mura e case furon demolite, senza bisogno della dinamite... Come armento scacciato dall'ovile, errarono dapprima i Milanesi per gli arsi campi sotto il ciel d'aprile, e in quattro o cinque piccoli paesi furono dopo relegati, inermi, stanchi, affamati e nudi come vermi. E quasi la condanna non bastasse, eran costretti ad umili fatiche, unicamente per pagar le tasse, e rinnovavan le leggende antiche dei derelitti Ebrei, tratti prigioni sotto il giogo bestial dei Faraoni... Papa Alessandro terzo, un italiano largo di mente ed ancor piú di cuore, parteggia apertamente per Milano contro il crudele e iniquo imperatore. (Quando sentì di quella distruzione, il povero Alessandro ebbe il magone!) Al tempo stesso, le città lombarde, tartassate esse pur dagli aguzzini del Barbarossa, armati d'alabarde e assetati di sangue e di quattrini, messo da parte l'odio fratricida, fanno una Lega e giurano a Pontida. Ma lo capite, voi, cosa vuol dire riuscire ad accordar venti città in questa nostra patria, ed a sopire gli odi, i rancori, le rivalità, ed a far mantenere un giuramento?... Credete pure, è un grosso avvenimento. E fra i patti giurati il primo è questo: ricostruire la città ribelle, in barba al Barbarossa... Ed al piú presto si metteranno all'opera: anche quelle che a distruggerla, un dí, fecero a gara, anche Lodi, anche Como, anche Novara. Città lombarde, venete, emiliane (può sembrare incredibile, ma è vero) finalmente si sentono italiane e, tutte unite contro lo straniero, aderiscono anch'esse a quella Lega, che il vessillo dei liberi dispiega. Il Barbarossa è nero! Il papa, a Roma, l'ha trattato un po' male; in Lombardia la gente è pronta a scuotere la soma... Egli una Dieta convoca a Pavia e mette al bando i soci di Pontida, gettando un guanto in aria a mo' di sfida. Sarà raccolta quella sfida: otto anni di fede, di tenacia, di concordia, e coloro che a Dio, contro i tiranni, implorarono invan misericordia, sorgono nuovamente alla riscossa. Urla Milano: «Morte al Barbarossa!». Chi tuona, sotto il bel sole di Dio: «Milanesi, fratelli, popol mio... »? XXXIII La pace di Costanza (1183) I Podestà - La Guerra Civile (1221) Poteva ormai la Lega vincitrice additare la porta allo straniero, render l'Italia libera e felice; ma il nome sacro del Romano Impero godeva d'un prestigio gigantesco, pur se il Romano Impero era tedesco. E tuttavia la pace di Costanza, approvata dal Cesare sconfitto, a favore del popolo che avanza sancisce un nuovo e piú civil diritto: l'uguaglianza politica e sociale (fino ad un certo punto, è naturale). Unitamente, nobili e plebei, sotto l'insegna della libertà, nell'anno 1186, eleggono a Milano il podestà: un Uberto Visconti da Piacenza; starà in carica un anno e poi partenza. Si preferí che il primo magistrato della città non fosse un milanese, ma venisse di fuori e, ben pagato, provvedesse alle entrate ed alle spese, controllasse le industrie ed i commerci: scaduto l'anno, grazie e arrivederci. A Milano non mancano davvero i ragionieri e gli amministratori, ma è meglio aver per capo un forestiero, che a tutti quanti dia del «lorsignori», che non abbia né amici né parenti, e agisca senza tanti complimenti. E crebbe, sotto questi governanti, Milano, di bellezza e di fortune; nel mezzo della Piazza dei Mercanti sorge il nuovo Palazzo del Comune; ed è forte Milano, e prende a scherzo fin le condanne d'Innocenzo terzo. Ma poi, col tempo, questi magistrati diventano dei veri dittatori, nel mentre, gli uni contro gli altri armati, borghesi capitani e valvassori, in una complicata sarabanda, si dànno botte come Dio le manda. Ché ben presto risorgono i partiti, ed i nobili ancor mostrano i denti ai popolani, e questi, inviperiti, fanno lo stesso contro i prepotenti: la loro associazione - la Credenza di Sant'Ambrogio - è presto una potenza. La ricca borghesia senza blasone (la media nobiltà, se piú vogliamo) ha pure una sua propria associazione: la Motta, mentre a parte poi vediamo, intorno all'arcivescovo, settari stringer le file i grossi feudatari. Il partito dei grandi arma i «Gagliardi», per contro i popolani armano i «Forti» e alla prima occasione, o presto o tardi, quali che siano le ragioni o i torti, s'affronteran con furia sanguinaria, ché la guerra civile è già nell'ària. Lunga e spietata guerra, a cui s'accoppia prima la peste e poi la carestia; finché un bel giorno la notizia scoppia: Federico secondo è in Lombardia. E nel 1226 di nuovo amici, nobili e plebei... (Signori miei, sapete che vi dico? Qui ci vorrebbe ogni anno un Federico!) XXXV Federico II sconfitto a Fossalta (1249) La cacciata dei nobili Quando Leone, il frate inquisitore, poco dopo la morte di Pagano, avendo il ceto nobile a favore, è creato arcivescovo e a Milano vuole imporre la propria signoria, scoppian nuovi tumulti: è l'anarchia. E Federico ancor fa capolino, col figliuolo re Enzo questa volta, l'uno dall'Adda e l'altro dal Ticino, per conquistare la città in rivolta, cui manda intanto la notizia tetra che la distruggerà pietra su pietra. Non c'è speranza piú, misericordia!... E Federico, invece, attacca indarno: Milano trova, insieme alla concordia, un condottier: Simone da Locarno, che, portando la strage e lo scompiglio, sistema prima il padre e dopo il figlio. Tenace, Federico non disarma, e son, quattr'anni dopo, i Milanesi che a vincerlo a Fossalta aiutan Parma: re Enzo cade in mano ai Bolognesi e, senza aver raggiunto il proprio scopo, re Federico muore un anno dopo. Scomparso Federico dalla scena, scoppian nuovi tumulti popolari, per una legge ch'applica la pena di sette lire e dodici denari contro il signore dichiarato reo d'aver fatto la pelle ad un plebeo. In tempi come quelli, capirete, è un vero incitamento all'omicidio: basta soltanto un pugno di monete, e un poveraccio, che vi dia fastidio, ve lo levate subito da torno; sicché il delitto è all'ordine del giorno. E ciò che mosse il popolo a furore, fu questo fatto: un nobile Landriani invitò a cena un proprio creditore, un popolano, e poi dai suoi scherani lo fece allegramente trucidare, dicendo: «Dopo tutto, è un buon affare». Ma fu un pessimo affare: il popolino, guidato da Martino della Torre, insorge urlando: «A morte l'assassino!», le case distruggendone, e rincorre, menando strage nella notte oscura, i signori fuggiaschi oltre le mura. E le due parti, con ferocia estrema, l'una dell'altra vogliono la fine; intervengono poi Bergamo, Crema, Brescia e, con esse, altre città vicine, e si giunge a una tregua, con l'intesa di sottoporre al papa la contesa. Durante quella tregua assai precaria, i popolani e i nobili in fermento sfogan però la furia sanguinaria, fino a quel tristo dí frenata a stento, linciando... il podestà (bella vergogna!): un Beno Gozzadini da Bologna. Costui, per far procedere i lavori su un ramo del Naviglio, aveva osato tassare i capitani, i valvassori, i preti ed i plebei: fu lapidato e poi gettato a pezzi in quel Naviglio, fatto appunto scavar per suo consiglio... A costo del piú orrendo dei misfatti, tutti contro le tasse ancor compatti! XXXVII La Signoria di Napo della Torre (1265-1277) L'arcivescovo Ottone Visconti Figlio del gran Pagano della Torre, Napo è un signore pieno di talento e, seppur quando occorre (e spesso occorre) sa mostrarsi anche lui duro e violento, a conti fatti, generoso e giusto, non è portato a uccidere per gusto. E quando suo fratello Paganino è ammazzato dai nobili a Vercelli, ed a Milano insorge il popolino, e il sangue per le vie scorre a ruscelli, egli contro il massacro invan protesta: «Quel sangue ricadrà sulla mia testa!» Papa Clemente, intanto, risoluto, per toglier la scomunica a Milano, vuole che prima sia riconosciuto il Visconti arcivescovo. Ma invano: Napo promette sí; ciononostante, continua a far orecchio da mercante. Vuol dominar da solo, ed i favori del popolo frattanto si guadagna, incoraggiando pubblici lavori, ricevendo sovrani in pompa magna, sfoggiando un lusso che non ha confini e abbaglia forestieri e cittadini. Vengono i re di Francia e d'Inghilterra, vi passa Margherita di Borgogna, principi d'ogni razza e d'ogni terra; ed i Torriani pronti alla bisogna: tornei, festini, doni a piene mani, mense gratuite a tutti i popolani... Vi sono, poi, le spese militari, poiché i nemici non gli dan quartiere, e Napo è sempre in cerca di denari per assoldare truppe di mestiere: i cittadini, fattisi piú scaltri, ormai le guerre le fan fare agli altri. Egli è costretto ad aumentar le tasse, sicché la gente si riduce all'osso; noi ben sappiamo come son le masse, pronte a gridar «evviva» a più non posso, aman la gloria ed aman la bisboccia: non toccarle, però, nella saccoccia... Ed Ottone Visconti, approfittando del malcontento che dilaga intorno, assunto d'un esercito il comando, sconfigge Napo a Desio, un brutto giorno, (era il gennaio del '77) e incomincian le solite vendette. È massacrato un giovane fratello di Napo e, in quanto a questi, il pover'uomo viene appeso alla torre d'un castello, rinchiuso in una gabbia, in quel di Como: a un anno o poco piú dalla tragedia, dopo lenta agonia, morrà d'inedia. Appresa la sconfitta, il popolino, dopo tante baldorie e battimani, saccheggia e con furore belluino devasta poi le case dei Torriani, che a un mucchio di macerie son ridotte (c'è ancor la strada delle Case rotte). Ottone entra a cavallo, l'indomani, con la mitra ed il palio, preceduto dal corteo dei signori; i popolani alzan le braccia in segno di saluto e, mentr'egli annuisce e si compiace, lo acclamano gridando: «Pace, pace!» (In attesa del prossimo macello, il grido delle turbe è sempre quello.) XXXIX Galeazzo, Azzone e Luchino Visconti Galeazzo non manca di ferocia e accrescerà la schiera dei tiranni; è vero che al governo egli s'associa Luchino, Marco, Stefano e Giovanni, i suoi quattro fratelli, ma, in sostanza, è lui solo a dirigere la danza. Marco è quel grande e ardito cavaliere che tanti e tanti cuori ha poi commossi con le vicende avventurose e fiere, immortalate da Tommaso Grossi. È lui che vince a Vaprio la crociata contro i Visconti, a Roma organizzata. E dei cinque fratelli egli è il migliore, generoso e romantico; al contrario, è Galeazzo un pessimo signore, libertino, avventato, autoritario, e a molti fa passar dei brutti giorni nel tenebroso carcere dei Forni. Lo costruí lui stesso nel castello di Monza e presto vi finì lui pure: fu quando Marco, stanco del fratello, dei suoi soprusi e delle sue congiure, a Lodovico il Bavaro progetta d'offrire la corona, e questi accetta. E nel 1327 fu coronato, infatti, imperatore; ma a Galeazzo mise le manette e, chiamandolo guelfo e traditore, lo cacciò coi fratelli e il figlio Azzone in quella spaventevole prigione. Rimasto fuori Marco solamente (Stefano si salvò perch'era morto la notte prima), lotta inutilmente per dieci mesi, in preda allo sconforto; è il Castracane, coi suoi buoni uffici, che alfine liberar fa gl'infelici. Ma, recatosi a Pescia a ringraziare Castruccio di quel provvido intervento, Galeazzo si spegne, a quanto pare, sfibrato da quel lungo patimento. Capo della famiglia e dello Stato rimane Azzone: erede ed inguaiato. Eppure, prodigioso equilibrista, tra guelfi e ghibellini manovrando, egli l'antico stato riconquista, anzi, l'accresce; e presto al suo comando avrà vaste contrade, abile e scaltro, or con l'uno alleato ora con l'altro. Ottenne Brescia contro gli Scaligeri, che, complice Lodrisio, suo cugino, con forte nerbo d'agguerriti armigeri marciavan su Milano: zio Luchino sconfisse (e fu di sangue un vero lago) l'esercito invasore a Parabiago. Abbellí la città, rimise in piedi le vecchie mura, ma, nel fior degli anni, anche Azzone morì, lasciando eredi Luchino e l'arcivescovo Giovanni, che estesero la propria signoria oltre i confini della Lombardia. Luchino, con audace intraprendenza ed anche, spesso, con felice tatto, si spinse quasi