Poesie di Alberto Cavaliere


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Alberto Cavaliere nacque a Cittanova (RC) il 19/10/1897 e morì a Milano il 7/11/1967 in seguito alle ferite riportate in un incidente stradale a S. Remo.
Laureatosi in Chimica presso l'Università di Roma, dopo aver lavorato presso il Ministero dell'Aeronautica come chimico, all'impiego statale preferì la libera professione.
Fu attore, scrittore, giornalista, poeta, umorista e politico. Autore tra l'altro della Chimica in versi.
Fu eletto consigliere del Comune di Milano e successivamente Deputato al Parlamento Italiano.

Reparto agitati (1936)
Manicomio di Reggio Emilia
cucchiai di legno, patate,
urli, custodi e l'estate
afosa.... Che lunga vigilia!
                      ***
La saggezza è degli uomini ridicoli.
Amo la mia follia, la sovrumana
gioia dell'inatteso, amo i pericoli
dell'ombra, l'avventura più lontana.

La buona strada è ingombra di veicoli,
di polvere, di luce; ed un'insana
ebbrezza mi trascina per i vicoli
più foschi, più tortuosi, donde emana

un lezzo d'immondizia, ove s'aggira
la miseria e il delitto, ove un malvagio
incubo grava con attonita ira.

Ho la tempesta dentro il cor randagio:
verso un oceano livido m'attira
verso un oceano livido m'attira
la voluttà suprema del naufragio.

Ricordo che scrissi così,
un giorno, quand'ero tra i folli
(reparto Casino Conolli),
sul muro, firmandomi : A. C.
                   ***
Manicomio di San Maurizio,
cinto di mura e di sbarre.
Che tedio! che cose bizzarre!
che malinconico ospizio!

Non saprei dire che volli,
che dissi di strano, che feci
fui il pazzo del numero dieci,
reparto Casino Conolli.

Ricordo, però, che mi parve
di giungere a un funebre lito,
traverso a un oceano infinito,
fra un popolo triste di larve,

in una scogliera selvaggia,
in un desolato abbandono,
oggi che, libero, sono
tornato fra la gente saggia.

Ma non sono cattivi i pazzi!
Sono dei bravi ragazzi,
con tutti i loro vaniloqui;
sono degli esseri innocui,
con tutta la loro demenza
han lasciato dietro quel cancello
di ferro l'eterna semenza
del male: han perduto il cervello.
E van per un vasto giardino
con gli occhi inchiodati nel vuoto ;
van dietro un fantasma ignoto,
per sempre, senz'altro, destino.
                ***
Capitato nella stanza
d'un signore canadese
(non ci son forse abbastanza
manicomi al suo paese),

una stanza tutta a specchi,
ho veduto i miei vent'anni
logorati come vecchi,
sprofondati in certi panni!...

Le mie labbra eran sbiancate,
la mia barba senza cura,
le pupille dilatate
dietro un sogno di paura.

Così tetro mi son visto,
ch'ho esclamato ad alta voce
- Cavaliere, sembri Cristo
inchiodato alla sua croce ! -

E un dì, per passar dell'estate
le lunghe e noiose giornate,
mi divisi la barba in due bande ;
in due bande divisi,
specchiandomi ai vetri, i capelli ;
studiai strani sorrisi
e uscii nel giardino : - Io son grande!
Io sono Cristo, o fratelli ! -
Innanzi a me un crocchio
di pazzi, con le braccia alzate,
con le pupille stralunate,
si mise in ginocchio....

Un vecchio dottore
mi faceva strane domande;
gli rispondevo: - Adorami,
perché io son Cristo, io son grande !
E il vecchio dottore fingeva
di baciarmi la mano ;
ma poi, com'era lontano,
grave la testa scuoteva.
Ed io scuotevo la mia
-Povera psichiatria!... -

             ***
C'era un avvocatino,
povero avvocatino settantenne!,
con una chioma lunga, bianca bianca,
e una barba solenne
mi faceva un inchino,
m'accarezzava con la mano stanca.

- Son qui da quarant'anni !
Quando morrò, Gesù,
rispondi, il manicomio
c'è forse anche lassù? -

- Lassù? C'è un grande palazzo d'oro
pei derelitti di questa vita
tutto un giardino, tutto un tesoro,
ed aria libera, luce infinita.... -
- E donne, Cristo, donne, ne vedi?-
- Oh, bionde, brune, tutto un fiorire ! -
L'avvocatino, curvo a miei piedi,
mi supplicava : - Fammi morire!...-

                  ***
Un, giorno era caduto,
correndo pel viale
dietro chi sa quale chimera stramba,
e s'era fatto male,
povero avvocatino, ad una gamba.
Io corsi a dargli aiuto:

lui mi rimproverò di cattiveria.
Io ricordo: che cosa desolante
quell'aspetto d'agnello agonizzante,
quell'espressione di persona seria!...

                    ***
Alle sette l'adunata
un po' d'aria ai prigionieri.
Alla breve passeggiata
ci s'andava volentieri,

benché sempre per l'uguale
e monotono cammino:
dal recinto del giardino
fino in fondo ad un viale.

Verde ed ombra, uccelli in festa:
c'era un'aria di campagna;
ma un custode andava in testa
ed un altro alle calcagna.

Si vedeva in lontananza
la muraglia senza uscita,
oltre cui c'eran la vita,
il sorriso, la speranza.

A sinistra uno steccato,
indi un rustico cancello;
poco lungi un isolato
cinto d'alberi: era quello

il reparto delle donne;
e talune, provocanti,
sorridevano ai passanti,
sollevandosi le gonne.

E ogni volta l'avvocato
si fermava per vedere,
con un grido soffocato
di sorpresa e di piacere.

Trepidante, rosso in viso,
ribellandosi alla scorta,
stava li, presso la porta
del vietato paradiso

- Oh, vaghissime donzelle
Oh, delirio sovrumano!...
E lanciava alle più belle
lunghi baci con la mano.

Non che fosse un dongiovanni
tanto meno un libertino
Capirete : poverino,
era lì da quarant'anni!...

             ***
Il custode circospetto,
ogni sera alle nove, veniva
per vedere s'io fossi già a letto ;
guardava intorno, un po' grave:

- Buona notte ! - ed usciva
chiudendomi a chiave.
Poi si spegneva la luce:
allora nel silenzio truce
- il cuore tremava un tantino -
sorgevano ombre strane.
In alto un finestrino
mostrava un sorriso di stelle
disperatamente lontane.
A volte, sulle ali del vento,
giungevan di là, dal Casino
Pinel, degli urli rabbiosi,
che davano all'anima
un brivido di sgomento.
Il Casino Pinel, Dio mio!
La casa dei pazzi furiosi...
E se tutto ad un tratto,
come càpita spesso ad un matto,
diventassi furioso pur io?

Io, un giorno, li vidi
da presso quei poveri pazzi
e so come gridi,
so come sghignazzi
la spaventosa Follia.
Non sembran degli esseri umani
quando nessuno li spia,
si strappano con le mani
le carni; taluno, impotente
nella camicia di forza,
ulula, geme, si sforza
di liberarsi, o implora
perdono; altri, ancóra,
come ombre disperate,
camminan su e giù eternamente
per una stanza imbottita,
o tendono dalle inferriate
delle finestre le braccia,
maledicendo la vita
con una vana minaccia....
Oh, certo, nessuno laggiù
bacerebbe la mano a Gesù!
                    ***
No, molto meglio non impazzire,
metter la testa sotto il cuscino,
non sentir nulla, forse dormire,
come a quest'ora l'avvocatino:

l'avvocatino che pure è pazzo,
che ha tante pene nel cuore insonne,
ma sogna adesso quel gran palazzo,
pieno di luce, pieno di donne!...

Cartoline illustrate
Erano nel salotto della nonna,
alle pareti - le ricordo tutte,
dalle più raffinate alle più brutte -
fra il ritratto dell'avo e una madonna

cuori trafitti e cinti da catene,
quadrifogli con la scritta in oro
« Non ti scordar di me! » « T'amo! » « T'adoro! »
« Ma l'amor mio non muor! » « Ti voglio bene ! »

il « Buon Natale » in mezzo ad una stella
alla culla d'un bimbo appena nato,
un moschetto e una rosa col soldato
che mandava un saluto alla sua bella.

E ve n'eran d'audaci : ecco una bruna
invitante, procace, un po' scollata,
ed un uomo in camicia inamidata,
che la baciava al lume della luna.

E ve n'eran di buffe : un'albicocca
con gli occhi e il naso, che faceva chiasso
e che risate, poi, quell'uomo grasso
col fiasco in mano e con la pipa in bocca!

E baci, baci e memori saluti:
baci e saluti dedicati a nomi
dimenticati, simili ad aromi
svaniti, a un mondo di fantasmi muti.

E ve n'eran del babbo e della mamma,
con una data : millenovecento
(lune, piccioni, gondole d'argento),
seguite forse a un dolce telegramma.

Erano stinte ormai, stinte e macchiate:
quei baci, quei ricordi, quei pensieri
eran coperti di puntini neri,
perché le mosche... sempre scostumate!

A un tratto, dal salotto della nonna
fuggiron, poi, verso un destino ignoto;
e sembrò così lugubre quel vuoto
fra il ritratto dell'avo e una madonna!

Un bel giorno scomparvero : mistero!
Le gettaron nel fuoco, poverine!...
Oggi s'usano ancor le cartoline,
perché, in fondo, fan comodo davvero:

puoi confortare il mesto creditore
con «un saluto » dietro il panorama
e in « un abbraccio da colui che t'ama. »
condensi quattro pagine d'amore,

o fai sapere a dodici persone,
con « un ricordo », senza averne l'aria,
che conduci una vita amena e varia,
che prendi i bagni a Rimini o a Riccione.

Ma cerchi inutilmente - per fortuna! -
nell'austero salotto della nonna
un signore in camicia ed una donna
stretti in un bacio, al lume della luna.

Presepe
Forse era notte, ed una notte pura,
perché nel cielo ardevano le stelle,
mentre i pastori con le ciaramelle
guidavano le greggi alla pastura.

E come luccicavano quegli astri
di carta d'oro! Intorno, qualche lieve
bioccolo di bambagia: era la neve,
sparsa sui monti; e serpeggiavan nastri

d'argento per le valli: erano i fiumi...
Notte; ma dappertutto erano sciami
di bimbi, e lavoravan falegnami
innanzi alle botteghe senza lumi,

e vecchiette: filavano davanti
alle capanne, e v'eran cacciatori
nei boschi (coi fucili!...) e mercatori,
e le strade eran piene di viandanti,

sui muli, a piedi, a dorso di cammello;
e andavan tutti verso un lumicino,
ch'era la grotta di Gesù bambino
con la greppia, col bue, con l'asinello...

Sorgeva una divina sensazione
di mistero, di pace, di riposo
da quel miscuglio ingenuo e delizioso,
da quel mondo di gesso e di cartone.

E in una gioia attonita sommerso
era il cuore del bimbo trasognato...
Le campane suonavano: era nato
colui che disse: «pace! » all'universo;

colui che predicò lungo le rive
del bel Giordano e disse: « perdonate
a chi v'offende, a chi v'opprime! » e: « date
- disse - a chi chiede, e amate anche chi vive

oltre il confine della vostra siepe!... »,
come il vecchio pievano, umile e saggio;
nella chiesetta bianca del villaggio,
ci raccontava, accanto al suo presepe.

Passaron gli anni quell'azzurro cielo
si rabbuiò; sull'anima randagia
quei bianchi, lievi fiocchi di bambagia
piovvero in fitti granuli di gelo,

Ma quegli astri di carta, quella culla
di fieno, quegli arcangeli di noce
parlano ancora con la stessa voce
che ci commosse l'anima fanciulla,

e dicon: « pace ! » al trasognato cuore,
dolci come una musica lontana,
e gli fanno capir quanto sia vana
la sua piccola storia di dolore:

perché, malgrado tutti i suoi naufragi,
malgrado le sue misere procelle,
vi son nel cielo quelle stesse stelle
che un giorno illuminarono i Re Magi;

e fra le stelle, ermetico, tenace,
quello stesso mistero, immobilmente;
e sempre, al mondo, quella stessa gente
con. la sua vana, eterna ansia di pace.

E tende, illusa, il cuore a questa Buona
Novella, nell'oblio d'una giornata,
la vecchia umanità sconclusionata,
che non dà, che non ama e non perdona.

Il castellano folle
Il mio cuore è il superbo castellano
d'un maniero lontano,
librato fra le nuvole turchine.
Nella bella dimora solitaria,
fatta di luce e d'aria,
nella celeste mole,
tutta iridata dalle nubi alterne,
son sinfonie divine
di primavere eterne,
musiche di silenzio ebbre di sole.

E il mondo.... Com'è vano,
com'è piccino il mondo,
veduto da lontano
Non altro che un giocattolo rotondo
che gira gira come un arcolaio
e che un bel giorno si frantumerà
entro le mani del burattinaio,
lo Sconosciuto dell'umanità,

Il castellano pigro e trasognato
vive nella sua reggia
Tranquillo e spadroneggia spensierato.
E ai suoi banchetti - ahimè, troppo ideali!-
ogni giorno convita
in grande intimità
le figure retoriche
delle cose immortali
che allietano la vita
l'Amor, la Gloria, la Felicità...

Ma spesso nella notte esce il Cervello,
feroce menestrello
tutto vestito a nero,
che va dove gli frulla,
strano disoccupato trovatore,
che corre sempre e che non trova nulla.
E sempre la medesima canzone
canta sotto un balcone
dell'aereo maniero:

O inutile signore,
che in così alto sito
non temi il raffreddore,
ne senti l'appetito;

che, solitario e imbelle,
strimpelli serenate
e pensi che le stelle
ti siano molto grate,

l'illusione stolta
da troppo tempo dura
il cielo non t'ascolta
e il mondo non ti cura.

Scendiamo ! Che tracollo,
se si solleva il vento!
Ci romperemo il collo,
signore sonnolento !

Così canta il feroce menestrello,
che va dove gli frulla,
il nero trovatore
che corre sempre e che non trova nulla.

E il povero signore,
malgrado l'abitudine, s'adombra:
dapprima il dubbio, come un pipistrello,
creatura malefica dell'ombra,
intorno gli svolazza ;
e a poco a poco una rincorsa pazza
di larve disperate
mette sossopra il magico castello.
Vacillano le mura:
crollano nell'abisso frantumate.
Né si può dir se tremi di paura
o se di freddo tremi
il disgraziato eroe dei miei poemi,
incatenato dalla notte oscura.

Ma, come nasce il giorno e il sole irradia
la sua luce immortale,
le fosche larve sfumano
dalla celeste Arcadia
dove il mio cuore vive d'ideale.
Tutto è tranquillo fra le azzurre sfere
le nubi sono un letto di bambagia...
E fra le coltri delle sue chimere
il castellano folle si riadagia.

