Racconti di Marcello De Santis


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La gatta
La gatta si strusciò col suo pelo di velluto ai miei pantaloni, con la coda lun-ghissima ritta come un'antenna.
E miagolò leggera.
Alzò il muso verso di me che m'ero piegato e le facevo carezze sulla schiena che s'ingobbiva ad ogni mio passaggio.

Miagolò.
E fissò gli occhi verdi sul mio viso. Restai in silenzio a lungo tenendole il muso tra le mani, mi fissava. E miagolava. Mi chiesi cosa volesse dirmi, e se ricor-dava, se sapeva… Rompeva il silenzio soltanto il suo ronfare nel vuoto della stanza che il sole - adesso - non bagnava più.
Una grossa bianca nuvola dai bordi d'argento - la vedevo attraverso i vetri della finestra chiusa - aveva coperto il pezzo di cielo spezzato dai quadrati dei vetri.
Eravamo là , vuoti dentro; come la stanza, io e la gatta. Soli.
La sollevai passandole la mano sotto la pancia morbida e calda, e me la posi in grembo, restando accoccolato sulle punte dei piedi. Mi alzai e mi sedetti sul diva-no sdrucito dove spesso stringevo a me Lia. E lpassavo e ripassavo la mano sul muso paziente della mia gatta, i miei occhi perduti al di là della nuvola dai contorni d'argento imprigionata dalla finestra.
Ci stava bene la gatta con me, e sonnecchiava e ronfava… e sognava; chissà che cosa, sotto le palpebre chiuse, e sentii che gli occhi mi si bagnavano di lacrime.
Con il dorso di una mano li asciugai e tirai un lungo sospiro che rimandò in-dietro il groppo che s'affacciava prepotente alla gola.
Allora chiusi gli occhi anch'io, ed ebbi accanto - ancora una volta - Lia.
E le parlavo senza suono di parola, parlavo in silenzio al suo viso ridente di giovinezza, con sussurri di primavera dal sapore di mimose in fiore. Parlavo a Lia campo d'erba fresca che s'inebriava infinita ai miei versi d'amore.
Mi provai a gridare il suo nome quasi per possederlo ancora ma dalla mia bocca arida non uscivano che prolungati silenzi.
E il cuore mi strappava brividi dalla pelle imperlata di sudore, e mi scuoteva terribile e mi faceva paura, come allora.
Ella di scatto gettò la gatta a terra dal suo grembo, e senza dire ancora altre parole - inutili a quel punto - e se ne andò con il golfino stretto nella mano; sbatté forte la porta, ma io volli credere che non l'aveva fatto apposta, che la porta s'era chiusa rumorosamente sullo slancio involontario.
Fuori s'era levato un vento freddo, lo vidi dalla finestra - la stessa che adesso inquadrava la nuvola d'argento - dove m'ero affannato per vederla per chiamarla per invocare il suo nome per farla tornare Lia Lia Lia…
Se ne andò e non torno. Più. Mi lasciò a terra sul tappeto davanti al divano sdrucito il suo sorriso, le era caduto ed era rimasto là. L'amavo e non capivo.

Qualcosa non sapevo al di là del mio amore del suo amore della sua fuga del suo abbandono. Della mia solitudine.
Qualcosa non sapevo. Qualcosa non so. Se ne andò. In silenzio. E anch'io restai in silenzio, al mio silenzio il suo sorriso caduto a terra. Vicino alla gatta.
Mi lasciò la gatta.

La gatta un mio piccolo dono, ché tanto piccola era essa allora, doveva darle il latte col biberon come ad una pupetta, che cresceva nel ricordo del sorriso di Lia, che divenne la mia cosa più cara. Anche lei l'aveva sempre sul seno tra le carezze più delicate le voleva bene e la gatta divideva con me il suo amore ed ero contento ed eravamo felici.
Se ne andò. Mi lasciò la gatta.

La gettò a terra in questa stanza.
Che adesso il sole non bagna più. Un fioco miagolio una porta che sbatte e si chiude con violenza. Continuo ad illudermi.
Lasciò dietro di sé la mia solitudine.
E la gatta.

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