fino alla Provenza, ebbe Genova stessa, ove, d'un tratto, (fu nel 1348) un brutto dí spirò senza far motto. Fu la peste o il veleno?... Ecco il dilemma, anzi, l'enigma che nessuno scioglie. Egli aveva una vipera per stemma ed aveva una vipera per moglie: un'Isabella Fieschi, genovese, che non amava il coniuge scortese e, forse, con un tossico letale gli ha anticipato il dí del funerale. XLI La Signoria di Gian Galeazzo (1385-1402) Crescon le tasse, invece, ed è vietato mormorar contro i dazi e le gabelle: chi si lamenta d'esser scorticato rischia davvero di lasciar la pelle... Né si parli di popolo: parola ingrata, sovversiva e piazzaiola. Gian Galeazzo sa quello che vuole: il suo programma meditò per anni, nell'ombra, mentre adesso opera al sole: vuole per sé la gloria dei tiranni; né lo conturba l'implacato spettro dello zio Bernabò: vuole uno scettro. E da re Venceslao, per cominciare, ottiene, intanto, il titolo di duca. Fu una grandiosa festa popolare: Gian Galeazzo ha in testa una feluca piena di gemme; l'abito ducale è costato da solo un capitale. In Sant'Ambrogio sono radunati, tra fastosi parati ed ornamenti, ambasciatori, principi, prelati... In quella festa senza precedenti vengon profuse autentiche fortune: ed il popolo paga, anzi... il Comune. Non si parli del popolo, che inerme applaude e tace... Il duca di Milano accosta intanto Jacopo dal Verme, Facino Cane, l'inclito Barbiano ed altri capitani di ventura, che fan tremar l'Italia di paura. Quei condottieri al suo servizio accoglie, non bada a spese, e il conte di Virtú (nome d'un feudo della prima moglie, Isabella di Francia) sempre piú - per quanto né stratega, né soldato - accresce, ingigantisce il suo ducato. Grazie al valor dell'armi e, soprattutto, grazie al danaro e all'arte degl'inganni, pur se la libertà si veste a lutto, la biscia viscontea giunge in pochi anni - né ad aver degli scrupoli s'indugia - a Pisa, a Siena, a Lucca, anche a Perugia. Gian Galeazzo, splendido signore, non fece solo guerre, tuttavia, né fu solo un tiranno e un oppressore: eresse la Certosa di Pavia, che dai Visconti aveva avuto già anche il Castello e l'Università. Fu un principe crudele e disumano, adoperò la forca e la tortura, senza pietà, ma fece di Milano una città magnifica e sicura: è sotto quel temibile grand'uomo che s'iniziò la fabbrica del Duomo. E, maturando un epico disegno, egli intravide l'unità d'Italia: comporre lo Stivale in un sol regno, sotto il suo scettro, è il sogno che lo ammalia. Per il momento, limita il suo scopo all'Alta Italia: il resto verrà dopo... Solo aspettava ormai, per sé e gli eredi a cinger la corona di sovrano, ch'anche Firenze gli cadesse ai piedi, quando morì di peste a Melegnano, nell'anno 1402. E si sfasciaron le conquiste sue. È proprio vera la sentenza etrusca: la farina del diavolo va in crusca... XLIII Francesco Sforza Fine di Filippo Maria Visconti (1447) Da una piccola gente di campagna, d'un tratto trasformatasi in guerriera abbandonando la natia Romagna, nacque Francesco, e fece una carriera, malgrado le modeste, umili origini, che a pensarci ti vengon le vertigini. Era, giovane ancor, dei tempi suoi il miglior capitano di ventura; ma Filippo Maria di certi eroi aveva una santissima paura, ed aspettava solo l'occasione per dargli un benservito d'eccezione. Sforza, fiutata l'aria che spirava, poiché mutar bandiera era un'inezia già fin da allora, subito passava al servizio del papa e di Venezia: purché gli arrida un rapido successo, Ambrogio o Marco fan per lui lo stesso. Malconcio alquanto, il subdolo Visconti, «a Dio spiacente ed a' nemici sui», promette al condottiero mari e monti, purché ritorni a battersi per lui; anzi, d'un tratto divenuto tenero, vuol farlo addirittura proprio genero. E gli dà in moglie l'unica sua figlia, Bianca Maria, ma presto se ne pente: aver quell'uomo nella sua famiglia, lui ch'è un Visconti, lui ch'è il discendente d'Enea troiano... E contro quel plebeo grande è il disprezzo e l'odio visconteo. Soprattutto, però, non si perdona d'aver dato a sua figlia, e quindi a Sforza, le città di Pontremoli e Cremona, e le vuole riprender con la forza: in cerca d'un pretesto, i Veneziani coi Milanesi vengono alle mani. E d'improvviso invasa la Brianza, dopo una marcia ardita e minacciosa, s'accampano a tre miglia di distanza dalla città, dinanzi a Porta Tosa: cede il ducato, come un ramo secco; resiste solo la città di Lecco. Il duca, indifferente a quel macello, sembra solo aspettar la propria fine, torvo e scontroso, chiuso nel castello di Porta Giovia (sulle cui rovine, piú tardi, sorgerà quello sforzesco, quando il ducato passerà a Francesco). Imbelle, nevrastenico, ammalato, circondato da astrologhi e da medici, non amato dal popolo, esecrato anzi da molti, muore il giorno tredici d'agosto di quel millequattrocento- quarantasette tragico e cruento. Seguono giorni turbinosi e tristi: spentosi il duca, insorge la città, guidata da filosofi umanisti, al grido: «Sant'Ambrogio e libertà», nasce la Repubblica Ambrosiana, con un Consiglio e un'Assemblea sovrana. I cittadini bruciano il catasto: non pagar piú le tasse è il loro sogno... Nessuno piú sapeva, avvezzo al basto stretto dalla fame e dal bisogno, tra una plebaglia dalla rabbia invasa, dove la libertà stesse di casa. Nei «reggitori» afflitti e vilipesi il libertario ardor presto si smorza, dopo un'anarchia di trenta mesi invitano a venir Francesco Sforza, «certi dei sentimenti d'amistà ch'egli nutriva verso la città». (E un mese prima urlavan sulla piazza: «Ventimila ducati a chi l'ammazza»!) XLV Galeazzo Maria Sforza (1466-1476) Cicco Simonetta Chiusa, Bianca Maria, nella sua pena (molto il caro infedele aveva amato), attese il figlio, ventunenne appena, ch'era a Parigi, presso il re alleato, e che, a Milano reduce, la bara a molta gente ed anche a sé prepara. Purtroppo, quel suo figlio Galeazzo, Galeazzo Maria piú esattamente, ch'era sembrato un