Racconti di Giomiri


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Leggi le poesie di Giomiri

Ho fame
L´ho fatto. Ci sono riuscita. Non ci credevo nemmeno io. Ma sono andata fino in fondo, questa volta. Mi sono alzata senza fare rumore. Giada ha detto qualcosa e per un momento ho pensato che fosse sveglia, ma come al solito parlava nel sonno.
Ho aperto piano la porta, pregando che non scricchiolasse: ho fatto bene ad oliare i cardini l´altro giorno, anche se la mamma mi ha guardato con una faccia perplessa e ha pensato che fossi diventata pazza.
Ho tirato fuori la testa, per controllare. Nessuno. Il corridoio era buio e da giù non arrivava nessun rumore. Sono tutti a dormire. E´ strana la casa così buia e silenziosa. Devo fidarmi dell´istinto, ora e fare attenzione: gli occhi faticano ad abituarsi all´oscurità.
Ho calpestato un soldatino di Daniele. Maledizione che male e la mamma che lo rimprovera di continuo perché lascia i suoi giochi ovunque.
Sono arrivata alle scale, ora seguendo il corrimano scenderò giù: piano, prima un piede poi l´altro, senza fretta. Non posso rovinare tutto un´altra volta. La scorsa notte Lillo mi ha sentito e ha pensato che andassi dal lui per giocare e felice si è messo ad abbaiare alle due di notte svegliando tutti! Ma questa volta è chiuso in camera con Francesca e non mi disturberà. Ok, ci sono, le scale le ho superate, allungo le braccia davanti a me, non vorrei stamparmi contro il muro o la porta chiusa.
Eccomi, sento la bombatura, il pomello è qui. La sua luce mi avvolge, è fredda, ma sento che mi sta scaldando, dentro.
Il cucchiaio ce l´ho già nella tasca del pigiama: l´ho preso questa sera a cena mentre la mamma sparecchiava.
Ora tiro fuori il piatto. Mi siedo sul pavimento, appoggio la schiena alla credenza, mi metto comoda, incrocio le gambe e sopra ci appoggio il vassoio.
L´avverto già la morbida consistenza, ancor prima di affondarci il cucchiaio. Il sapore ce l´ho già in bocca, ma che dico ce l´ho già in tutto il corpo. Ho i brividi e mi viene da piangere. Non devo avere fretta, non c´è motivo. Comincio: vorrei essere calma, ma è così tanto che aspetto che la mano mi trema e una frenesia mi scuote. Lascio il cucchiaio e affondo le mani in quella soffice pasta e poi subito in bocca. Un pezzo via l´altro, in quest´orgia solitaria e magnifica. Ce l´ho fatta. Guardo il piatto, poche briciole oramai.
Stupida, stupida e ancora stupida...non hai volontà. Non sei nemmeno capace di resistere. E´ inutile che piangi, adesso. L´hai fatto? Stai bene ora? Maledetta stupida che non riesci nemmeno a tenerla chiusa quella boccaccia. Non hai saputo resistere! Non sei niente...
No, ti prego non ti arrabbiare, non lo farò più, lo giuro, lo giuro! Ora vado su, vedrai, la porta del bagno è aperta, non farò rumore, ti prego non ti arrabbiare...
Via sulle scale, presto, prima che sia troppo tardi. Il cuore mi scoppia, i polmoni tra un po´ esploderanno. Lo specchio mi guarda: sono brutta, sono brutta e grassa: io voglio sparire!
Mi giro verso il water, apro la mia maledettissima bocca, allungo il medio in gola e penso: ti prego Dio fa che ci riesca, ti prego, ti prego.
No, così no, devo spingere un po´ di più. Ecco, ci siamo: arriva il conato, con la sua contrazione il sapore acido mi ha raggiunto la bocca. Uno, due tre volte...fatto. Via tutto... non devo tossire...qualcuno potrebbe sentire...Ora sono pulita.
Mi guarda lo specchio, ancora...Mi sorride, ora...
Brava, brava sei stata brava, hai visto com´è facile? Volontà, solo volontà.
Si, si domani ti giuro non mangerò, non lo farò, vedrai sarò come tu mi vorrai, leggera, leggera...

