Racconti e testi di Renzo Montagnoli
Raccolta 2


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Renzo Montagnoli
Nasce a Mantova l'8 maggio 1947. Laureato in economia e commercio, dopo aver lavorato per lungo tempo presso un'azienda di credito ora è in pensione e vive con la moglie Svitlana a Virgilio (MN).
Ha vinto con la poesia Senza tempo il premio Alois Braga edizione 2006, con il racconto I silenzi sospesi il Concorso Les Nouvelles edizione 2006, con le sillogi poetiche Canti celtici e Il cerchio infinito, rispettivamente, la settima edizione e l'ottava edizione del Premio letterario internazionale L'arcobaleno della vita.
Sue poesie e racconti sono presenti in antologie collettive e in e-book.
Ha pubblicato le sillogi poetiche Canti celtici (Il Foglio, 2007) e Il cerchio infinito (Il Foglio, 2008).
E’ il dominus del sito culturale Arteinsieme    (www.arteinsieme.net)
Blog: http://larmoniadelleparole.blogspot.com/
Indirizzo e-mail: renzo.montagnoli@gmail.com 
 


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Il Natale dei pensionati
Fra continui annunci del governo che prometteva il pagamento delle pensioni di dicembre e tacite smentite si arrivò al 24 dicembre, vigilia di Natale, allorché si sparse la voce, iniziata da non si sa chi, che presso tutti gli uffici postali c'erano le agognate risorse. Fu come un temporale estivo, con i primi cupi brontolii e poi in un crescendo di tuonate, sicché vecchi e meno vecchi, invalidi, storpi, colpiti da Alzheimer, ciechi che prima non vedevano la luna a un palmo di naso, si misero in cammino vocianti, tutti diretti al più vicino sportello delle poste. La stessa cosa accadde a Verzù, piccolo paese della pianura lombarda, ricco di sole e calore in estate e di nebbie e di freddo in inverno. I locali carabinieri, allarmati per questa fiumana che andava ingrossando lungo il percorso, si disposero ad attenderli, muniti di casco, scudo e manganello, nella piazza del municipio, dove appunto c'era anche l'ufficio postale, i cui dipendenti sprangarono l'ingresso, pronti a resistere come i soldati di Forte Apache.
Ma chi avrebbe mai potuto fermare quell'orda di affamati, a digiuno da parecchi giorni, che già poco mangiava quando pagavano i due soldi delle minime?
Il maresciallo invitò alla calma i facinorosi, ma fu tutto vano: i sei carabinieri della stazione furono travolti, aggrediti a calci, pugni e morsi, e chi riuscì a fuggire fu visto correre di sghimbescio con una protesi dentaria agganciata a una natica, sì, perché la fame e l'impotenza di fronte a un governo ladro e inetto rende il popolo disperato, che usa qualsiasi mezzo per far sentir le sue ragioni, anche la bocca, soprattutto quella che insieme allo stomaco è da giorni inattiva. La porta fu sfondata, si saltò il balcone, si carcerarono invano quei soldi che non c'erano, e allora, tutti, come a un segnale convenuto, gridarono: - All'Ipermercato!
Fu peggio della rivolta dei forconi, anzi sarebbe stata ricordata come la rivolta delle forchette, impugnate con entrambe le mani per poter mettere qualcosa sotto i denti.
Il grande emporio commerciale era indifeso, ormai accessibile, perché i dipendenti pensarono bene di tagliare la corda. La fiumana piombò nei locali e arraffò di tutto; i più fortunati misero le mani, pardon infilzarono i rebbi delle forchette nella preziose carni e si ingozzarono senza cuocere; c'era chi girava tenendo in equilibrio cinque o sei scatolette di sardine sott'olio, altri, quelli meno fortunati e dalla vista corta, cercarono inutilmente di aprire degli strani barattoli con sopra disegnate delle mosche e delle zanzare. Il colpo più grosso lo fece il geom. Sollievo, un novantenne cieco come una talpa, che si sforzava di mandar giù quella che credeva margarina vegetale e che invece, a detta di molti, era crema per le mani.
Comunque, tutti, chi più chi meno, ebbero l'antipasto, perché con lo stomaco impigrito da giorni di digiuno anche una trota intera, divorata cruda, serviva solo a solleticare l'appetito. Fra rutti e peti quella folla lasciò l'ipermercato, decisa a soddisfarsi negli altri negozi del paese. Non uno sfuggì al linciaggio e così furono divorati i fiori del fioraio (qualcuno poi dirà che i migliori erano quelli finti, anche se un po' duretti), del bar non restò che la macchina da caffè fracassata e non sfuggirono allo scempio nemmeno la merceria, con i bottoni scambiati per succose caramelle, e la tabaccheria, che vide stecche e stecche di sigarette trangugiate, anziché andate in fumo. Il sindaco, il rag. Porcelloni, grande e grosso com'era s'azzardò ad arringare la folla, ma fu travolto, calpestato, perfino mordicchiato.
Ormai non c'era più nessun freno e fra quelli che erano riusciti a mettere nello stomaco qualcosa ci fu anche chi tentò di usar violenza alla perpetua del prete, la Cesira, storta e gobba, e forse anche a lei non sarebbe dispiaciuto, ma vuoi per il momento di tensione e diciamo anche francamente per l'età, si risolse in un nulla di fatto, con il vecchietto che si rialzò continuando invano a cercare con la mano dentro la patta dei pantaloni.
Poi qualcuno, non si sa chi, gridò: - A morte i politici! E il grido percorse tutto stivale. A Roma in Parlamento, al governo si richiese l'intervento dell'esercito, ma questo nicchiava, perché non era pagato da quasi un anno e allora avvenne un fuggi fuggi, chi con l'auto blu, chi con l'elicottero blu, chi con l'aereo blu, insomma sembrava la grande fuga dei Puffi.
Brutta cosa la folla inferocita, peggio di un bisonte impazzito e i politici che non furono svelti ad eclissarsi ne uscirono malconci. L'onorevole Trepalle, famoso per i suoi discorsi roboanti e inconcludenti, fu visto l'ultima volta correre in mutande in Piazza Venezia, per poi gettarsi nel Tevere; il senatore Scartino, sì proprio lui, il difensore, a parole, dei pensionati, finì fra gli addobbi del gigantesco pino natalizio di Piazza Navona, e fu anche fortunato, perché il direttore generale dell'INPS, legato come un salame, fu fatto rotolare giù per i sette colli. Ovunque risuonava un unico grido:- Pane! E ai pensionati si erano intanto aggregati i disoccupati, i cassaintegrati, gli studenti senza speranza, le casalinghe, i poliziotti, i carabinieri, insomma il paese era diventato un vulcano in eruzione.
In mezzo a tutti questi clamori si arrivò alla mezzanotte e fu allora che si udì una voce forte scendere dal cielo: - Basta, figlioli, tornate a casa, i vostri nemici sono fuggiti, fate in modo che non ritornino, trovate della brava gente che vi guidi e celebrate questa grande festa.
Poco a poco i rivoltosi si dispersero, tornarono alle dimore, stanchi, ma speranzosi, trascorsero il Natale dormendo, e così anche Santo Stefano, e quando si risvegliarono accesero i televisori e, con sgomento, videro che i politici erano di nuovo sugli scranni del potere. Spensero sconsolati gli apparecchi, abbassarono gli occhi, misero la coda fra le gambe, restarono come inebetiti per non più di cinque minuti e poi come cani bastonati si ricordarono della droga dei poveri; riaccesero allora il televisore appena in tempo, perché l'arbitro stava fischiando l'inizio del derby cittadino fra Inter e Milan.
 

Vittime di guerra

Fischia il vento oggi sul Basson (*), l’estate sta per lasciare il posto all’autunno, un avvicendarsi di stagioni che accompagnano ogni anno. Cammino per questo solco che è poi quel che resta di una trincea e guardo le cime eterne testimoni di questo scorrere del tempo. Là il monte Cimone che il 23 settembre del 1916 una mina italiana decapitò, più vicino, verso Nord, la cima Vezzena con la sommità incappucciata dall’omonimo forte. E terra di fortezze è questa, sentinelle arroccate che si fronteggiano: a settentrione quelle austriache, a mezzogiorno quelle italiane. Non intendo però andar oltre, divagare su quello che accadde in quell’immane conflitto che fu chiamato la Grande Guerra; desidero invece raccontare una vicenda, che pure è stata narrata a me, e che avvenne il 24 agosto 1915 appunto sul Col Basson.

L’Italia era entrata in guerra da poco e a parte quei territori che aveva subito conquistato perché ritenuti indifendibili dagli austriaci e che pertanto avevano preferito ritirarsi su posizioni più consone, di obiettivi ne aveva raggiunti ben pochi, ma lo spirito combattivo era ben presente, come testimoniato dalla prima e dalla seconda  battaglia dell’Isonzo (rispettivamente 23 giugno – 7 luglio 1915; 18 luglio – 3 agosto 1915), concluse con una carneficina senza ottenere risultati apprezzabili.

Ed ecco il racconto della battaglia del Col Basson.

E’ la notte fra il 23 e il 24 agosto, nelle trincee italiane non si dorme e nemmeno in quelle austriache, stante l’incessante bombardamento delle artiglierie del Regio esercito che dura ormai da dieci giorni, ma c’è una ragione in più per non aver sonno, per essere in ansia: domani ci sarà l’attacco,  il sergente ne ha accennato, ma c’è una conferma indiretta, data dalla distribuzione straordinaria di grappa, ben più di un gavettino a testa. Sì, se non si è almeno quasi ubriachi é difficile pensare di uscire dai rifugi, se pur precari, e, baionetta in canna, correre verso la triplice fila di reticolati austriaci che il bombardamento dovrebbe avere neutralizzato, saltare nell’opposta trincea, scannare altri poveri diavoli che pure ora non dormono, e tutto questo per la gloria dell’Italia, ma soprattutto del re.

“Hai da accendere?”

“Ecco.”

“Grazie. Questa notte non passa mai.”

“A chi lo dici…”

A parlare sono due fanti della brigata Treviso, è la prima volta che si vedono, ma fra compagni di avventura, anzi di sventura, dialogare vuol dire allontanare, o comunque allentare la tensione per l’imminente scontro.

Si presentano: “Giuseppe Gualandi, sono di Mantova”. “Francesco Aguglia, sono di Mondovì.” Sono entrambi giovani e ambedue sposati.

“Giuseppe cosa fai nella vita? Io lavoro a giornata in campagna.”

“Faccio l’imbianchino, ma sto studiando per diventare pittore.”. 

Poi segue un lungo silenzio, ognuno si rinchiude nelle sue paure, pensa non tanto al domani quanto invece al passato.

Ogni tanto un razzo illuminante squarcia le tenebre e allora i soldati abbassano la testa, automaticamente, come se quella luce improvvisa li rendesse più vulnerabili. Altri chiacchierano, qualcuno prega, ma nessuno dorme, segno che l’alcool non ha ancora fatto effetto e infatti arriva una nuova distribuzione. Giuseppe e Francesco sorseggiano la grappa, hanno le labbra secche e anche la gola è secca, come se avessero mangiato solo polvere.

“Giuseppe, secondo te i ricchi fan la guerra?”

“Più che farla, la fanno fare a noi poveri.”

“A casa non me la passavo bene, il lavoro è poco e quindi le entrate sono limitate, ma non così le spese quando soprattutto devi provvedere a moglie e figli, che sono due. Preferisco però la cena a base di polenta e latte e il calore della mia famiglia, piuttosto che stare qui ad attendere di ammazzare e di essere ammazzato.”

“Non ho ancora figli, ma mia moglie è incinta e dovrebbe nascere verso fine settembre. Siamo poveri anche noi, ma mille volte meglio è stare là che essere qui.”

Passano le ore, arriva l’alba, è il momento. Si sale dalla trincea, un unico grido “Avanti, Savoia” e più di mille uomini corrono verso i reticolati austriaci, purtroppo ancora pressoché intatti. La scena è drammatica, ma anche surreale, perché alla testa dei suoi uomini c’è il tenente colonnello Marchetti, che poi risulterà fra i caduti, con la fanfara reggimentale che suona l’assalto, cose d’altri tempi, di battaglie in epoca napoleonica. Dalle trincee avversarie si comincia sparare, così come sparano i cannoni dei vicini forti nemici. Impossibilitati a superare i reticolati - ma in qualche punto qualcuno ci riuscirà - i nostri soldati sono soggetti a un martellamento continuo e cadono come birilli.

Francesco corre alla disperata, procede a zig zag, ma a un certo punto lancia un grido disperato, si porta entrambe le mani alla testa e cade ormai morto, ucciso da un pallettone di uno shrapnel che gli ha trapassato il cranio. Giuseppe, disteso a terra, si lamenta, ovunque ci sono morti, chi colpito da una pallottola  di mitragliatrice, chi dilaniato da un proiettile d’artiglieria. Sul campo di battaglia si alza una nuvola di fumo denso e come se non bastassero le armi dei nemici si mettono anche i nostri cannoni, con un tiro corto di proiettili a gas che bruciano i polmoni dei nostri fanti. Le nostre perdite sono ingenti: 43 ufficiali e 1.048 uomini di truppa, come si saprà in seguito. I superstiti vengono presi prigionieri quando già accorrono sul campo di battaglia i portaferiti. Un sacerdote austriaco impartisce le estreme unzioni ai caduti e arriva nel punto in cui giace Giuseppe, che con la mano gli fa cenno di accostare le sue orecchie alla sua bocca.

Padre, soffro tanto, forse sto per morire, mi benedica.” Il prete lo guarda e nota che a parte le gambe maciullate non ci sono altre ferite serie. Chiama a gran voce i portaferiti, che accorrono, caricano Giuseppe su una barella e lo portano al loro ospedaletto. Lui è svenuto, tanto che non ricorderà più nulla. Sei mesi dopo, trascorsi quasi tutti in ospedale, è uno di quegli invalidi che vengono scambiati per umana pietà e anche perché ormai inutili alla guerra. Nel treno che lo riporta a casa pensa cosa dire alla moglie, che peraltro è già stata informata che il marito ritorna privo dell’uso delle gambe. Prova amarezza e vergogna per la sua condizione e quasi invidia Francesco che invece è morto. Sarà accettato, ma soprattutto lui sarà in grado di accettarsi?  Arriva in stazione, Giuseppe è sulla poltrona a rotelle, lo fanno scendere e fra la folla vede sua moglie con in braccio un piccino. Gli si riempiono gli occhi di lacrime, lei si fa largo fra la gente e lo abbraccia.

Ben tornato amore mio.

Sono un rottame, un mezzo uomo, se vuoi sei libera di rifarti una vita.”

Sì, Giuseppe, sarà una nuova vita, ma con te e con questo pupo che ti vede per la prima volta”.

Giuseppe non dice nulla e piange ancor di più, ma questa volta di felicità.

Ritornerà in seguito al Basson, grazie a delle protesi che gli consentono una certa indipendenza, camminerà in quella piana che era insanguinata, sentirà fischiare il vento, darà un saluto alle ombre di chi lì è caduto.

Passano gli anni, ci sarà un’altra guerra, e poi di nuovo un periodo di pace ed eccomi a oggi, pure io su questa piana a immaginare un reggimento di scheletri che escono dalla terra e che esortano gli uomini a non dimenticare gli orrori di una guerra.

(*) Località che si trova sulla Piana di Vezzena
 

L'eterno riposo dona a loro, o Signore
Ogni anno, in questo giorno di metà aprile, esco dalla canonica e, sempre più malfermo sulle gambe, prendo la strada che lascia le ultime case del paese, per poi inoltrarsi nel bosco, e salire, dopo un paio di tornanti, sulla rupe dove, da tempo immemore, accanto alla chiesa dedicata a Santo Stefano c'è il nostro piccolo cimitero, talmente piccolo che per contenere tutti i nostri defunti gli stessi vengono sepolti in piedi. Già il sole è quasi scomparso dietro le cime innevate dell'Adamello e l'ombra sempre più si allunga, prendendo possesso dell'intera valle; è primavera, ma le ore di luce sono ancora poche, l'aria è frizzante e qua e là, irriducibili, ci sono ancora chiazze di neve. Che cosa mi spinge in questo posto di silenzio in un'ora così tarda? Che cosa mi impone di rinunciare alla comodità del divano e al tepore della vecchia stufa in ghisa per avventurarmi con le poche forze che mi rimangono in questo percorso dal luogo dei vivi a quello dei morti? Non sono pazzo, non ho la demenza senile, ma io, don Cherubino Solari, già parroco del paese, da alcuni anni rimosso per raggiunti limiti di età, vengo in questo posto in pellegrinaggio, per ricordare, ringraziando, chi non molti anni fa mi ridiede la fede che stavo perdendo. E' una storia lunga e vedrò, per quanto possibile, di essere breve. Divenni prete più per soggezione che per vocazione, più per soggezione nei confronti dei miei genitori che tanto lo desideravano al punto di farmi battezzare con il nome di Cherubino. Ma poi, quale pastore del mio gregge, sentii nascere in me il desiderio di esserne la guida, di partecipare alle poche gioie e ai tanti dolori che guerre e malattie dispensavano a piene mani. Li accompagnavo nell'ultimo viaggio, convinto che sarebbero andati incontro a una nuova vita, ma quando mi lasciarono mio padre e mia madre sentii un vuoto profondo, una disperazione perché nulla poteva assicurarmi del loro cammino nella vita eterna. Fu un periodo infelice e non so se ne accorsero i miei parrocchiani, ma se percepirono qualcosa furono talmente fraterni da non darmelo a vedere. Erano giorni in cui a dubbi atroci si alternavano improvvise ed effimere certezze, in cui riperdevo la fede che avevo appena riagguantata, così che cominciai a disperare, ma proprio allora avvenne il fatto. Una famiglia veniva da anni in paese per la villeggiatura, tanto che avevano comprato una vecchia bicocca e l'avevano sistemata affinché il soggiorno non si limitasse solo a un paio di mesi estivi, ma anche a uno di quelli invernali. Erano un padre, una madre, una bambina e un cane. L'inverno prima non erano venuti e si seppe che era per le condizioni di salute della bimba, colpita da un male che non perdona. Quando la piccola (aveva otto anni) si accorse che la vita le sfuggiva di mano espresse il desiderio di venire a morire al paese e di essere sepolta nel suo cimitero. Non riuscii a farle visita quando era ancora viva perché come arrivò chiuse gli occhi per sempre. La ricordo bionda, minuta, quasi scheletrita, ma con il volto sereno. Il cane, un setter, guaiva ai piedi del letto, sembrava soffrire e poi mi dissero che morì alcune ore dopo. Il comune concesse la tumulazione nel proprio cimitero e così accompagnai anche lei nel suo ultimo viaggio, con i necrofori che, nell'ultimo tratto da fare a piedi portando in spalla la bara, si lamentavano del peso non trascurabile della stessa, tanto che a più d'uno venne il dubbio che vi fosse rinchiuso anche il corpo del cane. Dopo la messa nella chiesetta e la tumulazione mi attardai non so per quale ragione, ma anche allora, come adesso, scesero veloci le ombre della sera e alla luce quasi irreale della luna non vidi, ma avvertii due spiriti che lasciavano la terra per innalzarsi in cielo, e mi parve di sentire anche il latrato di un cane e un'esclamazione di gioia di una bambina. Alzai gli occhi al cielo, ora sapevo che esisteva un'altra vita, che non tutto finisce e mi sorpresi a dire fra le lacrime "L'eterno riposo dona a loro, o Signore". Da allora non manco un anniversario e ogni volta avverto in me la presenza di due anime che si ritrovano, che gioiscono, che corrono per gli immensi prati del cielo, o che scendono giù al torrente a guardare la luna specchiarsi nelle pozze, o che risalgono queste vette innevate per fiondarsi nell'infinito. Alloro mi raccolgo in preghiera, mentre dentro di me cresce una gioia che vorrei gridare al mondo, una speranza per tutti, anche per chi non crede, perché in quest'ordine perfetto nulla si crea e nulla si distrugge. Anche ora mi scendono copiose le lacrime e prima di lasciare questo luogo di pace sussurrerò "L'eterno riposo dona a loro, o Signore", aggiungendo "e anche a me" che avverto inesorabile, ma non più terribile, l'avvicinarsi di quell'ultimo passo.
Le stelle brillano in cielo, la luna sembra sorridere, e leggero come una piuma mi appresto a tornare a casa.

Nota: Il racconto parte da un fatto vero, dal desiderio di una bambina, malata, di essere sepolta nel cimiterino di quel paese che tanto amava. Il resto è frutto di pura creatività.
 

Il fosso sepolto
Sono in auto con il nonno, procediamo lungo la provinciale e seguo le sue indicazioni, sempre più incerte. Oggi è una bella giornata di sole, non fa né caldo, né freddo ed è per questo che ho acconsentito al desiderio di questo vecchio di rivedere, per un'ultima volta, il fosso in cui da ragazzo andava a pescare.
Quando ho visto il cielo azzurro, ho detto <<Adesso, o mai più.>>, perché i medici si sono espressi laconicamente, mi hanno messo una mano sulla spalla, scuotendo la testa, insomma il mio adorato nonno è prossimo al capolinea. Lui lo sa e non ne ha fatto una tragedia, perché mi ha detto che in fondo aveva vissuto e che dopo la morte della nonna la sua era stata solo un'attesa per quell'ultima fermata. Ha espresso solo un desiderio, rivedere quel fosso.
Mentre andiamo, me ne parla:" Immaginati una roggia dove l'acqua limpida scorre veloce, prima dritta e poi a semi curve, di nuovo dritta prima di arrivare al vecchio mulino, di cui ho nelle orecchie ancora il rumore della macina. Gra gra gra, sembrava una cornacchia, ed era l'unico suono, a parte il brusio degli insetti. Arrivavo presto la mattina con la mia canna, il barattolino con i vermi, ma non portavo il guadino. A me piaceva l'attesa, vedere il filo che si tendeva quando il pesce abboccava, fare forza per trarlo a riva, ma poi, con delicatezza, gli toglievo l'amo della bocca e lo rimettevo nell'acqua. Sono convinto che lui capisse, perché restava un attimo a guardarmi e poi andava. Ho sempre amato gli animali, perfino le bisce che lì abbondavano e che quando passavano vicino sembrava che mi salutassero. L'erba del fosso, il filare di salici, il volo di un airone, una natura in cui mi immergevo con rispetto e devozione, e quando il sole saliva, al pari della temperatura, mi spogliavo e nudo facevo un bagno rinfrescante. Una volta, curioso, ho voluto vedere come funzionava il mulino e il mugnaio mi ha fatto entrare, con la macina imbiancata come fosse nevicato che girava grazie all'energia motrice dell'acqua. Era un edificio molto vecchio, si diceva del '700, insomma ormai una rarità e spero che ci sia ancora.
Forse tu non puoi capire, sei nato in un'altra epoca, in un periodo in cui l'uomo è convinto di poter dominare la natura, senza nessun rispetto per la stessa. Non ci sono più albe che ti fanno ritrovare la gioia di svegliarti, né più tramonti che pur stringendoti il cuore ti danno tanta serenità." "Sì, nonno, invece credo di capire di una vita meno ricca, ma anche meno frenetica". " E poi, quando sono cresciuto, la prima volta che sono uscito con quella che sarebbe diventata tua nonna l'ho portata in questo posto. Ricordo come se fosse ieri: era il tramonto di un caldo giorno d'estate, camminavamo mano nella mano, poi ci siamo fermati rivolti a occidente che si arrossava sempre più, c'era una quiete incredibile, e lontano, contro il sole morente, volava un airone; ci siamo abbracciati e ci siamo dati il primo bacio, un'emozione indimenticabile." "Nonno, ti voglio bene, te ne voglio tanto."
"Ma dov'è il fosso? Dovremmo già essere arrivati, ma non vedo niente." Osservo la strada, c'è una rientranza ai lati e decido di fermarmi, visto che c'è un contadino che si riposa accanto a un trattore. Scendiamo, il nonno è incerto sulle gambe con la sua vita appesa a un filo. Domando al contadino dove si trova la roggia con il vecchio mulino. Mi guarda quasi stupito, poi osserva il nonno e capisce. "E' stato tombato una ventina di anni fa, per allargare la strada, e in quell'occasione hanno abbattuto anche il mulino." Il nonno non parla, si guarda intorno smarrito, poi mi fa cenno di ritornare a casa. Riparto, ma vorrei restare, vorrei una bacchetta magica per far tornare quel posto come era tanto tempo fa, non dico niente, ma il nonno, a cui si sono inumiditi gli occhi, parla per me:" Hanno sepolto il fosso, hanno distrutto il mulino, non c'è più nulla della mia gioventù, è stata sepolta anche lei. Così va il mondo e fra poco andrò anch'io."
Poi si rannicchia sul sedile, le lacrime scendono libere lungo le gote, prende il fazzoletto, si asciuga il viso e gli occhi e dice:" Non c'è più, ma è ancora dentro di me e verrà via con me.".


Ritornerà la primavera
Marzo 1918, dopo la disastrosa ritirata di Caporetto il fronte si è assestato, ma si attende da un momento all'altro il grande attacco delle truppe dell'Imperial Regio esercito austro-ungarico. E' notte, una notte serena, con in cielo tante stelle e in una trincea sul Grappa un fante si appresta a scrivere una lettera alla giovane moglie. Di tanto in tanto si levano razzi illuminanti, lontano è il brontolio di un canone, uno sparo, poi un altro ancora, e infine il silenzio.
Dentro un rifugio scavato nella roccia, al lume di un mozzicone di candela, tormentato da un esercito di cimici il fante Fausto Castelmassa è assorto nei suoi pensieri, vorrebbe scrivere tante cose, ma poi teme, a ragione, che la censura cancelli quasi tutto e allora è inutile parlare della guerra, delle sofferenze, dell'umido che stringe le ossa, dell'orrore dei morti insepolti, della puzza dolciastra che emanano e che entra dappertutto, anche nell'anima. Ma lui vuole scrivere, vuole abbracciare idealmente la moglie, rassicurarla e tranquillizzare anche se stesso ed è allora, mentre spegne l'ennesima sigaretta, che gli viene l'idea. Distende bene il foglio, si passa la mina della matita sulla lingua e inizia a scrivere.
" Mia adorata Martina, luce dei miei occhi, sempre nei miei sogni delle notti buie, ti scrivo per dirti quanto ti amo, quante volte mi sembra di sentire sotto i polpastrelli delle mie dita la tua pelle di seta. Ti ho sempre amato, ma c'è voluto il distacco di una guerra perché capissi quanto grande era ed è il mio amore, talmente grande che non starebbe nemmeno dentro il mare, che traboccherebbe dai confini del cielo. No, non esagero, tu sei sempre stata lo scopo della mia vita e ancor più lo sei adesso..."
Non lontano una mitragliatrice sgrana i suoi colpi, s'ode un urlo, che si spegne in un rantolo soffocato. Fausto Castelmassa ha interrotto la sua scrittura, gli occhi si inumidiscono, non sa se quello che è appena morto è amico o nemico, sa solo che è un uomo come lui, con un cuore che prima pulsava e ora è immobile, magari con una moglie che lo attenderà invano a casa.
Si passa una mano sugli occhi, poi riprende a scrivere.
" Amore, è l'unica parola che voglio gridare e che voglio sentire. Un giorno tutto questo finirà e chi potrà tornare sentirà più che mai indispensabile la necessità di amare e di essere amato. Io già sogno il mio ritorno, tu sulla porta di casa, io che corro, tu che corri e ci abbracciamo, il fiato che si fa corto, un bacio lunghissimo che non finisce mai, poi guarderemo il cielo per una preghiera, per un ringraziamento, ma anche per un pensiero a chi non ce l'ha fatta. E poi a primavera, perché ritornerà la primavera, non una come questa, ma una come quelle piene di speranza di prima della guerra, andremo a correre per i campi, mano nella mano, e giunti al vecchio mulino ci fermeremo, raccoglierò le violette selvatiche, un mazzolino per i tuoi bei capelli. Ecco, tutto questo volevo dirti e altro ancora ti dirò quando saremo di nuovo insieme. Un bacio, un bacio appassionato, amore mio lontano."
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Il tempo corre, girano i mesi del lunario, novembre 1918, l'armistizio, la fine della guerra, poi l'anno nuovo, il 1919, la fretta di ricominciare, sempre più veloci corrono i giorni e siamo al 1920, è il 21 marzo, il primo giorno della bella stagione e puntuale la primavera è ritornata.
Nel piccolo paese deve essere giorno di festa, nella piazza davanti al municipio c'è un palco, con tante coccarde tricolori e tutte le autorità, dal sindaco al parroco, al comandante del presidio. Giù, davanti alla gente che accorre, c'è una banda militare e un picchetto d'onore e poco più in là un drappo che cela chissà cosa. Cominciano i discorsi, si parla di nuovo di guerra, di quella appena finita e vinta, si commemorano i caduti del paese, parole tronfie, retoriche, perché nulla può giustificare la morte di quegli uomini. Poi, mentre la banda suona l'inno reale, il drappo viene tolto e appare il monumento, il bronzo di un soldato proteso in avanti intento a lanciare una bomba. C'è la benedizione del parroco, mentre il comandante del presidio legge i nomi dei caduti riportati su una lapide ai piedi della statua. C'è commozione in giro, qualcuno piange, mentre si alzano le note del silenzio fuori ordinanza. E sull'ultimo acuto della tromba tutto finisce, la gente a poco a poco lascia la piazza che in breve è del tutto deserta.
E' solo allora che da dietro un albero spunta una donnina in nero, a passi rapidi va al monumento, legge quei nomi, su uno appoggia le labbra, mentre le lacrime le solcano le gote, poi estrae da una tasca un mazzolino di viole selvatiche e lo depone alla base. Quindi, silenziosa e veloce come era venuta, se ne va.


Il Negus
Non c'è che dire, nei paesi si trovano sovente personaggi caratteristici che magari esistono anche nelle città, ma che però si perdono nella massa, si riescono a notare di meno. Al riguardo il mio paese non fa eccezione, anche se, passando gli anni, c'è una sempre più accentuata omologazione, così che certe figure sono in diminuzione e sono senz'altro in numero inferiore al passato, soprattutto a quello che arrivava fino al termine della seconda guerra mondiale. Il Guercio mi ha raccontato di tanti e io, mano a mano che mi ricordo credo che sia giusto parlarne, perché a loro modo sono dei protagonisti e non delle semplici comparse nel teatro della vita. Una di questi è stato senza dubbio il Negus, nomignolo che gli fu appioppato dopo la guerra di Etiopia per la sua carnagione scura, abbrustolita dal sole. Non so come si chiamasse, so solo che faceva parte di una famiglia numerosa e povera in canna, circostanza non infrequente all'epoca. Il nostro Negus, che ancora non era chiamato così, più in preda a un'atavica fame che a uno spirito patriottico cercò, diciassettenne, di arruolarsi per partecipare alla Grande Guerra, ma ovviamente non fu accettato, almeno fino a quando non ebbe a compiere i 18 anni, vale a dire l'1 novembre 1918. Messo su un treno che da Mantova andava a Padova insieme ad altri coscritti, la sera del 3 novembre alla stazione di Monselice la tradotta fu fermata e l'avventura bellica fini lì, perchè come è noto il 3 novembre fu firmato l'armistizio e dato che il Negus non era ancora in divisa fu rispedito indietro, più affamato di prima. In seguito fece diversi lavori, tutti di breve durata, anche per il suo spirito indipendente, fino a quando, ereditata una barca piuttosto malandata e da lui rabberciata alla moglie, iniziò l'attività di pescatore di storioni nel Po. A volte ne prendeva, più spesso no, e allora la fame era sicura, tanto che si rintanava in una specie di capanna dove tacitava per un po' lo stomaco con certe erbe che raccoglieva e faceva bollire. Il suo sogno era di fare il pontiere, cioè di lavorare sul vicino ponte di barche e aveva manifestato questo desiderio più volte con il podestà e con il segretario locale del fascio, ritraendo solo vaghe promesse. Impossibilitato a partecipare alla guerra di Spagna, in quanto riformato per un'artrosi che l'aveva reso storto, pensò di interessare il duce in persona, ma le sue lettere non ebbero risposta, anzi il federale lo rimproverò per l'impudenza. Gli venne allora l'idea dell'impresa clamorosa: dato che Mussolini, con la famiglia, trascorreva alcuni giorni in estate in una villa a Riccione, lui sarebbe andato là, in barca, scendendo il Po fino al delta e poi proseguendo sotto costa fino alla cittadina romagnola. Ne parlò al podestà e al federale, che gli palesarono un certo interessamento, promettendogli assistenza, vale a dire vitto e alloggio lungo il percorso. E così, una mattina presto del luglio 1937 levò l'ancora pieno di entusiasmo e remando di buona lena. Verso mezzogiorno era già in vista di Sermide dove avrebbe trovato, come promesso, il necessario per rifocillarsi e mano a mano che si avvicinava alla riva si accorse con piacere che una gran folla era sull'argine, evidentemente per attenderlo. La fatica gli passò e remò più alacremente con la gente che lanciava entusiasta degli evviva. Era quasi a riva quanto potè intendere quello che quella folla gridava. Era un viva gli sposi di cui non riusciva a capacitarsi e sentendo un rumore alle sue spalle si volse notando un barcone a motore con a prua una coppia di sposi. Non si sa bene come accadde, forse si sbilanciò, ma sta di fatto che la sua barchetta si capovolse e finì in acqua. Tirato a riva, chiese dei sostegni per la sua impresa, ma ottenne ben poco e fu solo per la pietà degli sposi che potè riempire lo stomaco con un po' di riso con le salsicce. Fatto il pieno, ma in capo a un'ora era già in riserva, proseguì, con alterne fortune, mendicando un po' di pane e dormendo la notte sugli argini. Tuttavia era fiducioso, perché se l'impresa fosse riuscita il clamore gli avrebbe potuto portare probabilmente l'agognato posto di pontiere. Se la navigazione in Po era stata abbastanza tranquilla, la stessa cosa non si può dire per quella in Adriatico, perché dovette affrontare ben due tempeste, di cui l'ultima gli strappò quel poco che lo ricopriva, sicchè arrivò al largo di Riccione nudo come un verme. Puntò verso la spiaggia e senti le urla della gente. "Buon segno - disse fra sé - avverto l'entusiasmo". A riva l'attendevano due carabinieri a cui, tendendo il braccio nel classico saluto fascista, candidamente chiese che lo portassero da Mussolini. I due si guardarono un attimo, poi gli calarono i manganelli sul groppone. Atti osceni in luogo pubblico, fu questa l'imputazione, e finì nelle patrie galere per un anno, con l'unico vantaggio di avere un tetto sulla testa e due pasti al giorno.
Ritornato alla pesca non volle rinunciare alla sua impresa, così che nel 1939 ritentò, senza miglior fortuna, visto che all'altezza di Porto Garibaldi gli si spezzò il remo e non potè proseguire. Ritornato in paese sembrava deciso ad accantonare il suo progetto, ma nel luglio del 1943, in piena guerra, decise di ritentare, preparando il viaggio con un piano meticoloso. Il 26 luglio 1943 iniziò il terzo tentativo, ma arrivato all'altezza di Castelmassa, vedendo sugli argini la folla giubilante, decise di accostare per vedere cosa era successo e venne così a sapere della caduta di Mussolini e del suo arresto. Quindi era inutile proseguire perché non avrebbe mai potuto trovare il duce a Riccione. Negli anni successivi poco si sa di lui, ci si ricorda che continuava a pescare, rifornendo di storioni i tedeschi e non più gli italiani. Finita la guerra, la fame era generalizzata e lui non sapeva dove sbattere la testa, andava in giro, chiedeva, ma il lavoro non c'era. Fu solo nel 1947 che, ritornato l'ex segretario del fascio, ora diventato notabile della Democrazia Cristiana, gli si rivolse ancora una volta implorante. Forse si impietosì, forse c'erano motivi elettorali, ma sta di fatto che questa volta riuscì a entrare nei pontieri, come vigilante notturno, il che comportava anche l'uso di una cameretta nella baracca di servizio, dato estremamente importante per chi non aveva una casa. Si era ai primi di novembre e il fiume era in piena e per questo la sorveglianza doveva essere particolare. Grazie al lavoro acquisito, di cui tutti vennero subito a sapere, decise di festeggiare il primo giorno, anzi la prima notte, con quella costata di manzo che sognava da anni e che ottenne a credito dal macellaio, così come pure a credito prese anche due bottiglioni di lambrusco. Come siano andate le cose non è possibile saperlo, mancando i testimoni, ma la ricostruzione che fece la polizia pare senz'altro plausibile. Mangiata la costata, accompagnandola con un bottiglione di lambrusco (l'osso e il vetro vuoto furono trovati nella baracca), forse un po' alticcio, uscì, magari per un bisogno, o per vedere meglio il grado di tensione dei cavi che tenevano ancorati i barconi del ponte; incerto nei passi, anche per l'altro bottiglione in mano, che infatti non fu trovato, procedendo sul terreno cedevole per la pioggia o scivolò o mise un piede in fallo. Sta di fatto che il turno del mattino, andato a rilevarlo, non lo trovò; la scomparsa del Negus tenne ovviamente subito banco all'osteria, con le illazioni che si sprecavano, anche perché le ricerche avviate non riuscivano a trovare il corpo. Il tempo passava e inevitabilmente l'interesse sulla sorte del Negus andava scemando, fino a quando non se ne parlò più. Trascorsero gli anni, per l'esattezza cinque, allorchè un giorno piombò all'osteria il giornalaio con una notizia incredibile. "L'hanno trovato!". "Chi?" " Ma come chi, il Negus." " E dove?" " Dei pescatori del delta sono approdati su un isolotto dove hanno trovato un uomo, un eremita secondo loro. Ne hanno parlato ai carabinieri, hanno verificato, hanno avuto riscontri, in poche parole quell'essere, quasi selvaggio, ma che sembra vivere beatamente e in assoluta serenità è il nostro Negus." " Allora tornerà?" " No, c'è scritto sul giornale che l'uomo non ricorda come è arrivato lì, anzi non sa nulla del suo passato e quando gli hanno proposto di riportarlo da noi ha rifiutato sdegnosamente." Gli astanti si guardarono in faccia, poi rivolsero lo sguardo a quello sputasentenze che era il capostazione. Questi, quando verificò che tutti pendessero dalle sue labbra, sbottò: "Anche questa volta non è arrivato a Riccione; meglio così, perché a quanto pare su quell'isolotto ha trovato quella serenità che tanto gli mancava.".

Da Storie di paese


Una breve storia d'amore
- Desidera qualcosa d'altro? Magari una cioccolata calda con la panna?
- No, la ringrazio, il caffè è stato anche troppo - e la donna diede un'occhiata al grande orologio che stava sulla parete dietro il banco del bar.
Lui se ne accorse e le chiese se aveva un appuntamento.
- No - disse lei - Nessun appuntamento, ho guardato e non so nemmeno il perché.
Ci fu un attimo di silenzio, in cui entrambi rimasero con gli occhi bassi, poi lui la guardò e disse quello che aveva in animo di esprimere da diverso tempo.
- Sono ormai anni che nel fare questa strada, più o meno nello stesso punto, la incontro e così alcuni giorni fa mi è venuto spontaneo di salutarla, con un innocente buongiorno e lei mi ha risposto. Non siamo più giovanissimi, io sono sposato con figli e lei?
- Pure io - rispose.
L'uomo proseguì: - Non so cosa mi è accaduto, vorrei sapere come possono succedere certe cose, ma quasi all'improvviso ho scoperto un interesse per lei, ho avvertito un tremito, una palpitazione che mi ha fatto capire quanto lei sia importante per me. Mi vergogno, lo ammetto, ma dovevo dirlo.
La donna stava zitta, sembrava guardare la tovaglia che lisciava con la mano destra, a spazzar via briciole che non c'erano.
- La prego di parlare, di dirmi se anche lei prova lo stesso sentimento, oppure mi disprezza e le sono indifferente.
Lei restò muta, ma alzò gli occhi e lo guardò, non ci fu bisogno di parole, perché dalla luce che veniva dal fondo dell'animo si poteva benissimo comprendere che lui era qualcosa di più di uno sconosciuto, era un uomo la cui immagine era stata celata nel cuore.
- Capisco e ne sono contento.
Ancora alcuni istanti di silenzio, due sguardi che si incrociavano e parlavano un comune linguaggio, fatto di emozioni, di compiacimenti, ma anche di timori.
-Posso sapere il suo nome?
Lei sorrise, poi rispose: - No, il marito, i figli, una vita fino a ora tutto sommato felice. Può anche essere bello sentirsi desiderata da un altro, ma tutto finisce qui, finisce prima che ancora cominci una storia che non può che portare sofferenza agli altri, ai miei come ai suoi. Ne conviene?
Luì serrò i denti, si prese il capo fra le mani, poi dalle sue labbra uscì un appena percettibile sì, indi si ricompose, prese fiato, cercò quell'aria che di colpo gli sembrava finita e alzandosi disse semplicemente: - Ha ragione, sarebbe forse stato bello, ma ci sono cose che ci impongono di chiudere qui. Da domani non percorrerò più questa strada, non cercherò di incontrarla, calerò il sipario su questa piccola storia. In ogni caso grazie per aver accettato il mio invito per un caffè e la prego, rimanga seduta, non mi saluti, mi lasci uscire, poi esca anche lei.
La donna assentì con il capo, lui uscì senza voltarsi, a conclusione di una breve, infinitesimale storia d'amore.
Trascorsero altri anni, parecchi, lui cessò l'attività lavorativa e continuò nelle sue passeggiate; un giorno, però, fu preso da una strana sensazione, fu colto da un ricordo improvviso e fece quella strada che così accuratamente aveva evitato di percorrere. Nei pressi di un luogo che ora riemergeva prepotente nella memoria vide una donna, anziana, preceduta da due bambini, probabilmente i nipotini. Prese a battergli forte il cuore, sperò e al tempo stesso si accorse di quanto sciocca fosse la sua idea, ma mano mano che lei e lui si avvicinavano scorse in quel viso invecchiato, sotto quelle rughe il volto di una donna che con lui un giorno di tanti anni prima aveva bevuto una tazza di caffè. Arrivarono infine a incrociarsi, lui non disse nulla e nemmeno lei, i loro sguardi per un istante furono una cosa sola. Capì che lei l'aveva riconosciuto da una lacrima che sgorgò da un occhio e che lenta, ma inesorabile le solcò una gota scossa da un lieve tremito. Passarono oltre, lui accelerò il passo, quasi si mise a correre, ma quando gli occhi si riempirono di lacrime si fermò, si voltò per chiamarla, però lei ormai era una figura lontana che si perdeva nelle prime ombre della sera. Si asciugò gli occhi e si ripromise che non avrebbe più percorso quella strada, che tutto sarebbe rimasto un sogno, un tenero ricordo affondato nel cuore.


Il sogno del fauno
A volte accadono fatti che appaiono del tutto inspiegabili, misteri che ci attirano, ma possono anche sconvolgerci. Ricordo di un sogno di una notte di tanti anni fa, nulla di particolare se non fosse per quanto mi accingo a raccontare.

Non ho memoria se fosse estate o inverno, ma propendo per la seconda stagione, giacché con la calura le mie notti sono sempre state spezzate, puntate di sonno e altrettante di veglia. Non intendo però dilungarmi oltre e preferisco passare direttamente a questo strano sogno.

Anche lì era notte, ma non buia, perché in cielo splendeva una pacioccosa luna piena, ogni tanto coperta da qualche capricciosa nuvoletta; procedevo lungo una strada sconosciuta, anzi meglio ancora passeggiavo, anche se in me una forza oscura guidava i miei passi. Camminavo in campagna, con ai lati file di alberi di cui indovinavo solo i contorni. Era quello che si potrebbe definire un viale, lungo, dal selciato dissestato e di cui intravvedevo a stento la fine, sbarrato com’era da un cancello. Rammento che allungai la falcata e in breve, più velocemente di quanto potessi pensare – ma si sa che in sogno tutto è possibile – arrivai a quella chiusura in ferro, due ante di metallo dall’aria antica e assai ben lavorate. Ne spinsi una e il cancello si spalancò su un giardino, ma data la grandezza e gli alberi di alto fusto era più probabilmente un parco e proseguii lungo un sentiero ben battuto, mosso da un’arcana forza che mi imponeva di sapere.  Attraversai altri sentieri, vialetti coperti da finissima ghiaia, scivolai sotto rami protesi e infine giunsi là, a una piazzetta, con in mezzo quella che a prima vista mi sembrò una fontana e che invece, pur rivelandosi tale, aveva dimensioni ben superiori, quasi quelle di una, se pur piccola, piscina. Da un fauno troneggiante nel mezzo scendeva un getto d’acqua che sotto s’infrangeva su una marmorea sirena. All’intorno, altra acqua, e un coro di ninfee, una cornice che esaltava la bellezza delle forme delle due statue. Le guardai a lungo, mi piacevano, l’artista che le aveva scolpite sembrava aver trasfuso in loro la sua anima. Nel mentre nell’ombra osservavo, la luna, fino ad allora coperta da una nuvoletta, s’affacciò e la sua luce cadde improvvisa ed eterea su quell’elegiaco quadretto. Fu allora che vidi quello che non poteva che essere un sogno: il fauno, irrigidito dai secoli nella pietra scolpita, si contrasse, le giunture scricchiolarono, insomma si animò  e lo stesso accadde per la sirena, la cui rigidità si sciolse nella tenera mollezza di una femmina che rinasceva in quel momento. Di sottofondo il rumore dell’acqua che cadeva divenne le note di un flauto di Pan, una melodia che s’ispirava ad amori lontani, a passioni mai sopite, a desideri irrealizzati. Si capiva chiaramente che il fauno avrebbe voluto toccare, magari accarezzare il corpo seducente di quella sirena, un desiderio forse in essere da tempo immemore e che ora, con la magica complicità della luce della luna, poteva realizzare. Si piegò verso di lei, ma per quanti sforzi facesse non riusciva a raggiungerla, nonostante che lei si inarcasse, cercasse di andargli incontro. Ecco, le mani di entrambi protese a sfiorarsi, quel tocco da tanto atteso, gli sforzi di lui  sempre più esasperati, forse un grido lacerante e il fauno si spezzò. I piedi, fino alle caviglie, restarono sul basamento, ma il resto del corpo precipitò a toccare l’oggetto del suo desiderio. La luna si era di nuovo coperta e restarono  solo pezzi di marmo, braccia, gambe e anche la testina a coprire la sirena, pure lei in frantumi.

Forse il sogno proseguì, ma non ne ebbi memoria e solo la mattina, al mio risveglio, potei vedere ciò che negli antri oscuri della mente la notte aveva scolpito.   

Non ne feci parola con altri, e neppure ne accennai a mia moglie, forse timoroso di avere un’interpretazione stramba o comunque inverosimile; ricordo invece che tentai a lungo di comprendere il suo significato, ma inutilmente, tanto che alla fine preferii desistere e poco a poco dimenticai anche il sogno. 

Passarono gli anni, fra dolori e anche gioie, e finii con l’arrivare a oggi, alla mia ultima stagione, avara di speranze, ma satura di certezze. Come tutti gli anziani tendo a passeggiare, portando a spasso il cane, o meglio penso che sia lui che mi porti in giro. Le stesse strade alla lunga stancano e allora ieri ho preso l’auto e ho deciso di spostarmi di qualche chilometro, fino a un parcheggio, da cui parte un bel viale. Così ho fatto e, liberato dal guinzaglio il cane, ci siamo incamminati lungo quella strada ombreggiata da due filari di pioppi. Dopo aver percorso un centinaio di metri mi sono accorto che la strada, più avanti, era chiusa da un cancello, a cui man mano mi avvicinavo facevano eco i palpiti accelerati del mio cuore. Fra me dicevo: “Non è possibile, è come nel sogno, di cui di colpo m’è tornata la memoria, o forse sono io che voglio vedere così, senza sapere nemmeno il perché”. Ho spinto un’anta e  la chiusura si è spalancata su un parco secolare, da tanto tempo probabilmente abbandonato; lungo il sentiero che ho percorso ne ho incrociati altri e ho affrettato il passo, benché timoroso di avere conferma in quel che avrei trovato. Ecco là la piazzetta e in mezzo la fontana che non butta più acqua; ho rallentato, il cuore sembrava scoppiarmi, a piccoli passi mi sono avvicinato: fra erbacce e muschio un cumulo di pietre spezzate ricopriva in parte qualche cosa, un tronco forse; lo sguardo ha indugiato ancora un po’ e si è bloccato sulla coda di una sirena. Tremavo, perché ora sapevo, sapevo ciò che quel sogno di tanti anni fa mi ha inteso dire e che del resto solo ora, in questa mia vecchiaia, avrei potuto capire: si lotta tanto, si cerca il senso di una vita e quando l’hai trovato, quando stai per coglierlo non c’è più tempo. 

Mi è rimasto un timore: che anche questo di ieri sia stato un sogno, a occhi aperti, ma non ho qualcuno a cui chiedere conforto, se non il mio cane, che c’era, ma che se ha capito non potrà mai parlare.

 

Il Natale di Poldo
Si accovacciò contro un pilone del ponte, per parare un po' il vento che accresceva la sensazione di freddo, ma era tutto bagnato, per via di quella neve che, cadendo, faceva un pulviscolo che entrava ovunque. Anche quel giorno era arrivata la sera dopo tanto peregrinare in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti, ma, all'infuori di un tozzo di pane rinsecchito, non aveva trovato altro, e per di più aveva dovuto combattere per difenderlo, e ora gli faceva male una zampa che un pastore tedesco, compagno di sventura, aveva morso nel tentativo di impadronirsi di quel poco cibo. Guardò in su e non vide nulla, se non i vortici della neve che cadeva; non c'erano altre possibilità di trovare qualcosa da mangiare e allora tanto valeva cercare di dormire, per avvertire meno i morsi della fame e il gelo che implacabile faceva breccia nel suo corpo. Fu così che si addormentò e che subito prese a sognare. Si vide cucciolo intento a poppare dai capezzoli della mamma, di cui non ricordava il muso, ma che aveva sempre desiderato poter ritrovare. Forse quella vita randagia insieme a lei sarebbe stata più sopportabile, una vita che non aveva cercato, ma a cui era stato costretto. Era ancora da svezzare quando era stato venduto a un vecchio che anziché curarsene lo batteva per ogni errore, perché, per esempio, faceva pipì in casa e lui che colpa aveva di questo, se non veniva portato fuori per farla? Poi l'anziano era morto e lui era stato preso dal figlio, forse peggio del padre, visto che spesso e volentieri si dimenticava di dargli da mangiare e che sovente lesinava anche sull'acqua, soprattutto in estate, quando, legato a una corta catena, stava nel cortile assolato a fare la guardia. Un tormento, la sete, che incideva sulla naturale bontà del suo animo, che lo portava ad abbaiare e a ringhiare con tutti in un crescendo di dolore che lo stravolgeva. Poi, un giorno, non si sa come accadde, si ruppe il collare e così si trovò libero; corse subito via, attraversò la strada fra auto che frenavano di colpo e senza orientamento camminò, camminò tanto, quasi a voler mettere fra sé e il suo padrone una distanza insormontabile. Iniziò così la dura vita del randagio, fatta di lotte per lo scarso cibo, di freddo in inverno e di caldo torrido in estate, ma era pur sempre meglio di essere legato a una catena, di essere considerato solo uno schiavo. Nel sogno questa succinta storia della sua esistenza non c'era, mentre invece era un susseguirsi confuso di immagini, quasi tutte dolorose, visto che nella sua vita mai aveva conosciuto l'affetto di un padrone. Si vide piangente, un lungo fremente guaito davanti a una porta che si apriva sul buio e che lui istintivamente si sforzava di non valicare, perché oltre intuiva un salto nel nulla. Senza famiglia, senza carezze, non c'era tuttavia un senso a continuare, ma i sogni permettono molto, ci fanno vivere ciò che speriamo, e infatti anche lui a un certo punto avvertì il caldo tepore di un focolare, il profumo di una zuppa nella ciotola, una mano leggera le cui dita affondavano nel pelo irsuto della sua schiena, una sensazione mai provata, un sogno meraviglioso da cui non avrebbe mai voluto svegliarsi. E invece udì delle voci, il trillo di un campanello, si sentì sollevare e allontanare, se pur di poco, dal calore di quel fuoco, si accorse che la zuppa era ora a stretto contatto con il suo muso, estrasse la lingua ed esplorò soddisfatto la ciotola. Cercava di non risvegliarsi, ma ebbe una strana sensazione, e cioè come se quello che vedeva nella sua mente assopita fosse vero, reale e cercò anche di opporre resistenza quando udì una voce che lo invitava a svegliarsi. Poi aprì un occhio, si guardò intorno e spalancò anche l'altro: non c'era più il ponte, la neve non cadeva, era disteso su un panno in una camera vicino a un focolare, davanti a lui c'era la ciotola con la zuppa e più in là un uomo e un bambino che lo guardavano.
- Si è svegliato, papà.
- Vedo, mi fa piacere.
- Lo teniamo, vero papà? Chissà quanto ha sofferto senza nessuno, ma adesso ci siamo noi.
- Sì, lo terremo e ne avremo cura, ma bisogna trovargli un nome. Come lo chiamiamo? Dick, Black, ma nero non è, Birba?
- No papà, oggi è Natale, il giorno in cui è nato Gesù, lo vorrei chiamare Natalino.
- Dai, un nome così a un cane? Gesù forse si offenderebbe? Trovane un altro.
- Vediamo, non saprei, ma no, ecco forse ho trovato: Poldo.
- Bellissimo nome e piace anche a lui e infatti si è messo a scodinzolare.
Poldo li guardava in estasi e pensava fra sè che anche lui come quel Gesù si considerava nato a Natale, perché quella che stava per iniziare era la vita che aveva sempre sognato.

La scomparsa di Davide Azeri
Era uno di quei giorni d'estate dalla calura asfissiante, che nelle prime ore del pomeriggio diventa un vero e proprio inferno, tanto che se lo sguardo volge al di là di qualche metro, si può scorgere nitidamente un tremolio dell'aria che, riscaldata, si leva da terra, per poi ricadere affranta, vinta da un sole che non è calore, ma fiamma viva. In queste condizioni, se non era proprio necessario, non si usciva, si stava rintanati in casa, le imposte chiuse per ripararsi dalla luce abbagliante, madidi di sudore, sprofondati in poltrona o appollaiati su una sedia, limitando i movimenti a un frequente vai e vieni verso il bagno in cui andare a bagnare i polsi, la fronte e la nuca.
Davide Azeri, noto avvocato di una cinquantina d'anni, si sforzava di leggere il giornale, dopo il breve e frugale pasto consumato, senza appetito, assillato com'era da un leggero senso di nausea dovuto a quella temperatura insopportabile. Fece per prendere una sigaretta dal pacchetto, ma si accorse che era vuoto. "Giulia, ho finito le sigarette; me ne puoi dare?" "Davide, lo sai che non fumo più da sei mesi e pertanto non ne ho."
Gli venne un moto di stizza, gettò il giornale a terra e volse gli occhi al soffitto, dove un ragnetto e una mosca si fronteggiavano. Li vedeva e non li vedeva, nel senso che il suo sguardo rifuggiva da quella realtà, tanto che provava a immaginarsi la bella spiaggia in Sicilia dove era stato una decina di anni prima, o anche le cime innevate della Valle d'Aosta dove ogni anno con la moglie trascorreva una settimana in inverno. Rimase assorto così per una decina di minuti, poi si alzò e disse alla moglie: "Esco a prenderle". "Con questo caldo?" "Sono due passi, non mi cambio nemmeno, resto in ciabatte e pantaloncini." "Va bene, contento tu..."
Uscì.
Passò una mezzora, un'ora, un'altra ancora e non tornava. Giulia cominciò a preoccuparsi e allora decise di uscire e fare un salto dal tabaccaio.
Apprese così che lì non era mai arrivato; trafelata ripercorse il breve tragitto più volte, guardò oltre la siepe con il respiro affannato per vedere se magari, colto da malore, si trovasse lì. Tutto inutile. Disperata chiese aiuto ai vicini, fu avvisata polizia; le ricerche iniziarono subito, anche con l'aiuto dei cani. Decine di uomini, fra cui molti volontari, si offrirono e così fu battuto tutto il territorio comunale, palmo a palmo, senza risultati però. Un ispettore di polizia balenò a Giulia l'ipotesi di un allontanamento volontario: "Sa, signora, a volte gli uomini, arrivati a una certa età, vorrebbero sentirsi ancora giovani e si trovano un'amante, con cui fuggono. É solo un'ipotesi, ma non la escluderei. Vede, la scusa delle sigarette é tipica in questi casi. Ha mai notato signora un cambiamento del carattere in questi ultimi tempi?" Giulia stava zitta, ma negava con il capo, cancellandosi dalla mente quell'ipotesi assai improbabile. Cercavo di immaginarselo arrembante con un'altra donna, lui che aveva appeso l'arnese al chiodo da almeno un lustro, tutto casa e lavoro; no, era del tutto impossibile, ma allora, dov'era? La gente cominciava ad andarsene, la polizia le disse che avrebbero ulteriormente esteso le ricerche ad aree più lontane, ma lei quasi non sentiva; affranta, accaldata, se ne stava seduta in un angolo della sala, incapace di dare una minima risposta a quella domanda. Era come intontita e aveva sete, una gran sete; aprì la porta del frigorifero, ma di bibite fresche non ce n'erano. Si ricordò allora che nel garage c'erano un paio di lattine d'aranciata e disse fra sé che sempre liquido erano, anche se calde. Entrò dalla porta secondaria e accese la luce: la rimessa era in buona parte occupata dalla grossa Mercedes, a cui gettò uno sguardo per via di quel color crema che proprio non le piaceva. Fece per prendere le lattine, ma si fermò di colpo, perché qualche cosa l'aveva colpita in quell'occhiata al colore dell'auto, qualcosa che non era fuori, ma dentro. Il cuore prese a batterle forte, si avvicinò, apri la porta anteriore sinistra e..."Davide!Davide!", un urlo che le si strozzò in gola. Seduto, riverso sul volante, giaceva il corpo senza vita dello scomparso. Il medico, che stilò il certificato di morte, scrisse deceduto per infarto. Si tentò di ricostruire come si erano svolti i fatti: Davide Azeri era uscito con l'intenzione di andare a piedi, ma il caldo l'aveva dissuaso e allora aveva pensato di andare in auto; era così rientrato senza che la moglie se ne accorgesse - probabilmente era andata in bagno a rinfrescarsi i polsi - , era andato in garage e, salito sull'auto, era stato colto dal fatale malore.
Durante il funerale i presenti parlarono, a bassa voce, delle illazioni che nel corso delle infruttuose ricerche erano state fatte e ricordò che lo stradino ebbe a dire:" Si era cominciato a pensare a una fuga d'amore, anche se, dato il soggetto, pareva poco probabile, ma si sa che il caldo gioca sempre degli scherzi e a lui purtroppo l'ha giocato proprio brutto. E tutto per un pacchetto di sigarette.".
E' trascorso molto tempo, da allora, la moglie è andata ad abitare con la sorella in un altro paese e credo che ben pochi abbiano memoria di questa vicenda che ho voluto ricordare per la sua venatura di giallo, un giallo senza assassini.

Da Storie di paese

Il prete rosso
Il Guercio amava poco parlare della sua esperienza partigiana e proprio per questo diventavo sempre più curioso, gli rivolgevo domande, a cui non rispondeva, oppure si limitata a una sconsolante alzata di spalle. Rammento che una sera fui particolarmente incalzante, al punto da indispettirlo e farlo sbottare in una frase che sembrava definitivamente conclusiva. "Non mi piace parlare di guerra, di morti, di rastrellamenti, di torture; io ero là, fra i ribelli, come avrebbe dovuto esserci ogni uomo amante della libertà e della pace, ma se non mi pento di questa scelta, non passa giorno che non provi rimorso per qualche vita che ho tolto".
Rimasi un paio di minuti in silenzio e poi mi venne del tutto naturale dirgli che la mia non era semplice curiosità, ma il desiderio di uno che voleva sapere, voleva conoscere.
Restammo zitti entrambi per un po', poi mettendomi il volto fra le mani, sbottai: "Possibile che non ci sia un ricordo determinante, un personaggio unico, qualcuno che tu non dimenticherai mai e che dalle tue parole sarà per me altrettanto indimenticabile?".
Sospirò e cominciò a raccontare.
<< Ti dirò del prete rosso, un uomo che se fossero tutti così i preti, la Chiesa sarebbe ben diversa e sarebbe veramente la casa di Dio. Don Severino Fancelli, così si chiamava, era il parroco di un piccolo paese dell'Appennino modenese, talmente piccolo che la minuscola chiesa avrebbe potuto raccogliere tutti i suoi abitanti per la Messa. Era povera gente, sempre stata povera, e con la guerra si era immiserita ulteriormente; quindi questo prete non poteva fruire di particolari prebende, tanto che per mantenersi faceva diversi lavori a seconda della stagione: nei campi in primavera e d'estate, campi di altri, beninteso, perché lui non possedeva nulla, e con l'avvicinarsi della brutta stagione dava una mano ai carbonai. Era talmente povero che portava lo stesso paio d scarpe da almeno dieci anni, scarpe a cui dedicava una cura particolare, con un'abilità manuale che gli derivava dall'esperienza. Mangiava quel che riusciva a trovare, cioè sempre poco, e non era quindi uno di quei reverendi ben pasciuti che si possono trovare con una certa facilità nelle parrocchie; no, lui era magro come un'acciuga, forse anche per costituzione fisica, ma certo con quel poco di cui si alimentava non sarebbe mai potuto ingrassare. Sempre contrario a ogni forma di violenza, era diventato subito inviso ai fascisti, di cui aveva assaggiato più di una volta il manganello e l'olio di ricino. Ma lui non stava zitto, perché la domenica a Messa predicava ai suoi parrocchiani il rispetto per le idee altrui e la temperanza. Con l'avvento della guerra, poi, aveva cominciato a calcar la mano e i suoi sermoni, senza mai essere violenti, incitavano a non prendere le armi, a non andare a militare, al punto che per il suo comportamento subì una denuncia, che solo grazie al suo vescovo non ebbe conseguenze. Questi lo invitava a essere prudente, a non esporsi, ma erano parole al vento. Restò buono per alcuni mesi, anche perché per una nefrite dovette lasciare temporaneamente la parrocchia e andare in un ospedale. Ritornò dai suoi fedeli agli inizi del settembre del 1943, cambiato come notarono alcuni, ma men che meno remissivo, anzi le sue prediche estesero il campo d'azione, chiamando in causa i ricchi che fanno fare la guerra ai poveri e auspicando un mondo in cui tutti fossero proprietari solo di se stessi, tutti uguali, tutti insieme per il bene comune. Da lì venne il soprannome di prete rosso, e non per i capelli, che erano biondicci. Ebbi modo di conoscerlo dopo l'8 settembre, quando cercai di unirmi ai partigiani; fu lui a farmi da tramite, a ospitarmi per due giorni nel minuscolo appartamento annesso alla chiesa, a dividere con me il suo scarso cibo. E dato che io non ero arrivato a mani vuote, ma portandomi dietro tre salami e due prosciutti mi fece una proposta che all'inizio giudicai oscena. Mi guardò con due occhi fermi, due occhi grigi determinati, ma che esprimevano anche dolcezza: "Tu vuoi che li mangiamo? Forse non sai che in paese ci sono un paio di persone seriamente malate e che avrebbero bisogno di mettere sotto i denti qualche cosa di sostanzioso; io e te in fondo non siamo malati, possiamo mangiare la zuppa di rape, ma loro, loro, se vogliono sopravvivere, hanno bisogno di roba nutriente e questa lo è. Aiutare chi ha bisogno sarà proprio di una società di domani, dove si è uno per tutti e tutti per uno. Molti dicono che sono un marxista, ma non so nemmeno che cosa voglia dire; io sono un cristiano e come tale devo comportarmi, non per obbligo, ma per convinzione. Vuoi ancora che ce li mangiamo?". Abbassai gli occhi e feci cenno di no con la testa. Al che lui mi abbracciò dicendo: "Benvenuto, Annibale, nel regno dei giusti.".
Dopo che ebbi raggiunto i partigiani, ebbi ancora alcuni contatti con lui, pochi, ma illuminanti. Ogni tanto scendevamo noi alla parrocchia a rimorchiare qualche nuova recluta, alcune volte veniva su lui, a informarci delle novità, dei movimenti dei nazifascisti. Era certo pericoloso per lui, tanto che gli proponemmo di lasciare la parrocchia e di unirsi a noi. "No - rispose - come posso abbandonare i miei parrocchiani nel momento del bisogno? Come posso dare conforto alle madri e alle mogli che si sono viste strappare i figli e i mariti? Come posso lenire la loro miseria se non predicando la speranza di un mondo migliore?".
Ci guardammo in faccia sconsolati, ma sicuri che aveva ragione e allora gli proponemmo di portare con sé un'arma, una pistola. "Un'arma? Per magari uccidere un altro essere umano? No di certo, preferisco morire io."
Lo lasciammo andare e rammento che fu l'ultima volta che lo vidi, perché, come poi venimmo a sapere, due giorni dopo piombarono in paese i fascisti e lo portarono giù a Modena. Per tre giorni e tre notti lo sottoposero a torture perché volevano sapere dove eravamo e lui, per tre giorni e tre notti, stette zitto, nonostante i patimenti. Poi, all'alba del quarto giorno lo portarono al poligono di tiro e lo fucilarono. Sembra, che già legato al palo, con la vista annebbiava per le botte, abbia mormorato: "Io vi perdono, Dio non so, ma spero di sì, perché solo così un giorno potreste avere rimorso e diventare uomini veri."
Il corpo fu messo in una fossa comune, ma i suoi parrocchiani, finita la guerra, andarono a prenderlo e lo portarono al paese, dove fu tumulato nel piccolo camposanto. Sulla lapide, oltre al nome, al cognome, alle date di nascita e di morte, misero questa iscrizione "Grazie, per la speranza che ci hai dato.".
Spesso sono gli uomini migliori a morire troppo presto, come nel suo caso; resta il ricordo, incancellabile, di un uomo esile, quasi minuto, con gli occhi chiari e miti, un uomo che faceva però paura non solo ai nazifascisti per quel messaggio che indomabile portava avanti. Era forse utopia? Non lo so, forse sì, ma era bello, immensamente bello crederci.>>

Da Storie di paese

Il Natale dimenticato
San Pietro arrivò trafelato in sala riunioni, si asciugò con una manica il sudore che gli imperlava la fronte, fece per parlare, ma dalla bocca uscirono dei suoni disarticolati. Quelli seduti intorno al tavolo lo guardarono con un'espressione che era un misto di stupore e di apprensione.
- Siediti, prendi fiato e poi con calma parli - fu quello che con voce ferma, ma dolce, gli disse Gesù.
Pietro non riusciva ad articolare parola e allora gettò sul tavolo, traendola da sotto la tunica, una copia della Voce del Paradiso, il quotidiano locale.
In prima pagina c'era un titolo a caratteri cubitali " Sulla terra non si festeggia più il Natale"; tutti lessero avidamente e appresero che uno studio effettuato nell'arco di una cinquantina di anni dal noto dottore della Chiesa San Tommaso aveva evidenziato un progressivo disinteressamento nei confronti della più bella festività cristiana, ridotta ormai all'occasione per uno scambio di inutili regali e di non sentiti auguri. La causa di tutto questo? Quel maledetto consumismo che aveva inaridito gli animi, rendendo gli uomini avidi solo di denaro e di cose futili e soffocando quel desiderio di amore e di fratellanza che se pur modesto prima esisteva.
Ci mancò poco che San Giuseppe tirasse una bestemmia, anzi era lì per farlo, ma un'occhiata di Gesù lo zittì appena in tempo; ci fu un silenzio quasi di tomba, ma poi dal fondo della sala venne un sommesso brontolio.
- Che c'è? Se avete da dire qualche cosa, parlate pure - disse Gesù.
Chi, se pur sommessamente rumoreggiava, era il folto gruppo dei lavoratori del Natale: il bue, l'asino, le pecorelle, i pastori, i re Magi e tutti gli altri personaggi che popolano il presepe, ivi comprese la capanna, la mangiatoia e la stella cometa.
- Corriamo il rischio di restare senza lavoro, di finire disoccupati, ma soprattutto di non poter dare agli uomini quel senso di pace e di gioia che è proprio del Natale - disse il bue.
- I doni che noi portiamo sono sì per il bambinello, ma è un dono a tutti gli uomini, é la dimostrazione che per quanto siano di valore, sono un niente rispetto al dono della nascita di Gesù - sbottò uno dei Magi.
San Pietro, che nel frattempo si era ripreso, per quanto ancora con voce affannata, disse il suo parere: - Caro Gesù, che l'uomo sia una bestia che non merita salvezza è ormai assodato, ma il Natale, che proponiamo ogni anno, è una nascita dell'uomo nuovo, l'invito a un cambiamento radicale, affinchè l'uomo si accorga di non essere il centro dell'universo e proprio per questo tenda ad avvicinarsi a piccoli passi alla verità, a una eternità in cui il suo tempo sulla terra è solo un milionesimo di un battito di ciglia. Deve capire che il suo percorso in carne e ossa è solo una prova, per accedere al dopo. E non sono molti quelli che superano questo test, che noi ricordiamo ai terrestri ogni anno, appunto con il Natale. Direi di interessare della cosa il capo supremo.
- No, non c'è bisogno di scomodarlo - disse Gesù - né intendo far sentire agli uomini la loro infinita piccolezza. Già tremano per gli uragani, per i terremoti, per le inondazioni. Dobbiamo solo fare in modo di ricordare loro il Natale e per far questo ho bisogno di voi lavoratori del Natale, che per una volta resterete disoccupati. Al resto penserò io.