ottimo ragazzo, ritrovò tutti in sé subitamente, peggiorati però nei lor confronti, i vizi degli Sforza e dei Visconti. Crudele, spendaccione e libertino, mandò la madre a vivere a Cremona; invitatala dopo ad un festino quando sposò la savoiarda Bona, la fece avvelenar: l'accusa è vaga, ma c'è chi insiste (la Questura indaga...) Coi suoi capricci e con i suoi stravizi, il nuovo duca imperversò dieci anni, finché tre fieri e giovani patrizi, pieni d'odio mortal contro i tiranni, entusiasti di Bruto e di Catone, prepararono a lui l'estrema unzione. Un Olgiati, un Visconti e un Lampugnani, volendo dare un luminoso esempio delle antiche virtú sacre ai Romani, atteso il fosco principe nel tempio di San Stefano, il dí dopo Natale, lo stendon morto a colpi di pugnale. Oh, certamente, dopo l'accaduto, tanto la plebe che la nobiltà avrebbero esaltato i nuovi Bruto, e ad instaurar l'antica libertà sarebbe sorto il popolo ribelle... che, invece, a tutti e tre fece la pelle! Lascia un figlio settenne il morto duca: Gian Galeazzo. Il titolo ducesco molta gente, però, par che seduca e, soprattutto, i figli di Francesco: gli Sforza; il piú temibile fra loro e il piú avveduto è Lodovico il Moro. E c'è Venezia, poi... c'è re Luigi, che d'ingoiare il bel Ducato aspetta. Ma la vedova Bona ai suoi servigi ha sempre il bravo Cicco Simonetta, che i quattro Sforza, zii di quel bambino, tanto per cominciar, manda al confino. Scrive da Pisa il Moro a donna Bona che in quell'ore difficili ed incerte, per difendere il bimbo e la corona, dovrebb'esserci lui. Cicco la avverte: «Se date ascolto a quello sciagurato, io perderò la vita e voi lo Stato». Facile profezia: ché, non appena torna a Milano, il furbo Lodovico contro il ministro un bel processo inscena e, dichiarato pubblico nemico, il Simonetta è consegnato al boia. E il turno, poi, di Bona di Savoia. Il Moro, che l'accusa in malafede, la chiude nel castel d'Abbiategrasso per immoralità... Quanto all'erede, non ancora in età d'andare a spasso, lo manda a trastullarsi in prigionia, nel munito castello di Pavia, mentre, piú «dritto» e molto piú attempato, lui... si trastullerà con il ducato. XLVII La politica di Lodovico il Moro I Francesi entrano in Milano (1500) Intanto il re di Napoli non ciancia: vuole giustizia. È allor che Lodovico, ingenuo, si rivolge al re di Francia, a Carlo ottavo, che gli fa l'amico; e l'incita, lo supplica, lo sprona, perché strappi il reame ai D'Aragona. Nello Stivale Carlo ottavo irruppe, senza incontrar nessuna resistenza; il Moro lo forni d'armi e di truppe, Roma gli fece un'ottima accoglienza. Venezia, diffidente, dal suo mare come le stelle resterà a guardare. Fu solo quando Carlo, vincitore, s'impadroní di Napoli in un lampo, che gl'Italiani scossero il torpore e uniti contro lui scesero in campo: scesero in campo, dandosi la mano, Roma, Venezia e il duca di Milano. Anche Milano: il Moro contro Carlo snuda la spada, entrando nella Lega, anzi, il piú fiero è lui nell'avversarlo, con patriottico ardor che non si spiega, dato che fu l'autor di quella giostra chiamando lo straniero in casa nostra. Tremante di paura, il re francese, ormai spacciato senza alcun riparo, ritornò in Francia, dopo averle prese nella battaglia di Fornovo Taro. Ma il Moro, ch'è un campione d'incostanza, gli offre ancora la pace e l'alleanza... No, signor duca, basta! Il troppo stroppia: vuol la sua testa il popolo furente, a cui le inique tasse egli raddoppia (sa Dio quanto sborsò quell'incosciente, perché l'imperator Massimiliano lo consacrasse duca di Milano). La fortuna, però... Muore sua moglie, proprio in quei giorni, e lui fa l'Ecce homo: finge? è sincero?... Fatto sta che scioglie tante di quelle lacrime nel Duomo, che i Milanesi, gente di buon cuore, gli perdonano ancor, senza rancore. E muore anche re Carlo: a lui succede Luigi dodicesimo, nipote di Valentina e dei Visconti erede, per cui, gonfiando le paffute gote, di «duca di Milano» assume il titolo. E per il Moro è l'ultimo capitolo... Tutta l'Italia è contro Lodovico; Francesi e Veneziani in una volta minaccian la città. Quando il nemico è già alle porte, il popolo in rivolta, esasperato e imbestialito, lancia l'infausto grido: «Francia! Francia! Francia! Ripara in Austria Lodovico il Moro, presso l'imperator Massimiliano, portando via con sé tutto il tesoro lasciando a difendere Milano Bernardino da Corte: «Sta' sicuro che torno coi Tedeschi, e tieni duro». Nell'aprile del 1500 Bernardino da Corte lo tradiva, re Luigi, grazie al tradimento, entrò a Milano fra scroscianti evviva. D'ogni parte si misero in viaggio i signori d'Italia a fargli omaggio. E non manca nessuno al lieto coro (manca soltanto il popolo che paga): Ercole d'Este, suocero del Moro, i Savoia, e i Saluzzo, ed i Gonzaga, i Monferrato, e Cesarino Borgia... Del servilismo è cominciata l'orgia: sperano di salvar l'indipendenza con qualche dono e qualche riverenza... XLIX L'ultimo Sforza: Francesco II Francesco primo entra a Milano, accolto da applausi e da discorsi apologetici, mentre - affamato, misero, travolto armento - in patria tornano gli Elvetici, nella fuga portando insieme a loro l'ultimo figlio del defunto Moro. È Francesco secondo, un giovincello piuttosto malandato, dalla guancia pallida, triste... Invece, suo fratello Massimiliano fu portato in Francia e pensionato con magnificenza (non certamente dalla Previdenza...). I Francesi rimangono sei anni, col general Lautrec governatore, che si rivela tra i peggior tiranni, esoso, prepotente e senza cuore, ed imperversa, ossessionante tribolo, con le taglie, la frusta ed il patibolo. E nuove guerre, e nuovi sacrifici: re Carlo V, imperator romano, con Spagnoli, Tedeschi e Pontifici si lancia alla conquista di Milano: vuol dall'Italia, il Cesare spagnolo, scacciar la Francia e dominar da solo. Milano, dove l'ira ormai trabocca, mostra una volta ancor le virtú sue, sconfiggendo i Francesi alla Bicocca, nel 