Il mio tempo si è fermato
Sono andati via. Ho sentito che la porta veniva chiusa, delicatamente. Evitando i rumori. Non voglio dormire. Ho finto. Per tranquillizzarli. Nel silenzio della casa riecheggiano ancora le parole: tutte quelle parole. Di circostanza. Vuoto, solo vuoto. A scuola insegnavo ai miei bambini che le frasi sono fatte di parole, che hanno un inizio e una fine, il cui contenuto deve avere un senso.
Ma qui, ora, il senso compiuto qual è?
Ora mi alzo, il tepore delle lenzuola non mi scalda. Sfioro il parquet con i piedi, e il contatto mi conforta. In cucina aleggia un aroma di caffè appena fatto. Lo aspiro profondamente: mi piace la corposa densità del suo profumo.
Che quiete! Lascio scorrere la mano sull´acciaio del lavello: è casa mia, sono le mie cose, le tocco per confermare che mi appartengono, ma è come se io fossi un´estranea tra queste mura: non mi riconoscono più.
E´ tutto in ordine! Finalmente i ragazzi stanno imparando...ma c´è una nota stonata...tutto ha un´aria vissuta ma sfatta.
Spalanco la finestra. Una brezza leggera gonfia le tende di lino che mi sfiorano il corpo ma non mi toccano. Amo quest´ora, quando il giorno si spegne lentamente, ma la sera ancora non ha preso coscienza di sé e attende di farsi più audace.
In questo momento io mi ritrovo e annodo tra loro i pensieri della giornata, per srotolare a cena questo gomitolo di eventi. Già, devo preparare la cena: tra poco saranno tutti a casa e allora queste mura si riempiranno di tutta quella vitalità che la rende casa, che ci rende famiglia.
Il tempo passa, ci attraversa, ci cambia.
Non so più quanto tempo è trascorso: giorni, settimane, mesi anni?
Sento la chiave che gira nella serratura. Ti guardo appoggiare le chiavi sulla mensola, appendere la giacca.
Tu non ti accorgi di me e ti lasci osservare, rapito dai tuoi gesti misurati, dai tuoi pensieri inaccessibili.
Hai le spalle più curve, amore mio, il viso è segnato e anche se gli occhiali ti proteggono gli occhi, io lo vedo che sono occhi stanchi.
Amore mio, se solo ti lasciassi aiutare, ma tu non vuoi, chiuso come sei nel tuo dolore. Ti rifiuti di prendere la mia mano che si tende verso la tua.
Il dolore allontana, il dolore separa nonostante tutto l´amore che abbiamo dentro e che ci ha reso speciali l´uno per l´altra.
Perché non trovi più conforto nelle mie braccia?
Hai acceso la luce e ti sei seduto accanto a me, la tua mano sul mio ginocchio. Che belle mani hai!
Suona il telefono, ti alzi per rispondere. La tua voce profonda riempie il silenzio di questa stanza.
- Pronto? ... si, grazie. Ti prego di ringraziare tutti quelli che hanno partecipato. Si, lo so sono passati due anni ed è ancora come se lei fosse qui con me, con i ragazzi...-
Si, io sono ancora qui, con te e i ragazzi, amore mio. Il mio tempo si è fermato...non posso più cambiare...  

Noi
Ho suddiviso quasi tutto.
(Ma a dividere come si fa?)
In tre parti: le mie cose, le tue cose e le nostre cose.
(Pile di libri, di riviste, di cd e di fotografie occupano tutto lo spazio di questa stanza e noi siamo lì).
Tutto questo caos ha alterato l´equilibrio in cui i libri e le riviste e i cd giacevano inconsapevoli di ciò che avrebbero risvegliato in me, solo sfiorandoli.
(Impronte a toccare impronte di un tempo distante ma era solo ieri).
Ricordi, come orde di barbari furiosi, a scuotere la polvere dal cuore, a far sentire che il dolore c´è ancora, tutto lì, che pulsa, come cosa viva.
(Lo vedo che pulsa).
Non si dimentica.
(Come puoi dimenticare?)
Questo è mio e questo è tuo.
(Ma tutto era solo nostro)
Chissà che ne farai delle poesie di Montale?
(Le leggevamo insieme, ricordi?)
Ho ritrovato le lettere che mi scrivevi, durante i tuoi viaggi, parole che alleggerivano la malinconia.
(Fiumi di inchiostro e ciò che volevo dirti chiuso in me).
Chissà perché nelle foto non ridevi mai?
(Volevo proteggere la felicità, per paura).
Abbiamo fatto tanta strada insieme.
(Abbiamo condiviso tanti sogni insieme).
Vorrei dirti che mi manchi.
(Vorrei sentirti dire che ti manco).
Ti sento ancora mio.
(Sarai sempre mia).   