Temporale estivo
Agita appena un brivido di gelo
le foglie immote e attonite. L'avviso
dardeggiante d'un lampo ed ecco il riso
folle del tuono rotolar dal cielo
sulla terra sconvolta, all'improvviso.

E la terra supina, avida, assaggia
le prime gocce. Dopo, l'acqua scroscia
violenta, irrefrenabile, selvaggia.
Si gonfia, nella piena dell'angoscia,
il mare urlando alla deserta spiaggia.

Ci ripariamo sotto una tettoia,
a precipizio... È bello l'uragano,
pieno di forza e di mistero. È strano
sentiamo il nostro cuore ebbro di gioia.
Ed io rimango avvinto alla tua mano.

Siamo come due rondini smarrite,
ma ridiamo felici alla bufera
l'estate muore e sembra primavera,
tanta freschezza è nelle nostre vite,
tanta divina gioia è nella sera.

E la gioia che il cielo umido sente
nelle stelle nascoste, che fra poco
fioriranno, poiché già più fioco
diviene il tuono e il cielo all'occidente
ha barbagli di porpora e di fuoco.

Finita? Dalle siepi dei giardini
non piovon più che garrule rugiade
sulle tue braccia nude, mentre invade
un forsennato odor di gelsomini
il silenzio dei parchi e delle strade.

E ti gocciola l'acqua dai capelli ;
e tu,ridendo d'un tuo riso d'oro,
scansi leggera i piccoli ruscelli
fangosi. Intorno, un pigolio d'uccelli
stupiti, che s'interrogan fra loro.

E ci canta, l'amore vagabondo,
mentre nel sogno l'anima è sommersa:
- Non sono che una nuvola, che versa
la sua liquida musica sul mondo
in un sera estiva e va dispersa...-

Pioggia autunnale
E piove! Non c'è più, nel grigio sfondo
del cielo, che una volta senza luce,
da dove un ragno smisurato cuce
la sua liquida trama intorno al mondo.

È bella la tempesta, quando schiaccia
la terra con un impeto omicida
e il tuono, folle, lancia la sua sfida
urlando con dileggio e con minaccia.

Amo la breve e garrula bufera,
che scroscia, fischia, schianta all'improvviso,
quando l'azzurro mesce il suo sorriso
al primo pianto della primavera:

l'umido odore della terra invade
l'aria, su su pei teneri germogli,
e la malinconia dei rami spogli
si veste di promesse e di rugiade.

Ma questa pioggia che, spietata, insiste,
lenta, uguale!... Nei fiori devastati
è il profumo dei giorni dissipati,
come un sospiro rassegnato e triste.

Non fu, l'estate, che un fugace inganno,
col suo cielo, i suoi doni, i suoi stupendi
sogni... Fa quasi freddo : tu rammendi
le mie maglie di lana dell'altr'anno.

Rammendi e taci. Piove. Io taccio e fumo.
La vita è assente, come nube immota.
Piove. Il mio cuore è una boccetta vuota,
da cui s'esala l'ultimo profumo.

Piove, piove... Non so, l'anima alloggia,
come quel cielo, un ragno smisurato.
Dov'è il mondo dei sogni? È dileguato,
avvolto nella bruma della pioggia,

che, lenta, cuce intorno al mio cervello
l'implacabile rete che lo assilla.
Nevrastenia... Tu no : sei più tranquilla;
tu dici: - Piove! Comprerò l'ombrello... -

L'evasione
Ha, imprigionato il sogno, imprigionato
per un mese il gran sogno : è stato un creso,
un re, sacrificando all'inatteso
un anno d'umiltà, lungo e spietato.

- Un principe? un attore? uno straniero?...
Che originale, in quel pigiama rosso!...-
Al Lido tutti quanti han gli occhi addosso
a quel superbo e strano avventuriero.

All'albergo non c'è chi non domandi
chi sia quell'uomo. Il turgido portiere
si sprofonda in inchini : - Cavaliere,
pardon!, commendatore, ai suoi, comandi...-

Su quella spiaggia resterà memoria
di lui : domani andrà coi piedi nudi,
ma ha vinto al Casinò tremila scudi,
che ha spesi in una notte di baldoria.

E donne, donne, donne d'ogni età
e d'ogni tinta innanzi al suo cammino
trenta indirizzi almeno ha sul taccuino,
trenta indirizzi a cui non scriverà.

Finalmente anche lui sa quest'ebbrezza,
che la sua vita, già senza costrutto,
non conosceva : dissipare tutto
in una estate di spensieratezza;

vivere in sogno con la folle gioia
di chi sa passar oltre e non si volta
indietro e corre e ride e non ascolta
le voci dell'affanno e della noia;

di chi fiorisce in una luce gialla
azzurra verde d'oro, in un baleno
di suprema letizia e poi vien meno,
senza rimpianto, come una farfalla...

Ora è tornato. In un armadio cela
quel pigiama sgargiante in seta rossa.
Corre in uffîcio: taciturno, indossa
le vecchie sopramaniche di tela.

E ripensa a quei giorni memorandi,
fugaci come fuochi d'artificio
ha un amaro sorriso. Il capo-ufficio
suona...- Commendatore, ai suoi comandi!-

Nostalgie di Natale
Con quel suo viso d'infermo,
com'è triste questo sole invernale,
appeso alla parete del cielo
come un orologio fermo
nella sala d'un tribunale!
Dategli una mano di calce
ce n'è tanta lassù!
(O forse son candidi cirri,
donde stanotte sorgerà
la pallida falce
della luna?) Toglietelo di là,
gittatelo fra quei poggi
lontani! Quel ghigno spettrale
è fuori di luogo quest'oggi,
vigilia del santo Natale...

Fate che se ne vada!
Tanto, la terra trema
lo stesso di freddo ed il vento
perseguita sulla strada
le povere foglie in tormento!
Oh, fateci rivivere il poema
della notte che s'avanza:
la notte della buona novella
della divina speranza!
Fateci vedere un po' di neve
che sia questa notte la terra
avvolta da un greve
candido manto
e il cielo tutto nero : soltanto,
fra uno squarcio di nubi, una stella,
un angelo d'oro che vola.
Nel tempo beato che fu,
così c'insegnarono a scuola
che nasce il Bambino Gesù...

Fate sentire al nostro cuore,
al nostro povero cuore sfaccendato,
un brano di favola
dove passino ancora i re Magi,
guidati dai raggi
di quella stella sola,
che illumina tutto il creato!
Fateci sedere a una tavola
bandita a festa!
Fateci sentire il suono d'una campana,
la nota d'una preghiera
ne sentivamo tante a quest'ora,
nella tranquillità della sera,
sulla nostra montagna lontana
e bianca, sperduta laggiù
Oh, fateci attendere ancóra,
col cuore tremante d'allora,
che nasca il Bambino Gesù!

Donne alle finestre
Maggio: sui campi l'umili ginestre
sono fiorite; ed in città son, pure
fiorite a un tratto le capigliature
accese dei gerani alle finestre

- a tutte le finestre spalancate
sulle vie, sulle piazze, sui cortili-
e cespi di garofani gentili...
Ma dove son le donne innamorate?

Io non le vedo alle finestre, chine
a ricamare il candido corredo
di nozze; né, se scruto, le intravedo,
evanescenti, dietro le cortine.

Adesso alle finestre o sulle porte,
fra un rosaio appassito e un vaso infranto,
i vecchi paralitici soltanto
sono rimasti, ad aspettar la morte.

Le donne sono scese sulla via,
dove passano i sogni e la fortuna
sulle verande non ce n'è nessuna
a sospirare di malinconia...

Le vostre mani
Se le mie mani vincon la vergogna
(poiché son così rudi e mal curate!)
e sfiorano le vostre, delicate,
le vostre, quasi eteree, non agogna

un maggior bene l'anima, che sogna
a quel tepor di rose vellutate ;
e mi par dì morire ! Quali fate
vi forniscon gli unguenti alla bisogna?

Sembrano mosse da un respiro lene,
da un prodigioso spirito ; dipinto
sembra l'intrico delle tenui vene.

Temo quasi d'infrangerle se, vinto
d'amor, le stringo... E son le mie catene,
son le catene a cui rimango avvinto!

Campane
Campanili protesi come braccia
supplici, so le vostre voci: sono
voci di gioia, voci di perdono,
voci di pianto, voci di minaccia...

Ho udito in una notte di spavento
il vostro appello disperato, fatto
di singhiozzi, di gemiti e ch'a un tratto
si trasformava in ululo di vento

era un grido terribile, selvaggio,
folle, un'invocazione di paura
entro l'orecchio della notte oscura
campane a stormo, genti del villaggio !

Si mescevano all'incubo le grida
degli uomini atterriti : in qualche luogo
l'incendio divampava, come un rogo,
in una furia pazza ed omicida...

Campane a morto. Un altro suono - udite? -
nell'aria, un'altra voce si diffonde
un demone maligno si nasconde
entro le ferree bocche arrugginite;

scuote il batacchio con accordi lenti,
in note ora più lunghe, ora più corte,
insistenti, implacabili : la morte
aleggia sulle case dei viventi...

Ma come bello dalle bronzee gole
s'alza nell'aria gelida e tranquilla
dell'alba nuova il rombo d'una squilla,
l'inno di vita che saluta il sole!

Come sui campi, prodigiosa, immensa,
l'eco risuona del festoso coro
che celebra il meriggio e dal lavoro
gli uomini chiama alla sudata mensa!

E quando il dì nella cadente sera
si spegne, in desideri d'abbandono
e di riposo, come invita, il suono
d'una campana, all'umile preghiera!...

Udite ancora!Un giubilo di festa
irrompe nell'azzurro, una gioconda
ed argentina musica, che inonda
la terra e gli echi delle valli desta

e conforta alla gioia ed all'oblio,
in un sogno dolcissimo e fugace:
il sogno del perdono e della pace,
promessi al mondo dal risorto Dio.

La colpa
Vieni ogni giorno alla mia casa, bella
straniera, amica di colei che m'ama,
esule anch'essa, e verso cui ti chiama
un dolce antico affetto di sorella.

Tu canti le nostalgiche romanze
della patria lontana: ella t'ascolta
e di malinconia piange talvolta
con te; più spesso per le quiete stanze

risuona il trillo del tuo riso chiaro,
la tua garrula voce di bambina;
ma nelle tue pupille s'indovina
un non so che di torbido e d'amaro.

In certi istanti passa sulla pura
dolcezza del tuo sguardo un lampo fosco
di crudeltà, di scherno, che conosco
io solo, io solo, e che mi fa paura.

Siamo nemici. Sempre, al mio ritorno,
baci l'amica; a me, fredda ed ostile,
fugacemente porgi la sottile
mano e vai via, spargendo a te d'intorno

il profumo d'un'acre primavera,
mentr'io con gli occhi ammaliati ed arsi
di desiderio guardo allontanarsi
il tuo corpo di giovane pantera.

« Sii più gentile ! È tanto buona! » dice
l'amica tua, colei che tutto ignora
e non sospetta ch'io, forse fra un'ora,
al tuo fianco sarò, folle e felice,

e che tu a me con tutta la tua vita
t'avvinghierai, perduta in un'opaca
nebbia di voluttà, dove si placa
il pensiero di lei, della tradita...

Oh ! mai nessuna bocca ha prodigato
tali sorsi d'amore alla mia sete,
e mai l'anima mia conobbe Lete
più oblivioso: prima del peccato!

Ma con la carne soddisfatta e stanca,
spenta nel sangue l'ebrietà del vizio,
come sentiamo, dopo, il precipizio
che sotto i nostri cuori si spalanca!

S'io t'accarezzo, tu, d'ira fremente
e di disgusto, balzi: «Non bisogna!»
Sai che la mia carezza è una menzogna;
e l'odio scoppia irresistibilmente.

Io fuggo, sibilandoti un insulto,
esacerbato da un rancore sordo ;
ma la notte non dormo: il tuo ricordo
m'arde le vene come un male occulto.

E torno a te con l'anima piegata
dal desiderio, con stravolto il viso
tu vorresti scacciarmi e in un sorriso
m'apri le braccia, pallida e beata.

Sempre!... Nell'occhio tuo dolce e malvagio
balenar vedo la mia stella triste,
malata, che m'affascina, che insiste,
che mi chiama implacabile al naufragio...

Perversa sei, ma nella tua parola
è una musica oppiata, di sirena,
che m'attira da lungi e m'incatena.
E t'odio perché t'amo: amo te sola!

Non ti scordar di me...
Donne ch'ho amate... Se mi volgo indietro,
le vedo quasi in una nebbia d'oro,
evanescenti : non ho chiuso il loro
ricordo in una scatola di vetro.

Vedo una strada ingombra di fantasmi
pallidi, se mi volgo; e dànno al cuore
un senso di tristezza e di stupore,
dopo i deliri, dopo gli entusiasmi...

Donne ch'ho amate... Oh Dio!, piccole donne:
fiori colti, passando, nel giardino
del mondo e il cui profumo, acre e divino,
talor s'effuse in una notte insonne.

Donne ch'ho amate: alcuna traboccava
d'un bisogno ineffabile di bene,
di dedizione; e delle sue catene
godeva il cuore della dolce schiava.

Altre, esperte di filtri, come maghe
sapienti, prodigarono sottili
lenti veleni all'anima; gentili;
altre, incorporee, d'un sorriso paghe.

Ma un'altra splende ancor come una stella
sui naufragi dell'anima e dispare.
Incontrata in un treno? al lupanare?
per via? Non so: l'ho amata ed era bella...

Non mi son chiesto dove siano, come
vivano e se mi pensino: di tanto
in tanto un fugacissimo rimpianto,
l'eco d'un verso, il balenio d'un nome.

E se, mi volgo, appena, le intravedo:
con dentro gli occhi due tremanti stille,
talvolta, amare, o ironiche, o tranquille,
come le vidi all'ora del congedo.

Oh tra le frasi più stereotipate,
fra gli augurî di bene e di fortuna
- Non ti scordar di me! - mi disse ognuna.
E tutte quante le ho dimenticate.

Una soltanto - ed il suo volto appare
sui miei naufragi, simile a una stella -
« dimenticami ! » disse; e quella, quella,
non l'ho potuta mai dimenticare...

Saluto alla primavera
Che cosa c'è, nell'aria della sera,
che mi commuove come un canto d'organo?
Note che tu non sai da dove sorgano,
e sono l'inno della Primavera.

È tutto e nulla: sono queste case
con le finestre aperte al nuovo sole,
come stupite, sono queste aiuole
parate a festa, queste strade invase

da cascate fantastiche e leggiere
di luce, di profumo, di tepore,
queste donne che mettono nel cuore
un brivido d'angoscia e di piacere.