Giù, sulla terra, dicembre avanzava a grandi passi, anzi gli era stato imposto di correre, così che il Natale arrivasse prima. I giorni, è il caso di dirlo volavano, tanto che dal 1° dicembre si passò in 24 ore al 13 dicembre; i calendari sembravano impazziti e con loro la gente che si trovava in difficoltà ad acquistare i tradizionali regali in un tempo così ridotto. Si cercò una spiegazione di questo fenomeno, ma senza successo. Sì, gli scienziati parlavano di un'improvvisa e inspiegabile accelerazione del moto rotatorio della terra intorno al sole, ma erano i primi a non esserne convinti. Gli astrologi nel corso di quotidiani spettacoli televisivi allestiti per discuterne proposero insolite congiunzioni fra gli astri, ottenendo anche più consensi degli scienziati, ma senza portare prove certe. L'unico che ebbe un lampo di genio fu un vecchio ubriacone, che fra un bicchiere e l'altro sentenziò che in questo modo si sarebbe invecchiati prima. Non fu creduto, perché tanto con quella corsa senza scopi che aveva da anni contraddistinto l'umanità si sapeva che la vita sarebbe stata più breve, perché gli sforzi invecchiano il fisico. Dal 13 dicembre in un lampo si arrivò al 20 dicembre e lì cominciarono altri problemi. Tutti gli addobbi natalizi costituiti da super potenti lampade a led si spensero e non ci fu verso di riaccenderli, eppure la corrente elettrica non mancava. Dalle chiese e anche dagli ipermercati sparirono di colpo i presepi fatti con personaggi della più moderna fantasia, e così pure gli alberi di Natale, tanto che se ne ordinarono delle navi intere in Cina, ma là venne di colpo a mancare la plastica con cui si costruivano. Ma il disastro non era completo:notebox, smartphone e ogni altra diavoleria elettronica che avrebbe costituito la quasi totalità dei regali smisero di funzionare, o meglio semplicemente non si accendevano, come del resto quelli già da tempo in mano a lori proprietari. 21, 22,23, 24! Ecco il 20, nelle sue prime ore notturne, segnò lo spegnimento delle stelle e con esso della illuminazione pubblica; le auto non si misero più in moto, così come le motociclette, e la sera della vigilia la terra fu avvolta da un buio colossale.
Per la prima volta gli uomini ebbero paura, perché non capivano quello che stava succedendo e allora si rintanarono in casa, le famiglie riunite intorno alla tavola imbandita da ogni ben di Dio, ma mangiarono di malavoglia e poiché nemmeno i televisori funzionavano decisero di parlare fra di loro, di raccontare storie antiche, di Natali ormai quasi persi nel tempo in cui -. dicevano vecchi che ormai non c'erano più - si respirava un'atmosfera di pace, un'aria diversa, come se anche loro nascessero assieme a Gesù. Ci fu più di un bimbo che chiese chi fosse questo Gesù, immaginandolo magari come un guerriero Ninja, e allora i genitori, con uno sforzo di memoria, narrarono la sua storia. I bimbi ascoltavano attenti, avvertivano che questo personaggio nulla aveva a che fare con quelli dei loro giochi e quando seppero che a ogni Natale si facevano i presepi, dissero che il prossimo l'avrebbero fatto anche loro. Una bambina, che guardava il buio fuori dalla finestra, immaginò una capanna, una mangiatoia con dentro un bimbo, accanto una madre trepidante, un padre silenzioso, un bue e un asinello e alcuni pastori che arrivavano con le loro pecore. Le sfuggì una frase, che più o meno simile, sfuggì alla maggior parte degli umani: - Che stupidi, a dimenticarci di Gesù.
E di colpo le luci si accesero nelle strade, le stelle si misero a risplendere in cielo, attraversato da una calda cometa.
Il Natale era tornato.

La visita
Rinchiuse la porta di casa dietro di sé e gli venne quasi d'istinto di chiamarla, come faceva ogni volta che ritornava dal lavoro. Si frenò, perché si rese subito conto che non avrebbe avuto risposta, né ora, né in tutti i giorni a venire. Girò per le stanze e in ognuna c'era qualche cosa che la ricordava: in salotto il finto tappeto persiano che lei aveva voluto comprare a tutti i costi, in cucina il matterello con cui stendeva la sfoglia, in camera da letto, sul comodino, l'ultimo libro che aveva da poco iniziato a leggere; lo prese in mano, era, come al solito un giallo, e gli venne quasi da sorridere nel leggere il titolo: La morte arriva quando meno l'aspetti. Sì, era proprio vero, come quel titolo, perché chi avrebbe mai detto che Silvana, la sua dolce metà, sarebbe spirata all'improvviso proprio il giorno in cui lui era andato in pensione, cio è ieri l'altro.
Negli ultimi tempi avevano programmato tanto su come utilizzare il tempo libero che lui avrebbe avuto, si era parlato anche di viaggi ed ecco che ora, proprio quel giorno, lei era partita per l'ultima viaggio, da cui era da poco tornato solo lui.
Sentiva che le gambe stavano diventando molli, che non lo avrebbero sostenuto ancora a lungo e allora si buttò sul divano, si mise a fissare il soffitto e iniziò un lungo pianto silenzioso.


 -*-*-*-

Passarono due mesi, quasi un'eternità cin lui che alla fine, resosi conto in tutto e per tutto di essere rimasto solo, aveva deciso di tornare a vivere, di non annegare nel mare della sua autocommiserazione. Certo non era facile abituarsi a una vita da solitario, anche perché era accaduto tutto all'improvviso. I primi giorni girò su e giù per l'appartamento alla ricerca delle cose più elementari, per esempio dei calzini, che lei ogni sera metteva, insieme alla camicia, alla cravatta, alla giacca e ai pantaloni, sul puff in fondo al letto; per mangiare per un po' si arrangiò con dei piatti surgelati già pronti, ma poi pensò che il suo stomaco prima o poi ne avrebbe risentito e allora concordò con la Rosa, titolare della trattoria a due passi da casa, che almeno il pranzo doveva essere decente e lì infatti il cibo era abbastanza buono, il prezzo non esoso, mentre per la sera avrebbe provveduto lui stesso a preparare qualcosa di mangiabile. Per passare il tempo, oltre alle pulizie in casa, aveva preso l'abitudine, un giorno sì e un giorno no, di salire sulla sua vecchia 126, che nei progetti prima del pensionamento avrebbe dovuto essere sostituita, e di recarsi sulla tomba della moglie. Arrivava, faceva un saluto con la mano, sistemava i fiori di seta che il vento o la pioggia avevano scompigliato, e stava lì dieci, quindici minuti. Parlava alla lapide, sotto voce, guardava la fotografia, scattata una trentina di anni prima, poi se ne andava. Giorno dopo giorno si accorse che, continuando così, prima o poi sarebbe diventato pazzo e allora le visite al cimitero si diradarono: prima ogni tre giorni, poi ogni quattro, poi solo una volta la settimana.
Con il passare del tempo si accorse di abituarsi alla sua solitudine, all'assenza di una voce femminile, tranne quella della Rosa, quando gli portava i piatti e parlava del più e del meno. Ma era una vita quella? Se lo stava chiedendo anche quel giorno, quando qualcuno bussò alla porta.
- Chi è?
- Mi scusi signor Barosi, sono la Rosa. Se mi apre, devo dirle una cosa.
Aprì e la fece entrate, tenendola lì nell'atrio.
- Mi sono dimenticata di parlarne a pranzo; domani vado a trovare mia sorella, l'unica parente che mi è rimasta, perché anch'io come lei sono vedova e senza figli; abita a Spoleto, e starò via qualche giorno.
- Quanti giorni?
- Quattro, e pertanto a mezzogiorno dovrà provvedere in altro modo.
- Capisco. Grazie e buon viaggio. - Ma si accorse d'essere stato un po' brusco e allora, mentre già lei stava iniziando a scendere le scale, le andò dietro, aggiungendo: - Ci rivediamo allora fra cinque giorni.
- Sì.
- Sembrano pochi, ma sono tanti per me.
- Per cinque giorni riuscirà a cucinare qualcosa, vero?
- Sì, non è tanto per il mangiare, ma per quelle due parole che ci si scambiava e che mi facevano sentire… - e si fermò.
- La facevano sentire?
- Non rida, però, perché mi facevano sentire meno solo.
- Ha ragione e le dico che anche per me è così, nonostante la gente non manchi nel locale; forse è per abitudine, ma sento che mi piace parlare con lei.
- Va bene, sono contento.
- Anch'io.
- Allora fra cinque giorni a pranzo e alle nostre chiacchieratine.
- Certamente, anzi sa cosa le dico: se la nostra conoscenza non fosse così ancora superficiale, le avrei detto di accompagnarmi, ognuno ovviamente a soggiornare in posti diversi: io da mia sorella e lei in albergo, ma con l'intesa di gironzolare insieme per Spoleto.
- Chissà, un giorno…
. Appunto, chissà. Ora devo andare e grazie per questa conversazione.
- Grazie, di nuovo buon viaggio.
La guardò scendere le scale: non era una bellezza, ma quella che si poteva dire una donna interessante. Si accorse, inoltre, e restò sbalordito, perché non ci aveva fatto caso prima, che, anziché il grembiule di servizio, indossava un bel tailleur attillato, che metteva in bella luce forme armoniose, insomma il ritratto di una femmina che ancora aveva da dire e da dare qualcosa, nonostante non fosse di certo giovane, ma solo di poco meno anziana di lui.
Si coricò sul letto, chiuse gli occhi e si vide a spasso per Spoleto con lei, mano nella mano.
La casa gli sembrò meno vuota e quando il sonno lo colse e gli occhi iniziarono ad appannarsi, sussurrò, quasi impercettibilmente: - Chissà...

Natale fra due trincee
Guardo le fiamme che danzano nel focolare e che ritagliano spicchi di luce nell'oscurità della camera. Quel fuoco dovrebbe darmi calore e io invece in questi pochi giorni che precedono il Natale ho un freddo che mi avvolge tutto e che perfino è entrato in me. Sono vecchio, solo, senza più futuro e deluso del passato. Ho sperato tanto in un mondo migliore, in un mondo diverso, più equo, più giusto, ma il tempo è trascorso e nulla é cambiato, tranne io, che ormai trascino un'esistenza quasi vegetale, senza desiderio di vivere, spesso invocando il sonno per non sapere. Mi è difficile rifugiarmi nei ricordi, rivedere fra queste fiamme i volti di persone che ho stimato e amato, e che ora non ci sono più. Eppure, se spremo la memoria, esce un succo chiaro come il sole, un fatto accaduto tanti, tanti anni fa, in cui riparare per non morire dentro, un evento che è forse giusto che trascriva affinché qualcuno, dopo la mia scomparsa, possa comprendere che tutto è possibile, che gli ideali di pace non rimangano tali, ma possano effettivamente realizzarsi.
Era la vigilia di Natale del 1916 e io allora ero un sergente dell'esercito italiano, in servizio in una trincea della Conca di Plezzo, un posto relativamente tranquillo, nel senso che non vi si svolgevano le grandi e sanguinose offensive dell'Isonzo; certo, anche lì c'era il pericolo, magari qualche bomba di mortaio, isolata, che veniva dalle vicine trincee austriache, oppure lo sparo fulminante di un cecchino, per non parlare delle malattie che ci aggredivano per la scarsa alimentazione, per i rigori del tempo, per quel fango che si attaccava come un vischio alle suole dei nostri scarponi. Più in là, dove stava il nemico, la vita non era molto diversa e di frequente udivamo i mugugni per il rancio inadeguato, il che ci accomunava e pur non vedendo in faccia il nostro avversario, tendevamo a immaginarlo come noi, con indosso una divisa diversa.
Già verso il mezzogiorno di quel 24 dicembre era corsa la voce che ci sarebbe stata una tregua, non ufficiale, proprio nel giorno di Natale. Una tregua, per chi combatte, è una breve, ma tonificante parentesi di vita, è l'occasione per cercare di dimenticare la paura sempre presente, la tensione pronta in agguato. Alla sera si dava per certo questo breve periodo di non ostilità, tanto che notai che sia da parte nostra, che da parte loro, non venivano lanciati i razzi illuminanti.
A cena ci fu un rancio che avrebbe dovuto essere speciale, ma la pasta fredda e scotta e il pollo rachitico ci riempirono lo stomaco, ma senza piacere. Per fortuna fu consegnato a ognuno di noi un fiasco di vino rosso, non annacquato, ma corposo, così che, sorsata dopo sorsata, non solo ci scaldammo fuori, ma anche dentro.
Poi, visto che avevamo la fortuna di avere fra di noi un discreto cantante lirico, lo invitammo a far sentire la sua voce. Cominciò con Torna a Surriento, affrontata con autentica passione, così che, anche per il contenuto dell'ultima quartina (Ma nun melassà / Nun darme sto turmiento! / Torna a Surriento, Famme campà!), alla fine eravamo tutti commossi e applaudimmo calorosamente. Non appena terminò l'ultimo battito di mani e il cantante che, se non ricordo male si chiamava Giraldi, recuperava il fiato, si udì forte una voce provenire dalle linee nemiche: - Bravo, tagliano, canta ancora!.
E Giraldi cantò, passando tutto il suo repertorio, assai ampio, e finendo con il Va' Pensiero, a cui ci associammo tutti, anche gli austriaci.
Io ero commosso, tutti eravamo commossi, perché quelle musiche ci riavvicinano alle case lontane, alle mogli, alle madri, alle fidanzate, ai figli in trepida attesa.
Fu allora che il tenente Girotti, un buon diavolo di Veneto, mi chiamò e mi disse: - Andiamo fuori.
- Fuori dove?
- Nella terra di nessuno.
Avevo un po' di timore, ma pensavo alla tregua e allora seguii il tenente che già camminava sul terreno sconnesso dalle bombe, gridando. - Amici austriaci, fratelli, venite qui, festeggiamo il Natale insieme!
Si fecero avanti un tenente e un sergente austriaco, si avvicinarono e tesero la mano. Ricambiammo e fu allora che da entrambe le trincee tutti i soldati uscirono per incontrarsi.
Ci presentammo e così seppi che l'ufficiale austriaco era un certo Francesco Nicoletti di Levico Terme, mentre il mio pari grado si chiamava Joseph Rier, di Graz.
Nicoletti parlava anche l'italiano, non così Rier, e notai che voleva dirmi qualcosa, spiaccicava frasi in una lingua a me sconosciuta.
Dalla mia espressione si evinceva facilmente che non comprendevo.
Il tenente Nicoletti, per fortuna, intervenne, traducendo:
- Dice che somigliate moltissimo a suo figlio Hans, disperso lo scorso anno in Galizia.
Joseph annuiva e con la mano mi accarezzò il volto, poi mi porse una fotografia, che doveva essere probabilmente quella del figlio, con cui effettivamente c'era un po' di somiglianza, poi mi fece capire di voltarla, di leggere qualcosa sul retro e infatti c'era un indirizzo, probabilmente il suo. Lo guardai meravigliato e lui con grande fatica e sforzo mi disse solo: - Per dopo.
E probabilmente era un invito ad andarlo a trovare a guerra finita.
Quando fu mezzanotte, il nostro cappellano militare Don Barba, un uomo che tanto si prodigava per alleviare qualsiasi sofferenza, disse a Nicoletti:- Anche se forse non siamo tutti i cattolici, credo che la Messa di Natale possa essere gradita.
Ho vaghi ricordi di quella funzione, stordito per trovarmi a fianco di un nemico che mi era amico, ma rammento chiare le ultime parole dell'omelia "Se qualcuno bussa aprite il vostro cuore e la guerra non diventerà che un lontano ricordo".
Poi venne l'alba e piano piano ognuno ritornò nella sua trincea, io mesto e in preda a un atroce dubbio: finita la tregua, se mi fossi trovato davanti Joseph, che cosa avrei dovuto fare? Sparargli o tendergli la mano? E lui che cosa avrebbe fatto?
Il giorno dopo si ritornò alla consueta vita non vita e per mia fortuna non ebbi più occasione di incontrare in battaglia Joseph, né il tenente Nicoletti.
L'anno seguente, un colpo di mortaio provocò un violento spostamento d'aria, che mi lanciò contro un terrapieno, spezzandomi la gamba destra in più punti. Per quanto possa sembrar strano e nonostante la menomazione permanente che ne portai, fu la mia fortuna, con una lunga degenza in un ospedale ben lontano dalla prima linea e poi il congedo per l'invalidità.
Fu infatti nella notte del 24 ottobre che le truppe austriache e tedesche sfondarono il nostro fronte alla Conca di Plezzo, causando la tremenda ritirata di Caporetto. Attaccarono silenziosi, preceduti dai gas, e il mio reparto fo totalmente annientato; nessuno si salvò, nemmeno il tenente Girotti. Una massa di cadaveri, con i volti contorti dalla sofferenza, si presentò così all'invasore.
Terminato il conflitto, non potendo lavorare a causa della gamba e fruendo di una modesta, ma sicura pensione d'invalidità, pensai a lungo a quella notte e mi chiesi ancora una volta che cosa avrei fatto se mi fossi trovato davanti in battaglia il tenente Nicoletti e il sergente Rier e che cosa avrebbero fatto loro. Non riuscivo a darmi una risposta e quindi forse avrei potuto averla da loro. Andai a Levico Terme, seppi dove abitavaNicoletti, che era tornato dalla guerra privo del braccio destro, e bussai alla sua porta, ma non mi aprì. Tornai il giorno dopo e ribussai, e ancora non fu aperto. In paese mi dissero che faceva così con tutti e che viveva isolato dal mondo, e allora andai a Graz.
Dato il mio tempo libero avevo studiato il tedesco ed ero in grado di capirlo e di parlarlo discretamente. Trovai dove abitava Rier, bussai alla porta e mi aprì una signora dal volto sofferente. Le chiesi di Joseph e lei mi rispose che, come il figlio Hans, risultava disperso. Mi guardava, ma l'età, i patimenti avevano tolto ormai dal mio viso quella vaga rassomiglianza con il figlio. Aveva gli occhi umidi, quando mi disse: - Tutte le notti faccio lo stesso sogno. Bussano alla porta, vado aprire e da una nebbia lattiginosa emergono Joseph e Hans. Cerco di abbracciarli, di stringerli a me, ma non trovo che il vuoto. Ormai so che potrò rivederli solo quando non sarò più di questo mondo.
Me ne andai turbato e ritornai in Italia, lasciai passare gli anni, quelli duri della seconda guerra mondiale, ma quando fu finita ritornai a Levico: dovevo assolutamente sapere. Pensai che interessando il parroco locale forse Nicoletti mi avrebbe aperto, ma ebbi una brutta notizia.
Il sacerdote mi disse infatti che l'isolamento del tenente era durato fino al 1944; di quella guerra così violenta non si curava, non gli interessava proprio più niente del mondo, ma una notte di settembre di quell'anno qualcuno bussò alla sua porta e lui aprì il suo cuore. Era una famiglia ebrea in fuga, che lui accolse, ospitò per alcuni giorni e poi portò in un luogo più sicuro. Un delatore lo denunciò alla polizia, la Gestapo lo arrestò, sottoponendolo a torture, ma non parlò. Una fredda mattina di novembre, gli occhi rivolti alle cime appena imbiancate che lui tanto amava, affrontò il plotone di esecuzione.
Degli altri presenti quel giorno di Natale, italiani, austriaci, croati, se non divorati dal fuoco della guerra, se ne tornarono alle loro case, più di uno con il corpo offeso, ma tutti con l'animo segnato da una tragedia a cui furono costretti. Ma ve n'era anche un altro, che non è mai assente, ma basta cercarlo: quel Gesù che aprì il suo cuore agli uomini fino al punto di immolarsi per essi e che sempre bussa, anche se pochi gli aprono.
E infine c'ero io, ora un povero vecchio deluso dalla vita, ma sono sempre qui, pronto ad aprire il mio cuore a chi chiede solo amore.

In una calda sera d'estate
Al ritorno dal lavoro, oggi più faticoso del solito, perché è lunedì ed è sempre così l'inizio di ogni settimana, dopo il riposo del sabato e della domenica, ho trovato sull'autobus Graziano, un vecchio amico, vecchio perché ci conosciamo ormai da molti anni e vecchio anche perché è in quell'età in cui nulla più si attende, se non la fine del proprio ciclo.
Dopo le inevitabili domande e risposte sulla salute e sugli eventi che nel frattempo sono accaduti (non lo vedevo da quasi sei mesi), lui si è fatto serio, fissandomi negli occhi.
- Ieri sera sono venuto in paese per la festa del patrono, ma tutto quel rumore, quelle luci, quei suoni che quando ero giovane mi incantavano, mi disturbavano e allora sono andato a trovare il Guercio.
- Come sta?
- Non è messo bene, il cuore, l'età ormai sono diventati un peso insopportabile; respirava a fatica, eppure ha gridato il mio nome, vedendomi, e si è anche commosso. La nostra è un'amicizia che, anche per motivi anagrafici, è ben più lunga della tua con me e con lui. Abbiamo parlato un po' del tempo andato, con quel rimpianto che è proprio dei vecchi, abbiamo anche fatto i nomi dei comuni amici, di chi ci è ancora, e sono pochi, e di chi non c'è più, cio è quasi tutti.
Mi chiedeva di Tizio e di Caio, e mi ascoltava, rattristandosi quando apprendeva che qualcuno ci aveva lasciato. La lista non era poi così lunga e l'ultimo nome era il tuo. Gli tremava la voce, quando lo ha fatto, perché è da tanto che non ti vede e temeva per te.
- E tu che gli hai detto?
- Gli ho detto che, per quanto ne sapevo, soprattutto da altri perché anche noi due è da un po' che non ci vediamo, che la tua vita procede tranquilla: casa e lavoro, lavoro e casa.
Sembrava rincuorato, ma al momento di accomiatarmi mi ha preso il braccio e mi ha quasi pregato di dirti, qualora ti avessi incontrato, che ti pensa sempre e che sarebbe lieto di una tua visita.
- Povero Guercio, l'ho un po' trascurato e mi dispiace.
- Vacci, ma alla svelta, perché ho il timore che ne abbia per poco.
- Ci andrò, anzi ci vado questa sera stessa, dopo cena.


Anche se è sera inoltrata fa un caldo terribile, con un'umidità che toglie il respiro, ma ho promesso e vado. Finita la festa, il paese è ridiventato silenzioso e, se non fosse per la luce che trapela dalle imposte delle case, si direbbe disabitato.
Non c'è un'anima in giro e anche il bar appare desolato, con un paio di vecchi seduti fuori a contar le stelle.
Il tragitto è breve, ma sono in un bagno di sudore quando suono il campanello.
- Avanti, è aperto.
Ed è la sua voce, non stentorea come un tempo, fioca come un lume che si spegne, lenta come la poca corrente di un fiume quasi in secca.
Entro e la camera è in penombra, illuminata solo da una lampada da tavolo, quella a due braccia che sta vicino alla poltrona, su cui il Guercio è sempre seduto unicamente per leggere.
Lo scorgo, ma non ha né un libro, né un giornale in mano, è un'ombra dai contorni quasi vaghi, ritratto di un vecchio non in buona salute.
- Ciao, Guercio. Scusa se non mi sono fatto vivo prima.
Il viso quasi non si nota con quella poca luce, ma mi pare di vedere un guizzo nell'unico occhio, un lampo, un riattaccamento improvviso alla vita.
- Amico mio, che tu sia il benvenuto.
La voce trema, ma è più forte.
- Non devi scusarti, perché so, per esperienza, cosa vuol dire lavorare e poi dedicare il poco tempo libero alla famiglia, ed è giusto che la moglie venga prima degli amici.
- Ho incontrato Graziano e mi ha detto…
- Sì, l'ho visto ieri sera, e allora l'ho pregato di portarti un'ambasceria. Ora sei qua ed è quel che conta. Siediti, dai, che parliamo un po'. Ho da dirti ancora tante cose prima che…
- Prima che?
- Prima che quest'unico occhio si chiuda per sempre.
- Non pensare a questo.
- Ci penso invece, perché alla mia età e nelle mie condizioni di salute è inevitabile scorgere il buio che si avvicina.
- Di che vogliamo parlare?
- Se mi permetti, parlerò soprattutto io, ma ti chiedo una cortesia.
- Di non interromperti?
- No, ma di trascrivere un giorno queste parole, queste riflessioni, utili per te e probabilmente anche per altri.
- Stai tranquillo, che sarà fatto.
Si sistema meglio sulla poltrona, beve un goccio d'acqua dal bicchiere che è accanto alla lampada e si schiarisce la gola.

- Ti ho sempre parlato del passato e lo farò anche questa sera. In fin dei conti si tratta di fatti e di personaggi che non hai potuto conoscere e che invece meritano di essere ricordati, non solo a te, ma anche alle future generazioni. Vedi, io non ho mai creduto che esistano uomini solo buoni e uomini solo cattivi. In noi ci sono entrambe, cattiveria e bontà, e per quanto non si possa negare una certa predisposizione per l'una o per l'altra,resta il fatto che sta a noi la scelta, così che a volte ci comportiamo bene e altre invece male. Perché ti dico questo? Perché sto per raccontarti una storia di tanto tempo fa, ma tanto che tu non eri ancora nato. Me ne sono ricordato domenica quando è venuto Graziano, perché lui ne è stato partecipe e me l'ha raccontata. Ti ripeterò quindi le sue parole, ma prima occorre una breve premessa.
Si fermò un attimo e bevve un sorso d'acqua.
- Prima della guerra, la seconda guerra mondiale, vicino al paese abitava un uomo molto ricco, grande proprietario terriero, un tipo collerico, tirchio, ma soprattutto avido, volto a impossessarsi di più roba possibile, non con la forza, ma con i suoi capitali. Giosué Menghini, si chiamava, ma da tutti soprannominato Tallero proprio per quella sua mania di accumulare ricchezza. Figlio di benestanti, grazie anche alla sua adesione fin dagli inizi al fascismo, in breve diventò un'autentica potenza. Scorbutico, violento anche con i suoi fittavoli, a cui imputava di rubargli il pane, era insomma un tipaccio, un essere dal cuore duro, un malvagio come veniva classificato. Di lui ho un ricordo che mi porto dietro, perché un giorno mi sorprese a rubare qualche pera da un suo frutteto e, anziché rimproverami, magari dandomi uno scapaccione (all'epoca avevo dodici anni), mi sparò una fucilata; sparò in basso, ma la rosa dei pallini fu tale che alcuni mi penetrarono nella natica e nella gamba destra. All'ospedale, dove fui portato per essere operato, vollero sapere com'era successo e lo denunciarono. Poiché era una fascista della prima ora e peraltro assai in vista tutto finì in una bolla di sapone e anzi fui io a essere minacciato dai carabinieri di essere rinchiuso in riformatorio.
Da allora lo evitai, disinteressandomi, ma non poteva essere così per Graziano, perché i suoi erano fittavoli di un fondo in cui Menghini aveva anche la villa di proprietà.
Ho finito la premessa e vengo alla narrazione fattami da Graziano.
Tallero era sposato, infelicemente, anche perché la moglie lo cornificava; l'unica sua gioia era il figlio, colui che avrebbe perpetuato il suo nome. Non che con il pargolo fosse molto affettuoso, anzi lo allevava con durezza, come a prepararlo più che a una vita a una battaglia. Poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale la moglie morì di tisi e il legame con il figlio si rafforzò ulteriormente; il giovane partì volontario e di ciò il padre fu orgoglioso, ma durante una delle prima battaglie in Africa Settentrionale rimase ucciso.
Menghini cambiò radicalmente, nel senso che finì con il disinteressarsi della vita, sempre cupo, silenzioso, lo sguardo assorto a chissà quali pensieri. Distrusse le numerose fotografie del duce che teneva in casa, la divisa nera da fascista fu bruciata e si separò di fatto dalla realtà, come se intorno a lui ci fosse solo il deserto e non gente che soffriva per una guerra scellerata e ingiusta.
Graziano, che allora era poco più di un ragazzo, notò questo cambiamento e ne provò compassione, mentre altri inevitabilmente ne gioirono per le male parole a suo tempo ricevute e che avevano aperto ferite apparentemente insanabili.
La guerra continuava e continuò ancor più violenta dopo l'8 settembre 1943.
I tedeschi, con i loro sodali repubblichini, spadroneggiavano, sempre pronti a gesti violenti per sfogare il livore derivante dalla consapevolezza della prossima inevitabile sconfitta.
Accadde così che un giorno una pattuglia della Wermacht rinvenne nel fondo di Menghini il cadavere di un milite tedesco, ucciso a bruciapelo con una fucilata. Il corpo era a circa duecento metri dalla casa padronale, intorno alla quale sorgevano le abitazioni dei fittavoli e dei salariati.
Quello che comandava la pattuglia, con ineffabile logica teutonica, pensò subito che se il colpevole o i colpevoli non si trovavano in quelle case, però qualcosa dovevano sapere e che, non avendolo riferito alle autorità, erano da ritenersi in ogni caso colpevoli.
Vigeva allora quell'assurda rappresaglia che prevedeva per ogni tedesco ucciso l'eliminazione di dieci italiani, anche scelti a caso.
Si precipitarono, quindi, alla casa padronale e radunarono sull'aia dieci maschi, fra i quali Graziano. Le intenzioni erano evidenti, tanto che si andava già formando il plotone di esecuzione, quando arrivò sul suo calesse Menghini.
- Che succede?
Il tenente tedesco, che sapeva un po' di italiano, rispose che a duecento metri da lì era stato rinvenuto, ucciso, un loro commilitone e che quindi, non avendo trovato il colpevole, come previsto dalle ordinanze, avrebbe fucilato quei dieci italiani.
Al che il Menghini disse, con assoluta tranquillità, di essere l'esecutore di quell'assassinio.
Adesso seguimi con attenzione, perché la cosa si fa interessante.
Il tedesco non sembrava convinto, al punto che gli domandò: - - - Come avere ucciso?
Menghini, che non era di certo il colpevole, sfuggì al tranello rispondendo:
- Non ho voglia di parlarne. L'ho ucciso e basta, e quindi lasci liberi questi uomini, miei lavoranti, brava gente e di certo non in contatto con i partigiani.
- Ma perché avere ucciso, soprattutto voi che mi dicono essere buon fascista?
Menghini ebbe la risposta pronta: - Mi stava rubando le pere; gli ho detto di smetterla e lui mi ha guardato sprezzante definendomi italiano traditore; sì, italiano traditore, io che per non tradire gli altri tradisco anche me stesso, astraendomi da questa assurda guerra che mi ha tolto l'unica ragione della mia vita.
Il tenente rimase perplesso, si grattò in testa come a cercare una soluzione e poi ebbe l'idea: - Mando una staffetta dai miei superiori, per esporre il caso e agirò come loro decideranno.
- I suoi superiori? Uomini assetati di sangue, convinti di essere unici al mondo, uomini che fra poco saranno coinvolti nel crollo del Reich. Mi fate pena, perché già si legge in voi l'epitaffio che verrà scritto sulle vostre tombe: Credemmo di essere degli dei e invece eravamo polvere.
- Staffetta, hai capito? Aggiungi anche quanto ha detto questo ex fascista. E tu mettiti con gli altri!
Menghini raggiunse gli altri e si posizionò di fianco a Graziano, chiedendogli subito: - E' stato uno di voi?
- Macché, manco sapevamo che a duecento metri da qui c'era un tedesco morto. Ma allora non siete stato neppure voi?
Menghini rimase in silenzio per un paio di minuti, come a pensare a qualche cosa di lontano, poi sussurrò: - No, non sono stato io.
- Ma allora perché prendersi la colpa e avere così morte sicura?
- Dopo di me, che non ho eredi, ci sarà così ancora qualcuno che starà dietro a questa terra.
- Ma non potete, non dovete…
Menghini non parlò più, sempre più assorto nei suoi pensieri.
Ritornò la staffetta, parlottò con il tenente e questi fece uscire dal gruppo tutti e dieci gli originari ostaggi, invitandoli a posizionarsi sulla grande scala esterna della casa, dietro il plotone di esecuzione.
Menghini capì, rifiutò la benda, guardò fisso davanti a sé e lì incontrò gli occhi di Graziano.
Poco prima che il tenente gridasse "Feuer", al mio buon amico parve di vedere in quelle pupille un sorriso e comunque né odio, né paura, ma quasi una profonda serenità.
Spararono, mirarono bene e non servì il colpo di grazia.

- Bello, sembra quasi un romanzo, anzi sembra inventato.
- E invece non lo è e chi avrebbe mai detto che in quella scorza dura potesse annidarsi una luce di bontà. Menghini, ormai finito come uomo, ha scelto di morire da uomo, salvando altri uomini.
Ha riabilitato così tutta la sua vita e io non posso che perdonarlo per quella fucilata che mi ha sparato.
L'essere umano è un miscuglio di bene e di male e sta solo a lui scegliere l'uno o l'altro.
- E come mai di questo eroico comportamento non si sa nulla, non viene commemorato?
- Graziano e i suoi, finita la guerra, riferirono il fatto alle autorità, ma non sortì nulla, perché le parti in causa avevano tutto l'interesse a tacere: i partigiani, perché Menghini non era uno di loro, i fascisti perché non era più un fascista.
- I soliti interessi di parte…
-Beh, si è fatto tardi e ti lascio tornare a casa. Verrai anche domani sera?
- Spero.
- Buona notte.
- Altrettanto.

Esco rinfrancato, con un po' di quella serenità provata da Menghini nel momento supremo, e nemmeno sento più così tanto il caldo; solo le zanzare, implacabili, mi perseguitano fino a casa.

Da Storie di paese

La consegna
"Siete in mezzo a un lago. Tornate indietro quanto potete.".
- Oh, no, accipicchia. Il navigatore si è guastato, proprio adesso che mi sembrava di essere così vicino.
Il Babbo Natale n. 151 tirò i freni, pardon le redini, delle sue 180 renne e la slitta, ondeggiando di qua e di là, si fermò sollevando un polverone di neve.
- Vicino, ma dove sono?
Babbo Natale si sollevò il cappuccio e si diede una grattatina in testa, poi prese la bolla di consegna e guardò l'indirizzo:
Antonio Carugati - Viale delle Ginestre, 2124 - Milano.
Volse lo sguardo all'intorno e nel buio, grazie al candore della neve che aveva ormai imbiancato tutto e continuava a scendere, non vide altro che i muri di grandi capannoni, di opifici industriali, di magazzini commerciali.
Era sì in mezzo a una strada, ma che quella fosse il Viale delle Ginestre era alquanto improbabile, perché a parte qualche smorto lampione che faceva indovinare un marciapiedi, non c'era nemmeno l'ombra di una pianta.
E provare a chiedere a qualcuno, forse si risolve il problema - disse fra sé e sé. Ma chi mai avrebbe potuto trovare in quella strada desolata proprio la notte di Natale?
Tentar non nuoce - pensò. E allora allentò, di poco le briglie, e le 180 renne della sua slitta modello Super Sport cominciarono a trotterellare.
Andava piano, volgeva lo sguardo a destra e sinistra, ma case non ne vedeva, anzi era una quasi una foresta di cemento.
Si stava perdendo d'animo e già pensava di richiedere un soccorso celeste con il suo fantacellulare, quando scorse un vago chiarore, come di un fuoco che si sforzava di restare in vita nonostante i fiocchi che da più parte lo investivano.
Si avvicinò cautamente e vide che in effetti c'erano alcuni pezzi di legno che debolmente bruciavano e alla luce di quelle esili fiammelle apparvero ai suoi occhi due fagotti che parevano in preda un tremito incontrollabile.
Si fece più vicino e riconobbe così due umani che saltellavano, probabilmente per scacciare il freddo.
- Scusate, mi sapete dire dov'è Viale delle Ginestre?
Nessuna risposta.
- Vi prego, per cortesia, dov'è?
Uno dei fagotti gli si avvicinò, lo guardò ben bene e disse rivolto all'altro:
- Lo sapevo che quella grappa che avevamo comprato era scadente, tutto alcool e niente gusto. E infatti, mi sta togliendo la vista, mi fa vedere cose che non ci sono, come addirittura Babbo Natale.
- Ci sono, esisto, non è una tua immaginazione. Prova a toccarmi.
L'uomo tese il braccio, avvertì il calore del panno e sbottò:
- Che mi venga un accidente! Questo vecchio con la barba dice il vero.
- Certo che dico la verità. Adesso vi chiedo ancora di dirmi dov'è Viale delle Ginestre?
I due si guardarono in faccia e allargarono le braccia.
- Non lo sapete?
- Mai sentito - risposero in coro.
- E per caso, non vi dice nulla il nome Carugati?
Il più vicino, quello che gli aveva toccato il braccio, si grattò in testa, forse per aiutare la memoria.
- Carugati, Carugati, non mi è nuovo, ma sì, adesso mi viene in mente, è un riccone - e volgendosi all'altro - edè quello, se ti ricordi, che l'anno scorso, quando abbiamo suonato al campanello della sua villa per gli auguri di Buon Natale, ci ha quasi sparato addosso.
- Ah, ma allora sapete dove sta?
- Sappiamo dove stava, perchéè andato via?
- Come andato via?
- Dicono che ha comprato un'altra villa, ancor più grossa, con piscina, campo da tennis, maneggio e campo da golf. Però dove sia non lo sappiamo e nemmeno lo vogliamo sapere, perché a quel taccagno non faremo più gli auguri. Dico bene?
Sì - rispose l'altro.
- Ma tu cosa devi andare a fare da Carugati?
- Devo portargli i regali di Natale.
- I regali di Natale a uno che ha già tutto, anzi più di tutto? E scommetto che sono in quel tir che ti porti dietro, vero?
- Sì.
- Che c'è?-
- La solita roba per i ricconi: caviale, champagne, ostriche, cibarie varie, coperte di lana merinos, giacconi imbottiti delle più prestigiose firme.
- Ma non ti vergogni di portare così tanto a chi ha già così tanto?
- Obbedisco solo agli ordini e si vede che Carugati ha qualche Santo in Paradiso.
I due si fecero ancora più vicini ed esclamarono:- E perché non dobbiamo avere anche noi qualche santo in Paradiso?
Poi, il primo, quello che gli aveva toccato il braccio, si accostò al suo orecchio destro, mormorando:
- Come puoi vedere, noi siamo dei barboni, dei clochard, non abbiamo nulla, se non la nostra miseria che ci è compagna e stimolo per continuare questa vita da emarginati. Non cercare Carugati, fermati con noi e, se c'è un Paradiso, credo che non possa che essere contento di vedere che almeno in questa notte un briciolo di giustizia è sceso sulla terra.
- Più facile a dirsi che a farsi, perché lassù controllano e sono inflessibili, altrimenti tutto andrebbe in vacca. Ma in cuor mio so che avete ragione e mal che vada mi potrebbero licenziare, esiliare su una nuvoletta sperduta, farmi fare la corvé di pulire con la ramazza ogni giorno tutti i sentieri che corrono fra gli astri, togliermi la compagnia delle renne, mettermi in cucina a fare il lavapiatti e là di piatti ce ne sono tanti, un numero infinito.
- E allora?
- E allora che Carugati vada al diavolo; ci sto, mi fermo e la roba è per voi.
Urla di gioia accompagnarono quest'ultima frase e rese tutti più intraprendenti. Il fuoco fu ravvivato, i due barboni si ricoprirono con i giacconi imbottiti, si iniziò a pasteggiare con caviale e champagne. Nel corso di quel cenone Babbo Natale non mangiò molto, ma si vedeva che era contento che gli altri si saziassero.
Si iniziò a chiacchierare e uno gli chiese: - com'è la vita lassù?
- Piuttosto monotona, tutti i giorni le stesse cose, ma non c'è da lamentarsi, perché là siamo uguali in tutto.
- Ci sono dei poveri, dei barboni?
- Evidentemente no, anzi sono poveri quando bussano al portone, ma una volta dentro diventano tutti ricchi, di una ricchezza interiore che si chiama beatitudine. E voi, scusate,la domanda, come mai siete dei barboni?
- Io…
- Io…
- Uno alla volta per carità, magari comincia tu che sei stato il primo a parlare con me.
Costui era un tipo di una magrezza spaventosa, con gli occhi cisposi e la voce che con lo champagne tracannato si era fatta roca, appena percettibile.
- Rispondo, hic, se bevi anche tu, hic.
E Babbo Natale cominciò a bere.
- Chiamami Ben. Vedi, io non ero come mi vedi ora, ero uno come gli altri, casa, ufficio, ufficio, casa, e così via, hic. Un giorno, però, ho piantato tutto, hic. Mi sono stufato di quella vita talmente uguale da non accorgermi del tempo che passava e, hic, ho iniziato la mia carriera di barbone.
Si fece avanti l'altro, pure lui un po' brillo.
- Io sono Aristide, Aristide e basta, il cognome l'ho dimenticato. Non mi andava questo mondo, con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più miseri, con le ingiustizie sempre in danno dei più deboli e a vantaggio dei più forti.
Il vino, il pasto abbondante cominciarono ad avere effetto e i tre - sì tre perché anche il Babbo Natale 151, non avvezzo all'uso delle bevande alcoliche, ne fu contagiato - si addormentarono pesantemente e nemmeno sentirono i suoni delle lontane campane che a mezzanotte annunciavano la nascita di Gesù.
Furono trovati all'alba da una pattuglia della stradale, raggomitolati nella neve, difesi dal freddo solo dall'abbondante dose di alcool che avevano trangugiato. Delle renne e della slitta non c'era traccia, erano semplicemente sparite.
Li portarono al commissariato e Ben, che fu il primo a risvegliarsi, raccontò una storia che non stava né in cielo, né in terra e cio è che avevano cenato con Babbo Natale, avevano bevuto a volontà ed ebbri si erano addormentati.
Il commissario Santanastasia, già incavolato per essere di servizio il giorno di Natale, diede un pugno sul tavolo che fece cadere tutta la collezione di penne che lì stazionavano permanentemente del tutto inutilizzate.
- Ma che cazzo e cazzo! Dovrei credere a una minchiata del genere?
E rivolto al suo aiutante, urlò:
- Portami quello vestito da Babbo Natale.
Questi, ancora intontito, entrò barcollando nell'ufficio e fu fatto sedere con una certa difficoltà, perché se faceva fatica a camminare dritto, altrettanto gli risultava difficile restare fermo da seduto e così prese a oscillare da una parte all'altra.
- Senti, bel tomo. Chi sei e cosa facevi lì?
Dalla bocca impastata uscirono suoni disarticolati.
- Non prendermi per il culo. Cazzo, rispondi in modo chiaro.
- Sono Babbo Natale 151.
- Sì, e io sono Rockfeller.
- Piacere signor Rockfeller.
- Ma che Rockfeller e Roffeller del cazzo! Sei ubriaco, ma mi prendi in giro. Ripeto la domanda: chi sei?
- Sono Babbo Natale 151.
- Ispettore, portalo via, levamelo di torno.
- Commissario, con che motivazione li tengo dentro?
- Gli altri due rimettili fuori; questo, vediamo, questo lo arresti per offesa a Pubblico Ufficiale.
- Che offesa?
- Come che offesa? Scrivi: alla domanda di declinare le proprie generalità, il soggetto, non in possesso di documenti di identificazione, dichiarava di essere Babbo Natale 151. Reiterata la domanda, la risposta era la medesima. Ah, quando gli passano gli effetti dell'alcool, chiedigli di nuovo chi è.
Era già il pomeriggio quando Babbo Natale rientrò nel pieno possesso delle sue facoltà e alla domanda chi lui fosse rispose che era Babbo Natale 151.
Informato della cosa, il commissario, d'intesa con i magistrati, ne dispose subito il ricovero coatto presso l'Ospedale Neuropsichiatrico.
L'ambiente era cupo, sbarre alle finestre, porte chiuse, urla di dementi e Babbo Natale 151 se ne stava coricato sul letto, stretto dalla camicia di forza.
Ripensò a quanto era accaduto e, per la prima volta nella sua vita, pianse, poi volse gli occhi al cielo e invocò Gesù.
- So tutto - questi gli rispose.
- Vorrei tornare.
- Certo.
- E mi manderai in esilio, mi farai pulire i sentieri fra gli astri, mi farai lavare i piatti? Farò tutto questo, pur di tornare.
- No, Babbo Natale 151, tu tornerai illuminato dalla tua nuova luce, da quella bontà che era in te e che non conoscevi.
- E le mie renne?
- Già recuperate.
- Grazie, grazie; mi toglierai dal servizio?
- Ma che dici? Il prossimo Natale scenderai sulla terra con migliaia di cose utili per chi ha veramente bisogno, ritroverai i tuoi amici barboni, e anche gli altri tuoi colleghi conosceranno le favelas, le città del dolore, gli occhi tristi di bimbi che non sanno che cos'è la gioia.
- Ma allora, sono perdonato?
- Perdonato? Non c'è bisogno di perdono; tu hai fatto quello che ti ha detto il tuo cuore, hai ragionato con questo muscolo che a volte in non pochi umani sembra mancare. E adesso vieni. Chiudi gli occhi e quando li riaprirai sarai nel tuo cielo.
Il commissario Santanastasia trascorse Santo Stefano, il Capodanno e l'Epifania ancora più nervoso del solito, perché né lui, né nessun altro riuscivano a comprendere come un alienato mentale che si proclamava Babbo Natale, stretto nella camicia di forza e chiuso in una camera di sicurezza fosse riuscito a fuggire senza lasciare traccia.
- E se fosse veramente Babbo Natale? No, meglio non pensarci, altrimenti ammattisco anch'io; insabbiamo l'indagine, perché in fondo non aveva fatto niente di male. Ispettore, nascondi il fascicolo!
Uscito il collega, Santanastasia cominciò a rimuginare fra sé e sé " Macché Babbo Natale, ci credono solo i bambini a una cosa del genere. Però come abbia fatto a sparire è un mistero: nessuna traccia di effrazione, le sbarre intatte, la camicia di forza ben piegata sul letto. Nemmeno il mago Houdini sarebbe stato capace di tanto. Meglio darsi una calmata e non pensarci più. Sì,è la cosa migliore. Però…, però, se trovassi per caso quell'uomo anziano con la gran barba bianca, così, amichevolmente, mi farei spiegare come ha fatto a scappare e se mi risponde ancora che lui è Babbo Natale, non so che gli faccio, anzi no…, gli chiedo dei doni per i figli dei poliziotti."

Lo smemorato
Quando aveva avuto inizio quella congiura proprio non se lo ricordava; forse era stato un lunedì mattina dopo una domenica indolente, oppure un sabato, verso sera, nell'attesa di un'altra domenica pure scialba come tutti i giorni, e forse anche di più, perché dalla festa ci si aspetta sempre qualche cosa di diverso, niente di particolare, ma un fatto, pur se infinitesimale, dissimile dal solito tedio, da una noia di imprecisata origine, ma a cui si lasciava sempre andare.
Era successo, quello sì lo sapeva, era accaduto infatti che la memoria si fosse di colpo inaridita, ma non la memoria storica, bensì quella più recente, anzi recentissima.
E così uscire di casa per andare a fare la spesa e invece vagare senza una meta era diventata un'abitudine; il camminare per le strade, guardando all'intorno senza sapere il perché si era lì, era diventata la prassi quotidiana, come andare a prendere il caffè al bar e uscire senza pagare. Ormai lo conoscevano e, posata la tazzina, gli ricordavano il dovuto, e lui non batteva ciglio, metteva sul banco la monetina da 1 Euro, anche se del caffè appena bevuto non rammentava più nemmeno l'aroma.
I suoi l'avevano fatto visitare da più medici, non avevano esitato e l'avevano portato perfino alla clinica universitaria, per sentire sempre la stessa risposta:è l'età.
Certo non aveva più venti primavere, i settanta erano già stati superati, ma la moglie gli andava ripetendo: - Non può essere l'età, perché anche la mia è quasi la tua, eppure ricordo ogni cosa, e se non ci fossi io qui non s'andrebbe avanti.
Lui allargava le braccia e s'incupiva, perché quell'assenza di un tempo presente gli sfarfallava nel cervello, e più cercava di ripescare l'appena avvenuto, più sopraggiungevano, affollandosi, i ricordi di un tempo assai remoto.
Capitava così che si sovvenisse di un fatto primordiale, la sua nascita, con quel farsi largo in uno stretto pertugio, per poi imbattersi nel mondo di mani che lo afferravano, gli facevano un bagnetto e poi lo mettevano fra le braccia di una madre ansante, ma felice.
E le prime poppate, attaccato al turgido capezzolo, affluivano come un torrente in piena, lo travolgevano, stuzzicavano le sue papille gustative ed il dolce di quel nettare si scioglieva in bocca, accarezzava il palato e scendeva a ristorare lo stomaco impaziente.
Poi vennero le pappine, intrugli accettati suo malgrado, i primi pasti, l'asilo, con quel bimbo che gli rubava le merendine e quell'altro che lo spingeva sempre a terra.
Proseguiva nella sua cavalcata di reminiscenze, passando dai banchi di scuola, su cui curvo s'ingegnava a imparare, a quelli dell'ufficio, in perenne lotta per non restare indietro.
Anche dell'amore aveva memoria, come di un'alba brumosa in cui di colpo s'irradiava il sole; di passioni trepidanti, di ansie notturne, di pulsioni sessuali c'era nitido il ricordo, come quello del primo bacio, le sue labbra tremanti, l'esplosione in fondo al cuore.
E in ogni caso nulla era stato gratuito, fatiche e privazioni, delusioni e affanni erano state compagne assidue e costanti, una gran fatica per vivere ogni giorno, per restare in un mondo che corre sperando sempre in un domani.
Poi, più passavano gli anni e ci si avvicinava al presente, sbiadiva la memoria, scoloriva, come se l'obiettivo fosse andato fuori fuoco, non tanto però per non dimenticare che l'amore per la moglie da passione era diventato affetto e, forse, oramai s'era trasformato in abitudine. La libertà, che aveva sognato con la pensione, si era rivelata una chimera e il non far niente una monotona prigione.
Tanti anni di lotte, di fatiche, anche di illusioni per poi finire un giorno come tutti gli altri. Si chiedeva se ne valeva la pena e forse ebbe anche una risposta, ma nemmeno dopo due minuti se l'era già dimenticata, svanita, cancellata da quelle pagine mentali che ormai faticavano a reggere i passi di ogni giorno.
Era sempre più stanco e così anche quel venerdì convenne che vivere era una gran fregatura, un prezzo da pagare per calare il sipario. In fondo, l'esser smemorato era quasi una fortuna, un percorrere il resto della strada senza rammentare l'agonia di ogni giorno, ma la fatica vecchia, quella che per tanto l'aveva accompagnato, appariva un tardivo monito, il bilancio di un bicchiere né mezzo pieno, né mezzo vuoto, mai riempito e che ora lasciava intravvedere, nella deformazione della curvatura, un'esistenza di cui sì avrebbe voluto non aver più memoria. E invece non si ricordava del presente, un vuoto cieco, un suono cupo. Così concluse che l'esistenza era un inganno che s'era costruito, e quel che un tempo gli pareva un sogno ora riaffiorava greve come un incubo notturno che, magari, avesse potuto smemorare.
E invece, il giorno dopo, avvenne quel che prima o poi sarebbe dovuto accadere: si dimenticò di vivere

Il libro
Era il suo rifugio, l'oasi di pace distante da un mondo a cui non desiderava più appartenere e così ogni giorno lasciava il suo appartamento, salutando la moglie che nemmeno gli rispondeva irretita dai consueti ipnotici programmi televisivi, per andare là. Faceva la strada a piedi, cercando di allontanarsi il più velocemente possibile dalla città, dai grandi schermi al plasma presenti in ogni piazza e che ripetevano ossessivamente i discorsi del Grande Capo. In un mondo perfetto, quale Lui lo definiva, tutti erano felici di ascoltarlo, di apprendere l'unica e indiscutibile verità. La gente passava, si fermava, guardava fissamente lo schermo, assentendo con un leggero movimento di testa. Il professor Giuseppe Di Nanto, invece, affrettava il passo, cercava di resistere al canto ammaliante di quella sirena che ripeteva ossessivamente sempre le stesse cose. Con il libro stretto sotto il braccio cercava la strada più breve per emergere dalla squallida periferia e prendere quel sentiero, che molti anni prima era stata una via, per arrivare al parco, a quel rifugio dove ritrovare solo se stesso.
Anche quel mercoledì stava calpestando quella traccia di erba e asfalto corroso per arrivare alla meta agognata. A ogni metro percorso s'attutiva la voce del Grande Capo e già sapeva che una volta arrivato alla sua panchina non l'avrebbe più sentita, avrebbe udito solo un lontano brontolio che poteva far pensare a un temporale sulla città.
Sessantacinque anni, rotondetto, capelli bianchi, Di Nanto era un insegnante in pensione, una rarità ormai, poiché nella scuola se era difficile entrare ancor più difficoltoso era uscirne. Lui era stato l'ultimo a beneficiare delle vecchie leggi e se n'era andato senza commozione, considerato che nel corso degli anni della sua carriera era passato da portatore di conoscenza a megafono del potere. Tutto era scritto e nulla poteva essere cambiato, senza il minimo spirito critico: una situazione che rendeva il docente un semplice portavoce e gli allievi degli oggetti di indottrinamento.
Raggiunse la solita panchina, si sedette e trasse il libro da sotto il braccio. Guardò la copertina e sorrise, perché quello era stato uno dei primi romanzi che aveva letto in gioventù. Robinson Cruso è stranamente rappresentava ancora un motivo di scoperta come quando trepidante l'aveva sfogliato con gli occhi stupiti di bambino.
Accomodò il libro sulle ginocchia e vi pose sopra le mani. No, non voleva aprirlo: l'aveva letto tante volte da conoscerlo quasi a memoria. Ciò che desiderava era la percezione tattile, la certezza di poter contare su qualche cosa che l'avrebbe aiutato a viaggiare.
Si guardò intorno. Il giardino era in condizioni pietose, abbandonato a se stesso da molti anni, con le erbacce che si erano impadronite dei vialetti, una rivincita della natura per ristabilire quell'ordine che l'uomo a suo tempo aveva violato. Però quell'assenza di razionalità umana non era priva di fascino, quel crescere spontaneo dava l'illusione di essere nell'isola selvaggia di Robinson. Là due gazze amoreggiavano, un poco più avanti una serpe si riscaldava al sole, un ramarro verde correva dietro a una locusta, il tutto in un silenzio quasi divino, non fosse stato per la cascatella del ruscello che si spegneva in una pozza dove alcune rane intonavano il loro gracidio.
Sì, c'era in lontananza quel brontolio, ma se si chiudevano gli occhi poteva anche far pensare alle onde dell'oceano che s'infrangevano sugli scogli dell'isola. Certo lui non era Robinson e quello non era il rumore del mare, ma il distacco dalla realtà quotidiana consentiva anche di sognare, di vedere un uomo finalmente senza vincoli, anche se prigioniero di quell'agglomerato di terra e di scogli, ma libero di pensare, di vivere, di fantasticare, un'evasione dalla morsa della realtà.
Era talmente assorto che non si accorse dei due uomini che gli si pararono davanti.
- Lei cosa fa qui?
Di Nanto si scosse, alzò gli occhi e vide le divise azzurre della gendarmeria.
- Mi riposo, guardo la natura.
- Lo sa che è vietato, vero?
- E' vietato riposare?
- No,è vietato sostare nei parchi non autorizzati.
Provò un senso di disgusto pensando a uno dei tanti giardini autorizzati: vialetti geometrici, panchine frequenti e davanti a ognuna un busto del Grande Capo, gli altoparlanti che ripetevano ossessivamente i suoi discorsi e l'immancabile schermo al plasma con lui che parlava, che magnificava, che si autoincensava.
- Non lo sapevo.
- Che ha sulle ginocchia?
- Un libro.
- Che libro?
- Robinson Crusoé.
- Non è uno dei libri autorizzati. Si alzi e ci segua.
Il levarsi fu più faticoso dello scendere dal letto al risveglio mattutino.
Li seguì fino alla loro auto, su cui lo fecero salire.
Partirono con un gran stridio di gomme e innestando la sirena. Lui stava dietro e davanti ai suoi occhi c'era un piccolo schermo a cristalli liquidi con l'immancabile immagine del Grande Capo.
Lo portarono alla Gendarmeria Centrale, un orribile palazzone con poche finestre chiuse da inferriate.
Dopo aver registrato i suoi dati lo condussero nell'ufficio del commissario capo.
- Lei si chiama Giuseppe Di Nanto?
- Sì, come risulta anche dai miei documenti.
- In pensione e faceva il professore?
- Certo.
- Prima della grande riforma?
- Sì.
- Le cose cambiano, e ora lei potenzialmente è un sovversivo, un ribelle.
- Commissario, alla mia età quel che desidero è solo un po' di tranquillità, nient'altro.
- Lei desidera una cosa che ha già. Il nostro Grande Capo garantisce la felicità per tutti, lei compreso.
- E se per caso non fossi felice?
- E' impossibile, sarebbe un reato gravissimo.
Di Nanto cominciò a sudare.
- Va bene, ha ragione lei, sono felice.
- Ecco, vede, basta poco per chiarirsi: essere felici non è una potestà o un diritto,è un obbligo. Lei non farà in tempo a vedere il mondo perfetto che stiamo realizzando, ma le assicuro che già ne sta godendo. A proposito, che ci faceva in un parco non autorizzato?
- Niente, riposavo dopo una lunga camminata.
- E il libro?
- E' un ricordo d'infanzia, che mi fa quasi compagnia.
- Caro Di Nanto, professor Di Nanto, mi vuol prendere per il culo?
- Ci mancherebbe.
- Come è possibile che, con tutto quello che ha disposizione, in una democrazia perfetta, dove non ci sono divieti, ma solo autorizzazioni, voglia contestare in modo così aperto e sfacciato il pensiero sublime del nostro Grande Capo?
Di Nanto balbettò qualche cosa di incomprensibile.
- Parli più forte, affinché capisca.
- Dicevo che io non ho mai contestato niente, a me va bene tutto, sono felice, anzi felicissimo.
- Le credo, anche se, per ignoranza… d'altra parte gli insegnanti di prima della Grande Riforma non sapevano niente… anche se per ignoranza lei ha sbagliato, e gravemente.
- Che farete di me?
- Per ora niente, dovrà decidere domani il giudice. Intanto sarà nostro ospite.
- Ma…
- Portatelo via, in cella.
Il palazzo della Gendarmeria non era certo una costruzione che potesse muovere al sorriso, tetra nel suo grigiore, ma la parte destinata ai prigionieri era ancora peggio. Più che celle, si sarebbero dovuto chiamare cellette, come quelle che un tempo erano presenti in diversi monasteri. Anguste, con un letto a castello, un piccolo servizio igienico, una finestrella da cui entravano poca aria e una luce fioca ed evanescente, sembravano le segrete di certi castelli medievali. Presentavano però un vantaggio e lui lo notò subito: mancava il televisore e, fra l'altro, non c'erano nemmeno altoparlanti attraverso i quali diffondere la voce del Grande Capo.
La guardia, che lo accompagnava e che gli mostrò la nuova dimora, gli spiegò che l'assenza di tali vitali sistemi di comunicazione erano parte della punizione: senza l' immagine e senza la voce gli incarcerati si sarebbero sentiti soli, senza sostegno e aiuto, orfani di quella guida che assicurava loro la felicità.
La cella era già occupata da un ometto magro, di bassa statura, occhi cisposi e con l'alito che puzzava di vino.
Questi guardò il nuovo venuto solo per un istante, poi riprese a fissare il soffitto.
Di Nanto, visto che era libero, si sistemò sul letto inferiore e subito chiuse gli occhi, per godere di quel silenzio a cui non era abituato.
- Perché sei qui?
Alzò gli occhi, perché la voce, un po' impastata, veniva da sopra.
- Insomma perché sei qui?
- Stavo in un parco non autorizzato.
- Solo per questo?
- No, avevo anche con me un libro non autorizzato.
- Me lo fai vedere?
- Me lo hanno sequestrato.
- Magari era uno di quei libri dove si parla di cose sporche, dove si descrivono gli accoppiamenti?
- No,è un libro che possono leggere anche i bambini.
- E se possono leggerlo i bambini, perché non è autorizzato?
Il professore restò alcuni secondi a pensare e poi rispose: - Perché ti fa vedere un altro mondo.
- Davvero? C'è un altro mondo?
- Sì, un mondo che è dentro di noi e che ignoriamo.
- Racconta un po', abbiamo tutta la notte davanti.
Il professore chiuse gli occhi e iniziò a parlare, a descrivere l'isola, a tratteggiare la vicenda.
Tutto scorreva, come in una pellicola, davanti ai suoi occhi e si chiedeva se anche il suo coinquilino avesse le stesse visioni, avvertisse le medesime sensazioni, trovasse in sé quella libertà che da troppo tempo mancava.
Non riuscì a finire la narrazione prima dell'alba, anche perché si era accorto che il suo compagno di cella si era addormentato, e allora decise anche di lui di concedersi un po' di riposo.
Il risveglio li colse entrambi e l'ometto, che probabilmente era riuscito a smaltire la sbornia, lo ringraziò.
- E per cosa?
- Mi sono addormentato ascoltando le tue parole e quello che non vedevo di quel che dicevi mi è apparso nitido in sogno, un'isola selvaggia in cui correvo solo per piacere, dove si udiva solo il rumore del mare, e nient'altro, nemmeno quella voce ossessiva. Per la prima volta mi sentivo felice, avrei voluto gridarlo, avrei voluto far sapere agli altri che è inutile stordirsi con il vino e che abbiamo veramente un altro mondo dentro di noi come hai detto tu.
- Vedi cosa vuol dire leggere un libro che ti apre il cuore e la mente? Non quelli autorizzati, che decantano una felicità di cui non ci accorgiamo.
Alle nove vennero a prenderli per portarli dal giudice, un giovane vestito elegantemente e dallo sguardo indifferente.
Il processo dell'ometto fu brevissimo e fu condannato a sette giorni di prigione per ubriachezza; poi, toccò al professore.
- Pazienza la frequentazione di parchi non autorizzati, fonti di pericolo per chi vi si avventura. Sì, lì potrei essere clemente, considerando anche la sua età, ma leggere un libro diverso da quelli contenuti nell'elenco ufficiale mi sembra francamente un grave atto di asocialità. Che ha da dirmi al riguardo?
- Nulla, ma non lo leggevo, lo portavo solo con me.
- Crede che io sia sciocco, forse? Un professore che trova una scusa così spudoratamente falsa è ridicolo.
- E' la verità.
- No, la veritàè una sola edè quella che dice il Grande Capo e i suoi esecutori, cio è, in questo frangente, il sottoscritto. Tuttavia, oggi mi sento magnanimo e quindi la condanno a presentarsi sulla pubblica piazza e a dichiarare di fronte a tutti il suo pentimento per questo suo grave gesto, accompagnandolo con la distruzione del libro. Dovrà romperlo in mille pezzi e poi inghiottirli.
- Ma..
- Ma? Non abusi della mia disponibilità. Guardie, eseguite la sentenza.
Lo portarono in auto proprio nella piazza centrale della città, in cui era sempre presente un palchetto, che serviva, a seconda dei casi, per discorsi ufficiali o per mettere alla gogna dei rei.
Fu fatto salire su quelle quattro assi e gli consegnarono il libro, poi abbassarono il volume del maxischermo e gli intimarono di procedere.
Cominciò chiamando a raccolta i passanti che piano piano riempirono la piazza.
Solo su quel palco, con la schiena rivolta allo schermo, alzò con la mano sinistra il libro.
- Cittadini, fratelli, mi hanno condannato perché ho commesso una grave mancanza. Ho letto, infatti, questo libro, che non rientra fra quelli autorizzati, che parla della vicenda di un uomo su un'isola selvaggia, dell'immensa libertà che aveva ritrovato, pur fra le difficoltà dell'ambiente e della solitudine. Robinson Cruso è era felice, felice perché non c'era nessuno che lo comandava, non c'era un Grande Capo che lo ossessionava continuamente, che gli magnificava conquiste non vere, che lo obbligava a credersi felice. Cittadini, questo è un libro da leggere!
Forse voleva aggiungere qualche cosa, ma le guardie balzarono sul palco, gli piombarono addosso, ci fu una colluttazione, durante la quale il professore lanciò il libro contro lo schermo, che si infranse come uno specchio.
Immobilizzato, ammanettato, fu portavo via subito con l'auto a sirene spiegate. Del pubblico nessuno mosse un dito e anzi cominciarono a lasciare la piazza con l'aria addormentata di sempre.
Uno studente, che era proprio ai piedi del palco, vide per terra il libro, lo raccolse in fretta e lo nascose nello zaino, poi si diresse verso casa.
Quella sera attese con ansia la mezzanotte, quando i suoi si ritiravano a dormire, poi lo aprì e iniziò a leggere.
Dapprima restò sbigottito per quelle vicende così diverse dalle solite che si trovavano nei romanzi autorizzati, così varie, tese a coinvolgere, ad attrarre; non era il solito racconto, analogo a tutti gli altri, dove cambiavano solo i nomi dei protagonisti, buono solo per passare un po' di tempo, ma che quando arrivavi alla fine già ti dimenticavi di quel che avevi letto.
No, qui era tutto diverso, era come un vento impetuoso che sollevava una fitta coltre di nebbia, facendo vedere un paesaggio completamente nuovo, un luogo in cui idealmente venivi trascinato, spettatore invisibile della vita di un uomo che il destino avverso aveva trascinato su un'isola selvaggia.
Passarono le ore, nemmeno si accorse del sopraggiungere dell'alba, mentre con la mente andava al mare spumeggiante contro le rocce, ai voli dei gabbiani, al signor Robinson che era prigioniero e re di quell'isola.
Giunto all'ultima pagina si sentì pervaso da un'emozione mai provata e si accorse così che molto era rimasto in lui di quelle parole e che ora non avrebbe più potuto fare a meno di confrontare la sua vita piatta e monotona con i nuovi orizzonti che gli si erano aperti. Era accaduto un fatto straordinario, aveva ritrovato quella libertà di pensare e di vedere che anni di indottrinamento avevano assopito.
Si sentiva diverso, gli era venuta perfino una smania incredibile di guardarsi intorno e di vedere solo con i propri occhi.
Il giorno stesso ne parlò alla sua fidanzata e le lasciò il libro, perché anche lei leggesse. Era scettica, all'inizio, e gli diceva che non poteva essere valido, perché non rientrava fra quelli autorizzati, ma gli occhi di lui, che brillavano di una luce nuova, la convinsero più delle parole.
Così lesse e ne fu talmente entusiasta da sentirsi per la prima volta libera nel pensiero, così che lo prestò a una sua amica. Il libro passò rapidamente di mano in mano nell'ambiente universitario, sottobanco certo, ma se chi lo riceveva aveva lo sguardo spento, quando lo restituiva sembrava un'altra persona, con gli occhi che esultavano.
Si arrivò addirittura a fotocopiarlo, perché anche altri potessero usufruirne. Si passavano le copie, sottobanco, con l'entusiasmo di rendere partecipi gli altri di una novità, al tempo stesso sconvolgente ed esaltante.
Tre mesi dopo, in una notte di nebbia, alcuni individui, vestiti di nero e incappucciati per impedire che fossero riconosciuti grazie alle numerosissime telecamere presenti ovunque, si aggiravano cauti nella piazza centrale, avvicinandosi al nuovo maxi schermo, puntualmente in funzione, e lo distrussero a sassate. La stessa cosa avvenne in numerosi punti della città e questa ribellione presto si estese a tutto lo stato.
Ovunque veniva compiuto un attentato si trovavano dei fogli, ciclostilati, con scritto sopra "Vogliamo essere noi come siamo o come vuole che per lui siamo?"
Ebbe inizio una violenta repressione che però ben presto andò estinguendosi, a mano a mano che gli uomini della gendarmeria cominciarono a leggere le fotocopie sequestrate.
Il paese iniziò così a risvegliarsi dai lunghi anni di torpore a cui era stato indotto.
Il libro, quel libro, si dimostrò un'arma non convenzionale superiore a tutte le altre, fu l'antidoto di un morbo diffuso attraverso i media e che aveva di fatto resa la popolazione incapace di intendere e di volere. Il nuovo mondo non prometteva, né assicurava un'ingannevole felicità, ma consentiva agli uomini di essere arbitri del loro destino, di ritrovare la propria innata personalità.
Un futuro migliore si stava preparando e di certo il professor Di Nanto ne sarebbe stato contento, ma di lui, da quel giorno del discorso in piazza, non si seppe più nulla.