Io lo amo
Sono lì. Riesco a vedermi. Un mucchietto di vestiti scomposti. In un angolo. Sul pavimento. E´ finita. Anche questa volta. Il mio corpo è tutto un dolore. Pulso, come una lucetta intermittente.
Il sangue sul pavimento si sta raggrumando. E´ appiccicoso. E´ caldo. Sento che il pavimento mi avvolge. Vorrei che mi inghiottisse. Per sempre.
Anche questa volta è colpa mia. Sono stata io. Lo provoco. Non me ne accorgo. Sono una stupida. Ha ragione lui: mi sta educando. Lo fa per il mio bene. Non dovevo rispondere, ma non imparo mai. È più forte di me: difendermi.
- Lo stavi guardando!-
- No, ti giuro...-
- Sta zitta! Non sei altro che una puttana. Ti dico che lo stavi guardando e lo hai pure sfiorato mentre ti passava il bicchiere!-
- No, davvero non l´ho guardato...-.
Non ho finito la frase. Il primo colpo è arrivato. Lo guardavo. Volevo capire da dove avrebbe cominciato a punire. Questa volta. Lui mi guardava. Io guardavo lui. Fisso negli occhi. Ho sbagliata. Avrei dovuto guardare anche le sue braccia. Un pugno. Il braccio destro teso, all´indietro, per acquistare potenza e poi secco sulla mia faccia. Gli occhiali sono volati dall´altra parte della tavola. Non li ho seguiti con lo sguardo. Li ho sentiti atterrare. Mi sono ritrovata a terra. Stordita. Sono rimasta immobile. E´ solo l´inizio. Il calcio, nello stomaco è arrivato subito e mi ha sbattuta contro la credenza. Ho sentito i bicchieri cozzare tra loro. L´ho parato con le braccia. Ho sentito il mignolo spezzarsi. Ho trattenuto l´urlo.
E continuo a ripetermi: - Non sono qui. Non sono qui. Non sono qui. Il lo amo. Io lo amo. Io lo amo.- per non sentire le botte. Per non sentire la sua voce che mi insulta. Adesso mi lascio andare, così mi ammazza. Una volta per tutte. Così è finita con questa paura. Che la riconosci dall´odore. La paura di non sapere come devo comportarmi. La paura di non riuscire a decifrare di che umore è da come inserisce la chiave nella toppa. Interpretare dai suoi passi, come gli è andata la giornata. Fare finta di dormire oppure no, quando entrerà in camera da letto.
Decidere in una frazione di secondo...tanto non serve mai. Il pretesto lo trova sempre: la pasta troppo cotta o troppo al dente; la camicia stirata piegata anziché appesa. Solo pretesti. Per massacrarmi di botte. Per violentarmi. Per farlo sentire un vero uomo.
E poi finisce tutto. Lo sento da come respira. Affannato. Allora si siede. Per un po´ mi sento i suoi occhi addosso. Ma non mi muovo. Nasconde il viso tra le mani. Piange. Ma io continuo a non muovermi. Ho paura che stia fingendo. E´ già successo. Dopo un po´ si alza. Mi è accanto. La percepisco la sua presenza. Si china. Io trattengo il fiato. La sua mano mi accarezza. Io non mi muovo. Parole incomprensibili gli escono dalla bocca. Somigliano a scuse. Mi arriva solo un: - Io ti amo, non succederà più...- Ora è finita, davvero. Va in bagno. A vomitare. Torna in cucina. Io non mi muovo. Va in camera da letto. Spegne la luce. Passano i minuti. Si è addormentato. Non riesco ad aprire un occhio tanto è gonfio. Cerco di alzarmi. Ho male. Tanto. Non guardo il riflesso della mia faccia nella vetrinetta. Non posso. Apro il cassetto. Le ginocchia mi cedono. C´è il coltello, quello per la carne. Mi gira tutto intorno. La luce si riflette sulla lama e mi ferisce gli occhi. Vado in camera da letto. Dorme. Tranquillo. Ha le labbra imbronciate, come quelle di un bambino che sta per combinarla. Io lo amo. Glielo pianto nel cuore. Un colpo solo, con entrambe le mani. Sento che tutti i quindici anni di botte si stanno scaricando, in quell´unico colpo. Mi sento leggera. Liberata. All´improvviso.
Quasi non si muove. Spalanca solo gli occhi e impreca: - Che cazzo...- Parole, come se le avesse preparate da tempo. Non c´è stupore nei suoi occhi. Io lo amo   