Donne: le incontro lungo il marciapiede
e un improvviso giubilo m'inonda,
mentre m'annego nella luce bionda,
come un novizio nella propria fede.

Dove correvo già con tanto zelo?
Ora son così placido e distratto !
È così dolce accorgersi ad un tratto
che vi sono le rondini nel cielo...

Vedo una gente pensierosa, scura,
che un'ansia incomprensibile divora:
esiste dunque qualche cosa ancóra
oltre al sole, alle donne, alla natura?

Passa la gente pensierosa : e i fiori
sboccian lo stesso, vibran d'esultanza,
inconsci dell'altrui dimenticanza;
che rïempion di musiche e di odori.

Ed io ritrovo tutte le chimere
pazze e felici dei miei giorni erranti
ed il ricordo degli antichi canti
che scrissi per le stesse primavere,

il ricordo d'effimere parole
sussurrate all'orecchio di un'amante
ignota... Oh primavera! E inebrïante
perdersi nella musica del sole.

Voglio correr sui campi, ove s'effonde
la melodia di questo cielo mite ;
voglio sdraiarmi sulle margherite,
cantando le mie nenie vagabonde.

Penso ch'è così bella una canzone
scritta per gioia, senza, alcun costrutto...
Penso pure, però, che, dopo tutto,
ho un'altra primavera sul groppone!...

Sul Palatino
Io non sono un poeta, un pellegrino,
un vagabondo giunto d'oltremare
per cercar le tue pietre ed ammirare
le tue sacre vestigia, o Palatino.

Sono scettico alquanto e molto savio;
e non credo al saputo cicerone,
che recita la solita lezione
su Messalina, Augusto e Tito Flavio.

Io non vengo a frugare in questa cava
di gloria, dove il popolo latino
scrisse col sangue il giovane destino
del mondo e dove l'uomo scava, scava,

scava il passato. Io cerco un po' di pace,
qui, dove più assordante fu il clamore
del mondo, qui, dove arse il vivo cuore
dell'universo, simile a una face.

La gloria ! Questi ruderi cadenti,
questi avanzi sublimi e sepolcrali
furon vivi fastigi, innanzi ai quali,
un giorno, si prostrarono le genti.

Furon pareti di superbe stanze
questi muri diruti, queste pietre
consunte, dove al suono delle cetre,
un giorno, s'intrecciarono le danze ;

furon marmoree volte di fastose
sale, che risuonaron di conviti,
dove cadevan gli ospiti impazziti
sui tappeti, fra i mirti e fra le rose.

Ora è tappeto il nudo o erboso suolo,
tetto l'azzurro ed ospiti i cipressi.
Solo a notte una musica : i sommessi
accordi del romantico usignuolo.

E ciò che l'uomo edificò, vetusto,
si sgretola, si macera, si perde ;
un prepotente esuberar di verde
copre le soglie del divino Augusto.

E il sole splende, il sole che brillava
sul colle della gloria e dell'impero,
ed illumina adesso un cimitero
fiorito, dove l'uomo scava, scava,

scava il passato. E lungo le pendici
del luminoso colle, in vista al Foro
solenne, vanno, nella luce d'oro,
coppie d'amanti immemori e felici:

gode nel sole, l'anima rapita,
la sua fugace inconcludente storia,
cantando sulla tomba della gloria
il canto dell'amore e della vita.

Monotonia
Sono anni ed anni che puntualmente,
ligio a un dovere che mi s'impose,
incontro sempre la stessa gente,
ascolto sempre le stesse cose;

che, prigioniero della mia vita,
sogno la fuga come un forzato
e senza tregua cerco un'uscita,
con l'ossessione d'un forsennato.

Sono ormai stanco di queste vie,
di queste piazze, di queste chiese,
di queste vecchie malinconie
che son la gloria del mio paese:

di questo sole così fulgente,
di queste mura così famose
e, sopratutto, di questa gente,
che dice sempre le stesse cose.

Oh!, dileguarsi, fuggire altrove,
senza una mèta, per non tornare ;
andare in cerca di cose nuove ;
dimenticato, dimenticare:

in una terra qualunque sia,
però, soltanto, molto remota,
di cui non sappia la geografia,
di cui la lingua mi resti ignota ;

dove sia freddo, dove ci piova
però, soltanto, ch'io non capisca
se mi si chieda : « come si trova? »
o se all'inferno mi si spedisca.

Poter girare per ore intere
senza un incontro : felicità!
Poter uscire tutte le sere,
né domandarsi dove si andrà.

Non avvertire questo tiranno
che chiaman tempo, vecchio barbogio,
che ti sta addosso come un malanno,
ma fare a meno dell'orologio,

ed ingannare l'ore distratte,
e viver, solo, perché... chi sa !...
perché c'è un cuore, dentro, che batte
e che, un bel giorno si fermerà.

E allora scender nel nero suolo,
senza mendaci cerimoniali,
senza aver dietro tutto uno stuolo
di dilettanti di funerali,

senza che ancóra, tenacemente,
dietro un ingombro vano di rose,
debba seguirti la stessa gente,
che dice sempre le stesse cose...

Dal castello di Conisberga
(Germania 1931)

Conisberga è vicina. Il treno corre
sull'immensa, pianura, nel mattino
umido e grigio. Qualche vecchia torre,

qualche villaggio. Mucche ed oche bianche
errano in libertà; qua e là un mulino
dispiega l'ali desolate e stanche.

Malinconia... Per questa erma pianura,
sul carro prodigioso e rutilante
della sua gloria e della sua ventura,

l'Imperatore, il condottiero insonne,
passò (Tilsit è qui, poco distante )
con le sue schiere: innumeri colonne

d'uomini affranti; alcuni seminudi :
duro è il cammino in queste estreme lande,
seminate di sterpi e di paludi.

Parlano di saccheggi e di vittorie
e ripetono un nome, un nome grande,
che riassume in sé tutte le glorie.

Non hanno fatto mai più lunga guerra!
Maledicono il russo ed il prussiano,
che li han condotti in questa ingrata terra:

sembra un deserto. Oh no, non si ribella
nessuno, ma sospira, un po', il lontano
suolo di Francia o dell'Italia bella!

La loro vita è tutta una catena
di marce e di battaglie: adesso è un anno,
erano ad Auerstaedt, erano a Jena.

Quanto hanno corso! Calcolan le miglia
che press'a poco li separeranno
dal lor villaggio, dalla lor famiglia.

Pensan che forse è la Polonia, questa,
forse la Russia: han camminato tanto !
Il mondo è pieno delle loro gesta....

L'oggi è penoso ed il domani oscuro;
ma la gloria li avvolge del suo manto,
passando alata al rullo del tamburo.
                          ***
Non c'è più gloria... Lungo queste mura
veniva, ad ore fisse, Emanuele
Kant a pensare la Ragione pura;

e proseguiva poi per questa via,
fino a quel grigio stagno senza vele,
cinto d'azzurro e di malinconia.

Come quel grigio stagno, Conisberga,
il tuo castello è freddo e malinconico
ma quale stuolo di memorie alberga !

Si rifugiaron qui coi loro làbari
i cavalier dell'Ordine Teutonico,
vinti e inseguiti dagli Slavi barbari.

La Corte di Berlino asilo e lena
a queste mura domandò, percossa
dalla tremenda folgore di Jena.

Da qui la dolce e intrepida Luisa,
che il Bonaparte amava, alla riscossa
chiamò la patria sua vinta e divisa...

C'è, nel cortile, un campo di verdura
intorno, ad un'altezza disuguale,
neri edifici senz'architettura;

in uno d'essi, a un lato della corte,
un tempo si riuniva il Tribunale
e s'eseguivan le condanne a morte.

Il tristo luogo è adesso un ristorante,
dove si mangian ottime pernici,
innaffiate di birra e di spumante.

Dipinti un po' sbiaditi, un po' scrostati,
mostrano alle pareti i Federici
e gli Ottoni e i Guglielmi incoronati.

Il cameriere, come aperitivo,
v'indica il luogo dove un giorno il boia
fece giustizia in modo sbrigativo.

Strana cantina, che un odor di muffa
ed i ricordi storici e la noia
rendono alquanto triste e alquanto buffa!
                          ***
Vi son molti musei, ma il Bonaparte,
venuto dopo Eylau qui nel castello,
fece man bassa sui tesori d'arte.

Fra i vecchi quadri, tuttavia, si trova
perfino qualche Rubens assai bello
sulle pareti in cuoio di Cordova.

Nei regi appartamenti, tutta in legno
di frassino, è una stanza, dove nacque
il Federico fondator del regno,

e quella di Luisa, un po' piccina,
dove il conquistatore si compiacque
dormir nel letto della pia regina.

La galleria degli avi è tutta ingombra
di tele, donde rigidi e brutali
Hohenzollern minacciano nell'ombra.

Li rivedrò a Berlino, in marmo bianco,
lungo la Via della Vittoria, uguali,
con marescialli e cancellieri a fianco,

guardar sdegnosi e un po' scandalizzati
una placida folla di borghesi,
madri, bimbi, commessi innamorati

e le insolenti e rapide berline
dei nuovi ricchi, dei banchieri obesi,
di chi costrusse sulle altrui rovine :

cercano intorno invano la Germania
di tutto ferro, la Germania loro,
gli ulani e i granatier di Pomerania...

Ma non lontano, maestosa, triste
e un po' pesante, la Vittoria d'oro
medita forse ancor voli e conquiste.

Montecarlo
«Cento franchi sull'ultima dozzina,
cento su manque e vinci un'unità.
Resta scoperta un'unica sestina:
dev'esser proprio una fatalità...»

Montecarlo, fantastico paese,
dove in un'ora, senza sacrificio,
puoi guadagnare quello che in un mese
tiri sbuffando in un molesto ufficio.

Città di sogno : ben lustrate aiuole,
ville, palmizi, musichette amene.
Il castello di Monaco, nel sole,
sembra un nido di fate e di sirene.

La costa è l'orlo d'un immenso velo
che qualche maga ha ricamato. E qua
è la ricchezza!... Piovono dal cielo
grappoli azzurri di felicità...

«Carta d'entrata, per un solo giorno?»
«No, me la dia per tutta la stagione.»
(Tanto, in ufficio più non ci ritorno
in capo a un anno avrò mezzo milione.)

Ed entro in una sala, ove la gente
intorno a dieci tavoli s'affanna
ansia, nevrastenia, pupille intente,
cuori sospesi come a una condanna ;

vecchie accanite, amabili donzelle;
una visione pittoresca e stramba;
diverse lingue, orribili favelle
«Rien ve na plus....» «Te possino!... » «Caramba!...»
                     * * *
« Cento franchi sull'ultima dozzina,
cento su manquet...» La pallina va.
(Resta scoperta un'unica sestina: 
dev'esser proprio una fatalità!)

« Vingt! » Il rastrello cupido ritira
i miseri gettoni. Insisterò:
lo stesso giuoco. La pallina gira;
una voce mi fulmina: « zeró ! »

E questo zero, come un maleficio,
si ripete implacabile, così
che mi vien da pensare al capo-ufficio:
gli zeri mi perseguitan fin qui...

Dal « Café de Paris » giunge il fragore
d'un allegro jazz-band: oh che fastidio!
Questi palmizi destano nel cuore
un senso di tristezza e di suicidio...

Finalmente un'idea: Là, civettuolo,
tra giardini ridenti in vista al mare,
c'è l'ufficio postale:« Urgonmi solo
cento ritorno giuro rimborsare ».

...Il treno corre. L'anima è un po' grigia,
mentre nel cielo v'è tanto fulgore.
Che me n'importa? Penso alla valigia,
rimasta in pegno dall'albergatore !

Lungo le spiagge la morente estate,
felice, impazza esagerando un po'.
Bagnanti nude, voluttà sognate...
Io penso al capo-ufficio, allo zerò!

La borsetta perduta
Lungo i viali attoniti e deserti,
già da tempo le foglie eran cadute,
povere foglie, quasi anime mute,
inaridite, accartocciate, inerti:

eran cadute come una leggera
veste dai rami intirizziti e spogli
per dare il posto ai teneri germogli,
che annunzieran la nuova primavera.

Ma non eran cadute solamente,
in quel lembo di strada solitaria,
le foglie morte, che impregnavan l'aria
della loro tristezza inconsistente ;

era caduta pure una borsetta
caduta a qualche piccola borghese,
forse, che aveva fatto tante spese,
aveva tanti pacchi e andava in fretta.

Poverina, era lì, timida, triste,
quella borsetta, in quella via remota,
già rassegnata alla sua sorte ignota
palpitante d'incognite impreviste.

Ed ecco un uomo, un vagabondo forse,
che camminava placido, distratto,
inteso a quel brusio di foglie; e a un tratto,
col batticuore, quell'oggetto scorse.

Lo raccattò, furtivo, circospetto,
quasi temendo d'esser colto in fallo...
Il rosso in un astuccio di metallo...
una chiave... la cipria... un fazzoletto...

venti lire... una lettera piegata
d'uomo? di donna?... D'uomo, era sicuro
non c'è una donna che si chiami Arturo!
E, dopo, cominciava: « Mia adorata... ».

Spiegò, tranquillo, il foglio un po' sgualcito
e lesse, ripetendo alcuni brani
a mezza voce: « Giungerò domani...
solito posto... attenta a tuo marito... ».

- Povera cara ! - disse il vagabondo
Starà pensando adesso, disperata,
alla borsetta... se sarà trovata
Ed il marito? Ce n'è tanti, in fondo!...

Tornerà certo: rifarà il cammino
per ritrovar la lettera d'Arturo,
pallida, ansante...- Ed appoggiato a un muro,
attese a lungo, fermo, a capo chino.

Attese a lungo. Poi scrollò le spalle:
il buio della notte era imminente.
Depose la borsetta nuovamente
fra quelle foglie accartocciate e gialle.

Trasse quindi di tasca il dolce scritto,
che in mille pezzi seminò d'intorno,
fra sé dicendo: - Se farà ritorno,
vedrà distrutto il corpo del delitto... -

E se n'andò, commosso oltre ogni dire
pel bene fatto ad una creatura
ignota... All'osteria, dietro le mura,
si bevve, dopo, quelle venti lire.

E socchiudendo gli occhi, intenerito,
pensava ad una donna innamorata,
l'accarezzava in sogno: « Mia adorata!... ».
E sospirava: « Povero marito!... ».

Bevve, bevve, mangiò qualche leccornia,
poi rincasò... La moglie: - Che disdetta,
caro !- gli disse. - Ho perso la borsetta
con venti lire!... - Gli passò la sbornia.

Romanticismo nipponico
Povero Hashigu, è morto disperato,
come muoion gli eroi delle romanze!
Senza pace, deluso innamorato,
per quindici anni errò per le sue stanze,
finché, ponendo fine ai suoi sospiri,
l'altro giorno s'è fatto il « karakiri ».