Solo due parole
Da quando era rimasto vedovo ed era andato ad abitare con la figlia maritata a un insegnante di liceo le giornate gli sembravano vuote. Con la pensione aveva tanto, troppo tempo a disposizione, e allora lui cercava di rendersi utile in casa, ma vuoi perché non era abituato alle faccende domestiche, vuoi perché una donna si sente in tutto padrona dell'abitazione in cui vive, finiva con il combinare solo pasticci. Fu così che si rassegnò a provvedere alla spesa quotidiana, passando ore intere al supermercato, a osservare, a valutare e infine a scegliere i prodotti. Tutto sommato era una vita monotona che non poteva appagarlo e spesso, fra sé e sé, si diceva che doveva trovare qualche cosa, come una passione, per continuare a vivere e a non vegetare.
- Pà, prendi Gualtiero, che va a pescare tutto il giorno.
Lui la guardava, scuotendo la testa e mormorava: - Sarà, ma non mi ci vedo seduto in riva a un fiume con una canna in mano ad aspettare qualche incauto pesciolino. Tu non mi capisci, ma io voglio sentirmi utile.
Il discorso finiva lì e ogni tanto si ripresentava, e se non era Gualtiero che pescava, era Giorgio che collezionava farfalle, oppure Sergio che andava a funghi. Inutile dire che la risposta era più o meno la stessa e in cuor suo la figlia comprendeva questa necessità di essere utile, di avere ancora un po' di importanza nella società, sia pure nell'ambito più ristretto di una famiglia. Forse si trattava di approfittare di un'occasione, di saperla cogliere, di non tirarsi indietro, ma quasi di osare.
E l'occasione venne.
- Pà, sono incinta, diventerai nonno.
Non rispose, ma sorrise, perché oltre a essere nonno avrebbe fatto il nonno.
Già si immaginava portare a spasso il nipotino, magari ai giardini pubblici, oppure raccontargli una bella favola. Una favola? Lui non se le ricordava, o meglio ancora non ne sapeva, ma provvide subito e per tempo, saccheggiando qualche libreria e così Andersen, i fratelli Grimm, Perrault, nomi che prima non gli avrebbero detto nulla, divennero familiari e imparò quasi a memoria le loro fiabe ancor prima che nascesse il bimbo.
E bimbo fu, un bel maschietto che venne alla luce in una luminosa giornata di primavera e a cui fu imposto il nome di Gianfrancesco Maria, lungo, troppo lungo, come il nonno ebbe a dire, ma fu subito zittito. Ai genitori piaceva anche perché dava corpo al cognome troppo corto del padre, uno Zin che nelle presentazioni quasi non si notava.
E va bene per Gianfrancesco Maria, si disse il nonno, ma io lo chiamerò solo Gian, almeno quando non sono presenti i suoi.
La vita cambiò di colpo: niente più giornate noiose, o vuote, ma sempre a dare una mano per accudire il bambino.
- Pà, mi passi il borotalco? Pà, mi passi i pannolini? Pà mi scaldi la pappetta?
E pà correva, si dava da fare, e non poche volte si sostituì alla mamma, quando lei non c'era e Gian se la faceva addosso.
Era diventato talmente bravo che la figlia, in previsione di acquistare un nuovo appartamento, si era messa a lavorare, non a tempo pieno, ma tutte le mattine. Sapeva perfettamente che il piccolo era in buone mani ed era anche contenta che suo padre avesse ritrovato il piacere di vivere.
- Adesso Gian andiamo ai giardini, ti metto in carrozzina e ti porto là, così ti diverti tanto.
Non era l'unico frequentatore maschile con i nipotini, ma era senz'altro l'unico che parlava sempre con il suo piccolo.
- Quella che vola, tutta colorata,è una farfalla.
- Fafala.
- No, ripeti con me…far…fal..la.
- Fafala.
- No, no, sa attento: far…fal…la.
- Fafalla.
Un po' per volta imparò a dire il nome esatto, così come altri, anzi si può dire che il suo primo vocabolario fu tutto quanto concerneva i giardini.
Uccelli, uc…cel…li, erba, er…ba, fiore, fio…re.
A tre anni già sapeva distinguere, e chiamarle con il giusto nome, una rosa da una violetta, si entusiasmava con le lucertole: lucetole! Gridava forte il nome ed evidenziava quella erre moscia, anzi proprio monca, che il nonno, per quanti sforzi facesse, non riusciva a fargli pronunciare come si doveva. Poco male, si diceva, perchéè intelligente e l'unico peccato è che non riuscirà mai a pronunciare esattamente il suo nome. Ma perché proprio chiamarlo Gianfrancesco Maria?
Già lo immaginava da grande, plurilaureato che si presentava cosi: Dottoe Gianfancesco Maia Zin. Non si può aver tutto nella vita, andava ripetendosi, l'importante è che sia bravo, e lo è, e che sia sano, e lo è.
Poi iniziò ad andare a scuola e chi l'accompagnava? Il nonno. Chi lo andava a riprendere? Sempre il nonno, che se lo coccolava, e leggeva per primo la pagella, sempre bella.
Dalle elementari alle medie e da queste al primo anno di liceo, e il nonno c'era sempre, più vecchio, ma comunque presente in ogni occasione, un amico più che un parente, il miglior amico di Gian.
Tutto sembrava andare per il meglio, ma una giornata, all'uscita della scuola, il ragazzo non trovò il nonno ad aspettarlo, come faceva sempre. Andò a casa e lo trovò che guardava fuori dalla finestra.
- Nonno, come mai non sei venuto oggi?
Si volse, aveva un'aria stanca e sul suo volto si dipinse un'interrogazione.
- Dove dovevo venire?
- A scuola.
- A scuola…ah, sì, ricordo ora, ma…
- Ma?
Il vecchio si guardò intorno disperatamente per cercare una scusa, poi gli venne un'idea: - Sono scivolato e mi duole un piede.
- Hai chiamato il medico?
- No, vedrai che andando a sera passa.
La faccenda sembrò finita lì, ma il nonno rimase assorto, a rimuginare quei vuoti di memoria che da qualche tempo lo coglievano e che si andavano infittendo.
Bisognava provvedere, magari con una cura ricostituente, ed era per questo che l'indomani sarebbe andato dal medico, come appunto fece.
La visita fu minuziosa, le domande numerose e alla fine il dottor Sarti, il medico di famiglia, gli disse:
- Vede, il suo è un problema dell'età.
- E' serio? Ci sono cure?
- Andrà peggiorando e al massimo possiamo cercare di rallentarlo.
- Il decorso?
- La memoria calerà sempre più rapidamente fino a quando…
- Fino a quando?
- Fino a quando lei non saprà riconoscere i suoi familiari e addirittura se stesso. Lei ha il morbo di Alzheimer.
Era entrato preoccupato, ma speranzoso, e ne uscì disperato.
Pensò a sua figlia, al suo Gian: non li avrebbe più riconosciuti.
Come fare, come dirglielo? Era inutile angosciarli prima del fatto, ma per giustificare le sue stranezze non c'erano rimedi possibili, a meno di non far credere loro che accusava alcuni temporanei disturbi circolatori che influivano sulla memoria.
Lungo la strada pensò a quando aveva cercato di immaginarsi la laurea di Gian, il suo matrimonio, tutti eventi che si sarebbero verificati magari con lui ancora vivo, ma non in grado di comprenderli.
Prima di rientrare si fermò ai giardini e gli venne spontaneo sussurrare: Far…fal…la. Fafalla. Rivide un nonno con il suo nipotino in carrozzina, il volto del bimbo che si apriva in un sorriso, i suoi occhi increduli, le braccia aperte come a voler accogliere il mondo.
Ecco, doveva ricordare, tutto, prima di dimenticare tutto: le ore liete, un po' della sua infanzia che aveva rivissuto con Gian, un ultimo sguardo prima che la lampada della mente si spegnesse.
E così fece, riuscendo abbastanza bene a nascondere il suo disagio per circa un paio di mesi.
Ma una mattina di primavera, mentre tutti erano al lavoro e Gian a scuola, gli sembrò all'improvviso di vivere in una casa sconosciuta. Come mai c'era un armadio lì? E che cos'era quel quadro? Poi si riprese, ma ebbe la certezza che il momento era arrivato.
Lui, però, voleva spiegare al suo Gian perché sarebbe cambiato, perché non l'avrebbe più riconosciuto, doveva farlo, perché capisse che non era perché non gli voleva più bene, ma perché era malato.
Prese un foglio e una penna, le mani gli tremavano, ma cominciò a scrivere. Non riusciva a pensare, la penna gli sembrava un macigno e con grande fatica iniziò: Caro Gian…
Non andò oltre quelle due parole e crollò sul tavolo.
Sì risvegliò in un letto d'ospedale; intorno a lui c'erano tre persone sconosciute: un uomo preoccupato, una donna che piangeva e un ragazzo con un foglio in mano.
Chissà chi erano, ma quando si chiese chi fosse lui non arrivò nessuna risposta.

Le manovre militari congiunte italo - libiche
L'amicizia italo-libica diventa sempre più salda, al punto che, da indiscrezioni raccolte dai nostri inviati, sono previste a breve grandi manovre militari congiunte.
Noi siamo in grado di fornirvi in anticipo sulla data prevista del 10 gennaio 2011 il resoconto delle stesse.

Dal nostro inviato Talpon dei Talponi:

"Oggi, 10 gennaio 2011,è una giornata storica, perché hanno inizio le manovre di tre giorni che impegneranno congiuntamente le forze militari italiane e libiche.
Erano le prime luci dell'alba quando i due premier si sono incontrati in una tenda nel deserto e hanno consumato insieme la prima colazione (cappuccino e cornetti). Ma veniamo alla giornata odierna, che vedrà impegnate le due marine nell'attività di respingimento degli extracomunitari.
Le forze presenti:
Marina Italiana
La fregata Silvio I, la fregata Silvio II e la fregata Silvio III.
Marina Libica
La torpediniera Muammar in dal Mar, il guardacoste Ma va là, battezzato così in onore dell'amicizia italo-libica.

Dalle rive della Sirte sono partiti decine di barconi zeppi di africani in fuga verso la speranza, ma ecco che una nostra fregata e la torpediniera li intercettano, i cannoni sono pronti a sparare,è un'esercitazione questa dove si fa sul serio. Prendono di mira un barcone che s'infila veloce fra le due, ma dalla fregata parte una salva e dalla torpediniera un siluro. Nel mare che ribolle si sta consumando una tragedia ed ecco due esplosioni; mentre il barcone si allontana, la torpediniera, colpita dalla salva, e la fregata, infilata dal siluro, colano a picco.
A giornata conclusa il giudizio unanime degli osservatori italo-libici è di parità, anche se qualcuno pensa che una torpediniera non vale una fregata, pure se questa si chiama Silvio.
In serata cena nella tenda a base di pane e datteri. Durante la notte il nostro premier viene colpito da forti dolori viscerali e il deserto rimbomba di esplosioni come in occasione dell'attacco inglese di El-Alamein.

11 gennaio

Oggi è la giornata delle aviazioni ed ecco manovre spericolate fra i caccia italiani e quelli libici, picchiate, giri della morte, cabrate, un missile che parte per sbaglio e che butta giù un Airbus con 257 passeggeri a bordo. Si cerca invano il colpevole, anche se gli italiani annunciano subito il ritrovamento nella Sila della carcassa di un Mig libico, con dentro le ossa del pilota, ma si tratta d'altro, di qualcosa accaduto un bel po' di tempo fa. Dopo vari conciliaboli viene pubblicamente incolpata la Repubblica di San Marino, mossa astuta tipicamente italica, perchéè notorio che lo stato del Titano non possiede aerei.
Inutili le proteste, gli ammonimenti dell'ONU e in capo a due ore lo staterello viene occupata e subito iniziano i lavori di trasformazione del Palazzo del Governo in moschea. Sì, perché se non è ancora ben chiaro, San Marino viene donato dal nostro premier all'amico libico, affinchè lui abbia una specie di residence a portata di mano e di Silvio. Al riguardo, si colgono due piccioni con una fava, perché là c'è il circo Togni, per una serie di spettacoli, e viene prontamente requisito il tendone. La finalitàè facile da immaginare…
Alla sera cena di gala nella tenda a base di pane e montone. Durante la notte il nostro premier accusa violenti dolori di stomaco, con flatulenze che sollevano una tempesta nel deserto.


12 gennaio

Ultimo giorno, quello decisivo. Da una parte le nostre truppe in Libia a contrastare l'immigrazione clandestina e dall'altra, con lo stesso scopo, quelle libiche in Sicilia e in Calabria.
I nostri bersaglieri, in perfetta tenuta invernale, si spingono nel deserto per occupare la collina strategica di Bir ben Bir.
Sudano copiosamente dentro le giacche a vento, ma avanzano inesorabili e prendono d'assalto la collina, su cui arrivano sfiatati, ma lì non trovano nessuno. Affranti si buttano a terra e si addormentano, ma al risveglio li coglie una tempesta di sabbia, il navigatore satellitare non funziona e non sanno più dove si trovano, perché la collina è una duna e si è spostata. Muoiono di sete, la bocca è impastata di sabbia, ma c'è un colpo di fortuna, perché s'imbattono in un vecchio beduino, a cui chiedono dell'acqua.
Lui si mette un dito nell'orecchio sinistro, un altro nella narice destra, sputa per terra e poi indica con il braccio un punto vago. I nostri bersaglieri, sferzati dal vento, vi si dirigono immediatamente e dopo due ore di cammino trovano un'oasi verdeggiante, abitata solo da donne, delle meravigliose ragazze berbere. Potete solo immaginare quello che accadrà poi, ma sta di fatto che a distanza di tre anni da oggi il reparto non è ancora tornato alla base. In verità si fermeranno in quel paradiso solo per un paio d'anni, poi un giorno si ricorderanno della missione e decideranno di rientrare. Soffia un vento caldo maligno, che sposta la sabbia e allora per trovare la direzione si ricorderanno della tecnica del vecchio beduino. Non avranno però una memoria esatta, perché c'è chi dice che il dito va nell'orecchio destro, c'è chi assicura che la narice giusta sia la sinistra, c'è poi qualcuno che giura che il vecchio arabo s'è messo anche un dito in quel posto. Insomma, in tutto quel casino, anziché spingersi a nord si dirigono a sud, dove verranno avvistati dieci anni dopo da un aereo mentre procedono in fila indiana nella savana convinti di essere al Parco Lambro.
E i libici?
I libici, con le truppe cammellate, sbarcano a Gela e prendono prigionieri alcuni pescatori che stanno rientrando con le loro barche. Li scambiano per immigrati e, nonostante una certa affinità dell'idioma, non riescono a capirsi. I siciliani, in preda al furore per questa cattura, all'ora del tramonto si ribellano e cacciano in mare gli invasori, molti dei quali cercheranno inutilmente di tornare in patria a cavallo dei loro cammelli. Anni dopo, questo moto spontaneo, verrà ricordato come i vespri siciliani.
Sempre il 12, avuta notizia dello sbarco di circa 5.000 immigrati sulle coste ioniche della Calabria, i reparti speciali libici, in sahariana, si precipitano in loco con la loro nuova formidabile arma, gli elefanti. La colonna si fa strada sulla Sila sotto una fitta nevicata e con una temperatura polare. Giunti a Camigliatello trovano la strada sbarrata da due metri di neve, cercano di ritornare, ma il gelo e l'intensità della precipitazione li blocca. Saranno ritrovati la primavera successiva, rigidi come l'esercito di terracotta e diventeranno meta turistica come l'esercito di peracotta.

Ad onta dei disastri della giornata, nella tenda del deserto si tengono grandi festeggiamenti e fra uno spinello e l'altro si arriva al brindisi, fatto con il liquore nazionale libico, L'acqua di fuoco, che altro non è se non petrolio purissimo. Il nostro premier ne beve più di un bicchiere fra un assaggio e l'altro di pasticcio di datteri.
E' notte fonda quando si torna in Italia, con l'aereo presidenziale.
Il premier accusa violenti dolori viscerali, corre alla toilette e lì, complice l'acqua di fuoco, si verificano esplosioni fiammeggianti. L'aereo prende fuoco, il ministro degli interni Dubaloss infila il paracadute e si lancia. Caso vuole che sia anche fortunato, perché sotto non c'è che mare, ma s'infila giusto sull'albero di mezzo di una goletta di pirati e là resta.
Il ministro della difesa La Kazaka nella foga dimentica il paracadute e vola in caduta libera, finendo sull'Air Force One che ritorna da una visita in Israele e che fa rotta mille metri più sotto, sfonda il tetto e finisce su un divano di fronte allo sguardo sbigottito del presidente americano. Impossibilitato a chiarire in modo logico la sua improvvisa presenza viene ritenuto un pericoloso terrorista islamico e finirà, con una detenzione a tempo indeterminato, in un penitenziario di massima sicurezza sito nel Texas.
Il premier invece esegue un perfetto lancio con il paracadute, ma le spinte laterali, dovute ai dolori viscerali, lo portano sulla Sicilia verso l'Etna e, nonostante tutti gli sforzi, finisce dentro al cratere. Il vulcano entra subito in eruzione, ma nonostante il massimo impegno non riuscirà ad espellerlo.
Quanto a Muammar, in depressione per la sorte dell'amico, prenderà a soggiornare a San Marino, oziando nel tendone, fino a quando la rivolta dei locali non ritrasformerà in Palazzo del Governo la moschea.
Sorpreso nel sonno, fingerà di essere un sosia di Muammar e come tale si esibirà negli anni a venire sotto il tendone del circo Togni.

La pietàè morta
Negli ultimi anni il Guercio si era reso quasi irreperibile, tanto che i giovani del paese non sapevano chi fosse o al più lo consideravano un vecchio decrepito che un tempo lontano aveva fatto parlare di sé.
Certo la salute non lo assisteva, ma la sua mente era lucida, e lui era ancora interessato ai fatti del mondo, pur senza avere più quel desiderio di combattere, di sanare situazioni che non facevano onore agli uomini.
Usciva raramente e, comunque, quando lo faceva, disertava il bar, che aveva perso quel carattere di osteria paesana, dove un tempo si riusciva a sapere tutto di tutti. Ora non era più così e le discussioni animate, un tempo relative a politica e a corna, si erano ridotte ai soli vaneggiamenti calcistici.
Quel 1995 fu caratterizzato da un'estate lunga e calda, torrida in verità, con un'afa opprimente che rendeva deserte le vie anche di sera. Era da tempo che non vedevo il Guercio, avevo chiesto in giro, ma nessuno pareva saperne nulla. Allora, un giorno di una seconda metà di agosto non gratificata dal consueto temporale per la ricorrenza della Madonna, mi decisi, verso il tramonto, a uscir di casa, con il preciso scopo di andare a trovarlo.
Mi accolse in una camera semibuia, calda e silenziosa, tanto che si potevano udire chiaramente i ronzii delle mosche che sbattevano contro i vetri chiusi delle finestre nel tentativo di riguadagnare la libertà degli spazi aperti.
- Vedi, sono ormai né più né meno di questi insetti, bloccato qui dentro, con il desiderio però solo mentale di evadere. E che c'è fuori? Caldo, luce abbacinante, e un deserto di sentimenti che mi fa piangere questo povero cuore malato.
- Mala tempora currunt - replicai.
- Sì, come dici tu. La gente è in preda a un'isteria che la spinge solo e unicamente a cercare il profitto, senza rispetto per gli altri, ma anche per se stessa. E quel che è peggio è che la pietàè morta; c'è un disinteresse generale per chi ha bisogno di aiuto, per i malati, per i vecchi, per i poveri, che non porterà a nulla di buono.
- I tempi sono cambiati, purtroppo, e non ci sono più ideali.
- Vero, ma quello che mi preoccupa di piùè proprio l'assenza di pietà. Mi prometti di non riferire a nessuno la storia che ti sto per raccontarti, almeno fino a quando sarò in vita? Dopo, quando non ci sarò più, potrai farlo, se vorrai.
- Non fare il misterioso, Guercio. Che cosa c'è di tanto particolare che altri non debbano sapere?
- Lo capirai, ma adesso promettimi di non farne parola con altri.
- Promesso - e, con un gesto che mi riportò all'infanzia, incrociai gli indici delle mani, portandole sulle labbra.
- Questa vicenda risale al periodo in cui ero partigiano, un'epoca di grandi speranze, ma anche di immensa sofferenza interiore per me.
- Non ne hai un buon ricordo, insomma.
- I ricordi, quando ci sono dei morti di mezzo, sono sempre dolorosi. Ma vengo al dunque…


Era l'estate del 1944 e il mese era come ora, agosto, un'estate anche quella torrida e che sembrava non finire mai.
Come sai già, io ero sull'Appennino, vicino a un paese che preferisco non nominare. Gli alleati stavano risalendo la penisola e la liberazione sembrava assai prossima, ma poi l'accentuazione della difesa tedesca e anche un minor piglio offensivo portarono a un altro inverno di guerra.
I rapporti con il podestà, che fino a qualche mese prima erano stati di reciproca indifferenza, si guastarono all'improvviso quando l'unico figlio, arruolatosi nella Guardia Nazionale Repubblicana, meglio ancora repubblichina, era morto, ucciso non dai partigiani, ma mentre maneggiava troppo spavaldamente una bomba a mano.
Quell'evento trasformò il padre, da indifferente fascista, a spietato persecutore. Riuscì a far venire in paese un distaccamento di camicie nere, a cui si aggiunse poco più tardi una compagnia di tedeschi della Wermacht, tutti reduci dal fronte orientale.
Quest'uomo cominciò a vedere partigiani ovunque, anche dove non c'erano, sospettò di tutta la popolazione riducendo la già misera razione delle quote annonarie, così che la fame divenne sempre più acuta. Non contento, riuscì a reclutare con i tedeschi quasi tutti gli uomini del paese da utilizzare nell'organizzazione Todt. Noi restammo buoni, per vedere come andava a finire e per evitare che infierisse ulteriormente sulla popolazione.
Però tutte queste azioni non gli bastavano e si mise a dar la caccia anche agli ebrei: figurati, io non sapevo neppure che ne esistessero in zona. Lui li trovò, però, nascosti in un casolare lungo un pendio; era un'intera famiglia, composta dai genitori e da due ragazzi di meno di vent'anni. Quando furono arrestati, fu trovata poi, nel corso della consueta perquisizione, una radio nascosta in una cassapanca.
Il podestà, ormai in preda a un odio feroce, concluse che quell'apparecchio era la prova che gli ebrei erano delle spie e che lo utilizzavano per trasmettere notizie agli alleati, senza rendersi conto che quello era solo un apparecchio ricevente, come quello che anche lui aveva in casa.
Nella sua follia ricollegò così il bombardamento occasionale di una frazione da parte del famigerato Pippo con ordini impartiti direttamente attraverso quella radio e benché nell'azione bellica non vi fossero stati per fortuna né morti né feriti, ma solo una casa lesionata, istituì immediatamente un tribunale, di cui al tempo stesso era accusatore e unico giudice.
E' inutile dire che non vi furono avvocati difensori e che il procedimento si concluse nell'arco di un'ora con una sentenza di morte per impiccagione per tutti e quattro, anzi per cinque, perché un paesano ebbe il coraggio di intervenire facendo notare che l'apparecchio radio non poteva essere uno strumento di spie, essendo solo ricevente.
L'esecuzione avvenne subito e i condannati furono appesi ai rami di due grossi olmi che da tempo ornavano la piazza del paese, e, crudeltà nella crudeltà, morirono per soffocamento, una lunga straziante agonia accompagnata dalle risate di scherno del podestà e delle camicie nere.
Ormai si era superato ogni limite, anche perché subito dopo la soldataglia fascista abusò ripetutamente di donne sospettate, in modo del tutto arbitrario, di essere in contatto con i partigiani.
Si doveva intervenire, non si poteva stare più buoni, e così al comando decidemmo che il podestà doveva essere ucciso: azione particolarmente difficile, visto che in paese, oltre alla compagnia di tedeschi, c'erano un centinaio di camicie nere, mentre noi non eravamo più di una cinquantina.
L'unica possibilità era quella di giocare d'astuzia, con il ricorso a un solo uomo che, spacciandosi come membro dei servizi segreti della repubblica di Salò, avrebbe potuto avvicinare la vittima designata.
Mi offrii io, visto che nessuno in paese mi conosceva e che con quell'unico occhio avevo un che di misterioso che poteva rafforzare la mia falsa identità, comprovata, peraltro, da un documento di riconoscimento vero, trovato appunto nelle tasche di una spia che era stata eliminata alla fine dell'inverno.
L'arma sarebbe stata una pistola Glisenti, ma feci notare che era molto probabile che le camicie nere me la togliessero prima di poter accedere all'ufficio del podestà; si decise allora che avrei portato con me, nascosto in uno stivale, uno stiletto lungo e bene affilato. Per darmi la possibilità poi di fuggire, venne decisa una contemporanea azione dimostrativa contro una casermetta, fuori del paese, dove stazionava, ben protetta, una squadra di tedeschi.
L'azione si sarebbe svolta all'indomani, nella tarda serata.
Quella volta temetti veramente per la mia vita e scrissi pertanto una lunga lettera a mia moglie, sperando che le fosse consegnata, ovviamente nel caso io fossi caduto.
Era una sera calda, per non dire torrida, e, benché avessi preso un'aria misteriosa, come di uno che è a conoscenza di cose importanti, ma che può dirle solo a chi conta, dentro tremavo come una foglia.
Come previsto, all'ingresso della casa comunale fui fermato dagli sgherri fascisti; mi qualificai, fornii il documento, lo guardarono bene, lo girarono, lo riguardarono, rimasero perplessi, insomma non li avevo convinti.
Allora decisi di buttarla sul cameratesco: cominciai a vantarmi di aver catturato o fatto catturare diversi partigiani, a raccontare delle efferate torture a cui li avevo sottoposti, gonfio d'orgoglio; ogni volta che nominavo la parola banditi - che si riferiva ai partigiani - sputavo per terra, e poi, apoteosi finale, raccontai loro una barzelletta sul Duce che giurai aver raccolto dalle sue stesse labbra.
Cominciarono ad arrivarmi manate sulle spalle, offerte di bicchieri di vino, che rifiutai sdegnato, poiché ribadii che avevo urgenza di conferire, per questione della massima importanza, con il podestà. Una camicia nera si occupò della questione, assentandosi per una decina di minuti; ritornò trionfante per dirmi che potevo accomodarmi. Fu così che entrai fra quelle mura, lasciando la pistola all'ingresso, a seguito di cortese, ma ferma richiesta.
L'ufficio del podestà era letteralmente tappezzato di nero, tanto da sembrare una stanza in cui si stesse svolgendo una veglia funebre.
A parte un ritratto di Mussolini, le pareti erano ricoperte da fotografie che ritraevano un giovane dallo sguardo fiero, probabilmente il figlio morto.
Alzai il braccio in segno di saluto a un'ombra che mi si faceva avanti; ricambiò, rimanendo a lungo così, con l'arto teso, poi mi fece accomodare.
- Che avete da dirmi di così importante?
- Podestà, nei dintorni del vostro paese c'è il covo delle spie alleate.
- Lo dicevo io che quelle serpi si annidano ovunque.
E si alzò in piedi gesticolando, con gli occhi sbarrati.
- Dove sono?
Feci il nome di una località completamente disabitata.
- Quanti?
- Una cinquantina.
- Allora occorre tutta la guarnigione, sì tutta, perché così li prenderemo con le mani nel sacco, ma nel sacco li metteremo noi, vero?
- Certo.
- Quando cominciamo?
- Meglio subito, non vorrei che si insospettissero.
- Vero, bravo, siete un uomo d'azione. E quell'occhio dove l'avete perso?
- Nello sventare un attentato al duce.
- Oh, giorno sublime, che ci ha fatto incontrare! Noi insieme faremo grandi cose; ripuliremo la zona dalle canaglie, e poi tutta l'Emilia, tutta l'Italia, il mondo intero, sempre invincibili e invitti.
Chiamò una camicia nera e diede subito gli ordini:
- Partenza immediata. Avvisare i camerati tedeschi. Io verrò dopo con questo coraggioso ed eroico camerata.
Si udirono grida, ordini, automezzi che venivano messi in moto, marce che s'ingranavano e infine partirono.
- Adesso andiamo anche noi, subito dietro.
- Certamente.
- Mi potete aiutare ad allacciarmi il cinturone con la pistola? Ho un po' di pancia…
L'aiutai, e così riuscii a sfilargli la pistola dal cinturone e prima che se ne accorgesse premetti il grilletto due volte.
Ho ancora davanti agli occhi la sua espressione stupita dopo il primo colpo, che gli aveva trapassato la gola; alzai un po' la mira e un fiore rosso si allargò sulla sua fonte.
Mi girai subito verso la porta, perché mi aspettavo che accorressero l'autista e il milite di scorta.
E infatti fu così, ma non ebbero il tempo di vedere quello che era accaduto, colpiti entrambi al cuore.
Mentre uscivo risuonarono lontane le raffiche della nostra mitragliatrice, che avrebbero coperto la mia fuga, ma tacquero pressoché subito. Da come seppi dopo, sparati una decina di colpi, l'arma s'era inceppata.
Riuscii a uscire dal paese, ma come mi avviai per la campagna mi vennero incontro i fari degli autocarri tedeschi, ritornati prontamente indietro per difendere il loro fortino.
Mi acquattai in un fosso, sperando che sfilassero veloci. Invece si fermarono, scesero tutti i soldati e iniziarono un rastrellamento; vidi a un centinaio di metri un casolare con un fienile e mi diressi là quasi strisciando. Con immensa fatica vi arrivai e corsi a nascondermi fra la paglia.
Intanto, dalla parte opposta, udii chiaramente le grida della soldataglia fascista che, ritornata dall'infruttuosa missione e saputo della morte del podestà, partecipava al rastrellamento con obiettivo il paese e i suoi immediati dintorni. In pratica ero chiuso in un cerchio con possibilità di uscirne pressoché nulle e con solo una pistola, quella che avevo sfilato dal cinturone, con due proiettili. Non c'era, quindi, nessuna difesa, se non sperare, magari pregando.
Il buio della notte piano piano schiarì e l'alba sorse su un terreno brulicante di nemici inferociti.
Vidi con sgomento che avevano catturato alcuni uomini, quasi tutti anziani, contadini sorpresi nelle loro case e li spingevano avanti, usandoli come scudi.
Infine arrivarono al casolare, buttarono giù la porta con i calci dei fucili, si sentirono grida, urla, pianti.
Entrarono anche nel fienile, ma, stranamente, non lo perquisirono.
L'alba era livida e tutto mi appariva come un film rallentato, con quegli uomini che ammassavano al centro dell'aia una decina di ostaggi, fra i quali un ragazzo che forse non aveva nemmeno diciotto anni.
Una donna, disperata, cercava di raggiungerlo, frenata dal cordone di militi.
- E' solo un ragazzino! Non mi è rimasto che lui. Suo padre è morto in Grecia e suo fratello non è più tornato dalla Russia.
Un ufficiale tedesco, un tenente, probabilmente il comandante, si fece largo fra i soldati.
- Non è più tornato dalla Russia?
- Sì, disperso mi hanno scritto.
L'uomo si tolse il berretto e si chinò verso la donna, che si era inginocchiata. La prese per le braccia e l'aiutò a rialzarsi, poi la guardò negli occhi e le sussurrò qualcosa, che non potei udire, ma che dubito possano aver inteso anche i suoi soldati.
Infine, le carezzò i capelli, dolcemente, e questa volta, a voce alta, anche se un po' emozionata, le disse:
- Non temere, tuo figlio resterà con te.
E diede l'ordine di toglierlo dal gruppo degli ostaggi. Il povero ragazzo corse dalla madre e l'abbracciò singhiozzando, mentre il tenente stava a capo chino.
Il comandante delle brigate nere gli chiese cosa fare degli altri ostaggi e lui, dopo averli guardati a uno a uno, rispose: - Non sono banditi e quindi che tornino alle loro case.
- E per il criminale che ha ucciso il podestà?
- E' evidente che è fuggito e che per il momento non riusciremmo a trovarlo. Metteremo una taglia su di lui, ma dubito che possa avere effetto, visto quanto poco si è fatto amare il vostro capo. E ora torniamo ai nostri quartieri, magari a studiare un rastrellamento di più ampia portata.
Nel giro di una decina di minuti l'aia si svuotò: il cerchio, come si era chiuso, si riaprì e io guadagnai velocemente il bosco e poi la montagna.
Quando raccontai ai miei compagni tutta la storia rimasero perplessi, perché non volevano credere che esistesse un tedesco che avesse tanta umanità e, se devo essere sincero, avevo sempre pensato come loro pure io.
Ma quella tenerezza per una madre era senza ombra di dubbio la prova che non tutti nemici erano uguali.
Mi sarebbe piaciuto incontrarlo a guerra finita, dirgli che se avesse dato ordine di fucilare gli ostaggi, delle due pallottole che avevo una sarebbe stata per lui, e che invece ero contento, se non felice, di aver trovato un uomo degno di questo nome.
Passò l'estate, venne l'umido autunno e poi il rigido inverno. Altri lutti, ancora guerra, la perdita del nostro capo, io che avevo preso il suo posto, ma già alle prime avvisaglie della nuova stagione c'era la certezza che ormai si era prossimi alla fine e quando gli angloamericani arrivarono ad affacciarsi sulla pianura padana l'atteggiamento prudente che avevamo tenuto fino ad allora fu di colpo cancellato e scendemmo al paese, perché noi volevamo liberarlo, perché noi eravamo la nuova Italia, desiderosa di riscattarsi, di dimostrare al mondo che si poteva cambiare.
I fascisti se ne erano quasi tutti già andati e i pochi che trovammo erano solo dei fanatici cecchini che riuscimmo a stanare con grandi difficoltà e con la perdita di due dei nostri.
Restava il presidio tedesco e il loro comandante chiese di parlamentare con il capo dei banditi.
Fu così che ci incontrammo. Lui, in cambio di una tregua, domandava solo di lasciarli andare tutti, con il solo armamento leggero.
Lo guardai negli occhi.
- Dove vuole andare?
- Desidero riportare a casa i miei uomini. La guerra è perduta e sarebbe inutile combattere.
Gli raccontai allora dell'episodio di alcuni mesi prima; mi ascoltò con attenzione e concluse dicendo che anche lui, se fosse stato in me, si sarebbe comportato allo stesso modo.
Gli feci presente che la richiesta poteva essere esaudita, ma che, lasciare andare in giro armati lui e i suoi soldati, per un paese in ebollizione, equivaleva a metterli a repentaglio della vita, perché avrebbero incontrato altre bande, magari gente esasperata per tragedie vissute e che quindi era meglio che si consegnassero a noi, in attesa degli angloamericani.
Parlottò un po' con i suoi, poi venne verso di me, tolse la pistola dal fodero e me la consegnò. La stessa cosa fecero i soldati con le loro armi individuali.
Era una sensazione stranissima trovarsi in mezzo a chi avevamo tanto temuto e odiato e vedere nei loro occhi la stanchezza di una lunga guerra, il dolore per gli amici morti, l'incertezza per il domani.
Restammo insieme quasi ventiquattro ore e fu veramente salutare, un ritorno alla normalità che solo con il contatto così diretto fra ex nemici si poteva raggiungere alla svelta.
Il tenente si rivelò un uomo che aveva combattuto credendo nei principi della Germania nazista, ma che poi, per strada, battaglia dopo battaglia, aveva amaramente scoperto il suo errore.
Gli chiesi allora cosa avesse sussurrato, quel giorno, alla madre del ragazzo e lui, a bassa voce, come allora, quasi avesse a vergognarsene, rispose: - Le ho detto che troppe madri aspetteranno invano i figli vittime di questa guerra e probabilmente fra queste ci sarebbe stata anche la mia. Parlavo a lei, ma davanti a me vedevo mia mamma, invecchiata, con gli occhi angosciati per la perdita del figlio. Mi creda, questa guerra è stata per me un risveglio, ma anche l'inizio del tormento del rimorso.
Poi si sedette, accanto al fuoco e, abbassando gli occhi, mormorò: - Sia sincero, lei ha pietà di me, vero?
- No, perché lei ha pietà di se stesso, ha capito gli errori e vorrebbe che non fosse mai accaduto. Tempo e occasioni per rimediare ne avrà e sono sicuro che lo farà. Vede, la pietà che ha provato per quella povera madre è uno degli atti più belli, più puri che ho visto in questi anni di dolore.
Quando arrivarono gli alleati, gli consegnammo i tedeschi e in quell'occasione io e il tenente ci scambiammo gli indirizzi.
Dopo la guerra gli scrissi un paio di volte, ma senza aver risposta. Passarono gli anni, tanti, e poi ci rivedemmo.
- Dove? Quando?
- L'anno scorso, qui.
- Davvero?
- Ti ricordi, e fece tanto notizia, la visita in Italia per una raccolta di fondi del missionario comboniano Padre Alois Zimmermann?
- Sì, c'è stata perfino una festa in paese. Ma allora quel vecchio con la barba bianca e gli occhi celesti…?
- Sì, era lui.
- E perché non raccontare la cosa, se non dopo la tua scomparsa?
- E' semplice: perché così questa grande amicizia ha una purezza che è solo nostra. Un giorno potranno venirlo a sapere gli altri, e chissà se da questo episodio non possano imparare soprattutto che cosa sia la pietà. Ma ora questa stupenda storia di nemici diventati amici è giusto che non venga divulgata, per evitare anche che qualche giornalista scriva un articolo retorico o addirittura che ne travisi i fatti. Alois era veramente un essere dotato di grande umanità e conosceva il valore vero della pietà.
- Era?
- Sì,è morto la settimana scorsa; ho ricevuto ieri la notizia e sono addolorato come se mi avesse lasciato un fratello.
- E' una bella storia, Guercio, e sono contento che tu me l'abbia raccontata. Toglimi una curiosità: cosa hai provato quando hai sparato a bruciapelo al podestà?
- Al momento nulla, tutto preso dalla missione da compiere, dalla paura anche; ma poi, una volta in salvo fra i miei compagni, ho rivisto quella scena tante volte e ogni volta avvertivo un torcimento di stomaco, un senso di vuoto come di chi cade. Alla fine ho avuto pietà di me stesso e l'ho ancora; si doveva fare, era giusto farlo, ma nessun uomo ha il diritto morale di togliere la vita a un altro. Sono ricordi che ancora, a così grande distanza di tempo, aprono una ferita che nessun medico potrà mai guarire.
- Ti capisco.
Non dissi altro, perché sapevo che il Guercio non gradiva i complimenti.
Ritornai a casa mentre le ombre della sera calavano sul paese, senza tuttavia lenire il gran caldo.

(da Storie di paese - Seconda serie)

Il prezzo del silenzio
Mi ero sempre immaginato il silenzio come la totale assenza di suoni di qualsiasi tonalità, insomma un deserto di voci, di brusii, in cui nemmeno si sarebbe potuto avvertire il battito del cuore.
Sovente desideravo questo stato assoluto, senza vie di mezzo, o perché frastornato dal vociare confuso della gente che si accalcava intorno a me, persone di passaggio che s'affrettavano lungo la strada arrivando non solo a sfiorarmi, ma a volte a urtarmi. E poi il chiasso del traffico, lo stridio delle gomme delle auto che partivano a razzo al verde per poi fermarsi subito dopo, con altro rumore d'attrito, all'immancabile rosso dell'altro semaforo a nemmeno cento metri dal primo.
I rumori sono tanti, diversi, perfino monotoni come il cicaleccio fitto di due donne, oppure il tic tac della sveglia. Eppure del rumore abbiamo bisogno, anzi non potremmo vivere senza, poichéè dalla nascita che ci accompagna, ma poco a poco diventa un'abitudine e, come tale, con il tempo viene a noia.
Un giorno, non ricordo quando, mentre i miei timpani soffrivano per le note laceranti di un martello pneumatico, ho preso la grande decisione: basta rumore, basta questa monotona sofferenza.
E così ho lasciato tutto, lavoro, casa, perfino la famiglia e sono corso in montagna dove, in un fitto bosco di larici, anni fa, durante un'escursione, avevo intravvisto una casetta, ma che dico mai, una costruzione a uso agricolo, quattro mura a secco, due camere a piano terra e sopra il fienile che si protendeva di lato, creando un porticato, una specie di riparo per gli attrezzi.
Ho trovato il proprietario e ho comprato quel rudere, ho pure acquistato due sedie, un vecchio tavolo, una branda, pentolame, piatti e posate e un po' di cibo di scorta.
Così attrezzato mi sono ripromesso di godere per la prima volta il silenzio.
Voi non potete immaginare come desiderassi ascoltare il silenzio, sì ascoltarlo, perché quel non udire nulla è percettibile dalle orecchie. Non saprei spiegarmi bene, ma è un suono anche quello, o meglio non lo è, ma c'è.
Ricordo che finii di sistemare tutto la sera e mi coricai fremente di desiderio, ansioso di non udire nulla.
E fu proprio così, tanto che chiusi gli occhi e mi voltai su un fianco per dormire, ma ecco che una nota stonata disturbò il mio silenzio, un cigolio della rete del letto, e quando ritornai a mettermi di schiena quel rumorino quasi impercettibile, ma che lì risuonava come un tamburo, si fece risentire.
Scesi dal letto, gettai il materasso sul pavimento e lì mi coricai.
Ecco di nuovo il mio compagno muto, il silenzio che tanto avevo cercato. Vi assicuro che è qualche cosa di indimenticabile, sembra perfino di non esistere, ma fu di breve durata, perché un rumore furtivo di zampette si trasmise rapido dal pavimento ai miei padiglioni auricolari. C'era da aspettarselo, specie in montagna, in un'abitazione vecchia; avvertivo chiaramente il movimento su e giù, i percorsi di quel diavolo di un topolino, a caccia di qualche cosa da mangiare e a rompere le scatole a me.
Accesi il lume a petrolio e lo vidi, intento a zampettare. Il maledetto si fermò e mi guardò sospettoso e a ragione, perché già ero lì, pronto, con la scopa a calargliela sul corpo. Fuggì con una rapidità impressionante e per quella notte potei dormire in compagnia del silenzio.
Il giorno dopo, però, non persi tempo e andai alla ricerca del disturbatore notturno, ispezionando centimetro per centimetro, fessura per fessura, ma inutilmente.
Mi dissi che forse l'avevo spaventato e che non sarebbe tornato, ma non fu così e notte dopo notte divenne un'abitudine.
Con la bella stagione frotte di turisti presero d'assalto la montagna, piombarono nel bosco, arrivarono alla casetta e, colmo dei colmi, osarono anche bussare alla porta. Il giorno divenne un inferno, tanto da rimpiangere il brusio notturno del mio ospite a quattro zampe.
"Finirà", mi dicevo, "Verranno l'autunno e l'inverno, o no?"
E vennero infatti.
Con i primi freddi, con la pioggia quasi incessante il silenzio si mise da parte e dentro il mio rifugio era tutto un concerto di toc di tac di tic, tanta era l'acqua che scendeva dal soffitto.
Ho invocato chissà quante volte l'inverno, con la neve che mi avrebbe isolato, e infatti venne e con lei ritornò il silenzio, per poco, però.
Vicino i cannoni si misero a spararla proprio di notte e quando spuntava l'alba si battevano le piste, con i rumorosi gatti delle nevi, e più tardi gli sciatori venivano giù a rompicollo fra urla e schiamazzi.
E già quando si annunciava la primavera sono arrivati i miei familiari, a bombardarmi di parole, mentre mi tappavo le orecchie.
"Devi tornare, sei diventato matto?" "Vuoi fare la vita dell'eremita?" "Sei un disgraziato!"
E non che parlassero uno alla volta, ma insieme, con le frasi che si sovrapponevano, si mescolavano, con chi alzava la voce perché si udisse meglio, un coro straziante di suoni.
Mi sembrava d'impazzire, li ho pregati di zittirsi, li ho scongiurati, ma niente, anzi più imploravo, più gridavano.
Non so com'è stato, ma si sono trovato in mano un rastrello e ho cominciato a menare botte da orbi, con le urla che cominciarono a calare, fino a cessare del tutto, in un silenzio irreale, rotto solo dal mio ansimare.
Quando mi sono calmato, ho ritrovato il mio amico, quel suono non suono, ma sapevo che non sarebbe durato, vedevo tutto quel sangue intorno a me, sgomento mi atterrivano quei corpi senza vita, il prezzo del silenzio.
E allora ho cominciato a urlare, sempre più forte, fino a quando qualcuno non mi ha sentito.
Ora sono in altre quattro mura, dicono che è un ospedale, dicono che non sto bene; qui c'è silenzio, ma anche se non lo odo resta sempre dentro di me quell'urlo, lo ricordo, c'è e ci sarà sempre.
Non lo sentono le mie orecchie, ma l'avverte il mio spirito e non c'è più silenzio di fuori che possa essermi compagno.

Il sogno di Felicita
Quando nacque, il padre, uomo d'armi, ufficiale dell'allora Regio Esercito e appena promosso al grado superiore, non trovò di meglio di dichiarare all'addetto dell'anagrafe che, essendo particolarmente lieto dell'evento, avrebbe chiamato la piccola Felicità.
Forse l'impiegato non conosceva bene gli accenti, oppure comprese male, o meglio ancora si scordò quel baffino sulla a e così finì per chiamarsi Felicita.
In ogni caso il nome fu nettamente in contrasto con il destino di questo essere umano, votato dalle circostanze a uno stato di perenne infelicità.
L'ascendente dei genitori, in particolare del padre, la costrinse a un'educazione rigida, in cui nulla era lasciato al caso ed erano perfino scelte le eventuali amichette compagne di giochi.
Se poi si considerano i frequenti trasferimenti legati alla carriera del genitore, fu inevitabile che le conoscenze di Felicita fossero solo temporanee, cosicché al raggiungimento della maggiore età il concetto di un'autentica amicizia non era ancora innato nella fanciulla.
Al compimento dei 18 anni il padre era già generale di divisione, una posizione di prestigio che imponeva un matrimonio altolocato per quell'unica figlia.
La giovinetta non era né bella né brutta, altezza media, capelli neri, occhi scuri vivacissimi e che sembravano alla perenne ricerca di qualche cosa, forse di quella libertà che tanto le mancava.
Come era d'uso fece il suo ingresso in società al ballo delle debuttanti, una serata di galateo schizofrenico in cui dovette mostrare l'educazione ricevuta e poiché questa era stata rigida e inflessibile finì con il comportarsi come un soldato prussiano, con il risultato che scoraggiò tutti i cavalieri, tutti meno uno.
Il tenente Bruno Arvati, bello, alto, slanciato era la preda più ambita della serata, ma questi non aveva occhi che per Felicita e finì con il danzare con lei fino alla mezzanotte. Fu un colpo di fulmine e lei se ne innamorò subito, desiderando ardentemente di essere ricambiata.
- Signorina Felicita, lei balla divinamente.
Arrossì, abbassò gli occhi, mentre il petto le scoppiava.
- Se…se è d'accordo, chiederò al suo signor padre il permesso di incontrarmi ancora con lei.
La risposta fu un sì sommesso, come si conveniva a una fanciulla di buona famiglia.
Il generale non risultò per nulla d'accordo, ben conoscendo il carattere del tenente, gran donnaiolo e impenitente giocatore d'azzardo indebitato fino al collo, uomo più di apparenza che di sostanza.
Felicita pianse, si disperò, supplicò il padre, ma fu tutto vano e conobbe il primo rifiuto, il primo di tanti che l'accompagnarono nella sua breve vita.
Dapprima furono frequenti e le scuse del genitore le più varie (non è degno di te, non ha una posizione pari alla nostra,è uno scapestrato, andrebbe bene, ma non ha un soldo), poi cominciarono a diradarsi mano a mano che Felicita invecchiava. Lei finì con l'incupirsi e quando arrivò a compiere trent'anni sembrava già una donna matura, spenta e senza futuro.
La scomparsa prima del padre, poi quella della madre, anziché farle ritrovare la libertà che aveva persa, sembrarono rinchiuderla ancora di più in una vita di steccati, fra pareti senza finestre.
Così diceva all'unica amica: - Sono vecchia, il mio tempo ormai è passato.
E quella rispondeva: - Non è vero, sei ancora giovane, puoi ancora trovare l'amore.
Felicita si schermiva più per convenienza che per una nascosta speranza, ben sapendo come un cuore inaridito non possa più offrire nulla.
Così i giorni passavano, monotoni, grigi, senza primavere, solo lunghi desolanti autunni.
Fu l'anno in cui ne compì trentuno che si accorse di quello strano malessere, di quella tosse stizzosa che andava crescendo e che ogni tanto provocava sbocchi di sangue.
Andò dal medico, la visitò e fu ricoverata immediatamente all'ospedale, con un verdetto che all'epoca (fra le due guerre) era una sentenza senza appello: tubercolosi.
Lì la curarono un po', ma poi le consigliarono vivamente di cambiare aria, di andare dove questa era più sana e leggera e così si trasferì in un paesino del trentino, un borgo incantevole fra le Dolomiti.
La notizia dell'incurabilità della malattia non l'aveva di fatto sconvolta, tanto ormai da tempo era morta dentro. Fu quindi un ripetersi della solita vita anche nella nuova località, quasi sempre chiusa nella camera della pensione che l'ospitava, con rarissime uscite solo per andare in farmacia.
Durante una di queste, mentre chiedeva un prodotto vitaminico, chissà per quale segreto meccanismo le parve all'improvviso che l'uomo dall'altra parte del banco assomigliasse al tenente Arvati.
- Ecco signora, ecco il suo prodotto.
- Grazie, dottore.
E fece per uscire, ma poi sulla porta si fermò e si voltò a fissare l'uomo.
- Ha dimenticato qualcosa?
- No,è che lei assomiglia a una persona che ho conosciuto tanto tempo fa.
- Spero sia stata una conoscenza piacevole.
- Sì. - e corse fuori.
Da allora le visite in farmacia si intensificarono. Con tatto aveva chiesto informazioni e aveva così saputo che l'uomo non era un né fratello, né un parente dell'Arvati, ma anche che era considerato una brava persona, un po' sfortunata, poiché l'anno prima gli era morta la moglie, lasciandolo praticamente solo, non avendo prole.
- Ecco anche oggi la nostra signora. In cosa posso servirla?
- Avrei bisogno di cachet contro l'emicrania.
- Spero che questi gliela facciano passare.
Ma l'emicrania diventò ricorrente e i cachet non bastavano mai, giacché Felicita, come usciva dalla farmacia, li gettava nel torrente che scorreva nei pressi.
I contatti più frequenti crearono una situazione di imbarazzante complicità, perché anche l'uomo cominciò a desiderare la visita di quella cliente.
Pur mantenendo le distanze, dalla semplice ordinazione si passò a discorsi sul tempo, poi sulle proprie origini, sulle scuole frequentate, insomma si venne a creare una relazione di conoscenza.
E se mentre Felicita, una volta uscita dal locale, provava il desiderio di rientrarvi immediatamente, lui invece vedendola andarsene avvertiva un senso di vuoto, come se all'improvviso le mancasse.
Quel che non fecero le parole lo realizzarono gli sguardi, grazie ai quali entrambi compresero l'interesse dell'uno per l'altro.
Ormai i tempi erano maturi per una dichiarazione, per rompere quegli indugi che usi e convenienze riuscivano a frenare.
L'occasione sarebbe stata l'invito a visitare con lui una cascata nelle vicinanze del villaggio.
- Sembra che domani sia bello e dato che è domenica la farmacia è chiusa. Così ho deciso di muovermi un po', di fare quattro passi. A non più di due chilometri dal villaggio c'è un posto stupendo, con una cascatella da cui sembrano uscire le ninfe.
- Deve essere bello, dottore.
- Io lo considero incantevole. Non c'è nessuno di quelli che stanno qui che non l'abbia visto almeno una volta…
Felicita restò zitta, ma i suoi occhi scuri brillarono all'improvviso.
- Perché non viene anche lei? E' solo una passeggiata; le farebbe bene e…io sono un galantuomo, una persona seria. Per me sarà un onore accompagnarla.
Felicita si volse e fece per uscire, ma poi quando fu sulla porta girò il capo e disse: - A che ora?
- Alle 10. Passerò io dalla pensione.
- D'accordo. - e uscì raggiante.
Fu un giorno speciale per lei, tutta tesa a immaginare l'indomani. Per la prima volta si sentì leggera, avvertì che le membra si scioglievano, perdevano quella composta rigidità da soldato prussiano. Il mondo finalmente si apriva, il cielo così cupo lasciava intravvedere i raggi del sole.
Dimenticò tutto, il suo passato, la vita monotona e inutile,
iniziò anche a fantasticare, a immaginare le mani di lui sulle sue, avvertendo un leggero brivido che, anziché turbarla, la fece sorridere.
Forse non tutto era perduto, si disse, forse anche lei avrebbe potuto conoscere che cos'era l'amore.
I sogni hanno però vita breve e quando già era raggiante si ricordò del motivo per cui si trovava lì e riemerse, prima sommessamente, poi in modo prepotente, il pensiero della malattia, di quella morte che sembrava vicina.
Arrivò a sera angosciata e dopo la cena si coricò subito, cercando di non pensare, sperando di dormire.
E fra tanti patemi d'animo, improvvisi ripensamenti, speranze che nascevano e subito finivano, il sonno al fine la colse.
- Felicita, Felicita!
- Chi è che mi chiama? Non vedo nulla,è tutto buio, anzi no là in fondo c'è un chiarore.
- Felicita, Felicita, vieni da me!
- Dove sei e chi sei?
Felicita procedeva lungo una specie di galleria e passo dopo passo il chiarore si avvicinava e faceva scorgere l'immagine per ora indistinta di una persona.
- Felicita, vieni con me, dove più non si soffre.
I contorni della figura prendevano corpo ed era evidente che si trattava di un uomo.
- Se lì non si soffre più, vuol dire che sono già morta.
- Che cos'è la morte, se non la continuazione di se stessi nell'eternità.
- Ma chi sei?
- Non mi riconosci?
- No, non ti vedo ancora bene.
- Sono il tuo angelo custode.
Felicita osservò meglio e vide le ali che sovrastavano le spalle, poi corse al viso, in tutto e per tutto uguale a quello del farmacista.
- L'appuntamento è domani, non oggi.
- Che cosa conta il tempo di fronte all'eternità: oggi, ieri, domani non sono nulla per ritrovare te stessa, per mettere quell'accento sulla a che da troppo tempo ti manca. La felicitàè anche nel ricordo di un sentimento, tu che di ricordi ne hai avuti così pochi.
Si accorse che stava correndo, sentì la fatica dei passi ripetuti sempre più velocemente, avvertì l'affanno della respirazione.
Fu allora che si risvegliò tossendo e chiazzando di sangue la vestaglia da notte.
Prese fiato, ripensò al sogno, considerò che la sua vita ormai era prossima al termine, ma che prima aveva avuto la grazia di un desiderio ricambiato, e poiché ormai voleva troppo bene a un uomo che aveva già sofferto per la perdita della moglie decise che il giorno dopo avrebbe preso il torpedone delle 9 e sarebbe tornata a casa.
Così fece e il ricordo di lui l'accompagnò fino alla fine.

Nella nebbia           
Dubito che mi crederete, perché nemmeno io penso che sia vero, anzi ho l’impressione che sia stato un sogno, uno di quelli a cui partecipi così attivamente che al risveglio ti sembra di aver ricordato un fatto accaduto molto tempo prima.
Eppure, ho l’impressione di essere ancora presente, di udire la sua voce, di asciugarmi il volto bagnato dalla nebbia. Non lo dico per convincere voi o me stesso, ma tutto mi sovviene con una certezza e una lucidità come se l’avessi vissuto.
Dovete sapere che mi piace camminare, con qualsiasi stagione, anche nel freddo dell’inverno, pure se c’è la nebbia, anzi mi piace girovagare in mezzo alla caligine, ascoltando i rumori che essa attutisce e che arrivano alle orecchie come soffocati, quasi un sussurro anche quando si tratta del muggito di una vacca. E vado sempre là, cio è lungo quella ciclabile che si snoda nelle terre di Virgilio.
E’ stato così anche quel giorno di febbraio, non particolarmente gelido, ma calato dentro uno strato di una nebbia così fitta da scorgere appena i bordi della strada.
Camminavo al centro di quel viottolo scivoloso che serpeggiava fra i campi, ma non vedevo nulla e appena riuscivo a indovinare ai lati i rami delle piante intirizzite. Sembrava sera già inoltrata, ma era mattina, all’incirca verso il mezzogiorno, anche se la luce era scomparsa, e fu quindi con un certo sgomento che, guardando alla mia destra, scorsi sul suolo viscido un’ombra. Certo ebbi un moto di paura, perché era impossibile, in assenza di sole o del benché minimo chiarore che fossi io a generarla. Del resto, a osservarla attentamente, non denotava i miei contorni, resi ancor più abbondanti dal giaccone pesante che indossavo. Questi, infatti, erano più stretti, come se di colpo io fossi smagrito, ma il timore si accrebbe quando udii la voce.
- Non sei tu, son io.
Pensai che fosse frutto di un pensiero annidato nel cervello, ma lo sbigottimento aumentò quando la sentii di nuovo.
- Che temi, dunque, d’una voce senza bocca, d’un suono senza corpo? Non hai capito che son l’ombra?
Ebbi il sospetto di parlare fra me e me, quando, schiarendomi la gola, borbottai:
- Certo,è ovvio che è l’ombra che parla.
Mi fermai trattenendo il respiro, pronto a cogliere la risposta, ma questa non venne; però, l’ombra cominciò a girarmi intorno fino a porsi dinanzi a me.
- Nulla vuoi ammettere di ciò che vedi, solo tu accetti quel che credi.
Sbottai e fu d’istinto:
- Senti, non farmi diventar pazzo e dimmi tu chi sei!
- Da giovine qui pascevano le greggi, terra mia per un certo tempo fu, qui meditai e scrissi anche dei versi, qui nacqui e magari fossi restato, fra terre verdi, rane gracidanti, i canneti e i salici lungo il fiume, e se non l’hai ancor capito, son Vergilius.
La testa mi rimbombava, perché non si può credere a quel che è impossibile. 
- Non ha senso! Sei morto da più di venti secoli e quindi io con la testa non ci sto. E poi parli la mia lingua.
L’ombra si scostò e si pose alla mia sinistra:
- Dimentichi che accompagnai Dante in un viaggio che tu di certo hai già studiato.
Rifiutavo un’evidente illogicità.
- No, tu non esisti, sono sicuro che questa mattina non sto bene, forse è stata la colazione, forse questo freddo.
- Ascoltami, allora, e potrai capire.
Da dove io vengo non c’è più luce e solo in giorni come questo, in cui l’oscurità si mesce, possono anche le ombre passar lo Stige, ché il vecchio Caronte nemmen s’accorge, ma al primo chiarore lesti ci tocca ritornare.
Tu non sai com’è laggiù, un tempo senza ore, nulla si sente, niente si vede, si è, senza essere.
- Dunque, mi dici che tu sei risalito dagli Inferi?
- Sì.
- E allora con Dante non hai fatto un viaggio con tanto di descrizioni di gironi, di dannati, di condanne?
L’ombra si rannicchiò.
- Orsù, rispondi.
- Del tempo eterno, dell’altro mondo, ognun vede ciò che vuole. Lo pensa in vita per non temere il fatale incontro. Credevo anch’io di traghettare con Caronte, lo vedevo quando gli ultimi istanti d’una vita mi spalancavan quella porta, e ancor lo credo, anche se nulla ho visto o vedo.
Povera ombra, che t’aggrappi al ricordo di come pensavi l’Ade in vita e invece forse nemmeno sei, né stai parlando con costui, perchéè solo frutto di ciò che si cela in una fantasiosa mente.
- Allora, sto sognando, vero?
- Chi lo può dire, se non l’interessato. L’oscura caligine ti ha il dopo richiamato, quel passo ultimo che lascia indietro gli altri senza saper se se ne faranno ancora.
La testa mi doleva, incerto fra il credere a ciò che mi sembrava o l’accettare ciò che la mia mente partoriva.
L’ombra c’era, io la vedevo, ma un altro l’avrebbe scorta?
Nel dubbio stetti al gioco e ripresi a conversare:
- Sei quindi ritornato alla tua terra.
- Sì, mai nulla è più bello di ciò che tenevi da fanciullo, un mondo che il ricordo sfuma e tutto fa sembrar ancor migliore.
Non c’è fama, né ricchezza che possano far tornare alla giovinezza, di quando le corse eran nel sole, il refrigerio nei piedi immersi nel dolce fiume e il calore nella casa che alla sera t’accoglieva.
E la quiete di giorni senza fretta, a sonnecchiar nell’erba, lontani i campanacci degli armenti e accostato all’orecchio il frinir d’una cicala.
A guardare il cielo, le nubi che veloci scorrevano, per poi sparire all’orizzonte, dove Roma, possente e altera, io sognavo. Fossi rimasto in questa landa di villiche virtù, di semplici giornate forse non m’avrebbe colto, pria del tempo, quel feral colpo d’un sole maledetto, mentre alla villa di Partenope m’accingevo a ritornare dopo un bagno di cultura nell’Ellade asservita. Tanto imparar per nulla, per varcar la soglia infinita che mi s’aprì per strada.
Lui parlava e io vedevo la nebbia che s’alzava, come un sipario s’apriva in una luce che pareva dorata; in un’atmosfera incantata greggi pascolavano quiete, cullate dal suono dello zufolo d’un pastorello accovacciato all’ombra d’un salice. Com’era allora, io vedevo, volgendo lo sguardo all’orizzonte, oltre il quale immaginavo una città cinta da possenti mura, le vie animate da una moltitudine, i palazzi solenni, pasti in case patrizie allietati dai versi declamati da un poeta che non m’era sconosciuto e che, benché in altra foggia addobbato, aveva le mie sembianze.    
- Eran giorni felici e non sapevo; seduto in riva al fiume parlavo con le acque e il suo dio mi rispondeva con il volo d’un airone, che sempre là sembrava andare e della Caput Mundi la strada m’indicava. Là voleva il fato che io mi dirigessi, lasciando questo mondo che allor piccolo pareva, ma che solo la lontananza me lo fece scoprir immensamente grande. Più col tempo vuoi salire,  più poi te ne dovrai pentire. Ah casa avita, a cui mai più tornai, ebbro di gloria da pensar d’essere eterno, da scordar il respiro della vita che i trionfi di Roma celavan alle mie orecchie. Qui ero io, là solo il poeta.  
Avvertivo il batter d’ali sopra il mio capo, alzavo gli occhi e seguivo il volo, anzi l’affiancavo, e mentre sparivano i quieti campi di Andes antica davanti a me s’aprivano squarci di  selve inesplorate, di strade consolari percorse da carriaggi e da viandanti tutti diretti là, in quella città per cui valeva forse la pena di abbandonare l’oasi di serenità che il lento Mincio accarezzava con le sue fresche acque.
- Mai, mai tornerà quell’età, e l’uomo corre, veloce, sapendo che un giorno tutto finirà e allor s’inventa un mondo per il dopo, affinché anche la notte che s’avvicina sia il rifugio d’un sogno, un passo non voluto, ma non incerto. Nulla è più oscuro di ciò che non comprendiamo, niente è più triste del crearsi un’illusione.
Si rialzò, allungò le braccia, quasi stirandosi le membra.
- Anche Dante ha scritto ciò che in sogno ha sperato, ma or s’aggira l’ombra invano, un niente di nulla che s’aggiunge al nulla. Nemmeno ombre siamo, ma solo fummo e mai più saremo.
Sentii i singhiozzi, ma le lacrime rigavano le mie guance, i singulti scuotevano il mio petto e quando alfine, sempre più commosso, cercai in un impeto di pietà di stringere a me l’ombra le braccia si chiusero nel vuoto, mentre  lontano un eco si spegneva e quasi a nenia ripeteva “Nemmeno ombre siamo, ma solo fummo e mai più saremo”.
Cercai invano, almeno una traccia io volevo, ma com’era apparsa l’ombra se n’era andata, lasciandomi la testa  confusa, con gli occhi abbagliati da un po’ di sole che finalmente spezzava l’uniformità del soffocante grigiore.
Il ricordo si fa poi più disordinato e nemmeno rammento se, tornato a casa, a qualcuno ho raccontato.
Non sempre, ma comunque non è raro il caso che al risveglio sia colto dalla memoria di questa storia che stento a credere vissuta, ma che è rimasta in me con il peso dell’esperienza, una vicenda di cui non dubitare solo nel buio di una notte, quando occhi e mente placidi riposano e cercano invano risposte con un sogno.