Il mio tempo si è fermato
Sono andati via. Ho sentito che la porta veniva chiusa, delicatamente. Evitando i rumori. Non voglio dormire. Ho finto. Per tranquillizzarli. Nel silenzio della casa riecheggiano ancora le parole: tutte quelle parole. Di circostanza. Vuoto, solo vuoto. A scuola insegnavo ai miei bambini che le frasi sono fatte di parole, che hanno un inizio e una fine, il cui contenuto deve avere un senso.
Ma qui, ora, il senso compiuto qual è?
Ora mi alzo, il tepore delle lenzuola non mi scalda. Sfioro il parquet con i piedi, e il contatto mi conforta. In cucina aleggia un aroma di caffè appena fatto. Lo aspiro profondamente: mi piace la corposa densità del suo profumo.
Che quiete! Lascio scorrere la mano sull´acciaio del lavello: è casa mia, sono le mie cose, le tocco per confermare che mi appartengono, ma è come se io fossi un´estranea tra queste mura: non mi riconoscono più.
E´ tutto in ordine! Finalmente i ragazzi stanno imparando...ma c´è una nota stonata...tutto ha un´aria vissuta ma sfatta.
Spalanco la finestra. Una brezza leggera gonfia le tende di lino che mi sfiorano il corpo ma non mi toccano. Amo quest´ora, quando il giorno si spegne lentamente, ma la sera ancora non ha preso coscienza di sé e attende di farsi più audace.
In questo momento io mi ritrovo e annodo tra loro i pensieri della giornata, per srotolare a cena questo gomitolo di eventi. Già, devo preparare la cena: tra poco saranno tutti a casa e allora queste mura si riempiranno di tutta quella vitalità che la rende casa, che ci rende famiglia.
Il tempo passa, ci attraversa, ci cambia.
Non so più quanto tempo è trascorso: giorni, settimane, mesi anni?
Sento la chiave che gira nella serratura. Ti guardo appoggiare le chiavi sulla mensola, appendere la giacca.
Tu non ti accorgi di me e ti lasci osservare, rapito dai tuoi gesti misurati, dai tuoi pensieri inaccessibili.
Hai le spalle più curve, amore mio, il viso è segnato e anche se gli occhiali ti proteggono gli occhi, io lo vedo che sono occhi stanchi.
Amore mio, se solo ti lasciassi aiutare, ma tu non vuoi, chiuso come sei nel tuo dolore. Ti rifiuti di prendere la mia mano che si tende verso la tua.
Il dolore allontana, il dolore separa nonostante tutto l´amore che abbiamo dentro e che ci ha reso speciali l´uno per l´altra.
Perché non trovi più conforto nelle mie braccia?
Hai acceso la luce e ti sei seduto accanto a me, la tua mano sul mio ginocchio. Che belle mani hai!
Suona il telefono, ti alzi per rispondere. La tua voce profonda riempie il silenzio di questa stanza.
- Pronto? ... si, grazie. Ti prego di ringraziare tutti quelli che hanno partecipato. Si, lo so sono passati due anni ed è ancora come se lei fosse qui con me, con i ragazzi...-
Si, io sono ancora qui, con te e i ragazzi, amore mio. Il mio tempo si è fermato...non posso più cambiare...  