Ricco era Hashigu: aveva un bel negozio,
a Tokio, di prodotti del paese:
vasi, ventagli... Nei - momenti d'ozio
-scriveva anche poemi (in giapponese)
e dipingeva mandorli ed uccelli
sui paraventi, i cofani, gli ombrelli.

Ed' era bello Hashigu, bello come
un giapponese, si, con grossi occhiali,
col viso giallo, con aguzze chiome,
ma aveva gli occhi assai sentimentali.
Le fanciulle lo amavano: - Sakei,
(era il suo nome) fior degli occhi miei...-

E andavano a comprar le porcellane
d'Hashigu ed i suoi cofani d'argento,
ad ammirar le sue pitture strane,
su un cofano, un ombrello, un paravento.
Sognavano i suoi sguardi affascinanti
ed i suoi « yen », perché ne aveva tanti...

Ma un dì nel suo negozio entrò il destino,
ravvolto in una clamide di seta,
gettando a un tratto un balsamo divino
in quel cuor di mercante e di poeta.
Era una donna : sul visetto giallo
spiccavano due labbra di corallo.

Erano rosse come una ferita
quelle labbra; eran, gli occhi, di carbone.
Lui la seguì con l'anima rapita,
tremante di dolcezza e di passione;
cadde ai suoi piedi delirando : - T'amo,
ciliegia nata, da un purpureo ramo!

Le disse : - T'amo, petalo di loto
stillante sangue, giunco che si piega
alla carezza d'un ruscello, ignoto
profumo ! T'amo, immagine di Vega,
pallido velo di nascente luna!
T'offro il mio cuore con la mia fortuna...

Ma la bella era figlia d'un barone,
che serviva alla corte del Mikado
e che sdegnò, reciso, quest'unione
con un mercante nato dal contado,
che dipingeva mandorli ed uccelli
sui paraventi, i cofani, gli ombrelli.

Ferito al cuore, il mesto Hashigu pianse,
cercò invano conforto alle « musmè » ;
poi le sue tele ed i suoi vasi infranse
e si fece una bambola, da sé,
con la cera, una bambola perfetta,
con le sembianze della sua diletta.

Indi una stanza della casa avita
trasformò in tempio, con gentil lavoro,
e vi portò la bambola, vestita
d'un bel «kimono » punteggiato d'oro.
La mise su un altare ed ogni giorno,
per ore ed ore, le girava intorno.

Le diceva così : - Luce d'azzurro,
raggio d'aurora in un silente stagno,
di rosei peschi tremulo sussurro,
per te mi duole il cuor, per te mi lagno...
Raggio d'aurora, intanto, col marito,
dava un suddito all'anno a Kiro-Hito.

E per tre lustri, afflitto, disperato,
senza riposo errò per le sue stanze,
povero giapponese innamorato,
come fanno gli eroi delle romanze,
finché spezzò la bambola, ai sospiri
ponendo fine con un « karakiri ».

AI funerale c'era la sua bella,
commossa... Loto in fior? Luna nascente?
No, troppo grassa ormai ! Non era quella
di quindici anni fa, si che la gente
bisbigliava un po' attonita: - Per lei?!
Non era il caso, povero Sakei!...-
Non era il caso, povero Sakei!... -

Francescana
« O dolci frati uccelli, anime care,
io vi scampo da morte e vi do tutto,
e cibo e nido, acciò facciate frutto,
acciò possiate voi moltiplicare,

come comanda il vostro Creatore
che sta nei cieli. E vi propizio il bosco
e la città puranco... ». Oh riconosco,
frate Francesco, il tuo sublime cuore !

Ma se scendessi un po' dai cieli azzurri
e andassi a Budapest? È un passeraio.
Ben tu, Francesco mio, saresti gaio
lì, fruscii d'ali, pigolii, sussurri,

gorgheggi e trilli; trilli e canti, canti,
canti di gioia, note di dolcezza,
che in qualche modo mitigan l'asprezza
dei clackson minacciosi ed assordanti.

È la voce di Dio, questa, è l'accento
dell'innocenza, questa è la parola
della natura, che cinguetta e vola
nelle città del ferro e del cemento

e ingentilisce gli animi e a visioni
di pace invita deliziosamente.
Ma i poveri cappelli della gente...
Oh frati uccelli, dolci e sporcaccioni!...

Eravate il tripudio dei giardini;
tutti vi davan briciole a manate
donne e fanciulli; ma non sapevate
che a deturpare i loro cappellini,

a imbrattar loro i serici vestiti,
le signore diventano malvage ?
Han protestato e vi sarà la strage
addio per sempre, festa di garriti !

L'energico e sensato borgomastro
ha riunito il Consiglio Comunale
cercando un mezzo adatto e razionale
per meglio fronteggiar tanto disastro.

Adesso nel Palazzo di Città
vi stanno preparando i gas venefici
oh se sapeste come son malèfici !
Sono il prodotto della civiltà.

Furon provati, e fecero portenti,
in una caccia grossa, ormai lontana ;
or li utilizza la Nettezza Urbana
sono serviti certi esperimenti...

Poliziotti in gonnella
Una notizia
che il cuor mi serra
giunge freschissima
dall'Inghilterra:

nella metropoli
dai cieli bigi,
la squadra mobile
compie prodigi

da quando v'opera
con occhio insonne
un certo numero
d'agenti in gonne.

Oh, questo secolo
come si sbriglia !
Capite? L'angelo
d'ella famiglia,,

la donna (o tempora! )
ruba il mestiere
all'illustrissimo
carabiniere.

Usa in altr'epoche
a investigare
solo nell'ambito
del focolare,

se la domestica,
svelta di mano,
celasse piccioli
nel canterano,

o se nell'algide
nebbiose sere
schiudesse tacita
l'uscio al pompiere;

se con un giovane
dirimpettaio
la figlia frivola
passasse un guaio,

oppur se il coniuge
cercasse altrove
carezze tenere,
voluttà nuove

e, con la, maschera
dell'uomo serio,
si desse ai brividi
dell'adulterio;

oggi nell'umida
terra d'Albione
ella s'incorpora
nel pattuglione

e, comprimendosi
le onuste forme
nel taglio rigido
dell'uniforme,

alacre investiga
con modi scaltri
sulle possibili
colpe degli altri.

Ed è incredibile
con che passione
s'adopri ed esplichi
la sua mansione

la squadra mobile,
là sul Tamigi,
(giova ripeterlo?)
compie prodigi...

Del resto è logico,
ci vuol pazienza
la donna è mobile
per eccellenza!

Inno alle mosche
Quando col sole e le margheritine
la nuova primavera il cuor ci allieta,
s'affretta a salutare ogni poeta
le vecchie rondinelle pellegrine.

Il libro della terza elementare
è pieno del dolcissimo lamento,
di rondinelle « non volar là dentro »,
di rondinelle reduci dal mare...

Ma se, finite le giornate fosche
del lungo inverno, spensierate e snelle
tornan dal mar le dolci rondinelle,
nel giugno, invece, tornano le mosche.

Ebbene, non un canto, non un'ode
all'importante dìttero, all'araldo
dell'estate ingannevole, del caldo,
di cui l'umanità, sbuffando, gode !

Riparo all'ingiustizia ed in sordina
gli rivolgo il mio canto e il mio pensiero
ben ritornato dittero leggero
ben ritornata, mosca pellegrina

Giunta da dove? Ti ritrovo, a un tratto,
ronzante ai vetri della mia finestra,
o naufraga in un piatto di minestra,
che rimando in cucina esterrefatto.

Ospite indisturbata e permanente
nelle case degli umili e dei ricchi,
ami lo scherzo : rapida ti ficchi
in un'orecchia e n'esci allegramente,

salti al naso dell'uomo più irascibile,
assaggi tutto, voli in ogni parte,
sui quadri, sulle stoffe, sulle carte,
lasciando la tua cifra inconfondibile.

E se le rondinelle in primavera
portan la loro grazia e i loro trilli,
porti anche tu qualcosa: i tuoi bacilli;
porti il tifo, il carbonchio ed il colera.

E mentre scrivo, il tuo ronzio di sfida
volteggia audace intorno alle mie mani.
Salve, gentile dittero !... Domani
acquisterò la carta moschicida.

Venti lire
Ecco un'analisi
non troppo amena,
che ha fatto un màcabro
dottore a Jena

preso un cadavere,
l'ha decomposto,
con molto scrupolo
stimando il costo.

L'ossa forniscono
tanta calcina
da far l'intonaco
d'una cucina,

e si ricupera
tanta grafite
da fare al massimo
cento matite.

I grassi abbondano
(strano contrasto!)
pure in chi è solito
saltare il pasto.

Da tutto il fosforo
(piedi compresi)
al più ci scappano
mille svedesi,

mentre distillasi
dal corpo vile
d'acqua... potabile
tutto un barile.

Il ferro è in minime
tracce, di modo
che non ci fabbrichi
neppure un chiodo:

fatto stranissimo,
perché da vivi,
- di chiodi, in genere,
non siamo privi!

Ma ciò che supera
le previsioni
più catastrofiche
sono i bottoni:

ne ottieni un numero
fenomenale,
sì che un legittimo
dubbio t'assale:

fece l'analisi
quell'alchimista
sopra lo scheletro
d'un giornalista?...

Volendo vendere
questi elementi
ai poco modici
prezzi correnti,

ci si ricavano
venti lirette
alcune scatole
di sigarette!

Che cifra misera!
Solo conforto,
se si considera
che l'uomo morto,

oscuro o celebre,
ricco o pezzente,
sciocco o filosofo,
vale ugualmente.

Ed è ridicolo,
in fondo in fondo,
che, mentre vivono
su questo mondo,

si dian cert'arie
tanti mortali,
se poi gli scheletri
son tutti uguali...

Commendatore
Da trent'anni, alle nove, ogni mattina
varchi la soglia del palazzo austero;
siedi al tuo posto vigile, severo,
con gli occhi torvi e con la fronte china. -

E non sorridi mai, commendatore,
ma sfogli antiche carte e scrivi, scrivi...
Hai la polvere annosa degli archivi
addensata sull'anima e sul cuore.

Precisi come te, venti impiegati
tremano, ad un tuo cenno, ad un tuo sguardo;
io solo arrivo placido, in ritardo,
tu inghiotti amaro e tuttavia non fiati.

Di tratto in tratto, a qualche mio sbadiglio
scuoti la testa ed in silenzio fremi.
T'han detto che son pazzo e tu mi temi;
che la mia vita è tutta uno scompiglio,

e mi compiangi e mi disprezzi: sai
che salto alcuni pranzi e dormo poco,
che perdo il tempo fra le donne e il gioco,
che la commenda non l'avrò giammai !

Ed io, che agli occhi tuoi vivo nel fango,
che non dormo, non mangio, non lavoro,
vedo, indovino l'ordine e il decoro
della tua saggia vita; e ti compiango

Tu sei commendatore ed hai bisogno
di mangiare ogni giorno e sei costretto
ad aver la tua casa ed il tuo letto
non puoi nutrirti né dormire in sogno.

Povero sei: la voluttà t'è ignota
della ricchezza e sono uguali e bui
tutti i tuoi giorni; io no: c'è un giorno in cui
la fortuna m'aggioga alla sua ruota.

Giuocando al baccarà, di tanto in tanto,
mi càpita di vincere quel giorno,
io sono ricco e ho cortigiane intorno
e getto il mio denaro in ogni canto.

Tu sei convinto che la vita vera
è quella che tu vivi: quel tuo lento
morire d'ora in ora; e sei contento
di tua moglie, di te, della carriera.

Tutto compreso della tua importanza,
tu non sospetti questa cosa orrenda
sei come me, malgrado la commenda,
non altro che uno scheletro in vacanza.

Vivo di quest'idea, né so scacciarne
l'incubo folle: un dèmone maligno,
quand'io ti guardo, mi discopre il ghigno
ch'è sotto alla tua maschera di carne.

È quello stesso ghigno che discerno,
quando mi specchio, sul mio volto vivo,
nell'aspetto che avrò, definitivo,
sotto il suggello del mistero eterno;

quello che sulla bocca del mio amore
delinearsi vedo all'improvviso
ed agghiaccia il mio bacio, e il mio sorriso
trasforma in una smorfia di dolore.

E con questa visione disperata,
come vuoi tu ch'io t'obbedisca e creda
in quella tua grandezza e che ti ceda
la miglior parte della mia giornata?

La vita fuggirà dalle mie mani
io l'amo, questo bene perituro,
questo tesoro che non son sicuro
di ritrovare all'alba di domani.

Laggiù, nella mia cassa solitaria,
non berrò più la luce del mattino
e delle stelle; gelido e supino,
non sentirò la musica dell'aria.

Un'immobilità senza speranza
m'inchioderà per sempre alla mia fossa
nessuno saprà mai che un dì quell'ossa
furon leggiere al ritmo della danza...

Come vuoi tu ch'io t'obbedisca? È questo
il mio segreto, è questo il mio furore,
questa è la mia follia. Commendatore,
sei più felice tu, non lo contesto.

Ma ch'io sommerga il mio pensiero fisso
in un mare di luce! Ansante e lieve,
io non conosca soste in questo breve
valzer ballato all'orlo dell'abisso!

Ch'io sappia intera questa voluttà
di' vivere! Ch'io giochi, ami le donne,
ami le stelle, coribante insonne!
Dormirò dopo: per l'eternità.

Strade moderne
Passan le belle macchine rombanti
sui lastricati lucidi: veloci,
spensierate, s'inseguono. Agl'incroci,
di quando in quando, ammazzano i passanti...

Strade moderne: fragorose bolge,
dov'è dannata a correre la vita,
ansimante, frenetica, inseguita
da un sogno di follia che là travolge;

dove un'umanità torbida e insonne
urge, s'accalca come in un naufragio.
La fretta, inesorabile contagio,
ha preso tutti, tutti: anche le donne !

Piedi di donne, teneri piedini,
che in età più tranquille e più beate
guizzaste dalle gonne inamidate
più o meno impertinenti e birichini,

fatti per le carezze e per le danze,
pei sogni dei trovieri e dei poeti,
fatti per calpestar rose e tappeti
fra gaie luci e morbide eleganze,

il sogno vorticoso della strada
v'ha attratto nei suoi gorghi e vi trasporta.
Dove andate, se è lecito? Che importa?
Buona qualunque via, purché si vada,

purché si corra.... Avanti, avanti, avanti,
verso il miraggio di un ignoto bene!
Una febbre spietata arde le vene.
Passan le belle macchine rombanti.

Il loro moto regolan le luci
dall'alto dei semafori sospesi,
con strane ridde di colori accesi,
simili ad occhi luminosi e truci...

