Manicomio di Reggio Emilia cucchiai di legno, patate, urli, custodi e l'estate afosa.... Che lunga vigilia! *** La saggezza è degli uomini ridicoli. Amo la mia follia, la sovrumana gioia dell'inatteso, amo i pericoli dell'ombra, l'avventura più lontana. La buona strada è ingombra di veicoli, di polvere, di luce; ed un'insana ebbrezza mi trascina per i vicoli più foschi, più tortuosi, donde emana un lezzo d'immondizia, ove s'aggira la miseria e il delitto, ove un malvagio incubo grava con attonita ira. Ho la tempesta dentro il cor randagio: verso un oceano livido m'attira verso un oceano livido m'attira la voluttà suprema del naufragio. Ricordo che scrissi così, un giorno, quand'ero tra i folli (reparto Casino Conolli), sul muro, firmandomi : A. C. *** Manicomio di San Maurizio, cinto di mura e di sbarre. Che tedio! che cose bizzarre! che malinconico ospizio! Non saprei dire che volli, che dissi di strano, che feci fui il pazzo del numero dieci, reparto Casino Conolli. Ricordo, però, che mi parve di giungere a un funebre lito, traverso a un oceano infinito, fra un popolo triste di larve, in una scogliera selvaggia, in un desolato abbandono, oggi che, libero, sono tornato fra la gente saggia. Ma non sono cattivi i pazzi! Sono dei bravi ragazzi, con tutti i loro vaniloqui; sono degli esseri innocui, con tutta la loro demenza han lasciato dietro quel cancello di ferro l'eterna semenza del male: han perduto il cervello. E van per un vasto giardino con gli occhi inchiodati nel vuoto ; van dietro un fantasma ignoto, per sempre, senz'altro, destino. *** Capitato nella stanza d'un signore canadese (non ci son forse abbastanza manicomi al suo paese), una stanza tutta a specchi, ho veduto i miei vent'anni logorati come vecchi, sprofondati in certi panni!... Le mie labbra eran sbiancate, la mia barba senza cura, le pupille dilatate dietro un sogno di paura. Così tetro mi son visto, ch'ho esclamato ad alta voce - Cavaliere, sembri Cristo inchiodato alla sua croce ! -E un dì, per passar dell'estate le lunghe e noiose giornate, mi divisi la barba in due bande ; in due bande divisi, specchiandomi ai vetri, i capelli ; studiai strani sorrisi e uscii nel giardino : - Io son grande! Io sono Cristo, o fratelli ! - Innanzi a me un crocchio di pazzi, con le braccia alzate, con le pupille stralunate, si mise in ginocchio.... Un vecchio dottore mi faceva strane domande; gli rispondevo: - Adorami, perché io son Cristo, io son grande ! E il vecchio dottore fingeva di baciarmi la mano ; ma poi, com'era lontano, grave la testa scuoteva. Ed io scuotevo la mia -Povera psichiatria!... -
*** C'era un avvocatino, povero avvocatino settantenne!, con una chioma lunga, bianca bianca, e una barba solenne mi faceva un inchino, m'accarezzava con la mano stanca. - Son qui da quarant'anni ! Quando morrò, Gesù, rispondi, il manicomio c'è forse anche lassù? - - Lassù? C'è un grande palazzo d'oro pei derelitti di questa vita tutto un giardino, tutto un tesoro, ed aria libera, luce infinita.... - - E donne, Cristo, donne, ne vedi?- - Oh, bionde, brune, tutto un fiorire ! - L'avvocatino, curvo a miei piedi, mi supplicava : - Fammi morire!...-
*** Un, giorno era caduto, correndo pel viale dietro chi sa quale chimera stramba, e s'era fatto male, povero avvocatino, ad una gamba. Io corsi a dargli aiuto: lui mi rimproverò di cattiveria. Io ricordo: che cosa desolante quell'aspetto d'agnello agonizzante, quell'espressione di persona seria!...
*** Alle sette l'adunata un po' d'aria ai prigionieri. Alla breve passeggiata ci s'andava volentieri, benché sempre per l'uguale e monotono cammino: dal recinto del giardino fino in fondo ad un viale. Verde ed ombra, uccelli in festa: c'era un'aria di campagna; ma un custode andava in testa ed un altro alle calcagna. Si vedeva in lontananza la muraglia senza uscita, oltre cui c'eran la vita, il sorriso, la speranza. A sinistra uno steccato, indi un rustico cancello; poco lungi un isolato cinto d'alberi: era quello il reparto delle donne; e talune, provocanti, sorridevano ai passanti, sollevandosi le gonne. E ogni volta l'avvocato si fermava per vedere, con un grido soffocato di sorpresa e di piacere. Trepidante, rosso in viso, ribellandosi alla scorta, stava li, presso la porta del vietato paradiso - Oh, vaghissime donzelle Oh, delirio sovrumano!... E lanciava alle più belle lunghi baci con la mano. Non che fosse un dongiovanni tanto meno un libertino Capirete : poverino, era lì da quarant'anni!... *** Il custode circospetto, ogni sera alle nove, veniva per vedere s'io fossi già a letto ; guardava intorno, un po' grave: - Buona notte ! - ed usciva chiudendomi a chiave. Poi si spegneva la luce: allora nel silenzio truce - il cuore tremava un tantino - sorgevano ombre strane. In alto un finestrino mostrava un sorriso di stelle disperatamente lontane. A volte, sulle ali del vento, giungevan di là, dal Casino Pinel, degli urli rabbiosi, che davano all'anima un brivido di sgomento. Il Casino Pinel, Dio mio! La casa dei pazzi furiosi... E se tutto ad un tratto, come càpita spesso ad un matto, diventassi furioso pur io? Io, un giorno, li vidi da presso quei poveri pazzi e so come gridi, so come sghignazzi la spaventosa Follia. Non sembran degli esseri umani quando nessuno li spia, si strappano con le mani le carni; taluno, impotente nella camicia di forza, ulula, geme, si sforza di liberarsi, o implora perdono; altri, ancóra, come ombre disperate, camminan su e giù eternamente per una stanza imbottita, o tendono dalle inferriate delle finestre le braccia, maledicendo la vita con una vana minaccia.... Oh, certo, nessuno laggiù bacerebbe la mano a Gesù! *** No, molto meglio non impazzire, metter la testa sotto il cuscino, non sentir nulla, forse dormire, come a quest'ora l'avvocatino: l'avvocatino che pure è pazzo, che ha tante pene nel cuore insonne, ma sogna adesso quel gran palazzo, pieno di luce, pieno di donne!... Cartoline illustrate Erano nel salotto della nonna, alle pareti - le ricordo tutte, dalle più raffinate alle più brutte - fra il ritratto dell'avo e una madonna cuori trafitti e cinti da catene, quadrifogli con la scritta in oro « Non ti scordar di me! » « T'amo! » « T'adoro! » « Ma l'amor mio non muor! » « Ti voglio bene ! » il « Buon Natale » in mezzo ad una stella alla culla d'un bimbo appena nato, un moschetto e una rosa col soldato che mandava un saluto alla sua bella. E ve n'eran d'audaci : ecco una bruna invitante, procace, un po' scollata, ed un uomo in camicia inamidata, che la baciava al lume della luna. E ve n'eran di buffe : un'albicocca con gli occhi e il naso, che faceva chiasso e che risate, poi, quell'uomo grasso col fiasco in mano e con la pipa in bocca! E baci, baci e memori saluti: baci e saluti dedicati a nomi dimenticati, simili ad aromi svaniti, a un mondo di fantasmi muti. E ve n'eran del babbo e della mamma, con una data : millenovecento (lune, piccioni, gondole d'argento), seguite forse a un dolce telegramma. Erano stinte ormai, stinte e macchiate: quei baci, quei ricordi, quei pensieri eran coperti di puntini neri, perché le mosche... sempre scostumate! A un tratto, dal salotto della nonna fuggiron, poi, verso un destino ignoto; e sembrò così lugubre quel vuoto fra il ritratto dell'avo e una madonna! Un bel giorno scomparvero : mistero! Le gettaron nel fuoco, poverine!... Oggi s'usano ancor le cartoline, perché, in fondo, fan comodo davvero: puoi confortare il mesto creditore con «un saluto » dietro il panorama e in « un abbraccio da colui che t'ama. » condensi quattro pagine d'amore, o fai sapere a dodici persone, con « un ricordo », senza averne l'aria, che conduci una vita amena e varia, che prendi i bagni a Rimini o a Riccione. Ma cerchi inutilmente - per fortuna! - nell'austero salotto della nonna un signore in camicia ed una donna stretti in un bacio, al lume della luna. Presepe Forse era notte, ed una notte pura, perché nel cielo ardevano le stelle, mentre i pastori con le ciaramelle guidavano le greggi alla pastura. E come luccicavano quegli astri di carta d'oro! Intorno, qualche lieve bioccolo di bambagia: era la neve, sparsa sui monti; e serpeggiavan nastri d'argento per le valli: erano i fiumi... Notte; ma dappertutto erano sciami di bimbi, e lavoravan falegnami innanzi alle botteghe senza lumi, e vecchiette: filavano davanti alle capanne, e v'eran cacciatori nei boschi (coi fucili!...) e mercatori, e le strade eran piene di viandanti, sui muli, a piedi, a dorso di cammello; e andavan tutti verso un lumicino, ch'era la grotta di Gesù bambino con la greppia, col bue, con l'asinello... Sorgeva una divina sensazione di mistero, di pace, di riposo da quel miscuglio ingenuo e delizioso, da quel mondo di gesso e di cartone. E in una gioia attonita sommerso era il cuore del bimbo trasognato... Le campane suonavano: era nato colui che disse: «pace! » all'universo; colui che predicò lungo le rive del bel Giordano e disse: « perdonate a chi v'offende, a chi v'opprime! » e: « date - disse - a chi chiede, e amate anche chi vive oltre il confine della vostra siepe!... », come il vecchio pievano, umile e saggio; nella chiesetta bianca del villaggio, ci raccontava, accanto al suo presepe. Passaron gli anni quell'azzurro cielo si rabbuiò; sull'anima randagia quei bianchi, lievi fiocchi di bambagia piovvero in fitti granuli di gelo, Ma quegli astri di carta, quella culla di fieno, quegli arcangeli di noce parlano ancora con la stessa voce che ci commosse l'anima fanciulla, e dicon: « pace ! » al trasognato cuore, dolci come una musica lontana, e gli fanno capir quanto sia vana la sua piccola storia di dolore: perché, malgrado tutti i suoi naufragi, malgrado le sue misere procelle, vi son nel cielo quelle stesse stelle che un giorno illuminarono i Re Magi; e fra le stelle, ermetico, tenace, quello stesso mistero, immobilmente; e sempre, al mondo, quella stessa gente con. la sua vana, eterna ansia di pace. E tende, illusa, il cuore a questa Buona Novella, nell'oblio d'una giornata, la vecchia umanità sconclusionata, che non dà, che non ama e non perdona. Il castellano folle Il mio cuore è il superbo castellano d'un maniero lontano, librato fra le nuvole turchine. Nella bella dimora solitaria, fatta di luce e d'aria, nella celeste mole, tutta iridata dalle nubi alterne, son sinfonie divine di primavere eterne, musiche di silenzio ebbre di sole. E il mondo.... Com'è vano, com'è piccino il mondo, veduto da lontano Non altro che un giocattolo rotondo che gira gira come un arcolaio e che un bel giorno si frantumerà entro le mani del burattinaio, lo Sconosciuto dell'umanità, Il castellano pigro e trasognato vive nella sua reggia Tranquillo e spadroneggia spensierato. E ai suoi banchetti - ahimè, troppo ideali!