Il mio giorno speciale
Ho aperto gli occhi. Intorno il buio è rotto da quel po' di luce che filtra dalle persiane chiuse. Tra qualche minuto la sveglia suonerà, come sempre, alle 5,15.
La spengo, non serve che suoni. Intanto allontano le coperte. Il tepore del mio letto evapora presto, troppo presto e mentre mi siedo sul letto, le mie mani corrono verso la mia vecchia vestaglia.
Vado alla finestra e la apro. Lascio che l´aria pungente mi oltrepassi e si impossessi della mia camera, di quella che è tutta la mia casa: una camera sola, dove la sera i fumi della cucina accompagnano il mio sonno.
Il caffè è quasi pronto e mentre aspetto, finisco di vestirmi. Tra poco lei sarà qui. Come ogni mattina, puntuale. Verrà a prendermi con la sua Panda, riluttante. Lei c´è. C´è sempre stata, per me.
Devo tutto a lei, la casa, il lavoro e fra qualche anno la pensione. Grazie a lei.
Non ho potuto scegliere, quando sono tornata. Ho accettato senza alcuna esitazione: tutto sarebbe stato meglio di quell´inferno.
E le guardo le mie mani: sempre gonfie e screpolate. La colpa è dei guanti: non le fanno respirare. Pulisco gli uffici. Non era quello che volevo, ma i sogni sono come le bolle di sapone: volano in alto e poi scoppiano...
Ero bella da ragazza, me lo dicevano tutti. Volevo fare l´attrice, lo volevo proprio. Lasciarmi quella miseria alle spalle, potermi comprare tanti vestiti e non avere più fame. Quando parlavo così, mia madre abbassava gli occhi e scuoteva la testa.
Piangeva, mia madre, quando mi vide partire con tutte le altre, per quella città, così lontana. Cercavano ragazze per un film. All´inizio avremmo fatto solo le figuranti e poi chissà. Non le capivo le sue lacrime: avrei fatto l´attrice, guadagnato bene e se ero abbastanza fortunata potevo anche incontrare un uomo che mi sposava e mi trattava come una principessa.
Me le ricordo ancora le risate e le canzoni cantate a gran voce durante quel viaggio. E mi ricordo anche la paura, lo sconcerto di quella prima sera: compresi allora le lacrime di mia madre.
Non capivo cosa dovevo fare. Non capivo perché mi trovavo su quel marciapiede vestita come una prostituta, con quei fari che mi ferivano il cuore e le lacrime salate e la voglia di scappare. E le botte e gli insulti, quando provai a dire che c´era un errore: io dovevo fare il cinema.
Il timbro terribile di quella risata, ancora attraversa i miei sonni e sono passati trenta anni.
Ero in vendita, non ero altro che un corpo. Imparai presto a tacere, a non ribellarmi più: quelle che ci avevano provato venivano inghiottite dal nulla. Corpi senza nome, senza identità. Dignità violate.
Volevo solo scappare, così imparai a tenere le briciole per me. Le nascondevo in una vecchia calza, sotto il materasso di quello stanzino che ospitava me e altre tre come me. Ogni giorno contavo le mie briciole: ogni notte avrei potuto aggiungere una briciola in più.
Mi accorsi di essere incinta dopo sette mesi di quella vita. Non lo so chi era stato. Come avrei potuto? Non c´erano facce, solo voci che chiedevano: - Quanto vuoi? -
Non lo dissi a nessuno. Avevo paura, stavo male e avevo paura. Cercai di mimetizzare la mia condizione. Per tutti ero solo ingrassata.

Una mattina mi svegliai scossa da onde che mi prendevano e mi lasciavano senza fiato: stavi arrivando. Fui fortunata, quella mattina, ero sola.
Misi dei vecchi giornali sul pavimento, liberai il letto dal materasso per potermi attaccare alla sua base, avvicinai a me un asciugamano pulito e attesi. Non aspettai molto, mi scivolasti fuori senza un vagito, neppure io gridai.
Mi guardavi con quel tuo faccino rugoso. Si, sono sicura che mi stavi guardando cercando di imprimere nella tua acerba memoria i miei occhi smarriti. La cosa più difficile fu tagliare il cordone, ma lo avevo visto fare a mia madre così tante volte che tutto andò bene. Ti pulii e ti avvolsi in una coperta, continuavi a guardarmi senza piangere.
Era affollato, quell´ospedale, un via vai continuo di gente. Non mi notava nessuno, nessuno si occupava di quella ragazza con il suo piccolo fagottino in braccio. Dovevo scegliere un posto, un posto giusto. Lo trovai, c´erano i distributori di bibite e un piccolo tavolo. Ti appoggiai sul quel tavolino.
Mi voltai a guardarti, e lo so, anche tu mi stavi guardando. Quando uscii da quell´ospedale cominciai a correre, stavo scappando.
Non smisi di correre sino a quando non arrivai al mio paese. Ma non tornai a casa mia, andai da Anna.. Non mi chiese nulla, mi accolse e basta.
E oggi compi trent´anni, figlio mio. Non saprò mai che uomo sei diventato, ma so che ti porti nel cuore il mio sguardo smarrito. Oggi lo racconterò ad Anna.


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