E all'improvviso, tra il frastuono orrendo,
un risuonar di zoccoli: che accade?
Van le carrozze ancor per queste strade?...
Poveri cavallucci, io vi comprendo!

Sognate un tintinnio di sonagliere
lungo le strade bianche ed assolate,
e vecchie diligenze sgangherate,
cariche di leggiadre passeggere ?

Sognate aristocratiche berline
sulle vie sgombre e pallidi lampioni
sbadiglianti la luce sui cantoni,
dinanzi al volto delle madonnine?...

L'automedonte, con la testa in giù,
incita appena la sparuta rozza,
o d'orme sulla logora carrozza,
che da tanti anni non vernicia più.

Veniva, un giorno, il ricco elegantone,
che aveva fretta, a trarlo dal letargo;
e allora si partiva: - Fate largo! -
Era il re della strada, era il padrone...

Adesso è lì, flemmatico, distratto
conta i suoi giorni faticosi e lenti,
in attesa di poveri clienti
che non abbiano fretta affatto affatto.

E il cavalluccio rantola, digiuno...
Passan le belle macchine veloci
e spensierate, passano: agl'incroci,
di quando in quando, ammazzano qualcuno.

Filibustieri della tortue
Fui già filibustiere e in camerata
non conobbi rivali : ero la Jena
dell'Isola Perduta; appena appena
mi stava a paro Morgan il pirata!

Quante volte impiccai l'istitutore
all'albero maestro di un vascello
fantasma, innanzi al piccolo drappello
dei miei tigrotti; pallidi d'orrore;

o, sogguardando con un ghigno amaro
il torvo professore di latino,
accarezzai la punta d'un pennino,
pensando al mio pugnale di corsaro ;

o, muto, fermo innanzi alla mitraglia
d'un interrogatorio virulento,
invocai nel cuor mio, quasi sgomento,
tutti i tuoni d'Amburgo e di Biscaglia

E quante volte, con viril dispregio
d'ogni periglio, corsi all'arrembaggio,
saccheggiando la frutta ed il formaggio
nella pingue cucina dei collegio

Conobbi l'arcipelago malese
scoglio per scoglio e sfuggii sempre, audace,
al mio peggior nemico : il pervicace
censore, che trafissi a più riprese.

Giurai sui pescicani del Giappone
sventrati e, rincuorando la masnada
dei miei folli seguaci, a fil di spada
passai Fedro, Virgilio e Cicerone.

Né m'importava, privo dell'uscita,
di restar solo con i miei pensieri
navigavo con voi, filibustieri
della Tortue, ribelli della vita !

Ed avevo una donna - il primo amore! -
in fondo al cuore e in cima a ogni pensiero
era la figlia del Corsaro Nero,
che mi seguiva a bordo del « Terrore»...

Fui già corsaro ed ebbi una dozzina
di scimitarre dal lucente taglio,
con cui mi davo al tragico sbaraglio,
assetato di gloria e di rapina...

Come si spense tanta fede ardita,
di cui l'anima in sogno si compiacque?
Il mio vascello naufragò su l'acque
d'un più vasto arcipelago : la vita!

Non corsi all'arrembaggio o a caccia grossa,
con sete di dominio e di guadagno...
Inutilmente il pallido e grifagno
Sandokan mi deride : «Alla riscossa! »

Penso all'audacia che mi fu matrigna,
scrivo, scrivo versi inconcludenti.
Dal fondo dei miei sogni adolescenti
l'« Amburghese » guardandomi sogghigna:

si ricorda di me, quando (mistero!)
fui la Jena dell'Isola, il pirata,
e corsi tutti i mari all'impazzata,
e amai la figlia del Corsaro Nero...

I cercatori d'oro
« Non v'amo», tu mi scrivi : e ai miei richiami
tendi l'anima tua. « Non v'amo»: e intanto
so che mi pensi ed ami
il mio romanticismo ed il mio canto.
E il tuo cuore di rondine, volando
pei suoi cieli sereni,
s'impiglia a quando a quando
nella rete leggera
dei miei vani poemi.
Hai visto mai le- nubi in primavera
incatenar la luna fuggitiva?
Ma, dopo, il vento arriva
e libera la bella prigioniera
si dileguan le nubi negli estremi
lembi del cielo e lasciano soltanto
un labile vapore,
che qualche volta si dissolve in pianto.
Così tu giuochi col mio folle amore....

« Non sperate », tu scrivi : e invece io spero
e t'attendo con l'anima devota,
pazientemente. E forse tu verrai,
attratta dal mistero
d'una favola ignota,
che ti lusinga mentre tu non, sai...

Vi son certi vulcani
- non so più dove : in California, a Giava...
che dai crateri ardenti
lancian talvolta, in mezzo
all'infocata lava,
dei blocchi d'oro grezzo.
E basta esser pazienti,
dicono almeno i cercatori d'oro,
basta star fermi lì mattina e sera,
per anni forse, e attendere il tesoro,
per esser ricchi poi la vita intera.

Ed io fo come loro,
quei cercatori d'oro,
che aspettan la fortuna che verrà
paziente, a capo chino,
attendo che il destino
mi getti un pezzo di felicità...

Pianoforte
La radio suona: musiche leggiadre,
cupi boati, sibili di vento...
Il pianoforte è lì, muto e sgomento,
quello sul quale, un di, suonò mia madre

ed il cui noto accordo mi portava
fra le accoglienti braccia di Morfeo
povero pianoforte, in un museo
t'attende il clavicembalo dell'ava!

E sì che nei salotti eri il sovrano,
quand'era, il pianoforte con la coda.,
una necessità, più che una moda,
come il letto, l'armadio, il canterano!

Venivano gli amici, i conoscenti;
e la mamma orgogliosa: - È tanto brava ! -
La sorellina, allor, ci deliziava
con una suonatina di Clementi.

Ma era bello veder sulla tastiera
correr due bianche mani, e una figura
snella curvarsi sulla partitura
in un atteggiamento di maniera.

Le giovinette ormai sono educate
con nuovi gusti e nuovi intendimenti
le care suonatine di Clementi
sbadiglian sul coperchio, impolverate...

La radio suona. Il magico artificio
diffonde le sue note per la stanza
fra un discorso erudito e una romanza,
sa consigliarci pure un dentifricio

Tu sei rimasto qui, vivo contrasto
con quanto ti circonda. Di sfuggita,
t'apro talvolta e tento con le dita,
senza un perché, qualche ingiallito tasto:

dal tuo cuor malinconico e scordato
si leva come un gemito profondo,
che par quasi venir da un altro mondo,
voce di sogno, voce di passato...

Avesti la tua gloria. Oggi vivacchi
nell'ombra triste, inutilmente obeso.
Come si fa? Non hai neppure appreso
a indicarci un purgante o un salvatacchi

Sei tramontato: che malinconia!
T'ha vinto la meccanica : qualche anno
ancora e i tarli ti consumeranno...
Mia figlia studierà stenografia.

Domenica
Vanno, con un fruscio lieve di gonne,
nelle pigre domeniche slavate.
Sartine? dattilografe? impiegate?
serve ?... Che importa? Donne, donne, donne...

Non son dirette in una chiesa, dove
inginocchiarsi innanzi ad un altare,
né verso il bacio di due labbra care,
né verso ebbrezze di segrete alcove.

Lungo le strade lucide e banali,
in capricciosi e subdoli costumi
vanno, scavando solchi di profumi
che fan girar la testa ai collegiali

vanno - fragili bambole dagli occhi
crudelmente magnifici e sereni,
solo occupate a molleggiar le reni
morbide, a restaurar con lievi tocchi

le guance eburnee, a disvelar, qua e là,
guizzi di carne bionda, indifferenti,
creature soavi ed indolenti -
verso l'altare della Vanità.

Un acre desiderio è in ogni cellula
dei loro cuori effimeri e diresti
si ripercuota nelle loro vesti,
che vibrano come ali di libellula.

Il mondo inafferrabile le invita,
nel breve giorno che le fa sognare,
come api spinte fuor dell'alveare
per succhiar tutto il miele della vita

inutilmente! La sognata gioia
dilegua, o è sempre là, sull'altra riva,
remota, irraggiungibile; e s'avviva
nei lor occhi la febbre della noia.

Torneranno un po' stanche, un po' avvilite,
nei crepuscoli lenti, alle lor case,
pensando con quale ansia erano evase
dal loro gretto mondo.... E voi finite,

domeniche di sogni e di promesse,
attese per sei dì con tanto affanno
Ahimè!, domani ridiventeranno
sartine, dattilografe, commesse...

Dive d'altri tempi
Oh ricordi del babbo libertino,
povere dive di trent'anni or sono,
finite nell'oblio, nell'abbandono,
dopo tanto clamor, tanto destino!

Voi ci apparite ormai così lontane,
silfidi d'un'età favoleggiata,
quando la «girl » ancor non era nata
e' non v'eran le stelle americane;

e così buffe, in trine e taffettà,
con quel cappello « chanteclair », quel busto
e quei pendenti di cattivo gusto,
finiti forse al Monte di Pietà!

Ma foste belle e giovani, eleganti,
perfide a volte e raffinate, piene
di sovrumani fascini, sirene
ammaliatrici dei caffè danzanti.

(«Café-chantants »: ambienti malfamati,
luoghi di perdizione garantita,
dove la sera andavano a far vita
i figli di papà : che scapestrati!...)

E di voi s'adornavan la vetrina
di moda e le pareti dei salotti;
nei libri degli alunni più corrotti
c'era il vostro ritratto in cartolina.

Non v'era uno studente di liceo
che non avesse in cima a ogni ideale,
avvinto da quel fascino fatale,
la bella Otero o la divina Cleo.

Profumaste di voi tutta un'età,
strappaste al mondo tutte le sue rose,
e passaste, meteore luminose,
povere dive di trent'anni fa

Dove sarete ormai? (Vivete ancora?)
In un ospizio, forse, a far la calza,
mentre accanita la vecchiaia incalza
e le memorie ed i trofei scolora?...

Cleo de Merode: ho letto il vostro nome,
povera Cleo, ier l'altro, in un giornale;
non per amor dell'arte, è naturale!,
vi ridate alla danza in grigie chiome.

Nei « tabarins » degl'infimi quartieri
tirate avanti i vostri giorni grigi,
in quell'ingrata immemore Parigi
che prona innanzi a voi vedeste ieri...

E voi, che n'è di voi, pallida Yvonne,
dall'aria triste, dal profilo puro?
Vi starebbero male, ve lo giuro,
i capelli tagliati alla « garçonne ».

Siete bella così, col paradiso
dì quelle spalle tondeggianti e nude,
con quella bocca ermetica, che schiude
appena un malinconico sorriso,

con quegli occhi che sanno ogni malìa,
in un sogno dolcissimo perduti...
Ma avete sessant'anni già compiuti;
non posso amarvi, che malinconia!...

Vi ricordate di Manon la bella?
La superba Manon negò la mano
sdegnosamente a un principe egiziano,
che si fece saltare le cervella.

Adesso, alla barriera di Clichy,
chiede un soldino; accanto ha un suo ritratto
dei bei tempi passati, unto, disfatto,
con sotto due parole: « Ero così ».

«Ero così » : quel corpo delirante,
che odorò di lavanda e di lussuria,
òr è putrida carne, in un'incuria
disgustosa; la splendida baccante,

che a coppe di sciampagna profumato
le sue labbra accostò, calde e impudiche,
- misera parodia delle orge antiche -
sogna un litro di vino adulterato;

e implora dal passante, pel desio
che suscitò di sé, per l'ebrietà
che diede al mondo, un po' di carità
alla sua sete d'alcool e d'oblio.

Passano innanzi a quelle due parole
uomini gravi, coppie innamorate,
giovinezze opulente e spensierate,
ebbre di desiderio, ebbre di sole,

e incuriositi si sofferman lì,
tutti, a guardare e al tragico confronto
ridon beati: non si rendon conto
che quelle due parole - ero così -

sono l'essenza amara della storia
del tempo, del destino e della vita
e che quella megera inebetita,
un giorno, fu la grazia e fu la gloria...

Campagna
Il mattino stupito apre le ciglia
sul mondo : un dolce mondo da presepe,
col pastore, col cane, con la siepe,
ed il ruscello, e il nido che pispiglia.

E un'attonita calma è nelle cose
intorno. Guarda ! Avevi mai veduto
così da presso il sole? È, il suo saluto,
per noi soltanto e per le nostre rose...

Un bacio... Un altro... Come più leggero
è il nostro cuore ! Oh le città lontane !
Qui qui è la vita, con la pace e il pane...
Cara!... Ma, dunque, esistono davvero

le donzellette con le lor canestre,
i contadini con le loro mucche?...
Un bacio ancóra!... E là, guarda le zucche
sparse sull'aia, appese alle finestre...

E scopriamo, felici, un mondo nuovo,
più tranquillo, più semplice, diverso
dal nostro vecchio mondo. Oh senti ! E'il verso
della gallina che ci annunzia l'uovo...

Ora sui campi grava la calura
immota, afosa. Ma l'odor del fieno
è così aspro e così buono, pieno
del sacro senso della terra pura.

Un canto uguale, prepotente scroscia
nell'aria con un tremito sonoro:
son le vecchie cicale. I frutti d'oro
ondulano alla luce nell'angoscia

dell'abbondanza : fichi ed albicocche,
dai pingui rami, cedon la dovizia
della loro dolcezza alla letizia
avida e fresca delle nostre bocche.

E le farfalle batton l'ali al sole.
Ed al mio cuore tu sei più vicina,
come il fiore alla terra ; e più divina
è la fragranza delle tue parole.

Una nube si sfalda, esile, pigra,
ed é come una vela e ci conduce
verso orizzonti d'infinita luce,
ove beato il nostro sogno emigra.

Ed il cielo e la terra hanno una sola
anima, che s'effonde in un concento
solo... Vedrai, stasera, come lento
sarà il tramonto d'oro e di viola !

Ed in che modo sarà giunto? Intorno,
uno stormir di fronde un po' più grave,
un alito più fresco, un più soave
fruscio nell'ombra, ed è finito il giorno.

Accende il suo lumino ogni capanna,
e la notturna sinfonia dei grilli
s'alza nell'aria, mentre coi suoi squilli
la campana ci fa la ninnananna...

Qui resteremo. Nelle lente sere
passeggeremo soli lungo gli ampi
filari, mentre fievole sui campi
morirà l'eco delle sonagliere...

Perché m'illudi, tenero e supremo
sogno di pace e di malinconia?
Domani sentirò la nostalgia
delle città lontane. E partiremo!

Musa
O mia povera Musa,
venivi all'improvviso
col tuo dolce sorriso
di giovinetta illusa;

baciavi sulla gota
il pellegrino stanco,
gli camminavi a fianco
lungo la strada ignota.