Anno Domini 2150
Quella domenica di giugno dell'anno 2150 si annunciava eccellente sotto tutti gli aspetti: sole splendente, cielo azzurro, temperatura gradevole, divieto assoluto del traffico automobilistico, insomma tutto quanto necessario perché i romani accorressero in frotte a piazza San Pietro per la messa, senza la necessità di dover ricorrere alle cariche delle guardie svizzere per convincere anche i più riottosi.
Ma alle 11, ora fissata per la cerimonia, l'immenso anfiteatro appariva tristemente vuoto. Dietro le finestre dei palazzi del Vaticano stavano volti sgomenti, mentre gli occhi vagavano nel nulla. Il pontefice, San Giovannino I (era ormai da tempo prassi che il papa venisse santificato una volta superato il periodo di prova dei canonici sei mesi) camminava su e giù per il lungo corridoio, con sguardo furente e pensieroso, e alla fine si decise a chiamare il segretario di stato, il cardinale Prosperone.
- E' inammissibile. Che escano subito le guardie, in tenuta di guerra, e radunino tutti i romani. Mi raccomando tutti, anche i paralitici, e senza tanti riguardi.
- Sarà fatto.
Brevi ordini secchi, i militi svizzeri indossarono le tute antisommossa e, imbracciati i mitra a lampi paralizzanti, partirono per eseguire l'incarico ricevuto.
Intanto le lancette dell'orologio Luigi XV giravano, fino a che a mezzogiorno, con la piazza ancora vuota, San Giovannino I, affranto, si accasciò sulla poltrona, non senza aver tirato prima un paio di moccoli.
- Prosperone! Prosperone! Ma che cazzo succede, che non tornano nemmeno gli svizzeri.
Il segretario di stato, visivamente preoccupato, si affacciò al santo uscio e mormorò:
- Santità,è arrivato l'onorevole Fiaschettino che ha da riferire notizie importantissime. Lo faccio accomodare?
- Fiaschettino? Chi è? Ah, sì, quello con la faccia da cretino, tutto casa, chiesa e amanti. Che entri.
L'onorevole si precipitò a genuflettersi, sbaciucchiò più volte il sacro anello, poi quasi piangendo prese a parlare:
- Cose terribili, ho da raccontare, Santità.
- Suvvia, basta con i preamboli e sentiamo.
- Sono tutti all'EUR, anche gli svizzeri.
- E che fanno?
- E' da ieri che è comparso uno straniero, che sembra uno di quei figli dei fiori di più di un secolo fa.
- E allora?
- Li ha stregati, ascoltano le sue parole in estasi.
- E che dice?
- Che tutti gli uomini sono uguali, che nessuno deve prevalere sull'altro, che l'onestà e la bontà devono reggere il mondo.
- Ho capito:è un povero scemo.
- Magari lo fosse!
- E perché?
- Dice di essere il figlio di Dio.
- L'ho detto che è scemo. Ma come possono credere a queste panzanate!
Intervenne allora il cardinale Prosperone:
- Santità, hanno creduto alle nostre per più di duemila anni…
- Ma noi siamo più intelligenti, più furbi.
Fiaschettino si grattò in testa e poi timidamente riprese a parlare:
- Il problema è…
- Che problema?
- Il problema è che fa dei miracoli.
- Dei miracoli? Ma non mi dirà che crede a queste cose!
- Li fa.
- Insomma, sentiamo che miracoli fa.
- Era accorso per vedere quello che succedeva anche il cavalier grande ufficiale imperatore Benito Bugiardoni, quello arrivato alla decima clonazione, e…
- Anche il mio sodale è là?
- Sì. Dicevo…e lo straniero gli ha detto subito che sapeva chi era e che ora voleva che si confessasse davanti tutti.
- Immaginiamoci, quello non parla nemmeno al suo confessore!
- E invece ha parlato, ha spiegato di come abbia ripetutamente fregato tutto il popolo, svelando anche i retroscena dell'operazione Vaticano III, insomma quel prestito obbligazionario che ha rovinato milioni di risparmiatori e che ha invece ingrossato le sue e le vostre casse, Santità. Perdonate il mio ardire, ma quello cantava come un canarino.
- Il nome, voglio il nome di questo criminale!
- Si fa chiamare…Gesù.
- Un millantatore, perché Gesùè morto da oltre 2.000 anni.
- Ma non è risorto e salito al cielo?
- Si dice, ma se ne dicono di cose…
- Inoltre, gli svizzeri gli hanno giurato obbedienza.
- Infingardi! E pensare che li abbiamo sempre trattati bene, abbiamo anche sorvolato su certe loro abitudini sessuali.
Il cerimoniere vaticano si affacciò sulla porta:
- Sua Santità, una visita.
- Era programmata?
- No.
- E allora che si prenoti!
- E' insistente, dice di essere l'ufficiale giudiziario del Paradiso.
- E' la giornata degli scemi oggi! Che vuole?
- Ehm, come si dice…
- Allora?
- Ha un provvedimento di sfratto.
- Un provvedimento di sfratto? A me che sono il padrone del mondo? Ma che vada…
- Da nessuna parte!
San Giovannino volse gli occhi alla porta e fissò con occhi di fuoco chi aveva pronunciato quelle tre parole.
- E tu chi sei, tu che osi parlarmi cosi?
- Sono un messaggero e gli ordini che porto sono immediatamente esecutivi.
Il pontefice trasalì, perché guardando meglio il nuovo venuto, un giovane alto, biondo, dagli occhi cerulei, in jeans e bomber che fasciavano un corpo atletico e perfetto, scorse delle propaggini piumate che emergevano dalla schiena.
- Sì, sono un angelo e per tutte le malefatte vostre, durate anche troppo, sarete tutti rinchiusi. Ho con me il capo dei carcerieri. Entra, Lucifero!
Fu allora che Giovannino si risvegliò di colpo, tutto ansante e sudato.
Premette il campanello sul comodino e subito accorse il cameriere personale.
- Avete bisogno?
- Ho avuto un incubo. Che giorno è oggi?
E' domenica, il 21 giugno del 2150.
- Oggi allora c'è la messa con tutta la gente fuori, vero?
- Sì.
- Meno male! Che brutto incubo. Com'è il tempo?
- Normale.
- Mi sembra tutto buio.
- Da noi è sempre buio.
- Scusa,è brutto quel tuo difetto.
- Quale difetto?
- Quei piedi caprini.
- Noi siamo tutti cosi!
- Non ricordo il tuo nome. Come ti chiami?
- Belzebù, Santità, ma adesso si prepari, perché i dannati l'aspettano inferociti.

Il percorso del verme
Il vecchio si alzò dalla panchina, appoggiandosi al bastone, e quasi incespicò contro la radice di un albero che aveva deciso da tempo di avventurarsi nel vialetto. Tirò un moccolo, si pulì la scarpa sul bordo dei pantaloni e nel far questo notò qualche cosa che avanzava a fatica sul terreno riarso dalla lunga siccità.
Si chinò per guardar meglio e vide un verme che cercava disperatamente un po' di refrigerio. Ormai era pressoché disidratato e si trascinava penosamente verso una pozza d'acqua lasciata dall'irrigazione mattutina.
Il vecchio storse il labbro, alzò il piede e lo abbassò di colpo sul verme; pressò bene fino a quando lo ridusse a una poltiglia incolore.
- Non è che un verme - disse, allontanandosi.
Non fece in tempo a fare una decina di metri che due giovinastri, in cerca di rapidi guadagni, gli si pararono dinnanzi e gli cacciarono un coltello sotto la gola.
- Fuori i soldi, nonno!
Tutto tremante non riuscì nemmeno a trovare il portafoglio e allora i due gli diedero uno spintone, gli misero le mani addosso, trovarono la tasca dei pantaloni con il poco denaro che aveva, glielo strapparono e prima di andarsene lo tempestarono di calci e di pugni.
- Sei un verme! Uno che in tasca ha solo 10 euro non è un uomo, ma un verme - gli urlarono allontanandosi.
Era già mezzogiorno, ora canonica del pasto, e con il magro bottino decisero di tentare un altro colpo al chiosco dei giardini.
Lì però non trovarono un vecchio, ma un gestore di mezza età e un giovane ben piantato, che riservarono loro un'accoglienza del tutto speciale.
Picchiati, sbeffeggiati, pesti e con i vestiti a brandelli riuscirono a fatica ad allontanarsi, fra le invettive che tormentarono le orecchie già tumefatte.
- Rientrate nelle tane, non siete che dei vermi.
Sistemati i rapinatori, i due decisero di consumare il pasto e si sedettero a un tavolo all'aperto. Pasta precotta, insalatina, salume, birra, insomma niente di particolare, ma un'attrazione irresistibile per chi ha la fame come indissolubile compagna.
Era venuto dall'Africa per trovare un mondo migliore, aveva lasciato la sua casa, i suoi affetti per sperare di separarsi da quella presenza ingombrante che gli occupava uno stomaco fin troppo vuoto, ma trovò che la realtà era diversa e ora si vedeva costretto a mendicare solo per sopravvivere.
Si fece avanti, deglutendo e con la punta della lingua sulle labbra; non disse nulla, ma si mise a fissare i due che si ingozzavano.
- Ne vuoi un po'? - chiese il più giovane.
Annuì con il capo.
Quello si alzò con il panino in bocca, gli si avvicinò e mandò giù tutto in un sol boccone; indi, emise un rutto lancinante, seguito da un significativo "Ti è!".
Rimase fermo, ma sentiva il sangue che saliva al cervello e quando il giovane gli propose nuovamente di mangiare, alla sua frase - Lecca i piatti, che un po' di briciole ci sono - reagì in modo incontrollato. Sollevò una sedia e la precipitò una, due, tre volte sulla testa dell'uomo, poi si girò a cercar l'altro, ma questi già correva via come una lepre.
Guardò la sua vittima, esanime, il cranio fracassato, il sangue che già attirava le mosche; si sentì mancare e si trascinò fino al bagno, raggiunse il lavandino, mise la testa sotto l'acqua, poi si guardò nello specchio: un volto tirato, gli occhi spiritati, i capelli grondanti.
Si mise una mano sugli occhi e si disse:Che ho fatto, che ho fatto mai? Sono un verme, nient'altro che un verme.
Quando venne la polizia, si lasciò ammanettare senza opporre resistenza.
Fu portato al carcere e gettato in una cella sudicia.
Inebetito, osservò quello squallore, peggio della sua casa in Africa.
Sul pavimento lurido correvano ragni e scarafaggi, ma in un angolo, vicino alla latrina, su quella che una volta doveva essere una mattonella bianca, scivolava un verme.

Il Natale del 1929
Quando si avvicina il Natale si avverte nell'aria una sensazione di festa, nonostante il consumismo e la società attuale abbiamo relegato questi giorni a una fiera dell'apparenza, dove fra tante luci, cibarie e regali l'unica cosa che manca, edè la più importante,è quello stato d'animo che apre il cuore a un sentimento di pace.
E' ormai tanto tempo che questa ricorrenza ha perso le sue caratteristiche religiose e spirituali che la rendono unica e così era già nel 1995. Ricordo giornate fredde, ma con il sole e una spruzzata di neve che imbiancava tutta la campagna. Non rammento se fosse la mattina della vigilia o il giorno prima quando andai a far visita al Guercio per porgergli gli auguri e donargli un piccolo presente, un panettone comprato al supermercato.
Tutto il resto invece è ben impresso nella mente, almeno nelle sue linee generali, una caratteristica tipica di uno che inizia ad avvertire i segni dell'età che avanza.

                                                                                                                                                 ._._._

La porta di casa era accostata, così che, mentre bussavo, entrai e trovai il mio caro amico seduto in poltrona, intento a leggere il quotidiano locale. Ci fu uno scambio di convenevoli, compresi gli auguri, con il Guercio che si schermì per il piccolo omaggio e che mi fece sedere.
- Parliamo un po', visto che non ci si vede spesso.
- Fai pure, parliamo di quel che vuoi.
- Vedi,è proprio dei vecchi dimenticare i fatti del giorno prima e ricordare quelli accaduti tanto tempo fa. Come ti ho visto entrare, la memoria è tornata su un Natale del 1929. Pensa che allora avevo nove anni, ma è come se il fatto che ti racconterò fosse accaduto ieri.
Ripose il giornale e si fece assorto, come se la sua mente cominciasse a leggere quello che stava per dirmi.
- Oggi questa festa ha perso tutto il suo sapore,è diventata ostentazione e nient'altro, ma ai miei tempi era completamente diverso e anche chi non era religioso viveva questi giorni in uno stato di emozione.
All'epoca poi c'era un motivo in più per attendere il Natale con trepidazione. Non è che in casa ci fosse molto da mangiare, ma in quel giorno si facevano miracoli per preparare un pranzo quasi da re.
Scusa se ti tedio, ma sono divagazioni che si sovrappongono al ricordo principale ed escono così senza che possa frenarle.
- Non preoccuparti, poi sono sempre osservazioni interessanti.
- Dici davvero?
- Certamente.
- Va bene, allora, posso cominciare, sperando che le mie divagazioni se ne stiano quiete dentro alla mia testa.
Era la vigilia, in un inverno freddo e con tanta, ma tanta neve. In strada, benché spalata, ce n'era ancora, perché la vedevo mentre scendeva, in un turbinio di vento. Erano fiocchi piccoli, ma tenaci e che giunti a terra si attaccavano l'uno all'altro, così che la coltre cresceva ed era inutile pensare di toglierla fino a quando non si era fermata, perché sarebbe stata una fatica inutile.
Me ne stavo a guardarla dietro la finestra, per fortuna al caldo, perché nella stufa ardevano dei bei pezzi di legno stagionato, che bruciava sfrigolando e ogni tanto anche con degli scoppiettii, come volesse ricordare a me che lui stava facendo il suo dovere.
Ecco, vedi che sto divagando nuovamente.
- Non preoccuparti, continua.
- Già immaginavo i regali che avrei trovato la mattina, poche cose e di poco conto in verità, ma era un pensiero solo per me. Però quel Natale io aspettavo molto di più. Ci avevo pensato fin da novembre e da allora era sempre stato nelle mie preghiere, tanto che a scuola, dove ci avevano fatto scrivere la letterina a Gesù bambino, l'avevo messo nero su bianco.
Non rammento esattamente le parole, però il senso era questo: oltre a chiedere di mantenere in buona salute la mamma, lo pregavo di farmi trovare quel papà che non avevo mai avuto.
Tutti gli altri avevano il papà, meno io, e mi sembrava di essere un mostro, un paria, un essere inferiore. A volte vedevo i miei compagni che all'uscita da scuola avevano degli uomini che li attendevano, mentre io al massimo avevo la mamma.
Mi sentivo diverso, come incompleto, e arrivavo perfino a desiderare gli scapaccioni di un padre di cui ogni tanto i miei amichetti si lamentavano.
Come sarebbe stato bello prendere uno schiaffo dal babbo, come sarebbe stato bello trovare in famiglia una voce maschile che mi riprendeva, ma che sapeva anche rassicurarmi!
E invece no, io il papà non l'avevo, e quindi potevo solo immaginare, perfino invidiare.
Se Gesù bambino c'era, perché non avrebbe dovuto farmi una grazia del genere? Non chiedevo di avere più degli altri, ma mi bastava come gli altri.
Ero tuttavia già abbastanza sveglio da capire che Gesù ci può donare il suo amore, che è immenso, ma non qualche cosa di materiale, perché quello è proprio degli uomini, e non di un Dio.
Però, ci speravo, mi illudevo, o forse solo lo sognavo.
- E allora?
- Non avere fretta, perché mentre racconto mi sembra di rivivere quel giorno, e poi sono vecchio e devo fare tutto con calma.
- Va bene, non t'interromperò più.
- La giornata trascorse quieta, io al massimo ero indaffarato a preparare il presepio, perché allora si usava così e l'albero con le palline colorate nemmeno potevamo immaginarlo.
Avevo un po' di febbre, un malanno di stagione, e perciò rimasi sempre in casa, tanto che non sarei andato nemmeno alla più bella delle messe, quella di mezzanotte.
Arrivò la sera, io e la mamma consumammo una cena frugale, di magro, perché tanto l'indomani ci saremmo rifatti abbondantemente, e poi la trepidazione e forse anche la febbre non erano compatibili con l'avere fame.
Andai così a letto presto, senza riuscire a prendere subito sonno.
Ricordo che guardavo il buio, lo fissavo e vedevo; in genere quando è buio non si vede niente, ma io riuscivo a scorgere quello che c'era nel buio.
Apparivano e sparivano di colpo le immagini dei miei compagni insieme al loro papà, sembrava quasi una parata, interrotta ogni tanto dalla figura di mia madre, che non so dire se era una mia fantasia o se era veramente lei che veniva a vedere come stavo.
Alla fine mi addormentai, credo, dico credo perché quello che avvenne dopo non può essere spiegato razionalmente se non come un sogno.
Una voce, maschile, prese a chiamarmi. Mi diceva: Annibale, domani sarò lì con te. E io gli rispondevo:- Ma chi sei? E quello: - Non mi riconosci? Sono il tuo papà.
E c'era un'immagine confusa di un uomo alto, dalle spalle larghe, ma non vedevo altro che dei contorni.
- Il giorno di Natale sarò con te. Sei contento?
- Sì, ma perché non sei venuto prima e non stai con noi per sempre?
- Perché io esisto solo così.
E' tutto quello che rammento, così come ricordo la mamma che interruppe il mio sonno e mi invitò a scendere, perché era Natale e giù c'era una grande sorpresa per me.
Ancora addormentato, imboccai le scale, rischiando di ruzzolare giù, ma mi aveva preso una frenesia, forse per effetto del sogno, e io dovevo andare a vedere subito.
In cucina trovai Don Zeffirino e un pacchetto sul tavolo, e accanto al regalo una lettera.
"Buon Natale, Annibale."
"Buon Natale, Don Zeffirino."
"Gesù bambino ha letto la tua lettera e l'ha fatta avere al tuo papà. Ma dov'è lui non può venire e allora ha risposto con uno scritto."
Presi tremando la busta, l'aprii e dentro c'era un foglio con poche righe e anche per questo le ricordo.
Caro Annibale, mio adorato bambino.
Tu non mi puoi vedere, ma io da qui ti guardo.
Il tuo papàè sempre con te, in ogni momento, e anche se non ti stringe la mano, perché non può, sappi che ti vuole tanto bene.
Buon Natale, piccolo mio.
Il tuo papà.
Sinceramente, la ragione mi diceva di non credere, ma la passione, il sentimento prevalsero e così presi la lettera e la strinsi forte sul mio cuore.
- E dopo, passato quel giorno?
- Mi convinsi che non era vero, che la maestra aveva consegnato la mia letterina alla mamma e che lei ne aveva parlato con Don Zeffirino. Quel povero prete di campagna allora si era improvvisato papà, a fin di bene ovviamente, per regalarmi un Natale diverso dagli altri.
- Poi hai scoperto chi era veramente tuo padre e te ne sei anche vergognato.
- Sì,è vero edè per questo che io ancor oggi penso a quella lettera, scritta da un vero papà. Adesso forse capisci anche perché, nonostante le incomprensioni di carattere politico, io sono sempre stato affezionato a Don Zeffirino, che mi ha sempre dimostrato, quando le circostanze lo richiedevano, di volermi bene come un padre.
- Per te, comunque, la mancanza di un padre è stata una privazione?
- Nella vita puoi rinunciare a tutto, alla carriera, al lavoro, ma ai sentimenti no, perché sono quelli le uniche cose che contano.
Io avuto tanto, ma mi mancherà sempre la stretta di mano di un papà.
- Però, hai avuto l'affetto di tua mamma, dei tuoi figli, di tua moglie.
- Sì, sono stato ampiamente ripagato di quanto non ho avuto, ma, se devo essere sincero, tutti i giorni, ma soprattutto in una ricorrenza come questa mi manca tanto la Tilde.
- Purtroppo la vita è così: quello di cui abbiamo gioito in passato poi sarà un inevitabile motivo di dolore.
- Hai ragione, Renzo. Vedi, noi siamo come ombre nella nebbia e talora capita che un raggio di luce ci illumini. Quando questo viene meno, ritorniamo l'ombra che eravamo e non c'è ricordo che tenga che possa rischiarare la nostra vita.
Mi prese una mano, me la strinse con calore e guardandomi negli occhi mi disse solo: -Tanti auguri, amico mio.
Lo lasciai che celava il volto dietro il quotidiano per non mostrare le lacrime.
Fuori l'aria sembrava meno fredda; guardai il cielo che si era ingrigito. Non feci in tempo a pensare che era un tempo da neve che cominciarono a cadere i primi fiocchi. Larghi, candidi volteggiavano lentamente fino a posarsi a terra quasi con delicatezza. In fondo alla strada due zampognari iniziarono a suonare. Mi volsi e scorsi il Guercio che mi guardava attraverso i vetri della finestra; se ne accorse e alzò una mano per salutarmi, ma tornò subito a osservare la neve che scendeva sempre più copiosa, proprio come in occasione del Natale del 1929.

(Da Storie di paese - seconda serie)

Era solo un pomeriggio d'estate
Era solo un pomeriggio d'estate, torrido, senza un filo d'aria, le cicale che frinivano incessanti, i bambini che si rincorrevano intorno allo stagno dove si rinfrescavano insonnolite le anatre.

- Ma l'hai visto oggi? Non ha quasi mangiato, anzi sembrava che si addormentasse sul piatto.
- L'ho visto, l'ho visto.è invecchiato tanto.
- Fosse solo quello, Giuseppe. Ormai si bagna nel letto,è diventato anche incontinente.
- Purtroppo sì, Luisa.
- Io mi chiedo come potremo andare avanti così. Fra poco si farà addosso qualche cosa d'altro…Io non so se riesco a stargli dietro.
-è un bel problema, ma che possiamo fare?
- Le possibilità ci sono. O lo mandi all'ospizio, dove se la sbrigano loro, o prendi una badante.
- Se devo spendere per assistere mio padre, preferisco la badante, perché almeno non si sente abbandonato, non si sente scaricato.
- Parla piano, perché magari è li che ascolta.
- Macché, non vedi che dorme sulla sua solita panchina sotto il salice! Comunque ne dobbiamo riparlare, perché sono d'accordo che c'è da fare qualche cosa.

Sembra che dorma, perché ho gli occhi chiusi e la testa che ciondola, ma ho sentito tutto. Dunque siamo arrivati a questo punto, a quello che temevo.

Il vecchio osservò le mani ossute, dove le rughe trionfavano senza ostacoli, poi corse con lo sguardo allo stagno, intorno al quale i nipotini, incuranti del caldo, si rincorrevano. Avevano una bella pelle liscia e tanta tanta energia, quella che invece in lui stava sempre più esaurendosi.

Non è colpa mia se mi piscio addosso; quando mi scappa cerco di andare alla svelta in bagno, ma non ho più il vigore di solo qualche anno fa. La trattengo più che posso, ma come sono pressi della tazza lei se ne esce con una furia incontrollabile. Forse ho bisogno di un pannolone…Come si diventa da vecchi, peggio dei bambini e mentre per loro tutto va in meglio per me si scivola, quasi inconsciamente verso il peggio.
No, l'ospizio no, l'anticamera della morte; sono nato, cresciuto in questa casa e qui voglio morire. Meglio una badante, magari una bella ragazza russa.


L'uomo si scosse, inarcò un po' la schiena ed eresse il capo.

Se proprio qualcuno mi deve mettere le mani addosso, mi deve frugare in quei posti,è meglio che sia una bella ragazza. Mani leggere, dita affusolate, che scorrono sulle mie parti intime. Sì, sarebbe una cosa stupenda. Se ci penso, però, che mai potrei farle, come potrebbe rinascere una virilità ormai perduta? Faccio perfino fatica a trovarlo quando devo orinare, un peduncolo di carne morta e avvizzita che fa schifo perfino a me. No, la badante no, specie se giovane e bella, perché sarebbe solo motivo di mortificazione.

- Forse la badante è la soluzione migliore. Resterebbe fra noi e non si sentirebbe abbandonato. Adesso che ricordo, la moldava che assisteva la signora Erbuschi, morta l'altro ieri, dovrebbe essere libera.
- Sì, Luisa, sai che ti dico? Questa sera vedo di rintracciare questa moldava, così risolviamo il problema.

La moldava? Altro che ragazza giovane e bella.è una donnona sulla sessantina, con due braccia da scaricatore di porto e ha tutti i peluzzi in faccia. Perché dovrei farmi mettere le mani addosso da quell'energumena?
Devo trovare una soluzione, perché capisco che ormai sono di peso e non posso fare torto a mio figlio e a sua moglie, perché non devono sacrificare la loro vita per uno che andrà sempre peggiorando.
Già perdo la memoria e non mi ricordo che cosa c'era a pranzo oggi; in cambio rammento una cena di Natale di quand'ero bambino, con tanti bei tortelli fatti dalle mani sapienti di mia nonna; ne sento ancora il gusto, li vedo avvolti da un velo di burro fuso e noi tutti intorno a mangiarli prima con gli occhi che con la bocca.
Altri tempi, in cui i vecchi infermi non venivano abbandonati all'ospizio, ma curati e assistiti, spesso non senza malumori, dalle donne di famiglia.
La famiglia…Allora era una comunità, con tutti i figli e le figlie, anche sposati, a vivere nella stessa casa, questa grande abitazione di campagna, che poco a poco si è svuotata.
Ricordo estati come questa, sere calde, infestate da zanzare, ma tutti, dopo il lavoro nei campi, a parlare tra noi, a raccontarci le fole, a partecipare anche con entusiasmo e poi, e poi tutti a dormire nei lettoni con i materassi non ortopedici come oggi, ma ripieni di foglie secche di pannocchia.
Vivevamo meglio? Non lo so, ma di una cosa sono sicuro: eravamo più uniti, più disposti ad aiutarci.
Oggi si diventa oggetti e quando questi non servono più, non sono più in grado di funzionare bene, si gettano, come le cose vecchie e inutili, come me.


- E lui?
-è sempre là che dorme, non sembra nemmeno avvertire tutto questo caldo.

Sento il caldo, invece, ma l'ombra del salice mi rende sopportabile questa continua vampa di calore.
Le estati di tanti anni fa, quelle della mia gioventù, dei primi amori, sembrano così lontane, anche se le rammento così bene.
Aspettavamo con ansia il temporale che avrebbe cambiato la stagione e questo puntuale arrivava alla metà d'agosto. Tuoni, fulmini, vento impetuoso, pioggia scrosciante abbassavano la temperatura e ci annunciavano la prossima stagione, quell'autunno di cieli tignosi, di nebbie fitte e di ultimi raccolti. Sembrava non finisse mai, novembre poi si sarebbe detto un mese di sessanta giorni, ma era una specie di purgatorio, in cui si finivano i lavori della terra e si attendeva il grande inverno, con la sua neve, con le gelate, con le feste.
Dicono che è una stagione morta, ma non era così per noi. Nell'inverno ci si riposava, ci si divertiva anche, si andava per i campi sulla neve a caccia di lepri, si guardavano le forme strane che assumevano gli alberi con il ghiaccio sui rami. La terra dormiva e in certe giornate sembrava perfino di sentirla russare; sotto, c'era il nostro tesoro, quei minuscoli chicchi di grano che, affiorati in primavera, sarebbero poi esplosi nell'oro dell'estate.
Ricordo la mamma che diceva che tutto rinasce a primavera, se nell'inverno è stato a riposare sotto la neve.
Ecco, mi piacerebbe morire d'inverno, essere sepolto sotto la neve e poi tornare a nuova vita in primavera, ancora bambino, ricominciare annusando i profumi della nuova stagione, osservare ancora con occhi svegli i voli delle rondini, sentirsi addosso quella frenesia di fare, di vivere, di amare.


Le cicale continuavano a frinire, i bambini, instancabili, si rincorrevano lungo le sponde dello stagno, le anatre bisticciavano fra di loro.
L'uomo aprì gli occhi per un attimo, quasi a uscire da un sogno, ma li richiuse subito per rientrare ancora nel suo mondo.

Ho fantasticato, ricordando i giorni passati, ma il problema è ancora lì e sono io. Ospizio, badante, assistenza premurosa dei figli per uno che non ha domani che senso può mai avere? Poco a poco diventerei un tronco e non riconoscerei più nemmeno me stesso. Io che ho vissuto mi vedrei negata la dignità nella morte. Sì, credo proprio di essere stanco di respirare, di dare come indirizzo alla mia esistenza solo il ricordo.
Che progetti potrei fare, quando i giorni sono uguali, quando fra me e la vita si va scavando un solco sempre più profondo?
A che pro continuare, tanto più che non voglio essere ricordato come uno che è stato di peso per i suoi familiari. Hanno diritto di vivere anche loro, di avere quella pienezza di possibilità che la remora d'un vecchio finisce con il precludere.
Io ho vissuto edè giusto che sia così anche per loro.
Se la morte mi cogliesse in questo momento, farebbe un'opera meritoria, ma non si verifica mai ciò che si desidera veramente, né io posso pensare di dare una mano concreta, perché un suicidio non lo vedo proprio. Mi mancano i mezzi, soprattutto. Annegare nello stagno è un po' difficile in 50 cm. d'acqua e anche se avessi la corda per impiccarmi, questo salice non offrirebbe il ramo giusto.
Però, però…, ricordo un gioco da bambino, semplice in verità. Uno pensa con tutte le sue forze a una cosa e tac la cosa si verifica. Non rammento quante volte l'ho provato, ma sono sicuro che si è realizzato una volta sola. Era inverno e io proprio non avevo voglia di andare a scuola. La sera, appena andato a letto, ho desiderato intensamente che venisse una colossale nevicata e come per incanto è cominciata a scendere, a fiocchi fini, in un turbine di vento, e già dopo un'ora per terra ce n'erano una trentina di centimetri. Però non bastava e io sempre a concentrarmi su quel desiderio; insomma, per farla breve, la mattina dopo c'era un muro di neve di circa un metro. Fatalità? Probabilmente, ma perché non dovrei provare ora a desiderare con le mie forze quello che più di tutto mi sta a cuore?


Il sole cominciava a scendere sull'orizzonte, il pomeriggio volgeva alla fine.

Devo tentare, ma prima voglio dare un ultimo sguardo a questo mondo. Ci vedo poco, ma scorgo davanti a me lo stagno con i miei nipotini, un po' oltre il campo di mais con le pannocchie gonfie di chicchi e più in fondo questo sole d'estate che se ne va e sembra volermi salutare. Ci sono le cicale che cantano continuamente, sento su una spalla il veloce movimento di una formica, ascolto, ma non li vedo, i pigolii dei pulcini nel pollaio.è questo il mondo che amo, la semplice perfezione della natura dove ogni cosa ha un inizio e un termine, e poi un nuovo inizio e un altro termine, e così via; ogni cosa ha il suo tempo e per me questo è finito.
Ora ci provo, devo solo desiderare con tutte le mie poche forze.


Il vecchio strinse i pugni, reclinando il capo e quasi cessando di respirare.

Ecco, ancora, ancora, ancora! No, non viene. Devo riprovare.
Voglio, ti prego, lo voglio, deve succedere, fa che sia il solo vero desiderio che realizzo in vita mia.
Dai, ancora, ancora!


Fu allora che avvertì un brivido freddo salirgli dalle viscere e poi questo si trasformò in una spirale gelida.
Il sole, nel suo tramonto, lanciava lingue di fuoco rossastro, poca cosa rispetto al giorno, ma nell'illuminargli il volto scoprirono un accenno di sorriso.
Le cicale smisero di frinire e nella penombra dell'imminente sera la poca luce residua illuminò i bambini raccolti sotto il salice, sgomenti; poi, uno di loro strillò.

Il rimedio
Non c'è rimedio, stanco mi trascino lungo una vita che sempre più mi allontana. Il tempo passa e nulla cambia, nulla di quanto speravo.

E' l'alba di un giorno livido d'inverno, d'un grigio che sembra voler spegnere anche la debole luce del sole. I soliti rumori di una città che si risveglia, auto che vengono messe in moto, luci che si accendono, insomma una giornata come le solite, con i bimbi che vanno a scuola e i pendolari che assonnati e incupiti ciondolano nel metrò.
Qualcuno parla, soprattutto di calcio, della partita della sera prima, altri leggono i quotidiani o fingono di leggerli, assorti nelle abitudini di una vita sempre ripetuta.

Com'è possibile che gli altri non si accorgano del tempo che passa, che non facciano nulla per rimediare alla vita insulsa che si conduce senza il piacere di esistere?

L'altoparlante della vettura ogni tanto scandisce le stazioni e allora alcuni si preparano accanto all'uscita e quando il treno ferma scendono rapidamente, contrastando la fiumana di quelli che salgono.
E' una varia umanità, confusa in se stessa, anonima e rassegnata. Oggi il lavoro, quando c'è, questa sera lo stesso percorso per tornare a casa, la cena con i precotti, poi il divano a guardare uno spettacolo televisivo di cui non si serberà ricordo, e quindi a letto, perché anche domani ci si deve alzare presto per arrivare in orario in fabbrica, per avvitare i bulloni, per ingrassare gli snodi, per arricchire i padroni.

Sono talmente anonimo che non mi conosco.

Sì, i padroni, loro sono fortunati, perché arrivano in ditta con il Mercedes, appena entrati in ufficio sono viziati dalle segretarie con il caffè e con i giornali, tutti pendono dalle loro labbra.
Si sentono degli dei, capiscono che i cosiddetti dipendenti sono la versione moderna degli schiavi.
Di sé dicono che vivono solo per il lavoro edè certamente vero, anche lì una vita ripetitiva, magari con qualche trasgressione che presto finisce con il venire a noia.

Al mondo c'è chi comanda e chi obbedisce, ma tutti sono schiavi di se stessi.

Più che mezzi di trasporto questi sono treni che conducono ai lager e anche là c'era scritto che il lavoro rendeva liberi, ma non era vero, così come non è vero che il denaro, compenso del lavoro, renda liberi.
Guarda il caso del rag. Novanta, sempre vestito di blu, impeccabile, con la stilografica d'oro infilata nel taschino, ecco lo si direbbe un uomo felice, con una bella casa, una moglie fedele e due figli belli e di sicuro avvenire.
Ha una ditta che produce cuscinetti a sfere e, da quanto si dice, va che è una meraviglia.
Eppure…

Non ce la faccio più ad andare avanti, casa e ufficio, ufficio e casa, non sogno più, non ho un ieri, né un oggi e neppure un domani, tanto sono tutti uguali.

Dicevamo del rag. Novanta che è insoddisfatto, che si è fatto un'amante, che fa dei giochetti con la Rina, la sua giovane segretaria, ma che non ritrae più piacere.
Allora ha provato con la cocaina, poi si è dato all'extasi e infine si è dato la morte.
Sì, perché quella frenata brusca, i viaggiatori sballottati, gli abbracci indesiderati per non cadere, sono dovuti a un uomo che all'improvviso alla stazione Duomo si è lanciato in mezzo ai binari.
Nella borsa, che da sempre l'accompagnava e che prima del gesto ha lasciato cadere sul marciapiedi, c'era un foglio, una lettera, poche frasi, incompiuta e non firmata che sto leggendo. Quell'intercalare di quanto ho scritto fino a ora sono il contenuto del suo ultimo messaggio, quasi un epitaffio.
I passeggeri bestemmiano, urlano perché arrivano in ritardo al lavoro, ma per rimuovere il corpo occorre la presenza del medico legale e del procuratore. Dei due io sono l'uomo di legge e attendo che arrivi questo medico del cazzo per andare in ufficio, anzi ci stavo andando, ma quel disgraziato, anonimo e deluso, ha voluto un attimo di notorietà.
Lo conoscevo? No, assolutamente no, ma ho immaginato la sua vita, perché sono tutte uguali le esistenze, magari su piani diversi, con portafogli più o meno gonfi, ma con sempre presente l'incapacità di cambiarla.
Ora è là, sotto un telo, conciato male, nient'altro che un nome e due date.

La corsa
Siamo cresciuti insieme, abbiamo giocato insieme, come quattro fratelli, anche se non lo siamo, ma soprattutto abbiamo corso insieme.
Qualche anno di scuola, giusto per imparare che se non hai soldi non potrai mai andare avanti, e poi a lavorare a tempo pieno nei campi, dall'alba al tramonto a spigolare, a raccogliere la frutta, a spandere il letame.
Ore di fatiche, sotto il sole, nel vento, nell'umidità d'autunno, la schiena dolorante, e tutto per una miseria, per quei pochi centesimi dati subito in casa, affinché si potesse comprare qualche cosa, sempre poca, per calmare i morsi della fame.
Ma la domenica no, non si lavora, e allora tutti insieme a correre sull'argine, a chi arriva primo. Il premio? L'ammirazione degli sconfitti e questi siamo sempre noi tre, io Giacomo Pavesi, detto Giacumin, Alfredo Restelli, detto Fredin e Luigi Asta, chiamato Luisin.
Leprot, cio è Eugenio Scolti, ha sempre avuto due gambe da corsa, che in un corpo magro, ma tutti lo abbiamo, perché lo stomaco brontola sempre, fanno la differenza.
Non ha mai perso una corsa e ho sempre in mente le sue falcate rapide, i suoi piedi nudi che sembrano mordere il terreno;è grande Leprot, ma a vederlo adesso con indosso una divisa militare di almeno una taglia in più sembra uno spaventapasseri.
Si accorge che lo guardo e sorride impacciato.
Non è che a vestiario siamo messi molto meglio, ma per chi ha avuto vestiti di seconda o terza mano questa è la prima volta che assaporiamo il piacere di un abito nuovo. Sì,è grigioverde, il taglio è abbozzato, ma è nuovo e, soprattutto,è nostro.
Che ci facciamo in questa trincea?
E' in corso da tempo una grande guerra contro l'Austria, sembra per riprenderci territori che però non mi risultano siano mai stati nostri.
Siamo nell'agosto del 1917, sul fronte dell'Isonzo. Per le troppe vittime è stata chiamata prima del tempo la nostra classe, il 1898, quella di ferro cantano i coscritti, ma tutte sono di ferro, mentre le vite sono di latta. Una visita al distretto, un proforma perché tutti sono buoni come carne da macello, la vestizione, tre giorni di marcia ed ecco preparati a dovere i rincalzi.
Siamo arrivati oggi, senza aver mai sparato un colpo di fucile, e già domani ci sarà un attacco. Se tutto va bene, dopodomani festeggerò il mio diciannovesimo compleanno. Sì, sono nato il 20 di agosto e la mamma è morta nel darmi alla luce. Mi hanno detto che era bella e ci credo, perché chi non ha la mamma si immagina sempre che sia un angelo.
Leprot ha mamma e papà e otto fratelli, di cui tre in guerra; Luisin non ha più il papà, morto in miniera in Francia, edè figlio unico. Forse sarebbe riuscito a evitare il militare, ma noi siamo tutta la sua vita e non ha fatto niente perché ci separassero.
Fredinè il più fortunato, perché ha mamma e papà e un solo fratello, ma ha anche la morosa, che sposerà a guerra finita.
- Animo, ragazzi. Domani avrete il battesimo del fuoco. Mi raccomando, saltate fuori dalle trincee e correte come il vento. Se avrete fortuna, arriverete a guardare negli occhi i crucchi e per il primo che mette piede nei camminamenti austriaci il colonnello ha promesso cinque giorni di licenza.
Chi parla cosìè il sergente Batossi, che mi sembra un buon uomo, ma che adesso fissa la punta delle sue scarpe, come se provasse vergogna a raccontarci una panzanata del genere.
- Beh, nessuno ha da chiedere qualcosa? Meglio, meglio…
Io vorrei chiedergli perché rischiare la vita, per chi, per cosa, ma è inutile, perché quelle sono domande che anche lui rivolge solo a se stesso.
E' quasi l'alba di questa notte insonne e fra poco inizierà la preparazione dell'artiglieria, e poi, poi toccherà a noi.
Prima voglio abbracciare i miei amici, perché potrebbe essere l'ultima volta, l'ultima corsa.
                                                                                                                                                                             .-.-.-.-

Il frastuono è assordante e dai colpi sparati si stenta a credere che qualche nemico sia rimasto vivo. Nemico, nemico non mi va, son poveri diavoli come noi, con le stesse paure, con le stesse miserie alle spalle.
Ecco, il fuoco rallenta, il tiro si allunga, si sentono dei colpi di fischietto, io e i miei amici ci guardiamo negli occhi: c'è solo la stessa paura.
Il sergente sale in cima alla trincea, un grido, un Avanti Savoia e anch'io mi arrampico, arrivo in cima, salto i reticolati e comincio a correre come il vento. Saranno sì e no quattrocento metri, un'eternità.
Leprot, Luisin e Fredin mi sono dietro, ai lati, sono per ora il più veloce, sparano, grandinano colpi, Fredin si porta le mani alla testa e ruzzola al suolo, la sua morosa dovrà mettersi lo scialle nero, anziché il velo da sposa. Correre, correre fra buche, detriti, corpi insepolti, Luisin che sembra incespicare, cerca di riprendere e poi stramazza, a sua madre dopo il padre non resteranno nemmeno gli occhi per piangere.
I reticolati nemici si avvicinano, tirano bombe a mano, ma sono veloce. Leprot recupera, si è quasi affiancato, ma ecco che allarga le braccia, quasi fa un balzo in aria e ricade senza vita. Questa corsa la vinco io, ma che conta senza di loro, che senso ha continuare una vita ormai inutile.
Tatata c'è una mitragliatrice che mi ha inquadrato tatata vedo quasi la fiamma rossastra che esce dalla canna, sembra un drago che vuole ghermirmi.
Tatata non sento più la fatica, e non è come se corressi sulla terra, ma se volassi; guardo in alto, il cielo è azzurro, tranne una nuvoletta che si avvicina, e c'è un bel sole, un giorno d'agosto come tanti altri.

                                                                                                                                                                              .-.-.-.-
Avrebbe compiuto gli anni il giorno dopo.

Ghiaccio
Perché nel giro fosse chiamato così non era del tutto comprensibile, considerando che nessuno lo aveva mai visto; forse il nomignolo era da attribuirsi alla sua freddezza, a quel trattare, per posta o per telefono, qualsiasi affare in modo del tutto distaccato.
E tutto sommato all'interessato la cosa non dispiaceva, perché quell'appellativo era garanzia di serietà e scrupolosità, una dote non comune che aveva finito per consacrarlo come il miglior sicario esistente sulla piazza.
C'era bisogno di liberarsi di una moglie incomoda, di un socio sospettoso? Nessun problema: bastava telefonare a un certo numero di cellulare e poi scrivere a un fermo posta, magari allegando, insieme ai dati identificativi della futura vittima, anche una foto recente della stessa, e nel giro di poco tempo il lavoro era fatto, pulito, senza che potessero sorgere sospetti, perché ogni volta l'esecuzione veniva abilmente camuffata con un incidente. Quello che rendeva ancora più appetibile i suoi servizi era poi la modalità di pagamento: solo a lavoro concluso e lo stesso importo di 50.000 Euro uguale per tutti.
Per quanto ovvio, questa sua attività aveva una copertura, perché non poteva di certo mettere fuori dalla porta una targa, con sopra scritto "Rag. Tal dei tali, provetto sicario"; no, lui davanti agli occhi di tutti passava per un commesso viaggiatore di giocattoli, bonario, pacioccone, sempre pronto alla battuta scherzosa, ma mai volgare. E in effetti ufficialmente svolgeva questo lavoro, con frequenti spostamenti in tutta Italia, il che gli permetteva anche di spaziare tranquillamente sul territorio con l'altra attività.
Quella fredda mattina di novembre se ne stava rincantucciato nella sua poltrona preferita sorseggiando, anzi centellinando un cognac, quando squillò il cellulare.
- Pronto?
- Ghiaccio?
- Sì.
- Tu hai già lavorato per me e sono stato più che contento; ho un altro incarico.
- Va bene; attendo la solita lettera.
- Già spedita tre giorni fa con posta prioritaria e penso che ti dovrebbe arrivare oggi. Mi raccomando: un lavoro liscio liscio e pulito.
- Nessun problema.
La comunicazione si interruppe e nemmeno dopo un'ora suonò il campanello; andò ad aprire e il postino gli consegnò una busta.
L'aprì con calma e come cominciò a leggere avvertì chiara e netta una fitta al cuore.
Tutto si sarebbe aspettato, meno che la prossima vittima fosse una donna di cui era innamorato e che frequentava ormai da qualche anno. Per un attimo sperò in un'omonimia, ma quando guardò la fotografia allegata ogni possibile e auspicabile dubbio venne fugato.
Superato il primo sbigottimento, cominciò a chiedersi chi volesse la morte della sua donna, una persona dolce, semplice, che campava facendo lavori di ricamo in un piccolo paese delle Madonie, talmente riservata che spesso nemmeno i vicini si accorgevano se era o meno in casa. Provò a ripercorrere mentalmente quello che sapeva della sua vita: nubile per forza, avendo dovuto assistere per una quindicina d'anni la madre inferma; nessuna velleità, nemmeno una notizia di passati amori. Bella era bella, ma non poteva essere questo il motivo per cui qualcuno desiderava sopprimerla; no, ci doveva essere dell'altro a lui ignoto, qualche cosa che gli aveva voluto nascondere. A ben pensarci, anche nell'ultimo incontro di un mese prima, non gli era parsa per nulla turbata, anzi l'aveva trovata raggiante all'idea che lui un giorno potesse sposarla, non appena ottenuto il divorzio dalla moglie, una mera invenzione quella della consorte e dello scioglimento del vincolo matrimoniale, giacché lui mai e poi mai avrebbe potuto condurre una vita in comune, praticando anche l'altro lavoro. Aveva quindi vagheggiato delle possibili nozze al solo scopo di tenere legata a sé quella donna di cui era veramente innamorato.
Doveva telefonarle, era indispensabile che la raggiungesse e così, preso il cellulare, compose il suo numero.
- Pronto, chi parla?
- Annunziata, ciao, sono io, Paolo.
- Che piacere sentirti, amore mio.
- Volevo dirti che verrò da te un po' prima delle feste di Natale, perché mi hanno incaricato di cercare di vendere dei giocattoli in Sicilia. Penso che, se tutto va bene, dovrei essere lì fra un paio di giorni.
- Bene, veramente bene.
- Ti devo salutare; baci, bacioni.
- Bacione.
Chiuse la comunicazione e si mise a riflettere un attimo: la voce aveva lo stesso tono di sempre e non tradiva, apparentemente, preoccupazioni, il che lasciava intendere che non era accaduto nulla di particolare, o comunque tale da giustificare un omicidio.
Preparò comunque subito la valigia, ripromettendosi di partire l'indomani mattina presto per raggiungerla il più alla svelta possibile.
Così fece e, guidando pressoché ininterrottamente, arrivò a casa di Annunziata alla mezzanotte.
Nonostante l'ora, fu ben felice di vederlo e di accoglierlo nel suo letto, dove, a dispetto delle fatiche del viaggio, lui si diede non poco da fare prima di addormentarsi.
Si risvegliò che erano circa le 10, andò in cucina, dove c'era già Annunziata, e, mentre faceva colazione, cercò di indagare.
- Annunziata, tutto bene?
- Perché amore?
- Così, perché ti voglio bene.
Lei abbassò gli occhi e ammutolì.
- Che c'è adesso, ti ho detto qualche cosa che non va?
Nessuna risposta.
- Vuoi deciderti a dirmi qualche cosa? Sento che sei turbata, che ti stai rodendo lo stomaco.
Lo guardò fisso, mentre dai bellissimi occhi neri cominciavano a far capolino le lacrime.
- Ci sarebbe sì qualche cosa che non mi fa dormire da giorni.
- Dimmi, parla.
- Tanto tu non puoi farci niente…
- No, questo sono io a deciderlo. Tu raccontami tutto.
- Una settimana fa, mentre andavo a fare una visita al cimitero alla mia povera mamma, in contrada Cafusca, che è un luogo isolato, ho visto due uomini litigare. Sono venuti alle mani, poi è spuntato un coltello e uno dei due, colpito più volte,è rimasto a terra in un lago di sangue.
- Continua.
- Ho cercato di nascondermi, ma l'altro, quello rimasto in pedi, si è accorto di me e sono sicura che mi ha riconosciuto.
- E chi è quest'uomo?
- Totò Bonaventura.
- E perché non hai detto nulla alla polizia?
- Perché Totò Bonaventura è uno dei capimafia della zona: quello tiene in pugno tutti, uomini, donne, poliziotti e perfino magistrati.
- Cazzo…
- Dicevi?
- Scusa la parola, volevo dire è un bel guaio.
- Per me quello mi vuole morta.
- E ci credo.
- Che posso fare, Paolo?
- Tu non far niente, stai coperta, che vedo io quello che posso fare.
- Ma allora non hai capito niente! Tu che cosa mai potresti fare?
- Non preoccuparti: ho pure io le conoscenze giuste.
La conversazione finì lì, anche perché Paolo doveva cominciare il suo giro dei negozi.
Non si sentiva per nulla preoccupato, perché ora conosceva il committente. Con la meticolosità che lo caratterizzava si mise a spiare le abitudini di Totò e così si accorse che tutte le mattine un'Alfa 166 blu metallizzata lo andava a prendere con una puntualità incredibile: sempre e solo alle 8.
Poi lo portava in giro per i suoi affari, risalendo la montagna e poi ridiscendendo verso la pianura lungo la stessa strada, stretta, ripida e con ben pochi parapetti, nonostante la presenza di orridi e profondi burroni. Inoltre, già cominciava a fare freddo e, anche se la neve sembrava ben lungi dal venire, la possibilità di una gelata non era per niente remota.
Ispezionò più volte il percorso, trovò un punto adatto allo scopo e misurò la temperatura più o meno all'ora prevista per il passaggio dell'Alfa. Quando il mercurio scese sotto lo zero si sfregò le mani, soddisfatto perché l'indomani sarebbe stato il gran giorno.
Era un'alba gelida, con un vento freddo che soffiava forte; arrivò al curvone e fermò la sua familiare in un piccolo spiazzo, poi, con calma, cominciò a tirar giù dal baule le taniche d'acqua che aveva riempito la sera prima. Come iniziò svuotarle sull'asfalto il liquido ghiacciò quasi istantaneamente. Osservò il lavoro compiaciuto: lo strato gelato era esattamente nell'asse della curva e quindi visibile per chi arrivava solo all'ultimo momento.
Il lavoro però non era completo; così prima della curva versò il contenuto di una latta da 5 litri di olio da motore, poi prese dal suo campionario una piccola rivoltella, di quelle con cui giocano i bambini facendo tanto chiasso con i proiettili a salve. Adesso era tutto pronto e si trattava solo di attendere. Dopo circa un quarto d'ora, udì, portato dal vento, il rombo di un motore, dal timbro sportivo, tipico proprio delle Alfa.
Quando l'auto fu prossima alla curva cominciò a esplodere i colpi.
Il conducente, da provetto pilota, frenò, scalando contemporaneamente una marcia, onde poter avere più accelerazione e così tutta la coppia del motore venne scaricata a terra esattamente nel momento in cui le ruote erano sulla macchia d'olio. L'Alfa cominciò a sbandare, l'autista sembrò riprenderne il controllo per un istante, ma, arrivata nell'asse della curva, incappò nel ghiaccio. Girò più volte su se stessa, quasi indecisa sulla strada da prendere, poi a tutta velocità e senza più alcun controllo puntò il muso verso l'esterno, divelse il piccolo parapetto di lamiera e precipitò nel baratro. Dopo un volo di un centinaio di metri finì su una pietraia, esplodendo.
Paolo si guardò intorno: non c'era nessuno. Il lavoro era stato compiuto nel migliore dei modi, liscio liscio proprio come aveva detto la vittima.
Risalì in macchina e riprese il suo giro di lavoro, come se nulla fosse accaduto, perché ora, dopo essere stato Ghiaccio, era diventato nuovamente Paolo.
Durante il percorso pensò lungamente alla sua relazione con Annunziata e ci fu anche un brevissimo momento in cui gli venne voglia di gettare tutto alle ortiche e di sposarsela.
Fu solo un attimo, ma poi si scosse: l'idea era del tutto improponibile, poiché avrebbe voluto dire non solo dover abbandonare la sua lucrosa attività, ma anche perdere una libertà di cui si sentiva fiero e appagato. Nei suoi viaggi, infatti, non infrequenti erano i contatti intimi occasionali con altre donne, possibilità che un matrimonio, per di più con una siciliana e come tale sicuramente gelosa, avrebbe sicuramente, se non impedite, almeno rese alquanto difficoltose.
Ritornò da Annunziata solo a sera inoltrata, con il volto stanco e tirato di chi ha lavorato un'intera giornata.
- Ciao, Annunziata; sono un po' in ritardo per la cena, ma il lavoro è il lavoro.
- Paolo, ho una notizia incredibile.
- Dimmi.
- Questa mattina Totò Bonaventura è morto.
- Morto? E come?
- In un incidente stradale. L'auto su cui viaggiava è sbandata per il ghiaccio in una curva edè precipitata in un burrone.
- Caspita, questo si dice culo!
- In che senso?
-Che abbiamo avuto fortuna, anche perché non sono ancora riuscito a trovare chi poteva parlargli per tranquillizzarlo e fare in modo che non pensasse più a te. Meglio così.
- Sì e adesso saremo più liberi. A che punto sono le pratiche del divorzio?
- Annunziata, andiamo per le lunghe. Sai com'è la giustizia in Italia: lenta, farraginosa.
- E quando pensi di ottenerlo?
- Non ti so dire, ma sto facendo l'impossibile perché sia presto.
- E dopo un bel matrimonio con l'abito bianco e il viaggio di nozze a Parigi.
- Sicuro, non spero altro.
- Mi raccomando: fai veramente l'impossibile.
- Annunziata, se ti dico che desidero sposarti al più presto è la pura verità e puoi star tranquilla che solleciterò gli avvocati, i giudici, insomma chi di dovere.
- Avrai dei costi?
- Non preoccuparti per quelli.
- E gli affari come vanno?
- Bene, abbastanza bene, anche se oggi ho perso un ordine da 50.000 Euro.
- Peccato! Forse non eri al meglio per causa mia.
- No, non preoccuparti, perché prima o poi ne verranno altri. Che c'è per cena?
- Arrosto di vitello con patatine fritte.
- Ottimo: ho un appetito che non ti dico.
- Manca il vino, però; ho dimenticato di andare a prenderlo. Potresti fare un salto in cantina?
- Ma certo, non c'è problema.
Aprì la porta sul retro della cucina e dato che l'appartamento era al primo piano, mentre la cantina era sottostante e accessibile solo dal cortile interno, prese a scendere lungo la stretta scala di marmo, sferzato dal vento sempre più impetuoso.
Non aveva fatto che due scalini, quando il piede d'appoggio scivolò sulla superficie ghiacciata; cercò di aggrapparsi alla ringhiera,ma questa improvvisamente cedette. Fu così che precipitò nel vuoto, lanciando un urlo disperato. Poi vi fu il tonfo, un rumore di ossa che si spezzavano mentre la vita cessava.
Annunziata si affacciò sulla porta, guardò giù e poi rientrò in casa.
Senza mostrare la minima emozione per l'accaduto si accinse a telefonare al pronto soccorso, ben sapendo dell'inutilità della chiamata, ma prima si guardò allo specchio e si disse:
- Annunziata, sei ancora una donna desiderabile e che può trovare facilmente marito. Paolo era un povero coglione che credeva di fregarmi con la storia del divorzio! E' bastata una piccola indagine di un'agenzia investigativa per scoprire che non era nemmeno sposato. Avrei potuto troncare tutto, ma mi ha preso in giro per tanti anni e doveva pagare. E cosìè stato sufficiente gettare un po' d'acqua sugli scalini, e poi il gelo e la ringhiera pericolante che non mi ha mai voluto aggiustare hanno fatto il resto.
Sollevò la cornetta, compose lentamente il numero e alla voce che rispose disse con tono affranto:
- Venite, presto. C'è stata un'orribile disgrazia. Ma state attenti, perché le strade sono tutte ghiacciate.

Dolci baci e languide carezze
- Il nostro era un vero matrimonio d'amore; ci siamo sposati perche ci desideravamo. Avevo messo gli occhi a Carmela fin dalle elementari. Sì, perché già allora mi attiravano quegli occhi neri così vivaci, poi mano a mano che diventavamo grandi ho cominciato ad apprezzare altre caratteristiche: i seni, prima abbozzati, e che poi sembravano tendere allo spasimo i bottoni della camiciola, per non parlare delle gambe, belle dritte, e i fianchi…i fianchi erano la cornice di un quadro di un'espressione tale che non riuscivo a guardare senza avvertire una sensazione di affanno.
E poi lei è sempre stata una civetta, sa come sono, una volta si offre, ma subito si ritrae, ti mostra qualche cosa che copre immediatamente. Non dormivo più la notte, perché sempre avevo lei davanti agli occhi, lei con quella sua bocca vogliosa, con quel suo naso impertinente, e poi tutto il resto, tutto quel ben di Dio. Sì, non nascondo che sia sempre stata un po' in carne, ma meglio la sostanza, un corpo burroso che certe femmine secche, piatte da sembrare assi per la pasta, mi dica che gusto ci può essere a toccarle?
- Non divaghi, ma venga al dunque.
- Ha ragione, ma lei deve capire perchéè accaduto, deve cercare di comprendere tutto l'antefatto. Alla fine, dopo una corte insistente, dopo notti insonni, sono riuscito a far breccia e nel giro di tra mesi ci siamo sposati. Una cerimonia semplice, perché soldi non ne abbiamo mai avuti, quindi niente pranzi e niente viaggio, ma eravamo felici lo stesso, perché ci amavamo.
Io lavoravo quando capitava e queste occasioni purtroppo non sono ancora frequenti; ho studiato, sono maestro elementare, ma in un paese con solo cinque classi e cinquanta possibili insegnanti il lavoro non abbonda e sono costretto ad arrangiarmi, a fare un po' di tutto, dal manovale al bracciante. Guardi i calli di queste mani: le sembrano quelle di un diplomato?
- Le ripeto di non divagare.
- Ha ragione, cercherò di essere più breve. Per dirla in parole semplici eravamo tanto poveri che la nostra unica ricchezza era la miseria. Lei non può sapere cosa vuol dire alzarsi la mattina, aprire la madia e trovarla vuota, ben sapendo che non c'era mezzo di riempirla.
Non le nascondo che ci sono stati dei periodi che facevamo la fame, tanto che lei era dimagrita, le si erano stretti i fianchi, la pelle si tirava sul viso. Che giorni, quelli! Se fosse stato possibile, avremmo mangiato perfino la fame, e il lavoro sempre che non si trovava; uscivo presto, chiedevo al capomastro, ai fattori, ma c'erano già troppi disgraziati come me e poco lavoro.
Poi…
- Poi?
- Poi un giorno è accaduto l'incredibile. Al macellaio del paese è morta la moglie, che l'aiutava anche sempre in negozio, e lui ha cercato subito una nuova commessa.
Di pretendenti ce n'erano tante, ma ha finito per scegliere Carmela, perché sapeva far di conto, era precisa e poi era un vecchio amico di famiglia.
La paga non era gran cosa, ma era sicura e soprattutto scacciava la fame. Mi creda, niente di particolare: un piatto di pasta a mezzogiorno e uno alla sera, ma insomma lo stomaco non brontolava più.
Dopo nemmeno tre mesi, una sera Carmela venne a casa con un pacco, lo aprì e dentro c'erano delle belle bistecche.
Le dissi subito che non potevamo permetterci un cibo così costoso, ma lei mi ribatté che era un modo che il padrone aveva studiato per pagare in nero gli straordinari.
Eh sì, perché di straordinari Carmela ne faceva tanti, anche dopo l'orario di bottega e a volte mi arrivava a casa quasi a mezzanotte, con sotto il braccio un chilo di costate, oppure un bel pezzo per il bollito.
E io mangiavo e pure lei e così si rimpolpò, anzi si arrotondò non poco. L'idea non mi dispiaceva, ma qualche cosa stava cambiando: non mi si concedeva più, motivando il fatto con il troppo lavoro, con quegli straordinari da bistecche.
Ci rimasi male, ma restai ancor peggio quando andando il giro per il paese la gente mi guardava e parlava a bassa voce; non capivo cosa dicevano, ma ogni tanto percepivo una risatina soffocata, sa quella che viene smorzata apposta di modo che l'interessato se ne accorga. Non ci sono arrivato subito, ma dentro di me si è accesa una lampada, prima di luce debole, poi sempre più forte e devastante, e ho capito.
Ho cominciato a odiare la carne, a esser preso dal disgusto solo a pensare ai quarti di manzo, appesi per gli uncini nella cella frigorifera e più la rabbia cresceva più questa immagine sì imprimeva nella mente, scavava un solco che dovevo riempire.
- E allora?
- E allora una giornata ho atteso che il macellaio chiudesse la bottega, poi sono entrato dal retro, sono passato di fianco alla cella frigorifera con appesi quei quarti, e ho proseguito, accompagnato da un suono che passo dopo passo aumentava d'intensità. Quando sono entrato le locale di vendita ho capito che cos'era quel suono: un brusio, un coro di gemiti, di respiri affannosi, di grida strozzate. La luce era spenta, ma il chiarore della luna, attraverso le imposte socchiuse, mi ha fatto intravvedere due corpi nudi che si rotolavano sul bancone di marmo.
Mi creda, ma per me non erano più due corpi, erano quarti di manzo esposti per la vendita e che con le temperature torride delle nostre parti correvano il rischio di andar male. Non ricordo poi così bene, mi sono trovato un coltellaccio la lavoro in mano, l'ho calato di forza, c'è stato un urlo più forte, poi singhiozzi e io che continuavo ad alzare il braccio e a menar fendenti, fino a quando è ritornato il silenzio.
- E' venuto a dirmi che ha ucciso sua moglie e il macellaio?
- Sì, maresciallo, e poi li ho appesi insieme ai quarti.
- Piantone, presto, c'è stato un duplice omicidio Io corro con il brigadiere e tu sorveglia quest'uomo, che è l'assassino.
- So che andrò in cella e chissà per quanto, ma non m'importa, purché là il menù sia vegetariano. Vero che là di carne ne passano poca? Vero, mi dica che è vero!