- ogni giorno convita in grande intimità le figure retoriche delle cose immortali che allietano la vita l'Amor, la Gloria, la Felicità... Ma spesso nella notte esce il Cervello, feroce menestrello tutto vestito a nero, che va dove gli frulla, strano disoccupato trovatore, che corre sempre e che non trova nulla. E sempre la medesima canzone canta sotto un balcone dell'aereo maniero: O inutile signore, che in così alto sito non temi il raffreddore, ne senti l'appetito; che, solitario e imbelle, strimpelli serenate e pensi che le stelle ti siano molto grate, l'illusione stolta da troppo tempo dura il cielo non t'ascolta e il mondo non ti cura. Scendiamo ! Che tracollo, se si solleva il vento! Ci romperemo il collo, signore sonnolento ! Così canta il feroce menestrello, che va dove gli frulla, il nero trovatore che corre sempre e che non trova nulla. E il povero signore, malgrado l'abitudine, s'adombra: dapprima il dubbio, come un pipistrello, creatura malefica dell'ombra, intorno gli svolazza ; e a poco a poco una rincorsa pazza di larve disperate mette sossopra il magico castello. Vacillano le mura: crollano nell'abisso frantumate. Né si può dir se tremi di paura o se di freddo tremi il disgraziato eroe dei miei poemi, incatenato dalla notte oscura. Ma, come nasce il giorno e il sole irradia la sua luce immortale, le fosche larve sfumano dalla celeste Arcadia dove il mio cuore vive d'ideale. Tutto è tranquillo fra le azzurre sfere le nubi sono un letto di bambagia... E fra le coltri delle sue chimere il castellano folle si riadagia. Temporale estivo Agita appena un brivido di gelo le foglie immote e attonite. L'avviso dardeggiante d'un lampo ed ecco il riso folle del tuono rotolar dal cielo sulla terra sconvolta, all'improvviso. E la terra supina, avida, assaggia le prime gocce. Dopo, l'acqua scroscia violenta, irrefrenabile, selvaggia. Si gonfia, nella piena dell'angoscia, il mare urlando alla deserta spiaggia. Ci ripariamo sotto una tettoia, a precipizio... È bello l'uragano, pieno di forza e di mistero. È strano sentiamo il nostro cuore ebbro di gioia. Ed io rimango avvinto alla tua mano. Siamo come due rondini smarrite, ma ridiamo felici alla bufera l'estate muore e sembra primavera, tanta freschezza è nelle nostre vite, tanta divina gioia è nella sera. E la gioia che il cielo umido sente nelle stelle nascoste, che fra poco fioriranno, poiché già più fioco diviene il tuono e il cielo all'occidente ha barbagli di porpora e di fuoco. Finita? Dalle siepi dei giardini non piovon più che garrule rugiade sulle tue braccia nude, mentre invade un forsennato odor di gelsomini il silenzio dei parchi e delle strade. E ti gocciola l'acqua dai capelli ; e tu,ridendo d'un tuo riso d'oro, scansi leggera i piccoli ruscelli fangosi. Intorno, un pigolio d'uccelli stupiti, che s'interrogan fra loro. E ci canta, l'amore vagabondo, mentre nel sogno l'anima è sommersa: - Non sono che una nuvola, che versa la sua liquida musica sul mondo in un sera estiva e va dispersa...- Pioggia autunnale E piove! Non c'è più, nel grigio sfondo del cielo, che una volta senza luce, da dove un ragno smisurato cuce la sua liquida trama intorno al mondo. È bella la tempesta, quando schiaccia la terra con un impeto omicida e il tuono, folle, lancia la sua sfida urlando con dileggio e con minaccia. Amo la breve e garrula bufera, che scroscia, fischia, schianta all'improvviso, quando l'azzurro mesce il suo sorriso al primo pianto della primavera: l'umido odore della terra invade l'aria, su su pei teneri germogli, e la malinconia dei rami spogli si veste di promesse e di rugiade. Ma questa pioggia che, spietata, insiste, lenta, uguale!... Nei fiori devastati è il profumo dei giorni dissipati, come un sospiro rassegnato e triste. Non fu, l'estate, che un fugace inganno, col suo cielo, i suoi doni, i suoi stupendi sogni... Fa quasi freddo : tu rammendi le mie maglie di lana dell'altr'anno. Rammendi e taci. Piove. Io taccio e fumo. La vita è assente, come nube immota. Piove. Il mio cuore è una boccetta vuota, da cui s'esala l'ultimo profumo. Piove, piove... Non so, l'anima alloggia, come quel cielo, un ragno smisurato. Dov'è il mondo dei sogni? È dileguato, avvolto nella bruma della pioggia, che, lenta, cuce intorno al mio cervello l'implacabile rete che lo assilla. Nevrastenia... Tu no : sei più tranquilla; tu dici: - Piove! Comprerò l'ombrello... - L'evasione Ha, imprigionato il sogno, imprigionato per un mese il gran sogno : è stato un creso, un re, sacrificando all'inatteso un anno d'umiltà, lungo e spietato. - Un principe? un attore? uno straniero?... Che originale, in quel pigiama rosso!...- Al Lido tutti quanti han gli occhi addosso a quel superbo e strano avventuriero. All'albergo non c'è chi non domandi chi sia quell'uomo. Il turgido portiere si sprofonda in inchini : - Cavaliere, pardon!, commendatore, ai suoi, comandi...- Su quella spiaggia resterà memoria di lui : domani andrà coi piedi nudi, ma ha vinto al Casinò tremila scudi, che ha spesi in una notte di baldoria. E donne, donne, donne d'ogni età e d'ogni tinta innanzi al suo cammino trenta indirizzi almeno ha sul taccuino, trenta indirizzi a cui non scriverà. Finalmente anche lui sa quest'ebbrezza, che la sua vita, già senza costrutto, non conosceva : dissipare tutto in una estate di spensieratezza; vivere in sogno con la folle gioia di chi sa passar oltre e non si volta indietro e corre e ride e non ascolta le voci dell'affanno e della noia; di chi fiorisce in una luce gialla azzurra verde d'oro, in un baleno di suprema letizia e poi vien meno, senza rimpianto, come una farfalla... Ora è tornato. In un armadio cela quel pigiama sgargiante in seta rossa. Corre in uffîcio: taciturno, indossa le vecchie sopramaniche di tela. E ripensa a quei giorni memorandi, fugaci come fuochi d'artificio ha un amaro sorriso. Il capo-ufficio suona...- Commendatore, ai suoi comandi!- Nostalgie di Natale Con quel suo viso d'infermo, com'è triste questo sole invernale, appeso alla parete del cielo come un orologio fermo nella sala d'un tribunale! Dategli una mano di calce ce n'è tanta lassù! (O forse son candidi cirri, donde stanotte sorgerà la pallida falce della luna?) Toglietelo di là, gittatelo fra quei poggi lontani! Quel ghigno spettrale è fuori di luogo quest'oggi, vigilia del santo Natale... Fate che se ne vada! Tanto, la terra trema lo stesso di freddo ed il vento perseguita sulla strada le povere foglie in tormento! Oh, fateci rivivere il poema della notte che s'avanza: la notte della buona novella della divina speranza! Fateci vedere un po' di neve che sia questa notte la terra avvolta da un greve candido manto e il cielo tutto nero : soltanto, fra uno squarcio di nubi, una stella, un angelo d'oro che vola. Nel tempo beato che fu, così c'insegnarono a scuola che nasce il Bambino Gesù... Fate sentire al nostro cuore, al nostro povero cuore sfaccendato, un brano di favola dove passino ancora i re Magi, guidati dai raggi di quella stella sola, che illumina tutto il creato! Fateci sedere a una tavola bandita a festa! Fateci sentire il suono d'una campana, la nota d'una preghiera ne sentivamo tante a quest'ora, nella tranquillità della sera, sulla nostra montagna lontana e bianca, sperduta laggiù Oh, fateci attendere ancóra, col cuore tremante d'allora, che nasca il Bambino Gesù! Donne alle finestre Maggio: sui campi l'umili ginestre sono fiorite; ed in città son, pure fiorite a un tratto le capigliature accese dei gerani alle finestre - a tutte le finestre spalancate sulle vie, sulle piazze, sui cortili- e cespi di garofani gentili... Ma dove son le donne innamorate? Io non le vedo alle finestre, chine a ricamare il candido corredo di nozze; né, se scruto, le intravedo, evanescenti, dietro le cortine. Adesso alle finestre o sulle porte, fra un rosaio appassito e un vaso infranto, i vecchi paralitici soltanto sono rimasti, ad aspettar la morte. Le donne sono scese sulla via, dove passano i sogni e la fortuna sulle verande non ce n'è nessuna a sospirare di malinconia... Le vostre mani Se le mie mani vincon la vergogna (poiché son così rudi e mal curate!) e sfiorano le vostre, delicate, le vostre, quasi eteree, non agogna un maggior bene l'anima, che sogna a quel tepor di rose vellutate ; e mi par dì morire ! Quali fate vi forniscon gli unguenti alla bisogna? Sembrano mosse da un respiro lene, da un prodigioso spirito ; dipinto sembra l'intrico delle tenui vene. Temo quasi d'infrangerle se, vinto d'amor, le stringo... E son le mie catene, son le catene a cui rimango avvinto! Campane Campanili protesi come braccia supplici, so le vostre voci: sono voci di gioia, voci di perdono, voci di pianto, voci di minaccia... Ho udito in una notte di spavento il vostro appello disperato, fatto di singhiozzi, di gemiti e ch'a un tratto si trasformava in ululo di vento era un grido terribile, selvaggio, folle, un'invocazione di paura entro l'orecchio della notte oscura campane a stormo, genti del villaggio ! Si mescevano all'incubo le grida degli uomini atterriti : in qualche luogo l'incendio divampava, come un rogo, in una furia pazza ed omicida... Campane a morto. Un altro suono - udite? - nell'aria, un'altra voce si diffonde un demone maligno si nasconde entro le ferree bocche arrugginite; scuote il batacchio con accordi lenti, in note ora più lunghe, ora più corte, insistenti, implacabili : la morte aleggia sulle case dei viventi... Ma come bello dalle bronzee gole s'alza nell'aria gelida e tranquilla dell'alba nuova il rombo d'una squilla, l'inno di vita che saluta il sole! Come sui campi, prodigiosa, immensa, l'eco risuona del festoso coro che celebra il meriggio e dal lavoro gli uomini chiama alla sudata mensa! E quando il dì nella cadente sera si spegne, in desideri d'abbandono e di riposo, come invita, il suono d'una campana, all'umile preghiera!... Udite ancora!Un giubilo di festa irrompe nell'azzurro, una gioconda ed argentina musica, che inonda la terra e gli echi delle valli desta e conforta alla gioia ed all'oblio, in un sogno dolcissimo e fugace: il sogno del perdono e della pace, promessi al mondo dal risorto Dio. La colpa Vieni ogni giorno alla mia casa, bella straniera, amica di colei che m'ama, esule anch'essa, e verso cui ti chiama un dolce antico affetto di sorella. Tu canti le nostalgiche romanze della patria lontana: ella t'ascolta e di malinconia piange talvolta con te; più spesso per le quiete stanze risuona il trillo del tuo riso chiaro, la tua garrula voce di bambina; ma nelle tue pupille s'indovina un non so che di torbido e d'amaro. In certi istanti passa sulla pura dolcezza del tuo sguardo un lampo fosco di crudeltà, di scherno, che conosco io solo, io solo, e che mi fa paura. Siamo nemici. Sempre, al mio ritorno, baci l'amica; a me, fredda ed ostile, fugacemente porgi la sottile mano e vai via, spargendo a te d'intorno il profumo d'un'acre primavera, mentr'io con gli occhi ammaliati ed arsi di desiderio guardo allontanarsi il tuo corpo di giovane pantera. « Sii più gentile ! È tanto buona! » dice l'amica tua, colei che tutto ignora e non sospetta ch'io, forse fra un'ora, al tuo fianco sarò, folle e felice, e che tu a me con tutta la tua vita t'avvinghierai, perduta in un'opaca nebbia di voluttà, dove si placa il pensiero di lei, della tradita... Oh ! mai nessuna bocca ha prodigato tali sorsi d'amore alla mia sete, e mai l'anima mia conobbe Lete più oblivioso: prima del peccato! Ma con la carne soddisfatta e stanca, spenta nel sangue l'ebrietà del vizio, come sentiamo, dopo, il precipizio che sotto i nostri cuori si spalanca! S'io t'accarezzo, tu, d'ira fremente e di disgusto, balzi: «Non bisogna!» Sai che la mia carezza è una menzogna; e l'odio scoppia irresistibilmente. Io fuggo, sibilandoti un insulto, esacerbato da un rancore sordo ; ma la notte non dormo: il tuo ricordo m'arde le vene come un male occulto. E torno a te con l'anima piegata dal desiderio, con stravolto il viso tu vorresti scacciarmi e in un sorriso m'apri le braccia, pallida e beata. Sempre!... Nell'occhio tuo dolce e malvagio balenar vedo la mia stella triste, malata, che m'affascina, che insiste, che mi chiama implacabile al naufragio... Perversa sei, ma nella tua parola è una musica oppiata, di sirena, che m'attira da lungi e m'incatena. E t'odio perché t'amo: amo te sola! Non ti scordar di me... Donne ch'ho amate... Se mi volgo indietro, le vedo quasi in una nebbia d'oro, evanescenti : non ho chiuso il loro ricordo in una scatola di vetro. Vedo una strada ingombra di fantasmi pallidi, se mi volgo; e dànno al cuore un senso di tristezza e di stupore, dopo i deliri, dopo gli entusiasmi... Donne