Stavi col suo dolore
come una pia sorella,
quando nella sua cella
il livido chiarore

d'un'alba fredda e infausta
lo trovava spettrale,
curvo sul capezzale
della sua fede esausta.

Poi l'anima smarrita
cercò conforto altrove,
chiese lusinghe nuove
alla fuggente vita...

Oggi ho nel cuore insonne
non so qual tedio amaro ;
e tutto odio : il danaro,
la poesia, le donne.

Il tempo mi solfeggia
una spietata fuga ;
già qualche lieve ruga
pel volto mi serpeggia ;

l'onta della calvizie
la mia chioma minaccia...
Ah, corsi di te in traccia,
chiesi di te notizie,

per ritrovar me stesso,
trovando te! Lontano
ti ricercai, ma invano,
invano, invano... Adesso,

io, fra la gente seria,
vivacchio alla giornata ;
in cenci, abbandonata,
spinta dalla miseria

obliqua, che disanima
le derelitte fedi,
tu batti i marciapiedi
nei vicoli dell'anima!

Paesaggio alpestre
Stanco di queste nubi inconsistenti,
di questo cielo eternamente chiaro,
sogno l'inverno, come da scolaro
lo descrivevo nei componimenti.

E in sogno, senza amici e senza sci,
parto per un villaggio di montagna,
al braccio d'una tenera compagna,
ma che sta zitta o dice sempre « si ».

Cade la neve e come un bianco saio
copre le case, copre le foreste,
quasi che da una pergola celeste
si sfogli un invisibile rosaio.

E sotto quel mantello immacolato,
lenta, la vita s'assopisce, e muore,
con un bianco sorriso di stupore,
in un silenzio attonito e beato.

Alla carezza gelida, s'addorme
la pigra terra, voluttuosa, e assume
strani contorni, in quell'opaco lume,
un aspetto primitivo e informe.

E si muta anche il cuore, anche il più brullo
cuore, e uno strano balsamo riceve,
d'oblio, di pace : nel veder la neve
risorge in noi qualcosa del fanciullo.

Forse perciò v'è tanta brava gente
fra gl'ingenui Lapponi ed Esquimesi,
in quei lontani mitici paesi,
dove la neve cade eternamente...

Scende la sera, diafana, tranquilla:
è ormai cessato, sulla terra immota,
quel bianco sfarfallio, mentre la nota
d'una campana nel silenzio oscilla.

Ecco la notte, ed è una notte pura,
avvolta nel suo candido mistero.
Serenità. La terra è un cimitero
bianco e raccolto, che non fa paura.

Piccola terra ! Come son lontane
le sue vane città ! Come più lieve,
come più vera è sotto la sua neve
la buona terra, che matura il pane !

Silenzio, oblio : non passi di viandanti,
ne strepito di ruote. Pini e abeti
chinan la fronte, come stanchi atleti,
sotto le belle arcate scintillanti.

« Fa freddo, ritiriamoci... » ; così,
mentre mi stringo a lei sotto la luna,
sussurro all'amor mio, che, per fortuna,
(s'intende, in sogno) dice sempre « si ».

E domani entrerà, dalle finestre
senza scuri, una luce umida e scialba,
e ci ridesterà l'inno dell'alba
dal campanile del villaggio alpestre ;

e vedremo, stupiti e sonnolenti,
avviluppati nelle coltri calde,
cadere ancor la neve a larghe falde...
come si scrive nei componimenti.

La strada
Bella è la strada ed ha per me sussurri
d'amare inesprimibili: la notte,
canta al mio cuore strane piedigrotte
di nenie lente e di silenzi azzurri.

Strade delle città, diritte, storte,
- città dell'uomo, che in mattoni e pietre
irrigidì il suo sogno e nelle tetre
case si chiuse a meditar la morte -

siete il mio mondo: questi strani visi,
li riconosco tutti, ad uno ad uno,
pieni di vita o smunti dal digiuno,
con dentro gli occhi lacrime o sorrisi ;

umanità che passa e che si strugge
e si rinnova e va: verso qual mèta,
non lo sa il savio, non lo sa il poeta
in cerca di qualcosa che le sfugge...

Va, nell'albe perlate, al suo lavoro,
alla sua pena, stanca e rassegnata,
va verso la sua effimera giornata;
va, gaia e svelta, nei meriggi d'oro;

va, nelle sere che trascinan lente
verso l'occaso l'offuscata luce,
nel sogno che l'avvince e la conduce,
nel sogno della vita, eternamente...

Bella è la strada; e in cuor sento la grande,
nostalgia dell'Eterno, quando giro
lungo il suo nastro lucido e sospiro
stelle nel cielo e donne alle verande.

È il mio unico mondo: è l'infinita
gioia del sempre nuovo; e, purch'io vada,
trovo il mio cuor di bimbo, nella strada
trovo l'infanzia eterna della vita.

Il mio bambino
Quando bacio sul volto il mio bambino
ed egli mi sorride e m'accarezza,
io capisco perché tanta dolcezza
si spande dalla luce del mattino.

Mi parla, e so perché tanta beata
musica è nelle foglie e perché l'onde
sussurran melodie così profonde
al cuore della terra trasognata;

e capisco perché la primavera
è così bella e perché c'è, nel sole,
tanto calore e nelle mie parole,
talvolta, tanta musica leggera.

E so da dove giunga alle sue ciglia
il sonno: da un fantastico villaggio
di fate azzurre, dove un dolce maggio
canta la sua divina meraviglia.

Non è, il suo mondo, che una fresca gloria
di sogni: sulla via dei suoi pensieri
passan cantando alati messaggeri
di re sublimi, che non hanno storia.

Per ore ed ore, su una spiaggia estiva
può trastullarsi, pensieroso e grave,
con un fuscello, in cui vede una nave,
che solca mari che non hanno riva.

Per il mio bimbo, il tenebroso mare,
dov'io cerco con ansia sotto l'onde
il tesoro promesso, non nasconde
che ceruli sorrisi e nenie care.

E s'egli piange - piange, anche, se accada
che una spina lo punga - è così lieve,
però, quel pianto: è come il sogno breve
d'un mattino bagnato di rugiada...

O bimbi, aurore nitide e fugaci,
sola beltà del giorno della vita,
bimbi, che offrite al mondo che v'invita
l'anima inconscia e la boccuccia ai baci;

per cui si trovan facili e divine
menzogne, né mistero è nelle stelle;
per cui le cose più geniali e belle
son le farfalle, i fiori e le mammine,

sembran vuote le case ove gli amori
non benedite voi: le avvolge un velo
di lutto e di tristezza, come un cielo
senza stelle, un giardino senza fiori...

Più lungi
È triste spiegare le vele,
pel cuor che non abbia una mèta,
ma viva nell'ansia segreta
d'un sogno lontano e crudele.

Qual voce, dall'ombra, m'incìta
più oltre, più oltre? La notte
è lì, cupa, sorda, che inghiotte
la luce del giorno, la vita.

Ma è verso quell'ombra che, infine,
frenetico il cuor si protende
quell'ombra, al mio sguardo, s'accende
di luci malvage e divine.

E spezzo le dolci catene,
e, solo con l'anima mia,
riprendo l'inutile via,
cercando il chimerico bene,

sognando i miei sogni perduti,
piangendo la vita che spreco,
portando nell'anima un'eco
di dolci poemi incompiuti.

I due nemici
Vivono in me due esseri: fedele,
l'uno t'adora in umiltà tranquilla
e verso un ciel che prodigioso brilla
spiega del sogno le purpuree vele;

l'altro lo irride e, torbido, crudele,
nel cuore strani tossici distilla,
pronto a spegner nel primo ogni favilla
di gioia e a misturar l'assenzio al miele.

L'uno, dinanzi al bello genuflesso,
ama la vita, ama le donne; l'altro
odia il prossimo suo come se stesso.

Quando ti dico che non t'amo più,
parla costui, costui, perfido e scaltro,
ma, credi, l'amor mio sei sempre tu.

Il tesoro
Perché, perché nella snervante attesa
d'un sovrumano giorno, d'un'aurora
che non sorgerà mai, non ho compresa
la bellezza indicibile dell'ora

che fugace passava? E si scolora
la dolce giovinezza, ah vilipesa,
non vista! E già, nel cuor che si disfiora,
l'incubo della grande ombra mi pesa.

Sento quasi sfuggir dalle mie dita
il tesoro dolcissimo e stupendo
che per due volte non dà mai la vita;

e sulla mano ch'oggi avida tendo,
non cade che una foglia inaridita
dai primi geli e che alla terra rendo.

Crociere
Sorridevi sul ponte della nave,
della piccola nave che partiva
verso l'incanto d'un'ignota riva,
in un mattino tenero e soave.

E tutti i miei pensieri, all'improvviso,
fiorirono per te: ricordo ancora
l'estasi sovrumana di quell'ora,
illuminata da quel tuo sorriso...

Son giocattoli fragili i vascelli
sul mare. Il vento è fatto oggi di baci.
Lambiscono la prua, lievi,fugaci,
le spume come bianche ali di uccelli.

Corron su l'onde musiche di luce.
Vestite a festa, nuvole leggiere
vanno verso fantastiche crociere...
Ma questa nave, dove ci conduce?

Non forse verso gli ultimi orizzonti,
dove l'Orsa, il Centauro ed il Leone
dei cieli vanno in lenta processione
a dissetarsi nelle azzurre fonti,

quando l'aurora in pallidi velluti
ed in foglie di porpora si sfalda?
a un'isola di sogno che si scalda
a un'estate di fiori sconosciuti?

verso una, pace di divine sere,
dove l'anima nostra innamorata
- felicità! - si tufferà beata
in fiammanti estuarii di chimere?...

Ed io stendo la vela dei miei canti
a incoronare i tuoi capelli biondi;
tutti i miei desideri vagabondi
son qui, d'intorno a te, folli, anelanti...

E volli, come un serto di faville,
offrirti i miei pensieri e il mio tormento.
Quel che ti dissi, non lo so; rammento
solo la tua risposta: « Che imbecille »!...

Via Appia
Entrammo nelle fredde catacombe,
dove il frate trappista, andando avanti,
ci enumerava i martiri ed i santi
addormentati nelle loro tombe:

Eusebio, Marco, Sisto... Ma il richiamo
del sole giunse all'anima più forte,
in quella tetra casa della morte.
Ella si strinse a me, pallida; - Usciamo! -

Usciamo sulla strada solitaria,
inondata di luce e di silenzio,
e andiamo verso il Circo di Massenzio,
stretti per mano. Oh musica dell'aria!...

Dai Monti Albani, placida, la sera
d'inverno scende; nell'azzurro il sole
traccia le prime tènere parole
del poema che ha nome primavera.

Muri, cipressi, ruderi consunti
dal logorio degli evi. Neon distante,
il sepolcro merlato e torreggiante
di Cecilia Metella... Eccoci giunti!

- Nulla ho veduto mai di più poetico
- ella sospira. - Che divina pace !...
E... che c'è scritto? - Su per giù : « Qui giace
Cecilia, figlia di Metello Crètico,

moglie di Crasso...» È stata una signora
molto importante : tomba fuori porta,
schiavi, dovizie favolose... È morta,
come tante altre che la storia ignora...

(Ella m'ascolta e la tristezza è in fondo
a quello sguardo dolce e trasognato.)
E morta è questa via, che nel passato
fu la regina delle vie del mondo

la percorsero i forti, i vincitori
della terra, gli araldi del destino,
avidi di conquista e di bottino ;
vi passarono tutti gli splendori

dell'Oriente saccheggiato e turbe
lacrimose di schiavi e re prigioni:
dietro, i consoli invitti e le legioni
della vittoria, reduci nell'Urbe...

Ora non passan più gli astati vèliti,
né i Cesari sfarzosi ; e tuttavia
- com'è vana la storia, anima mia! -
viva, immutata, con gli stessi aneliti,

l'umanità prosegue : ancora il sole
sfolgora negli spazi sconfinati;
ai piedi dei sepolcri abbandonati
nascon le prime pallide viole...

Sul Pincio
Son, le ore chiare dell'aprile, perle
luminose, tesori sovrumani
che ci versan dal cielo a piene mani
principesse invisibili. E goderle

noi non sappiamo : a strane mete intenti,
aspettiamo altre gioie, altri tesori,
accumulando in fondo ai nostri cuori
irrequieti d'avari impenitenti

quell'inutile bene... Oggi pur io,
dimenticando d'essere un avaro,
ho dissipato come uno scolaro
questo dono ineffabile di Dio.

Ho bevuto a torrenti la dovizia
del Vagabondo eterno e solitario
del cielo ; sono stato un milionario
di luce, di colori e d'i letizia...

Ora scende il tramonto, in un sussurro
di foglie fresco e voluttuoso; e sembra
che il cielo avvolga intorno alle mie membra
la sua veste di porpora e d'azzurro.

Si levano le voci cristalline
delle campane... Sfumano nell'ombra
cupole e tetti... Il bel parco si sgombra,
ritrova il suo silenzio senza fine.

Un doloroso fascino corona
i fantasmi di pietra, che rimangono
soli. Sui rami gli usignoli piangono
divinamente. L'anima è più buona,

più giovane. Qualcosa il cuor ti tocca,
come mano di donna carezzevole
è, con respiro profumato e fievole,
la Primavera che ti bacia in bocca.

Danubio
Giorno di festa : a Vienna è buon costume
lasciare la città per le foreste
lungo le rive dell'immenso fiume.

Visi tranquilli di persone oneste,
ch'amano assai la birra e la salsiccia
e i dolci idilli tra la pace agreste.

Fraulein... C'è qualche chioma bruna e riccia;
bionde le più : vezzose creature,
di cui l'anima gode e s'incapriccia,

già pregustando facili avventure...
Con un canto monotono il vapore
scivola lieve sopra l'acque pure.

Sfilano colli e boschi nel grigiore
mite. Una madre culla una bambina
con una nenia che fa male al cuore ;

canta in magiaro : questo s'indovina;
canta : « Il battello corre e l'acqua spezza
verso il porto atteso ci trascina.

E il fiume corre, e corre anche la brezza,
il d'esiderio corre, come il canto,
e ci conduce verso una carezza.

E corre il tempo con la vita, intanto,
corre e ci porta come un nembo fosco
verso una pace che sognammo tanto

Passa una nera nuvola sul bosco...»
Dice il canto così, ma non son certo,
perché il magiaro - ahimè ! - non lo conosco.

La madre canta. Il cielo è un po' coperto;
e chiaro, tuttavia, dal suo divino
colle guarda, Schönbrünn, triste e deserto:

guarda il largo Danubio, nel mattino
grigio, passar fra i salici sommessi,
pensa, forse, al fragile destino

degl'imperi, che passano pur essi...