La luce del tramonto
Il Guercio riuscì a riprendersi dall'infarto che lo aveva colpito, così che dopo un mese di ospedale poté ritornare al paese.
Quando lo vidi gli manifestai tutta la mia gioia per trovarmelo davanti, in piedi, anche se visibilmente affaticato. Non potei fare a meno di notare le spalle cadenti e lo sguardo quasi spento, ma rispose con forza alla mia vigorosa stretta di mano, anche se l'impressione che ricavai fu quella di uno che avvertiva la necessità di ricevere quel calore che sempre era riuscito a trasmettere, ma che ora sembrava scomparso.
- Benvenuto fra noi. E ora ci si potrà rivedere più spesso.
Come un bambino in castigo, mormorò:
- Sì, mi hanno rimesso in piedi, ma mi hanno proibito di fumare, di bere, anche un solo bicchiere di vino, perfino di star lontano dal bar, per via del fumo passivo.
- Non preoccuparti: ci troveremo in piazza, a parlare sulla panchina.
- Sì, faremo così.
E se ne andò strascicando i piedi.
Ebbi, però, sempre meno occasioni di incontrarlo, quasi che lui volesse sfuggirmi, rinchiudendosi in un bozzolo di senile solitudine.
Da altri seppi così delle sue nuove abitudini e del resto, conosciuto com'era e in un ambiente ristretto come quello del paese, non poteva passare inosservato.
Ogni giorno, quando le giornate erano di sole, quasi sempre nel pomeriggio andava a fare lunghe passeggiate lungo le sponde del Po; di tanto in tanto sostava, specialmente quando trovava un pescatore, e stava a lungo a osservarlo, senza dir nulla.
Guardava l'acqua, lo sguardo correva lungo la lenza, poi ridiscendeva fino alla superficie increspata.
Non parlava, al massimo salutava, e restava lì, a volte anche ore, a mordere un mezzo toscano spento, spento come lui.
Un giorno, la vicina, alla quale i figli del Guercio avevano dato l'incarico di vigilarlo con discrezione, lo vide uscire con un cartoccio.
- Dov'è che va, Guercio?
- A passeggiare.
- E quella roba lì?
- Un po' di avanzi.
- Avanzi? Per chi?
- Per lui.
Poi affrettò il passo e si eclissò.
La stessa scena si ripeté il giorno dopo e l'altro ancora; il Guercio sembrava cambiato, pareva aver ripreso vigore e ovviamente di questo se ne accorsero tutti in paese, tanto che cominciarono a fare congetture.
- Sta a vedere che ha trovato un vagabondo.
- No, per me dice che sono avanzi, ma lì dentro c'è un fiaschetto di vino e una scatola di toscani.
- E se invece che avanzi fosse la merenda?
Erano discorsi fatti anche per passare il tempo, ma la curiosità cresceva, perché in effetti tutti notarono che era scomparsa l'apatia dei primi mesi e che, se non aveva il piglio gagliardo di un tempo, comunque stava ritornando in piena forma.
Fu così che Armando, l'ex postino, pensionato pure lui, si prese la briga di seguirlo.
La sera al bar il novello Tom Ponzi raccontò tutto.
- Com'è uscito di casa, ha piegato a sinistra, per la strada dei campi, e di passo buono…avreste dovuto vedere come filava.
- Dai, lascia stare, dicci tutto.
- Ho detto così, perché facevo fatica a stargli dietro.
- Ci credo, hai messo una pancia che sembra un mappamondo.
- Sta zitto tu se vuoi che continui a raccontare. Dicevo che andava svelto e quando è arrivato al bivio, là dove una strada porta alla vecchia Cappella e a destra invece ai ruderi della fornace, insomma quei tre muri scalcinati che stanno in riva al Po, ha piegato di qua.
- Di qua dove?
- A destra, se mi stai ad ascoltare capisci. Ha girato, guardandosi intorno, tanto che ho appena fatto in tempo a nascondermi dietro il vecchio olmo. Poi ha ripreso veloce e io dietro a una trentina di metri.
Quando è arrivato ai ruderi, ha fatto un fischio e…
- E?
- E dall'erbaccia è venuto fuori un cagnolino, che scodinzolava. Il Guercio si è seduto, lo ha accarezzato, poi ha aperto il cartoccio e gli ha dato da mangiare.
Ci fu un mormorio di delusione, da parte di chi aveva capito che ormai la storia era finita e da parte di chi invece aveva fatto le supposizioni più inverosimili.
Ricordo che dissi:
- Un cagnolino, per un anziano senza nessuno,è la compagnia che ci vuole.
Ne fui felice, però, perché il mio vecchio amico non si sarebbe sentito più solo.
Si arrivò così al mese di settembre, già l'aria cominciava a rinfrescare e le ombre della sera sempre più rapide scendevano ad annunciare l'imminente autunno.
Anche quel giorno il Guercio uscì con il suo cartoccio, fece la stessa strada, arrivò alle rovine della fornace e chiamò il suo piccolo amico. Questi corse rapido scodinzolando e gli si accovacciò ai piedi. Non si poteva dire che avesse un pedigree, tanto era il risultato di innumerevoli incroci, con le orecchie a sventola che sembravano aquiloni, la coda che pareva la traccia del pennino di un sismografo allo scatenarsi di un terremoto del decimo grado della scala Mercalli, il pelo per nulla uniforme, là una macchia rossastra, qua una nera e un musetto sottile, tutto bianco, a testimoniare che anche lui non era nel fiore degli anni.
Il Guercio lo accarezzava mentre quello si sfamava e quando ebbe finito entrambi si avviarono verso il fiume. Là, dove l'ansa è più ampia, dove la corrente fugge rapida verso la foce, si fermarono e si sedettero.
In distanza s'intravvedevano in controluce due ombre, tanto da pensare che a Thomas Mann l'idea del suo romanzo Padrone e cane potesse essere venuta da una simile visione.
Entrambi guardavano il sole al suo tramonto e nel riflesso tremulo della luce sull'acqua il Guercio scorse ciò che non vedeva da tempo.
Erano immagini che apparivano e sparivano in successione, volti di gente che non c'era più, ma che era sempre rimasta nel suo cuore.
E così ora rilucevano il viso giovane e illuminato dall'amore della Tilde, il faccione, burbero, ma rassicurante di Don Zeffirino, il volto deforme e contratto di Tonio, e poi tanti altri ancora, che si succedevano con una rapidità impressionante, non più comparse, ma protagonisti di tutta una vita: Cosimo Gasparini, Tricorno, Unapertutti, Nostradamus.
Ognuno sembrava reclamare il suo posto sul palcoscenico e ognuno recitava se stesso. L'ultimo fu Alì, una sorta di statua della libertà che invece di tenere la fiaccola indicava l'occidente, dove il sole ormai stava calando del tutto e le lunghe ombre delle piante sulle rive sembravano giganti a protezione di un mondo che lento se ne andava.
I due, l'uomo e il cane, fissavano quell'astro lontano, sempre più rosso cupo, due statue unite dalla commozione.
E quando il Guercio non riuscì più a trattenere le lacrime, il suo piccolo amico volse il muso e la sua lunga lingua corse su quel viso scosso dal pianto.
Fu un attimo, un attimo solo d'estasi, ma Annibale Chiocchetti, il capopopolo, il difensore dei deboli, ora debole anche lui, abbracciò il cane, lo strinse a sé.
- Dixi, ti chiamerò Dixi. E ora, andiamo, vieni con me, ritorniamo a casa, alla nostra casa.
(da "Storie di paese " - Seconda serie)

Croci di guerra
La neve scendeva fitta a imbiancare l'altopiano; a tratti il vento sollevava dei mulinelli e finiva con l'accumularne di più in certi punti piuttosto che in altri. Si creavano così dei veri e propri cumuli, o meglio…
- Tumuli, sono tumuli!
Il Dottor Fritz Wiener si scosse a quel grido e volse subito il capo all'indietro.
- E lei chi è?
- Come chi sono? Io sono me.
Chi aveva detto quella frase senza senso era un uomo sulla cinquantina, di bassa statura, tozzo e anche un po' panciuto.
- Ovvio che lei è lei. Forse è meglio che mi presenti io:
mi chiamo Fritz Wiener e vengo da Graz.
- Ostrega, parla bene l'italiano per essere un todesco.
- Sono austriaco e mia madre era italiana, di Brescia.
- Un mezzo sangue, allora.
- Non proprio, perché mio padre, che non ho mai conosciuto, era di Salisburgo e là sono nato.
- Venuto a sciare? La neve non manca.
- No, sono venuto a cercare.
- A cercare?
- Sì, una persona e per questo ho bisogno di una guida. All'albergo mi hanno detto di chiedere di Tony.
- Questa è fortuna! Tony sono me.
Wiener rimase non poco perplesso a questa affermazione, perché chi gli era davanti, più che una guida, dava tutta l'aria di essere lo scemo del paese.
Tony parve rendersi conto della titubanza del suo interlocutore e lo prevenne: - Sì, non mi presento bene. Sono sempre stato così fin da piccolo; anche mamma diceva che ero un po' strano e me ne accorgo pure io, ma sono serio, onesto e sgobbo per mantenermi.
Nel dire così allungò la mano destra a cercare quella di Wiener; questi esitò, ma quando sentì la stretta calorosa e la voce ferma del suo interlocutore che si presentava - Piacere, Tony Balcher - non poté fare a meno di contraccambiare.
- Signor Wiener, perché ha bisogno di me?
- E' una storia lunga e, come le dicevo, sono alla ricerca di una persona. Mi hanno detto che lei conosce tutti i cimiteri di guerra della zona. Se potesse accompagnarmi, le sarei grato e, ovviamente, la ricompenserei.
- E' vero che li conosco tutti e non sono pochi; qui durante la guerra che è finita una trentina di anni fa si sono scannati alla grande, austriaci e italiani. E per cosa poi? Per un pezzo di terra.
- Accetta?
- Sì.
- Cominciamo subito.
- No, aspettiamo che finisca di nevicare e domani, se ci sarà il sole, daremo corso alla ricerca.
- Dove ci troviamo?
- Sarò io a trovarla: in paese c'è solo un albergo.

Il giorno dopo Wiener scostò le tende della finestra della sua camera e guardò fuori: aveva smesso di nevicare e il cielo si era completamente rasserenato.
Il panorama, che prima non aveva potuto ammirare a causa della foschia della nevicata, appariva in tutta la sua bellezza, con le cime ammantate che brillavano al sole.
Guardò giù in strada e lo vide, davanti alla porta dell'albergo, tutto imbacuccato e perciò ancor più rotondo del giorno innanzi.
- Vengo subito, Tony.
- Faccia con comodo.
Scese velocemente, aprì la porta e si sorprese nello scorgere un volto sorridente, con due occhi vispi di un azzurro intenso.
- Tony, se non è di disturbo, possiamo darci del tu e cosìè più semplice.
- Ma certo, ostrega, era quello che volevo dire io.
- Allora cominciamo?
- Sì, ma forse non c'è da girar molto, se mi dici che il morto che cerchi era austriaco o italiano.
- Austriaco, Tony. Io cerco Sepp Wiener, mio padre.
- Non mi ricordo questo nome.
- Ci credo, con tutti i caduti che ci saranno nei cimiteri.
- Li conosco tutti, uno a uno.
- Davvero?
- Sì, sono la mia compagnia. Per uno che è solo non c'è miglior compagnia dei morti: puoi parlargli e loro ti ascoltano, puoi anche incazzarti e loro non s'offendono. Per ognuno che non ho conosciuto da vivo ho una storia, una faccia, un corpo: sono i miei amici e chi non ricorda gli amici?
Wiener apparve perplesso e si grattò il mento.
- Sì, ti capisco; chissà che ti hanno raccontato. Ti avranno detto che quando ho un po' di tempo faccio solo il giro dei cimiteri, che parlo con i morti, che sono il matto del paese.
- A dire il vero mi hanno detto solo che saresti stata la guida giusta.
- Pensi che sia matto, vero?
- Non so.
- Forse è vero, ma mi conoscerai e potrai giudicare. Adesso andiamo al primo dei due cimiteri in cui forse potremo trovare tuo padre.
Si incamminarono, piano piano, Tony davanti e Wiener subito dietro.
La strada cominciò a salire.
Dopo una quarto d'ora Wiener azzardò: - Manca ancora molto?
- No, il suo tempo.
- E sarebbe?
- Quello che ci vuole. Scusa, ma davvero non hai conosciuto tuo padre?
- No, sono nato un mese dopo che era partito per la guerra. Me ne ha parlato mia madre e come le ho promesso in punto di morte ora vorrei almeno trovare la sua tomba.
- Anche io non ho conosciuto il papà.
- Morto in guerra?
- E chi lo sa? Forse, può anche essere. Porto il cognome della mamma.
- Ah. Non te ne ha mai parlato?
- No e non mi interessa sapere di un papà che non si cura di un figlio. La vita è stata dura con me: la mamma è morta presto e sono rimasto solo, ho fatto in tempo a vedere la guerra, anzi ho combattuto nell'ultimo anno.
- Hai ucciso qualcuno?
- Spero di no.
- Perché?
- Non si è uomini ad ammazzare gli altri.
Scese il silenzio e Wiener non si azzardò ad aprir bocca e altrettanto fece Tony.
Dopo un'altra ventina minuti d'ascesa giunsero al cimitero di guerra di Slaghenaufi, una piccola oasi di pace, con 748 croci ordinate in file parallele.
- Cominciamo dalla prima e guarda che non sono in ordine alfabetico.
Si avvicinò al legno e lesse sulla piccola targhetta:
- Julius Blind, caporale. Oggi c'è il sole Julius e sapessi com'è bello il panorama! E' uno dei miei preferiti:è caduto vicino al Forte Verena nel 1917 e aveva solo 25 anni. Ecco, un po' di lettere a formare un nome e un paio di date è quel che resta di un uomo. Era alto, biondo e felice di vivere, prima. Ora è polvere e numeri.
Andarono ancora avanti e per ogni croce c'era un pensiero di Tony, una sorta di ricordo inventato che ridava un'immagine del caduto.
- Wilfred Mayer, di anni 45. Saranno cresciuti i tuoi figli. Bei ragazzi, Wilfred, e poi bravi, te lo assicuro.
Andreas Mann, di anni 18. C'è tanta neve che ci si potrebbe rotolare. Sì,è ancora tempo di giochi, ma ti vedo già guardarti all'intorno, occhieggiare qualche ragazza. Sei mancato troppo presto per conoscere la vita.
Il tragitto, percorso in questo modo, fu necessariamente lento e quando arrivarono all'ultima fila cominciava già a scendere il sole.
- Manfred Richter, di anni 33. Come quelli di nostro Signore, ma lui è salito alla gloria dei cieli e tu invece sei nascosto a tutti, sotto un metro di terra e di sassi. Lui è morto per tutti gli uomini e tu per pochi uomini che se ne stavano al caldo, ben vestiti e sazi, mentre tu pativi il freddo, la fame e ogni giorno era un tormento.
E' passato tanto tempo, ma tutti e due siete morti invano.
Wiener era come frastornato: quei ricordi inventati lo coinvolgevano e gli pareva che forse, anzi sì, quei morti non gli fossero per nulla sconosciuti.
- Joseph Franz Wiener, di anni 30…
- Ferma!
- Mi fermo, ma…
- Mio padre, mio padre! Si chiamava così, ma tutti lo conoscevano come Sepp. L'ho trovato!
- Vuoi sapere?
- No, no. Di anni 30. Hai lasciato per la guerra tua moglie che aspettava un bimbo che non avresti mai visto e che ora è qui. Eri alto, capelli e occhi neri, e tutte le donne dicevano che eri un bell'uomo. La mamma è morta, ma già lo sai, perchéè finalmente con te.
- No, non dargli un altro dolore. Ti dico invece il mio ricordo, se non ti disturba.
Eri veramente il più bello di tutti, il più umano e lo fosti anche quella piovosa sera del settembre 1918.
Un soldatino appena arrivato si è presentato a te e quando sapesti che era stato comandato di pattuglia volesti uscire al posto suo.
Nessuno rientrò. Attesi fino all'alba e io che avevo conosciuto solo dolore, nessun affetto, ti piansi come un padre.
Wiener osservò il volto di Tony, tirato, gli occhi lucidi; gli pose una mano sulla spalla e gli fece cenno di tornare.
Durante il percorso non parlarono e si lasciarono davanti all'albergo.
L'indomani Wiener partì. Mentre attendeva l'arrivo della corriera si guardò intorno, quasi a cercare Tony, ma questi non venne.
Durante il viaggio pensò a quello che era accaduto, al racconto della morte di suo padre, una pietosa menzogna, a cui tuttavia avrebbe desiderato credere. Rilesse così il comunicato del ministero della guerra che annunciava il decesso del soldato Joseph Franz Wiener, avvenuto all'ospedale da campo di Slaghenaufi a seguito di un attacco di peritonite. Si passò una mano fra i capelli, come a riordinare le impressioni di quei giorni, poi guardò fuori dal finestrino: aveva ripreso a nevicare, minuscoli fiocchi che scendevano lenti a ricoprire ogni cosa.

In memoria di Mario Luzi  (Riflessione)
Il 28 febbraio 2005 veniva a mancare Mario Luzi e Dario Fo, commentandone quello stesso giorno la scomparsa, diceva: " E' morto il Senatore, perché il Poeta resterà sempre con noi". Sono poche parole, ma dense di significato e che concretizzano quel desiderio di tanti che la memoria prosegua nel tempo, quasi a sconfiggere la morte.
Mario Luzi ha vissuto da poeta, ottenendo un significativo riconoscimento per i suoi meriti solo nell'ottobre 2004, allorché, in prossimità del suo novantesimo compleanno, il Presidente Carlo Azeglio Ciampi lo nominò senatore a vita. Fu quindi solo per un breve periodo che Luzi poté fregiarsi di questa onorificenza, così come non riuscì a essere insignito del premio Nobel per la letteratura, pur essendo stato candidato più volte.
Ma Mario Luzi, di una spiritualità che rasenta il misticismo, non inseguì mai dei riconoscimenti: la celebrità stonava con quel suo desiderio di stare lontano dai fatti quotidiani, preferendo una vita di raccoglimento nella quale gli eventi che costituiscono spunto per la poesia sono ben altri.
E' davvero particolare la storia di quest'uomo che, contro la volontà del padre che voleva farne un avvocato, preferisce laurearsi in letteratura francese con una tesi su Mauriac e intraprende poi una vita di insegnamento, prima nelle scuole medie per approdare poi, e non in tempi brevi, all'università.
E intanto scrive e pubblica volumi di poesie. E' attratto in particolare da quella corrente letteraria nata nel corso della prima guerra mondiale per opera di Ungaretti e che solo nel 1936 prenderà il nome di ermetismo.
Non è tuttavia mia intenzione tracciare un'analisi della produzione e dell'evoluzione poetica di Mario Luzi, anche perché, al riguardo, Fabrizio Manini ha scritto una bella monografia, che potete trovare qui.
Infatti il mio è solo un tentativo di collegarmi alle manifestazioni di commemorazione che si tengono in questa giornata per ricordare la voce forte, ma silenziosa di un poeta, uno dei tanti mi si potrà dire, ma con una particolarità: in Mario Luzi l'osservazione della realtàè una trasfigurazione di sentimenti e di sensazioni che, in esemplare distacco, si versificano in una costante evoluzione che porta a una progressiva chiarezza del risultato, pur mantenendo intatta l'eleganza dell'esposizione.
E come è possibile allora ricordare degnamente un grande della letteratura, perché Luzi è uno dei massimi poeti del secolo trascorso, se non proponendo almeno un paio dei suoi lavori, colti forse non a caso, ma che ne dimostrano, senza alcun dubbio, la valenza?

Natura

La terra e a lei concorde il mare
e sopra ovunque un mare più giocondo
per la veloce fiamma dei passeri e la via
della riposante luna e del sonno
dei dolci corpi socchiusi alla vita
e alla morte su un campo;
e per quelle voci che scendono
sfuggendo a misteriose porte e balzano
sopra noi come uccelli folli di tornare
sopra le isole originali cantando:
qui si prepara
un giaciglio di porpora e un canto che culla
per chi non ha potuto dormire
sì dura era la pietra,
sì acuminato l'amore.


A mia madre dalla sua casa

M'accoglie la tua vecchia, grigia casa
steso supino sopra un letto angusto,
forse il tuo letto per tanti anni. Ascolto,
conto le ore lentissime a passare,
più lente per le nuvole che solcano
queste notti d'agosto in terre avare.

Uno che torna a notte alta dai campi
scambia un cenno a fatica con i simili,
infila l'erta, il vicolo, scompare
dietro la porta del tugurio. L'afa
dello scirocco agita i riposi,
fa smaniare gli infermi ed i reclusi.

Non dormo, seguo il passo del nottambulo
sia demente sia giovane tarato
mentre risuona sopra pietre e ciottoli;
lascio e prendo il mio carico servile
e scendo, scendo più che già non sia
profondo in questo tempo, in questo popolo.

Correvano gli anni novanta
Correvano gli anni novanta e il piccolo borgo era cresciuto: nuove attività, piccoli condomini, ville e villette.
Erano cambiate tante cose, troppo rapidamente perché il Guercio potesse assorbirle. Era entrato in quella fase della vita in cui non si ha più nulla da dire edè solo tempo di fare bilanci che non quadrano mai.
Proprio nel 1990 era rimasto solo, perché la Tilde, colpita da un male inesorabile, se ne era andata in una nebbiosa sera di novembre; era uscita dalla sua vita in silenzio, quasi in punta di piedi, e ora proprio quell'assenza di rumori della casa vuota, perché i figli si erano sposati ed erano andati ad abitare altrove, gli rimbombava nelle orecchie.
Spesso si diceva, a bassa voce, quanto incredibile potesse essere il rumore del silenzio, quello che non aveva mai potuto udire prima, soprattutto quando il lavoro erano i colpi striduli del martello sul ferro arroventato, quando sfiatato appariva il soffio del mantice, suoni che gli mancavano tanto fra quelle pareti in cui ogni cosa gli ricordava la moglie, tanto che talvolta gli sembrava di udire ancora la sua voce.
Sì, Annibale Chiocchetti, classe 1920, aveva cessato la sua attività il 31 dicembre 1989, perché l'età cominciava a farsi sentire e poi anche era diminuito non poco il lavoro, in un'epoca in cui quell'attività artigianale cominciava ad avere un sapore preistorico.
Chiusa l'officina, aveva venduto il locale e ora, quasi per ironia, laddove per tanti anni avvampava il calore della fornace si era insediata una gelateria.
Le giornate da solo e senza il lavoro erano diventate straordinariamente lunghe e lui faceva di tutto per occupare quel tempo, un po' con le faccende di casa, spesso con la lettura di libri e giornali, nonché con l'immancabile passeggiata giornaliera che come meta aveva sempre il bar Primavera. Quante gestioni c'erano state, quante ristrutturazioni in quella che un tempo era una semplice osteria! Entrava, si sedeva al tavolino in fondo a sinistra, ordinava il solito caffè d'orzo e rievocava, rivedeva con la mente personaggi da tempo scomparsi, compagni d'osteria, avventori che sembrava dovessero essere immortali, tanto erano stati caratteristici di un'epoca storica.
Ogni tanto capitava che andassi pure io a bere un caffè e allora mi sedevo al suo tavolo, edè stato in quelle occasioni che lui mi ha raccontato quasi tutte le storie del paese.
Sembrava trasognato quando ne parlava, quasi le rivivesse, e non di rado una lacrima faceva capolino dall'unico occhio.
Era un vecchio che camminava incerto verso il fondo della strada, ma il suo passato era un luminoso esempio di vita condotta nell'ideale di un'umanità avviata verso un mondo migliore, senza ingiustizie e senza prevaricazioni.
Rimaneva al bar più che poteva, anche se non c'era da conoscere nulla di nuovo di interessante; certo le corna si facevano ancora, ma senza quel piacere del peccato che invece prima portava i discorsi d'osteria ad affievolirlo, quasi che parlandone, magari in tono ironico e scherzoso, insomma rendendone partecipe tutti, il fedifrago riuscisse a mettersi la coscienza a posto.
Le occasioni di parlare con qualcuno in modo ricorrente erano diventate così del tutto sporadiche e gli unici interlocutori finimmo con il diventare io e Alì, un giovano africano, arrivato in Italia con la forza della disperazione e capitato in paese per caso.
Alì, lo ricordo: piccoletto, magro, capelli ricci, carnagione inequivocabilmente scura, come gli occhi, neri, ma che però brillavano di una luce che incantava e che avvinse anche il Guercio, perché esprimevano non solo intelligenza viva, ma riflettevano una cultura e una saggezza antica, diversa dalla nostra, e perciò estremamente interessante.
Ogni tanto li trovavo in conversazioni fatte di frasi pronunciate sommessamente, quasi nel timore che le verità esposte fossero talmente dirompenti da sconvolgere il mondo.
E invece, per quelle poche volte che ebbi occasione di ascoltare, si trattava di osservazioni, di riflessioni sull'uomo e sul mondo.
Ripeto, erano diventati una coppia fissa e dato che Alì durante il giorno lavorava come muratore, si trovavano immancabilmente al bar nelle ore serali.
- Dimmi, Alì, perché sei venuto in Italia, perché hai lasciato la tua casa, la tua famiglia?
- Per non morir di fame, per cercare un futuro fuori da un paese che non l'ha.
- E l'hai trovato?
- No, perché ho capito che il futuro è in noi stessi.
- E allora perché non torni?
- Perché almeno qui ho da mangiare e tutto quello che risparmio lo mando a casa, affinché mio padre, mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle non abbiano a patir la fame.
Il Guercio sentì che lo stava prendendo la commozione e cercò di cambiare discorso:
- Cos'è che non ti va dell'Italia?
- Tutto e nulla.
- Sarebbe a dire?
- Io sono qui per mangiare, voi invece sembrate correre dietro a qualche cosa che non riesco a capire, o forse desiderate solamente quello che non avete, ma così non sarete mai contenti.
- Capisco.
- No, non credo Guercio, anche se tu sei diverso dagli altri, perché per capire bisogna avere una visione della vita non solo materiale, anzi la materialità dovrebbe essere limitata solo alle esigenze fondamentali.
- Beh, io ho sempre combattuto per sconfiggere le ingiustizie, per dare dignità agli oppressi, per considerare l'uomo il fine di tutto.
- Hai fatto bene edè giusto, ma lo scopo della vita, di questo breve percorso è quello di conoscere noi stessi, di raffrontarci con gli altri e la natura che ci circonda,è quello di non intaccare l'armonia del creato.
- Sono parole un po' difficili, sembrano quelle di un filosofo.
- Ho studiato filosofia all'università di Tunisi.
- Allora sei laureato, sei un dottore.
- No, non sono riuscito a ultimare gli studi per mancanza di denaro e allora sono venuto nel tuo paese.
- Però parli bene la mia lingua, quasi come un italiano. Com'è possibile?
- A Tunisi, quando andavo all'università, sono diventato amico del figlio del console italiano. Era un bravo ragazzo e anche molto intelligente e così quando gli ho chiesto di insegnarmi la sua lingua, perché fra di noi parlavamo in francese ed era un po' affaticante per entrambi, ha aderito con entusiasmo edè stato un gran bravo maestro. E' stata in quelle occasioni che mi sono innamorato dell'Italia.
- Perché?
- Perché il mio amico, che vi tornava un mese all'anno, mi parlava di una terra libera, orgogliosa, di un posto dove chi aveva voglia di fare poteva anche salire in alto.
- Mi sa che ti ha gabbato.
- Gabbato?
- Sì, fregato; da noi la libertàè un lusso e l'hanno di fatto sono quelli che hanno i soldi.
- Infatti, me ne sto accorgendo, ma le grandi pianure verdi, le montagne ricoperte di abeti, i lunghi fiumi sono veri, esistono, come ho potuto vedere.
- E non hai nostalgia della tua terra?
- Sempre, quella non manca mai, soprattutto i silenzi del deserto, così invitanti alla meditazione.

I dialoghi erano più o meno questi e più il tempo passava, più nel Guercio cresceva l'ammirazione per il giovane, che volentieri contraccambiava, convinto di trovarsi di fronte a un uomo, anziano, ma ancora vitale, grazie all'ideale per cui era sempre vissuto.
Capitava anche, talvolta, che alla chiusura del bar il Guercio accompagnasse il suo giovane amico fino alla sua dimora, un vecchio casello ferroviario a circa un chilometro dal paese.
La strada era percorsa al buio e solo le stelle e la luna davano un po' di chiarore.
- Se guardo il cielo,è come se fossi al mio paese; anche là la notte si popola di sogni e basta guardar le stelle perché ne nascano altri. Siamo così piccoli rispetto all'universo che per comprenderlo dobbiamo per forza sognare, immaginare mondi ignoti, fantasticare su immaginarie linee tracciate fra questi astri, quasi una strada per andare da loro.
- E' vero.
- E poi così dimentichiamo i nostri problemi, per poco, ma per quel tanto che ci fa sentire avulsi dalla realtà. Vedere oltre ciò che scorgono i nostri occhi è in fondo guardare dentro di noi.
Il Guercio un giorno pensò a quella sistemazione di fortuna, alla mancanza di servizi igienici, al riscaldamento assente e allora decise di invitare Alì a venire a vivere a casa sua, nella camera ormai vuota dei figli.
- Ti ringrazio, ma non posso accettare.
- E perché? Staresti meglio e potremmo conversare senza dovere andare al bar.
- Non è che io rifiuti il tuo aiuto, ma la mia vita è questa e poi quando ho in mano un libro che mi piace non sento il freddo, anzi non sento più nulla,è come se fossi lontano dal mondo.
- D'accordo Alì, ma il fatto di non avvertire il freddo non vuol dire che quello non ci sia. Potresti ammalarti e anche seriamente.
- E' inutile che insisti, perché non accetterò mai: quella è la mia casa, là dentro c'è il mio regno, fra quelle quattro mura riesco ad essere nel deserto, ad avvertire il calore intenso della sabbia arroventata, a vedere il miraggio di un uomo che cammina verso le stelle.
Declinò pure l'invito a pranzare qualche volta dal Guercio e rifiutò perfino i generi alimentari che gli offrì.
- Non prendertela, anzi scusami, ma tengo troppo alla nostra amicizia, a quello scambio di idee che riscalda il cuore, perché la tua offerta, che io non potrò contraccambiare in alcun modo, possa farmi sentire in debito con te.
- Io sono in debito per tutto quello che mi insegni.
- No, io parlo e tu parli, io ti racconto e tu mi racconti, io conosco e tu conosci. E' molto diverso, se ci pensi bene.
Così quella strana amicizia fra un giovane arabo e un vecchio idealista proseguì per diversi mesi, con reciproco beneficio.
Però, forse quello che ne traeva più vantaggio era il Guercio, che mano a mano che conosceva se stesso cominciò a considerare cose di poco conto il tradimento dei politici, la fine del comunismo, il crollo di un sistema che non lo aveva mai convinto, ma che pensava che fosse l'unico che potesse dare dignità alla vita dell'uomo.
Nonostante la perdita della moglie, malgrado il progressivo avvento di una politica che era la negazione dei diritti del cittadino e del principio della democrazia, giorno dopo giorno acquisiva un dono quasi divino, avvertiva che la serenità era entrata in lui.
Ma una sera Alì non venne al bar; il Guercio attese fino alla chiusura, poi decise di andare al casello, nel timore che stesse poco bene. Quando vi giunse chiamò, senza ottenere risposta; bussò alla porta e la trovò aperta. Dentro c'era ben poco: un fornello a gas, due stoviglie, una tanica d'acqua, una branda e alcuni libri, ma di Alì nessuna traccia.
Ritornò a casa sconsolato, in preda a foschi presentimenti, non dormì tutta la notte e l'indomani, ancora presto, andò dai carabinieri a denunciare la scomparsa.
- Sig. Chiocchetti,è un extracomunitario, oggi c'è, domani non c'è. Sarà tornato al suo paese.
- No, si sbaglia, non sarebbe mai andato via senza salutarmi.
- Va bene, vedremo di diffondere la notizia e se sapremo qualche cosa la avviseremo.
Il Guercio sembrava invecchiato di colpo e se ne andò subito al bar, dove rimase fino alla chiusura, senza mangiare nemmeno un boccone.
Ritornò a casa e, provato dalla stanchezza, si addormentò.
Lo risvegliò il suono del telefono.
- Pronto, chi parla?
- Sono il brigadiere Annunziata, l'abbiamo trovato e purtroppo devo darle una brutta notizia…
Gettò giù la cornetta, si vestì sommariamente e corse alla caserma.
- Vede, signor Chiocchetti, l'hanno trovato in un fosso a lato della strada…
- Morto?
- Sì, forse investito da un'automobilista che poi è fuggito.
Il Guercio rabbrividì, nonostante avvampasse.
- Non riesco a crederci.
- Nemmeno io.
- Nemmeno lei riesce a credere che sia morto?
- No, all'ipotesi che l'abbia investito un'auto pirata, perché le fratture alle gambe, secondo quello che ha detto il medico, sono compatibili solo con una caduta dall'alto e non per un impatto laterale.
- C'era qualche cosa di alto, lì?
- Nulla.
- Lui faceva il muratore edè in un cantiere che potrebbe essere caduto.
- E magari non era assicurato e hanno portato poi lì il corpo per far credere a un incidente della strada.
- Le chiedo una cortesia, se può.
- Dica.
- Provi a fare il giro dei cantieri nei dintorni e forse riuscirà a trovare qualche cosa.
- E' quello che sta facendo il mio appuntato.
- Grazie, grazie mille, e mi raccomando, mi sappia dire qualche cosa. Ai funerali provvederò io.
Non fu difficile scoprire che cos'era accaduto. Assunto ovviamente in nero, pagato meno della metà del contratto, era stato incaricato da un imprenditore del vicinato di sostituire la copertura di un vecchio capannone. Un lastrone aveva ceduto e Alì era precipitato da 15 metri di altezza; ancora agonizzante, il padrone l'aveva caricato in auto per abbandonarlo poi in un fossato a un chilometro di distanza.
Al funerale partecipò solo il Guercio, che seguì poi il processo con particolare attenzione, ma la sentenza, per quanto di colpevolezza, fu una beffa, perché si tradusse in pochi mesi con la condizionale, peraltro.
Allora volle parlare a quel padrone così disumano.
- Non si vergogna di quello che ha fatto? Non prova un po' di rimorso?
- E tu chi sei?
- Un amico di Alì.
- Un amico di un negro non merita risposta.
Gli venne irrefrenabile l'impulso di dargli un pugno, ma non riuscì ad alzare il braccio, perché una fitta improvvisa nel petto glielo impedì.
Avvertiva una sensazione strana, come se improvvisamente un macigno premesse sul torace, un'impotenza improvvisa che gli bloccava perfino il respiro, dandogli un affanno che andava ben oltre la tensione della sua arrabbiatura.
Non aveva più forza, tutto girava all'intorno, un velo di nebbia scese di colpo sugli occhi.
Si accasciò, venne soccorso, portato d'urgenza all'ospedale, posto in rianimazione per infarto del miocardio.
Riuscì ad uscirne, ma con il cuore a pezzi in tutti i sensi.
(da "Storie di paese" - seconda serie)

La monnezza è ricchezza
- Ci troviamo a Pianezza, dove c'è la famigerata discarica e dove l'emergenza è più acuta. Come potete notare dalle riprese del nostro operatore la spazzatura è ovunque, sui marciapiedi, in mezzo alla strada, ammucchiata davanti alle scuole. E' uno spettacolo orribile e il puzzo è ovunque.
Gustavo Brambilla, giornalista di Telealtavaltellina Libera, spense l'audio del microfono e si portò una mano alla gola a soffocare i conati di vomito.
Alì Mahmoud, l'operatore televisivo, in Italia da 10 anni e ancora in attesa del permesso di soggiorno, sbottò:
- Dottore, se sapevo che l'Italia era così col cavolo che venivo via dal Marocco.
- No, Alì,è quest'Italia che è così, perché da noi è diverso; lì c'è ordine, organizzazione e pulizia.
- Sarà, ma questo permesso di soggiorno è da anni che l'attendo.
- Stai tranquillo, e sii contento, perché così non devi pagare le tasse; tu sei da noi e non ci sei, l'ideale per evadere il fisco.
- Dottore, ma se racconto di questa immondizia a casa mia non ci credono; son capaci di pensare che sono ammattito.
- E a te che importa. Continua a riprendere e basta. Ecco, fai una zumata in fondo alla via dove i bambini dell'asilo stanno dando fuoco a un cassonetto, o meglio a quello che secoli fa doveva essere un cassonetto. Ora voglio fare delle domande a qualcuno e tu devi fare delle belle riprese.
Gustavo Brambilla si guardò intorno, poi trovò il soggetto adatto, un vecchietto smilzo, incanutito seduto sull'immondizia.
- Mi scusi, vorrei farle alcune domande.
Il vecchietto lo guardò torvo.
- Solo poche cose, che riguardano questa sporca faccenda.
- Sporca, ha detto bene, sporca, lurida, lercia che è una schifezza.
- Se può moderare il linguaggio…sa, siamo in televisione.
- Va bene, dica pure.
- Da quanto c'è questo problema?
Il vecchietto chiuse gli occhi, come a cercare la memoria, poi sbottò:
- Dunque, sono nato il 15 aprile 1920…Un attimo che penso. Ah, sì. E' cominciato tutto con la Repubblica. Non che prima non ci fosse la monnezza, ma ce n'era poca, perché non si mangiava. Poi, la Cassa del Mezzogiorno e un po' di briciole ci sono arrivate, solo quelle però. Che fame che dovevano avere quei politici: si sono mangiati tutto.
Brambilla spense l'audio e un po' imbarazzato raccomandò all'intervistato di non parlare di politica.
- Va bene, ma se esiste una politica economica, in questo paese c'è solo la politica non economica.
- Mi servono alcuni chiarimenti. Ma come fate a vivere in mezzo a questo tanfo?
- Quale tanfo?
Brambilla lo fulminò con lo sguardo.
- E' che voi che non siete di qua non siete abituati; noi abbiamo ormai l'olfatto atrofizzato edè anche un bene, perché non sento il puzzo del mangiare che mi passa l'ospizio.
- Capisco, ma si mormora che c'è gente che si arricchisce con questa spazzatura; si parla di discariche abusive, di scorie pericolose.
E qui Brambilla abbassò la voce e quasi sussurrando fece il nome della camorra.
- Ehhh, la camorra, ma volete capire che non esiste,è tutta propaganda di certi giornalisti per vendere più copie.
Brambilla spense il microfono e si allontanò alla ricerca del sindaco.
Gira rigira, evitando i cumuli di spazzature, alcuni dei quali in fiamme, davanti al municipio si imbatté in un assessore.
- Posso rivolgerle un paio di domande?
- A disposizione.
- Lei è assessore a cosa?
- All'ambiente.
- All'ambiente? Allora cerchi di spiegarci com'è potuta accadere una cosa simile.
- Quale cosa?
- Insomma, quest'emergenza spazzature.
- Non c'è nessuna emergenza, anzi è tutto programmato come un orologio svizzero.
- In che senso?
- Voi fate la raccolta differenziata, che è un po' razzista, e noi invece, con grande risparmio per il comune, ricorriamo all'usa e getta, indifferenziato.
- Eh?
- Guardi,è semplicissimo: noi siamo molto più avanti di voi del nord. Se mi lascia cinque minuti le spiego.
- D'accordo.
- Allora, da voi ci sono i lavori socialmente utili, da noi sono inutili socialmente, ma proficui individualmente.
L'operatore ecologico non fa niente, perché non deve fare niente, o meglio, se proprio vuole, può fare un altro lavoro.
Noi non vogliamo le discariche perché non ne abbiamo bisogno; si butta tutto in strada, poi ogni tanto si termovalorizza senza la necessità di costruire impianti costosi, basta un po' di benzina, un fiammifero e il freddo di questa stagione diventa meno rigido.
Brambilla era visibilmente agitato e sudava, anzi grondava.
- E allora perché, per esempio, vi opponete alla riapertura della discarica?
- Lì faremo un campo da golf, una meraviglia, anzi la invito sin d'ora a venire all'inaugurazione.
- E quando sarebbe?
- Ecco un altro difetto di voi settentrionali: le scadenze improrogabili. Quando non lo so, ma verrà fatto.
- Scusi, ma il motivo per cui protesta questa gente?
- Se si riapre la discarica, i lavori per il campo da golf subiranno un ritardo.
- A dire il vero, lamentano che la mortalità per malattie tumorali nella zona è superiore alla media nazionale.
- Scusi, ci pensi un attimo, ma se questo fosse vero, perché avrebbero costruito tutte quelle case intorno alla discarica? Mi creda, caro giornalista, quando le dico che la monnezza è ricchezza. Adesso ci portano via le nostre spazzature, a cui tanto siamo affezionati, ma ci facciamo pagare, e come se ci facciamo pagare, perché abbiamo ottenuto per loro dalla regione il marchio DOPC, denominazione d'origine controllata e protetta. Sono talmente importanti per il paese Italia che da anni sono gestite da commissari e piovono soldi da Roma come un temporale estivo.
Pensi che addirittura ne esportiamo in Germania, con grande sacrificio da parte nostra nel vedere questi frutti del nostro lavoro finire nelle mani di quei dannati crucchi. La nostra è roba buona, mica come quella che ci mandano loro e che siamo costretti a disperdere sul territorio per non contaminare il nostro prodotto. Sì, perché ci sono rifiuti e rifiuti, e quelli campani sono il fiore all'occhiello della nostra grande nazione.
Si udì un tonfo. Alì, asfissiato, si era lasciato andare sul cumulo di spazzature. Sarà stata l'aria irrespirabile, sarà stata la vista del malore del collaboratore, ma anche Brambilla si sentì mancare, e mentre scivolava sulla monnezza, udì come lontane, ma ancora comprensibili, le parole dell'assessore:
- Ragazzi, datemi una mano e tiriamoli via da qui, perché altrimenti inquinano tutto.

N.B:
Ogni riferimento a fatti o a persone è del tutto casuale.
In Campania non c'è l'emergenza rifiuti e il paese di Pianezza non esiste, coperto com'è ormai da tempo…dalla monnezza.

Una storia vera
- Come sei bello, vestito da soldato!
Il fante Secondo Scaglioni guardava sua madre un po' imbarazzato; erano alla stazione ferroviaria, pronti a salire sul convoglio che li avrebbe portati al fronte, tanti soldati come lui, accompagnati dai parenti stretti e non pochi anche dalle fidanzate.
Occhi lucidi, ovunque; genitori che si sforzavano di non piangere, ma avevano un nodo in gola che serrava loro la voce; ragazze che invece lasciavano scorrere le lacrime, piccole gocce che fazzoletti ormai zuppi non riuscivano ad asciugare.
- Davvero, mamma?
- E' la prima volta che ti vedo vestito tutto intero con abiti non di seconda mano. Il mio Ninin…ci voleva una guerra per avere indosso qualcosa di nuovo. Riguardati, mi raccomando, copriti bene che sei stato sempre debole di bronchi, e soprattutto non esporti.
Secondo si guardava intorno, o meglio non sapeva dove volgere gli occhi, perché se li avesse diretti sul viso della madre sarebbe scoppiato a piangere.
Per fortuna, arrivò il fischio del treno che annunciava la partenza: ordini secchi, mani che faticavano a lasciarsi, poi tutti su, lo sbuffo del vapore, la tradotta che si muoveva, i finestrini aperti con tanti volti sporti fuori per un ultimo sguardo, fazzoletti che sventolavano, e infine il convoglio che prendeva velocità, giungeva alla curva e spariva alla vista dei familiari.
Papà e mamma Scaglioni, e la gemella di Secondo, Elvira, con in grembo un figlio al quarto mese, si guardarono negli occhi, senza parlare, perché tanto non ce n'era bisogno.

Meglio non pensare, meglio nascondere l'angoscia sotto le lacrime: la guerra, che, secondo i proclami doveva essere una passeggiata, nonostante la censura si rivelava, nei racconti dei pochi tornati in licenza, un orrore senza fine.
E pensare che agli inizi si era blaterato che bastava dare una spallata alla porta del Carso per mettere in ginocchio il nemico austriaco e ora invece, dopo tante battaglie con decine di migliaia di caduti, quella porta si apriva sull'inferno.

                                                                                                                   ***

Secondo Scaglioni, diciannove anni, fisico esile, di professione apprendista sarto perché non era robusto per lavorare in campagna, era rimasto sorpreso quando seppe di essere stato arruolato. Infatti alla visita medica per il servizio militare era risultato rivedibile per la scarsa costituzione fisica. Ma non poteva sapere che la macelleria del Carso reclamava ogni giorno nuove vite da immolare in un osceno sabba di morte, una sorta di olocausto senza logica e senza pietà.
La sua vita, fino al giorno in cui i carabinieri del paese gli avevano notificato la cartolina di precetto - che era riuscito a leggere a malapena, poiché non aveva frequentato che pochi anni di elementari - era stata quella propria di uno dei tanti giovani poveri dell'epoca. Troppi in casa, poco cibo, niente soldi, un futuro che prometteva solo ristrettezze, la lunga strada che doveva percorrere a piedi ogni giorno, con il freddo o con il caldo, con la neve dell'inverno o con la pioggia dell'autunno, per recarsi al lavoro in città, in una sartoria dove, come apprendista, sgobbava dodici ore al giorno per un pugno di niente. E poi il ritorno, nel buio della sera, niente di più di un passaggio da una miseria a un'altra miseria.

                                                                                                                   ***

La tradotta procedeva a rilento, fra campi che sembravano abbandonati, perché quasi tutti gli uomini erano al fronte, un intero paese scarnificato nella sua essenza per gli interessi di un monarca freddo e impietoso.
Secondo non parlava con gli altri, ma guardava solo il paesaggio, campi che gli ricordavano quelli di casa, filari di vite come quelli sotto cui da bambino giocava a nascondino.
E nonostante la novità del viaggio in treno, lui che non vi era mai salito, avvertiva già forte la nostalgia.
Nella carrozza c'era chi parlottava, altri che si sforzavano di ridere, qualcuno raccontava le sue mirabolanti avventure di grande amatore. Parole che giungevano a Secondo come un ronzio e non distoglievano la sua mente dal pensare al suo piccolo mondo, sì di miseria, ma anche di affetti.
- E tu l'hai la morosa?
Secondo si scosse e volse allo sguardo a quello seduto accanto a lui.
- Chi, io?
- Ma certo, tu e chi altro? Non hai detto una parola da quando siamo partiti. Scommetto che pensi solo alla mamma.
Secondo arrossì, strinse le spalle e rispose con quella sua voce sottile, ma dolce, che era una sua caratteristica.
- C'è una che mi piace, ma non siamo ancora morosi.
- Allora, quando torni, datti da fare, recupera il tempo perduto.
- Se torno…
- Ma certo, dai, non pensare a queste cose.
- E a cosa dovrei pensare? Non ho mai fatto male a nessuno, mi hanno chiamato, mi hanno vestito, due giorni di marce suè giù per il cortile della caserma, mi hanno dato un fucile talmente pesante che faccio fatica a tenerlo in mano e mi hanno detto " Vai e uccidi, per l'onore della patria".
- Loro dicono sempre così.
- Ma chi dovrei uccidere? Uno che non so nemmeno chi è, uno come me, come te, solo che ha una divisa di diverso colore.
- Già…
Il colloquio fu interrotto dal sergente che li accompagnava:
- Basta. Tu devi uccidere per non essere ucciso.
Tutti tacquero, come alunni la cui ricreazione era terminata.
- Ascoltatemi bene. Nemmeno a me piace ammazzare, ma siamo soldati italiani e porca miseria dobbiamo farlo, perché ce lo comanda il re, ce lo comanda il generale, ve lo comando io e perchéè l'unica possibilità per sperare di tornare a casa.
Le ultime parole gli morirono in gola, si buttò in un angolo a guardare il paesaggio di fuori.

                                                                                                                 ***

Intanto i genitori erano giunti a casa, silenziosi, con il pensiero fisso a quel figlio che stava andando al fronte e all'altro prigioniero in un campo di lavoro in Croazia. Per quest'ultimo avevano meno timori, perché per lui le battaglie erano finite e poi Guido, così si chiamava, era robusto, autoritario, insomma sapeva farsi valere, forse per quello spirito ribelle che lo caratterizzava e che qualcuno esagerando definiva anarchico.
Anche la gemella Evira, con la pancia in fuori, era tornata a casa, dividendo i suoi pensieri fra quel suo fratello dai lineamenti delicati, quasi femminei, che era appena partito, e il marito Benvenuto, in chissà quale trincea del fronte.

                                                                                                                  ***

Il giorno dopo, senza mai fermarsi, la tradotta entrò nel Friuli, in piena zona di guerra, anche se il panorama all'intorno sembrava tranquillo. Se non fosse stato per l'incrocio con i treni ospedale non si sarebbe pensato che andando avanti c'era il nemico.
Fu solo al pomeriggio che Secondo, sempre con lo sguardo rivolto al finestrino, scorse a est grosse nubi che andavano addensandosi, accompagnate da brontolii cupi e da bagliori.
Fu così che gli scappò detto:
- Là in fondo sta arrivando il temporale.
Il sergente, chiusi gli occhi, rispose:
- No, là c'è battaglia, là c'è il Carso, là c'è la porta dell'inferno.
Si avvicinarono tutti ai finestrini, diedero un'occhiata, poi ritornano a sedersi, silenziosi e incupiti.
Arrivarono a sera inoltrata, scesero dal treno e proseguirono a piedi, lungo una strada su cui si affollavano autocarri con salmerie, o che trainavano cannoni, un lungo serpente che preludeva una nuova battaglia.
Per la notte li sistemarono in una vecchia stalla, ma nonostante la stanchezza nessuno riuscì a dormire, perché il borbottio di quel temporale era diventato un fragore.

                                                                                                                ***

A casa nemmeno i genitori riuscirono a prendere sonno e rimasero a lungo sdraiati a occhi aperti tenendosi per mano. Dove sarà ora, come starà? Pensavano senza parlare e avvertivano il vuoto intorno a loro.

                                                                                                                 ***

Trascorsero i giorni, non molti, non più di una decina, e dopo una piccola istruzione militare nelle retrovie, Secondo Scaglioni e i suoi compagni furono condotti in prima linea, una trincea fangosa e puzzolente, una doppia fila di reticolati e di cavalli di frisia, poi, poco più in là, a non oltre un centinaio di metri, il nemico.
Quel giorno fu calmo, stranamente, e Secondo riuscì a far scrivere da un compaesano una lettera, l'unica, perché poi non gli fu più possibile.
"Cari genitori, sono arrivato e sto bene. Siamo in tanti e buoni amici. C'è anche Enrico Vanti del paese edè lui che scrive questa. Non ho ancora visto il nemico, ma so che c'è, più in là.
Non preoccupatevi, perché i comandanti sono bravi e ci tengono alla nostra salute.
Un abbraccio, specie alla mamma.
Secondo".
Non passarono ventiquattro ore ed ebbe inizio la decima battaglia dell'Isonzo.
In piena notte l'artiglieria italiana scatenò un uragano di fuoco, valanghe d'acciaio furono scagliate sulle linee austriache, mentre i nostri soldati attendevano trepidanti nelle trincee.
Poi venne l'alba, furono rimossi i cavalli di frisia, si praticarono aperture nei reticolati…

- Baionetta in canna, al segnale uscire dalle trincee e andare all'attacco, di corsa!
Un trillo di fischietto, i fanti che risalgono il bordo della trincea, Secondo che stringendo il fucile esce…
Esplode violento il tiro dell'artiglieria austriaca, tanti cadono ancora prima di aver percorso due passi, Secondo che alza le braccia al cielo e ricade all'indietro, i portaferiti che accorrono, fanno la spola disperatamente fra la trincea e l'ospedale da campo.
Prendono Secondo, lo caricano, le sue braccia penzolano dalla barella, la testa è tutta coperta di sangue.
E' così che lo vede Enrico Vanti, mentre aiuta a caricare altri feriti.
Poi il tiro di controbatteria italiano, completamente sbagliato, che colpisce le nostre linee, con i proiettili "amici" che fanno scempio, che cadono anche sull'ospedale da campo.

                                                                                                              ***

Elvira sta preparando un caffè d'orzo, quando ode un urlo, una voce sottile che la chiama:
- Elvira!
Si volge intorno, nella piccola cucina non c'è nessuno, ma lei conosce bene quella voce e si lascia sfuggire un gemito:
- Secondo, Secondo…
E' tutta agitata e decide di andare dai suoi, a piedi, perché non c'è altro mezzo.
E' una strada lunga,è incinta, ha l'affanno, l'angoscia e quando arriva non ha bisogno di parlare, perché i suoi pensino al peggio.
- Benvenuto?
- No.
- Guido?
- No.
- Secondo… - e già la madre piange.
- Non so. Mi ha chiamato.
Il giorno dopo arriva la prima brutta notizia: Guido, quello in prigionia,è morto in un incidente sul lavoro. E' accaduto un mese prima, ma le comunicazioni sono lunghe attraverso la Croce Rossa Internazionale.
La madre singhiozza, Elvira pure, il padre si sfoga in un angolo, fuori di casa.
E dopo tre giorni i carabinieri si presentano nuovamente alla porta con un messaggio.
"Si informa che il fante Secondo Scaglioni risulta disperso in un'azione di guerra sul Monte Sei Busi. Seguiranno eventuali notizie relative al suo ritrovamento.
Il Comando del Medio Isonzo"
Poche parole, fredde, per una tragedia che lascia tuttavia una larvata speranza.
Ma i giorni passano e non arrivano altri messaggi.
Fa ritorno a casa, però, per una breve licenza Enrico Vanti e allora i genitori di Secondo vanno a chiedergli del figlio.
- L'hai visto?
- Sì.
- E' vivo?
- Non vi so dire; lo trasportavano all'ospedale da campo.
- Era ferito gravemente?
- Sì.
- Aveva speranze di salvarsi?
- Non sono un medico, ma la ferita alla testa era brutta.
Si fa silenzio, poi è il padre ora a domandare, da solo, visto che la madre guaisce in un angolo.
- L'hai più visto, dopo?
- No, la nostra artiglieria ci ha bombardato per sbaglio edè stato un massacro.
- E l'ospedale?
- Dopo, non se n'è più trovata traccia.
Il padre mette una mano sulla testa della moglie:
- Andiamo.
E i due lentamente si incamminano verso casa, non una parola, non ce n'è bisogno.

                                                                                                                 ***

Passarono i mesi, la guerra finì, ritornarono i reduci.
La madre, fino a quando ebbe vita, sperò e volle che la porta di casa rimanesse sempre aperta per accogliere il figlio, ma Secondo Scaglioni non fece più ritorno.

Nota dell'autore:
La vicenda, nelle sue linee essenziali, risponde al vero, così come me l'ha raccontata anni fa Elvira Scaglioni, mia nonna.

Lui e lei
Quando negli umidi giorni di novembre scende la nebbia ad avvolgere ogni cosa, rendendo spettrale la visione del mondo che ci circonda, tanto da avvertire un brivido interno, una sorta di freddo dell'anima, mi viene in mente. Ogni volta rivedo tutto come se il ricordo si materializzasse e allora il gelo sale rapido, proviene dal profondo, si aggrappa al mio corpo e mi stringe lo stomaco.
E' stato tre anni fa, una mattina dal chiarore lattiginoso, tale da impedire la vista del pallido sole autunnale, ma non di celare i riflessi bluastri e arancioni dei lampeggianti delle auto della polizia e delle ambulanze, luci intermittenti che andavano e venivano.
Ma prima, prima il segno inconfondibile della tragedia: una sirena lacerante, poi un'altra ancora.
Già udire il suono provoca apprensione, ma sentirlo avvicinarsi sempre di più, per poi cessare di colpo vicino a dove abiti trasmette un'angoscia, la certezza che lì, a pochi metri, qualche cosa di grave è accaduto.
Non ho potuto fare a meno di voler sapere e mentre mi precipitavo in strada nella mente si creavano rapide congetture. Che si tratti di Pino, che non stava bene? No, perché lui abita più in là. Forse la signora Giovanna, sempre malaticcia. No, nemmeno lei, perché ieri è entrata in ospedale.
E intanto ero sceso in strada e affrettavo il passo verso quei riverberi di luce. No, fa che non sia uno di loro. Come potrebbe vivere l'altro? E invece penso che sia così, perché ora vedo le auto, le ambulanze e sono davanti alla casetta di lui e di lei.
Rimasi prudentemente sull'altro marciapiedi, in mezzo a tanti vicini attoniti, a gente che, come me, voleva sapere.
- Sei qui anche tu?
Mi voltai e vidi il sindaco, con gli occhi smorti, una maschera che non riusciva a celare un'intensa commozione.
- Abito vicino, Luigi; ho sentito le sirene, poi ho visto i lampeggianti nella nebbia e sono corso subito. Che è successo?
In quel momento il braccio cortese di un poliziotto si interpose fra lui e me.
- Signor sindaco, il procuratore vuole parlarle.
Lo vidi allontanarsi e sparire nella nebbia, mentre invece dalla casa uscirono degli uomini che portavano due casse di zinco.
Tutti e due, allora… E mi vennero le lacrime agli occhi.
In pochi attimi rividi immagini dimenticate, risentii voci che sembravano ormai accantonate negli archivi polverosi del passato.
"- Buona giornata. Siamo i due nuovi vicini.
- Bene arrivati.
- Grazie."
" - Passa sempre per questa strada con la sua cagnolina.
- Ha bisogno di un po' di moto.
- Sarà una compagnia per lei, vero?
- Una grande compagnia"

"- Sono un ferroviere in pensione e con la liquidazione abbiamo preso questa casetta. E' piccola, ma noi siamo solo in due e non abbiamo altri. Per fortuna che c'è un giardinetto, dove mettere le rose.
- E' un passatempo anche il giardinaggio.
- Certo".

Erano tutti convenevoli di buon vicinato, ma non ci presentammo nemmeno, tanto che per me loro due erano semplicemente lui e lei, niente di più di due persone un po' avanti con gli anni e molto educate.
Tuttavia, passa un giorno, passa un altro, ogni volta veniva spesa una parola di più. L'impressione che ebbi chiara era quella di due esseri in perfetta simbiosi, nel senso che ognuno era in funzione dell'altro e del resto trovarsi in età avanzata senza parenti non faceva che rafforzare quel legame.
Erano però riservati e da loro seppi ben poco di quel che era stata la vita condotta insieme, tranne una volta.
"- Io e mia moglie avevamo anche un figlio.
Tacque un momento, come timoroso di svelare un segreto.
- Poi, aveva ventidue anni, un incidente, un ubriaco con l'auto…
E si fermò, guardandomi con gli occhi lucidi, occhi in cui si leggeva un dolore che non era passato.
Lei non disse niente, anzi gli appoggiò la mano su una spalla e sussurrò:
- Rientriamo. Ci scusi."

Da quella rivelazione i colloqui ritornarono ai puri convenevoli, quasi se l'aver aperto il loro animo a uno sconosciuto fosse stata un'imprudenza, o forse anche una mancanza di rispetto nei miei confronti.
E quindi ripresero i soliti saluti, o al massimo brevi accenni al tempo, o a problemi di giardinaggio.
Poi, un giorno, passando, mi accorsi che non c'era nessuno in casa, fatto piuttosto strano per l'orario, e anche al ritorno non notai anima viva. Così per diversi giorni, almeno una decina, fino a quando una mattina lo vidi che mi guardava da dietro la finestra. Feci un cenno di saluto con la mano, ma non rispose.
Solo al ritorno dalla mia passeggiata compresi che cosa era accaduto. Lui mi aspettava in giardino, sembrava quasi che avesse bisogno di dirmelo.
" - Mia moglie ha avuto un ictus,è totalmente paralizzata e non ragiona più.
- E' a casa?
- Sì.
- Vedrà che poi piano piano recupera. Non si butti giù, mi raccomando. Se ha bisogno di qualche cosa, quel che posso, volentieri…"
Non rispose e a capo chino rientrò in casa.

Tre giorni dopo, la nebbia, le sirene delle ambulanze e della polizia e quelle due casse di zinco, una risposta inequivocabile alla mia domanda.
Dal quotidiano locale, il giorno dopo, appresi quel che era accaduto.
Lui, vinto dallo sconforto, aveva ucciso la moglie con due colpi di pistola e poi si era suicidato con la stessa arma. Il giornalista aveva costruito un bell'articolo, quasi strappalacrime sui problemi della solitudine, citava più volte i nomi e i cognomi dei due coniugi, quasi li avesse conosciuti.
Non ricordo più come si chiamassero, un dettaglio di nessuna importanza, a fronte di fatti che superano ogni umana comprensione, laddove l'unico elemento certo è un vincolo indissolubile anche oltre la vita.
Ecco, io li voglio ricordare così e per me saranno sempre lui e lei.
(da Storie di paese - Seconda serie)

La notizia
Ho letto sul Corriere Internet di una ragazza marocchina di 16 anni travolta e uccisa da un autobus a Modena il 31 ottobre. Fin qui la notizia, per quanto tragica, non si presta a motivi di riflessione, perché purtroppo sappiamo che quando si è giovani, come quando si è vecchi, si è più facilmente sbadati e magari si attraversa la strada senza guardare. E non sempre tutte le volte non ci sono conseguenze.
Per comprendere il motivo di questo mio scritto occorre completare la notizia. I compagni di classe accorrono e alcuni scoppiano a piangere, reazione comprensibilissima, ma altri, impassibili, freddi e cinici filmano e fotografano con i cellulari la scena raccapricciante della ragazza con la testa sfondata e poi mettono tutto su Internet. Per certo ora quelle immagini non sono più presenti in rete, perché sono state ritirate quando il preside, saputo dell'accaduto e del seguito, si apprestava a fare la denuncia alla polizia postale.
Questo fatto mi ha scosso profondamente, ma ancora una volta mi ha confermato che, come non esiste nessun rispetto per la vita, non ne esiste nemmeno per la morte.
Dove avvengono omicidi, oggetto di ampi, anzi troppo ampi servizi dei media, la gente accorre a frotte, a vedere i luoghi, a sentire l'odore della morte e questa è la tragedia più grande.
Sì, anche la morte, in un tempo passato permeata di una sacralità che esigeva giustamente il silenzio durante lo svolgimento della cerimonia funebre,è diventata oggi spettacolo e come tale esige gli applausi, una sorta di macabro show in cui l'uomo brucia le residue possibilità di dimostrarsi l'essere superiore.
Mi sembra di vedere i volti di quegli studenti che filmano, mi sembra di avvertire la profonda soddisfazione per quell'insperato servizio che stanno realizzando, perchéè ovvio che ci si debba vantare e per farlo è indispensabile farlo sapere e quindi mettere su Internet immagini e filmato.
Al riguardo mi è venuto in mente il caso di quello studente finlandese che ha compiuto una strage nella sua scuola, addirittura preavvisandola in rete.
E' stato considerato un caso estremo, quasi limite, ma ancora rivedo i volti impassibili di quegli studenti che filmano quel povero corpo straziato e non posso fare a meno di pensare che sono un serbatoio di futuri killer.
Del resto, la violenza impera e se non bastasse quella quotidiana, con stupri, rapine, omicidi, ci pensano i media a propinarcela nelle pellicole cinematografiche e nei programmi televisivi.
Aumentano i casi di intolleranza nei confronti delle minoranze, soprattutto straniere, facendo tranquillamente di ogni erba un fascio. Sparare nel mucchio non è più un atto riprovevole, ma una prova di virilità, di forza, di superiorità.
Si è arrivati perfino a dare a scuola dei temi su come si uccide e la morte è diventata così non la fine della vita di ogni essere umano, ma l'ossessione di un'umanità già morta dentro.

Memento Myanmar
Ringrazio Giuseppe Iannozzi per aver diffuso subito la notizia dei massacri dei monaci in Myanmar (ex Birmania) e a corredo ci sono fotografie raccapriccianti.
In quel disgraziato paese c'è al potere un gruppo di militari che tratta il popolo né più né meno come faceva Pol Pot in Cambogia. Definire dittatura questo regime è un puro eufemismo, perché là il potere opprime, elimina, tortura, stupra, in una sorta di regno del terrore.
Pur comprendendo Amnesty International che ha richiesto urgentemente la sottoscrizione di un appello, resta il fatto che questo cadrà nel vuoto perché chi può non fa e non farà, visto che ha interessi economici laggiù.
Il signore della guerra americano, così solerte a inventare armi di distruzione di massa per invadere l'Iraq, evita perfino di riunire le altre superpotenze per un intervento armato. Già l'Iraqè l'Iraq con il suo petrolio, e invece Myanmar ha "solo" grandissime riserve di gas naturale che compagnie occidentali si apprestano a sfruttare, ovviamente d'intesa con i generali.
E allora il problema non è più la giunta militare, ma un capitalismo ottocentesco che per il profitto non solo è disposto a chiudere un occhio, ma anche ad avallare comportamenti criminali.
Credetemi, là i monaci sono sfilati per le strade per chiedere libertà e giustizia, ma non solo per il loro paese, anche per il mondo intero.
Il massacro, orribile, tragico,è la riprova che chi chiede diritti fondamentali ha trattamenti barbari, anche con il tacito assenso di chi potrebbe e non fa.
Ma che dovrebbe fare il regime imperante del neoliberismo, che è la negazione dell'umanità a vantaggio solo del profitto e del potere?
Ricordiamo, e pensiamo che in fondo Myanmar non è così lontano e che tutto il mondo è un po' Myanmar.
Firmiamo l'appello di Amnesty, dimostriamo almeno che abbiamo compreso il significato del sacrificio di questi monaci.

Memento Myanmar
Chiedevo la vita, la dignità di essere uomo,
ho camminato sull'asfalto intriso di sangue,
ho pregato per chiedere un po' d'umanità,
ho dormito su marciapiedi lordati
dall'ingiustizia, disseminati d'odio.

Ho rivolto gli occhi al cielo affinché
Lui guardasse quaggiù,
sentisse il dolore che sale da una terra
che piange solo lacrime di sale.

Ho implorato gli empi,
i massacratori di ogni giustizia,
perché anche per loro ora sono qua,
un fagotto di stracci impregnato
di sangue rappreso,
due spanne di terra a soffocare
il grido infinito di libertà.