ch'ho amate... Oh Dio!, piccole donne: fiori colti, passando, nel giardino del mondo e il cui profumo, acre e divino, talor s'effuse in una notte insonne. Donne ch'ho amate: alcuna traboccava d'un bisogno ineffabile di bene, di dedizione; e delle sue catene godeva il cuore della dolce schiava. Altre, esperte di filtri, come maghe sapienti, prodigarono sottili lenti veleni all'anima; gentili; altre, incorporee, d'un sorriso paghe. Ma un'altra splende ancor come una stella sui naufragi dell'anima e dispare. Incontrata in un treno? al lupanare? per via? Non so: l'ho amata ed era bella... Non mi son chiesto dove siano, come vivano e se mi pensino: di tanto in tanto un fugacissimo rimpianto, l'eco d'un verso, il balenio d'un nome. E se, mi volgo, appena, le intravedo: con dentro gli occhi due tremanti stille, talvolta, amare, o ironiche, o tranquille, come le vidi all'ora del congedo. Oh tra le frasi più stereotipate, fra gli augurî di bene e di fortuna - Non ti scordar di me! - mi disse ognuna. E tutte quante le ho dimenticate. Una soltanto - ed il suo volto appare sui miei naufragi, simile a una stella - « dimenticami ! » disse; e quella, quella, non l'ho potuta mai dimenticare... Saluto alla primavera Che cosa c'è, nell'aria della sera, che mi commuove come un canto d'organo? Note che tu non sai da dove sorgano, e sono l'inno della Primavera. È tutto e nulla: sono queste case con le finestre aperte al nuovo sole, come stupite, sono queste aiuole parate a festa, queste strade invase da cascate fantastiche e leggiere di luce, di profumo, di tepore, queste donne che mettono nel cuore un brivido d'angoscia e di piacere. Donne: le incontro lungo il marciapiede e un improvviso giubilo m'inonda, mentre m'annego nella luce bionda, come un novizio nella propria fede. Dove correvo già con tanto zelo? Ora son così placido e distratto ! È così dolce accorgersi ad un tratto che vi sono le rondini nel cielo... Vedo una gente pensierosa, scura, che un'ansia incomprensibile divora: esiste dunque qualche cosa ancóra oltre al sole, alle donne, alla natura? Passa la gente pensierosa : e i fiori sboccian lo stesso, vibran d'esultanza, inconsci dell'altrui dimenticanza; che rïempion di musiche e di odori. Ed io ritrovo tutte le chimere pazze e felici dei miei giorni erranti ed il ricordo degli antichi canti che scrissi per le stesse primavere, il ricordo d'effimere parole sussurrate all'orecchio di un'amante ignota... Oh primavera! E inebrïante perdersi nella musica del sole. Voglio correr sui campi, ove s'effonde la melodia di questo cielo mite ; voglio sdraiarmi sulle margherite, cantando le mie nenie vagabonde. Penso ch'è così bella una canzone scritta per gioia, senza, alcun costrutto... Penso pure, però, che, dopo tutto, ho un'altra primavera sul groppone!... Sul Palatino Io non sono un poeta, un pellegrino, un vagabondo giunto d'oltremare per cercar le tue pietre ed ammirare le tue sacre vestigia, o Palatino. Sono scettico alquanto e molto savio; e non credo al saputo cicerone, che recita la solita lezione su Messalina, Augusto e Tito Flavio. Io non vengo a frugare in questa cava di gloria, dove il popolo latino scrisse col sangue il giovane destino del mondo e dove l'uomo scava, scava, scava il passato. Io cerco un po' di pace, qui, dove più assordante fu il clamore del mondo, qui, dove arse il vivo cuore dell'universo, simile a una face. La gloria ! Questi ruderi cadenti, questi avanzi sublimi e sepolcrali furon vivi fastigi, innanzi ai quali, un giorno, si prostrarono le genti. Furon pareti di superbe stanze questi muri diruti, queste pietre consunte, dove al suono delle cetre, un giorno, s'intrecciarono le danze ; furon marmoree volte di fastose sale, che risuonaron di conviti, dove cadevan gli ospiti impazziti sui tappeti, fra i mirti e fra le rose. Ora è tappeto il nudo o erboso suolo, tetto l'azzurro ed ospiti i cipressi. Solo a notte una musica : i sommessi accordi del romantico usignuolo. E ciò che l'uomo edificò, vetusto, si sgretola, si macera, si perde ; un prepotente esuberar di verde copre le soglie del divino Augusto. E il sole splende, il sole che brillava sul colle della gloria e dell'impero, ed illumina adesso un cimitero fiorito, dove l'uomo scava, scava, scava il passato. E lungo le pendici del luminoso colle, in vista al Foro solenne, vanno, nella luce d'oro, coppie d'amanti immemori e felici: gode nel sole, l'anima rapita, la sua fugace inconcludente storia, cantando sulla tomba della gloria il canto dell'amore e della vita. Monotonia Sono anni ed anni che puntualmente, ligio a un dovere che mi s'impose, incontro sempre la stessa gente, ascolto sempre le stesse cose; che, prigioniero della mia vita, sogno la fuga come un forzato e senza tregua cerco un'uscita, con l'ossessione d'un forsennato. Sono ormai stanco di queste vie, di queste piazze, di queste chiese, di queste vecchie malinconie che son la gloria del mio paese: di questo sole così fulgente, di queste mura così famose e, sopratutto, di questa gente, che dice sempre le stesse cose. Oh!, dileguarsi, fuggire altrove, senza una mèta, per non tornare ; andare in cerca di cose nuove ; dimenticato, dimenticare: in una terra qualunque sia, però, soltanto, molto remota, di cui non sappia la geografia, di cui la lingua mi resti ignota ; dove sia freddo, dove ci piova però, soltanto, ch'io non capisca se mi si chieda : « come si trova? » o se all'inferno mi si spedisca. Poter girare per ore intere senza un incontro : felicità! Poter uscire tutte le sere, né domandarsi dove si andrà. Non avvertire questo tiranno che chiaman tempo, vecchio barbogio, che ti sta addosso come un malanno, ma fare a meno dell'orologio, ed ingannare l'ore distratte, e viver, solo, perché... chi sa !... perché c'è un cuore, dentro, che batte e che, un bel giorno si fermerà. E allora scender nel nero suolo, senza mendaci cerimoniali, senza aver dietro tutto uno stuolo di dilettanti di funerali, senza che ancóra, tenacemente, dietro un ingombro vano di rose, debba seguirti la stessa gente, che dice sempre le stesse cose... Dal castello di Conisberga (Germania 1931) Conisberga è vicina. Il treno corre sull'immensa, pianura, nel mattino umido e grigio. Qualche vecchia torre, qualche villaggio. Mucche ed oche bianche errano in libertà; qua e là un mulino dispiega l'ali desolate e stanche. Malinconia... Per questa erma pianura, sul carro prodigioso e rutilante della sua gloria e della sua ventura, l'Imperatore, il condottiero insonne, passò (Tilsit è qui, poco distante ) con le sue schiere: innumeri colonne d'uomini affranti; alcuni seminudi : duro è il cammino in queste estreme lande, seminate di sterpi e di paludi. Parlano di saccheggi e di vittorie e ripetono un nome, un nome grande, che riassume in sé tutte le glorie. Non hanno fatto mai più lunga guerra! Maledicono il russo ed il prussiano, che li han condotti in questa ingrata terra: sembra un deserto. Oh no, non si ribella nessuno, ma sospira, un po', il lontano suolo di Francia o dell'Italia bella! La loro vita è tutta una catena di marce e di battaglie: adesso è un anno, erano ad Auerstaedt, erano a Jena. Quanto hanno corso! Calcolan le miglia che press'a poco li separeranno dal lor villaggio, dalla lor famiglia. Pensan che forse è la Polonia, questa, forse la Russia: han camminato tanto ! Il mondo è pieno delle loro gesta.... L'oggi è penoso ed il domani oscuro; ma la gloria li avvolge del suo manto, passando alata al rullo del tamburo. *** Non c'è più gloria... Lungo queste mura veniva, ad ore fisse, Emanuele Kant a pensare la Ragione pura; e proseguiva poi per questa via, fino a quel grigio stagno senza vele, cinto d'azzurro e di malinconia. Come quel grigio stagno, Conisberga, il tuo castello è freddo e malinconico ma quale stuolo di memorie alberga ! Si rifugiaron qui coi loro làbari i cavalier dell'Ordine Teutonico, vinti e inseguiti dagli Slavi barbari. La Corte di Berlino asilo e lena a queste mura domandò, percossa dalla tremenda folgore di Jena. Da qui la dolce e intrepida Luisa, che il Bonaparte amava, alla riscossa chiamò la patria sua vinta e divisa... C'è, nel cortile, un campo di verdura intorno, ad un'altezza disuguale, neri edifici senz'architettura; in uno d'essi, a un lato della corte, un tempo si riuniva il Tribunale e s'eseguivan le condanne a morte. Il tristo luogo è adesso un ristorante, dove si mangian ottime pernici, innaffiate di birra e di spumante. Dipinti un po' sbiaditi, un po' scrostati, mostrano alle pareti i Federici e gli Ottoni e i Guglielmi incoronati. Il cameriere, come aperitivo, v'indica il luogo dove un giorno il boia fece giustizia in modo sbrigativo. Strana cantina, che un odor di muffa ed i ricordi storici e la noia rendono alquanto triste e alquanto buffa! *** Vi son molti musei, ma il Bonaparte, venuto dopo Eylau qui nel castello, fece man bassa sui tesori d'arte. Fra i vecchi quadri, tuttavia, si trova perfino qualche Rubens assai bello sulle pareti in cuoio di Cordova. Nei regi appartamenti, tutta in legno di frassino, è una stanza, dove nacque il Federico fondator del regno, e quella di Luisa, un po' piccina, dove il conquistatore si compiacque dormir nel letto della pia regina. La galleria degli avi è tutta ingombra di tele, donde rigidi e brutali Hohenzollern minacciano nell'ombra. Li rivedrò a Berlino, in marmo bianco, lungo la Via della Vittoria, uguali, con marescialli e cancellieri a fianco, guardar sdegnosi e un po' scandalizzati una placida folla di borghesi, madri, bimbi, commessi innamorati e le insolenti e rapide berline dei nuovi ricchi, dei banchieri obesi, di chi costrusse sulle altrui rovine : cercano intorno invano la Germania di tutto ferro, la Germania loro, gli ulani e i granatier di Pomerania... Ma non lontano, maestosa, triste e un po' pesante, la Vittoria d'oro medita forse ancor voli e conquiste. Montecarlo «Cento franchi sull'ultima dozzina, cento su manque e vinci un'unità. Resta scoperta un'unica sestina: dev'esser proprio una fatalità...» Montecarlo, fantastico paese, dove in un'ora, senza sacrificio, puoi guadagnare quello che in un mese tiri sbuffando in un molesto ufficio. Città di sogno : ben lustrate aiuole, ville, palmizi, musichette amene. Il castello di Monaco, nel sole, sembra un nido di fate e di sirene. La costa è l'orlo d'un immenso velo che qualche maga ha ricamato. E qua è la ricchezza!... Piovono dal cielo grappoli azzurri di felicità... «Carta d'entrata, per un solo giorno?» «No, me la dia per tutta la stagione.» (Tanto, in ufficio più non ci ritorno in capo a un anno avrò mezzo milione.) Ed entro in una sala, ove la gente intorno a dieci tavoli s'affanna ansia, nevrastenia, pupille intente, cuori sospesi come a una condanna ; vecchie accanite, amabili donzelle; una visione pittoresca e stramba; diverse lingue, orribili favelle «Rien ve na plus....» «Te possino!... » «Caramba!...» * * * « Cento franchi sull'ultima dozzina, cento su manquet...» La pallina va. (Resta scoperta un'unica sestina: dev'esser proprio una fatalità!) « Vingt! » Il rastrello cupido ritira i miseri gettoni. Insisterò: lo stesso giuoco. La pallina gira; una voce mi fulmina: « zeró ! » E questo zero, come un maleficio, si ripete implacabile, così che mi vien da pensare al capo-ufficio: gli zeri mi perseguitan fin qui... Dal « Café de Paris » giunge il fragore d'un allegro jazz-band: oh che fastidio! Questi palmizi destano nel cuore un senso di tristezza e di suicidio... Finalmente un'idea: Là, civettuolo, tra giardini ridenti in vista al mare, c'è l'ufficio postale:« Urgonmi solo cento ritorno giuro rimborsare ». ...Il treno corre. L'anima è un po' grigia, mentre nel cielo v'è tanto fulgore. Che me n'importa? Penso