Poesie di Antonio Moccia


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Dolci tormenti.
Ombra crudele
dimmi chi sei.
Perché infierisci
e ancor mi trafiggi?
Quanta pena mi fai
anima mia,
perduta per sempre
nella dannazione di un ricordo.
Demoni spietati
che danzate me intorno
armati di musica e versi,
dolci tormenti
di una fuga dal vero,
quella maschera polimorfa
che copriva il mio nulla
restituitemi.

Una serpe
Striscia e addenta e avvolge e strizza,
uccide e fagocita, e assai greve si piazza
sotto il sol dei cui rai s’accarezza.
Poi in un lampo dal guardo si spiazza.

Rispunta e si impenna, brandiscesi e scatta;
morde a vuoto, riguizza e s’acquatta,
ma da falco già vista vien ratta,
e da terra e da sterpi distratta.

Quanto stolta sua mente, meschina!
Non il capo a sua sorte reclina.
Si dibatte e non sa poverina,
che il piacere del volo declina.

Irrazionalmente mio.
Volo su un treno
ai confini dell’universo.
Davanti a me, macchinista macchinato
da immateriale macchinazione,
i binari si levano al cielo
viepiù verticalmente.
E le mie viscere alla gravità
mi trattengono.
Un’ansia di amore mi devasta.
Un’ansia di vita mi spinge.
Un’ansia di morte mi libera.
Forte, intenso, dolce,
struggente, violento, soave patema;
purissima immagine
di una distesa di girasoli,
vi prego, fissatevi in me.
Vi prego, volate con me.
Vi prego, risvegliatevi con me.
E tu, angelo, chi sei?
Sono il tuo demiurgo.
Dormi. Sogna, ora.
Solo il sogno ti salverà,
imperitura stimmata.
Sogna. All’alba tornerai,
e io sarò con te. Per sempre.
Con lo stesso forte, intenso, dolce,
struggente, violento, soave patema.

Palingenesi
Non so chi tu sia,
né saprò mai di te.
Ora sei nel mio io
che futuro ha riavuto.

So che mi hai amato,
splendida epitome
dell’attimo essenziale
precedente il fiat lux.

Sin d’allora mi hai scelto,
immeritato compagno.
Angelo ineffabile.
Spirito ineguagliabile.

Posto con me.
Volato da me.
Poi ritrovato
nell’universale gravitazione.

Insieme vivremo.
Insieme ameremo.
Insieme gioiremo.
Insieme morremo.

Formidabile coppia,
notevole uno.
Futuro riflesso
in un’alba d’estate.

Alla mia terra
Son brulle.
Son belle.
D’acqua giammai satolle
son le mie zolle.

Vi nacqui.
Vi crebbi.
Migrai giovin ribelle.
Tornai canuto imbelle.

O belle, brulle zolle,
cui tolsi mia radice,
di questa vita folle
siate epilogo felice.

La mia via per Sophìa (laddove Sophía è Σοφία)
Nella mia mente,
neuroni infami
malignamente mi ostacolano
la via per Sophía.
Aberranti sinapsi
di arcani meandri di perdizione
fanno delle luci del cielo
lampioni di angiporto
con lucciole oscene
che vendono corpi frollati e guasti.
Una viscida, lutulenta essenza
costellata di fuochi fatui,
ombra di quello che fui, sono
e, forse, ancora sarò,
mette in fallo il mio piede.
Oscure presenze
di momenti andati,
di lontani peccati,
cospirano per la mia fine.
Ma ogni tema mi è altro.
Ardirò sapere.
Da barbaro qual sono
mi leverò in volo.



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