                         ***
Vecchio Donau.... La fantasia si, perde,
qui, fra queste foreste e queste valli
cupe, fra tanto azzurro e tanto verde;

qui, dove un giorno sui lacustri Gialli
l'uragano passò sterminatore:
eran orde di Celti, orde di Galli;

dove, d'impeto belle e di furore,
sui Marcomanni irruppero potenti
le legioni d'Aurelio imperatore.

Passaron, dopo, i Goti travolgenti;
poi quest'acque arrossarono di strage
il Flagello di Dio con le sue genti

e le tribù degli Avari malvage,
finché da qui, sull'aquila già prona,
scesero i Longobardi, occhi di brage.

E per secoli e secoli risuona
fragor di guerra e sprizzano faville
d'immani incendi intorno a Vindobona...

Oggi su queste rive erme e tranquille
tutto è silenzio. Il gran Danubio scorre
indifferente tra foreste e ville.

Lassù, fra neri abeti, ecco una torre
nessun barone più da quei manieri
alla conquista o alla vendetta corre.

Vecchie fortezze, antichi monasteri,
chiese, abbazie, romantiche rovine,
mesti ricordi di defunti imperi...

Non forse dalle mitiche colline
scendono, nella notte palpitante,
bianchi guerrieri e pallide eroine?...

Grigio ed azzurro, rapido e pesante,
corre il gran fiume... Un trillo, all'improvviso,
di gioia : innanzi a me ride un'amante

spensierata, col viso accanto al viso
dell'amor suo. Per lei l'umana storia
non va più là d'un bacio e d'un sorriso ;

su queste acque, per lei non è memoria
che quella, solo, d'un amor fugace.
Oh, ingombro del destino e della gloria !

E' pur dolce goder questo mendace
sogno, che passa e più non si rivive !...
E pace all'ombre del passato, pace

a chi è sepolto sotto queste rive!

Stambul
Dal rombante velivolo lanciato
verso la gloria del morente sole,
tra lievi nubi - fiammeggianti aiole
in un giardino etereo sconfinato -

m'apparisti, Stambùl, magico coro
di cuspidi sognanti in un eliso
di chiarità, miracolo improvviso
di gemmee dita in una fiamma d'oro.

E affluire sentii dagl'infiniti
spazi onde azzurre, di fragranze cariche,
al cuore che sognò terre barbariche,
folli destini e favolosi miti.

Oh, vederti così, nella violenta
ansia del volo, immagine divina,
mentre la sera sopra te si china
come un'amante voluttuosa e lenta,

e passar oltre sull'alata prora,
con gli occhi fissi in quel supremo incanto
portare nell'anima il rimpianto
d'una bellezza non svelata ancora!

Invece sono sceso e non ho scorto
che una grande città meridionale,
con molta gente che si veste male
non usa più il « fez » : è uno sconforto!

Per giorni e giorni errai, senza un perché,
esule vagabondo e insoddisfatto,
con dentro al cuore un desiderio astratto
di mitiche odalische e Aziyadè,

malato d'impossibili chimere,
lungo vestigia di dimore arcane,
dove un giorno le belle mussulmane
languivano di noia e di piacere :

oggi pur esse, uscite dai recinti
delle prigioni d'or, van le tue donne
svelte e impudiche nelle brevi gonne,
senza più velo sui begli occhi tinti...

Errai per un babelico paese,
per vie dai lunghi, inafferrati nomi,
fra razze avverse e incogniti idiomi,
simili a dolci favole incomprese ;

e per vetusti, placidi quartieri,
lungo il tuo mare o sulle tue colline,
sostando fra le tacite rovine
di bianchi desolati cimiteri,

in un ingombro d'ingiallite foglie,
di mezzelune e tombe abbandonate
(dice il tuo saggio dio : « Dimenticate
ciò che la terra nel suo grembo accoglie.»)

Le tue notti ammirai, chiare e profonde
- orge di stelle - nell'oblio terrestre ;
da deserti caffè squallide orchestre
singhiozzavan tristezze furibonde

e disperate ; da un'oscura via
si levava una nenia : era un lamento
lungo e selvaggio, un incubo, un tormento
per gli ammalati di nevrastenia...

L'Oriente? Questo?... Favole remote
di torbidi profumi estenuanti,
volti velati, voluttà d'amanti
misteriose, primavere ignote,

invano vi cercai con la mia sete !
E il mio sogno ravviso in quel dipinto
un minareto solitario e stinto,
impiccato ad un chiodo, alla parete.

E non sospiro, non sospiro te,
Stambùl, ma l'illusione fuggitiva
che tanto m'esaltò, sepolta in riva
al Corno d'Oro, come Aziyadé...

L'illusione
Sul marciapiede d'una via remota,
in un mattino grigio e sonnolento,
stavano insieme un mozzicone spento
di sigaretta, un gambo di carota,

un chiodo usato ed altri avanzi vili,
quando un fuscello, spinto dalla brezza,
cadde sul gruppo... « Eh, che delicatezza!
Potresti aver dei modi più civili!

Non sai chi sono! » il mozzicone esclama.
Ed il fuscello: « Guarda un po'! Si picca
d'essere chi sa chi, mentre è una cicca !... »
« Io sono una gran dama, una gran dama! »

protesta allor la cieca inviperita.
« Anzi, lo fui: perché, vile fuscello,
perdei tre quarti del mio corpo snello
su quel rogo che chiamano la vita...

Ero una sigaretta d'Orïente
e ben nove sorelle ebbi : con loro
trovai rifugio in una stanza d'oro,
ove poltrivo deliziosamente.

Si spalancò la porta all'improvviso,
un giorno, ed una mano - era una mano
tepida, d'un candore sovrumano -
mi trasse fuori, m'accostò ad un viso

e li per li... » « T'appiccò il fuoco, pare! »
interruppe un fiammifero di legno,
carbonizzato per metà. Con sdegno,
il mozzicone replicò : « Volgare !

M'appiccò il fuoco! Pose una corona
di fiamma sul mio capo, intendi dire.
S'alzò l'incenso in voluttuose spire,
mentre, affondata nella sua poltrona,

mi stringeva una dama fra le dita
dolci e -nervose, sature d'unguenti,
e mi portava alle sue labbra ardenti,
ardenti e rosse come una ferita.

Felice, assaporando il mio profumo,
seguiva le mutevoli chimere
che disegnavan, labili e leggiere,
le volute azzurrognole del fumo.

E parlava, parlava... Io non capivo
quel che diceva : sono un'egiziana.
Ma sentivo una musica lontana
in quella voce, simile ad un rivo

che gorgogliasse sotto la nascente
luna... Ascoltavo in estasi, rapita,
senz'accorgermi ancor che la mia vita
si consumava inesorabilmente.

Diceva, forse, appassionata e stanca:
-Io non ho mai fumato sigaretta
più delicata...- Poi,l'ultima stretta,
e mi depose su una coppa bianca,

dove mi vide, con il cuor commosso,
finire, come un sogno che tramonta...
Sulla mia carta serbo ancor l'impronta
delle sue labbra, come un fiore rosso...»

Trasse un sospiro e tacque, emozionata,
immersa nel dolcissimo ricordo.
La riscosse il fiammifero balordo,
scoppiando in una stridula risata.

« Illusa! » esclamò dopo. « Io la conosco,
quella lingua! Mi chiamano svedese,
ma, lo confesso, sono del paese,
originario d'un vicino bosco.

Quelle parole sovrumane e tènere
di cui parli, le intesi: ero presente.
T'accesi io stesso e ignominiosamente
finimmo nello stesso portacenere.

Te fortunata, che non hai sentito
che la dolcezza della bocca d'Eva,
senza comprender quello che diceva...
perché parlava, sai, di suo marito ! »

Sessant'anni dopo....
In una città inglese, una lettera, ritrovata
in un ufficio postale in demolizione, è stata
consegnata alla destinataria dopo sessant'anni

Oh, nonnina, nonnina! Hanno portato,
dopo tanto, una lettera per lei...
Una lettera scritta da un soldato.
Il nipotino? No, l'innamorato!
Ma reca il timbro del settantasei.

Legge : « Mio dolce amore... ». Lo ricorda,
il soldato del quarto fanteria.
E oppressa a un tratto da un'angoscia sorda,
piange. Nel vecchio cuor c'è qualche corda
che ancora vibra. Che malinconia!...

Nel suo cantuccio ora sospira, l'ava,
e non può più riprendere il lavoro
dell'ago... Lo ricorda! «Addio, tesoro »,
le disse; e le appuntò, come s'usava,
un giglio bianco fra i capelli d'oro.

Povera Margherita, aveva tanto
sognato quella lettera! Al mattino,
s'alzava per attendere il postino,
che non giungeva. E, forse, aveva pianto,
nascosta fra i rosai del suo giardino.

Le arriva adesso, inutile e gentile
fiore che un dì fiorì sul suo sentiero,
non raccolto, ma fievole, sottile,
serba il profumo d'un remoto aprile
di dolcezza, d'amore e di mistero.

Piange, nonnina? Il cuore le fa male.
Stringe la breve lettera sbiadita,
pensando al lontanissimo ideale
forse la metterà sotto il guanciale
con la povera mano rattrappita.

E rivedrà, stanotte, i suoi rosai
fioriti e il suo diletto, in uniforme,
che verrà in sogno e le dirà: « by by!... »
Ma che sciocchezze! Poverina, ormai
non sogna più, nemmeno quando dorme!

Perché il tempo è malvagio, e non invano
passa, con l'ala travolgente e rude
passa; non ha pietà del cuore umano;
e lo dissecca, e porta via, lontano,
ogni gioia che illumina ed illude...

È arrivata una lettera d'amore
per la nonna! Una lettera? Per lei?...
Per voi, nonnina?... « Un giorno, ai tempi miei,
ebbi vent'anni...» E se la stringe al cuore,
la letterina del settantasei.

Finestre
Stan facendo in America, a Chicago,
un altro prodigioso esperimento
un grattacielo stile novecento,
comodo molto e dall'aspetto vago.

Niente balconi, via queste signore
finestre che deturpan le facciate
fanno entrar la polvere d'estate
d'inverno la pioggia e il raffreddore

Il sole, l'aria, tutto è artificiale
una chiavetta magica combina
aria di mare od aria di collina,
freddo esquimese o caldo tropicale.

Le finestre, i balconi, le verande,
aperti un tempo sulle antiche vie,
resteran nelle vecchie oleografie
in poche case tristi e venerande.

Faran ridere un po' certe parole
in versi del romantico ottocento
« Batte alla tua finestra e dice il vento...
Batte alla tua finestra e dice il sole... »

I poeti, in un'epoca futura,
(se pur questa genia di teste matte
non morirà) sospireranno : « Batte
un raggio ultravioletto alle tue mura... »

Oh serenate alle ragazze belle,
ebbri profumi d'una notte insonne,
che faceste languir le nostre nonne
al raggio della luna e delle stelle,

finirete voi pure nel museo
con le scale di seta, il cuore ignaro,
la « fenesta » che stava a Marechiaro,
gli amori di Giulietta e di Romeo,

i pensosi trovieri... E in sul verone,
non potrai più posarti ogni mattina,
o vecchia rondinella pellegrina,
per ricantar la flebile canzone...

Io penso sopratutto in quali guai
si troveranno, a che saran ridotti,
oltre alle rondinelle, i passerotti,
gl'innamorati, i ladri ed i vetrai.

Malinconia!... Ma qui, nella mia stanza,
la finestra c'è ancóra (oh meno male!)
e lascia entrare un sole naturale,
sublime, con la tepida fragranza

del maggio; ed io m'affaccio e sono pago
di respirar quest'aria benedetta,
che invano cercheran con la chiavetta
nel nuovo grattacielo di Chicago.

La verità sulle formiche
Ricordate quali esempî,
quando ancor s'era fanciulli
(ma fanciulli d'altri tempi,
saggi, creduli, un po' grulli),
i maestri petulanti,
tutti uguali su per giù,
ci mettevano davanti
per spronarci alla virtù?

quando il libro inconcludente
della terza elementare
ci sembrava l'esponente
d'una logica esemplare,
con proverbi di riguardo,
traboccanti di giudizio
«l'ozio è il padre d'ogni vizio »,
« tanto va la gatta al lardo... »,

« raglio d'asino (pensate!)
non ha mai raggiunto il cielo ».
Queste trappole, stampate,
ci sembravano vangelo.
Fra le massime più antiche,
una, alquanto singolare,
ci esortava ad imitare
le saggissime formiche.

Tutte dedite al lavoro,
silenziose ed ordinate,
le formiche fan tesoro
dei bei giorni dell'estate;
con tenacia eccezionale
si provvedon per l'inverno,
noncuranti dello scherno
delle querule cicale,

non corrose dalla tabe
della subdola ambizione:
tutte queste erano fiabe
che beveva il credulone ;
perché adesso, se Dio vuole,
un filosofo scienziato
finalmente ha smascherato
queste ipocrite bestiole.

L'uguaglianza del lavoro?
Se coi metodi più ignavi
incoraggian fra di loro
il commercio degli schiavi
È un ammasso d'usuraie,
di predoni delinquenti,
di regine prepotenti
che divoran le operaie.

Han le leggi più immorali,
più malefiche, più storte:
senza tanti tribunali,
la ragione è del più forte
e gli aculei più potenti,
le mandibole più salde
han diritto a celle calde
ed a cibi succulenti.

Dàn la caccia ad un insetto,
che secerne un succo immite
ch'ha su lor lo stesso effetto
che sull'uomo ha l'acquavite:
con ignobili mercati,
qualche volta, al produttore
del terribile liquore
dànno in cambio i propri nati.

Né per esse il troppo stroppia:
in moltissime tribù,
una femmina s'accoppia
con sei maschi ed anche più;
ed in barba alla morale
certi comodi mariti,
pur di fare i parassiti,
incoraggiano il rivale...

Sono poi così voraci
e tra lor così nemiche,
che talvolta son capaci
di mangiarsi tra formiche,
così forte è l'odio!... E poi
si vorrebbe che la gente
le imitasse ! Ma è evidente :
le formiche imitan noi...

Elogio della bugia
Ogni anno i mentitori più gagliardi
s'adunano a Chicago in un congresso,
che conferisce a qualche illustre fesso
il titolo di re: « re dei bugiardi ».

Non è uno scherzo, oh no! Gli Americani
valorizzan così quella menzogna
che i benpensanti mettono alla gogna,
ma ch'è alla base dei rapporti umani.

È questa la virtù fondamentale
che, con la facoltà della parola,
il sommo Dio, che affanna e che consola,
conceder volle al misero mortale.

Ed, appartiene, la virtù ch'io lodo,
soltanto a noi: la bestia non mentisce
(ed è forse per questo che finisce
così spesso al macello o in malo modo !...)

Mentre la verità semplice e nuda,
senza un ricamo, senza una cornice,
pesa ed opprime, l'uomo è più felice
quando pietosa una bugia lo illuda.