1522, spronata da Gerolamo Morone, animatore dell'insurrezione. È un fervido patriota, ora vicario dello Sforza Francesco, e nell'aprile di quell'anno davvero leggendario questi torna a Milano, che febbrile appresta nuove e valide difese per premunirsi contro il re francese. Ma il re riprende la città, stremata dalla peste e dalla carestia; fin quando, in una tragica giornata, sconfitto nell'assedio di Pavia, fu catturato dall'imperatore «tutto egli perdé, fuorché l'onore». Ritornato in città, l'ultimo Sforza complotta col Morone, il cui disegno è scacciar gli Spagnoli con la forza fare dell'Italia un solo regno; ma propone l'impresa a un generale che lo tradisce, e addio, dolce ideale Morone è ammanettato, e il mite duca si rinserra a difesa nel Castello, mentre ancora in Italia alla caduca pace segue un inutile macello, formando il papa, dai Francesi spinto, la Lega Santa contro Carlo quinto. È il 1526: Milano, chiusa nelle proprie mura, vede languire nobili e plebei, tra la peste, la fame e la paura, e, priva d'ogni spirito pugnace, quattr'anni aspetta l'invocata pace. Duca ed imperator riconciliati, Sforza tornò, sborsando tuttavia un buon mezzo milione di ducati per il riscatto della signoria; e i cittadini, ormai quasi pezzenti, dovettero pagar, stringendo i denti. Dopo cinque anni, in fondo bene spesi, Francesco muore senza lasciar figli, ed un'ambasceria di Milanesi, per evitare i soliti scompigli, dopo aver seppellito il duca estinto, va ad offrire il ducato a Carlo quinto: «Se Vostra Maestà ci fa l'onore...» «Ma vi pare? Son qui, di tutto cuore... LI Decadenza di Milano ispanizzata Il Cardinale Carlo Borromeo arcivescovo di Milano (1565-1584) Governatori, in centosettant'anni, quant'è durato il giogo madrileno, - una genia di piccoli tiranni - ve ne furon cinquanta o poco meno, intenti solo a empirsi la bisaccia, passati tutti senza lasciar traccia. Eccetto don Ferrante dei Gonzaga: fu tra i piú onesti e i meno forcaioli. Venuto a governar mentre dilaga la guerra tra i Francesi e gli Spagnoli, della città dalle vetuste porte vuol fare una munita roccaforte. Uomo d'ingegno e illustre capitano, fu quel governator, largo d'idee, che pensò d'allargare anche Milano oltre le vecchie mura viscontee, cingendo la città cinquecentesca di un'opera massiccia e pittoresca. E per piú di tre secoli i bastioni, al traffico moderno ora immolati, serviron come cava di mattoni - e come mèta degl'innamorati. In quel lavoro inutile e imponente s'arricchí pure lui, ma... onestamente. Invece, per citarne solo un altro, il bel governator duca d'Ossuna, barando al gioco, spudorato e scaltro, a Milano si fece una fortuna. (Tentava di spogliar, senza traslati, anche mogli e «tusann» degl'invitati...) Gonzaga selciò almeno alcune strade, e Piazza Duomo sistemò perbene. Poi, fatalmente, la città decade, perde ogni suo carattere, diviene la roccaforte dell'assolutismo, dell'ignoranza e, piú, del fanatismo. Valga un esempio: un Melzi senatore, che soffre d'uno stomaco malsano, dopo che a piú d'un celebre dottore per anni ed anni s'è rivolto invano, sospetta la sua donna di servizio d'operare ai suoi danni un malefizio. Infatti, trova qualche testimonio, che accusa la presunta jettatrice d'intrattener rapporti col demonio: s'intromette il Senato, e l'infelice, dopo un lungo e fruttuoso sopralluogo, è torturata e poi condotta al rogo. Son molto attivi i giudici ed il boia; ed una folla taciturna e tetra, oppressa dalle imposte e dalla noia, accorre, per distrarsi, in Piazza Vetra, ove c'è sempre, in nome del Signore, da arrotare una strega o un malfattore. Fortuna che Pio quarto, milanese, mandò come arcivescovo a Milano un suo nipote, giovane cortese ma intransigente ed anticortigiano, animo eletto e spirito europeo: il cardinale Carlo Borromeo. Fondò chiese e collegi, prodigando ovunque il bene, generoso e dotto, e contro il re cattolico lottando, impedí che da noi fosse introdotto - malgrado le insistenze del padrone - lo sconcio della santa inquisizione. Buono e zelante: seppe dimostrarlo in una spaventosa epidemia, che si chiamò «la peste di San Carlo» e tutta spopolò la Lombardia; egli era ovunque: un santo più che un uomo; ed oggi lo si venera nel Duomo. Fu un sacerdote a volte anche pignuolo, ma lombardo, italiano, antispagnuolo. LIII Fine del dominio spagnuolo (1706) Ma ormai la vecchia Spagna medievale, dalla mentalità donchisciottesca, legata ad un fanatico ideale che non fa presa piú, che manca d'esca, si trova, sul finire del seicento, si trova, sul finire del seicento, in piena decadenza e sfacimento. Già con l'ultimo suo governatore, che fu don Carlo Enrico di Lorena, fu vista la città cambiar d'umore, farsi piú gaia, o almeno piú serena, darsi quasi dell'arie di salotto: era il 1698. Nella grigia Milano ispanizzata, bigotta aristocratica e musona, si comincia a sentir qualche risata, uno spirito nuovo si sprigiona; nei modi di don Carlo è già palese il settecento frivolo e cortese. Il re di Spagna non lasciando eredi, scoppia la guerra per la successione: le varie dinastie son tutte in piedi, attratte da quell'ottimo boccone, e Vittorio Amedeo giostra con arte per aver anche lui la propria parte. Il duca di Savoia, a tutta prima, credette nel successo franco-ispano; ma poi piú saggio e piú prudente stima schierarsi con gli Austriaci, ed a Milano, dopo quel voltafaccia, in pochi mesi giungono infatti gli Austro-Piemontesi. Franco-Spagnuoli, chiusi nel Castello con quattromila e cinquecento fanti, bombardan la città, sordi all'appello della ragione, e i miseri abitanti, terrorizzati dalle colubrine, si vanno a rintanar nelle cantine. Lí, strilli e pianti: «Maledetti diavoli, quaggiú la fine ci fan far del topo!»