alla valigia, rimasta in pegno dall'albergatore ! Lungo le spiagge la morente estate, felice, impazza esagerando un po'. Bagnanti nude, voluttà sognate... Io penso al capo-ufficio, allo zerò! La borsetta perduta Lungo i viali attoniti e deserti, già da tempo le foglie eran cadute, povere foglie, quasi anime mute, inaridite, accartocciate, inerti: eran cadute come una leggera veste dai rami intirizziti e spogli per dare il posto ai teneri germogli, che annunzieran la nuova primavera. Ma non eran cadute solamente, in quel lembo di strada solitaria, le foglie morte, che impregnavan l'aria della loro tristezza inconsistente ; era caduta pure una borsetta caduta a qualche piccola borghese, forse, che aveva fatto tante spese, aveva tanti pacchi e andava in fretta. Poverina, era lì, timida, triste, quella borsetta, in quella via remota, già rassegnata alla sua sorte ignota palpitante d'incognite impreviste. Ed ecco un uomo, un vagabondo forse, che camminava placido, distratto, inteso a quel brusio di foglie; e a un tratto, col batticuore, quell'oggetto scorse. Lo raccattò, furtivo, circospetto, quasi temendo d'esser colto in fallo... Il rosso in un astuccio di metallo... una chiave... la cipria... un fazzoletto... venti lire... una lettera piegata d'uomo? di donna?... D'uomo, era sicuro non c'è una donna che si chiami Arturo! E, dopo, cominciava: « Mia adorata... ». Spiegò, tranquillo, il foglio un po' sgualcito e lesse, ripetendo alcuni brani a mezza voce: « Giungerò domani... solito posto... attenta a tuo marito... ». - Povera cara ! - disse il vagabondo Starà pensando adesso, disperata, alla borsetta... se sarà trovata Ed il marito? Ce n'è tanti, in fondo!... Tornerà certo: rifarà il cammino per ritrovar la lettera d'Arturo, pallida, ansante...- Ed appoggiato a un muro, attese a lungo, fermo, a capo chino. Attese a lungo. Poi scrollò le spalle: il buio della notte era imminente. Depose la borsetta nuovamente fra quelle foglie accartocciate e gialle. Trasse quindi di tasca il dolce scritto, che in mille pezzi seminò d'intorno, fra sé dicendo: - Se farà ritorno, vedrà distrutto il corpo del delitto... - E se n'andò, commosso oltre ogni dire pel bene fatto ad una creatura ignota... All'osteria, dietro le mura, si bevve, dopo, quelle venti lire. E socchiudendo gli occhi, intenerito, pensava ad una donna innamorata, l'accarezzava in sogno: « Mia adorata!... ». E sospirava: « Povero marito!... ». Bevve, bevve, mangiò qualche leccornia, poi rincasò... La moglie: - Che disdetta, caro !- gli disse. - Ho perso la borsetta con venti lire!... - Gli passò la sbornia. Romanticismo nipponico Povero Hashigu, è morto disperato, come muoion gli eroi delle romanze! Senza pace, deluso innamorato, per quindici anni errò per le sue stanze, finché, ponendo fine ai suoi sospiri, l'altro giorno s'è fatto il « karakiri ». Ricco era Hashigu: aveva un bel negozio, a Tokio, di prodotti del paese: vasi, ventagli... Nei - momenti d'ozio -scriveva anche poemi (in giapponese) e dipingeva mandorli ed uccelli sui paraventi, i cofani, gli ombrelli. Ed' era bello Hashigu, bello come un giapponese, si, con grossi occhiali, col viso giallo, con aguzze chiome, ma aveva gli occhi assai sentimentali. Le fanciulle lo amavano: - Sakei, (era il suo nome) fior degli occhi miei...- E andavano a comprar le porcellane d'Hashigu ed i suoi cofani d'argento, ad ammirar le sue pitture strane, su un cofano, un ombrello, un paravento. Sognavano i suoi sguardi affascinanti ed i suoi « yen », perché ne aveva tanti... Ma un dì nel suo negozio entrò il destino, ravvolto in una clamide di seta, gettando a un tratto un balsamo divino in quel cuor di mercante e di poeta. Era una donna : sul visetto giallo spiccavano due labbra di corallo. Erano rosse come una ferita quelle labbra; eran, gli occhi, di carbone. Lui la seguì con l'anima rapita, tremante di dolcezza e di passione; cadde ai suoi piedi delirando : - T'amo, ciliegia nata, da un purpureo ramo! Le disse : - T'amo, petalo di loto stillante sangue, giunco che si piega alla carezza d'un ruscello, ignoto profumo ! T'amo, immagine di Vega, pallido velo di nascente luna! T'offro il mio cuore con la mia fortuna... Ma la bella era figlia d'un barone, che serviva alla corte del Mikado e che sdegnò, reciso, quest'unione con un mercante nato dal contado, che dipingeva mandorli ed uccelli sui paraventi, i cofani, gli ombrelli. Ferito al cuore, il mesto Hashigu pianse, cercò invano conforto alle « musmè » ; poi le sue tele ed i suoi vasi infranse e si fece una bambola, da sé, con la cera, una bambola perfetta, con le sembianze della sua diletta. Indi una stanza della casa avita trasformò in tempio, con gentil lavoro, e vi portò la bambola, vestita d'un bel «kimono » punteggiato d'oro. La mise su un altare ed ogni giorno, per ore ed ore, le girava intorno. Le diceva così : - Luce d'azzurro, raggio d'aurora in un silente stagno, di rosei peschi tremulo sussurro, per te mi duole il cuor, per te mi lagno... Raggio d'aurora, intanto, col marito, dava un suddito all'anno a Kiro-Hito. E per tre lustri, afflitto, disperato, senza riposo errò per le sue stanze, povero giapponese innamorato, come fanno gli eroi delle romanze, finché spezzò la bambola, ai sospiri ponendo fine con un « karakiri ». AI funerale c'era la sua bella, commossa... Loto in fior? Luna nascente? No, troppo grassa ormai ! Non era quella di quindici anni fa, si che la gente bisbigliava un po' attonita: - Per lei?! Non era il caso, povero Sakei!...- Non era il caso, povero Sakei!... - Francescana « O dolci frati uccelli, anime care, io vi scampo da morte e vi do tutto, e cibo e nido, acciò facciate frutto, acciò possiate voi moltiplicare, come comanda il vostro Creatore che sta nei cieli. E vi propizio il bosco e la città puranco... ». Oh riconosco, frate Francesco, il tuo sublime cuore ! Ma se scendessi un po' dai cieli azzurri e andassi a Budapest? È un passeraio. Ben tu, Francesco mio, saresti gaio lì, fruscii d'ali, pigolii, sussurri, gorgheggi e trilli; trilli e canti, canti, canti di gioia, note di dolcezza, che in qualche modo mitigan l'asprezza dei clackson minacciosi ed assordanti. È la voce di Dio, questa, è l'accento dell'innocenza, questa è la parola della natura, che cinguetta e vola nelle città del ferro e del cemento e ingentilisce gli animi e a visioni di pace invita deliziosamente. Ma i poveri cappelli della gente... Oh frati uccelli, dolci e sporcaccioni!... Eravate il tripudio dei giardini; tutti vi davan briciole a manate donne e fanciulli; ma non sapevate che a deturpare i loro cappellini, a imbrattar loro i serici vestiti, le signore diventano malvage ? Han protestato e vi sarà la strage addio per sempre, festa di garriti ! L'energico e sensato borgomastro ha riunito il Consiglio Comunale cercando un mezzo adatto e razionale per meglio fronteggiar tanto disastro. Adesso nel Palazzo di Città vi stanno preparando i gas venefici oh se sapeste come son malèfici ! Sono il prodotto della civiltà. Furon provati, e fecero portenti, in una caccia grossa, ormai lontana ; or li utilizza la Nettezza Urbana sono serviti certi esperimenti... Poliziotti in gonnella Una notizia che il cuor mi serra giunge freschissima dall'Inghilterra: nella metropoli dai cieli bigi, la squadra mobile compie prodigi da quando v'opera con occhio insonne un certo numero d'agenti in gonne. Oh, questo secolo come si sbriglia ! Capite? L'angelo d'ella famiglia,, la donna (o tempora! ) ruba il mestiere all'illustrissimo carabiniere. Usa in altr'epoche a investigare solo nell'ambito del focolare, se la domestica, svelta di mano, celasse piccioli nel canterano, o se nell'algide nebbiose sere schiudesse tacita l'uscio al pompiere; se con un giovane dirimpettaio la figlia frivola passasse un guaio, oppur se il coniuge cercasse altrove carezze tenere, voluttà nuove e, con la, maschera dell'uomo serio, si desse ai brividi dell'adulterio; oggi nell'umida terra d'Albione ella s'incorpora nel pattuglione e, comprimendosi le onuste forme nel taglio rigido dell'uniforme, alacre investiga con modi scaltri sulle possibili colpe degli altri. Ed è incredibile con che passione s'adopri ed esplichi la sua mansione la squadra mobile, là sul Tamigi, (giova ripeterlo?) compie prodigi... Del resto è logico, ci vuol pazienza la donna è mobile per eccellenza! Inno alle mosche Quando col sole e le margheritine la nuova primavera il cuor ci allieta, s'affretta a salutare ogni poeta le vecchie rondinelle pellegrine. Il libro della terza elementare è pieno del dolcissimo lamento, di rondinelle « non volar là dentro », di rondinelle reduci dal mare... Ma se, finite le giornate fosche del lungo inverno, spensierate e snelle tornan dal mar le dolci rondinelle, nel giugno, invece, tornano le mosche. Ebbene, non un canto, non un'ode all'importante dìttero, all'araldo dell'estate ingannevole, del caldo, di cui l'umanità, sbuffando, gode ! Riparo all'ingiustizia ed in sordina gli rivolgo il mio canto e il mio pensiero ben ritornato dittero leggero ben ritornata, mosca pellegrina Giunta da dove? Ti ritrovo, a un tratto, ronzante ai vetri della mia finestra, o naufraga in un piatto di minestra, che rimando in cucina esterrefatto. Ospite indisturbata e permanente nelle case degli umili e dei ricchi, ami lo scherzo : rapida ti ficchi in un'orecchia e n'esci allegramente, salti al naso dell'uomo più irascibile, assaggi tutto, voli in ogni parte, sui quadri, sulle stoffe, sulle carte, lasciando la tua cifra inconfondibile. E se le rondinelle in primavera portan la loro grazia e i loro trilli, porti anche tu qualcosa: i tuoi bacilli; porti il tifo, il carbonchio ed il colera. E mentre scrivo, il tuo ronzio di sfida volteggia audace intorno alle mie mani. Salve, gentile dittero !... Domani acquisterò la carta moschicida. Venti lire Ecco un'analisi non troppo amena, che ha fatto un màcabro dottore a Jena preso un cadavere, l'ha decomposto, con molto scrupolo stimando il costo. L'ossa forniscono tanta calcina da far l'intonaco d'una cucina, e si ricupera tanta grafite da fare al massimo cento matite. I grassi abbondano (strano contrasto!) pure in chi è solito saltare il pasto. Da tutto il fosforo (piedi compresi) al più ci scappano mille svedesi, mentre distillasi dal corpo vile d'acqua... potabile tutto un barile. Il ferro è in minime tracce, di modo che non ci fabbrichi neppure un chiodo: fatto stranissimo, perché da vivi, - di chiodi, in genere, non siamo privi! Ma ciò che supera le previsioni più catastrofiche sono i bottoni: ne ottieni un numero fenomenale, sì che un legittimo dubbio t'assale: fece l'analisi quell'alchimista sopra lo scheletro d'un giornalista?... Volendo vendere questi elementi ai poco modici prezzi correnti, ci si ricavano venti lirette alcune scatole di sigarette! Che cifra misera! Solo conforto, se si considera che l'uomo morto, oscuro o celebre, ricco o pezzente, sciocco o filosofo, vale ugualmente. Ed è ridicolo, in fondo in fondo, che, mentre vivono su questo mondo, si dian cert'arie tanti mortali, se poi gli scheletri son tutti uguali... | Commendatore Da trent'anni, alle nove, ogni mattina varchi la soglia del palazzo austero; siedi al tuo posto vigile, severo, con gli occhi torvi e con la fronte china. - E non sorridi mai, commendatore, ma sfogli antiche carte e scrivi, scrivi... Hai la polvere annosa degli archivi addensata sull'anima e sul cuore. Precisi come te, venti impiegati tremano, ad un tuo cenno, ad un tuo sguardo; io solo arrivo placido, in ritardo, tu inghiotti amaro e tuttavia non fiati. Di tratto in tratto, a qualche mio sbadiglio scuoti la testa ed in silenzio fremi. T'han detto che son pazzo e tu mi temi; che la