E se la farsa umana, arida e trita,
non conoscesse questa scappatoia,
non sarebbe soltanto una gran noia,
ma addirittura un baratro la vita.

Che... buio e che silenzio in un salotto,
bandendo dai discorsi ogni bugia !
Vada all'inferno la diplomazia!
I giornalisti facciano fagotto!

E irreparabilmente, in un baleno,
anneghi il furbo, che rimane a galla
solamente così, perché le sballa
meglio degli altri; che, chi più chi meno,

le sballan tutti, e l'uomo di parola,
il puritano austero ed impettito,
quando sostiene: « Non ho mai mentito »,
mentisce in quel momento per la gola.

Immaginate la tragedia immensa
di un infelice, che si veda spinto,
sotto l'impulso di un malvagio istinto,
a spifferare tutto ciò che pensa;

o di una donna, che non possa fare
affidamento sulla fantasia,
per cui, grazie a una piccola bugia,
regna la pace intorno al focolare!...

S'evitan tanti guai quando si sa
cacciare una bugia dove bisogna.
Sia benedetta, dunque, la menzogna,
ch'è la salvezza dell'umanità.

Inno al grano
A quanto affermano
certi scienziati,
che son di solito
bene informati,

un dì, servendosi
sol d'acqua e d'aria,
farà la chimica
da culinaria

cibi sintetici
vedran la luce,
a quelli analoghi
ch'oggi produce

in modo semplice
e naturale
l'incomprensibile
forza vitale.

Le arcane pillole
dell'avvenire
saranno comode,
non c'è che dire,

ma certo il vivere
sarà un mortorio.
Al malinconico
laboratorio,

che un commestibile
piuttosto gramo
promette ai posteri,
noi preferiamo

questo miracolo
biondo e sublime,
che dai suoi visceri .
la terra esprime.

Onde, benefico,
in ogni estate,
ben torni, giubilo
di spighe aurate,


che nasci, innumere
divina prole,
dall'ineffabile
bacio del sole,

per cui curvaronsi
le affrante schiene
e ch'ora un'esile
spiga sostiene:

potenza mistica,
seme fecondo,
eterna ed unica
leva del mondo!

Sogno dell'umile,
gioia del ricco,
poema magico
chiuso in un chicco

d'oro, che, docile
ed assuefatto,
s'affida all'opera
dell'uomo e a un tratto

con metamorfosi
strane dispensa
i più gradevoli
doni alla mensa:

dalla domestica
plebea lasagna
all'oligarchico
pane di Spagna.

Da te provengono
quegli spaghetti
che sono l'incubo
di Marinetti;

dal genio candido
della farina,
- di te, purissimo,
figlia divina -

nasce col lievito
quella pagnotta
per cui si tribola,
per cui si lotta

la mèta spicciola,
quotidiana
dell'instancabile
fatica umana.

Essa - fenomeno
paradossale -
governa il torbido
mondo animale:

potente stimolo,
suprema legge,
con senso pratico
le idee corregge ;

spesso concilia
lupi ed agnelli ;
piega le vertebre
dei più ribelli;

solleva subito
le fronti stanche;
sereni gli uomini
rende, quand'anche

rinunziar debbano,
o bene o male,
al companatico
dell'ideale.

Fantasia planetaria
Non invento, bensì copio
da un giornale accreditato:
un astrologo ha creato
un enorme telescopio,

per veder le stelle -molte
non scoperte fino adesso -
ingrandite ad un di presso
quattrocentomila volte.

Il magnifico gigante,
che con l'occhio il cielo fruga,
può seguir nella sua fuga
la meteora più distante.

Dallo spazio sconfinato
cade ormai l'ultimo velo:
non un angolo di cielo
che rimanga inesplorato;

non un piccolo pertugio,
fra una stella ed un pianeta,
dove un misero poeta
trovi un ultimo rifugio!

Mostreranno il viso vero
Sirio, Venere, Polluce,
nel nitore d'una luce
senz'aureola di mistero...

O poeti derelitti,
malinconiche zitelle,
che andavate fra le stelle
con sospiri così afflitti,

le vedete? Poverine!
Non son più lucciole d'oro,
né un mirifico tesoro
di fantastiche sterline:

sono immensi informi mondi,
ben diversi, a quanto pare,
dalle stelle così care
agli amanti vagabondi!...

Una vecchia canzonetta
sospirava con fortuna:
« Io vorrei che nella luna
ci s'andasse in bicicletta...»

Ecco, adesso -oh meraviglia! -
quella luna da romanza,
la vedremo alla distanza
di non più di venti miglia:

il gentile astro d'argento
ch'estasiò le nostre nonne,
che commosse il cuore insonne
del romantico ottocento

e che in sogno ancora afferra
qualche timida fanciulla,
è una faccia arcigna e brulla,
ch'ha più macchie della terra...

Oh assai meglio, certamente,
osservarlo da lontano
questo enigma sovrumano
che scombussola la mente,

riservando all'ideale
quelle sfere luminose!
Vi son tante brutte cose
che vediamo al naturale!...


Rataplaplan!!!!!!
C' è chi ignora che molti "terron"
rinomanza, splendore e fortune
hanno dato alla Patria comune
nella lingua che Dante parlò:
Bernardino Telesio, Tommaso
Campanella, il Divino Torquato;
e quel Vico, dal mondo acclamato
e quel Bruno che il rogo affrontò.

Tra i moderni fu Verga terrone
fu terrone anche lui, Pirandello.
E D'Annunzio? Terrone anche quello!
Diaz e Orlando? Terroni anche lor!
Tutta gente che ad un grande cervello
spesso univa un grandissimo cuor.
Senza dir di tant' altri intelletti,
come il sommo filosofo Croce,
la cui grande magnifica voce,
sol da poco è venuta a mancar.
E i terroni patrioti famosi?
Chi, facendo via Mario Pagano
ricche aziende, ogni grazia di Dio
(e pensar che nemmeno uno zio
ho fra questi in cui posso sperar!)
Molti intanto non voglion capire
che sian nati a Palermo o a Vercelli,
gl' italiani son tutti fratelli,
assiepati fra l'Alpi ed il mar.
Perché dunque insultare il terrone?
Perché dunque dobbiamo dolerci
se, in mancanza di industrie e commerci,
egli ha vinto un concorso statal,
o se in cerca di un povero pane
è qui giunto dal suolo natal?
Poi si sposa con vostra cugina,
mette al mondo sei figli gagliardi,
e son questi che, nuovi lombardi,
del terrone daranno a papà.
Dunque, via quelle scritte dai muri,
d' un sapore grottesco e stantio!!
Zitti là!! Son terrone pur io,
rataplan, rataplan, rataplà!!!!!!

Sala anatomica
Il cuore !... L'arcigno maestro,
toccando l'inerte materia,
spiegava:«L'aorta, l'arteria
succlàvia, il ventricolo destro

(è quello che meno lavora:
dà il sangue ai polmoni soltanto)...»
Gli allievi, distratti, di tanto
in tanto guardavano l'ora.

La sala faceva l'effetto
d'un acre macello. Io fissavo,
sgomento, quel muscolo cavo,
che un giorno pulsò dentro un petto:

il cuore! Guardavo quel cuore
gettato su un tavolo rude:
è questo che dentro racchiude
i sogni, la vita, l'amore?...

« Difeso da un osso: lo sterno »
Difeso? Se un urto può farne
la povera cosa di carne,
oggetto di studio e di scherno,

che un vecchio, saputo e ridicolo,
maneggia con calma perfetta!
« Vediamo più qua l'orecchietta,
che scarica il sangue al ventricolo... »

Dio mio, l'orecchietta!E il mio cuore
è identico a quello (il cuor mio!):
un urto, una scossa ed addio
i sogni, la vita, l'amore!

Di tutta la gloria e l'ignavia,
di tutto il fardello che porta,
non resterà più che l'aorta:
l'aorta e l'arteria succlàvia...

Ma, dunque, il mio sacro ideale
può spegnersi a un soffio improvviso?
E tu, dall'eterno sorriso
di bimba, speranza immortale,

perché mi lusinghi e conduci
nei tuoi paradisi celesti,
fra sogni divini e funesti,
fra dolci ed effimere luci,

se solo di vero, d'umano
non c'è che il minuto che fugge
con l'ala che batte e distrugge
le rose, che odorano invano?...

«Domani l'esofago... » Oh bravo!
Salute, signor professore!
E usciamo all'aperto; ma il cuore,
stasera, è più vuoto, più « cavo » :

non trovo l'amore, né l'estro,
né i sogni, né il sacro ideale.
Qualcosa, non so, mi fa male:
è, forse, il ventricolo destro!

Il corpo umano
Ecco un'analisi
non troppo amena,
che ha fatto un màcabro
dottore a Jena:
preso un cadavere,
l'ha decomposto,
con molto scrupolo
stimando il costo.
L'ossa forniscono
tanta calcina
dal far l'intonaco
d'una cucina,
e si ricupera
tanta grafite
da far al massimo
cento matite
I grassi abbondano
- strano contrasto! -
pure in chi è solito
saltare il pasto.
Da tutto il fosforo,
piedi compresi,
al più ci scappano
mille svedesi,
mentre distillasi
dal corpo vile
d'acqua…potabile
tutto un barile.
Il ferro è in minime
tracce, di modo
che non ci fabbrichi
neppure un chiodo:
fatto stranissimo
perché da vivi
di chiodi, in genere,
non siamo privi.
Ma ciò che supera
le previsioni
più catastrofiche
sono i bottoni;
ne ottieni un numero
fenomenale,
sì che un legittimo
dubbio t'assale:
fece l'analisi
quell'alchimista
sopra lo scheletro
d'un giornalista?
Volendo vendere
questi elementi
ai poco modici
prezzi correnti,
ci si ricavano
venti lirette:
alcune scatole
di sigarette!
Che cifra misera!
Solo conforto,
se si considera
che l'uomo morto,
oscuro o celebre,
ricco o pezzente,
sciocco o filosofo,
vale ugualmente.
Ed è ridicolo,
in fondo in fondo,
che, mentre vivono
su questo mondo,
sia dian cert'arie
tanti mortali,
se poi gli scheletri
son tutti uguali!

 

Cittanova
Mi piace Cittanova, il mio paese;
che vedo ormai soltanto in cartolina:
una ridente e mite cittadina,
alla buona, così, senza pretese;

Tanto che ancor (pur se già comincia
ad avere un ginnasio, a quel che sento)
non s' è rivolta anch' essa al Parlamento
per esser capoluogo di provincia.
Fra distese di vigne, d' uliveti,
e d' orti dai balsamici profumi
essa produce vino, olio ed agrumi
avvocati, filosofi e poeti.

E il buon sole d' Attica è ancor vivo
fra la sua gente estrosa e scanzonata
che saggiamente vive alla giornata
in un mondo tranquillo e primitivo.
E spesso per le strade di Milano
fra turbe serie, indaffarate ed arcigne
io penso a quelle gente e a quelle vigne
come ad un sogno placido e lontano.

E salgo verso Zomaro; l' Incudine
selvaggia mi sorride all'improvviso...
Se qualche volta sogno un paradiso
è il paradiso della solitudine.
Ed è perciò che dopo quarant' anni
di tanto in tanto, medito il ritorno
pur se non troverò, tornando un giorno,
la mamma, il babbo ed il vecchio zio Giovanni.....

L'atomo
Si sa che l'atomo
è il fondamento,
la parte minima
d'un elemento
i cui caratteri
però - s'osservi -
inalterabili
sempre conservi.
Già indivisibile,
invece adesso
si può dividere
l'atomo stesso
in ben più piccole
parti le quali
hanno caratteri
loro speciali,
che differiscono
dall'elemento
dopo.... chiamiamolo
lo smembramento.
Trovi nell'atomo,
in generale,
un nucleo atomico
(parte centrale)
ed un involucro
che d'ordinario
corteccia chiamasi,
o planetario.
Il nucleo atomico
di cui s'è appreso
e a cui dell'atomo
si deve il peso,
di piccolissime
parti s'avviva,
di cui la carica
è positiva
- parti che soglionsi
chiamar protoni-
e di particole
neutre: i neutroni
(questi derivano
da un elettrone
accomunatosi
con un protone).
Hanno i corpuscoli
del planetario
invece, elettrico
segno contrario:
son quei corpuscoli,
detti elettroni,
che intorno al nucleo
e ai suoi protoni
perenni girano,
come or si sa,
a una incredibile
velocità.
In questo involucro,
a lor legati,
posson distinguersi
parecchi strati,
dei quali l'ultimo,
meglio, il più esterno,
è importantissimo
se ben discerno,
perché determina
a suo talento
le virtù chimiche
dell'elemento.
il nucleo atomico
è, viceversa,
con metamorfosi
più che perversa,
il responsabile
della "fissione"
in altri termini
la reazione
or non più chimica
ma nucleare:
la bomba atomica
sta per sbocciare....

La caduta di Siracusa - Scipione l'Africano
Morto Gerone, autocrate
di Siracusa, avviene
che, dopo lunghi torbidi
e sanguinose scene,

la forte città sicula,
in mano a partigiani
devoti di Cartagine,
si stacca dai Romani.

Subito allora il console
Marcello la circonda
per terra e mar d'assedio:
la lotta è furibonda;

ma mesi e mesi passano
e la città non cede.
Famoso matematico
e fisico, Archimede

per la difesa escogita
non mai veduti ordigni,
che sui nemici lanciano
terribili macigni;

con certe lunghe pertiche
dall' alto delle mura
preme le navi e subito
le manda in sepoltura;

oppure, sollevandole
a guisa d'una piuma,
contro gli scogli attoniti
le sbatte e le frantuma;

o le riduce in cenere
con i convessi specchi:
e sempre ha pronti all'opera
di morte altri apparecchi.

Toglie Marcello, in ultimo,
l'assedio, assai cruento;
ma la città capitola
per via d'un tradimento.

La splendida metropoli
l'esercito saccheggia:
ricchezze incalcolabili
trovate nella reggia,

tesori d'arte ellenica,
statue, vasi, dipinti,
spedisce a Roma il console
dalla città dei vinti.

Pochi abitanti sfuggono
all'orrido macello,
e, nonostante gli ordini
del, console Marcello,

che vuol vedere incolume
il celebre scienziato
anche Archimede è vittima
dell'odio d'un soldato.

E' il distrattone classico
(gridando «eureka», un giorno,
in mutandine e sandali
fu visto andare intorno):

sta lavorando all'opera
di strage e di difesa,
senza nemmeno accorgersi
che la città s'è arresa,

e non risponde a un milite
sprezzante che gli chiede:
- Sei tu l'illustre tanghero
che chiamano Archimede? -

Assorto nelle formule,
non l'ode; e l'ignorante,
per forza d'abitudine,
lo fredda sull'istante.

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