... E vi lagnate voi, cari trisavoli: ma se sapeste quel che accadrà dopo, fra duecentotrent'anni ad un dipresso, non fiatereste piú (viva il progresso!...). Parteggiavan frattanto, i cittadini, chi per l'austriaco, chi per lo spagnolo ed il francese (piú all'austriaco inclini, or che questo vinceva), intesi solo - in cantina lasciato il patrio orgoglio - a salvare la pelle e il portafoglio. Finir sotto i Savoia - non par vero - sembrava loro il massimo pericolo: mentre prima ubbidivano a un Impero, sarebbe stato quanto mai ridicolo, sarebbe stata la peggior dell'onte, ora, ubbidire al piccolo Piemonte!... Spettava la Sicilia al savoiardo, secondo i patti, ed ebbe la Sardegna, invece, con il titol di re sardo: sembrò per un momento che in consegna, anziché la Sicilia, a quel sovrano fosse dato il ducato di Milano. Milano s'indignò: «Belle pretese!» - è un vecchio senator che si strabilia: «Una sola città del Milanese val piú di tutta quanta la Sicilia»... Ma, senatore, perché mai s'impenna? La faremo dipendere da Vienna... (Quanto alla patria ed all'indipendenza, per il momento se ne può far senza.) LV Napoleone Bonaparte entra a Milano (1796) Passato il buon Giuseppe a miglior vita, macchina indietro: niente piú riforme. L'Europa è in ansia, Vienna è sbigottita, mentre, a svegliare un popolo che dorme, giunge d'oltralpe e scuote il Bel Paese l'eco eccitante della «Marsigliese». Conservatori e innovatori; ai ferri corti, son ora in piena ebollizione: vuole qualcuno, come Pietro Verri, l'apertura a sinistra; altri s'oppone. Cesare Beccaria, Verri, il Parini sono additati come giacobini... È un pericolo pubblico la Francia insorta, giacobina e regicida; la vecchia Europa coalizzata lancia a quei ribelli una sprezzante sfida. E la sfida è raccolta: «Eccoci qui!» quei ribelli rispondon da Valmy. Nella Liguria irrompono i Francesi: ventisettenne appena, il Bonaparte, polverizzati gli Austro-Piemontesi, lungo l'arco del Po, novello Marte, sovvertitore d'ogni strategia, in poco piú d'un mese è in Lombardia. Intorno all'arciduca Ferdinando, come all'arrivo d'Attila, Milano si rifugia nel Duomo, supplicando Dio perché arresti quei demòni: invano! A capo d'un esercito di prodi scalzi e affamati, il Bonaparte è a Lodi. Mentre il tamburo chiama all'adunata la sparuta milizia cittadina tra una folla sgomenta e rassegnata, l'arciduca va via quasi in sordina. Resta al governo l'ultimo vicario di provvisione, il Nava, uomo bonario, non all'altezza della situazione, senza precise idee, senza energia; e manda ad incontrar Napoleone Melzi d'Erìl con un'ambasceria. E un po' nervoso e brusco il generale, ma, in fondo, assai trattabile e cordiale. «La Francia» egli dichiara «è ben felice d'avervi liberati, Milanesi; essa non viene da conquistatrice, e sarete da lei sempre difesi: non vi resta che scegliervi un governo libero democratico e moderno». Entra a Milano il quindici di maggio: gli va incontro, togliendosi il cappello, il Nava con la Giunta a fargli omaggio. S'arrendon, poi, gli Austriaci del Castello. E, come tutte le città lombarde, anche Milano è un'orgia di coccarde: viva la libertà... morte ai tiranni!... Viene armata una Guardia Nazionale. «Non combattiamo piú da duecent'anni», dice Melzi d'Erìl, ma il generale lo rassicura: «Accanto ai nostri eroi, imparerete a battervi anche voi». Intanto, da Palazzo Serbelloni, dove s'insedia, come prima imposta richiede alla città venti milioni: bella è la libertà, certo, ma costa... (lo stesso nostro Dante lo dichiara: «libertà vo cercando ch'è... sí cara»). E tuttavia che festa: è come a nozze... Sfolgoranti spettacoli alla Scala, per il Córso magnifiche carrozze, con le signore in abito di gala. Ed i Francesi, gente comme il faut, fraternizzan col popolo: però... di quella singolar «fraternité», ne sa qualcosa... Giovanin Bongee. LVII Napoleone incoronato re d'Italia (1805) Fine dell'epopea napoleonica Il Console diventa imperatore, il presidente ha il titolo di re ed ha per vice un giovine signore: il suo figliastro Eugenio Beauharnais; Melzi d'Eríl diventa cancelliere (purché la cosa duri: è da vedere...). Napoleone è incoronato in Duomo - presente l'arcivescovo Caprara - con la corona ferrea, che il grand'uomo vuol cingere da sé, mentre dichiara, e di superbia e d'enfasi trabocca: «Dio me l'ha data, guai a chi la tocca!» Milano seppe adempiere l'ufficio di capitale ed applaudì con zelo: feste, tripudio, fuochi d'artificio, un pallone aerostatico nel cielo; ma da quel cielo occhieggiano, non scorte, le furie della guerra e della morte. Nessuno ancora in quel gran giorno immagina che una guerra fra i popoli è imminente; e Milano vi scrive la sua pagina: la Legione Lombarda è ognor presente; Pietro Teulié, soldato di valore, cade in battaglia accanto al tricolore. Furon anni di lutti, ma fecondi: il seme della patria è ormai gettato, pur se il sogno di Cesare sprofondi nelle nevose steppe, insanguinato, ed a Milano dal disastro immane pochi sbandati tornino ed... un cane! (Conoscete la storia di «Tosino»? Andato in Russia con un reggimento di Milanesi, il piccolo volpino torna a Milano zoppo e macilento, coi resti dell'esercito, e si ferma alla garitta della sua caserma). E arriva quel fatale anno '14 della disfatta e della codardia. Tornato Eugenio dai disastri nordici, difende come può la Lombardia, arrestando sull'Adige il nemico: ultimi sprazzi del valore antico... Mentre in Mantova Eugenio è rinserrato, l'austriaco Bellegarde entra in Verona; Melzi propone al popolo e al Senato che il viceré conservi la corona, cercando di salvare il regno italico: Milano insorge con furor vandalico. È il venti aprile: una Milano atroce, insospettata; un odio disumano, che esplode sotto il peso d'una croce: i sacrifici sopportati invano, la sua piú bella gioventú distrutta... Ed in quell'odio ce la mette tutta. La folla, in preda a un'ira belluina, devastata la sede del Senato, corre alla caccia di Giuseppe Prina e orrendo scempio fa del disgraziato (ministro, per colui che lo ignorasse, delle finanze: l'uomo delle tasse...). Ugo Foscolo, ancora in uniforme di capo battaglione, inutilmente cerca d'opporsi a