Memento Myanmar,
nulla è inutile,
nemmeno la morte,
se può dare la vita.
Renzo Montagnoli

Viaggio in Toscana (Riflessione)
I problemi di ogni giorno, che spesso involontariamente ci creiamo, quella sorta di frenesia di correre continuamente senza un perché, non ci rende la vita piacevole, perché l'uomo non può modificare il tempo e se si illude di farlo paga inevitabili conseguenze, come frustrazioni, nevrosi.
Eppure, si potrebbe vivere meglio, in un'armonia naturale che, se non è gratificante materialmente, lo è però spiritualmente e, credetemi, la serenità altri non è che uno stato di appagamento interiore forse più apprezzabile della felicità, che è invece uno stato emozionale illusorio e per lo più di breve durata.
Spesso è sufficiente cambiare aria, lasciare la nostra residenza per ricaricare il nostro equilibrio interno, purché ovviamente non si cerchi di ricreare in altro luogo la vita di ogni giorno.
In questo senso vi voglio parlare del mio recente viaggio in Toscana, all'inizio motivato dal piacere di fare cosa gradita a un amico, nel caso specifico Gordiano Lupi, presentando in corso di premiazione un libro su Piombino (Piombino tra storia e leggenda), di cui ho fornito un resoconto con apposito articolo.
Premetto che l'unica nota negativa di questo viaggio è stata quella della distanza dai luoghi e della necessità di raggiungerli in tempi abbastanza brevi, ovviamente in automobile con un viaggio non solo affaticante, ma stressante.
Però, come si lascia l'autostrada e si raggiunge la costa, fra boschi di pini mediterranei piegati dal vento, si comincia ad assaporare il piacere del contatto fra uomo e natura, troppo spesso ignorato.
Non è che il tratto di litorale fra Marina di Cecina e San Vincenzo sia splendido come ai Carabi, ma laddove la presenza vacanziera è meno folta lo sguardo può correre fra un mare all'apparenza intatto e un retroterra formato da un susseguirsi di colline, una tavolozza di colori che non richiede necessariamente la presenza di un animo poetico per poter essere apprezzata.
E se il golfo di Baratti è un piccolo incanto che da solo giustifica il viaggio, la presenza nelle immediate vicinanze della necropoli di Populonia richiama alla mente popoli che non esistono più, ma che hanno lasciato tracce significative, con quel culto dei morti, semplice e solenne al tempo stesso, così lontano dal fragore di incomprensibili applausi che al giorno d'oggi spesso accompagnano i feretri nel loro ultimo viaggio. Là la morte era un rito, un passaggio indispensabile verso l'eternità; ora, invece,è diventata l'occasione per dimostrare una volta di più la superficialità di un'umanità che crede solo in ciò che appare.
Un altro piccolo gioiello, pur nella sua semplicità e naturalezza,è poi Sassetta, il paese collinare dove si è tenuta la premiazione, quattro case, una chiesa, tanti castagni lungo la strada provinciale al punto che piovono i gustosi frutti sulla testa dei passanti.
Non è che qui il tempo si è fermato, ma l'impressione che si ritrae è che in questo luogo l'uomo viva nel rispetto di Crono, regoli la sua esistenza in base al corso delle stagioni.
Dove, però, ho raggiunto l'appagamento più completo è stato a Volterra, antica cittadina etrusca, arroccata su un colle, preceduto da frane e da calanchi, e che già in distanza sembra un faro per il navigatore che ha smarrito la strada d'ogni giorno.
Il camminare su quei selciati corrosi dal tempo, l'addentrarsi fra viuzze cinte da pareti di case che sembrano senza tempo fa respirare un'aria nuova, fa sorgere la convinzione che chi ci ha preceduto tanti secoli fa ci abbia lasciato un segnale, un monito da rispettare: la vita è un mistero, ma vale la pena di assaporarla fino in fondo, in comunione, scevri dall'imposizione di traguardi irraggiungibili. E se essere sereni può essere malamente interpretato come l'accontentarsi anche di poco, ebbene quando mai l'abbondanza esuberante ha soddisfatto l'uomo?
Nonostante la presenza dei turisti, nella piazza dei Priori domina ancor incontrastata l'autorevolezza di genti il cui spirito è rimasto nelle pietre, lo stesso spirito che sembra levarsi dalle urne funerarie del Museo Guarnacci, dove il mistero della morte si può sintetizzare nella statuetta bronzea dell'Ombra della sera, con quel corpo lungo e slanciato proiettato, nella luce del tramonto, verso il buio. Sì, l'oscurità eterna si rischiara di quanto fatto dagli uomini alla luce del sole, da quel che hanno costruito, da quel po' di futuro che, con il loro presente, sono riusciti a farci trovare.
Materialmente di loro non resta che polvere, ma spiritualmente il messaggio che ci hanno tramandato va oltre qualsiasi tempo: l'uomo non è che un atomo dell'universo e mai potrà essere diversamente. L'umiltà del conoscere il proprio stato permette di percorrere le strade del tempo sui due piani, quello materiale, assai più breve, e quello spirituale, infinito.
E sembra ispirato dall'atmosfera anche Patrizius, al secolo Patrizio Spinelli, che molto gentilmente mi ha accompagnato il lunedì mattina lungo queste viuzze. Non ha perso il suo sano umorismo, ma non c'è bisogno di ridere quando si è immersi nello spirito del tempo, quando si accoglie a braccia aperte il messaggio di quelle pietre.
Il ritorno a casa è stato accompagnato da quella malinconia che prende il viaggiatore che sa che deve rientrare alla sua casa, cercando di portare con sé un po' dell'atmosfera di un mondo in cui la bellezza è solo sublime.

Virgilio
- Sono curioso di vedere dov'è nato il famoso poeta latino Publio Virgilio Marone.
Riccardo, il mio interlocutore, mi guarda con gli occhi che sembrano reclamare una risposta affermativa.
Abita a Torino, ci siamo conosciuti tramite Internet edè venuto a trovarmi; si è fatto i pericolosi chilometri della Torino - Milano, fra code, rallentamenti e deviazioni per venire da me.
Capisco ora che, a parte la naturale curiosità di sapere come sono dal vero, in lui, che ha insegnato tanti anni il latino al liceo classico,è prepotente il desiderio di conoscere i luoghi che hanno ispirato l'autore delle Georgiche, delle Bucoliche e dell'Eneide.
- Certo, adesso ci andiamo, ma non in auto, bensì con la bicicletta. Sai andare in bicicletta?
- Se so andare in bicicletta? Quand'ero giovane non c'erano auto e moto e per andare a scuola restava solo la bicicletta, anzi il velocipede, come diceva mio nonno, fra un tiro e l'altro della pipa.
- Benissimo. Il percorso è quasi tutto costituito da una bella ciclabile e non è molto lungo. Se partiamo adesso, siamo di ritorno giusto per l'ora del pranzo. Che ne dici?
- Partiamo.
- Sì, partiamo.
Il primo tratto del percorso ciclabile interessa buona parte della frazione di Cerese, dove abito io, dove c'è il Municipio e un piccolo centro con la piazza. Sì, perché il Comune di Virgilio è costituito da tre frazioni: Cerese, Cappelletta e Pietole, verso cui adesso ci dirigeremo.
- Bella questa ciclabile edè un peccato che corra in fregio alla statale.
- Caro Riccardo, non si può avere tutto, ma ti assicuro che quando arriveremo là l'aria sarà più salubre.
Dopo un quarto d'ora circa arriviamo alla frazione di Pietole, un piccolo borgo che due chilometri più in là, vicino all'argine del fiume Mincio, ha l'onore di ospitare il luogo dove è nato il sommo poeta latino.
In verità, per raggiungerlo dobbiamo sobbarcarci la strada comunale, peraltro poco frequentata e anche piacevole perché corre fra campi ben tenuti, dove i colori sembrano quelli della tavolozza di un pittore.
Il verde dell'erba medica si alterna al biondo oro del frumento già prossimo alla mietitura, mentre su tutto fa da sfondo un cielo dall'azzurro scintillante.
Un po' prima dell'argine, un cartello ci avvisa che siamo arrivati ad Andes, tre case e un paio di fattorie, una sorta di frazione della frazione.
C'è una fontanella e ci fermiamo a dissetarci.
Si avvicina incuriosito un vecchietto, vedendo due facce nuove; sembra che voglia attaccare discorso, ma forse ha un po' di timore e spera che siamo noi a iniziare.
Provvede subito Riccardo; lo guarda sorridendo e gli chiede:
- Virgilio?
Quello lo guarda un po' stupito, poi ribatte:
- Virgilio l'oste? E' andato ad abitare in città da una decina d'anni e da allora non c'è più il bar. O forse intende Virgilio il messo comunale? Poveretto, come è andato in pensione, un…, come si dice, un ics…, no, insomma quello che è.
Gli va in aiuto Riccardo: - Un ictus?
- Bravo, quella roba lì. E' caduto per terra e l'hanno rialzato solo per portarlo al cimitero.
- Vede, non ci siamo capiti. Mi riferivo a Publio Virgilio Marone.
Il vecchietto lo guarda con aria dubbiosa, poi sbotta:
- C'era una volta, ma è da tanto che non c'è.
- Lei sa chi è?
- Io so quelli che conosco. Una volta mi ha detto qualche cosa mio nipote, che va a scuola. Mi ha detto "Nonno, ma sai che da noi è nato Publio Virgilio Marone, il più grande poeta latino?". Poeta, poeta, uno che scrive poesie come quello della cavallina storna, il Pascolo.
- Pascoli, si chiama Giovanni Pascoli.
- Beh, Pascolo o Pascoli è quello della cavallina storna. La maestra a scuola ce l'ha fatta imparare a memoria, tanto che mi usciva dagli occhi. Non mi sono simpatici i poeti, da allora.
- Dunque lei non è in grado di dirci dove è nato esattamente Virgilio?
- Se è il poeta, no; se invece è un altro Virgilio, mi deve dire quale.
- In che senso?
- Che qui quasi tutti fanno di nome Virgilio.
- Anche lei?
- Ci mancherebbe altro. Mio padre era un socialista, di quelli che ai tempi del fascio si sono presi le legnate e hanno fatto i gargarismi con l'olio di ricino. Mi chiamo Carlo, in onore di quel gran uomo di Marx, che infatti non è un poeta, ma tutti mi chiamano Lenin.
Faccio cenno a Riccardo di lasciar perdere e di riprendere il nostro percorso.
Inforchiamo le biciclette e avviandoci lo salutiamo.
- Buona giornata, Lenin.
Non risponde, ma con la coda dell'occhio vediamo che sta in mezzo alla strada con il pugno chiuso.
- Strano tipo, Renzo, vero?
- Caro Riccardo, voi che abitate nelle grandi città non potete immaginare come un paese sia fatto da tanti attori, non esseri anonimi, ma personaggi che interpretano un ruolo ben definito. Più o meno sono tutti caratteristi e lo è anche Lenin, pardon Carlo, che sembra uscito da una delle pagine dei romanzi di Guareschi.
Fra una chiacchiera e l'altra abbiamo ritrovato la ciclabile che ora, su un percorso lievemente ondulato, si addentra nei campi, corre lungo fossati di irrigazione, indugia all'ombra di lunghi filari di pioppi, rasenta stalle dove miti vacche ci osservano ruminando, scivola lungo stagni oziosi, fra il gracidio delle rane e il frinire delle cicale.
Riccardo non parla più, ma quando arriviamo a uno spiazzo nei pressi di un ponticello che sorpassa un fosso punteggiato di ninfee e dove un paio di aironi scandagliano le rive, si ferma di scatto, si guarda intorno, respira a fondo quell'aria che sa di terra smossa, dove i profumi dei fiori e gli odori delle stalle si mescolano in modo perfetto in un'essenza di vita.
- Prima Syracosio dignata est ludere versu,
nostra nec erubuit silvas habitare Thalia.
- Che hai detto?
- La nostra Talia prima si degnò di cantare
nel verso siracusano, e non arrossì di abitare nelle selve. E' la VI Ecloga delle Bucoliche. Io arrossisco ad abitare in una città, a respirare smog, a vedere mura di cemento e a udire i mille rumori di una civiltà opprimente.
- Non esagerare.
- Non esagero. Se ora mi commuovo davanti a questo spettacolo, posso solo immaginare quanto immensamente bello doveva essere ai tempi di Virgilio. Adesso capisco dove ha tratto la sua ispirazione. Grazie, Renzo.
- Ma non abbiamo ancora appurato dov'è il luogo esatto in cui è nato.
- E che importa. Può essere oltre quella curva, oppure che ci siamo passati prima, ma quel che conta è che qui, fra questi campi, fra i fossi, sotto questo cielo abbiamo ritrovato il suo spirito. Ecco,è come se fosse ancora con noi.
Lo osservo,è felice come un bambino e anch'io lo sono di questa immersione nella natura, di questo assaggio di una vita a misura d'uomo, dove il tempo è ancora regolato dalle stagioni e ad ogni alba ci si vorrebbe unire ai mille brusii degli insetti per innalzare un canto alla vita.
Il tempo, questo mostro che abbiamo creato modificando quello naturale, richiama però alla realtà.
Guardo l'orologio e vedo che si è fatto tardi.
- Mi spiace, Riccardo, ma dobbiamo rientrare.
Sembra non ascoltarmi,è là, immobile, il suo sguardo sembra indugiare sul campo di mais davanti a lui, ma so che va oltre, che corre fra i filari e vede un mondo perduto, un sogno da cui non vorrebbe tornare.
Gli metto una mano sulla spalla, si scuote e mi guarda:
- Sì, andiamo, rientriamo nella realtà di un mondo che non ci piace, in ritmi di vita che ci opprimono, in una corsa continua senza una meta, se non quella a cui arriveremo in ogni caso affranti, delusi, insoddisfatti di noi.
Risaliamo in sella e facciamo il percorso inverso, ma prima di arrivare alla strada comunale, prima di entrare in Andes, Riccardo saluta quel mondo.
Si ferma, si passa una mano fra i capelli, poi con il fazzoletto si asciuga gli occhi.
Il rombo di un autocarro sommerge il silenzio di quelle tre case.
(da "Storie di paese" - Seconda serie)

L'autore resta ignoto
Quando morì mia suocera, la sua casa restò vuota e allora decidemmo di venderla.
Era una vecchia abitazione, che risaliva probabilmente ai primi del XIX secolo, disposta su due piani, più la soffitta.
I compratori ovviamente la vollero libera e così si provvide allo sgombero dei mobili e di tutte le suppellettili.
In soffitta trovammo un marasma di cose vecchie: fotografie di gente a noi ormai sconosciuta, oggetti di nessun valore, ma che per qualcuno avevano significato molto, e fra questi un quadernetto dalla copertina nera.
Lo volli tenere, perché a suo modo rappresentava un'epoca, con i fogli a righe e una calligrafia minuta, con non infrequenti sbavature, segno che l'autore aveva utilizzato penna e calamaio, tranne che per le pagine dalla metà in poi dove il tratto di una matita appariva in più punti sbiadito.
Di quello che ho letto, di ciò che c'è scritto, a volte anche con errori d'italiano che, per rispetto, non intendo correggere, voglio rendervi partecipi.

14 agosto 1914.
Oggi fa caldo, il sole picchia come un ossesso, ma sono felice. L'ho conosciuta quasi per caso, ma era da giorni che l'avevo notata. L'ho salutata e lei mi ha risposto. Ho sentito il cuore battermi forte e l'ho guardata allontanarsi:è la donna più bella del mondo.

15 agosto 1914.
C'è la festa del paese, c'è la musica. Potrò invitarla per un ballo? Ecco, ora temo che tutto quel bel sogno vada male e che lei mi dica di no.


16 agosto 1914
Sono felice, come non lo sono mai stato.
Oggi mi sono messo il vestito della festa, che è anche l'unico che ho.
Quando si è poveri si è costretti a mettersi gli abiti vecchi che altri magari hanno avuto già usati. Le braghe sono un pò larghe, ma con le bretelle stanno su.
Il peggio è la giacca: stretta, che se la chiudo non respiro, e se la tengo aperta fra un lato e l'altro ci sta una spanna. Meglio di niente, comunque. L'ho invitata e lei ha abbassato gli occhi, ma ha detto sì. Abbiamo fatto un solo ballo, una mazurka, e mi sembrava di volare. Credo che lei si sia innamorata di me, perché quando l'ho riaccompagnata ai bordi della pista sorrideva, sembrava quasi un sole. Sua madre non mi ha degnato di uno sguardo, ma sono sempre così con le figlie.
Conto di vederla anche domani.

17 agosto 1914
Ho fatto di tutto per incontrarla per strada, ma lei non era sola, perché c'era la madre. L'ho salutata, ha abbassato gli occhi e non mi ha risposto.


A questo punto, si notano chiaramente che mancano delle pagine, quasi fossero state strappate e infatti i contorni interni non sono regolari, ma presentano delle piccole sporgenze che avvalorano questa ipotesi.
Del resto l'ordine cronologico dimostra un salto di non pochi giorni, perché il diario riprende con il 24 dicembre.


24 dicembre 1914
Per vederla devo ridurmi ad andare in chiesa solo per questo, ma non posso nemmeno avvicinarla, perché c'è sempre qualcuno che me la tiene distante.
Ripenso alla lettera che mi aveva scritto e immagino come la sua sofferenza sia superiore alla mia. Del resto cosa potevo pretendere io che sono un pezzente…niente, al massimo una pezzente come me. E invece lei è di famiglia danarosa e andrà in sposa a un commerciante di granaglie.
E' meglio così: i proletari non solo non hanno soldi, ma non possono nemmeno alzare la testa per migliorare e neppure per sposare la donna che amano, se è di una classe superiore.

25 dicembre 1914
L'ho vista, da lontano, come un cane lasciato fuori dalla porta e come un cane suo padre mi ha fermato per strada, mi ha minacciato, ha fatto la voce grossa, ma poi mi ha offerto anche del denaro perché sparisca. Sono stato zitto e ho respinto quei quattro soldi, il prezzo per rinunciare a un sentimento
Ma che cuore ha questa gente che crede di comprare tutto, anche un'anima?
Alle sue domande ho risposto con sincerità.
- Giurami che non cercherai più di incontrare mia figlia!
- Lo giuro.
- Giurami che non l'amerai più!
- No, questo no.
- Guai a te, pezzente.
Sono rimasto fermo, anche se sentivo venir su dallo stomaco un fuoco che mi divorava. Avevo voglia d'ammazzarlo, ma questo è contro i miei principi e poi non ne avrei avuto giovamento.
Sono tornato a casa a passare il Natale più brutto della mia vita. Ma prima di sera, quando là non c'è nessuno, sono andato in chiesa a parlare col prete.
- Guai, figliolo! Mogli e buoi dei paesi tuoi; troverai una brava e bella ragazza del tuo livello e vivrete felici e contenti. Non sai che alzare troppo il capo fa male,è un peccato d'invidia e poi lo diventa anche di superbia. Ora vai che ho cose più importanti da fare.
Prima di uscire, mi sono inginocchiato davanti alla statua della Madonna del Roseto e ho fatto un voto: la rinuncia a ogni desiderio verso di lei pur che mi sia concesso ogni tanto di vederla.
Non so se lassù mi ascolteranno, perché per noi poveri orecchie non ce ne sono.


26 dicembre 1914
Ho trovato un lavoro in città, a scaricare dai barconi l'argilla per la ceramica. Dovrò lasciare il paese e forse è meglio, così non rischio di incontrarla.
E' dura, però. Mi viene in mente la favola di Cenerentola, serve solo a incantare, ma nella vita non è così. C'è un confine fra noi e gli altri, fra chi sgobba per far la fame e chi sfrutta per avere troppo.
Noi niente, nemmeno l'amore, e loro tutto. E' ingiusto, immorale, feroce.


20 gennaio 1915
Questo lavoro spezza la schiena, a scarriolare su e giù dai barconi 10 ore al giorno, al freddo, in mezzo alla neve, a mangiare pane e mortadella a mezzogiorno e alla sera mortadella e pane. Poi, di notte dormo su una branda in una baracca, con due coperte che non tengono lontano il gelo che mi entra fin nelle ossa.
Anche se volessi tornare al paese a fare il bracciante c'è l'ordine di non farmi lavorare e io devo pur vivere, anche se questa non è una vita.
Ogni tanto, mi sembra che s'apra la porta e che lei entri, illuminata solo dalla luna. Viene verso di me, si china, mi accarezza i capelli, mi bacia sulle labbra e allora mi sveglio con le lacrime agli occhi. Non c'è nessuno, solo il buio e il freddo.


16 marzo 1915
Oggi ho conosciuto un compagno, uno di quelli tosti; alla sera ha voluto che vada con lui e così sono entrato in un'osteria con cucina. Meno male che ha offerto lui, perché altrimenti non avevo da pagare nemmeno il mio. Comunque, dopo tanto tempo, ho mangiato una minestra calda e ho bevuto anche un po' di vino che mi è andato alla testa. Così gli ho raccontato di me: lui stava in silenzio e ogni tanto faceva sì con la testa. Alla fine ha scosso il capo e mi ha detto che solo il partito dei proletari può cambiare il mondo, che la giustizia si deve combattere per averla, che un giorno saremo poi tutti uguali. Mi sono piaciute queste sue parole e ho preso la tessera. Forse, davvero qualche cosa potrà cambiare, forse c'è una speranza.


15 aprile 1915
Si parla di guerra, di quella che vede già di fronte mezza Europa. C'è chi vuole esserci e c'è chi vuole starsene fuori.
La guerra la fanno i poveri per ingrassare i ricchi e quindi non la farò.


10 maggio 1915
Il compagno mi ha spiegato come stanno le cose e cio è che con questa guerra si avrà l'occasione per riscattare i proletari.
Non so se è vero, ma quando me lo diceva gli brillavano gli occhi e per quello che ho da perdere non ne resterò fuori. Se solo c'è una possibilità che tutto possa cambiare grazie alla guerra, che possa un giorno presentarmi a lei senza essere considerato un cane rognoso, devo sfruttarla, costi quel costi, fosse anche la vita.


24 maggio 1915
Da oggi siamo in guerra con Francesco Giuseppe. Domani vado ad arruolarmi.


1 giugno 1915
Sono sulla tradotta che ci porta al fronte e sono emozionato, non tanto per la guerra, ma perché l'ho vista e le ho parlato.
Ero in stazione con gli altri, finalmente con un vestito mio e tutto nuovo, anche se da soldato di fanteria. C'era la banda, il sindaco, il vescovo, tutti per noi. E poi c'erano delle signore che a ognuno davano qualche cosa: un fazzoletto, un crocefisso, una bandierina. E fra loro c'era lei. Non mi ha dato nulla, ma mi ha stretto la mano, dicendomi:
- Bravo, per il re e per la patria. Sta attento, riguardati, torna, mi raccomando.
Non sono riuscito a dir nulla: quelle parole giravano dentro di me, mi sembravano un tesoro tutto mio. E quel torna ha avuto il sapore di una promessa,è stato il segno di un sentimento che non è morto e che mi fa sentire vivo.
Sono troppo commosso per scrivere ancora e poi la matita, anche lei,è emozionata, perché non sono riuscito ad andare dritto.


30 novembre 1915
Doveva essere breve questa guerra, ma già siamo vicini all'inverno e siamo sempre qui, a marcire nel fango.
Le illusioni iniziali sono presto sparite: si muore e non è una bella morte, come qualche imboscato canta.
Guai a farsi degli amici, che poi se schiattano sembra che il mondo ti crolli addosso.
Oggi sono venuti a portare la posta e come al solito mi hanno detto che per me non c'era niente. Al che il sergente mi ha domandato: - A te non ti scrive mai nessuno?
Ho abbassato gli occhi e ho risposto: - I miei è già da un po' che sono morti. M'è rimasto un fratello che combatte su questo stesso fronte una decina di chilometri più a nord. Non vorrai che mi scriva per parlarmi della stessa trincea?
E' un buon uomo, mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto: - Non ce l'hai una ragazza?
Non ho saputo che rispondere, ma dato che anche altri ascoltavano ho detto di sì.
- E allora, se non ti scrive lei, scrivigli tu.
E' quel che farò, altrimenti divento matto.


25 dicembre 1915
Sembra che il Natale conti anche in guerra e oggi è un giorno calmo. Ho appena scritto la prima lettera, ma non ho parlato della trincea, della paura, della sofferenza, insomma di tutta questa tragedia.
Ho chiesto solo di lei, di come sta, se mi pensa, se mi considera almeno un amico.
Non so se mi risponderà, ma spero, spero tanto.


20 marzo 1916
Le ho già scritto dieci lettere, ma non ho mai avuto risposta. Mi sforzo di pensare che non le siano state consegnate.
Ho il morale a terra, non vedo altro che la mia solitudine.


30 aprile 1916
E' da giorni che sono nel fango, tremo tutto, credo di avere la febbre; non mangio più e oggi mi manderanno nelle retrovie all'ospedale da campo. Ho la vista annebbiata e una tosse spaventosa, dei colpi improvvisi talmente forti che sputo sangue.


15 maggio 1916
La sentenza è arrivata: tubercolosi. Una morte lenta, atroce, non c'è rimedio. Domani mi trasferiscono all'ospedale militare di Verona e da lì fra non molto al cimitero.
Il sergente mi è venuto trovare, ha cercato di rincuorarmi e io ho fatto finta di credergli.


10 giugno 1916
Sono all'ospedale di Verona, in una camerata dove siamo una ventina, isolati perché il male è infettivo. Chi ci cura ha i guanti e una mascherina sulla bocca. Nessuno parla, tanto non avrebbe né la forza né la voglia.


15 giugno 1916
Un miracolo, oggi. Sono arrivate delle Crocerossine, tutte signore della buona società. Hanno fatto il giro della camerata e una è rimasta indietro e si è messa a guardarmi. Nonostante la maschera quegli occhi… Non avrei mai potuto dimenticarli.
Si è avvicinata al letto, mi ha accarezzato i capelli, aveva gli occhi lucidi, mi ha parlato:
- Dai, sono sicura che ce la farai e poi verrò a trovarti tutti i giorni fino a quando torneremo insieme al paese.
Anche questa volta non ho detto niente, ma le ho stretto la mano con la poca forza che mi è rimasta.


18 giugno 1916
Viene a trovarmi tutti i giorni, come un raggio di luce nel mio buio. La Madonna del Roseto ha ascoltato le mie preghiere, anche se ormai è troppo tardi. Oggi ho parlato con il medico e l'ho pregato di non farla venire più, perché non voglio che mi veda quando sarà l'ora, voglio che di me abbia il ricordo di un vivo. Ha capito e mi ha assicurato che mi accontenterà.
E' l'ultima volta che la vedo, che scorgo quegli occhi così dolci e colmi di luce. Fatico a parlare e resto zitto, però, prima che se ne vada, devo dirle qualche cosa che ho dentro da tanto tempo.
-Se fossimo nati in un mondo diverso, non saremmo qui, ma in una casa a parlare e a sognare. Ho avuto poco dalla vita, ma l'averti conosciuto…
Tossisco, ho una convulsione, lei mi sostiene.
-…l'averti conosciuto ha dato un senso a tutto.
Mi bacia sulla fronte e corre via piangendo.


Il diario si ferma qui, a un'ultima pagina vergata con mano incerta. Non c'è la parola fine, anche se è sottintesa.
Ho provato a indagare per sapere il nome dell'ignoto estensore, ma, dato il tempo trascorso, chi poteva sapere è già morto da diversi anni. Sul retro del quaderno c'è una breve frase, che si legge a malapena: Era un uomo di una specie rara, nato e morto troppo presto.
Riconosco, però, quella calligrafia; l'ho già vista in alcune lettere che una nonna ha scritto alla nipote, cio è a mia moglie.
Ma il nome di lui resta ignoto, un segreto che una donna ha conservato gelosamente per tanti anni e che è morto con lei.

Il cipresso della collina
L'aveva piantato suo nonno, insieme ad altri tre che non avevano resistito all'arsura di un estate e al gelo del successivo inverno, lasciandolo solo sulla cima di quella collina che da un lato guardava la pianura e dall'altro analoghi rilievi, quasi le onde di un mare d'erba.
Lì aveva giocato da piccolo, con la fronte imperlata dal sudore della corsa per arrivare fino in cima; alla sua ombra aveva conosciuto l'amore con Adelina, la prima e l'unica donna della sua vita; da adulto aveva atteso tante volte il tramonto del sole, per osservare, sempre meravigliato, l'ombra che saliva da est a rincorrere la luce dell'incendio che si attizzava a ovest.
E lui il cipresso, in tutti quegli anni, era cresciuto, era diventato una sorta di agile torre che svettava sulla cima della collina e che lo rassicurava ogni giorno che nulla era cambiato, che la vita scorreva tranquilla come il fiume maestoso, più giù, nell'immensa pianura.
Si erano sposati Tolmino e Adelina e avevano avuto dei figli, un maschio e due femmine, che fin da piccoli il padre aveva abituato a giocare all'ombra di quell'albero, ormai diventato un simbolo di continuità fra più generazioni.

- Allora è deciso, Tolmino?
Il medico condotto attese la risposta, ma questa sembrava non venire, in una luce di incertezza come quella di un'alba appena annunciata.
Poi il vecchio sembrò deciso a rispondere, si sistemò meglio sulla poltrona, si inumidì le labbra e finalmente si decise.
- Sono scelte che non si vorrebbero mai fare.
Lavori tutta una vita, pensi solo alla famiglia, riesci a superare la tragedia della morte della madre dei tuoi figli, vai avanti anche quando calano le forze, e poi tutto crolla.
- Tolmino, se non fosse per il cuore malandato che hai, potresti ancora vivere qui da solo, ma metti di star male, di aver bisogno d'aiuto…
- Capisco, e infatti mio figlio vuole che vada ad abitare con lui in città, a chiudermi fra quattro mura.
- Credimi,è la soluzione migliore: lì potrai essere assistito e avrai anche affetto e la compagnia dei nipotini.
- Sì, questo è vero.
- Allora d'accordo. Domani mattina Giacomo viene a prenderti.
- D'accordo, se non c'è altro modo.
Il dottor Galliani, medico condotto del paese, strinse la mano a Tolmino e uscì dalla vecchia casa colonica.
Fuori si udivano i rumori della campagna, il pigolio dei pulcini, il lontano rumore sordo di un trattore.
Tolmino guardò la vecchia pendola e vide che segnava le 5.
L'ora del tramonto si avvicinava e questa volta non avrebbe potuto mancare, anche perché era stato assente da quell'appuntamento per diversi, troppi giorni, per quel primo malore che, una volta tornato dall'ospedale, lo aveva costretto a non curare più i campi, a stare lunghe ore seduto su quella poltrona.
No, non poteva mancare, perché quella era l'ultima occasione prima di rinchiudersi fra le mura di cemento di un appartamento e cercare di indovinare il tramonto del sole fra una selva di condomini e i fumi densi delle fabbriche.
Si alzò con cautela e restò un attimo fermo per vedere se le gambe lo sostenevano.
" Bene, sto in piedi. Adesso piano piano esco e risalgo la collina".
E così fece, e tutto andò bene fino a quando non iniziò la salita, con quel dolce declivio che ora gli sembrava un muro insormontabile.
Saliva due metri e si fermava, con il cuore che gli batteva come un orologio impazzito.
Dopo un'ora non era arrivato che a metà della salita e già il sole, in quella giornata di tiepida primavera, aveva iniziato a rassegnarsi a continuare a splendere su quel pezzo di mondo e quasi alla chetichella se la svignava.
" Non ce la farò mai. Devo salire più in fretta."
Tolmino cercò di accelerare, ma ora il battito del cuore era discontinuo, a volte andava più forte e più spesso invece rallentava.
Strinse i denti, chiuse quasi gli occhi, cercò di non pensare ai suoi piedi divenuti di piombo e proseguì.
L'ombra della notte avanzava però implacabile, indifferente al disperato tentativo di Tolmino.
Lui se ne accorse con sgomento e con il petto che sembrava quasi esplodergli aumentò il passo e ansante, straziato, raggiunse finalmente la cima della collina.
Là, per sostenersi dovette abbracciare il cipresso, affondare il volto in quel verde cupo che gli graffiava il viso; poi si lasciò scivolare lungo il tronco, fino a sedersi sull'erba già umida.
Si girò, appoggiò la schiena alla pianta e con gli occhi annebbiati guardò verso la pianura.
L'ombra lo aveva ormai quasi raggiunto, celando la visione di case coloniche, di campi arati, delle case del paese, ma a ovest era tutto un incendio, un rosso che contrastava con l'azzurro tenue del cielo.
Se da una parte la vita rallentava, dall'altra traeva ancora vigore, e così nell'ombra cominciavano a udirsi i versi degli uccelli notturni, mentre a occidente, da qualche parte, un gallo cantava il nuovo giorno.
L'aria era diventata fredda quasi all'improvviso e Tolmino cominciò a tremare, avvertì nettamente il gelo che partiva dai piedi e risaliva lungo il corpo.
Rammentò i tempi passati, si rivide giocare lì sotto quand'era bambino, gli sembrò di riassaporare il primo bacio con l'Adelina, in un turbine di immagini che correvano senza mai fermarsi.
Poi l'ombra l'avvolse e, per l'ultima volta, vide quel che restava di un tramonto: piccole striature di rosso che andavano lentamente spegnendosi.

Le apparenze
Ci sono uomini che vivono con la massima naturalezza nella loro umiltà, mai un volo, mai un acuto, e altri invece che bramano essere sempre sulla bocca di tutti, protagonisti indiscussi del loro tempo, spugne che prosperano fino a quando possono assorbire la notorietà, ma che, una volta ritornati nell'anonimato da cui erano venuti, si seccano, si distruggono da sé.
Di uno di questi ultimi mi parlò un paio di volte il Guercio, non con toni di giudizio, ma per avvisare un giovane quale ero che il successo a qualsiasi costo alla fine brucia chi lo ha perseguito.
- Non puoi averlo conosciuto, perché quando arrivò in paese dovevi ancora nascere e poi rimase in tutto non più di una decina d'anni, una cometa senza coda.
Così mi raccontava, con termini che al momento non riuscivo a comprendere, ma che poi mi sarebbero stati del tutto chiari.
- Ero già tornato dagli Appennini e la guerra era finita da un paio di giorni quando in paese fece la sua comparsa un uomo sulla quarantina, alto, snello, di bell'aspetto e che si presentò a tutti come l'avvocato Girolamo Lamattina, nativo del potentino, laureato in giurisprudenza con il massimo dei voti e la lode, collaboratore dell'esercito americano in qualità di interprete.
Detto fra noi, destò un'immediata simpatia, grazie al suo modo affabile e anche perché lasciò subito intendere che, grazie alle sue buone conoscenze con gli alti gradi delle truppe occupanti, sarebbe stato possibile trovare quella merce che all'epoca era del tutto irreperibile.
In tal modo cominciarono a circolare sigarette americane, cioccolata, zucchero, beninteso non a gratis, anche se l'avvocato spiegava a tutti che lui non ci guadagnava niente e che le somme richieste erano solo il prezzo della merce.
In breve divenne un personaggio assai conosciuto e lui faceva di tutto per accrescere questa notorietà.

Si iscrisse subito alla Democrazia Cristiana, di cui divenne uno dei capi se pur a livello locale, fece domanda, che fu accolta, di essere iscritto all'ordine forense della provincia, si impegnò attivamente a riorganizzare l'ospedale cittadino, cominciò a rilasciare interviste un giorno sì e un giorno no al quotidiano locale.
Insomma, ormai, non solo in paese, ma anche in città, per qualsiasi problema ci si rivolgeva a Lamattina e lui prometteva il suo fattivo interessamento, si faceva dare somme di denaro, anche consistenti, per ungere le ruote, come lui giustificava la richiesta.
Tuttavia, di che campasse non riusciva a capacitarsi nessuno, visto che come avvocato, benché iscritto all'ordine, di fatto non lavorava e anzi respingeva le richieste anche di ottimi clienti adducendo pressanti impegni di lavoro.
Aggiungo che il suo colpo da maestro, l'apice della sua carriera venne raggiunto quando, dopo un nemmeno tanto pressante corteggiamento, impalmò la contessa Giuditta Mecenero, nobildonna di antico lignaggio, brutta come un rospo, ormai rassegnata a una grigia vita da zitella, ma proprietaria di fondi agricoli per complessivi 500 ettari, un'autentica fortuna.
Il matrimonio fu degno di un re, con la strada del paese che portava alla chiesa letteralmente inghirlandata, con una messa solenne, un pranzo riservato a pochi intimi, come dissero gli sposi, benché corresse poi voce che i commensali fossero all'incirca un centinaio.
Ormai era fatta: famoso, potente e ora anche ricco, grazie alla moglie.
C'era bisogno di qualche cosa? Serviva una licenza, un documento? Nessun problema, perché bastava rivolgersi a Lamattina, dare in contributo per rendere untuose le ruote e si raggiungeva subito lo scopo.
A parte tutti questi intrallazzi, Lamattina sembrava una persona immune da vizi, anche se in verità uno c'era e gli veniva perdonato per la bruttezza della moglie, invero gelosa e ignara di tutto.
Mi riferisco alla vocazione cornificatoria, a cui nessuna femmina sembrava sfuggire, perché giovani o vecchie, belle o brutte, lui con tutte ci provava, riuscendo non poche volte a raggiungere lo scopo.
Amante fissa era la Ginetta Mastroni, una bella mora di non più di 25 anni, sposata con un disoccupato che l'avvocato assunse subito come giovane di studio, un lavoro per nulla faticoso, visto che non c'era clientela, ma senz'altro utilissimo.
Quando voleva appartarsi con l'amante, andava direttamente alla casa dove lei abitava, mandava il marito allo studio con il preciso incarico di rispondere alle eventuali telefonate della contessa sua consorte dicendo che l'avvocato era impegnatissimo in una causa a porte chiuse.
Poi non si contavano le altre: si andava dalla cameriera della trattoria La ciliegia alla moglie del procuratore della repubblica, in un baillame di alcove di cui nemmeno lui riusciva più a tenere il conto.
Per quanto ovvio e pur con le dovute attenzioni qualcosa trapelò e giunse alle orecchie della contessa che, forte dei suoi 500 ettari, gli diede un ultimatum, a cui l'interessato si assoggettò volentieri, ma per non più di una settimana, diradando comunque in seguito le sue scappatelle e prestando più attenzione alla sicurezza.
Quell'imperativo di smetterla, quel monito della consorte avrebbe dovuto essere considerato come un segno premonitore, ma Lamattina non se ne curò più di tanto, visto che il suo nome era sempre sulla cresta dell'onda.
A volte, però, basta poco per provocare un crollo, anche solo una piccola crepa che incide un monolito e che si propaga poi come una ragnatela.
Il 15 marzo 1954 Lamattina si trovava al bar del tribunale, esemplarmente rispettabile di giorno, a uffici aperti, ma bisca clandestina dopo l'orario di chiusura.
Mentre centellinava un caffè, parlando della partitella serale al poker con un altro legale, entrarono il giudice Mistretta e il procuratore della Repubblica Agnello.
Fu quest'ultimo, forse non ignaro di chi aveva contribuito allo sviluppo dei rami che gli ornavano la fronte, a esordire:
- E' incredibile. C'è un processo penale e manca l'avvocato.
Il giudice, di rimando: - E' una causa semplice e poi l'imputato è reo confesso. Chi si offre come avvocato d'ufficio?
Gli altri legali scossero il capo, negandosi.
Rimase solo Lamattina, silenzioso e apparentemente assorto.
Il giudice allora gli rivolse la parola: - Forza, caro Lamattina, benché lei sia un avvocato di chiara fama non abbiamo mai avuto il piacere di pendere dalle sue labbra.
E il procuratore, di rinforzo: - Essere sconfitto da lei sarà per me un motivo d'onore.
Tutti dei gran complimenti che, uniti all'asserzione sulla semplicità della causa, indussero Lamattina a proporsi come difensore d'ufficio.
In aula iniziò così il procedimento e fin dalle prime battute prese una brutta piega, non tanto per l'imputato, ma per il suo difensore.
I richiami al codice penale dei capi d'accusa furono motivo di grande confusione, tanto che nella breve arringa Lamattina parlò del suo assistito come di un povero ladro indotto al furto per lenire la fame, quando invece l'imputazione era per truffa aggravata.
Quando poi la cosa gli fu fatta notare sia dal giudice che dal procuratore, accadde l'incredibile.
Infatti, Lamattina, con la convinzione di poter in tal modo rientrare nelle grazie dei due colleghi, anziché chiedere il minimo della pena per il suo assistito, in un impeto furibondo, con gli occhi che gli uscivano dalle orbite, s'infuriò con l'imputato, concludendo con un perentorio: - E' un colpevole, un criminale e che perciò venga condannato con la massima severità per le sue malefatte.
Lo sconcerto fu unanime, il procuratore e il giudice si scambiarono un'occhiata e quest'ultimo sospese l'udienza, convocando nel suo ufficio Lamattina.
- Ma che le è preso! Prima sbaglia il tipo di reato, poi di fatto si sostituisce al Pubblico Ministero. E' evidente che dovrò informare l'Ordine di questo suo comportamento.
Lamattina non rispose, si alzò, salutò brevemente e uscì.
La sera evitò la partita a poker perché giustamente immaginava che tutti già sapessero e preferì appartarsi con la Ginetta, ma anche questa fu un'udienza sfortunata.
Agitato, pieno di pensieri non riuscì a combinare nulla e allora andò in giro per tutta la notte, facendo ritorno a casa solo all'alba. Qui prese sonno e probabilmente avrebbe dormito a lungo se poco prima di mezzogiorno non fosse stato svegliato in malo modo dal maresciallo dei carabinieri.
Questi gli lesse un mandato, gli consentì di vestirsi e di portarsi appresso qualche cosa, indi lo condusse in manette alla locale casa circondariale.
Già tutti erano al corrente di quello che anche lui sapeva e così non batté ciglio quando quel cornuto del procuratore gli disse senza tanti preamboli che lui non era l'avvocato Lamattina, chiedendogli notizie della persona che aveva sostituito.
Non ebbe risposta. Furono successivamente chiamati dei parenti dell'autentico Lamattina; si apprese così che non ne avevano più notizie da anni e nel confronto non riconobbero il congiunto, ravvisando solo una vaga somiglianza.
Dalle impronte digitali infine l'ultima ferale notizia: queste appartenevano a tale Rocco Capece, di Napoli, pluripregiudicato per reati vari, fra i quali, in primis, la truffa.
Fu a lungo interrogato, ma non riuscirono a sapere nulla: l'imputato si chiuse nel più assoluto silenzio, assumendo un comportamento apatico, quasi che la cosa non lo riguardasse.
Irriso da tutti, sbeffeggiato dagli altri carcerati, un giorno si scosse dal torpore e prese l'unica decisione che ormai gli sembrava possibile.
Fu così che l'indomani, all'ora della sveglia, la guardia carceraria lo trovò impiccato alle sbarre della cella.
Il mistero sulla fine dell'autentico avvocato Lamattina non fu mai risolto.
(da "Storie di paese" - seconda serie)

Il fondo Cascina Vecchia
Era un'estate calda, afosa, con quell'umidità che toglieva quasi il respiro, tipica della bassa, e il Guercio boccheggiava mentre percorreva a piedi la strada bianca che portava alla tenuta agricola.
Trasse un sospiro di sollievo solo quando giunse di fronte ai due capitelli di mattoni sbrecciati che annunciavano ai viandanti di essere arrivati alla Cascina Vecchia, come era indicato dall'architrave che riportava il nome su un ferro battuto ormai corroso dalla ruggine e dal tempo. Da lì bisognava imboccare la stradina ombreggiata da lunghe file di pioppi, per trovarsi poi, nel giro di una decina di minuti, davanti alla cascina.
Il Guercio, nel ristorarsi nel passaggio dal sole ardente all'ombra di quel viottolo, si ricordò dei tanti viaggi che in passato l'avevano portato lì, quando da ragazzo con il pentolino di ferro smaltato andava a comprare il latte tiepido di mungitura, spesso l'unica vivanda della cena.
A quei tempi si guardava intorno meravigliato dall'opulenza di una corte agricola che aveva una stalla con duecento vacche, un lungo caseggiato con le abitazioni dei bergamini e dei salariati e una casa padronale che gli era sempre sembrata una reggia.
Quando giunse alla fine della stradina gli sembrò di essere arrivato in una città morta. Dalla stalla non provenivano muggiti, di operai agricoli nemmeno l'ombra e anche il pollaio era desolatamente vuoto.
Bussò al portone in legno massiccio della casa padronale, ma non ebbe risposta. Allora, poiché era accostato, entrò e si trovò subito nel salone che un tempo era stato quello delle feste. Dove si erano tenuti balli al suono di orchestrine, dove si erano consumati pranzi di nozze, ora c'erano solo polvere e tende strappate alle finestre.
Provò a dare una voce: - Signor Antonio?
Nulla.
Riprovò alzando il tono e allora gli sembrò di udire una voce lontana che proveniva dal piano superiore.
Prese a salire la lunga scalinata di marmo e per sicurezza ripeté la domanda:
- Signor Antonio, dov'è?
Flebile, quasi un mormorio soffocato, gli venne la risposta.
- Annibale, sono di sopra, nella mia camera, la prima porta a sinistra.
Il Guercio, non più giovane e ansando un po', alla fine giunse in cima, imboccò il corridoio e bussò alla prima porta a sinistra.
- Avanti, vieni avanti,è aperto.
Piegò la maniglia e con un cigolio lamentoso la porta si aprì.
Il Guercio rimase disorientato, perché l'ambiente era pressoché buio e solo da un'imposta socchiusa filtrava un raggio di luce, tanto che a malapena riuscì a scorgere sul fondo della stanza, quasi contro una parete, una testa canuta che sporgeva di poco dallo schienale di una poltrona.
- Scusa se ti volto le spalle, ma mi vergogno a mostrare l'immagine di un uomo finito.
- Che dice mai, signor Antonio, lei è una persona dalle nove vite. Tutti in paese sanno che per lei è un brutto periodo, ma la fortuna va a giorni alterni; adesso è fuggita chissà dove, ma ritornerà, mi creda, ritornerà.
- In te ho sempre apprezzato la sincerità e l'onestà: sei un uomo raro. Ricordi quando ti facevo credito sul latte che compravi? Non ho mai dubitato che tu poi avresti saldato e infatti ho avuto ragione. Non farmi ricredere ora sul tuo conto, smettila di incoraggiarmi con questa pietosa compassione.
- Va bene e mi scusi. Mi ha fatto chiamare e sono qui.
Mi dica di che ha bisogno?
- Di nulla e di tutto. Avrei bisogno di un figlio come te e allora non mi servirebbe più niente. Devo parlare con qualcuno che capisca e che non rida di me, e tu sei l'unico.
- Parli pure e l'ascolterò.
- Come i più anziani del paese sanno, mio padre riuscì con anni di duro lavoro a mettere su questo fondo che chiamò Cascina Vecchia solo perché quel vecchia gli dava un significato di continuità, come di una cosa che c'era sempre stata e sarebbe sempre rimasta.
Io ero il suo unico figlio e mi proposi fin da bambino di dedicare tutta la mia vita alla terra, ingrandendo la proprietà, facendola diventare una delle più belle della zona. Non puoi immaginare quanta emozione si provi guardandosi intorno e poter dire che tutto, fino a perdita d'occhio,è tuo. Ah, scusa per la frase infelice…
- Non si preoccupi: non avrebbe potuto dire diversamente.
- Grazie. Dicevo che il senso della proprietà individuale che voi comunisti non potete avvertire è spesso lo scopo di tutta una vita. In origine il fondo era di cento ettari e poi via via è aumentato per arrivare nell'epoca d'oro a quattrocento ettari. Ricordo quanto tempo impiegavo a percorrerlo con il calesse, rammento che ogni tanto mi veniva in mente la frase di quel re che diceva che sul suo impero non tramontava mai il sole.
No, da me il sole calava ogni giorno e io godevo nel vedere il giallo del frumento maturo colorarsi di rosso, mentre aspiravo a pieni polmoni la brezza della sera che mi portava il profumo del fieno tagliato.
E poi, dopo cena, era un piacere sentire le chiacchiere dei miei dipendenti e delle loro donne, riuniti sull'aia, e portare loro del vino fresco, e avvertire il rispetto che avevano per me. No, da me il sole tramontava, ma il fondo era il mio regno. Ogni nascita, ogni morte, ogni matrimonio era qualche cosa di mio e lì c'era il mio popolo. Come sai ero un padrone esigente, ma nessuno ha mai avuto da lamentarsi, perché non puoi voler male a ciò che è tuo.
Mia moglie mi ha dato tre figli: due maschi e una femmina. Contavo su di loro perché il regno potesse avere un futuro, ma è in questo che ho commesso il primo e fatale errore della mia vita. Li ricordi?
- E' da un po' che non si vedono da queste parti, ma li rammento da giovani.
- Guglielmo, l'unico che avrebbe potuto succedermi me l'ha portato via la guerra. Era a Cefalonia l'8 settembre edè stato uno fra le migliaia di fucilati. Era capace di condurre l'azienda; aveva polso e sapeva farsi rispettare e amare dai dipendenti. Se non ci fosse stata la guerra, ora sarebbe con me e lo vedrei indaffarato con i bergamini per un parto, oppure percorrere quietamente a cavallo i rivali fra i campi. Mia moglie ne ha sofferto tantissimo, tanto che è morta qualche anno dopo.
- E' vero, Guglielmo sapeva farsi benvolere da tutti.
- Non così gli altri due. Dico sempre che se Dio voleva punirmi per qualche cosa, non avrebbe potuto trovare supplizio migliore: l'unico uomo, in tutti i sensi, sepolto in terra di Grecia e due sciacalli che hanno mangiato, divorato le mie carni, mi hanno spolpato, mi hanno ridotto all'osso.
Caro il mio Annibale, sono rovinato. Non ho più nulla e fra qualche giorno una banca metterà il fondo all'asta.
Mi chiederai come mai?
Ecco, sono state le debolezze di un padre che non ha mai voluto ammettere che il sangue del suo sangue poteva essere acqua e di quella sporca anche. Ricordi Fabrizio?
- Il secondo, vero?
- Sì.
- Beh…Da giovane lo consideravamo un perdigiorno.
- Avevate ragione: non ha mai avuto voglia di far niente, ma poi sì che l'ha trovato un modo di passare il tempo. I casinò di mezza Europa l'anno visto come abituale frequentatore e come un pollo da spennare. "Papà, ho bisogno subito di cinquecentomila lire" e il papà stringeva i pugni, ma gliele dava.
Una cifra oggi, una cifra domani e il conto in banca si è prosciugato; allora ho cominciato a vendere qualche appezzamento di terreno…
- E la Miriam?
- La Miriam…Noto che te la ricordi, probabilmente anche perché era una bella ragazza.
- Sì, era bella.
- Magari ci hai fatto un pensierino?
- No, mai, non era per me, lei era di un'altra classe.
Ahhh…di un'altra classe! No, caro mio, tu sei di una classe ben superiore alla sua, tu hai forza, coraggio, coerenza, tu sei un uomo. Se sapessi chi era la tua piccola fiamma di gioventù… Adesso ti racconto. Ha sempre fatto girar la testa agli uomini, perché era bella e ricca. Corteggiata da tanti, anche ottimi partiti, si è invaghita di un pittore francese che fa dei quadri che non li prenderesti nemmeno se te li regalassero; inutile che ti dica che questa specie d'artista era edè squattrinato. E fino a quando ho potuto li ho mantenuti io, comprando addirittura un atelier e un appartamento a Saint Tropez, dove i piccioncini per un po' hanno vissuto. Fabrizio mi telefonava per i soldi, ma Miriam preferiva addirittura venire a chiederli, anche sei, sette volte in un anno. Stava con me qualche giorno, mi parlava di grandi progetti, di mostre a Parigi, dei soldi che servivano a questo scopo e io sganciavo. Di ritorno da una di queste visite, Miriam trovò il marito che utilizzava una modella non solo per ritrarla e andò in depressione. Dovetti farla ricoverare in una clinica svizzera, dove la tirarono un po' su, ma la testa ormai era partita. Cominciò a drogarsi, con i miei soldi, e poi quando sono finiti è arrivata a prostituirsi. E' difficile da dire per un padre, ma per sua fortuna è morta lo scorso anno, probabilmente per una dose eccessiva di cocaina.
- Mi dispiace.
- Non dire così, perché Miriam non era quella che hai conosciuto tu.
- E Fabrizio?
- Quello è come se fosse morto anche lui. Pare che sia fuggito in Sudamerica, dopo avermi convinto a garantire il prestito, ingente, che gli ha fatto una banca, con un'ipoteca su quel che restava del fondo. Questi soldi gli sarebbero dovuti servire per comprare un albergo a Rimini e iniziare così una nuova vita.
E' l'unica volta che gli ho creduto, che mi sembrava fosse cambiato e che ho sperato di ritrovarlo come figlio. E' accaduto subito dopo la morte di Miriam.
- E' andato male l'affare dell'albergo?
- L'amara veritàè che non c'è mai stato nessun albergo:i soldi gli sono serviti per rimborsare gli strozzini e con quel poco che gli è rimasto si è comprato un passaggio per il Sudamerica. E pensare che avevo concesso l'ipoteca, con l'intesa di girarla poi sull'albergo. Il termine di rimborso del prestito è scaduto; ovviamente lui non ha pagato e, dato che adesso nemmeno io sono in grado di saldare il debito, il fondo verrà venduto all'asta.
Il vecchio smise un istante di parlare, poi:
- Ti ho stancato, Annibale? - , chiese.
- No, si figuri, ma non penso sia stato questo il motivo per cui mi ha pregato di venire da lei.
- Giusto. Intendo lasciare qualche cosa di questo fondo a chi di più l'avrebbe meritato e questo sei tu.
- Non capisco, si spieghi meglio.
- Non temere, non c'è nulla di irregolare.
- Ma lei dove andrà?
- Non preoccuparti per me. Alla tua destra c'è un cofanetto di legno, prendilo e portamelo.
Il Guercio scrutò nella penombra e vide una sorta di bauletto su un tavolino, lo prese e lo porse al suo interlocutore, che nel frattempo si era voltato.
- Adesso guardami: ecco il volto di un re senza più corona.
Il Guercio trasalì: il signor Antonio era vecchio, sull'ottantina, ma sembrava un centenario, con la pelle tutta grinzosa e uno sguardo allucinato.
- Vedi che cosa c'è nel cofanetto? C'è la terra del fondo Cascina Vecchia. Sono poche manciate, ma se ne avverte il profumo denso di vita, si può ammirare il suo colore grigio scuro. E' quanto resta di un regno e voglio che tu la prenda e la porti con te. La metterai in un vaso e in questo pianterai un papavero e un chicco di grano. Così ogni estate il fondo rivivrà e io con lui.
Il Guercio restò perplesso, ma prese in mano il bauletto e promise che avrebbe provveduto come gli era stato indicato.
Il commiato fu senza abbracci, ma quando era già sceso dalle scale e si apprestava ad aprire il portone udì la voce forte del vecchio:
- E' morto il re! Viva il nuovo re!
Scosse la testa e pensò che l'età e le disgrazie avevano fatto uscire di senno il signor Antonio. Comunque, appena arrivato a casa versò la terra in un vaso e si ripromise che in autunno avrebbe piantato un seme di papavero e un chicco di grano.
Tre giorni dopo l'ufficiale giudiziario e un perito del tribunale si presentarono alla Cascina Vecchia per fare un inventario e la stima dei beni.
Il vecchio restò impassibile quando gli notificarono la cosa; i due fecero il loro lavoro e dopo un paio d'ore, prima d'andarsene, pensarono di salutare.
Fu un semplice "Abbiamo finito. Buongiorno", ma non ottennero risposta. Ripeterono la frase e ottennero solo il silenzio. Si avvicinarono al signor Antonio, lo scossero e questi reclinò il capo su un lato: il suo vecchio cuore aveva ceduto.
Ai funerali parteciparono ben pochi, ma fra questi c'era il Guercio, con in mano un vaso di terracotta.
Fu una cerimonia semplice, con una messa funebre veloce, quasi che tutti avessero fretta di sbrigare la cosa.
Quando la bara fu calata nella fossa, il Guercio si avvicinò e versò il contenuto del vaso, mormorando:
- Ad Antonio, ora nel regno dove non tramonterà mai il sole.
(Da "Storie di paese" - Seconda serie)

Il rosso nel campo
Era una splendida mattina di primavera e sotto un cielo azzurro camminava in un prato dal verde intenso, qua e là chiazzato dal rosso dei papaveri.
Più che andare, scivolava sull'erba, in una sorta di danza senza musica se non quella del tutto spontanea della natura.
Senza una meta, se non quella di essere là, libero e in pace, non s'accorse delle prime nubi che s'affacciavano in cielo, ma quando l'ombra sul prato aumentò volse lo sguardo all'insù e s'avvide che il tempo cambiava.
Un vento, dapprima lieve, prese a essere impetuoso, ad ammassare nembi minacciosi, a ondate continue come un mare in tempesta; il brusio della natura scomparve di colpo per far posto al cupo rimbombo dei tuoni e in un'oscurità crescente prese a piovere.
Cercò di coprirsi il capo con le mani, ma sentì che quell'acqua aveva odore e consistenza diversa dal solito. Le abbassò per osservarle e fu preso dall'orrore: grondavano sangue. Il verde dell'erba era sparito e intorno a lui fluttuava un mare tempestoso di un rosso cupo, dall'odore dolciastro che ben conosceva. Era tutto un ribollire di sangue, un lago che aumentava vertiginosamente, con il liquido che risaliva il suo corpo, toccava le ginocchia, raggiungeva l'ombelico e quando arrivò alla bocca gli restò appena il tempo per un urlo disumano.
- Noooo! Noooo!
Ansante, madido di sudore, fu così che si risvegliò.
Sentì qualche brontolio, un paio di bestemmie, ma poi tutto torno calmò e nel buio completo si rese conto che era stato solo un incubo e che lui era ancora lì, nel rifugio puzzolente di sudore, fradicio d'acqua, coperto da un metro di terreno fangoso. In tutto erano non più di 10 metri quadrati dove potevano riposare - ma in guerra questo termine è un eufemismo - al massimo una decina di uomini, stipati l'uno contro l'altro come in una scatola di sardine.
Scese dal pagliericcio, a tentoni raggiunse l'esterno e si trovò nella trincea.
La notte era quieta, stranamente, con un cielo senza stelle, rischiarato ogni tanto dal bagliore di un bengala.
Alla sua sinistra c'era il posto di osservazione e si rincuorò nel vedere la sentinella che scrutava nel buio.
Le si avvicinò e questa si volse.
- Sei venuto a rilevarmi?
- No, non sono di turno questa notte. E' che ho avuto un incubo e non riesco più a prendere sonno.
- Capita anche a me. Si cerca di sognare il bello, ma quello è solo un ricordo e non trova posto in questo inferno.
- Hai ragione, ma almeno essere lontani da qui con la fantasia permette di sopportare. Solo che se sogni qualche cosa di piacevole non arrivi fino alla fine e tutto poi diventa brutto.
- Speriamo che questa guerra finisca alla svelta.
- Speriamo di sì.
Già cominciava ad albeggiare; a oriente sottili strisce di luce cercavano di forare la fitta coltre di nubi e poco a poco che il chiarore si propagava sul terreno l'oscurità lasciava il posto a una visione spettrale: un suolo sconvolto, nemmeno un filo d'erba, e qua e là cadaveri insepolti, fagotti di stracci ghermiti dalla terra, distesi in pose che non sembravano mostrare l'aspetto di un lungo e definitivo riposo. Uno accovacciato su stesso, un altro piegato su un fianco, con il tronco proteso verso l'alto e irrigidito dalla morte, un altro ancora appeso a un reticolato, con la mano mossa dal vento quasi a salutare i sopravvissuti, un quadro allucinante composto da manichini che un tempo erano uomini.
Fu allora che l'oriente, all'improvviso, avvampò e centinaia di bocche da fuoco aprirono le fauci cominciando a scagliare tonnellate di ferro rovente sulle nostre linee.
- Allarmi! Allarmi!
Furono le ultime parole della sentinella, poi ricadde all'indietro con le braccia aperte.
Tutto intorno esplosioni, sassi che volavano, cavalli di frisia sollevati come fuscelli, la trincea in più punti sconvolta, il rifugio da cui era da poco uscito centrato in pieno da un colpo, i topi che fuggivano nel fango, soldati che correvano come impazziti lungo i camminamenti, ordini di comandanti coperti dal fragore delle bombe, urla di dolore dei colpiti, il terreno che tremava, l'aria impregnata dall'acre odore degli esplosivi.
Lui non si mosse, restò fermo, ma l'angoscia saliva e come un serpente si insinuava nelle budella, raggiungeva lo stomaco.
Non udiva più nulla, gli occhi sbarrati, la divisa fradicia del sangue dei morti, il fango che bloccava i suoi piedi.
Da quanto durava quella tempesta di fuoco non era alla portata della sua mente, perché ormai non pensava, nel cervello non c'era posto per la razionalità in un evento che non ne presentava nemmeno un poco.
Lui era lì e al tempo stesso era altrove, perché non era possibile accettare l'inaccettabile, quella ferocia, quell'orrore che già troppe volte aveva provato.
Il bombardamento cessò e dalle trincee nemiche cominciarono a uscire i soldati per l'assalto.
Si guardò intorno e non vide nessuno, chiamò e non ebbe risposta. Fu solo allora che ebbe la drammatica certezza di essere l'unico sopravvissuto.
I suoi occhi, quasi bianchi ormai, corsero al rifugio: non esisteva più, sparito, cancellato.
Tutto all'intorno c'era un silenzio irreale, una totale assenza di suoni, o forse era solo lui che non udiva più nulla.
Le tempie pulsavano, lo stomaco si attorcigliava, nessuna idea, nessun pensiero, un vuoto assoluto, un annientamento psichico.
Gettò il fucile e si sporse dal bordo della trincea.
Il paesaggio era incredibilmente cambiato: un prato d'erba verde rigogliosa, punteggiato dal rosso dei papaveri.
Lì c'era la vita e dietro di lui solo la morte.
Uscì dalla trincea, estasiato da tanta bellezza e si mise a correre, allargando le braccia.
I suoi piedi scivolavano sull'erba, leggeri e non sembravano gravati dal peso del corpo.
Era bello volare, sentire il profumo dei fiori, il brusio della natura.
Gli attaccanti si fermarono: che faceva mai quello che correva incontro a loro a braccia aperte, saltellando come se danzasse?
Restarono allibiti, attoniti di fronte a un'immagine del tutto irreale in quello scenario.
Lui continuava a procedere, aspirando a fondo un'aria finalmente pulita, lontana dagli orrori del mondo.
Si udì uno sparo e lui si fermò; mentre gli cadevano le braccia, e con esse il corpo, l'ultima cosa che vide fu una marea rossa, ribollente, che montava sul verde del campo.