mia vita è tutta uno scompiglio, e mi compiangi e mi disprezzi: sai che salto alcuni pranzi e dormo poco, che perdo il tempo fra le donne e il gioco, che la commenda non l'avrò giammai ! Ed io, che agli occhi tuoi vivo nel fango, che non dormo, non mangio, non lavoro, vedo, indovino l'ordine e il decoro della tua saggia vita; e ti compiango Tu sei commendatore ed hai bisogno di mangiare ogni giorno e sei costretto ad aver la tua casa ed il tuo letto non puoi nutrirti né dormire in sogno. Povero sei: la voluttà t'è ignota della ricchezza e sono uguali e bui tutti i tuoi giorni; io no: c'è un giorno in cui la fortuna m'aggioga alla sua ruota. Giuocando al baccarà, di tanto in tanto, mi càpita di vincere quel giorno, io sono ricco e ho cortigiane intorno e getto il mio denaro in ogni canto. Tu sei convinto che la vita vera è quella che tu vivi: quel tuo lento morire d'ora in ora; e sei contento di tua moglie, di te, della carriera. Tutto compreso della tua importanza, tu non sospetti questa cosa orrenda sei come me, malgrado la commenda, non altro che uno scheletro in vacanza. Vivo di quest'idea, né so scacciarne l'incubo folle: un dèmone maligno, quand'io ti guardo, mi discopre il ghigno ch'è sotto alla tua maschera di carne. È quello stesso ghigno che discerno, quando mi specchio, sul mio volto vivo, nell'aspetto che avrò, definitivo, sotto il suggello del mistero eterno; quello che sulla bocca del mio amore delinearsi vedo all'improvviso ed agghiaccia il mio bacio, e il mio sorriso trasforma in una smorfia di dolore. E con questa visione disperata, come vuoi tu ch'io t'obbedisca e creda in quella tua grandezza e che ti ceda la miglior parte della mia giornata? La vita fuggirà dalle mie mani io l'amo, questo bene perituro, questo tesoro che non son sicuro di ritrovare all'alba di domani. Laggiù, nella mia cassa solitaria, non berrò più la luce del mattino e delle stelle; gelido e supino, non sentirò la musica dell'aria. Un'immobilità senza speranza m'inchioderà per sempre alla mia fossa nessuno saprà mai che un dì quell'ossa furon leggiere al ritmo della danza... Come vuoi tu ch'io t'obbedisca? È questo il mio segreto, è questo il mio furore, questa è la mia follia. Commendatore, sei più felice tu, non lo contesto. Ma ch'io sommerga il mio pensiero fisso in un mare di luce! Ansante e lieve, io non conosca soste in questo breve valzer ballato all'orlo dell'abisso! Ch'io sappia intera questa voluttà di' vivere! Ch'io giochi, ami le donne, ami le stelle, coribante insonne! Dormirò dopo: per l'eternità.Strade moderne Passan le belle macchine rombanti sui lastricati lucidi: veloci, spensierate, s'inseguono. Agl'incroci, di quando in quando, ammazzano i passanti... Strade moderne: fragorose bolge, dov'è dannata a correre la vita, ansimante, frenetica, inseguita da un sogno di follia che là travolge; dove un'umanità torbida e insonne urge, s'accalca come in un naufragio. La fretta, inesorabile contagio, ha preso tutti, tutti: anche le donne ! Piedi di donne, teneri piedini, che in età più tranquille e più beate guizzaste dalle gonne inamidate più o meno impertinenti e birichini, fatti per le carezze e per le danze, pei sogni dei trovieri e dei poeti, fatti per calpestar rose e tappeti fra gaie luci e morbide eleganze, il sogno vorticoso della strada v'ha attratto nei suoi gorghi e vi trasporta. Dove andate, se è lecito? Che importa? Buona qualunque via, purché si vada, purché si corra.... Avanti, avanti, avanti, verso il miraggio di un ignoto bene! Una febbre spietata arde le vene. Passan le belle macchine rombanti. Il loro moto regolan le luci dall'alto dei semafori sospesi, con strane ridde di colori accesi, simili ad occhi luminosi e truci... E all'improvviso, tra il frastuono orrendo, un risuonar di zoccoli: che accade? Van le carrozze ancor per queste strade?... Poveri cavallucci, io vi comprendo! Sognate un tintinnio di sonagliere lungo le strade bianche ed assolate, e vecchie diligenze sgangherate, cariche di leggiadre passeggere ? Sognate aristocratiche berline sulle vie sgombre e pallidi lampioni sbadiglianti la luce sui cantoni, dinanzi al volto delle madonnine?... L'automedonte, con la testa in giù, incita appena la sparuta rozza, o d'orme sulla logora carrozza, che da tanti anni non vernicia più. Veniva, un giorno, il ricco elegantone, che aveva fretta, a trarlo dal letargo; e allora si partiva: - Fate largo! - Era il re della strada, era il padrone... Adesso è lì, flemmatico, distratto conta i suoi giorni faticosi e lenti, in attesa di poveri clienti che non abbiano fretta affatto affatto. E il cavalluccio rantola, digiuno... Passan le belle macchine veloci e spensierate, passano: agl'incroci, di quando in quando, ammazzano qualcuno. Filibustieri della tortue Fui già filibustiere e in camerata non conobbi rivali : ero la Jena dell'Isola Perduta; appena appena mi stava a paro Morgan il pirata! Quante volte impiccai l'istitutore all'albero maestro di un vascello fantasma, innanzi al piccolo drappello dei miei tigrotti; pallidi d'orrore; o, sogguardando con un ghigno amaro il torvo professore di latino, accarezzai la punta d'un pennino, pensando al mio pugnale di corsaro ; o, muto, fermo innanzi alla mitraglia d'un interrogatorio virulento, invocai nel cuor mio, quasi sgomento, tutti i tuoni d'Amburgo e di Biscaglia E quante volte, con viril dispregio d'ogni periglio, corsi all'arrembaggio, saccheggiando la frutta ed il formaggio nella pingue cucina dei collegio Conobbi l'arcipelago malese scoglio per scoglio e sfuggii sempre, audace, al mio peggior nemico : il pervicace censore, che trafissi a più riprese. Giurai sui pescicani del Giappone sventrati e, rincuorando la masnada dei miei folli seguaci, a fil di spada passai Fedro, Virgilio e Cicerone. Né m'importava, privo dell'uscita, di restar solo con i miei pensieri navigavo con voi, filibustieri della Tortue, ribelli della vita ! Ed avevo una donna - il primo amore! - in fondo al cuore e in cima a ogni pensiero era la figlia del Corsaro Nero, che mi seguiva a bordo del « Terrore»... Fui già corsaro ed ebbi una dozzina di scimitarre dal lucente taglio, con cui mi davo al tragico sbaraglio, assetato di gloria e di rapina... Come si spense tanta fede ardita, di cui l'anima in sogno si compiacque? Il mio vascello naufragò su l'acque d'un più vasto arcipelago : la vita! Non corsi all'arrembaggio o a caccia grossa, con sete di dominio e di guadagno... Inutilmente il pallido e grifagno Sandokan mi deride : «Alla riscossa! » Penso all'audacia che mi fu matrigna, scrivo, scrivo versi inconcludenti. Dal fondo dei miei sogni adolescenti l'« Amburghese » guardandomi sogghigna: si ricorda di me, quando (mistero!) fui la Jena dell'Isola, il pirata, e corsi tutti i mari all'impazzata, e amai la figlia del Corsaro Nero... I cercatori d'oro « Non v'amo», tu mi scrivi : e ai miei richiami tendi l'anima tua. « Non v'amo»: e intanto so che mi pensi ed ami il mio romanticismo ed il mio canto. E il tuo cuore di rondine, volando pei suoi cieli sereni, s'impiglia a quando a quando nella rete leggera dei miei vani poemi. Hai visto mai le- nubi in primavera incatenar la luna fuggitiva? Ma, dopo, il vento arriva e libera la bella prigioniera si dileguan le nubi negli estremi lembi del cielo e lasciano soltanto un labile vapore, che qualche volta si dissolve in pianto. Così tu giuochi col mio folle amore.... « Non sperate », tu scrivi : e invece io spero e t'attendo con l'anima devota, pazientemente. E forse tu verrai, attratta dal mistero d'una favola ignota, che ti lusinga mentre tu non, sai... Vi son certi vulcani - non so più dove : in California, a Giava... che dai crateri ardenti lancian talvolta, in mezzo all'infocata lava, dei blocchi d'oro grezzo. E basta esser pazienti, dicono almeno i cercatori d'oro, basta star fermi lì mattina e sera, per anni forse, e attendere il tesoro, per esser ricchi poi la vita intera. Ed io fo come loro, quei cercatori d'oro, che aspettan la fortuna che verrà paziente, a capo chino, attendo che il destino mi getti un pezzo di felicità... Pianoforte La radio suona: musiche leggiadre, cupi boati, sibili di vento... Il pianoforte è lì, muto e sgomento, quello sul quale, un di, suonò mia madre ed il cui noto accordo mi portava fra le accoglienti braccia di Morfeo povero pianoforte, in un museo t'attende il clavicembalo dell'ava! E sì che nei salotti eri il sovrano, quand'era, il pianoforte con la coda., una necessità, più che una moda, come il letto, l'armadio, il canterano! Venivano gli amici, i conoscenti; e la mamma orgogliosa: - È tanto brava ! - La sorellina, allor, ci deliziava con una suonatina di Clementi. Ma era bello veder sulla tastiera correr due bianche mani, e una figura snella curvarsi sulla partitura in un atteggiamento di maniera. Le giovinette ormai sono educate con nuovi gusti e nuovi intendimenti le care suonatine di Clementi sbadiglian sul coperchio, impolverate... La radio suona. Il magico artificio diffonde le sue note per la stanza fra un discorso erudito e una romanza, sa consigliarci pure un dentifricio Tu sei rimasto qui, vivo contrasto con quanto ti circonda. Di sfuggita, t'apro talvolta e tento con le dita, senza un perché, qualche ingiallito tasto: dal tuo cuor malinconico e scordato si leva come un gemito profondo, che par quasi venir da un altro mondo, voce di sogno, voce di passato... Avesti la tua gloria. Oggi vivacchi nell'ombra triste, inutilmente obeso. Come si fa? Non hai neppure appreso a indicarci un purgante o un salvatacchi Sei tramontato: che malinconia! T'ha vinto la meccanica : qualche anno ancora e i tarli ti consumeranno... Mia figlia studierà stenografia. Domenica Vanno, con un fruscio lieve di gonne, nelle pigre domeniche slavate. Sartine? dattilografe? impiegate? serve ?... Che importa? Donne, donne, donne... Non son dirette in una chiesa, dove inginocchiarsi innanzi ad un altare, né verso il bacio di due labbra care, né verso ebbrezze di segrete alcove. Lungo le strade lucide e banali, in capricciosi e subdoli costumi vanno, scavando solchi di profumi che fan girar la testa ai collegiali vanno - fragili bambole dagli occhi crudelmente magnifici e sereni, solo occupate a molleggiar le reni morbide, a restaurar con lievi tocchi le guance eburnee, a disvelar, qua e là, guizzi di carne bionda, indifferenti, creature soavi ed indolenti - verso l'altare della Vanità. Un acre desiderio è in ogni cellula dei loro cuori effimeri e diresti si ripercuota nelle loro vesti, che vibrano come ali di libellula. Il mondo inafferrabile le invita, nel breve giorno che le fa sognare, come api spinte fuor dell'alveare per succhiar tutto il miele della vita inutilmente! La sognata gioia dilegua, o è sempre là, sull'altra riva, remota, irraggiungibile; e s'avviva nei lor occhi la febbre della noia. Torneranno un po' stanche, un po' avvilite, nei crepuscoli lenti, alle lor case, pensando con quale ansia erano evase dal loro gretto mondo.... E voi finite, domeniche di sogni e di promesse, attese per sei dì con tanto affanno Ahimè!, domani ridiventeranno sartine, dattilografe, commesse... Dive d'altri tempi Oh ricordi del babbo libertino, povere dive di trent'anni or sono, finite nell'oblio, nell'abbandono, dopo tanto clamor, tanto destino! Voi ci apparite ormai così lontane, silfidi d'un'età favoleggiata, quando la «girl » ancor non era nata e' non v'eran le stelle americane; e così buffe, in trine e taffettà, con quel cappello « chanteclair », quel busto e quei pendenti di cattivo gusto, finiti forse al Monte di Pietà! Ma foste belle e giovani, eleganti, perfide a volte e raffinate, piene di sovrumani fascini, sirene ammaliatrici dei caffè danzanti. («Café-chantants »: ambienti malfamati, luoghi di perdizione garantita, dove la sera andavano a far vita i figli di papà : che scapestrati!...) E di voi s'adornavan la vetrina di moda e le pareti dei salotti; nei libri degli alunni più corrotti c'era il vostro ritratto in cartolina. Non v'era uno studente di liceo che non avesse in cima a ogni ideale, avvinto da quel fascino fatale, la bella Otero o la divina Cleo. Profumaste di voi tutta un'età, strappaste al mondo tutte le sue rose, e passaste, meteore luminose, povere dive di trent'anni fa Dove sarete ormai? (Vivete ancora?) In un ospizio, forse, a far la calza, mentre accanita la vecchiaia incalza e le memorie ed i trofei scolora?... Cleo de Merode: ho letto il vostro nome, povera Cleo, ier l'altro, in un giornale; non per amor dell'arte, è naturale!, vi ridate alla danza in grigie chiome. Nei « tabarins » degl'infimi quartieri tirate avanti i vostri giorni grigi, in quell'ingrata immemore Parigi che prona innanzi a voi vedeste ieri... E voi, che n'è di voi, pallida Yvonne, dall'aria triste, dal profilo puro? Vi starebbero male, ve lo giuro, i capelli tagliati alla « garçonne ». Siete bella così, col paradiso dì quelle spalle tondeggianti e nude, con quella bocca ermetica, che schiude appena un malinconico sorriso, con quegli occhi che sanno ogni malìa, in un sogno dolcissimo perduti... Ma avete sessant'anni già compiuti; non posso amarvi, che malinconia!... Vi ricordate di Manon la bella? La superba Manon negò la mano sdegnosamente a un principe egiziano, che si fece saltare le cervella. Adesso, alla barriera di Clichy, chiede un soldino; accanto ha un suo ritratto dei bei tempi passati, unto, disfatto, con sotto due parole: « Ero così ». «Ero così » : quel corpo delirante, che odorò di lavanda e di lussuria, òr è putrida carne, in un'incuria disgustosa; la splendida baccante, che a coppe di sciampagna profumato le sue labbra accostò, calde e impudiche, - misera parodia delle orge antiche - sogna un litro di vino adulterato; e implora dal passante, pel desio che suscitò di sé, per l'ebrietà che diede al mondo, un po' di carità alla sua sete d'alcool e d'oblio. Passano innanzi a quelle due parole uomini gravi, coppie innamorate, giovinezze opulente e spensierate, ebbre di desiderio, ebbre di sole, e incuriositi si sofferman lì, tutti, a guardare e al tragico confronto ridon beati: non si rendon conto che quelle due parole - ero così - sono l'essenza amara della storia del tempo, del destino e della vita e che quella megera inebetita, un giorno, fu la grazia e fu la gloria... Campagna Il mattino stupito apre le ciglia sul mondo : un dolce mondo da presepe, col pastore, col cane, con la siepe, ed il ruscello, e il nido che pispiglia. E un'attonita calma è nelle cose intorno. Guarda ! Avevi mai veduto così da presso il sole? È, il suo saluto, per noi soltanto e per le nostre rose... Un bacio... Un altro... Come più leggero è il nostro cuore ! Oh le città lontane ! Qui qui è la vita, con la pace e il pane... Cara!... Ma, dunque, esistono davvero le donzellette con le lor canestre, i contadini con le loro mucche?... Un bacio ancóra!... E là, guarda le zucche sparse sull'aia, appese alle finestre... E scopriamo, felici, un mondo nuovo, più tranquillo, più semplice, diverso dal nostro vecchio mondo. Oh senti ! E'il verso della gallina che ci annunzia l'uovo... Ora sui campi grava la calura immota, afosa. Ma l'odor del fieno è così aspro e così buono, pieno del sacro senso della terra pura. Un canto uguale, prepotente scroscia nell'aria con un tremito sonoro: son le vecchie cicale. I frutti d'oro ondulano alla luce nell'angoscia dell'abbondanza : fichi ed albicocche, dai pingui rami, cedon la dovizia della loro dolcezza alla letizia avida e fresca delle nostre bocche. E le farfalle batton l'ali al sole. Ed al mio cuore tu sei più vicina, come il fiore alla terra ; e più divina è la fragranza delle tue parole. Una nube si sfalda, esile, pigra, ed é come una vela e ci conduce verso orizzonti d'infinita luce, ove beato il nostro sogno emigra. Ed il cielo e la terra hanno una sola anima, che s'effonde in un concento solo... Vedrai, stasera, come lento sarà il tramonto d'oro e di viola ! Ed in che modo sarà giunto? Intorno, uno stormir di fronde un po' più grave, un alito più fresco, un più soave fruscio nell'ombra, ed è finito il giorno. Accende il suo lumino ogni capanna, e la notturna sinfonia dei grilli s'alza nell'aria, mentre coi suoi squilli la campana ci fa la ninnananna... Qui resteremo. Nelle lente sere passeggeremo soli lungo gli ampi filari, mentre fievole sui campi morirà l'eco delle sonagliere... Perché m'illudi, tenero e supremo sogno di pace e di malinconia? Domani sentirò la nostalgia delle città lontane. E partiremo! Musa O mia povera Musa, venivi all'improvviso col tuo dolce sorriso di giovinetta illusa; baciavi sulla gota il pellegrino stanco, gli camminavi a fianco lungo la strada ignota. Stavi col suo dolore come una pia sorella, quando nella sua cella il livido chiarore d'un'alba fredda e infausta lo trovava spettrale, curvo sul capezzale della sua fede esausta. Poi l'anima smarrita cercò conforto altrove, chiese lusinghe nuove alla fuggente vita... Oggi ho nel cuore insonne non so qual tedio amaro ; e tutto odio : il danaro, la poesia, le donne. Il tempo mi solfeggia una spietata fuga ; già qualche lieve ruga pel volto mi serpeggia ; l'onta della calvizie la mia chioma minaccia... Ah, corsi di te in traccia, chiesi di te notizie, per ritrovar me stesso, trovando te! Lontano ti ricercai, ma invano, invano, invano... Adesso, io, fra la gente seria, vivacchio alla giornata ; in cenci, abbandonata, spinta dalla miseria obliqua, che disanima le derelitte fedi, tu batti i marciapiedi nei vicoli dell'anima! Paesaggio alpestre Stanco di queste nubi inconsistenti, di questo cielo eternamente chiaro, sogno l'inverno, come da scolaro lo descrivevo nei componimenti. E in sogno, senza amici e senza sci, parto per un villaggio di montagna, al braccio d'una tenera compagna, ma che sta zitta o dice sempre « si ». Cade la neve e come un bianco saio copre le case, copre le foreste, quasi che da una pergola celeste si sfogli un invisibile rosaio. E sotto quel mantello immacolato, lenta, la vita s'assopisce, e muore, con un bianco sorriso di stupore, in un silenzio attonito e beato. Alla carezza gelida, s'addorme la pigra terra, voluttuosa, e assume strani contorni, in quell'opaco lume, un aspetto primitivo e informe. E si muta anche il cuore, anche il più brullo cuore, e uno strano balsamo riceve, d'oblio, di pace : nel veder la neve risorge in noi qualcosa del fanciullo. Forse perciò v'è tanta brava gente fra gl'ingenui Lapponi ed Esquimesi, in quei lontani mitici paesi, dove la neve cade eternamente... Scende la sera, diafana, tranquilla: è ormai cessato, sulla terra immota, quel bianco sfarfallio, mentre la nota d'una campana nel silenzio oscilla. Ecco la notte, ed è una notte pura, avvolta nel suo candido mistero. Serenità. La terra è un cimitero bianco e raccolto, che non fa paura. Piccola terra ! Come son lontane le sue vane città ! Come più lieve, come più vera è sotto la sua neve la buona terra, che matura il pane ! Silenzio, oblio : non passi di viandanti, ne strepito di ruote. Pini e abeti chinan la fronte, come stanchi atleti, sotto le belle arcate scintillanti. « Fa freddo, ritiriamoci... » ; così, mentre mi stringo a lei sotto la luna, sussurro all'amor mio, che, per fortuna, (s'intende, in sogno) dice sempre « si ». E domani entrerà, dalle finestre senza scuri, una luce umida e scialba, e ci ridesterà l'inno dell'alba dal campanile del villaggio alpestre ; e vedremo, stupiti e sonnolenti, avviluppati nelle coltri calde, cadere ancor la neve a larghe falde... come si scrive nei componimenti. La strada Bella è la strada ed ha per me sussurri d'amare inesprimibili: la notte, canta al mio cuore strane piedigrotte di nenie lente e di silenzi azzurri. Strade delle città, diritte, storte, - città dell'uomo, che in mattoni e pietre irrigidì il suo sogno e nelle tetre case si chiuse a meditar la morte - siete il mio mondo: questi strani visi, li riconosco tutti, ad uno ad uno, pieni di vita o smunti dal digiuno, con dentro gli occhi lacrime o sorrisi ; umanità che passa e che si strugge e si rinnova e va: verso qual mèta, non lo sa il savio, non lo sa il poeta in cerca di qualcosa che le sfugge... Va, nell'albe perlate, al suo lavoro, alla sua pena, stanca e rassegnata, va verso la sua effimera giornata; va, gaia e svelta, nei meriggi d'oro; va, nelle sere che trascinan lente verso l'occaso l'offuscata luce, nel sogno che l'avvince e la conduce, nel sogno della vita, eternamente... Bella è la strada; e in cuor sento la grande, nostalgia dell'Eterno, quando giro lungo il suo nastro lucido e sospiro stelle nel cielo e donne alle verande. È il mio unico mondo: è l'infinita gioia del sempre nuovo; e, purch'io vada, trovo il mio cuor di bimbo, nella strada trovo l'infanzia eterna della vita. Il mio bambino Quando bacio sul volto il mio bambino ed egli mi sorride e m'accarezza, io capisco perché tanta dolcezza si spande dalla luce del mattino. Mi parla, e so perché tanta beata musica è nelle foglie e perché l'onde sussurran melodie così profonde al cuore della terra trasognata; e capisco perché la primavera è così bella e perché c'è, nel sole, tanto calore e nelle mie parole, talvolta, tanta musica leggera. E so da dove giunga alle sue ciglia il sonno: da un fantastico villaggio di fate azzurre, dove un dolce maggio canta la sua divina meraviglia. Non è, il suo mondo, che una fresca gloria di sogni: sulla via dei suoi pensieri passan cantando alati messaggeri di re sublimi, che non hanno storia. Per ore ed ore, su una spiaggia estiva può trastullarsi, pensieroso e grave, con un fuscello, in cui vede una nave, che solca mari che non hanno riva. Per il mio bimbo, il tenebroso mare, dov'io cerco con ansia sotto l'onde il tesoro promesso, non nasconde che ceruli sorrisi e nenie care. E s'egli piange - piange, anche, se accada che una spina lo punga - è così lieve, però, quel pianto: è come il sogno breve d'un mattino bagnato di rugiada... O bimbi, aurore nitide e fugaci, sola beltà del giorno della vita, bimbi, che offrite al mondo che v'invita l'anima inconscia e la boccuccia ai baci; per cui si trovan facili e divine menzogne, né mistero è nelle stelle; per cui le cose più geniali e belle son le farfalle, i fiori e le mammine, sembran vuote le case ove gli amori non benedite voi: le avvolge un velo di lutto e di tristezza, come un cielo senza stelle, un giardino senza fiori... Più lungi È triste spiegare le vele, pel cuor che non abbia una mèta, ma viva nell'ansia segreta d'un sogno lontano e crudele. Qual voce, dall'ombra, m'incìta più oltre, più oltre? La notte è lì, cupa, sorda, che inghiotte la luce del giorno, la vita. Ma è verso quell'ombra che, infine, frenetico il cuor si protende quell'ombra, al mio sguardo, s'accende di luci malvage e divine. E spezzo le dolci catene, e, solo con l'anima mia, riprendo l'inutile via, cercando il chimerico bene, sognando i miei sogni perduti, piangendo la vita che spreco, portando nell'anima un'eco di dolci poemi incompiuti. I due nemici Vivono in me due esseri: fedele, l'uno t'adora in umiltà tranquilla e verso un ciel che prodigioso brilla spiega del sogno le purpuree vele; l'altro lo irride e, torbido, crudele, nel cuore strani tossici distilla, pronto a spegner nel primo ogni favilla di gioia e a misturar l'assenzio al miele. L'uno, dinanzi al bello genuflesso, ama la vita, ama le donne; l'altro odia il prossimo suo come se stesso. Quando ti dico che non t'amo più, parla