quelle urlanti torme, scatenate, impazzite e truculente: per frenar quel furore demoniaco, è necessario l'intervento austriaco!... Riscatterà, Milano, il gesto orrendo, ed il suo onore, e quell'infausto aprile. Al Bellegarde il viceré, partendo, dice sprezzante che l'Italia è vile che un solo ideale han le sue folle: non pagar tasse e starsene in panciolle. Signori Austriaci, ancor trentaquattr'anni avrete alcuni grossi disinganni... LIX Le cinque giornate (18-22 marzo 1848) Sognavan tutti i popoli d'Europa, prima ancora che uscisse il Capitale, di spazzar finalmente con la scopa gli avanzi d'un regime medievale. Ed ecco il Papa, dallo stesso tempio di Pietro, dar per primo il buon esempio. Fin dal '46, salito al trono, con le riforme sue papa Mastai si fa ovunque acclamar: «Viva Pio nono!» impiegati, artigiani ed operai gridano per le strade di Milano, in preda ad un delirio sovrumano. L'arciduca Ranieri, che governa la città da trent'anni, è un uomo molle, ha spesso slanci di bontà paterna e mal s'adatta a queste incaute folle, che adesso contro Vienna hanno il coraggio d'usar la guerra fredda e il sabotaggio. E quando ha inizio l'anno '48, per danneggiar le casse dello Stato, non c'è nessuno piú che giochi al lotto, gli uomini tutti al fumo han rinunziato (dotate allora di maggior giudizio, le donne non avevano quel vizio). Radetzky, invece, è un duro: e chi ne frena l'ira funesta? A scopo rappresaglia, per le vie di Milano egli scatena la prepotenza della soldataglia. Morti, feriti; insultano, i Croati, lo stesso podestà Gabrio Casati. Il maresciallo, all'ira ed allo sdegno dell'infelice popolo, risponde con lo stato d'assedio in tutto il Regno; ma il diciassette marzo si diffonde una notizia, e gli animi trasporta: Vienna operaia è finalmente insorta! Il giorno dopo, verso dodici ore, Casati e l'arcivescovo Romilli vanno a parlare col governatore, che esorta i Milanesi a star tranquilli; ma dinanzi al palazzo di Monforte il popolo fa ressa, urlando: «A morte!» Intanto, fra Monforte e San Damiano si leva già la prima barricata; ed il governo cede: avrà Milano, seduta stante, una sua Guardia armata, mentre s'obbligheranno i polizai a far fagotto e a non tornar più mai. Ma Radetzky è tranquillo, ha centomila soldati con duecento e piú cannoni: «A casa, cittadini, o tutti in fila vi faccio massacrar come montoni!». E le ordinanze vengono proscritte. Le barricate sorgono piú fitte. Le truppe austriache bloccan l'abitato fra i bastioni e la Cerchia dei Navigli. Un Consiglio di guerra improvvisato nel palazzo Taverna di via Bigli s'aduna, presieduto dal Cattaneo. Dilaga il moto, unanime e spontaneo. Si prodigano tutti, uomini e donne, vecchi e fanciulli; ognuno è un combattente, la città vive in un fervore insonne. Radetzky chiede tregua: inutilmente. E con i suoi duecento e piú cannoni arretra sempre piú verso i bastioni. Il ventidue, l'attacco a Porta Tosa, ribattezzata poi Porta Vittoria: nella mischia serrata e sanguinosa i ribelli si coprono di gloria; il maresciallo, vinto da quei prodi, prende la fuga per la via di Lodi. Si, fra non molto tornerà, ma intanto gliele han suonate in modo sacrosanto... LXI Napoleone e Vittorio Emanuele entrano a Milano (8 giugno 1859) Cecco Beppe a Milano inutilmente chiede un applauso... Strano: sul suo cuore questa Milano ha un fascino potente, anche se in lui s'accumula il rancore: perché, pur cosí bene amministrata, freme, complotta, s'agita? Che ingrata... Anche il Radetzky dalla grinta dura ama Milano: a modo dei tiranni, s'intende; e morirà fra, queste mura, nel '58, a piú di novant'anni, lui pure a questo popolo cocciuto chiedendo invano un segno di saluto. A governar Milano era il fratello di Francesco Giuseppe, l'arciduca Massimiliano, «il puro, il forte, il bello»: sembra che tutto il mondo egli seduca con i suoi modi semplici e cortesi: seduce tutti, fuor che i Milanesi. Andrà a morire fra i ribelli Atzechi, povero imperator Massimiliano... Ora, per quanto i suoi sorrisi sprechi, non sa riuscire a conquistar Milano: una Milano manifatturiera, che lavora in silenzio, e aspetta e spera... Son passati dieci anni e dieci mesi dalle Cinque Giornate: ormai la fine del martirio è suonata... Milanesi, usciamo dalle mura cittadine: Cavour ha fatto un'opera coi fiocchi, a cui sta dando gli ultimi ritocchi. Il piccolo Piemonte non invano ha mandato i suoi uomini in Crimea; questo ha permesso al popolo italiano d'entrar nella politica europea: grazie a quell'uomo e grazie alla sua arte, avremo a fianco il terzo Bonaparte. Nei primi giorni del '59, alla Scala la «Norma» del Bellini in un èmpito lirico commuove gli spettatori: mille cittadini sorgono in piedi ed al famoso coro «Guerra guerra» s'uniscono anche loro. E c'è, la guerra: il ventisei d'aprile, Cavour respinge il tanto sospirato ultimatum austriaco. Tra le file dei Piemontesi accorron d'ogni lato d'Italia i volontari. È il nostro maggio: lo illuminan la fede ed il coraggio. Giuseppe Garibaldi è entrato a Como; Francia ed Italia han la vittoria in pugno, gli Austriaci sono in fuga. Alto sul Duomo sventola il tricolore: è l'otto giugno. Accanto a re Vittorio, dal Sempione entra l'imperator Napoleone. E si riprende l'epico cammino: mèta, Venezia... Il popolo entusiasta festeggia Solferino e San Martino, quando 1'imperator, dicendo: «basta!», offre ad un'Austria sopraffatta e stanca l'improvviso armistizio a Villafranca. Ma l'unità d'Italia è ormai compiuta, il resto verrà dopo... Quando seppe che per l'Austria Milano era perduta per sempre, dal dolore Cecco Beppe scoppiò in singhiozzi, povero figliolo... A pianger, tuttavia, non era solo: anche in Italia, a Roma soprattutto, parecchi insieme a lui tennero il lutto.. IL 1859 I Era un piccolo Stato, il Regno sardo, tutto raccolto nelle sue città, nelle sue valli, sotto uno stendardo che risaliva a ottocent'anni fa. Ma se a Napoli, a Roma, in suol lombardo, ovunque, il boia è in piena