Uomini disperati
Era una nebbiosa giornata di novembre dell'anno 1975, non infrequente nella bassa padana, data la stagione, ma da alcuni giorni era come se un velo tendente al bianco lattiginoso avesse incappucciato intere campagne.
Con la sera, poi, la situazione, già critica, peggiorava ulteriormente e non era facile orientarsi perfino in paese. Chi era pratico del luogo riusciva a muoversi, peraltro senza non poche difficoltà, ma per i forestieri era come aggirarsi in un labirinto senza comprensibili riferimenti.
Nonostante ciò, ci fu chi non solo riuscì ad arrivare al paese, ma anche alla meta che si era prefissata.
Era ormai sera inoltrata e il Guercio lavorava nella sua officina, intento a modellare un ferro arroventato, dandogli una forma a spirale, una sorta di serpe sottile che avrebbe fatto parte del cancello della villa del medico condotto.
Qualcuno bussò alla porta, senza ottenere risposta, perché il rumore del martello copriva i piccoli colpi dati con le nocche delle dita.
Così, quando il Guercio istintivamente si voltò, vide sull'uscio uno sconosciuto, quasi un fantasma emerso dalla nebbia.
Non si spaventò, ma rimase sorpreso e quello se ne accorse, tanto che accennò delle scuse.
- Non c'è bisogno di scusarsi…sa, non ho sentito, con il rumore del martello. Desidera?
- Non mi riconosci più?
Il Guercio lasciò cadere il martello e si avvicinò allo sconosciuto, cercando di collegare la sua immagine alla memoria.
Quell'altezza non usuale, sul metro e novanta centimetri e una caratteristica del volto, quegli occhi grandi e vivaci, incorniciati da sopracciglia foltissime, gli ricordavano qualcuno, ma chi?
- Sei cambiato, Guercio, e non hai più memoria. Eppure dovresti ricordarti di quel padre che uccise la figlia che aveva tradito e poi si diede la morte.
Il Guercio alzò le braccia, quasi annaspando, tornò a fissare quegli occhi così grandi e vispi, poi si diede un colpo con la mano sulla fronte:
- Ma certo, ma certo! Il Gufo, Giuseppe Baldisser, detto il Gufo.
- In persona.
- Quanto tempo è passato! Dunque, diciamo più o meno venti anni.
- Sì, dalla fine della guerra, ma uno in più se consideriamo l'esperienza partigiana.
- Sono felice di rivederti. Ti fermi a cena, vero? Poi ti porto al bar e ti presento agli amici. Voglio che vedano un partigiano di quelli che ha combattuto veramente, che ha rischiato, che si è coperto di gloria.
- No,è meglio di no.
- Non fare il timido, il modesto. Tu sei stato il migliore della brigata, quello che ha ideato e realizzato le azioni più rischiose.
- No, non posso. Ti chiedo, però, di ospitarmi per una notte.
- E' naturale che puoi stare a dormire, anche per più notti.
- No, se mi fermo troppo è un rischio per me e anche per te.
Il Guercio si fece pensoso, indeciso se fare o meno quella domanda, ma poi convenne che era giusto sapere i motivi di un comportamento così strano.
- Sei nei guai, vero?
- Sì, e grossi. La polizia mi sta cercando.
- Ma che hai combinato? Non sarai un delinquente, per caso? No, impossibile che tu sia cambiato.
- Guercio, sono uno delle Brigate Rosse.
Una tegola in testa avrebbe fatto meno effetto e il Guercio si prese infatti il capo fra le mani, ciondolando, come se fosse alla ricerca di un punto di equilibrio.
- Dimmi che scherzi!
- No,è la verità.
- Porca miseria vacca puttana…
- Stai calmo, Guercio. Me ne vado; non voglio che tu abbia dei guai.
- Tu non vai da nessuna parte, ma voglio sapere, capire il perché!
- E' una storia lunga, ma cercherò di essere breve. Ricordi che, durante la resistenza, sognavamo una nuova società, più giusta, senza padroni, senza servi?
- Certo che lo ricordo.
- Finita la guerra, quello per cui abbiamo combattuto è sparito dalle menti dei nostri capi, di tutti quei politici che hanno rinnegato gli ideali per comodità di poltrona.
Io lavoravo come operaio alla Pirelli, con uno stipendio da fame, e, se solo ti permettevi di accennare una protesta, ti sbattevano fuori, oppure c'erano le legnate dei picchiatori.
- Sì, come abbiamo cessato le ostilità, più d'uno ha cambiato le carte in tavola, arrivando anche a proteggere dei fascisti, i peggiori della specie, e magari dando in pasto ai cani quei mussoliniani in buona fede che non avevano mai fatto male a una mosca.
- Vedo che cominci a comprendere, ma non è tutto.
- Guarda che è da un bel po' che dico queste cose e ho cercato nella mia modesta carriera politica di cambiare questo corso.
- Sei stato in politica?
- Sì, segretario locale del Partito Comunista e anche sindaco, ma mi sono dimesso durante il mandato, per non avallare certe decisioni a solo svantaggio dei cittadini.
- Bene, penso che potremo parlare e forse intenderci.
- Non credo, Gufo, perché rifiuto la violenza.
- Sì, la rifiuti, ma se non ci sono altre vie, se non c'è altra possibilità, se questa non è una democrazia perché non rappresenta le esigenze dei cittadini, che fai? Ti metti a dire ai capoccioni che devono cambiare?
- L'ho fatto più volte, ma è stato inutile.
- Ecco, vedi che abbiamo ragione.
- Forse nelle motivazioni avete ragione, ma non nei metodi.
Il Gufo diede un pugno contro la porta, come per sfogare un'ira repressa.
- Non vuoi capire, vedo.
- Dì pure che non posso capire.
- Tutti gli ideali della resistenza, tutte le idee di un mondo nuovo, dove sono andate a finire, dunque?
- Caro Giuseppe, ho chiuso i miei sogni in un cassetto, ma non li ho gettati. Voi invece vivete di illusioni e quando cominciate a verificare l'amara realtà, quando vedete che non ci sono concretezze, cercate come unico rimedio la violenza. Non ho più voglia di uccidere, non ho più voglia di versare altro sangue. Pensi forse che gioissi quando a suo tempo ho ucciso dei nazisti e dei fascisti? No, anzi, avevo una sofferenza dentro lacerante, ma quella era l'unica azione che potevo compiere, per sopravvivere, per liberare il mio paese, per sperare che i sogni diventassero realtà.
- Appunto, visto che non si sono realizzati, tu tiri i remi in barca.
- No, attendo, aspetto che si verifichi qualche cosa di nuovo, che un'altra generazione magari porti una ventata di novità. Se a uccidere non ho realizzato nulla, continuando a farlo non potrò certo ottenere dei risultati.
I due uomini restarono in silenzio, entrambi pensosi e la luce tremolante del fuoco che ardeva nel forno illuminava con lampi guizzanti i volti di due vecchi da tempo delusi.
- Guercio, non posso dirti che hai ragione a comportarti così, ma non hai nemmeno torto.
- L'evoluzione umana è lenta e non si misura in anni, ma in secoli e quella scimmia che un giorno cominciò ad alzarsi sui piedi non è detto che non possa perdere quella bestialità che le è rimasta dentro. Quando accadrà, non sono in grado di saperlo, ma io spero che possa avvenire.
- Io ho già fatto la mia scelta, giusta o sbagliata che sia, e non posso tornare indietro, come non puoi farlo tu. Forse, se fossi stato con te anche dopo la fine della guerra, non sarei ora costretto a nascondermi per non essere catturato.
- Puoi sempre consegnarti e se non hai ucciso... Non è che per caso tu…?
- No, non ho ammazzato nessuno.
- Ecco, dicevo che se non hai ucciso, puoi sempre contare su una pena ridotta e io farò il possibile per aiutarti anche quando uscirai.
- Quando uscirò? Ho 60 anni e ben che vada sarò un vecchio senza più niente.
- Ripeto, ci sarò io, finiremo insieme la nostra esistenza, da amici liberi.
- E' troppo tardi e poi non voglio tradire i compagni e, soprattutto, me stesso.
Ci fu un lungo silenzio, in cui probabilmente entrambi cercarono di esaminare la situazione dal proprio punto di vista, poi il Gufo abbracciò il Guercio.
- Ti prego, consegnati.
- No, non posso.
- Dove andrai, braccato come sei?
- E' tanto tempo che manco da casa mia, da Contarina.
- I tuoi ci sono ancora?
- No, sono morti edè meglio, così non patiscono per me; inoltre, non ho né fratelli, né sorelle e nemmeno parenti stretti. C'è solo quella vecchia cascina dove sono nato e chissà in quali condizioni è ridotta, ma è casa mia, quella della mia gioventù, di un'epoca in cui tutto sembrava a portata di mano.
- Non andare. Mi sembra ovvio che sarà sorvegliata.
- Quasi sicuramente lo sarà, ma là devo tornare e mi difenderò, puoi stare tranquillo.
- Non far del male a degli altri che non ne hanno colpa, a dei proletari come noi, a dei poliziotti che fanno quel lavoro per mandare avanti la famiglia.
- Vedrò.
- Ti preparo la branda nello sgabuzzino dell'officina e vedo di portarti qualche cosa da mangiare.
- No, ho cambiato idea: vado via subito, ma ho bisogno di un mezzo per muovermi.
- Non ne ho, o meglio ho la bicicletta.
- Quella va bene.
- Parti domani mattina, riposato e chissà che la notte ti porti consiglio.
- No, Guercio, sono un pericolo per te e parto subito.
La bicicletta era nello sgabuzzino, una vecchia Bianchi da donna, ma funzionante.
Fu lo stesso Annibale a portarla in strada; in un buio pesto si abbracciarono, poi il Gufo salì in sella e scomparve subito nella nebbia.
Quella sera il Guercio mangiò pochissimo e restò taciturno fino al momento di andare a letto. La moglie pensò a una giornata storta e lui fece di tutto per farglielo credere.
I giorni passarono, sempre caratterizzati dalla nebbia fitta, e il Guercio in cuor suo si augurava che il Gufo fosse riuscito a dileguarsi, magari che fosse già arrivato a Contarina. Non perdeva un telegiornale; si parlava sempre di Brigate Rosse, di arresti, di retate, ma del Gufo niente.
Fu una sera della settimana successiva e il Guercio aveva cominciato quasi a disinteressarsi delle notizie, quando, mentre cenava, gli restò il boccone in bocca.
La notizia era laconica: il ricercato Giuseppe Baldisser, localizzato in una cascina di Contarina, aveva preso in ostaggio due carabinieri. Circondato dalle forze dell'ordine, li aveva lasciati stranamente liberi. All'intimazione di arrendersi, si era udito un colpo di pistola. Gli agenti, fatta irruzione nella casa, avevano trovato il brigatista ormai morto, suicidatosi con la sua stessa arma.
Il Guercio finse che gli fosse andato di traverso il boccone e corse in bagno. Pianse, ma capì che aveva ritrovato un amico.
(Da "Storie di paese" seconda serie)

Il suono del telefono
Piena notte, non s'ode volare una mosca e io dormo beato, quando…quando uno scampanellio acuto mi percuote i timpani, s'irradia a raggiera nel cervello, mi fa spalancare gli occhi.
Quel suono stridente mi è familiare, un trillo discontinuo e allora comprendo che è il telefono.
Chi sarà mai, di notte? Tutti i peggiori pensieri si accavallano, un incidente, un parente che sta male o anche peggio.
Trepidante allungo la mano, cerco sul comodino e finalmente trovo la cornetta, la sollevo, accosto il microfono con mano tremante alla bocca e chiedo:
- Pronto, chi parla?
Nessuna risposta.
Reitero la domanda, con voce più ferma: nulla.
E il telefono continua a squillare, imperterrito.
Non capisco o non voglio capire, tiro un paio di moccoli pensando a uno scherzo di pessimo gusto,
ma poi, sempre con quella cornetta in mano e il trillo imperterrito, focalizzo che c'è qualche cosa che non va.
Faccio per accendere la luce, ma mi accorgo sgomento che la stanza è illuminata; eppure, sono sicuro, lo giuro, non avevo nemmeno toccato l'interruttore.
- Che succede?
Non è una domanda,è quasi un urlo sgraziato.
Mi volto e vedo l'aria interrogativa di mia moglie.
- Non lo so. Il telefono ha preso a squillare e continua, inoltre la luce si è accesa da sola.
- Ma cosa dici! Com'è possibile?
- Senti anche tu: ho la cornetta in mano e non smette di suonare. Anzi, adesso sento anche altri rumori, calpestio di passi per le scale, voci concitate in strada.
- Sarà successa una disgrazia.
- Vado a vedere.
Mi vesto alla meglio e m'avvio alla porta di casa, senza non aver potuto fare a meno di constatare che i due computer non sono spenti, che i televisori gracchiano a tutto volume, che la lavatrice è in funzione come il forno elettrico della cucina a gas, che il campanello squilla. Quel che è peggio, però,è che anche il cellulare, che tengo sempre spento, trilla come un ossesso.
Raggiungo barcollando la porta e la apro: lungo le scale c'è tutto il condominio.
La vecchietta che sta di fronte a me si agita:
- Suona tutto, si è acceso tutto. E' opera del demonio!
Passo avanti e incontro Luigi, quello che abita nell'appartamento sopra il mio.
- Senti, senti che roba:è un concerto! Stavo facendo…, insomma ci siamo capiti. Sono lì sul più bello e squilla il telefono; mi sono bloccato, un vero e proprio choc. Pensi che ne porterò le conseguenze, che non mi funzionerà più come una volta?
Lo guardo allibito e non rispondo, scendo lungo le scale in un frastuono infernale, perché non è solo il mio condominio, ma tutta la via che è animata con gente che interroga, che strepita, che cerca di capire quello che sfugge a ogni umana comprensione.
Un gruppetto è intorno a Mario, un dipendente dell'Enel.
- Scusa, Mario, ma tu che sei nel campo, sta facendo un esperimento il tuo padrone?
- Non è che dopo il black-out dello scorso anno vogliate provare qualche nuova diavoleria?
Mario si stringe nelle spalle - Ma cosa volete che sappia, io. Lavoro in ufficio, nel reparto commerciale.
- Eh no, qualcosa devi sapere, perché sei stato uno degli ultimi a scendere. Parla, perdiana, parla, altrimenti ti faccio vedere anche le stelle!
E' un energumeno che dice queste parole e per sottolinearle agita i pugni.
Mario non sa che dire, ma poi gli viene un'idea, un lampo di luce - L'Enel non c'entra, suonano anche i telefonini.
- E' vero! - gridano in coro, felici di aver depennato un possibile colpevole.
Si fa fatica a sentire quel che dicono a causa del rumore assordante, anche perché ora si sono messe in moto le automobili, da sole ovviamente.
La signora Beatrice, tutta casa e chiesa, anzi più chiesa che casa, perché acida com'è non ha trovato uno straccio di marito, si mette in ginocchio e comincia a pregare sgranando il rosario.
Non si capisce che preghiere reciti, perché biascica le parole e con tutto il frastuono intorno nemmeno Caruso riuscirebbe a farci udire il suo do di petto.
Ho dimenticato l'orologio e allora chiedo l'orario.
- E' la mezza passata, anzi sono le dodici e ventuno minuti.
Faccio un rapido calcolo, ovviamente non corretto:è circa dieci minuti che ho lasciato l'appartamento, cinque minuti per vestirmi e altri cinque per rendermi conto da quando mi sono svegliato; quindi, il fenomeno sarebbe iniziato a mezzanotte.
Chiedo conferma ad altri e anche loro, dopo un conteggio simile al mio, arrivano alle stesse conclusioni.
La signora Beatrice, che prega, ma ha orecchie buone e allenate, lancia un urlo: - E' il giorno dell'apocalisse! Nostradamus l'aveva previsto.
Poi le prendono delle convulsioni, strabuzza gli occhi e si lascia cadere sul selciato.
Luigi, sì quello del coitus interruptus, si china per soccorrerla, ma lei gli si avvinghia come una piovra.
- Se devo morire, come tutti,è giusto che una volta in vita mia lo faccia. Vieni qui, bel Luigi!
Ma lui con fatica si divincola, si rizza in piedi e in preda a una tensione incredibile grida "un basta" con una tonalità tale che sovrasta il frastuono e scommetto che l'odono perfino a diversi chilometri di distanza.
Il suo volto è livido, schifato per quella richiesta di amplesso, incavolato per una notte che doveva essere di piacere e che invece…
Incredibile, ma vero: l'urlo ha avuto un effetto dirompente e ogni rumore è cessato, le auto si sono spente, come i telefoni, i cellulari, tutti gli apparati elettrici insomma.
Restano accese solo le lampade dei lampioni e illuminano visi stanchi, tirati, ma soprattutto sbigottiti.
Non ci diciamo nulla, ma piano piano lasciamo la strada, rientriamo nelle abitazioni.
Quando arrivo in camera da letto non dico niente a mia moglie e del resto che potrei dirle di logico.
Lei, invece, ha un'idea: - E' stato un esperimento degli americani.
Non rispondo, scivolo sotto le coperte, giro l'interruttore e la luce si spegne. Riuscirò a dormire?

Un altro suono, la mano che corre al telefono, solleva la cornetta, ma il trillo continua; sempre a tentoni la mano si sposta, trova la sveglia, schiaccia il pulsante e tutto torna silenzio.
Mi alzo, mi lavo, mi vesto, perché c'è da portar fuori la cagnetta per i suoi bisognini mattutini. Come esco dalla porta trovo la vecchietta che, come d'uso, quando sente un rumore s'affaccia.
Le dico: - Che notte!
E lei per tutta risposta:- Che vuole mai, quando si è vecchi si dorme poco e infatti mi sono svegliata alle tre.
- Alle tre, non prima?
- Sono vecchia, ma non sono rimbambita. Se dico che erano le tre è perché erano le tre.
Scendo le scale e sento che qualcuno cerca di raggiungermi:è Luigi che va al lavoro.
- Ti ho disturbato, per caso, ieri sera?
- Tu Luigi mi avresti disturbato?
- Sì, insomma, il cigolio del letto, magari qualche gemito. Invecchio, ma lì sono sempre in forma.
- Non hai da dirmi niente altro?
- Non vorrai che ti racconti tutto, porcellone.
E si allontana canticchiando.
C'è qualche cosa che non quadra e spero di trovare Mario, compagno di quest'orario perché pure lui ha il cane.
Eccolo, lo raggiungo e facendo finta di niente provo a dirgli: - Dormito bene?
Quello mi guarda insonnolito, poi borbotta: - 8 ore di fila.
Resto esterrefatto e se non impazzisco ci manca poco.
Incontriamo la signora Beatrice, di ritorno dalla Messa. Sempre vestita di nero, con quel viso certo non bello, ma mai sorridente, sembra una cornacchia.
La salutiamo e lei nemmeno risponde, abbassa gli occhi e accelera il passo.
Mario, che non l'ha in simpatia, si lascia scappare la frase del giorno: - Dicono che è ammalata, ma io so qualè la cura per guarirla. Solo che non si trova un medico adatto nemmeno a pagarlo a peso d'oro.
Adesso ho fretta di rientrare, ho la mente confusa. Come i cani hanno finito, ritorno sui miei passi, accelerando e quando rientro in casa trovo mia moglie già sveglia.
- Caro, ho dormito meravigliosamente.
Abbozzo un sorriso e lei se ne accorge.
- Tu invece hai passato una brutta notte. Parlavi, non si capiva che dicevi, ma parlavi. Hai anche gridato. Non devi aver digerito bene: troppa peperonata alla sera. Alla nostra età dobbiamo stare attenti.
Tiro un sospiro di sollievo: era stato solo un incubo, un tremendo incubo.
All'improvviso squilla il telefono, sollevo lesto la cornetta, chiedo chi parla e nessuno risponde.
Resto sbigottito, mentre il trillo continua.
- Renzo, ti decidi, o no, ad andare a rispondere al telefono in cucina?
Grande moglie, la mia!
Quando si dice che basta una parola e così io ho ritrovato la serenità.
(da "Storie di paese " - Seconda serie)

Humanae vitae (Riflessione)
Penso che sarà capitato anche a voi: ci sono mattine in cui ci si sveglia con domande che frullano nel cervello e non sempre riguardano argomenti piacevoli. Una volta diamo la colpa a quello che si è mangiato a cena, un'altra alle notizie del telegiornale, ma sta di fatto che sono il frutto di un lavoro della mente proprio delle ore notturne.
Ieri, giornata di pioggia e anche ventosa, nel buio della camera da letto, mi sono chiesto se sono contento di come sta andando il mondo.
La risposta, scontata,è stata un laconico no e senza esitazioni.
Inevitabile, poi, chiedermi il perché e cercare di capire le origini di quello che non va.
La conclusione, ve l'anticipo,è che non va proprio bene niente.
Ad esempio, viene da sorridere amaramente quando il Vaticano si sforza in modo così perentorio di opporsi al disegno di legge sulle unioni civili, come se da queste dipendesse il bene dell'umanità. Si dimentica, la Chiesa, o non vuole parlarne, delle guerre che divampano un po' ovunque, del fatto che c'è chi mangia troppo e c'è chi muore di fame, della folle corsa a consumare più del necessario, con inevitabili ripercussioni sull'equilibrio climatico e sulla salute degli esseri umani.
In confronto le unioni civili sono un'inezia, anzi, l'opporsi ad esse è un mero pretesto per eludere cose ben più importanti, che mettono in pericolo l'esistenza stessa della vita su questo pianeta.

Tutto ha inizio in Inghilterra, a metà del 1700, con la cosiddetta rivoluzione industriale. E' probabile che i suoi fautori non immaginassero lo sfracello che tale processo avrebbe creato. Ma è proprio in quel Paese e in quell'epoca che è cominciato un autentico dramma, di cui noi siamo inconsapevoli attori.
All'inizio, con la produzione industriale, grazie alle tecnologie, la disponibilità di beni aumenta in modo sensibile, e a prezzi più ridotti, così che i bisogni possano essere soddisfatti totalmente. Mi direte che questo è un bene e lo è per i compratori. Ma per i venditori nasconde un'insidia: l'eccesso di produzione deprime l'attività. Allora inizia una seconda fase, la più pericolosa: dato che è inutile continuare a produrre un surplus di beni, se ne inventano di nuovi e si fa anche in modo che servano a soddisfare bisogni indotti allo scopo.
Questa creazione di beni comporta anche l'acquisizione di nuovi mercati, drogando di fatto il commercio mondiale. Si avvia così la globalizzazione, spacciata per la panacea di ogni male e come mezzo di riscatto dei paesi poveri.
Ma non è così, perché, a differenza del colonialismo che depredava i paesi conquistati, ora si assoggetta il mercato di quei paesi a una nuova logica, imponendo modi di vivere, prodotti e idee che sono proprie delle "opulente" civiltà occidentali.
Questo, in un'economia arcaica e di sussistenza, provoca dei contraccolpi incredibili. Infatti, a fronte di un incremento delle importazioni, rappresentate prevalentemente da beni voluttuari, si registrano esportazioni dei loro prodotti alimentari (gli unici, a parte le materie prime, tipici di queste economie), in quanto attirati dai prezzi più remunerativi dei mercati internazionali. In tal modo, oltre ad aumentare il debito nazionale, stante l'evidente disparità di prezzi fra le merci importate ed esportate, si prosciugano le attività agricole e artigianali, portando la fame, che, in Africa, ad esempio, non esisteva fino a una sessantina di anni fa, tranne che in sporadici periodi di carestia. Inoltre, l'imposizione di nuove logiche di vita, sradica abitudini e civiltà millenarie, lasciando gente spaesata che, qualora abbia una reazione, la riversa nell'unico bene rimasto proprio: la religione. E quando si rifugia nel suo credo lo fa totalmente, affidando la ribellione al trascendentale. Così, al fondamentalismo economico, si contrappone quello religioso, dando luogo a sanguinosi conflitti che da un lato vedono impegnati eserciti moderni e dall'altro guerriglieri e terroristi.
E non è un caso se i grandi flussi migratori dall'Africa all'Europa sono cominciati una ventina di anni fa: l'applicazione integrale della globalizzazione risale infatti più o meno a quel periodo.
E così abbiamo cominciato ad assistere a un fiume in piena di poveri diavoli che fuggono in parte la fame e che in parte inseguono il desiderio di una nuova ricchezza, e che sono sempre più frequentemente vittime di gente senza scrupoli che di fatto li schiavizza, perché uno dei malanni del grande occidente è il razzismo mascherato da paternalismo. Gli immigrati sono mucche da mungere, da far lavorare dove non vogliono più operare gli evoluti cittadini del benessere, pagandoli meno e magari nemmeno assicurandoli. Ricordate a tal riguardo l'inchiesta dell'Espresso sui raccoglitori di pomodori? Pensate sia cambiato qualche cosa? No, anzi, forse c'è stato un peggioramento.
Qualcuno però potrebbe dire:è una chiacchierata, questa, del fico secco, perché in fondo così noi occidentali stiamo bene. Ma sarà vero? Perché, allora, questo modo di concepire la società e l'economia non fa altro che creare degli infelici? I dati sono evidenti: le statistiche rivelano un vertiginoso aumento del consumo di alcolici e di droghe.
Se la gente fosse soddisfatta, che bisogno avrebbe di stordirsi?
Inoltre, ora ci si accorge che l'eccessivo consumo di risorse e l'inquinamento stanno rendendo invivibile il pianeta. Potrebbe essere, questa, la buona occasione per una riflessione generale. E invece non lo sarà. Si prenderanno contromisure, ma sempre nell'ottica del profitto; forse si rabbercerà per un po' la frattura con la natura, ma quella sorta di smania che è l'industrialismo farà ripresentare il problema da lì a poco.
In fondo la soluzione non sarebbe così difficile: basterebbe rinunciare al superfluo (e ce n'è tanto, troppo), armonizzare l'aspetto economico, facendo ritrovare all'agricoltura il suo ruolo primario, e questa bolla di illusorio benessere si sgonfierebbe senza lasciare effetti negativi.
E allora, se non ci pensano i governi al benessere dell'umanità, perché la Chiesa non si fa portavoce di questa esigenza inderogabile?
Quindi la invito ad abbandonare le lotte farneticanti nei confronti di un disegno di legge che non fa che prendere atto di una realtà che esiste da tempo e di far sentire, invece, la sua voce in difesa dell'umanità.

Ringrazio Massimo Fini perché, in assenza del suo appassionato studio socio-economico, non mi sarebbe stata possibile questa riflessione.

Il prezzo della vita (Riflessione)
Se in questi giorni ci dovesse essere chiesto chi è Daniele Mastrogiacomo penso che risponderemmo senza esitazione che è il giornalista di Repubblica rapito in Afganistan e liberato dopo diversi giorni di sequestro a seguito di uno scambio.
Se però ci venisse domandato chi fosse Said Agha ci troveremmo subito in difficoltà e ben pochi di noi potrebbero rispondere che è l'autista, rapito con Mastrogiacomo, ed assassinato dai talebani che l'avrebbero considerato una spia.
Questo problema di due identità, accomunate dal medesimo evento, se lo è già posto Milvia Comastri con un'interessante articolo sul suo blog "rossiorizzonti" (http://rossiorizzonti.splinder.com/) e io che l'ho letto, ma invito gli altri a fare altrettanto, ho tratto degli spunti per alcune osservazioni.
In particolare, mi sono chiesto se esistono vite di serie A e vite di serie B e ho concluso che esistono, in questo nostro mondo, esseri umani di serie A ed esseri umani di serie B, e di conseguenza che anche le loro vite e le loro morti seguono questa classificazione empirica, ma che denota un razzismo sottostante di cui nemmeno ci accorgiamo.
Così i poveri, i diseredati, gli umili sono considerati inconsciamente una sottospecie da tutti quelli che si ritengono superiori per ceto, istruzione e tradizioni.
E in questo gruppo di apparentemente privilegiati metto anche me stesso, laddove, pur scorgendo queste distorsioni, volgo lo sguardo da un'altra parte.
Siamo abituati a vedere il razzismo come quello tipico dei nazisti nei confronti degli ebrei, anche a causa del genocidio perpetrato durante la seconda guerra mondiale; questo evento ci indigna e a ragione, ma non ci impedisce di essere razzisti.
E' assodato che nei confronti degli extracomunitari che vengono da noi a lavorare è praticato spesso un vero e proprio sfruttamento, ma quello che più stupisce è che le notizie di questa nuova forma di schiavismo all'inizio ci lasciano stupiti, poi si passa dopo qualche giorno a un'irritazione, come se certi eventi scuotendo la coscienza non ci facessero dormire, per arrivare, in un lasso di tempo piuttosto breve, all'indifferenza.
Il ragionamento inconscio che viene fatto è una sorta di sentenza, o meglio non sentenza, da Ponzio Pilato, nel senso che si dice che in fondo ci sono rischi in tutte le attività.
Ci sono certi comportamenti razzisti talmente innati che proprio non ce ne accorgiamo e le vittime non sono stranieri disperati in cerca di sostentamento, ma parte di noi stessi. Pensiamo solo un attimo all'aria di sufficienza con cui vengono visti gli anziani, gente non ritenuta più utile per il ciclo produttivo e che anzi rappresenta un costo notevole per la collettività.
Fra l'altro, questi anziani un tempo sono stati giovani, ma ora dimenticano l'analogo atteggiamento che a suo tempo tennero nei confronti dei loro vecchi.
Solo che si pensasse che ogni uomo, come noi,è fatto di carne, di sangue, ha quasi sempre le nostre stesse esigenze, ha i sogni, anche le speranze, prova dei sentimenti, si emoziona, appare evidente che quella classificazione in esseri di serie A e di serie Bè frutto solo di una contorsione mentale di chi, erroneamente, si crede superiore.
Ci siamo emozionati a leggere le notizie sui timori, sulle angosce di quei giorni di prigionia per Mastrogiacomo, proprio perché ci siamo immedesimati in lui, perché lui è come noi. Non credo invece che la notizia del barbaro assassinio di Said Agha abbia comportato le stesse reazioni.
Eppure, Said Agha fino a pochi giorni fa respirava, mangiava, lavorava per mantenere la moglie e i figli, insomma niente di diverso di quello che faceva e farà ancora Mastrogiacomo.
La vita di uno che non è come noi, che prezzo ha allora?

Lui passerà per il camino
Fu un inverno freddo quello del 1944 e con tanta, troppa neve. Quando la guerra sembrava concludersi da un momento all'altro, il proclama di Alexander rivolto ai partigiani affinché sospendessero le ostilità raggelò tutti: gli italiani, inermi, privi di tutto, sfibrati dai bombardamenti alleati e che sopravvivevano solo nell'attesa della liberazione, nonché gli stessi coraggiosi che da un anno combattevano, con enormi sacrifici, sia in montagna che in pianura, contro i nazifascisti.
Questi ultimi, ormai consapevoli dell'esito della guerra, intensificarono invece le ostilità, con una brutalità senza precedenti di cui furono vittime sia gli uomini della resistenza che la popolazione civile. Fu intensificata, fra l'altro, la caccia agli ebrei, con esiti raccapriccianti e di uno di questi il paese serba ancor oggi, commosso, il ricordo.
Agli inizi di dicembre la città e tutta la provincia furono oggetto di una retata capillare, a cui parteciparono sia le famigerate SS che le non meno odiate Camicie Nere.
Ben pochi israeliti riuscirono a sfuggire, o perché avvisati in tempo da qualche doppiogiochista che già allora cercava di assicurarsi il futuro, oppure per pura casualità, come avvenne per Isaia Forni, un bimbo di appena sei anni.
Quando la marmaglia sfondò la porta di casa e catturò i suoi genitori, lui si trovava da una vicina, una signora anziana che voleva fargli vedere il suo gattino. La donna, nonostante il pericolo, lo tenne con sé qualche giorno fino a quando, a una parente che le fece visita, propose di portarlo con lei in campagna, in un posto ritenuto più sicuro.
Fu così, che una settimana prima del Natale, Isaia Forni arrivò in paese e, poiché le sfortune spesso si sommano, subito nel pomeriggio perse la sua accompagnatrice, mitragliata da un aereo alleato mentre in bicicletta percorreva l'argine diretta a una fattoria per vedere di poter avere un po' di latte.
Della presenza del piccolo era già stato informato il parroco, Don Zeffirino. Appresa la tragica notizia della scomparsa della signora, se lo portò in canonica e decise di tenerlo lì, nonostante fosse un giudeo, ma come ebbe a dire una volta, finita la guerra, davanti a Dio non ci sono cristiani o mussulmani, o ebrei, ma solo uomini, e nel caso specifico un bambino innocente, già duramente provato per la perdita dei suoi genitori.
Se lo coccolava con gli occhi, si divertiva a guardare il suo stupore quando lo portava in chiesa, provava una gioia immensa nel sentirsi il suo protettore e già sognava di renderlo partecipe della messa di mezzanotte, non per farne un cristiano, ma perché vedeva in lui, con tutte le sue sofferenze, l'immagine di Cristo.
Per quanto questa ospitalità fosse mantenuta il più possibile segreta, arrivò alle orecchie di qualcuno e così, l'antivigilia, una squadraccia fascista bussò con i soliti modi alla porta della canonica.
Don Zeffirino, sempre sul chi vive, li aveva visti arrivare e aveva nascosto prudentemente il bimbo nel confessionale.
- Sappiamo che c'è un piccolo ebreo e in base alle leggi sovrane della Repubblica Sociale Italiana dovete consegnarcelo.
Don Zeffirino guardò il capo manipolo con occhi stupiti e rispose: - Non c'è nessun ebreo, in questa canonica.
- C'è, ne siamo sicuri e se non è in canonica,è nascosto in chiesa. O ce lo consegnate, o andiamo a prenderlo.
- Vi assicuro che vi sbagliate e se vi azzardate a fare un altro passo, o a mettere i piedi in chiesa con queste armi spianate, dovrete passare sul mio corpo.
- Va bene, prendiamo atto delle vostre dichiarazioni e non vogliamo inimicarci anche il Padreterno. Adesso usciamo, ma chi ritornerà non avrà così tanti riguardi.
Girarono i tacchi e se andarono.
Don Zeffirino si accorse solo allora di quanto sudasse, nonostante il freddo. Era riuscito a parare il primo colpo, ma sapeva bene che il secondo, qualora al posto delle camicie nere fossero arrivati gli uomini delle SS, sarebbe stato fatale.

Fu così che andò a prendere il bimbo e lo portò, quasi nascondendolo sotto la tonaca, dalla Tilde, la moglie di Annibale Chiocchetti che solo più tardi sarebbe stato conosciuto con il soprannome di Guercio e che all'epoca era da qualche parte, sugli Appennini, con i partigiani.
- Tilde cara, ti chiedo un gran piacere: puoi tenere questo bambino per un po', non tanto, finché si calmano le acque.
- Come è bello, Don Zeffirino: ha gli occhi neri, vivi, ma velati di tristezza. E' rimasto orfano?
- Forse sì.
- In che senso?
E allora il prete raccontò tutta la storia.
- Può restare quanto vuole, come se fosse un altro mio figlio, e anzi può giocare con Giacomo, tanto dovrebbero avere più o meno la stessa età. - E dicendo così, nell'accarezzare i capelli di Isaia, rivolse uno sguardo dolce a quel figlio, avuto immediatamente prima della guerra e che così poco aveva conosciuto il suo papà.
- Mi raccomando solo una cosa: nessuno deve sapere che c'è.
- Naturalmente.
Come preavvisato dai fascisti, il giorno dopo arrivarono, su una macchina nera due loschi figuri, lugubri e laidi nell'aspetto, che si qualificarono come membri della Gestapo e che senza chiedere tanti permessi cercarono in ogni dove, nella canonica e in chiesa, e che se andarono sbattendo la porta.
I due bimbi fecero subito amicizia e poiché Giacomo aveva acquisito dalla madre una fervente religiosità, il giorno della Vigilia si mise a fare il presepe.
Isaia lo guardava e presto cominciò a incuriosirsi e chiese di partecipare a quello che credeva un gioco.
Giacomo, con la naturalezza tipica dei bimbi, gli spiegò che era quasi un rito religioso e Isaia si mostrò ulteriormente interessato.
- Chi è quel bambino che metti nella mangiatoia?
- Gesù.
- E chi è Gesù.
- Era un bambino come noi, ma poi diventò grande, tanto grande, al punto che quando parlava tutta la gente l'ascoltava e lo seguiva nel suo girovagare.
- Che diceva?
- Diceva di essere il figlio di Dio e che era venuto sulla terra per redimere gli uomini, per farli diventare tutti buoni e bravi, e inoltre diceva che siamo tutti fratelli.
- Era grande sì, quasi come il mio papà.
- Anche quasi come il mio, ma di più, perché lui è il papà di tutti.
- E' vissuto tanto tempo fa?
- Quasi duemila anni fa.
- Tanto, e lo si ricorda sempre così, come un bambino?
- No, anche come un uomo adulto inchiodato a una croce.
- Ah, sì, quando l'uomo con il vestito lungo nero mi ha nascosto in una specie di casetta c'era un uomo grande, mezzo nudo, appeso a due assi incrociate e con una corona di spine in testa.
- Quello è Gesù.
- Ma perché ricordarlo così?
- Perché lui si è fatto giustiziare per salvarci tutti.
- Che buono che doveva essere! E chi è stato così cattivo con lui?
Giacomo rimase assorto, non sapendo che rispondere, nel timore di offendere il suo piccolo amico e poi sbottò:
- Quelli che non erano cristiani come lui.
- Dovevano essere proprio cattivi per fare una cosa simile.
- Sì, ma l'hanno fatto per ignoranza.
- Povero Gesù, trattato male come noi ebrei.
Il Natale trascorse abbastanza tranquillo e perfino Pippo, l'aereo da bombardamento che assillava le notti della gente, se ne stette un po' alla larga.
Poi venne Santo Stefano e la Tilde e Don Zeffirino cominciarono a pensare che Isaia era finalmente al sicuro, ma l'ultimo giorno dell'anno la Gestapo ritornò e andò a colpo sicuro.
Quando bussarono pesantemente alla porta, la Tilde sentì una fitta al cuore e capì che era finita.
Aprì tremando e i due corvacci in nero entrarono senza presentarsi.
- C'è un bambino ebreo e noi lo vogliamo.
- Non ci sono bambini ebrei.
- Noi vediamo due bambini e siamo sicuri che uno è ebreo e che si chiama Isaia Forni.
- No, c'è solo mio figlio Giacomo e suo cugino Ettore, che ha perso i genitori e la casa in un bombardamento.
- Siamo stati anche troppo pazienti, ma tutto ha un limite. Ripeto: vogliamo, e subito, l'ebreo!
- Quale ebreo?
Per tutta risposta, la Tilde si prese un ceffone che la fece cadere a terra mentre i due piccoli cominciavano a piangere.
- Non lo ripeto più: quale è l'ebreo?
Non ci furono risposte.
- Va bene! Facciamo così: li porto via tutti e due.
- No, vi prego no, se avete un cuore, se anche voi avete dei figli, non fate una cosa del genere.
- L'ebreo, o li porto via entrambi.
Fu allora che, con il capo chino, Isaia si fece avanti e disse, con voce tremante: - Sono io, Isaia Forni.
Lo presero e alla domanda della Tilde su dove l'avrebbero portato, risposero sogghignando:
- Lui passerà per il camino.
Ancora non si sapeva che volesse dire, ma la Tilde pensò al peggio e guardò per l'ultima volta, con animo angosciato, quell'esserino che veniva portato via come fosse un delinquente.
Non fu difficile scoprire chi fosse stato l'ignobile delatore, anche perchè Aldo Marchetti, soprannominato Gerarchetto, lo stesso che aveva indotto con il suo comportamento Annibale Chiocchetti a darsi alla macchia, se ne vantò la sera stessa all'osteria.

La guerra terminò e di Isaia Forni non si ebbero più notizie, se non dopo un paio d'anni, quando la comunità israelitica lo rintracciò fra i deceduti del lager di Buchenwald. Don Zeffirino non lo dimenticò mai e fu sempre presente nelle sue messe dei morti.
Quanto a Gerarchetto, scomparso dalla scena negli ultimi giorni del conflitto, ricomparve dopo la costituente fra le file democristiane e fu uno dei primi deputati del neoparlamento, e tutto questo come se nulla fosse accaduto, come tanti altri, del resto.
(da "Storie di paese " - seconda serie)

Ferite di guerra
Era una primavera fatta di tiepidi giorni quella del 1940, una stagione come si deve, con le rose che sbocciavano vellutate e rigogliose e il grano che svettava verde nei campi. Sarebbe stato un anno come gli altri, se non si fosse avvertito nell'aria il cupo brontolio, come di un temporale estivo, di una tragedia che sembrava avvicinarsi ineluttabilmente.
Già si combatteva in Francia, anzi le truppe tedesche erano ormai dilagate nel territorio d'oltralpe, dopo aver fagocitato la Polonia ed aver annichilito il Belgio e l'Olanda. Insomma la guerra lampo sembrava dar ragione ancora una volta all'ometto con i baffi che strepitava a Berlino proclami su proclami e che con sicumera si sentiva padrone del mondo.
L'Italia, alleata della Germania, pareva in attesa, come una spettatrice interessata, ma che non aveva nessuna voglia di pagare il biglietto.
Benito Mussolini tentennava, si barcamenava, ma più passava il tempo e la vittoria della Germania sembrava certa, più si crucciava di non essere della partita, di non avere il suo angolo di gloria.
Gli italiani, in verità, non è che tenessero molto a scendere in campo, peraltro a fianco di quell'alleato di cui non serbavano un buon ricordo fin dalla prima guerra mondiale.
La propaganda, però, agiva sottilmente: non era forse vero che in Etiopia ci si era coperti di gloria? Le nostre tradizioni romane non ci solleticavano a prendere parte a un conflitto dall'esito ormai rapido e sicuro? La nostra Marina non era la più forte del Mediterraneo e la nostra aviazione, quella della grande trasvolata di Balbo, non era ammirata in tutto il mondo?
Queste argomentazioni, opportunamente insinuate nelle coscienze, cominciarono a dare i loro frutti e piano piano molti finirono con il convincersi che la guerra sarebbe stata una semplice passeggiata, una delle tante parate così ben architettate da Starace.
Abbracciò quest'idea anche Annibale Chiocchetti e come lui quasi tutti i giovani del paese, che sembravano diventati dei galli da combattimento. All'osteria risaltava su una parete una carta geografica della Francia su cui erano appuntate le bandierine dei belligeranti, con quelle francesi e inglesi che si spostavano gradualmente verso la Manica e quelle tedesche che le incalzavano.
Ormai le discussioni non erano più sportive, ma belliche e lì la propaganda fascista aveva facile gioco.
Il podestà, quasi parlando fra sé, sbottava ogni tanto:
- Il Duce è troppo prudente e poi è un signore; probabilmente non vuole infierire su un nemico già vinto. Però il nostro intervento è ormai inevitabile, perché ne va del nostro onore.
Immancabile seguiva un mormorio di approvazione, quasi un belato assordante di un gruppo di pecore che si erano scoperte del tutto impavide.
I più vecchi, però, raccomandavano la calma, forse memori di quella prima guerra che avevano combattuto e che anche allora si era presentata facile e di brevissima durata.
Fu così che a un certo punto anche Benito Mussolini si convinse che le parole della propaganda erano del tutto veritiere e finì col prendere quella decisione che lo avrebbe poi travolto, distruggendo però una nazione e arrecando lutti smisurati.
Il 10 giugno 1940 ci fu la proclamazione della dichiarazione di guerra contro gli anglofrancesi e la conseguente mobilitazione generale.
Annibale Chiocchetti, che già aveva fatto il servizio militare di leva, benché sposato e con un figlio a carico, ritenne di partire volontario, nonostante le suppliche della moglie e della madre.
- Che italiano sarei se nel momento del dovere dovessi tirarmi indietro? E poi, non farò in tempo a partire che sarò già di ritorno.
Tutte le argomentazioni delle donne furono inutili e lui il giorno dopo era già arruolato.
Fu inquadrato nella fanteria e inviato con il suo reparto in Piemonte, nei pressi del confine con la Francia.
Lì, in pratica, rimase acquartierato senza toccare nemmeno un'arma, anzi imparando a conoscere la qualità dei vini delle Langhe. Anche se un po' più ad est si verificò qualche combattimento con i francesi, che per poco non si risolse in una disfatta, il grosso delle truppe fece i suoi ozi di Capua, fino alla resa del nemico.
Tutto, insomma, sembrava andare secondo i piani e già Annibale pensava che avrebbe trascorso l'inverno a casa, al tepore del focolare, nella sua famiglia e con il suo lavoro, ma Mussolini, ingelosito dalle travolgenti vittorie tedesche, che avevano spazzato via anche la resistenza di cartone della Jugoslavia, pensò bene di tirare un colpo mancino al suo amico Hitler, dichiarando guerra alla Grecia il 28 ottobre 1940.
Anche in questo caso ci fu una solenne promessa di guerra rapida e sicuramente vittoriosa, tanto i greci sembravano un esercito evanescente.
Questi, però, ritrovarono l'antico coraggio nel difendere la loro patria e una campagna che doveva essere una passeggiata trionfale rischiò di trasformarsi in un disastro senza precedenti.
Su questo fronte fu trasferito, in tutta fretta, il reparto di Annibale Chiocchetti e lui, promosso caporale per chissà quali meriti, visto che non aveva nemmeno sparato un colpo, vide, per la prima volta, gli orrori di un conflitto, combattuto su un terreno impervio, nei rigori dell'inverno e in condizioni disumane.
Questa volta Annibale andò in prima linea, una trincea che tanto ricordava quelle del Carso, fradicia d'acqua, con i piedi immersi nel fango tutto il giorno e il freddo che aveva facile gioco su divise che sembravano di carta velina.
In cambio i Greci non sparavano molto, perché erano costretti a razionare le munizioni, e più che vere e proprie battaglie si verificavano frequenti scaramucce, particolarmente cruente però.
Nella vita di trincea, a contatto con il pericolo, si impara a conoscere gli altri e soprattutto se stessi e lo stesso avvenne anche per Annibale.
Fra i suoi commilitoni ce n'era uno, piccoletto, magro come un chiodo, che era conosciuto perché si offriva volontario per andare di pattuglia al posto del designato, ovviamente contro un corrispettivo in denaro.
Si chiamava Nino Terlizzi, ma Annibale l'aveva subito soprannominato Il tirchio, perché a rischiar la pelle per 500 Lire dell'epoca bisognava esser per forza attaccati più al denaro che alla vita.
- Caporale, lo faccio perché sono soldi che servono a casa.
- Sì, Nino, ma aumenti il rischio di non tornare a casa.
- Casa, casa mia è sempre bella, anche con la fame.
E gli prendeva una malinconia che lo costringeva ad accovacciarsi in un angolo, tenendo il capo basso.
Gradualmente fra Annibale e Nino si instaurò un rapporto d'amicizia , una fratellanza che nessuno dei due avrebbe potuto supporre.
- Caporale, sto vicino a Cerignola in Puglia e sono un bracciante. Ho tante bocche da mantenere: due genitori vecchi, mia moglie, un figlio piccolo di due mesi e tre fratelli, uno che non ci sta con la testa, un altro che per un incidente è sciancato e un altro ancora che quando può lavora.
A sentir queste cose ad Annibale vennero le lacrime agli occhi:
- Ma non ci sono sussidi?
- Capora', ma quali sussidi! Quando mi hanno chiamato in guerra sono stato contento per lo stipendio che va tutto a loro, ma è ancora poco e allora arrotondo. Tanto, se è la mia ora, lo è anche se non vado di pattuglia al posto di un altro.
Passarono i giorni, con il freddo che aumentava, provocava congelamenti agli arti e contribuiva a distruggere un esercito già decimato dall'intraprendenza dei greci che, in quel clima, sembravano a loro agio.
Della compagnia erano rimasti in pochi e questi erano quasi irriconoscibili, dilaniati dall'aver compreso che la guerra non era una passeggiata, ma un incubo che non sembrava aver mai fine.
Si arrivò così al 13 dicembre 1940, un giorno che sarebbe rimasto indelebilmente impresso nella memoria di Annibale.
Alla sera giunse il capitano e disse che era necessario uscire di pattuglia per vedere che cosa stavano preparando i greci, stranamente silenziosi da un paio di giorni.
Il tenente scelse 5 uomini e fra questi Annibale.
- Capora', vado io al posto tuo; mi dai 500 lire e tu stai in trincea.
- No, Nino, non è la prima che mi capita e vado.
Terlizzi allora si rivolse agli altri 4 e trovò uno disposto a essere sostituito.
Uscirono dai reticolati verso la mezza, strisciando nel fango come sanguisughe ed erano quasi arrivati alle linee nemiche quando un bengala illuminò a giorno il terreno e la pattuglia fu scoperta.
Colpi di fucile, raffiche di mitragliatrice, esplosioni di mortai, un inferno improvviso che colse gli uomini privi di riparo.
Annibale ordinò di ritirarsi subito e cominciò a correre verso le nostre linee. Ormai mancavano una decina di metri alla salvezza e i nostri sparavano anche loro per coprire i fuggitivi. Annibale, per un presentimento, si fermò di colpo, si volse e si vide solo; nel fragore degli spari gli sembrò di sentire il grido di un uomo che chiedeva aiuto. Era una voce che conosceva e decise di tornare indietro. A metà strada fra le trincee Nino Terlizzi si dibatteva, comprimendosi il ventre. Fu un attimo e Annibale si chinò, lo caricò sulle spalle e si riavviò verso le nostre linee.
Non poteva correre, per il peso, e allora prese a camminare; stranamente le armi tacquero, forse i nemici si impietosirono nel vedere quell'uomo che, barcollando, portava in salvo un altro uomo.
Annibale non pensava, camminava esausto e non guardava, sentiva solo i richiami dei nostri che lo incoraggiavano e passo dopo passo, nel buio più fitto, aveva chiara la sensazione che ormai era fatta.
- Mancano una decina di metri, Nino. Ce la facciamo.
Ora, ancora tre metri. Ce l'abbiamo fatta, coraggio.
Si accese un bengala e quasi contemporaneamente i mortai ripresero a colpire.
Ci fu una violenta esplosione e Annibale sentì un dolore lancinante al capo, vide una miriade di luci che danzavano davanti a lui, poi tutto si spense e svenne.

- Annibale, caporale Annibale Chiocchetti, svegliatevi!

Credette di essere a casa nel suo letto, ma quel "caporale" gli dava un sentore di caserma.
Provò ad aprire gli occhi, ma questi gli facevano male e vedeva come una nebbia davanti a lui.
- Dove mi trovo?
- All'ospedale da campo.
- Voi chi siete?
- Sono il tenente medico Francesco Angiolieri. Siete stato ferito al termine di un'azione eroica.
- Ferito dove?
Il tenente non rispose
- Dove?
- Una scheggia ha colpito la testa, anzi ha colpito l'occhio sinistro. Ma resta il destro, vedrete bene lo stesso.
- Insomma sono un invalido.
- In un certo senso sì, ma siete anche stato fortunato, perché potevate morire o subire delle amputazioni. Vi capisco, ma resta l'altro occhio e, soprattutto, per voi la guerra è finita.
- E il mio amico, quello che trasportavo?
Il tenente si chinò e iniziò a parlare a voce bassa:
- Ha una brutta ferita, al ventre. Non credo che arriverà a questa sera.
- Dov'è?
- Qua di fianco, nell'altra branda.
- Mi può sentire?
- Penso di sì, se parlate a voce alta.
- Nino, dove sei?
Si sentì come un gorgoglio e in mezzo a questo un qui smorzato.
- Ce l'abbiamo fatta, Nino, amico mio.
Arrivò un sì sfiatato, come di un vecchio mantice tutto perforato.
- Mi posso alzare?
- Perché?
- Vorrei stare accanto a lui.
- Se non avvertite fatica, fate pure.
Più che alzarsi, Annibale si drizzò quel tanto da restare seduto con il busto eretto e si volse verso la branda dell'amico, mentre la nebbia gradualmente spariva.
Poté vederlo alla fine distintamente, un fagottino con il volto terreo e tirato.
- Nino, siamo proprio vicini.
Nessuna risposta.
- Dai, che ci congedano.
- Capora', il mio è un congedo definitivo e casa mia non la vedo più.
- Ma che dici mai!
- No, capora', certe cose si sentono; questo fuoco che mi mangia dentro si spegnerà con la mia vita.
- Dai, vedrai che andrà meglio.
- Una cortesia, un grande piacere…
- Sì, dimmi pure.
- Porta una lettera alla mia casa, con i soldi che ho messo da parte. Di te mi fido: mi volevi salvare la vita.
- L'hai scritta ieri?
- Non so scrivere: prima che ti svegliassi me l'ha scritta il dottore.
E nel dire così sfiatò.
- Sì, lo prometto sulla mia vita.
- I soldi sono nel berretto vicino al letto: 5.000 lire. Potranno comprar la legna per l'inverno e tirare avanti per un po'.
- Non dire così; glieli consegneremo insieme.
Non ci fu risposta e Annibale prese la lettera e i soldi.
Dopo un'ora circa Nino entrò in agonia. Mormorava parole incomprensibili, ogni tanto ricorreva un nome femminile, ora quello di un santo.
Si spense all'imbrunire, dopo un ultimo disperato grido: ancora quel nome, Concettina.

Annibale restò all'ospedale da campo fino a Natale, allorché, a seguito di un improvviso attacco dei greci, fu coinvolto nella ritirata che lo portò fino a Valona. Lì trovò una confusione indescrivibile, propria di un'armata in rotta.
Con il sacrificio degli Alpini l'avanzata nemica fu dapprima rallentata, poi fermata del tutto. Eravamo andati per conquistare la Grecia, ma invece avevamo perso anche parte dell'Albania.
Poi ci fu un rapido cambio dei comandanti, l'arrivo di nuove truppe e la notizia che i tedeschi sarebbero venuti a darci una mano.
Con fatica si riconquistarono le posizioni perse, ma alla fine della campagna le nostre truppe riuscirono, a malapena, ad arrivare al vecchio confine.
Intanto Annibale, nonostante avesse fatto richiesta di rimpatrio, non era stato accontentato. I piroscafi disponibili erano pochi e poi lui era considerato un eroe di guerra, da celebrare il giorno della vittoria. Così, nella primavera del 1941, fu prelevato dalla caserma di Valona e trasportato in un piccolo villaggio oltre il confine, un viaggio quello che gli rimase impresso nella memoria.
Appena passata la linea di demarcazione fra Albania e Grecia attraversarono dei piccoli borghi in rovina, disseminati di cadaveri di civili, uomini anziani, donne e bambini.
Chiese e seppe che non era stato un bombardamento, ma la rappresaglia dei tedeschi in risposta alle azioni dei partigiani.
Più si andava avanti, più si vergognava della divisa che portava indosso, di quella guerra in cui pur aveva creduto, ma che ormai conosceva nei suoi orrori e così, quando in una pubblica cerimonia un generale gli appuntò al petto la medaglia di bronzo al valor militare, pianse. Tutti applaudirono, pensando alla commozione, ma nella sua mente si accavallavano le immagini di Nino moribondo e di quei poveri civili massacrati.
Finalmente lo riportarono indietro, assicurandogli il passaggio da Valona a Brindisi nel giro di una decina di giorni.
Appena dimesso dall'ospedale aveva scritto alla moglie per comunicarle la sua mutilazione. Non sapeva come dire e alla fine scrisse solo che sarebbe tornato orbo di un occhio. Non aveva avuto risposta, il che lo angustiava e sperava solo che il ritardo fosse imputabile alla guerra.
Il giorno stesso dell'imbarco sulla nave per il porto di Brindisi gli fu consegnata la lettera che tanto attendeva.
L'aprì con timore e quando lesse "Cosa importa, amore mio, l'importante è che tu torni da me" pianse come un bambino, poi si aggiustò la benda nera che copriva l'occhiaia vuota e sentì chiaramente che, nonostante tutto, malgrado una guerra, lui era un uomo felice.
Il viaggio da Valona a Brindisi, un braccio di mare, fu piuttosto lungo, proprio per evitare i sommergibili inglesi, che già avevano affondato un trasporto truppe, ma poi finalmente arrivò a destinazione. Lì gli diedero il foglio di congedo, gli pagarono le ultime mensilità e un premio di Lire 3.000 per la medaglia di bronzo.
Il ritorno si presentava non facile, anche perché doveva fermarsi vicino a Cerignola. A Bari arrivò in treno e lì ottenne un passaggio su un vecchio autocarro diretto a Foggia. Da quest'ultima città a Cerignola dovette arrangiarsi del tutto, un po' a piedi, un po' ospitato su carri agricoli, ma alla fine arrivò alla meta. Chiese dov'era Contrada Arsa e si rincuorò quando gli risposero che era soli quattro chilometri fuori dal paese.
S'incamminò piano, già sotto il sole di maggio, in mezzo ai campi in cui già il grano cominciava a indorare.
Dopo un'oretta arrivò a un povero casolare che sembrava disabitato. Bussò alla porta e gridò:
- Terlizzi, abita qui la famiglia Terlizzi?
Rispose una voce:
- Avanti.
Entrò e vide la casa del suo amico Nino: solo una grande camera con le pareti annerite dal fumo del camino, una tavola, quattro sedie sgangherate e, sul fondo, dei pagliericci.
Dato che era mezzogiorno c'erano tutti: il fratello sciancato, l'altro scemo, l'altro ancora che sembrava il sosia di Nino, due vecchi disfatti, una donna con un bimbo piccolo in braccio.
- Sono Annibale Chiocchetti, amico di Nino. Devo consegnarvi della roba.
La giovane si alzò:
- Lo sappiamo, ce l'ha detto Nunzio che era con voi in guerra e che è ritornato un mese fa.
Il vecchio si volse verso Nino, con sguardo implorante e gli chiese come era morto il figlio.
Annibale consegnò la lettera alla donna, nonché 8.000 lire, poi rispose:
- Mi ha salvato la vita. Ero rimasto ferito in pattuglia, ma lui è tornato indietro per portarmi al sicuro e gli hanno sparato un colpo solo, in mezzo alla fronte. Credo che non abbia nemmeno sofferto.
- Povero fijo mio, sempre generoso è stato.
Si asciugò le lacrime con la manica della camicia e si appartò in un angolo, sempre mormorando "Povero fijo mio".
Annibale era imbarazzato e quindi decise di andarsene.
Salutò, corse quasi fuori e già si era incamminato verso Cerignola quando udì una voce.
- Annibale!
Si volse e vide la vedova, con il piccino in braccio.
- Grazie, Annibale. Mio suocero non sa leggere, ma io sì, perché ho fatto tre classi delle elementari.
Insieme alla lettera del Ministro della Guerra che comunicava la morte di Nino ne è arrivata un'altra del suo capitano che ha spiegato quanto tu abbia fatto per salvarlo. Non l'ho letta ai miei suoceri, perché era indirizzata a me. Poi, in questa lettera c'è scritto che ci sono 5.000 lire e invece ne ho trovato 8.000.
- Segno che si è sbagliato, perché a me ne ha date 8.000.
Sentiva un nodo in gola che gli toglieva il respiro e allora decise di uscire da quella situazione che stava diventando insostenibile.
- Devo andare,è lunga la strada del ritorno. Buona fortuna…Scusa, ma non conosco il tuo nome.
- Concettina mi chiamo.
Annibale corse via, mentre le lacrime gli rigavano il volto e sentiva dentro di sé una ferita che nessuna benda avrebbe potuto celare.
(da "Storie di paese" - seconda serie)

La Giornata della Memoria   (Riflessione)
Il 27 gennaio, data della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, si celebra la Giornata della Memoria, dedicata al ricordo delle vittime ebree della Shoah.
Non mi dilungherò sui numeri dei morti nei campi di concentramento nazisti, perché fosse stato anche solo uno non cambierebbe nulla nella sostanza.
Ora mi preme invece evidenziare come questa ricorrenza, come molte altre del resto, finisca gradualmente con il perdere il suo reale significato.
E allora mi chiedo se sia giusto celebrare un giorno all'anno questo rito della memoria, che esteriormente si estrinseca in qualche discorso dei politici e nella deposizione di una futile corona d'alloro. Eppure, a pensarci bene, dovremmo avere sempre presente questo immane dramma della Shoah, una follia di un popolo volta allo sterminio di un altro popolo.
Sì, perché gli ebrei non furono massacrati perché nemici combattenti, o cospiratori politici, ma solo perché erano ebrei.
Nella storia dell'umanità si sono purtroppo verificate altre Shoah e al riguardo basti pensare al sistematico sterminio degli armeni da parte dei turchi fra il 1915 e il 1918, oppure agli eccidi compiuti dagli americani nei confronti della nazione indiana che ostacolava il loro concetto di progresso e di civiltà. Ce ne sarebbero altri, che risalgono a epoche ben più lontane, ma non voglio fare un sunto storico, perché in questa sede mi preme solo evidenziare come invece esista solo una giornata che ricordi il genocidio degli ebrei.
Peraltro, questo popolo ha tutto il mio rispetto, ma mi par giusto che questa ricorrenza debba accomunare le tante Shoah della storia, perché un essere umano non può e non deve essere discriminato per il colore della sua pelle, per il suo credo religioso o per la sua nazionalità.
Mi si potrà far presente che un tipo come Adolf Hitler e un movimento come quello nazionalsocialista sono un caso del tutto eccezionale e che quindi questa commemorazione rappresenta, oltre che un segno di rispetto nei confronti delle vittime, una ferma condanna dei persecutori.
Ne convengo nella misura in cui si ricordino tutte le vittime dei genocidi e si abbia sempre ben presente che i loro assassini potrebbero colpire ancora, come è accaduto altre volte nella storia e come temo che potrà nuovamente succedere.
La prossima volta la Shoah potrebbe riguardare anche gli italiani, in quanto tali, e per lo stesso motivo anche i francesi, e così via.
Nel momento in cui un popolo si sente superiore agli altri, crede di essere al vertice dell'universo, ma l'incontro con le difficoltà proprie di tutti gli uomini finirà con il provocare un senso di frustrazione, rimediabile unicamente attribuendo le proprie colpe agli altri.
Il reperire un capro espiatorio è la soluzione più semplice per rifuggire dalle proprie responsabilità, per non ammettere che non siamo perfetti.
In questo caso, la rabbia, opportunamente alimentata e veicolata, prorompe con tutta la sua forza e, anziché rivolgersi a un riesame del proprio stato, si scatena nei confronti di altri.
I pellirosse uccidevano i coloni? Lo facevano certo per difendere la propria terra, la loro identità, mentre gli eccidi perpetrati nei loro confronti erano il frutto del desiderio del più forte di schiacciare il debole. Per dare un'idea del loro genocidio basti pensare che ci fu un periodo che veniva riconosciuta una ricompensa ai coloni per ogni indiano ucciso, una sorta di tiro al bersaglio non diversa dalla realizzazione della soluzione finale nei lager nazisti.
Quindi, pur nel doveroso rispetto ai milioni di ebrei massacrati dai nazisti, facciamo che ogni giorno dell'anno sia il 27 gennaio, cerchiamo di evitare di cadere nel luogo comune che a noi non potrebbe mai accadere.

L'autodistruzione (Riflessione)
Come in un film di fantascienza, del genere apocalittico, stiamo andando incontro a una catastrofe che ha un precedente solo nell'era glaciale.
Infatti, c'è uno studio della commissione europea, divulgato dal Financial Time, che parla degli effetti del surriscaldamento globale e di cui verifichiamo anno dopo anno i primi segni: stagioni non ben definite, estati torride e siccitose, improvvisi e violenti uragani, inverni, come l'attuale, straordinariamente miti e senza neve.
Secondo gli estensori di questo studio, verso il 2050 le nazioni del Nord Europa potrebbero beneficiare dell'aumento della temperatura, mentre nel bacino del Mediterraneo gli stati rivieraschi dovrebbero combattere la siccità. In particolare nell'Europa settentrionale i raccolti aumenterebbero del 70%, mentre in quella meridionale si contrarrebbero del 20% e il livello del mare, per effetto anche del progressivo scongelamento dei poli, potrebbe aumentare di un metro, con conseguente allagamento di città portuali e di note località balneari, determinando così una riduzione del movimento merci e un fortissimo calo dei turisti. Queste sarebbero le conseguenze economiche immediate, ma l'incremento della temperatura comporterebbe anche l'aumento dei decessi. Insomma, il quadro di questo studio ha tutta la parvenza di un incubo, circostanza che ha indotto l'Unione Europea a deliberare, unilateralmente, una diminuzione delle emissioni di anidride carbonica del 20%, sui valori attuali, entro il 2020. Come realizzare questo obiettivo? Con la riduzione del ricorso, per l'energia, ai combustibili fossili, privilegiando sempre di più le fonti alternative e non inquinanti, come il sole, il vento e le maree.
E' eccessivo questo allarmismo?
Se consideriamo che a un analogo risultato sono pervenuti altri studiosi, avverto francamente il timore che le possibilità di errore siano estremamente ridotte e che effettivamente si paventi un disastro ambientale senza precedenti.
All'origine di tutto questo c'è l'uomo, la sua sete di ricchezza, la sua convinzione, errata, di poter disporre a piacimento della natura. La logorroica filosofia dell'industrialismo, che considera ricchezza solo una produzione industriale in continuo aumento, ha portato a questo stato di cose, a un mondo dove c'è chi ha troppo e c'è chi ha niente, a un'umanità solo apparentemente ricca, in quanto sovraccarica di beni materiali, ma tremendamente povera in serenità, a uomini perennemente insoddisfatti alla ricerca di nuovi bisogni, che fra l'altro permettono di incrementare il prodotto lordo vendibile.
E così assistiamo al telefonino di prima, di seconda, di terza generazione, talmente sovraccarico di possibilità operative che quasi ci dimentichiamo a cosa realmente serva, come se la funzione originale di comunicazione fra individui fosse andata dispersa. Ho citato il telefonino come esempio, ma di beni inutili e così tanto desiderati, grazie all'asservimento del consumatore, ce ne sono in misura incredibile.
Per produrre occorre energia e così si finisce per bruciare combustibili di origine fossile in quantità crescente e per niente. Sì, per niente, perché poco a poco le produzioni dei beni "durevoli" si estrinsecheranno in un usa e getta.
E' inevitabile che dovremo cambiare le nostre abitudini, che dovremo rinunciare a un po' di benessere e che, soprattutto, dovremo rientrare nei ranghi della natura, da cui siamo usciti con presunzione e stupidità, illusi di dominarla e di sfruttarla nel peggiore dei modi.
Poco a poco riacquisteranno valore i bisogni primari che solo l'agricoltura e un'industria non concorrenti fra loro potranno soddisfare.
Si tornerà a lavorare, soprattutto, per mangiare, e non sarà così abbondante, il cibo, come è stato fino a ora; il pane, quasi dimenticato, tornerà trionfante sulle mense, il ritmo di vita calerà gradualmente e l'uomo, ritornato nei confini della natura, finirà per vederla con occhi diversi, più rispettosi.
Il tempo verrà scandito dalle stagioni, e non dagli orologi; si tornerà più a una vita di famiglia, più a una riscoperta di se stessi, si finirà con il comprendere che l'unico vero bene a cui agognare è la serenità.

Un anno (Riflessione)
Come d'abitudine, in questo periodo i giornali, le varie televisioni fanno un bilancio dell'anno che sta per finire, evidenziando quegli eventi che ritengono più significativi e riproponendoceli.
Non è mia intenzione procedere analogamente, con una sequela di fatti più o meno importanti, ma intendo parlare di qualche cosa che, secondo la mia personale opinione,è rilevante in questo 2006.
Ci sono due elementi, antitetici se vogliamo, ma che a mio parere esprimono in modo inequivocabile il sempre più profondo malessere che corrode la nostra società e che si manifesta in tanti modi, fra i quali un progressivo disgregamento del concetto di giustizia, ridotta ormai a una parola di significato totalmente vuoto.
Uno di questi fatti si trascina ormai da anni, fra parole di indignazione e levate di scudi, l'altro invece è proprio del corrente anno.
Mi riferisco al famigerato carcere di Guantanamo e al provvedimento d'indulto dell'attuale governo. Che cosa hanno in comune? A prima vista poco, ma se approfondiamo il discorso sono le due facce della stessa moneta.
Comincerò con il parlare di come un grande paese che si dichiara democratico viola sistematicamente non solo i suoi principi costituzionali, ma anche ogni senso morale.
Mi si potrà obiettare che gli Stati Uniti hanno dovuto patire l'orrendo atto terroristico dell'11 settembre e che quindi un paese che si sente minacciato ha tutto il diritto di adottare i provvedimenti che ritiene più validi ad assicurare la sua protezione. Su questo modo di comportarsi non posso che concordare, ricordando però che la fermezza non vuol dire brutalità, non può tradursi in una violazione sistematica non solo delle norme giuridiche, ma di ogni concetto di buon senso.
Mi spiego meglio, reduce dalla lettura di un interessante volumetto "Guantanamo Speaking" (Michele Di Salvo Editore, 2006), frutto delle interviste effettuate da Roger Willemsen a ex detenuti della prigione in questione. Pur trattandosi di persone riconosciute innocenti, vi è da considerare che alcune potrebbero aver ingigantito i fatti, a conseguenza del naturale risentimento di cittadini liberi imprigionati senza colpe.
Infatti, non vi tedierò con notizie di torture fisiche e psicologiche, ma con un argomento che dimostra inequivocabilmente che il mondo ormai è diviso in cittadini con solo diritti (pochi) e in sudditi (tutti gli altri), ritornando di fatto alle epoche più buie e atroci della storia.
In questo mi viene in aiuto l'interessantissima introduzione scritta da Michele Di Salvo; questa, da sola, vale l'intero libro, perchéè frutto di osservazioni incontrovertibili.
Guantanamo è molto di più di un carcere, ma è il simbolo dell'onnipotenza di un ristretto gruppo di uomini che non solo vogliono un mondo ai loro piedi, ma che pretendono di disporre del destino altrui.
Una volta si parlava di despoti, cio è di veri e propri dittatori che potevano agire indisturbati in quanto non esisteva la democrazia. Ma, ora che esiste la democrazia, com'è possibile che pochi uomini si permettano di imprigionare solo sulla base di semplici sospetti degli altri individui, di segregarli per degli anni senza processo, di torturarli fisicamente e psichicamente? Com'è possibile che un numero rilevante di questi imprigionati poi venga liberato perché innocenti, senza nemmeno scuse e risarcimenti dei danni morali e materiali?
In qualsiasi società civile, come la intendiamo, chi si permette di compiere questi atti viene considerato un despota, e tali erano visti sia Hitler che Stalin.
Allora, non è il sistema politico che determina l'ingiustizia, ma è e rimane sempre l'uomo. Non avrei mai potuto immaginare che in un regime democratico avvenissero fatti come quelli di Guantanamo, che fosse non solo tollerato, ma incentivato l'uso della violenza, l'abuso di qualsiasi forma coercitiva, in uno scenario che richiama alla mente l'epoca di Torquemada.
La cosa più straordinaria, poi,è che questo comportamento appare correlato a quello del provvedimento dell'indulto, perché se là si incarcera gente senza alcuna giustificazione, da noi sono stati liberati delinquenti senza che ci sia una logica coerente alla base.
L'estremo sovraffollamento delle prigioni non è un motivo valido, considerato che ce sono alcune che, da anni, attendono di entrare in funzione.
Del resto, l'amnistia e l'indulto sono sempre state proprie di regimi ben diversi, là dove esisteva un monarca che ogni tanto si compiaceva di dimostrare la sua magnanimità con un gesto di clemenza che cadeva dall'alto e non era quindi volontà di un popolo.
Da noi, nonostante che i sondaggi di alcuni autorevoli quotidiani avessero dimostrato che il 90% degli italiani era contrario a tale provvedimento, si è deciso di procedere lo stesso e la dichiarazione del presidente del consiglio con cui se ne assume tutte le responsabilità ha il marchio di quel potere assoluto che in democrazia non dovrebbe esistere.
Dunque, le due facce della stessa medaglia, di quei comportamenti che non rispecchiano la volontà del popolo, unica fonte di un regime democratico, e quindi l'amara constatazione che solo chi ha il potere potrà decidere del nostro futuro.
Mi si potrà obiettare che in democrazia è il popolo, sono gli elettori che delegano altri a rappresentarli e che quindi questa è una prova inequivocabile che il mio giudizio è sbagliato.
Si dimentica, però, un dato facilmente verificabile, esaminando i comportamenti dei precedenti governi americani e italiani: sono costanti in queste decisioni difformi dalla volontà popolare e questo allora richiede un ulteriore approfondimento.
Se nulla cambia, mutando i partiti al governo,è segno che quel popolo vuole così, oppure che si è costituita un'oligarchia che di fatto impedisce una scelta effettiva agli elettori?
Sulla base dell'esperienza fino ad ora maturata (per gli Stati Uniti basti pensare alla guerra in Vietnam, per il nostro paese a precedenti indulti), devo ritenere che in effetti il popolo deleghi i suoi poteri a una consolidata oligarchia che, sotto l'apparenza di ideologie diverse, governi soprattutto per se stessa.