costui, costui, perfido e scaltro, ma, credi, l'amor mio sei sempre tu. Il tesoro Perché, perché nella snervante attesa d'un sovrumano giorno, d'un'aurora che non sorgerà mai, non ho compresa la bellezza indicibile dell'ora che fugace passava? E si scolora la dolce giovinezza, ah vilipesa, non vista! E già, nel cuor che si disfiora, l'incubo della grande ombra mi pesa. Sento quasi sfuggir dalle mie dita il tesoro dolcissimo e stupendo che per due volte non dà mai la vita; e sulla mano ch'oggi avida tendo, non cade che una foglia inaridita dai primi geli e che alla terra rendo. Crociere Sorridevi sul ponte della nave, della piccola nave che partiva verso l'incanto d'un'ignota riva, in un mattino tenero e soave. E tutti i miei pensieri, all'improvviso, fiorirono per te: ricordo ancora l'estasi sovrumana di quell'ora, illuminata da quel tuo sorriso... Son giocattoli fragili i vascelli sul mare. Il vento è fatto oggi di baci. Lambiscono la prua, lievi,fugaci, le spume come bianche ali di uccelli. Corron su l'onde musiche di luce. Vestite a festa, nuvole leggiere vanno verso fantastiche crociere... Ma questa nave, dove ci conduce? Non forse verso gli ultimi orizzonti, dove l'Orsa, il Centauro ed il Leone dei cieli vanno in lenta processione a dissetarsi nelle azzurre fonti, quando l'aurora in pallidi velluti ed in foglie di porpora si sfalda? a un'isola di sogno che si scalda a un'estate di fiori sconosciuti? verso una, pace di divine sere, dove l'anima nostra innamorata - felicità! - si tufferà beata in fiammanti estuarii di chimere?... Ed io stendo la vela dei miei canti a incoronare i tuoi capelli biondi; tutti i miei desideri vagabondi son qui, d'intorno a te, folli, anelanti... E volli, come un serto di faville, offrirti i miei pensieri e il mio tormento. Quel che ti dissi, non lo so; rammento solo la tua risposta: « Che imbecille »!... Via Appia Entrammo nelle fredde catacombe, dove il frate trappista, andando avanti, ci enumerava i martiri ed i santi addormentati nelle loro tombe: Eusebio, Marco, Sisto... Ma il richiamo del sole giunse all'anima più forte, in quella tetra casa della morte. Ella si strinse a me, pallida; - Usciamo! - Usciamo sulla strada solitaria, inondata di luce e di silenzio, e andiamo verso il Circo di Massenzio, stretti per mano. Oh musica dell'aria!... Dai Monti Albani, placida, la sera d'inverno scende; nell'azzurro il sole traccia le prime tènere parole del poema che ha nome primavera. Muri, cipressi, ruderi consunti dal logorio degli evi. Neon distante, il sepolcro merlato e torreggiante di Cecilia Metella... Eccoci giunti! - Nulla ho veduto mai di più poetico - ella sospira. - Che divina pace !... E... che c'è scritto? - Su per giù : « Qui giace Cecilia, figlia di Metello Crètico, moglie di Crasso...» È stata una signora molto importante : tomba fuori porta, schiavi, dovizie favolose... È morta, come tante altre che la storia ignora... (Ella m'ascolta e la tristezza è in fondo a quello sguardo dolce e trasognato.) E morta è questa via, che nel passato fu la regina delle vie del mondo la percorsero i forti, i vincitori della terra, gli araldi del destino, avidi di conquista e di bottino ; vi passarono tutti gli splendori dell'Oriente saccheggiato e turbe lacrimose di schiavi e re prigioni: dietro, i consoli invitti e le legioni della vittoria, reduci nell'Urbe... Ora non passan più gli astati vèliti, né i Cesari sfarzosi ; e tuttavia - com'è vana la storia, anima mia! - viva, immutata, con gli stessi aneliti, l'umanità prosegue : ancora il sole sfolgora negli spazi sconfinati; ai piedi dei sepolcri abbandonati nascon le prime pallide viole... Sul Pincio Son, le ore chiare dell'aprile, perle luminose, tesori sovrumani che ci versan dal cielo a piene mani principesse invisibili. E goderle noi non sappiamo : a strane mete intenti, aspettiamo altre gioie, altri tesori, accumulando in fondo ai nostri cuori irrequieti d'avari impenitenti quell'inutile bene... Oggi pur io, dimenticando d'essere un avaro, ho dissipato come uno scolaro questo dono ineffabile di Dio. Ho bevuto a torrenti la dovizia del Vagabondo eterno e solitario del cielo ; sono stato un milionario di luce, di colori e d'i letizia... Ora scende il tramonto, in un sussurro di foglie fresco e voluttuoso; e sembra che il cielo avvolga intorno alle mie membra la sua veste di porpora e d'azzurro. Si levano le voci cristalline delle campane... Sfumano nell'ombra cupole e tetti... Il bel parco si sgombra, ritrova il suo silenzio senza fine. Un doloroso fascino corona i fantasmi di pietra, che rimangono soli. Sui rami gli usignoli piangono divinamente. L'anima è più buona, più giovane. Qualcosa il cuor ti tocca, come mano di donna carezzevole è, con respiro profumato e fievole, la Primavera che ti bacia in bocca. Danubio Giorno di festa : a Vienna è buon costume lasciare la città per le foreste lungo le rive dell'immenso fiume. Visi tranquilli di persone oneste, ch'amano assai la birra e la salsiccia e i dolci idilli tra la pace agreste. Fraulein... C'è qualche chioma bruna e riccia; bionde le più : vezzose creature, di cui l'anima gode e s'incapriccia, già pregustando facili avventure... Con un canto monotono il vapore scivola lieve sopra l'acque pure. Sfilano colli e boschi nel grigiore mite. Una madre culla una bambina con una nenia che fa male al cuore ; canta in magiaro : questo s'indovina; canta : « Il battello corre e l'acqua spezza verso il porto atteso ci trascina. E il fiume corre, e corre anche la brezza, il d'esiderio corre, come il canto, e ci conduce verso una carezza. E corre il tempo con la vita, intanto, corre e ci porta come un nembo fosco verso una pace che sognammo tanto Passa una nera nuvola sul bosco...» Dice il canto così, ma non son certo, perché il magiaro - ahimè ! - non lo conosco. La madre canta. Il cielo è un po' coperto; e chiaro, tuttavia, dal suo divino colle guarda, Schönbrünn, triste e deserto: guarda il largo Danubio, nel mattino grigio, passar fra i salici sommessi, pensa, forse, al fragile destino degl'imperi, che passano pur essi...
*** Vecchio Donau.... La fantasia si, perde, qui, fra queste foreste e queste valli cupe, fra tanto azzurro e tanto verde; qui, dove un giorno sui lacustri Gialli l'uragano passò sterminatore: eran orde di Celti, orde di Galli; dove, d'impeto belle e di furore, sui Marcomanni irruppero potenti le legioni d'Aurelio imperatore. Passaron, dopo, i Goti travolgenti; poi quest'acque arrossarono di strage il Flagello di Dio con le sue genti e le tribù degli Avari malvage, finché da qui, sull'aquila già prona, scesero i Longobardi, occhi di brage. E per secoli e secoli risuona fragor di guerra e sprizzano faville d'immani incendi intorno a Vindobona... Oggi su queste rive erme e tranquille tutto è silenzio. Il gran Danubio scorre indifferente tra foreste e ville. Lassù, fra neri abeti, ecco una torre nessun barone più da quei manieri alla conquista o alla vendetta corre. Vecchie fortezze, antichi monasteri, chiese, abbazie, romantiche rovine, mesti ricordi di defunti imperi... Non forse dalle mitiche colline scendono, nella notte palpitante, bianchi guerrieri e pallide eroine?... Grigio ed azzurro, rapido e pesante, corre il gran fiume... Un trillo, all'improvviso, di gioia : innanzi a me ride un'amante spensierata, col viso accanto al viso dell'amor suo. Per lei l'umana storia non va più là d'un bacio e d'un sorriso ; su queste acque, per lei non è memoria che quella, solo, d'un amor fugace. Oh, ingombro del destino e della gloria ! E' pur dolce goder questo mendace sogno, che passa e più non si rivive !... E pace all'ombre del passato, pace a chi è sepolto sotto queste rive! Stambul Dal rombante velivolo lanciato verso la gloria del morente sole, tra lievi nubi - fiammeggianti aiole in un giardino etereo sconfinato - m'apparisti, Stambùl, magico coro di cuspidi sognanti in un eliso di chiarità, miracolo improvviso di gemmee dita in una fiamma d'oro. E affluire sentii dagl'infiniti spazi onde azzurre, di fragranze cariche, al cuore che sognò terre barbariche, folli destini e favolosi miti. Oh, vederti così, nella violenta ansia del volo, immagine divina, mentre la sera sopra te si china come un'amante voluttuosa e lenta, e passar oltre sull'alata prora, con gli occhi fissi in quel supremo incanto portare nell'anima il rimpianto d'una bellezza non svelata ancora! Invece sono sceso e non ho scorto che una grande città meridionale, con molta gente che si veste male non usa più il « fez » : è uno sconforto! Per giorni e giorni errai, senza un perché, esule vagabondo e insoddisfatto, con dentro al cuore un desiderio astratto di mitiche odalische e Aziyadè, malato d'impossibili chimere, lungo vestigia di dimore arcane, dove un giorno le belle mussulmane languivano di noia e di piacere : oggi pur esse, uscite dai recinti delle prigioni d'or, van le tue donne svelte e impudiche nelle brevi gonne, senza più velo sui begli occhi tinti... Errai per un babelico paese, per vie dai lunghi, inafferrati nomi, fra razze avverse e incogniti idiomi, simili a dolci favole incomprese ; e per vetusti, placidi quartieri, lungo il tuo mare o sulle tue colline, sostando fra le tacite rovine di bianchi desolati cimiteri, in un ingombro d'ingiallite foglie, di mezzelune e tombe abbandonate (dice il tuo saggio dio : « Dimenticate ciò che la terra nel suo grembo accoglie.») Le tue notti ammirai, chiare e profonde - orge di stelle - nell'oblio terrestre ; da deserti caffè squallide orchestre singhiozzavan tristezze furibonde e disperate ; da un'oscura via si levava una nenia : era un lamento lungo e selvaggio, un incubo, un tormento per gli ammalati di nevrastenia... L'Oriente? Questo?... Favole remote di torbidi profumi estenuanti, volti velati, voluttà d'amanti misteriose, primavere ignote, invano vi cercai con la mia sete ! E il mio sogno ravviso in quel dipinto un minareto solitario e stinto, impiccato ad un chiodo, alla parete. E non sospiro, non sospiro te, Stambùl, ma l'illusione fuggitiva che tanto m'esaltò, sepolta in riva al Corno d'Oro, come Aziyadé... L'illusione Sul marciapiede d'una via remota, in un mattino grigio e sonnolento, stavano insieme un mozzicone spento di sigaretta, un gambo di carota, un chiodo usato ed altri avanzi vili, quando un fuscello, spinto dalla brezza, cadde sul gruppo... « Eh, che delicatezza! Potresti aver dei modi più civili! Non sai chi sono! » il mozzicone esclama. Ed il fuscello: « Guarda un po'! Si picca d'essere chi sa chi, mentre è una cicca !... » « Io sono una gran dama, una gran dama! » protesta allor la cieca inviperita. « Anzi, lo fui: perché, vile fuscello, perdei tre quarti del mio corpo snello su quel rogo che chiamano la vita... Ero una sigaretta d'Orïente e ben nove sorelle ebbi : con loro trovai rifugio in una stanza d'oro, ove poltrivo deliziosamente. Si spalancò la porta all'improvviso, un giorno, ed una mano - era una mano tepida, d'un candore sovrumano - mi trasse fuori, m'accostò ad un viso e li per li... » « T'appiccò il fuoco, pare! » interruppe un fiammifero di legno, carbonizzato per metà. Con sdegno, il mozzicone replicò : « Volgare ! M'appiccò il fuoco! Pose una corona di fiamma sul mio capo, intendi dire. S'alzò l'incenso in voluttuose spire, mentre, affondata nella sua poltrona, mi stringeva una dama fra le dita dolci e -nervose, sature d'unguenti, e mi portava alle sue labbra ardenti, ardenti e rosse come una ferita. Felice, assaporando il mio profumo, seguiva le mutevoli chimere che disegnavan, labili e leggiere, le volute azzurrognole del fumo. E parlava, parlava... Io non capivo quel che diceva : sono un'egiziana. Ma sentivo una musica lontana in quella voce, simile ad un rivo che gorgogliasse sotto la nascente luna... Ascoltavo in estasi, rapita, senz'accorgermi ancor che la mia vita si consumava inesorabilmente. Diceva, forse, appassionata e stanca: -Io non ho mai fumato sigaretta più delicata...