attività, è, quel piccolo Stato, il baluardo ultimo e solo della libertà. E scampati alla forca o alla galera, è lí che si rifugian gl'Italiani, ribelli alla tirannide straniera: vinti esiliati profughi dispersi, nella vibrante attesa del domani, congiuran nei caffè scrivendo versi. II Era un piccolo Stato e, tuttavia, da solo combatté contro un Impero. Diceva Carlo Alberto a cuor leggero: «L'Italia fa da sé». Dolce follia... Non sempre è dato d'atterrar Golia con la fionda di Davide, è pur vero, ma c'è un'arma piú valida: il pensiero; c'è un'arma e un'arte: la diplomazia. Era un piccolo Stato, ancor fedele al suo vecchio vessillo e al suo sovrano: il giovane Vittorio Emanuele. E andò con due giganti a Sebastopoli, per poter dire: «Il popolo italiano vuol la sua patria, come gli altri popoli» III Era un piccolo re, fra quei giganti, ma a quei giganti il giovane signore sui campi della gloria e dell'onore aveva offerto il sangue dei suoi fanti. Piccolo re, ma al grido di dolore che gli giungeva dai fratelli ansanti, come a un grido di martiri e di santi, non rimase insensibile il suo cuore. Tutta una patria che in silenzio aspetta: insanguinate, in ogni sua contrada anche le pietre chiedono vendetta. Gli giunse il grido dei fratelli oppressi, ed il piccolo re trasse la spada e chiamò quella patria al resurressi. IV Piemonte ed Austria: Davide e Golia; Vienna e Torino: il sole e la candela... E il Tessitore tesse la sua tela col filo azzurro della fantasia. La guerra all'Austria... Il Bonaparte anela, malato un po' di megalomania, la grandezza dei Cesari... E via via l'opera paziente si rivela. Lusinga il franco irrequieto sire quel popolo che sorge dalla tomba assetato di gloria e d'avvenire e alla sua spada affida i suoi destini: ha giovato a qualcosa anche la bomba ammonitrice di Felice Orsini... V Il convegno è a Plombières. E nel conforto del ridente villaggio idroclimatico si svolge l'arduo gioco diplomatico fra il Bonaparte e il piemontese accorto. Se a Giuseppe Mazzini - e non a torto - l'antico carbonaro è un po' antipatico, non spiacerebbe al Cesare enigmatico esser l'eroe d'un popolo risorto. Scenderebbe anche lui nel Bel Paese: Lodi, Arcole, Marengo... Ed il passato s'avviva al sole delle nuove imprese. L'imperatore ha un animo romantico ed accarezza il sogno naufragato nell'isoletta dell'Oceano Atlantico... VI L'accordo è ormai raggiunto, le segrete clausole del trattato sono pronte: Parigi firmerà. Sorride il Conte serenamente alle future mete, anche se caro pagherà il Piemonte: Nizza e Savoia son le sue monete. E voi, piegate la gentile fronte, principessa Clotilde, e non piangete: i vostri sedici anni han riservato ad un cugino dell'imperatore: lo chiamano Plon-Plon... Strano mercato per la vostra ragione e il vostro cuore: ma c'è soltanto la ragion di Stato, oggi, e l'amor di patria è il solo amore VII Il Tessitore tesse la sua tela e sente che il gran giorno è già vicino; ma i suoi timori agl'intimi non cela: l'imperatore è infido e sibillino. E di quel loro incontro clandestino qualcosa in Francia e all'estero trapela: Walewski, che diffida di Torino, richiama il Bonaparte alla cautela. L'imperatrice un monito gli lancia: Napoleone non è piú un tribuno o un carbonaro, è imperator di Francia. E in Francia la crudele verità è che la guerra non la vuol nessuno. Ma la vuole Cavour e si farà. VIII Ma, piú degli altri grandi, è l'Inghilterra che si dichiara di parer contrario: nel Continente - pensa - un'altra guerra può turbar l'equilibrio già precario; pensa che, unito, un dí (forse non erra) quello Stivale, adesso frammentario, le darà qualche noia: e se l'afferra la smania dell'impero ereditario?... Fa allora riferir, Napoleone, al Conte già sicuro del successo, ch'è meglio rimandar l'operazione. in un messaggio, freddo come il marmo, gli dice che, in attesa d'un Congresso, per ora è consigliabile il disarmo. IX quando gli confermano che quella è del Francese l'ultima parola, il Tessitore, con un nodo in gola, contro il destino amaro si ribella. Perde la calma, che gli fu sorella sempre nell'ore avverse ed - Una sola cosa mi resta, - dice: - una pistola che mi faccia saltare le cervella... - Coraggio, Conte: all'ultimo minuto, vedrà che soccorrevole e gentile la stessa Vienna Le verrà in aiuto. infatti l'Austria, in barba all'Inghilterra, a re Vittorio, il ventitré d'aprile, consegna un ultimatum: è la guerra... X La immaginate, voi, Piazza Castello in quell'incomparabile mattino?... Da tutta la Penisola a Torino i volontari accorrono all'appello. Il general Giulay varca il Ticino, ma lo ripassa in fuga: è Montebello. Poi Palestro... Magenta... Ed un drappello verso il «noster Milan» è già in cammino. Giuseppe Garibaldi entrava a Como, mentre a Milano il tricolor saliva sulla piú alta cuspide del Duomo. E nel trionfo che la folla ammalia, non «Viva Verdi» piú, si grida «Viva Vittorio Emanuele, re d'Italia». XI Il Chiese, Solferino, San Martino... Sono con noi la gloria e la fortuna: contro il Tedesco, il popolo latino uno stesso ideale oggi accomuna. E i combattenti sognano la luna del Prati sul largo Adige turchino, sognan la marcia verso la Laguna, dove Venezia attende il suo destino. Sul ponte, che in un giorno di dolore ha visto sventolar bandiera bianca, sventolerà di nuovo il tricolore... Ed ecco l'otto luglio, Villafranca, il tradimento dell'imperatore... E piegò l'ali la Vittoria stanca. XII Ma ormai l'Italia è fatta, ed i sovrani stranieri, messi al bando, son fuggiti per sempre... Garibaldi, i Plebisciti, alcuni eventi fortunati e strani, gli stessi grandi con le loro liti completeran l'Italia di domani: ci saranno da fare gl'Italiani, rimasti provinciali e disuniti. Divisa ancor tra guelfi e ghibellini, a volte in preda a un'ansia forcaiola, ligia ai suoi vecchi e frusti burattini, non è l'Italia che sognammo a scuola, non è la tua repubblica, Mazzini: ma non è detta l'ultima parola. Fine |