- Poi,l'ultima stretta, e mi depose su una coppa bianca, dove mi vide, con il cuor commosso, finire, come un sogno che tramonta... Sulla mia carta serbo ancor l'impronta delle sue labbra, come un fiore rosso...» Trasse un sospiro e tacque, emozionata, immersa nel dolcissimo ricordo. La riscosse il fiammifero balordo, scoppiando in una stridula risata. « Illusa! » esclamò dopo. « Io la conosco, quella lingua! Mi chiamano svedese, ma, lo confesso, sono del paese, originario d'un vicino bosco. Quelle parole sovrumane e tènere di cui parli, le intesi: ero presente. T'accesi io stesso e ignominiosamente finimmo nello stesso portacenere. Te fortunata, che non hai sentito che la dolcezza della bocca d'Eva, senza comprender quello che diceva... perché parlava, sai, di suo marito ! » Sessant'anni dopo.... In una città inglese, una lettera, ritrovata in un ufficio postale in demolizione, è stata consegnata alla destinataria dopo sessant'anni Oh, nonnina, nonnina! Hanno portato, dopo tanto, una lettera per lei... Una lettera scritta da un soldato. Il nipotino? No, l'innamorato! Ma reca il timbro del settantasei. Legge : « Mio dolce amore... ». Lo ricorda, il soldato del quarto fanteria. E oppressa a un tratto da un'angoscia sorda, piange. Nel vecchio cuor c'è qualche corda che ancora vibra. Che malinconia!... Nel suo cantuccio ora sospira, l'ava, e non può più riprendere il lavoro dell'ago... Lo ricorda! «Addio, tesoro », le disse; e le appuntò, come s'usava, un giglio bianco fra i capelli d'oro. Povera Margherita, aveva tanto sognato quella lettera! Al mattino, s'alzava per attendere il postino, che non giungeva. E, forse, aveva pianto, nascosta fra i rosai del suo giardino. Le arriva adesso, inutile e gentile fiore che un dì fiorì sul suo sentiero, non raccolto, ma fievole, sottile, serba il profumo d'un remoto aprile di dolcezza, d'amore e di mistero. Piange, nonnina? Il cuore le fa male. Stringe la breve lettera sbiadita, pensando al lontanissimo ideale forse la metterà sotto il guanciale con la povera mano rattrappita. E rivedrà, stanotte, i suoi rosai fioriti e il suo diletto, in uniforme, che verrà in sogno e le dirà: « by by!... » Ma che sciocchezze! Poverina, ormai non sogna più, nemmeno quando dorme! Perché il tempo è malvagio, e non invano passa, con l'ala travolgente e rude passa; non ha pietà del cuore umano; e lo dissecca, e porta via, lontano, ogni gioia che illumina ed illude... È arrivata una lettera d'amore per la nonna! Una lettera? Per lei?... Per voi, nonnina?... « Un giorno, ai tempi miei, ebbi vent'anni...» E se la stringe al cuore, la letterina del settantasei. Finestre Stan facendo in America, a Chicago, un altro prodigioso esperimento un grattacielo stile novecento, comodo molto e dall'aspetto vago. Niente balconi, via queste signore finestre che deturpan le facciate fanno entrar la polvere d'estate d'inverno la pioggia e il raffreddore Il sole, l'aria, tutto è artificiale una chiavetta magica combina aria di mare od aria di collina, freddo esquimese o caldo tropicale. Le finestre, i balconi, le verande, aperti un tempo sulle antiche vie, resteran nelle vecchie oleografie in poche case tristi e venerande. Faran ridere un po' certe parole in versi del romantico ottocento « Batte alla tua finestra e dice il vento... Batte alla tua finestra e dice il sole... » I poeti, in un'epoca futura, (se pur questa genia di teste matte non morirà) sospireranno : « Batte un raggio ultravioletto alle tue mura... » Oh serenate alle ragazze belle, ebbri profumi d'una notte insonne, che faceste languir le nostre nonne al raggio della luna e delle stelle, finirete voi pure nel museo con le scale di seta, il cuore ignaro, la « fenesta » che stava a Marechiaro, gli amori di Giulietta e di Romeo, i pensosi trovieri... E in sul verone, non potrai più posarti ogni mattina, o vecchia rondinella pellegrina, per ricantar la flebile canzone... Io penso sopratutto in quali guai si troveranno, a che saran ridotti, oltre alle rondinelle, i passerotti, gl'innamorati, i ladri ed i vetrai. Malinconia!... Ma qui, nella mia stanza, la finestra c'è ancóra (oh meno male!) e lascia entrare un sole naturale, sublime, con la tepida fragranza del maggio; ed io m'affaccio e sono pago di respirar quest'aria benedetta, che invano cercheran con la chiavetta nel nuovo grattacielo di Chicago. La verità sulle formiche Ricordate quali esempî, quando ancor s'era fanciulli (ma fanciulli d'altri tempi, saggi, creduli, un po' grulli), i maestri petulanti, tutti uguali su per giù, ci mettevano davanti per spronarci alla virtù? quando il libro inconcludente della terza elementare ci sembrava l'esponente d'una logica esemplare, con proverbi di riguardo, traboccanti di giudizio «l'ozio è il padre d'ogni vizio », « tanto va la gatta al lardo... », « raglio d'asino (pensate!) non ha mai raggiunto il cielo ». Queste trappole, stampate, ci sembravano vangelo. Fra le massime più antiche, una, alquanto singolare, ci esortava ad imitare le saggissime formiche. Tutte dedite al lavoro, silenziose ed ordinate, le formiche fan tesoro dei bei giorni dell'estate; con tenacia eccezionale si provvedon per l'inverno, noncuranti dello scherno delle querule cicale, non corrose dalla tabe della subdola ambizione: tutte queste erano fiabe che beveva il credulone ; perché adesso, se Dio vuole, un filosofo scienziato finalmente ha smascherato queste ipocrite bestiole. L'uguaglianza del lavoro? Se coi metodi più ignavi incoraggian fra di loro il commercio degli schiavi È un ammasso d'usuraie, di predoni delinquenti, di regine prepotenti che divoran le operaie. Han le leggi più immorali, più malefiche, più storte: senza tanti tribunali, la ragione è del più forte e gli aculei più potenti, le mandibole più salde han diritto a celle calde ed a cibi succulenti. Dàn la caccia ad un insetto, che secerne un succo immite ch'ha su lor lo stesso effetto che sull'uomo ha l'acquavite: con ignobili mercati, qualche volta, al produttore del terribile liquore dànno in cambio i propri nati. Né per esse il troppo stroppia: in moltissime tribù, una femmina s'accoppia con sei maschi ed anche più; ed in barba alla morale certi comodi mariti, pur di fare i parassiti, incoraggiano il rivale... Sono poi così voraci e tra lor così nemiche, che talvolta son capaci di mangiarsi tra formiche, così forte è l'odio!... E poi si vorrebbe che la gente le imitasse ! Ma è evidente : le formiche imitan noi... Elogio della bugia Ogni anno i mentitori più gagliardi s'adunano a Chicago in un congresso, che conferisce a qualche illustre fesso il titolo di re: « re dei bugiardi ». Non è uno scherzo, oh no! Gli Americani valorizzan così quella menzogna che i benpensanti mettono alla gogna, ma ch'è alla base dei rapporti umani. È questa la virtù fondamentale che, con la facoltà della parola, il sommo Dio, che affanna e che consola, conceder volle al misero mortale. Ed, appartiene, la virtù ch'io lodo, soltanto a noi: la bestia non mentisce (ed è forse per questo che finisce così spesso al macello o in malo modo !...) Mentre la verità semplice e nuda, senza un ricamo, senza una cornice, pesa ed opprime, l'uomo è più felice quando pietosa una bugia lo illuda. E se la farsa umana, arida e trita, non conoscesse questa scappatoia, non sarebbe soltanto una gran noia, ma addirittura un baratro la vita. Che... buio e che silenzio in un salotto, bandendo dai discorsi ogni bugia ! Vada all'inferno la diplomazia! I giornalisti facciano fagotto! E irreparabilmente, in un baleno, anneghi il furbo, che rimane a galla solamente così, perché le sballa meglio degli altri; che, chi più chi meno, le sballan tutti, e l'uomo di parola, il puritano austero ed impettito, quando sostiene: « Non ho mai mentito », mentisce in quel momento per la gola. Immaginate la tragedia immensa di un infelice, che si veda spinto, sotto l'impulso di un malvagio istinto, a spifferare tutto ciò che pensa; o di una donna, che non possa fare affidamento sulla fantasia, per cui, grazie a una piccola bugia, regna la pace intorno al focolare!... S'evitan tanti guai quando si sa cacciare una bugia dove bisogna. Sia benedetta, dunque, la menzogna, ch'è la salvezza dell'umanità. Inno al grano A quanto affermano certi scienziati, che son di solito bene informati, un dì, servendosi sol d'acqua e d'aria, farà la chimica da culinaria cibi sintetici vedran la luce, a quelli analoghi ch'oggi produce in modo semplice e naturale l'incomprensibile forza vitale. Le arcane pillole dell'avvenire saranno comode, non c'è che dire, ma certo il vivere sarà un mortorio. Al malinconico laboratorio, che un commestibile piuttosto gramo promette ai posteri, noi preferiamo questo miracolo biondo e sublime, che dai suoi visceri . la terra esprime. Onde, benefico, in ogni estate, ben torni, giubilo di spighe aurate, che nasci, innumere divina prole, dall'ineffabile bacio del sole, per cui curvaronsi le affrante schiene e ch'ora un'esile spiga sostiene: potenza mistica, seme fecondo, eterna ed unica leva del mondo! Sogno dell'umile, gioia del ricco, poema magico chiuso in un chicco d'oro, che, docile ed assuefatto, s'affida all'opera dell'uomo e a un tratto con metamorfosi strane dispensa i più gradevoli doni alla mensa: dalla domestica plebea lasagna all'oligarchico pane di Spagna. Da te provengono quegli spaghetti che sono l'incubo di Marinetti; dal genio candido della farina, - di te, purissimo, figlia divina - nasce col lievito quella pagnotta per cui si tribola, per cui si lotta la mèta spicciola, quotidiana dell'instancabile fatica umana. Essa - fenomeno paradossale - governa il torbido mondo animale: potente stimolo, suprema legge, con senso pratico le idee corregge ; spesso concilia lupi ed agnelli ; piega le vertebre dei più ribelli; solleva subito le fronti stanche; sereni gli uomini rende, quand'anche rinunziar debbano, o bene o male, al companatico dell'ideale. Fantasia planetaria Non invento, bensì copio da un giornale accreditato: un astrologo ha creato un enorme telescopio, per veder le stelle -molte non scoperte fino adesso - ingrandite ad un di presso quattrocentomila volte. Il magnifico gigante, che con l'occhio il cielo fruga, può seguir nella sua fuga la meteora più distante. Dallo spazio sconfinato cade ormai l'ultimo velo: non un angolo di cielo che rimanga inesplorato; non un piccolo pertugio, fra una stella ed un pianeta, dove un misero poeta trovi un ultimo rifugio! Mostreranno il viso vero Sirio, Venere, Polluce, nel nitore d'una luce senz'aureola di mistero... O poeti derelitti, malinconiche zitelle, che andavate fra le stelle con sospiri così afflitti, le vedete? Poverine! Non son più lucciole d'oro, né un mirifico tesoro di fantastiche sterline: sono immensi informi mondi, ben diversi, a quanto pare, dalle stelle così care agli amanti vagabondi!... Una vecchia canzonetta sospirava con fortuna: « Io vorrei che nella luna ci s'andasse in bicicletta...» Ecco, adesso -oh meraviglia! - quella luna da romanza, la vedremo alla distanza di non più di venti miglia: il gentile astro d'argento ch'estasiò le nostre nonne, che commosse il cuore insonne del romantico ottocento e che in sogno ancora afferra qualche timida fanciulla, è una faccia arcigna e brulla, ch'ha più macchie della terra... Oh assai meglio, certamente, osservarlo da lontano questo enigma sovrumano che scombussola la mente, riservando all'ideale quelle sfere luminose! Vi son tante brutte cose che vediamo al naturale!... |