Il racconto
La donna si voltò di scatto, gli occhi pieni di lacrime, ma brillanti di una luce fiera, come il suo carattere che accomunava dolcezza e determinazione.
- Non dovevi farmi questo! Come hai potuto, dopo dieci anni di matrimonio?
Il marito, in un angolo della cucina, teneva gli occhi bassi e sembrava seguire svogliatamente i disegni delle mattonelle.
- Parlo con te, Roberto. Hai capito quel che ti ho chiesto?
E che gli faccio dire come risposta? Roberto è un tipo un po' chiuso, era sempre stato innamorato della moglie, ma poi, quasi per caso, si era imbattuto in quella collega assai più giovane e, inoltre, bella.
Vediamo, forse è meglio così.

- E' stato un momento di debolezza, Alma. Ho sbagliato, lo so, ma voglio rimediare e ti assicuro che non si ripeterà più.
Roberto si avvicinò lentamente alla ricerca di un bacio suggellatore della fine di una lite, ma Alma, proprio Alma che era stata sempre così mite, allungò un braccio e gli colpì la guancia sinistra con il dorso della mano.
- Sei ammattita? Guarda che mi hai fatto male, mi hai quasi rotto il labbro.
- E questo è niente, perché un traditore merita di peggio.
E adesso che scrivo? Voglio che i due si riappacifichino, siamo sotto Natale e le storie è quasi d'obbligo che abbiano un lieto fine. Mi è venuta un'idea.
- Alma, sono un uomo finito, se non mi ami più, a che pro continuare a vivere. Non mi resta altro che anticipare la mia fine. - e Roberto corse fuori, scendendo quasi a rotta di collo le scale del condominio.
Alma restò immobile, appoggiata al bordo del tavolo.
D'accordo, ma devo vedere come far rincontrare i due, farli tornare insieme insomma, in un finale di speranza. Forse ho trovato.
Alma si scosse e si precipitò verso la porta.
- No.
Come no! Io voglio che gli corra dietro, che magari lo offenda, ma che gli faccia capire che ha bisogno di lui.
- No, tu sarai l'autore, ma io non voglio fare una figura del genere.
Madonna mia, sto forse impazzendo? Il personaggio che ho creato mi si ribella, non è d'accordo con me.
Robe da non credere, perché evidentemente la mente vacilla, dopo tutta questa solitudine nella ricerca di scrivere qualche cosa.
- Senti, bello. E' Alma che ti parla, quella donna che la tua fantasia ha creato, la stessa che ricorre spesso nei tuoi sogni: alta, bionda, slanciata, dolce, ma determinata. E così vorresti che io diventassi remissiva, vero?
"No, Alma, non è questo che voglio, ma ci sono esigenze letterarie che me lo impongono."
- Tu che faresti se fossi tradito da tua moglie?
"Penso che mi incazzerei, ma poi cercherei di riannodare il filo allentato di una vita in comune."
- Sei troppo buono e forse non sei nemmeno uno scrittore; devi immaginare una lite furibonda, dove si menano le mani, dove gli schiaffoni non si negano, dove il traditore dovrebbe essere svergognato di fronte a tutti. Sai che ti dico? Che Roberto mi ha risparmiato la fatica di buttarlo fuori.
Alma si sedette a cavalcioni di una sedia e si accese una sigaretta.
- No, e poi no! Detesto fumare.
"Va bene, niente, resta lì in piedi. Mi dispiace però per Roberto che è consapevole del suo errore e ha cercato di rimediare, ma tu non hai avuto un briciolo di misericordia."
- Caro mio, non si tratta di misericordia, ma di amore e quando quello si spezza non lo riannodi più.
" Io un'idea l'avrei: lasciar passare il tempo e poi la notte di Natale lui ritorna, bussa alla porta, si getta ai tuoi piedi, implora il tuo perdono e tu gli accarezzi il viso. Avrei un lieto fine e sarei in linea con il buonismo attuale."
- Un bel melodramma, non c'è che dire. Potrà piacere ai lettori di bocca buona, a quelli che credono anche a un asino che vola, ma nella vita non è così. Volevi questo? Sì? Allora non avresti dovuto descrivermi come una donna determinata, ma come un povero essere rassegnato e succube.
"Forse hai ragione, ma questo racconto proprio mi fa schifo e adesso lo sposto dalla libreria nel cestino."
- Fermo! Hai sprecato del tempo, hai creato due esseri con una storia, pretendi che loro reagiscono in modo diverso da quel che sono; cerca di ragionare, perché se elimini noi togli qualche cosa a te stesso.
"Va bene, d'accordo. Si è fatto tardi e vado a letto. Spero che la notte mi porti consiglio. "
E' tardi veramente e sono frastornato: una buona dormita non potrà che farmi bene.

Il giorno dopo…

Ho dormito bene, ma di idee per il racconto non ne ho più. Adesso accendo il computer e cancello il file.
Un attimo solo, perché voglio dare un'occhiata a quel che ho scritto.
Dunque ero arrivato a "Alma restò immobile, appoggiata al bordo del tavolo." Porca miseria, non lo trovo e non c'è nemmeno più l'uscita di casa di Roberto. Si vede che ho dimenticato di memorizzare, ma c'è dell'altro che non mi ricordo di aver scritto.

- Sì, Alma, sono un traditore, un uomo che non merita più niente e che non chiede nemmeno misericordia. Ho sbagliato e merito di essere punito, ma io ti amo ancora, anzi di più.
La donna restò impassibile mentre lui si accasciava su una sedia, del tutto affranto.
- Giurami che non la vedrai più?
- Mai più, giuro che fra me e Lycia è tutto finito e che mai potrà ricominciare.
Alma sembrava soddisfatta, si morse il labbro inferiore, un tic quello che caratterizzava i momenti delle grandi decisioni.
- Così va bene, Roberto. Devi sapere, però, che quel tuo trascurarmi ha comportato una mia progressiva disaffezione. Quell'amore che tu non mi davi più ho dovuto cercarlo altrove.
Roberto sbarrò gli occhi e proruppe in un fragoroso: - Puttana!
- E tu puttaniere!
- No, Lycia è ben diversa da te:è una donna seria, che mai e poi mai mi tradirebbe.
- Davvero? Ne sei sicuro?
- Ci metterei le mani sul fuoco.
Alma prese in mano il telefono e compose il numero.
- Alma, ma quello è il numero di Lycia.
La donna non si scompose e quando l'altra rispose, quasi urlò nel dire: - Ciao, amore. Adesso quel becco di mio marito sa tutto. Come dici? Ah, come è rimasto?
Guardò l'uomo: una statua di marmo avrebbe avuto più vita.
- Allora, d'accordo. Ho già fatto la valigia e vengo a vivere con te. C'è chi voleva una conclusione natalizia e di moda e l'ha avuta, perché noi vivremo felici e contente. Roberto no? E perché mai no? Mi hai detto che piace tanto a tuo marito e penso proprio che non resterà solo, perché in fin dei conti ha solo da abituarsi alla nuova realtà.
Ma non è questa la conclusione che volevo io?
Adesso elimino tutto.
Un attimo, c'è un post scriptum.


So che sei tentato di stracciare il tutto, ma tu volevi un lieto fine e consono ai tempi, e così io l'ho scritto.
Detto fra noi, ho inventato tutto, perché adesso siamo in viaggio io e Roberto nell'immenso mondo della fantasia e forse un giorno ci rincontreremo e ci farai protagonisti di un'altra storia. In fin dei conti noi non siamo che altre immagini di te.
Un bacio
Alma.

Diventiamo tutti più buoni (Riflessione)
Diversi anni fa, quando ancora ero ragazzo, immancabilmente, all'approssimarsi del Natale, il parroco concludeva la sua lezione di catechismo con la frase " Diventiamo tutti più buoni".
Ero giovane, poco esperto della vita, ma ricordo che dentro di me dicevo: " Chissà perché dobbiamo diventare più buoni per la ricorrenza della nascita di Gesù Cristo! Se uno è buono,è buono e basta. L'invito può essere rivolto a uno cattivo, ma a chi è già buono non ha senso".
Non voglio tediarvi con i soliti discorsi dei vecchi, dove alla loro epoca tutto era più bello e la bontà regnava sovrana, però mi corre l'obbligo di una riflessione.
Premetto che i cosiddetti cattivi ci sono sempre stati, ma ai miei tempi, nell'immediato dopoguerra, con un paese distrutto, con poco lavoro, dove parecchi facevano veramente la fame, esisteva una solidarietà fra i poveri - che erano la stragrande maggioranza - che poi è andata lentamente sparendo. C'è stato poi il boom economico, il numero degli indigenti si è ridotto e ha preso avvio una strana indifferenza ai dolori del mondo, una sorta di facile scusa per pensare solo di godersi il proprio orticello. Non era ancora cattiveria, ma la curva della bontà aveva assunto le caratteristiche della parabola e già si era nella sua fase discendente.
Siamo arrivati poi a questi ultimi anni, per l'esattezza gli ultimi dieci, dove l'indifferenza ha preso decisamente il sopravvento e ha cominciato a generalizzarsi una sorta di cattiveria prima celata, subdola, che però giorno dopo giorno ha iniziato a emergere prepotentemente. L'impressione che se ne ricava è che, sotto l'apparenza dell'opulenza, sia maturata una profonda insoddisfazione, come se l'aver molto accresca il desiderio di possedere sempre di più.
E questo stato di disagio esplode in fatti eclatanti, o anche in eventi ormai visibili ogni giorno.
Cito solo due episodi:
1) tre ragazzini in Svizzera si sono divertiti a gettare un povero vecchio in uno stagno, e meno male per lui che l'anziana moglie è riuscita a trarlo in salvo;
2) oggi, al mio paese, ho dovuto andare in farmacia. L'abitato è attraversato proprio nella sua parte più vecchia da una strada statale assai frequentata, visto che porta alla città. Poiché c'è la necessità di attraversare questa via e considerato che le strisce pedonali non consentivano ai pedoni l'attraversamento, il comune molto intelligentemente ha ubicato un semaforo a chiamata. Arrivo, ci sono altri a piedi come me che attendono, il traffico è assai intenso e, finalmente, arriva il verde per me e il rosso per le auto. Si inizia l'attraversamento, ma è un'impresa eroica, perché i veicoli, nonostante il semaforo rosso e i pedoni sulle strisce, non si fermano, anzi accelerano. Immagino quello che pensano questi disgraziati " Io sono in auto e tu sei a piedi. Non vorrai che mi fermi io. " E infatti ogni tanto ci scappa l'incidente.
Se mentre il primo episodio può sembrare sporadico (ma ce ne sono non pochi di analoghi finiti tragicamente), il secondo è generalizzato perché di conducenti che non si curano della vita di altri ce ne sono tantissimi e al riguardo basta dare un'occhiata alle statistiche degli incidenti stradali mortali, dove la fatalità o la disattenzione sono cause rarissime, mentre prevalgono l'eccessiva velocità, il mancato rispetto della precedenza, la guida in stato d'ebbrezza o dopo aver assunto droghe.
Insomma, quella solidarietà sperimentata nel bisogno è rimasta solo un caro ricordo e ora è già molto se il prossimo non ti tira una sassata o non ti travolge con l'auto.
Ci sono le debite eccezioni, ovviamente, ma direi che non è più tempo di buoni e così penso che il sacerdote sarebbe meglio che dicesse " Diventiamo tutti meno cattivi".

La lunga strada bianca
Mancava poco a mezzogiorno e, risalite le brume del mattino, la piana era completamente inondata dal sole, che, riflettendosi sulle armature, faceva alzare improvvisi e repentini bagliori. Lo spettacolo era impressionante e affascinante al tempo stesso: uno di fronte all'altro stavano i due eserciti, inquadrati ordinatamente in attesa dello scontro. Le prime file erano occupate dalla fanteria, più dietro venivano gli arcieri e subito dopo la possente cavalleria.

L'attesa è peggio della battaglia, ma spero veramente che sia l'ultima. Per un povero fante come me, servo in pace e servo in guerra, non ci potranno mai essere onori, anche se all'alba il Principe Venceslao ci ha più volte gridato che avremo onore e gloria, ma sarebbe già tanto se riuscissi a sopravvivere. Poi abbiamo assistito tutti alla messa, con il prete che ha invocato la benevolenza di Dio per assicurarci la vittoria. Anche dall'altra parte ci saranno state le stesse parole, le medesime preghiere, un'uguale invocazione. Quel che è certo è che se Dio è in ascolto si trova in un bel dilemma: se favorisce l'uno, scontenta l'altro. Però se Tu sei sopra di noi, ti chiedo solo di salvarmi dal pericolo, mio Dio, e ti prometto che andrò a messa tutte le domeniche e che tutti gli anni farò parte dei pellegrini che, valicando le montagne, percorreranno la lunga strada bianca che porta al Santuario della Madonna dei Caduti.

Improvvisamente, si alzò uno squillo di tromba e le truppe iniziarono a muoversi, sempre in ranghi serrati, dapprima più lentamente, ma poi aumentando gradualmente la velocità, fino a quando i fanti si misero a correre. In quel preciso istante, da entrambe le parti dell'opposto schieramento si alzarono sibilanti le frecce, con un percorso arcuato che le portò a ricadere dall'alto sulla massa avanzante. Si sollevarono gli scudi, ma non tutti furono così lesti e i dardi si infilarono nelle le cotte, penetrando nelle carni, fra le urla di dolore dei colpiti. Non più di tre volte s'involarono fitte a oscurare il sole, scoccate dai lunghi archi di duro legno di frassino, ma cominciarono a creare ampi vuoti nelle file che pronte si rinserrarono. Indi, preceduto da urla disumane, avvenne l'impatto, un cozzo violento, in un frastuono di scudi che si urtavano e di spade che s'incrociavano.

Un fendente da sinistra, mi scanso, alzo la spada: colpo bloccato! Ma ecco un altro che cerca di infilarmi con la lancia; mi giro, la punta mi sfiora il fianco e lui quasi mi viene addosso, ma io affondo la lama, gli passo la cotta, gli squarcio il ventre. Ritraggo la spada, quasi non respiro, boccheggio, ma ne arrivano ancora, a destra uno cala la scure, ma lo scudo mi protegge e lo stendo con un fendente fra il collo e la spalla. Ho la testa che mi scoppia, il sudore che goccia sugli occhi, che mi appanna la vista. Una fitta tremenda al braccio e mi cade la spada. Non l'avevo scorto, perché mi era proprio a fianco. Mi copro con lo scudo, ma lui insiste, sto crollando sotto i colpi, ormai mi è talmente vicino che sento il suo respiro ansimante… ma ecco che ho trovato il pugnale, lo estraggo dal fodero e con tutta la residua forza del braccio offeso lo infilo nella sua gola. Lui mi guarda sorpreso, mentre il sangue sgorga a fiotti, alza ancora la spada, sbarra gli occhi e crolla davanti a me.

Le fanterie combattevano da almeno un'ora, quando i comandanti ritennero opportuno di far intervenire la cavalleria. Il principe Venceslao lasciò andare il falcone appollaiato sul suo pugno sinistro e questo, involandosi, diede il segnale per l'inizio della carica. I suoi cavalieri si mossero a tenaglia, dapprima al trotto, e poi, tese le lunghe lance, spronarono i loro destrieri al galoppo. L'avversario non fu da meno e, pur disponendo solo di cavalleria leggera, la dispose in modo da costituire una manovra accerchiante. Il minor peso ebbe questa volta facile gioco della lentezza del nemico, investito ai fianchi nel momento in cui non era ancora in grado di dispiegare la sua grande forza d'urto. Nulla poterono le armature e le analoghe protezioni dei destrieri contro i giavellotti che i cavalieri avversari scagliavano con precisione inaudita. Quella che per il Principe Venceslao doveva essere la mossa conclusiva si rivelò un doloroso e tragico fallimento. Ovunque si vedevano armati sbalzati da sella, cavalli che precipitavano rovinosamente al suolo, spesso schiacciando chi li montava, in un polverone che come una nebbia aveva invaso tutta la piana. Lo scenario era di una indescrivibile ecatombe: qua un cavaliere che moriva soffocato dal suo sangue, là un altro con conficcato nel petto un giavellotto, ancora in sella, ma già morto. E su tutto sempre le urla, i clamori, le imprecazioni che coprivano i lamenti. Quando esaurito il loro compito i cavalieri avversari si volsero ad attaccare la fanteria, il Principe si allontanò velocemente dal campo, seguito dalla sua scorta, lasciando i suoi uomini alla mercé del nemico.

La cavalleria! La cavalleria! Ci viene addosso: la partita è persa e forse anche la vita. Se riesco a uscire da questa bolgia scappo, fuggo con la poca forza che mi è ancora rimasta!
Ho recuperato la spada, ma fatico a tenerla in pugno. Una spallata a questo, una spinta a quest'altro, sto uscendo, forse ce la faccio. Ecco, sono fuori, mi butto a rompicollo a sinistra. Ahimè che dolore! Non respiro più:è stato un giavellotto, dritto nella schiena. Non riesco più a muovermi, cado, mi sento mancare.


Lo scontro era durato in tutto un paio d'ore, un tempo interminabile per chi era rimasto là fino alla fine, e mentre i vincitori alzavano al cielo i loro urrah, il Principe Venceslao già mercanteggiava con il suo avversario la libertà e il mantenimento del suo rango. Le trattative, come si conveniva fra potenti, si svolgevano come se si stesse discutendo del normale regolamento di un affare: nessuna parola, nessun pensiero per le migliaia di morti che con il loro sangue inzuppavano il terreno della piana. Esseri inferiori erano da vivi, e ancor meno erano ora da morti, senza più nessuna utilità.
Intanto i cerusici s'aggiravano nel carnaio, insieme ai monatti, questi ultimi intenti a recuperare i morti e ad accatastarli, non senza averli prima spogliati di ogni avere, compresi i calzari.

Mi sto riprendendo, devo essere svenuto; chi c'è lì a un palmo dal mio naso? E' il viso di un nemico, ferito come me; anche lui non riesce a muoversi e mi fissa. Cerca di dire qualche cosa, mi pare che voglia dell'acqua, ma non ne ho nemmeno per me e la sete sta diventando insopportabile, più ancora del dolore che mi provoca la ferita. Che hai da guardare? Sono un tuo nemico, ma non sono in grado, e non ho nemmeno più voglia di farti male. Soffri anche tu, vedo. Non guardarmi con quegli occhi imploranti! Non posso aiutarti, nessuno ci può aiutare. Se le ferite non sono fatali, e se passa il cerusico, forse abbiamo una speranza. Non so l'ora, ma il sole mi sembra che vada calando e se non arrivano a soccorrerci prima che faccia buio saremo in ogni caso morti; con le tenebre usciranno i lupi dei boschi, gli spiriti maligni delle piante e ci finiranno loro.

Nella luce del tramonto si stagliavano le immagini delle cataste su cui venivano distesi i corpi praticamente nudi, tutti con i segni della loro morte: petti squarciati, braccia e gambe divelte, teste mozzate, e su tutto si levava il lamento dei feriti e dei moribondi.

La ferita mi fa meno male, anche se mi sembra che il sangue esca ancora, ma mi sta venendo freddo, forse per la sera che si avvicina. Il mio nemico è sempre lì che mi guarda, con la bocca semiaperta che lascia uscire della saliva insanguinata. Ogni tanto sbatte le palpebre, come se cercasse di dirmi qualche cosa. Adesso ha aperto la bocca, si sforza di emettere un suono, ma esce solo un gorgoglio e i suoi occhi si sono spalancati, guardano fisso, ma non verso di me; ha un'espressione di stupore, ed ecco che gli esce un rantolo, reclina il capo e chiude le palpebre. E' morto, ma chissà che vedeva.
Il freddo aumenta, si fa sempre più buio, non vedo quasi più niente, nemmeno il suo volto; mi manca l'aria,è tutto nero, no, scorgo una lunga strada bianca che non sembra aver fine.


I loro corpi furono fra gli ultimi a essere raccolti, finirono sulla stessa catasta e poi accesero i fuochi.

Un consiglio per i doni natalizi (Riflessione)
So bene che sono un po' in anticipo e che a Natale manca più di un mese, ma questo è un periodo in cui spesso la gente pensa a che regalo fare. E' una tradizione quella dei doni, che trae origini dagli omaggi dei tre magi oltre duemila anni fa, ma che da una decina di lustri è diventata, per effetto delle spinte consumistiche, un vero e proprio obbligo, snaturando così la spontaneità dell'atto propria di epoche passate e che costituiva, talora, un segno di riconoscenza, ma più sovente l'auspicio di un nuovo anno più prospero e sereno. Se in quelle epoche il regalo era più povero e spesso consisteva in un alimento (in campagna la classica gallina), oggi si cercano le cose più originali possibili, con il rischio non infrequente che il ricevente le abbandoni in un cassetto, o, peggio, le getti nell'immondizia.
C'è però una tipologia di dono, di costo non elevato, ma di valore notevole e che lascia il suo segno nel tempo: un libro.
Non dico che si debba acquistare solo dei libri, ma nella strenna natalizia almeno uno non dovrebbe mancare. E mi sembra che il Natale possa costituire anche l'occasione, per il non abituale lettore, per omaggiarsi quel volume che spesso e volentieri si è ripromesso di acquistare, prima o poi.
Un libro, soprattutto se buono, offre tantissimo: basta che ci pensiamo un attimo.
Nelle fredde sere d'inverno, al caldo nelle nostre case, invece di rincretinirci di fronte a spettacoli televisivi sempre più scadenti, immaginatevi comodamente seduti in poltrona intenti a leggere un libro, magari con a fianco la persona amata intenta alla stessa funzione, oppure, se avete dei figli, piccoli, figuratevi impegnati nel declamare loro qualche fiaba o qualche filastrocca. Impossibile? No, basta che lo vogliamo, basta che decidiamo con la nostra testa e non con quella di altri che, attraverso lo schermo, ci impongono, nel loro interesse, la visione di una realtà che è quanto di più lontano può esserci dalla realtà stessa.
La lettura di un libro apre alla mente orizzonti sconfinati, educa allo spirito critico, ovviamente purché il libro non sia spazzatura e purché si sappia come si deve leggere. A proposito di quest'ultima osservazione, raccomando sempre che la lettura di un libro debba costituire un appagamento che coinvolge tutti i sensi, perché, con la fantasia che un valido autore riesce a muovere, possiamo vedere a nostro modo lo svolgimento della trama, in una serie di immagini che si susseguono come in un film, possiamo persino figurarci di sentire i personaggi che parlano o addirittura percepire i profumi di certi paesaggi bucolici.
Quindi, così come sorseggiamo un ottimo cognac, dobbiamo centellinare la lettura di un libro, fermandoci ogni tanto a fare anche alcune considerazioni, come, per esempio, una piccola analisi dello stile dell'autore, oppure dando un sereno giudizio delle pagine trascorse, ipotizzando magari lo sviluppo di quelle future. Tutto questo, però, deve avvenire non con la frenesia di ogni giorno, anzi quella dobbiamo dimenticarla, perché un libro è un'opera d'arte,è il frutto di un lavoro, spesso lungo, di un autore che, ancor prima di pensare al successo, vuole aprire al mondo gli intricati sentieri della propria mente e intende donarsi tramite le pagine di un volumetto rilegato.
Leggete ai più piccoli le fiabe, le filastrocche, perché realizzerete un passo importantissimo nella loro vita: lo sviluppo della fantasia, anche attraverso la fonetica, e la dimostrazione dell'attenzione che rivolgete loro, diventando sempre di più il punto di riferimento in questo mondo.
E' un modo per educare, non solo i nostri figli, ma anche noi stessi.
Cosa leggere?
Per i bimbi più piccoli ho già detto, per quelli più grandi, in rapporto all'età, si può passare dai romanzi di avventura anche a qualche classico che possa essere facilmente assimilabile.
E per voi?
Potere leggere tutto, però stando attenti alle scelte. Nelle librerie e anche su Internet i titoli sono migliaia, le opere valide meno.
Diffidate dai best seller, il cui successo è spesso frutto solo di una martellante campagna pubblicitaria (ovviamente ci sono le dovute debite eccezioni). Per orientarvi nella scelta considerate i generi che preferite, ascoltando poi anche i consigli di un amico appassionato di lettura o del vostro libraio, e se non frequentate abitualmente le librerie, su Internet potete trovare diversi siti su cui vengono pubblicate recensioni, quasi sempre disinteressate. Al riguardo, in calce riporto i link di alcuni di questi.
Anche su Arteinsieme ci sono delle impressioni di lettura che ho scritto personalmente; non sono molte, perché c'è un'impossibilità tecnica, oltre che economica, di leggere l'immensa mole dei libri in commercio. Tuttavia, come ho già precisato in un'altra riflessione, tenete presente che io non ho letto così pochi libri quante sono le recensioni, che scrivo solo per quelli che mi sono piaciuti. Quindi queste sono il frutto di una cernita non così ristretta, nel senso che mi piace un libro ogni cinque che leggo.
Può darsi che i miei gusti, i miei canoni estetici, il mio concetto di scrittura non rientri nella media e proprio per questo allora consiglio di vedere anche le recensioni pubblicate da altri siti Internet.
Resta un fatto: non importa che vi piacciano solo i noir e non gli altri generi (e questo discorso vale per qualsiasi tipologia), ma quel che conta è che cerchiate sempre il meglio e, soprattutto, che leggiate poi con animo aperto.

http://www.kultunderground.org/
http://www.athenamillennium.it/
http://www.librando.net/dev/index.asp
http://www.operanarrativa.com/
http://www.kultvirtualpress.com/index.asp
http://www.narrativanuova.com/index.html
http://www.poetare.it/

Il 4 novembre (Riflessioni)
Immancabile, ogni anno, c'è la ricorrenza del 4 novembre, una festa che vorrebbe celebrare, ricordando il 4 novembre 1918, la fine delle guerre di indipendenza.
Io, meno retoricamente, considero invece tale data come il giorno conclusivo di uno dei tanti eventi di alta macelleria che caratterizzano l'uomo.
Al riguardo, i dati di consuntivo del primo conflitto mondiale sono eloquenti:
la sola Italia ebbe a patire la perdita di 650.000 combattenti;
complessivamente gli stati belligeranti registrarono l'uccisione di circa 8.500.000 di militari.
Di fronte a questi dati sembra impossibile concepire il 4 novembre come una ricorrenza festiva, soprattutto ove si consideri che questo anniversario della vittoria stride con i risultati ottenuti.
In pratica riuscimmo appena ad avere al tavolo della pace gli stessi territori che l'Austria, su pressione della Germania, ci aveva offerto purché non dichiarassimo guerra. Le ambizioni dei Savoia erano ben altre e si estendevano a tutta l'Istria e a gran parte dell'attuale Croazia; inoltre partecipare a una guerra era indispensabile per quella specie di nano di Vittorio Emanuele III, in preda costante a un complesso di inferiorità, per non dimenticare che bisognava pur far guadagnare anche gli industriali. Armati male, ma condotti anche peggio, i nostri soldati si immolarono in tante inutili battaglie, per poi doversi precipitosamente ritirare per lo sfondamento nemico a Caporetto, impresa riuscita più l'ignavia dei nostri generali che per l'abilità degli avversari.
E' vero che questa disastrosa rotta finì per rinsaldare un esercito allo sbando già da diversi mesi, ma non si può dimenticare che nella circostanza ricevemmo corposi aiuti in uomini e materiali dai nostri alleati, che poi li fecero pesare durante le trattative di pace.
Fu un'epoca quella in cui ricorrevano stolte frasi tipo "Bello è morire per la patria", oppure " Io vivo e muoio per l'Italia", secondo i canoni di una consolidata retorica che cerca di far apparire di elevato spirito il fine di una guerra legata più a interessi economici e territoriali.
Del resto, la liberazione dei nostri fratelli trentini dal giogo austriaco fu una vera e propria invenzione, perché, a parte Cesare Battisti e pochi altri, in quelle zone combatterono volentieri contro di noi per difendere quella che era la loro casa.
E non si deve dimenticare che fummo noi a dichiarare guerra, e non il nemico, che fummo sempre noi che nei primi mesi ci attardammo in "ozi di Capua", quando avremmo potuto conquistare ampi territori perché c'era solo un velo di truppe austriache, in quanto impegnate sanguinosamente in Galizia.
Di questo e di tanti altri errori si è dato colpa a Cadorna, il comandante in capo, ma non dimentichiamo che le atroci battaglie dell'Isonzo furono fermamente volute da quello stratega da "battaglia navale" di Vittorio Emanuele III, uno dei peggiori monarchi della storia.
Insomma, si avviò una guerra impreparati, considerando i soldati come pedine personali da sacrificare in azioni scombinate, si vinse soprattutto grazie all'azione degli alleati, e poi si pretende ancor oggi di celebrare il 4 novembre come anniversario della vittoria?
Direi che sarebbe opportuno cancellare questa festa e in generale togliere dal calendario tutte quelle ricorrenze legate a eventi bellici. Questo non servirà a evitare le guerre, ma almeno ridarrà a certi fatti il loro naturale significato: non motivo di gioia per una vittoria, ma silenziosa vergogna per una carneficina.

Volare basso (Riflessione)
Ogni tanto mi capita di sentire qualche politico che accenna alla "questione morale". Probabilmente, anzi sicuramente, parla a sproposito, perché appare chiaro che, per accennare a un simile argomento e alla disgregazione di certi valori,è necessario che esista almeno un senso "morale". Dalla seconda guerra mondiale e dalla resistenza siamo usciti con tante speranze che presto si sono rivelate delle illusioni.
Il problema dell'Italia è che proprio non esiste un senso etico; se ci fermiamo un attimo a pensare e proviamo a guardare il nostro paese con un minimo di spirito critico vedremmo tante cose che non vanno che non basterebbero migliaia di pagine per descriverle.
Abbiamo una classe politica completamente avulsa dai problemi del paese, intenta solo ad autoalimentarsi con i lauti stipendi che si è riservata, magari integrati da bustarelle più o meno corpose. Ci troviamo di fronte, quasi sempre, a personaggi del tutto incapaci ad assolvere la funzione loro assegnata e privi del benché minimo senso morale.
In questi giorni si è gridato allo scandalo per quel servizio, mai andato in onda, delle Iene che avrebbe evidenziato un ricorso alle droghe di un parlamentare su tre.
Nel quadro generale di chi dovrebbe rappresentarci la notizia in effetti non stupisce più di tanto, nel senso che nulla aggiunge di particolare al basso livello sotto ogni aspetto dei nostri politici e dimostrabile, facilmente, oltre che dai comportamenti personali, da tutta un'altra serie di elementi.
In parlamento siedono non pochi "onorevoli" che dovrebbero invece stare in prigione, visto che risultano già condannati in via definitiva e i reati provati a loro carico non sono cose di poco conto, andando dall'abusivismo edilizio alla partecipazione a banda armata.
Non stupisce più di tanto, allora, il recente provvedimento dell'indulto, attuato con la motivazione ufficiale di evitare il sovraffollamento delle carceri (ma perché non costruirne altre?), finalizzato però a porre al riparo da possibili inconvenienti alcuni dei partecipanti a questa congrega.
Si sente tanto parlare di lotta alla mafia e di interventi per il sud d'Italia. Una nazione dove esiste una criminalità organizzata tale da influenzarne pesantemente la vita di ogni giorno non è certamente civile e se anche qualcuno si esalta per la nostra "spedizione" in Libano non posso fare a meno di pensare che il nostro paese è come una squadra di calcio che continua a retrocedere: da aspiranti ai primi posti della serie A siamo ormai in coda alla serie B.

Nei suoi occhi
- Vieni via dalla strada.
Franco si volse a guardare la madre che gli faceva cenno di rientrare e rimase fermo sul ciglio della strada.
- Non vedi che passano i soldati che vanno al fronte, che gli autocarri rombano e quasi ti sfiorano?
No, non vedeva quello che diceva sua madre; le immagini scorrevano davanti ai suoi occhi, ma nemmeno le coglieva. Sentiva invece dentro di sé svilupparsi altre visioni: truppe a cavallo che procedevano al galoppo, elmi scintillanti nella luce del sole, spade lucenti sguainate come in una delle tante storie che il nonno gli aveva narrato, battaglie antiche, cozzi di scudi, scontri da cui sempre usciva vincitore il più buono, il più bravo.
E anche ora che soldati stranieri sfilavano dinnanzi a lui diretti verso il vicino fronte non riusciva a scorgere altro che gli eroi di quelle storie.
Si sentì strattonare e trascinare in casa.
- Vuoi capirlo che è pericoloso stare lì fuori! La guerra non è un gioco e tutti quei tedeschi lo sanno bene. Prova a guardarli in faccia: sembrano granitici, impassibili, ma non possono non aver paura e quando si combatte si muore anche.
- Le storie del nonno, però…
- Appunto, sono storie, favole, ma hanno sempre un fondo di verità e tutte le battaglie di cui parla ci sono state, anche se tanti anni fa.
Franco non disse niente, accostò una sedia alla finestra, vi salì per guardare, al riparo dei vetri, la fila interminabile dei soldati e riprese a fantasticare.
Sua madre si rivolse al nonno, quasi appisolato accanto al focolare - Pa', smettila di raccontargli delle battaglie dei secoli passati. Non vedi che non riesce più a vedere la realtà, che non capisce che siamo in guerra e non in una delle tue storie.
- E' troppo brutto questo tempo perché Franco possa accettarlo. Non è che un bambino di sei anni e i suoi occhi vedono la tragedia della guerra in modo diverso dai nostri, e forse è meglio così.
- Meglio un corno! Non voglio crescere un figlio che non è mai presente, che rifiuta la realtà, creandosi un mondo tutto suo.
- Passerà, passerà…
- E se non passa? E se poi in tutta la vita, anche quando verrà la pace, si rifiuterà di essere parte del mondo di tutti?
- Per il momento è meglio così; non voglio che viva con il timore che è sempre dentro di noi; non voglio che debba trasalire ogni volta che bussano alla porta; voglio che i suoi sonni rimangano leggeri e non come i nostri popolati solo da incubi.
- Va bene, hai sempre ragione tu.
- No, non è vero che ho sempre ragione, ma qualche volta il mondo deve apparire diverso da quello che è e questo è più facile per un bambino.
Già stava calando il sole e con esso il numero delle truppe che percorrevano la strada del paese.
Quando fu tutto buio e non si udì più il rumore sordo degli scarponi chiodati sul selciato, Franco si scostò dalla finestra e si mise a sedere accanto al nonno.
- Hai un'altra storia, nonno?
- Sì, ma non questa sera;è lunga e te la racconterò domani. Ora mangia e poi va di corsa a letto.
Pur a malincuore Franco obbedì e mise sotto i denti quel poco che c'era, poi si coricò.
Rimase a lungo a occhi aperti, contando i travicelli del soffitto, poi si sovvenne di una storia raccontatagli dal nonno qualche giorno prima, di un cavaliere indomito che per il bene di tutti combatteva contro i draghi e, mentre nella sua fantasia ne assumeva le sembianze, il sonno lo colse.
Al canto del gallo si risvegliò, porse l'orecchio alla strada, ma non udì rumori: tutto era quiete nell'alba di quel giorno. Si alzò e andò in cucina: il nonno si era addormentato accanto al focolare e aveva lasciato cadere la vecchia pipa. Il fuoco era spento e faceva abbastanza freddo; allora prese sulle sue ginocchia Marameo, il vecchio gatto, che si mise a far le fusa. La prima luce che entrava dalla finestra sciabolava il buio della camera, accentuando le ombre, in cui si immaginò di vedere schiere di armigeri, mentre il nonno era il suo fido scudiero e il micio che si strisciava contro il suo grembo altri non era che il destriero che presto l'avrebbe portato a cavalcare alla testa dei suoi prodi.
Improvvisamente udì bussare alla porta, prima un colpo forte, poi un vero e proprio tambureggiare. D'istinto si raggomitolò e quando in un frastuono di assi spezzate l'ingresso fu sfondato rimase impietrito nel vedere due ossessi che entravano nella stanza, gridando come pazzi.
- Rauss, rauss…
Accorse sua madre e subito si prese un ceffone da uno dei due che allungò anche un calcio al nonno che faticava ad aprire gli occhi.
- Fuori, tutti fuori, andare in chiesa.
E furono spinti in strada, dove già c'era un corteo di insonnoliti paesani che procedeva, fra calci e pugni, verso la vecchia parrocchiale.
Si sentiva l'acre odore del fumo di alcune case che bruciavano e, ogni tanto, delle urla strazianti e poi degli spari.
Avvertì che qualcuno gli prendeva la mano e si volse a guardare: era il nonno, con il volto teso, che si sforzava di sorridergli.
- Che cosa succede nonno?
Il vecchio non rispose.
- Che succede insomma?
Mentre le lacrime gli rigavano il volto prese in braccio il nipotino e a bassa voce gli parlò.
- Ti racconto la storia che ti ho promesso e non aver paura, perché tutto quello che sta succedendo è parte di essa.
Tanti anni fa il nostro paese è stato invaso da un'orda di lanzichenecchi, mercenari tedeschi della peggior specie che non si fermavano davanti a nulla. Dove passavano loro restavano solo macerie fumanti e uccidevano tutti, ma non sapevano che c'era qualcuno con cui avrebbero dovuto fare i conti. Infatti, un cavaliere delle nostre parti, Franco da Barberino aveva radunato degli armati e si apprestava allo scontro decisivo.
- Si chiamava Franco come me!
- Sì, come te ed era forte e coraggioso.
Nel frattempo erano arrivati alla chiesa e furono costretti ad entrarvi. Il tempio, di per sé piccolo, non riusciva quasi a contenere tutta la gente. Il parroco cercò di parlare con il capo dei tedeschi, ma per tutta risposta gli spararono alla testa. La soldataglia poi abbatté il portone della chiesa e portò un autocarro davanti all'ingresso.
Dentro i più piangevano e molti pregavano perché ormai avevano capito.
Il nonno si mise davanti al nipotino, quasi a fargli scudo.
- Lo scontro avvenne proprio in paese, sulla piazza della chiesa. I lanzichenecchi erano molti di più degli armigeri di Franco, ma questi non avevano paura, perché sapevano di essere nel giusto.
Fu alzato il telone dell'autocarro e così apparve una mitragliatrice con i suoi serventi.
- La battaglia iniziò all'alba e…
La voce si troncò di colpo, mentre partivano le prime raffiche della mitragliatrice.
Il vecchio si afflosciò su se stesso, mentre il sangue schizzava ovunque fra le grida, prima di terrore, poi di dolore. I serventi, con calma, alimentavano il mezzo di morte con nuove pallottole e continuarono a sparare come se nulla fosse, come a una esercitazione. Poi, a un cenno del loro capo, si fermarono; nella chiesa furono gettate una mezza dozzina di granate e quindi entrarono un paio di soldati. Si aggirarono nel carnaio, rivoltando i corpi; se qualcuno ancora respirava gli sparavano.
Franco, coperto dal corpo del nonno, era ancora vivo, anzi non era nemmeno ferito.
Se ne stava zitto, tutto lordo di sangue, e non riusciva a pensare a nulla; tutto gli sembrava così irreale, e non un sogno, ma un incubo.
Quando, sollevato il corpo del nonno, il tedesco lo scorse rimase un attimo senza decidere, poi prese un altro caricatore e lo infilò nel fucile.
Franco lo guardava stupito: era questo quindi il lanzichenecco?
Sì, lo era e allora chiuse gli occhi e si vide nei panni di un grande condottiero che andava a combattere il male per il bene di tutti, in una battaglia cruenta dove anche il suo scudiero era stato massacrato.
Il campo era quello tipico di un grande combattimento ed erano più i morti che i vivi, anzi erano sopravvissuti solo lui e il capo nemico, e adesso loro si sarebbero affrontati.
Il tedesco armò il fucile, guardò un attimo quel piccino dagli occhi chiusi che, rialzatosi, gli stava davanti, ritto, quasi impavido, poi alzò la canna dell'arma verso l'alto ed esplose un colpo.
- Finito?
- Finito.
- Allora usciamo e andiamo a Sant'Anna di Stazzema.
L'autocarro ripartì rombando, fra canti sguaiati.
Il piccolo riaprì gli occhi e si guardò intorno: Franco da Barberino aveva vinto la sua battaglia.

Il diritto alla vita (Riflessioni)
In questi giorni si fa un gran discorrere sul problema dell'eutanasia, risorto da quando il copresidente dell'Associazione Luca Concioni, Piergiorgio Welby. ha chiesto al Presidente della Repubblica il suo interessamento affinché gli sia consentito morire.
Dato l'argomento in questione, di comprensibile difficoltà sotto l'aspetto etico, i nostri politici non si sono fatti attendere arrivando a dichiarazioni che lasciano il tempo che trovano. Eppure sono loro che dovrebbero eventualmente fare una legge che introduca l'eutanasia, o meglio dovrebbero essere loro, perché già il cardinale Javier Lozano Barragan, ministro della Salute vaticano, ha prontamente affermato che la Chiesa è sempre per la vita edè dunque contro ogni ipotesi di dolce morte sia attiva che passiva. E fin qua si tratta dell'opinione di un religioso ed in questo senso rispettabilissima. Però, ha voluto fare una piccola aggiunta: "Spetta ai parlamentari cattolici essere coerenti ed esprimere il pensiero cattolico dentro i Parlamenti. Secondo le regole e le procedure democratiche."
Questa, secondo me,è ingerenza negli affari di un altro stato, ma dato che nel nostro paese quasi tutti sono cattolici e nella stessa proporzione sono anche i parlamentari, voglio al momento chiudere un occhio e prima di passare alle problematiche dell'eutanasia voglio solo evidenziare che quel continuo richiamo al cattolicesimo, e non al cristianesimo, suona male per una chiesa che del cattolicesimo ha finito con il fare non un credo religioso, ma la secolarizzazione di una visione religiosa.
Insomma, la visione che viene data della vita è una visione cattolica, non cristiana;è la visione di un potere temporale e non di un potere spirituale. Quindi è ingerenza bella e buona negli affari di un altro stato.
Preferisco considerarla, tuttavia, solo un'opinione e proprio per questo noto delle incongruenze nell'assunto. La chiesa dice che l'eutanasia è e resta un percorso di morte, mentre lo scopo di tutti deve essere la vita. Certo che di attentati alla vita ce ne sono stati parecchi, sempre secondo la visione cattolica: dai contraccettivi agli aborti.
La questione dell'eutanasia peròè ben diversa, come nulla ha a che fare con la legge di cui si discute ogni tanto, vale a dire quella del testamento biologico.
Un conto è impedire l'accanimento terapeutico, un altro è provocare direttamente la fine della vita.
Nel primo caso basta non curare, nel secondo si deve sopprimere. Il problema, quindi, non è tanto religioso, ma etico.
La vita è indubbiamente un diritto, nel senso che un essere vivente, un uomo deve avere le più ampie tutele perché il corso naturale si svolga regolarmente. Quest'ultima può sembrare un'espressione cruda, ma tutti sappiamo che prima, o poi (meglio poi) avremo un termine. In questo arco di tempo una nazione civile deve fare tutto il necessario perché l'individuo cresca, si sviluppi, sia partecipe della collettività, riceva adeguate cure quando si ammala. Sappiamo però che la medicina è spesso impotente e che ci sono tanti che soffrono, uno strazio giornaliero nella certezza che sarà sempre peggio fino ad arrivare al decesso. In questo senso il protrarsi delle terapie per mantenere in vita l'individuo è inutile e aberrante. E penso che ci siano larghi consensi per il varo di una legge contro l'accanimento terapeutico. Non è sempre detto però che il cessare delle cure comporti la pressoché immediata fine di una vita e molti sono i casi in cui questa si è protratta fra indicibili sofferenze. Ricordo il caso di un uomo suicidatosi qualche anno fa perché il male incurabile che l'aveva colpito gli comportava dolori atroci. In quell'occasione la gente disse, più o meno, che poveraccio aveva fatto bene. Del resto suicidarsi non è un reato e anche quando non riesca l'atto non è che poi l'individuo venga processato. State attenti a questo punto perchéè importante: per le leggi dello stato il suicidio non è un reato, ma l'indurre al suicidio o collaborare allo stesso lo è.
Indubbiamente, convincere qualcuno a togliersi la vita per trarne profitto è e resterà sempre un reato. Il dibattito si apre invece nel secondo caso: collaborazione al suicidio.
Apro una piccola parentesi, però esplicativa. Se un individuo desidera togliersi la vita per evitare maggiori sofferenze, ma è impossibilitato a farlo (vedasi i casi in cui è tetraplegico) per quale ragione non gli dovrebbe essere consentito chiedere l'aiuto di qualcuno per mettere in atto il suo gesto, per mettere in pratica un suo diritto?
L'eutanasia non dovrebbe essere una legge in cui può accadere di tutto, ma dovrebbe proprio prevedere casi specifici ove, previo consenso dell'interessato e accertato ovviamente che non esiste soluzione alla malattia che lo devasta, gli si possa dare una dolce morte, ponendo fine alle sue sofferenze.
Non c'è nessuna ragione giuridica che lo impedisca, così come non c'è nessuna ragione etica, o meglio c'è una ragione cattolica.
Non sono contro le religioni, sono contro l'applicazione delle stesse da parte degli uomini, quella sorta di cecità che impedisce loro di essere umani.

Il passo del tempo (Riflessioni)
Albe infuocate, notti silenziose, si susseguono da millenni.
E' il passo del tempo, quell'incedere lento, quando non sembra mai trascorrere, o quella corsa veloce, quando non sembra mai sufficiente.
Un'illusione le ore, i minuti, i secondi, che solo l'uomo ha voluto creare per così rendersi conto di vivere. E la veritàè che non basta mai. Abbiamo dato un'accelerata alla vita in modo da fare tanto in poco, e così non ci accorgiamo che tutto passa senza che possiamo trovare un attimo per una riflessione, che purè così importante: vivere per correre o correre per vivere?
Fermiamoci un attimo, guardiamoci all'intorno, sostiamo a osservare un'alba senza guardare l'orologio, scendiamo da quel treno impazzito e ritroveremo noi stessi; seguiamo il ritmo delle stagioni, ritorniamo sulla terra e nella misura del passo segnato dal tempo: ci accorgeremo di quanto la vita possa essere bella, capiremo cosa significa essere uomini parte del tutto, e non marionette che vogliamo essere sopra ogni cosa, anche sopra noi stessi.


L'impresa
- Nenè, gli affari non tirano e c'è un pacco di cambiali che scade fra tre giorni.
- Non so che dirti. Avevamo calcolato tutto, centesimo dopo centesimo,
ma di clienti nemmeno uno.
- Eh sì che è un settore che tira!
- Forse siamo in tanti, in troppi…
- Forse sì, ma ancora pochi giorni così e chiudiamo bottega.
- C'è anche il caso che non ci conoscano abbastanza.
- No, questo lo escludo, con tutti i manifesti che ho fatto affiggere nei luoghi di lavoro.
- E poi, i costi sono troppi. Ma avevi proprio bisogno di farti fare un doppio petto grigio scuro?
- Nenè,è un abito di rappresentanza: mica posso svolgere il lavoro con le mezze maniche come te.
- Sì, io con questa camicia a righe che avrà almeno dieci anni e tu che sembri un gran signore.
- Nenè, tu sei indispensabile nell'impresa, perché sei il tuttofare.
- Sì, tuttofare io e niente fare te.
- Non dire così, perché altrimenti mi incazzo: io sono la mente e tu sei il braccio e sai cosa ti dico?
- Parla…
- Che bisogna trovare nuove formule di vendita, con delle frasi che richiamino, che destino l'attenzione.
- Tipo?
- Ad esempio un pagamento rateizzato a lungo periodo, prima ancora che avvenga la fornitura. Vedo già la gente che avida legge la scritta "Pensate oggi al vostro domani".
- No, troppo complicato: registri, verifica dei pagamenti. Meglio una frase che ci contraddistingua, tipo, ma…non saprei.
- Mi è venuta un'idea, da uno slogan elettorale: "Con noi solo certezze: non tornerete mai indietro".
- Magnifica:è proprio quello che ci vuole.

Il fraseggio viene interrotto da alcuni colpi secchi sulla porta.

- Apri, Nenè, già c'è un cliente.
- Buona giornata, in che possiamo servirla?
- In verità non sono un cliente, e tengo a precisarlo. Sono Gaspare Colletta, ufficiale giudiziario, e sono venuto per l'accesso.
- La prima porta a destra, ma non c'è carta igienica.
- Non mi sono spiegato, perchéè un termine giuridico: in forza del decreto ingiuntivo n. 265/2005 del 12 aprile 2005, notificato a codesta impresa il 16 aprile 2005, divenuto esecutivo…
- Oh, basta, sentiamo il resto.
- Devo eseguire il pignoramento mobiliare e spero che abbiate la compiacenza di non ostacolarmi.
- No, che dice mai! E' la fine di un sogno, proprio adesso che abbiamo lo slogan per decretare il successo dell'iniziativa.
- Mi spiace, ma io eseguo solo.
- Ecco, l'esecutore.
- Non faccia così, ha tutta la mia comprensione, anche perché ho visto che da pignorare c'è ben poco.
- Provveda, allora.
L'ufficiale giudiziario guarda i singoli pezzi e li annota sul verbale.
- Già fatto. Mi dovete controfirmare il verbale, previa opportuna lettura.
- Faccia pure….
- Addì 10 settembre 2005 io sottoscritto ufficiale giudiziario…
- Salti i preamboli.
- Allora, ho rinvenuto nei locali dell'azienda i seguenti beni mobili: due sedie di pessima fattura, di cui una con una gamba dondolante, un tavolo di legno compensato e…
- No, non ci tolga la materia prima, la nostra vita!
- ….e tre bare in legno di noce brunito….

Manie di grandezza
Sul n. 36 del 14 settembre dell'Espresso c'è un interessante articolo di Giorgio Bocca dal titolo "Missioni di mezza pace o mezza guerra", con cui, prendendo spunto dalla nostra missione in Libano, si evidenzia chiaramente la pochezza dei nostri politici che (e cito di seguito le sue parole) non sopportano il modesto livello della nostra attuale posizione di forza di rango nel mondo e si risarciscono a parole, a retorica, ad autocelebrazioni.
Questo comportamento non è una novità, ma una costante fissa dall'unità d'Italia ai tempi nostri. Non è improbabile che queste caratteristiche di provinciali che aspirano al rango di cittadini sia stata all'origine peculiare di casa Savoia, ove i regnanti si sono sempre distinti più come ras di paese che come sovrani di uno stato. Le improvvisazioni, le partecipazioni a imprese destinate al fallimento, o quasi, hanno contraddistinto tanti anni della storia d'Italia, cominciando dalla III guerra di indipendenza, mal preparata, affrettata, contando soprattutto sull'aiuto dell'alleato prussiano. Poi è opportuno ricordare le gloriose spedizioni coloniali, in un'epoca in cui da conquistare restava ben poco, in teoria semplici passeggiate, ma poi alla fine rivelatesi quasi una carneficina per noi (ricordate Adua, tanto per citare un fatto?).
Stessa situazione anche nella prima guerra mondiale, caratterizzata dal voltafaccia del cambio d'alleanza, e da una preparazione del tutto inadeguata (ben pochi sanno che i provvidenziali elmetti di ferro furono dati in dotazione alle truppe solo dopo un anno dall'inizio dell'ostilità e che tuttavia si dimostrarono inferiori, come capacità di riparo, dagli omologhi austriaci). E poco ci mancò che anche la guerra d'Etiopia non si risolvesse in un clamoroso fiasco, tanto che ai mezzi inadeguati e alle scarse capacità dei condottieri si dovette supplire utilizzando gas asfissianti.
Stendo poi un velo pietoso sulla nostra partecipazione nella seconda guerra mondiale perché lì superammo noi stessi: dalla maggior parte dell'armamento, spesso preda bellica del conflitto conclusosi nel 1918, al vestiario, del tutto inadeguato ai teatri operativi (del tutto uguale sia in Libia che nella campagna di Russia).
Per l'intervento in Iraq ritengo opportuno spendere più di due parole. Non entro nel merito della nostra partecipazione, ma mi preme rimarcare come la retorica sia stata la nostra arma più efficiente. Abbiamo dovuto lamentare anche troppe vittime per una "missione di pace" e per la stima dei "locali" nei nostri confronti, ripetuta ogni volta dai telegiornali. Per fortuna ce ne stiamo andando e francamente senza gloria e onore, visto anche che alcuni militari saranno incriminati per aver sparato deliberatamente su un'autoambulanza, ammazzando quattro civili.
Si diceva della retorica che ha raggiunto il suo livello più elevato con l'uccisione del povero Quattrocchi.
E' bastato aver detto "Vi faccio vedere come muore un italiano" e i tromboni della magniloquenza hanno preso a suonare. Ineccepibile, quindi, il conferimento della medaglia d'oro al valor civile, attribuita generalmente a seguito di atti eroici.
Solo che non si riesce a capire che cosa ci sia di eroico in questa esecuzione.
Normalmente l'eroismo è il sacrificio della propria vita nel nome di un'ideale o per salvare altri, come è capitato appunto per Calipari che ha protetto con il suo corpo l'ostaggio che era appena riuscito a liberare.
Non me ne voglia la famiglia di Quattrocchi, di cui comprendo e rispetto il dolore, ma nella morte del loro ragazzo non c'è proprio nulla di eroico e quella frase è solo lo sfogo di uno che comprende di essere stato condannato.
Arriviamo così ai giorni nostri con la missione, di indubbia importanza, in Libano, con un dispiegamento di forze spropositato, visto che viene impiegata anche la portaerei con il trucco "Garibaldi". Dico con il trucco, perché per aggirare i divieti del trattato di pace, abbiamo costruito un incrociatore poi trasformato in portaerei. Immagino i costi, non trascurabili, per poter contare su pochi aerei a decollo verticale che non si riesce a capire che cosa abbiano a che fare con la missione, impegnata prevalentemente sul terreno, dove esibiamo gli ultimi ritrovati della tecnica (si fa per dire), cio è blindati risalenti a una trentina di anni fa, quando si è visto chiaramente che l'armamento degli Hezbollah fracassava i pur prestanti e moderni carri israeliani.
Non sarà una missione di guerra, ma appare evidente che se c'è da sparare è meglio poterlo fare da una posizione di forza e non di inferiorità. Comunque, mi auguro, come tutti, che non sia necessario l'uso delle armi, perchè l'italiano, soldato di professione o di leva, non eccelle come guerriero, per la sua naturale indole non bellicosa e con un'unica eccezione nella storia: la resistenza, ma là non si trattava di conquistare, ma di difendere un paese e un'idea di libertà.
Edè opportuno in ogni caso fare i debiti scongiuri, visto che lo sbarco, ripreso in diretta dalle nostre televisioni, il primo giorno non si è potuto effettuare per le cattive condizioni del mare che ai più non sono parse così pessime da imporre un rinvio, forse giustificato dal fatto che buona parte dei nostri soldati era già in preda al mal di mare.

L'inutilità della pace
A essere sincero la mia intenzione era di scrivere dell'inutilità della guerra, ma poi ho riflettuto e per una volta ho voluto mettermi nei panni di chi, a vario titolo, trae benefici da una belligeranza.
E non parlo tanto delle fabbriche di armi che pure vivono solo se non c'è pace, ma di tanti, anche se pochi rispetto all'intera umanità, che aborrono la pace, nonostante che a parole dicano il contrario.
Questi signori, intesi come signori della guerra, perché dell'origine etimologica della parola non hanno nulla, sono quelli poi che a vario titolo incidono sulle nostre vite.
Il campionario, se pur ridotto,è abbastanza vasto, e ritengo opportuno metterlo in evidenza.
Troviamo, così, i detentori di immense ricchezze, accumulate non certo onestamente, ricomprendendo in tal senso anche l'onestà morale. E' gente che spesso si professa devota, che segue impeccabile le messe domenicali, che offre somme generose ai diseredati, che ha tutto l'interesse a mantenere tali., perché nella scacchiera del potere rappresentano i predoni, facilmente sacrificabili per i loro meno nobili scopi.
Sono individui subdoli, spesso dall'atteggiamento paternalistico che sa essere accattivante, sempre pronti a indignarsi per le malefatte che loro stessi hanno commesso.
Il mantenimento di un continuo stato di tensione, di paura consente a questi loschi figuri di tener ben saldo il loro potere, con l'inevitabile conseguenza che, atteggiandosi a difensori della libertà dell'umanità, ai più appaiono come dei benefattori, come a dire che l'abito fa il monaco.
E' inutile cincischiare su ideologie politiche di destra o di sinistra, perché questi "signori" sono sempre esistiti, anche in epoche remote.
Chi ha il denaro ha il potere e chi ha il potere decide per gli altri e può accumulare altro denaro.
La struttura di potere, però, deve interagire con altre minori, al fine di evitare che la suburra si accorga della trappola ed ecco che allora ci sono i vassalli, politici di professione, che nell'ammucchiata generale trovano adeguato spazio per soddisfare i loro istinti di potenza.
Non è possibile, però, dimenticare anche l'apparato clericale che fa di qualsiasi religione una professione. E se in passato abbiamo assistito a sacerdoti che benedivano le bandiere di combattimento ora possiamo notare l'esacerbazione estremistica di una fede, oppure il debole richiamo a un generico senso di pace che lascia tutto il tempo che trova.
Ci sono inoltre altri motivi che congiurano per il mantenimento delle guerre.
Immaginatevi se una mattina dovesse scoppiare la pace.
Le fabbriche di armi dovrebbero cessare la produzione, licenziando centinaia di migliaia di addetti che si troverebbero immediatamente sul lastrico. I sindacati si farebbero immediatamente vivi chiedendo ad alta voce i necessari provvedimenti che, nella fattispecie, sarebbero costituiti dal sorgere di nuovi conflitti.
Le organizzazioni umanitarie, così prodighe nei confronti delle vittime dei conflitti, si vedrebbero del tutto inutili e senza più sovvenzioni. Migliaia di operatori insorgerebbero e, senza invocare la guerra, ricorderebbero i bei tempi in cui il mondo era dilaniato da conflitti.
I militari di professione dovrebbero fare i conti con questa fase di recessione e potete scommettere che non ne sarebbero contenti.
A seguire, in una spirale contorta, cadrebbero le commesse di divise, di calzature speciali, insomma di tutto ciò che è connesso a un'attività bellica.
Per certi paesi sarebbe un'immane disgrazia, gli stessi che ora fondano tutta la loro economia su questa particolare produzione.
No, la pace sarebbe una calamità di incalcolabili effetti.
E pensare che l'uomo che lotta contro le malattie è lo stesso che giorno dopo giorno, con la sua ignavia, con la sua credulità, con il suo piccolo interesse uccide se stesso.
Ci sarà mai un mondo in pace?
Forse è meglio chiedersi se potrà mai esistere un mondo senza i "predoni" della pace.  

Un volto fra la folla
- Pronto, chi parla?
- Sono Silvia, Stefano.
- Ciao amore, come mai questa telefonata di mattina presto? Se non l'hai notato, ma non sono ancora le sette. Non stai bene? E' accaduto qualche cosa?
- Sto bene, però devo dirtelo.
- Cosa?
- Non ho dormito tutta la notte, a forza di pensarci su; insomma, ho deciso di non vederti più.
- Come? Ma non è possibile!
- Lo è e basta.
- Ma ci sarà un motivo, oppure dimmi che è uno scherzo.
Si udì il classico click di interruzione della telefonata.
- Pronto, pronto, prontooooo.
Stefano compose febbrilmente il numero di Silvia, ma, benché lasciasse a lungo squillare il telefono, non ci fu risposta.
Affranto, con la testa che sembrava esplodergli, si buttò sul letto, cercando di calmarsi. Ripensò a lungo alla loro relazione, iniziata due anni prima: solo momenti felici, nessuna incrinatura, nessun equivoco. L'atteggiamento di Silvia appariva quindi del tutto incomprensibile ed era pertanto indispensabile una spiegazione: come era possibile che un rapporto che era proseguito così armoniosamente fino alla sera prima dovesse troncarsi così?
Si vestì alla svelta, senza nemmeno lavarsi e radersi, poi si precipitò a casa di Silvia. Suonò più volte il campanello, spinse l'orecchio contro il citofono, ma non ebbe alcuna risposta. Indugiò a lungo sul marciapiedi, con gli occhi rivolti al secondo piano, all'appartamento di lei; si sforzò di vedere se il suo volto si indovinasse dietro i vetri e invece nulla.
Diede un calcio a una bottiglia di birra vuota che rotolò sulla strada fino a infrangersi contro l'asta di un cartello stradale e poi ritornò a casa.
Rinunciò ad andare al lavoro, giustificandosi con un'improvvisa indisposizione, e si arrovellò tutta la giornata a meditare sui possibili motivi del comportamento di Silvia, non tralasciando ogni tanto di tentare di mettersi in comunicazione con lei, ma ogni volta il telefono squillava lungamente a vuoto.
A sera, dopo tante ipotesi scartate, concluse che ne restavano solo due: o Silvia era all'improvviso impazzita, o aveva trovato un altro uomo. E fu quest'ultima che lo agitò maggiormente e lo indusse a rivedere i tanti momenti del loro rapporto.
Sforzò la mente alla ricerca del volto del concorrente, ma non approdò a nulla e l'unico risultato fu che la stanchezza e la tensione lo addormentarono sulla poltrona del salotto.
Il giorno dopo, e anche i successivi, cercò di pedinare Silvia, ma inutilmente: la ragazza sembrava sparita.
Si informò preso una sua amica, ma questa gli disse che non la vedeva da un po', a conferma quindi che con ogni probabilità aveva lasciato la città.
Stefano decise quindi di mettersi l'animo in pace, anche se tutta la vicenda e soprattutto la sua conclusione gli rodevano lo stomaco.
Poco a poco si accorse che il dolore così intenso che aveva provato nei primi giorni era diventato un'amarezza, una sorta di malinconia che lo portava ad accettare finalmente la realtà.
Dopo un paio di mesi conobbe occasionalmente Laura, una bella ragazza che lo colpì immediatamente e il cui sentimento fu contraccambiato. Ebbe inizio così una nuova relazione, improntata però per Stefano a un minor entusiasmo, proprio per la memoria dell'altra vicenda. Con il tempo, tuttavia, il sentimento di Stefano divenne una vera e propria passione e del fatto di Silvia restò solo un esile ricordo.
Da allora in avanti tutto sembrò procedere in discesa e così una bella giornata di settembre Stefano e Laura si sposarono. La vita insieme procedette nel migliore dei modi, in perfetta armonia, allietata anche dalla nascita di un figlio.
Inutile dire che Stefano si era quasi dimenticato di Silvia; di lei gli sovveniva brevemente il ricordo solo di quando in quando, e comunque era semplicemente un riaffiorare di un qualche cosa di ormai accantonato in un angolo della mente. In quelle occasioni non provava né rabbia, né tanto meno amarezza; si era reso conto che in buona sostanza era semplicemente un fatto che era accaduto tanto tempo prima e nulla di più.
Gioiva ormai dei piaceri della vita in famiglia, dei successi sul lavoro, di quella serenità che era riuscito a ricostruirsi, ma il destino era in agguato e un giorno di dicembre, mentre era a passeggiare in centro, fra luci scintillanti, musiche natalizie e gente avida di acquisti, la mano che regola silenziosa e invisibile la nostra esistenza decise ancora una volta di dare il segno della sua presenza.
Stefano stava davanti a una vetrina quando si materializzò l'immagine riflessa di una persona che, benché non più giovane, non era stata cancellata dalla sua memoria.
Si voltò di scatto, gridando - Silvia!
Ma non c'era già più; intorno a lui si trovavano centinaia di persone infagottate nei loro giacconi invernali, donne impellicciate, bimbi con gli occhi sgranati per le meraviglie esposte nelle vetrine.
Si sforzò di guardare oltre quella calca, ma ovviamente era impossibile e allora decise di farsi largo, di avviare una improbabile ricerca nella moltitudine.
- Mi scusi, devo passare. Ho fretta - continuava a ripetere fendendo quella muraglia umana.
Cercava febbrilmente di rammentare come fosse vestita Silvia nell'immagine riflessa che, per un attimo, era apparsa davanti a lui.
- Un giaccone bianco - disse ad alta voce e più d'uno dei presenti rimase stupito per quella frase rivolta apparentemente al nulla.
Solo che di donne vestite così in quel posto e quel giorno ce n'erano non poche, anzi si sarebbe potuto dire che quasi tutte indossavano un giaccone bianco.
Per fare più in fretta e vedere anche meglio decise di scendere dal marciapiedi, rischiando peraltro di essere investito dalle auto.
In quel modo, e con gli occhi non rivolti alla strada, percorse quasi tutta la via e già cominciava a disperare quando, in un crocchio di gente intorno a un funambolo che cercava di guadagnare due soldi, gli sembrò di scorgere nuovamente il volto di Silvia.
Cercò di andarle vicino, lavorando anche di gomiti e, fra le imprecazioni di qualcuno e con il cuore in tumulto, giunse finalmente dietro a lei.
Inspirò profondamente l'aria per percepirne il profumo e concluse che era Chanel n. 5, quello che lei usava abitualmente.
Adesso che l'aveva a pochi centimetri gli si smorzò quel senso d'ansia che l'aveva preso da quando l'aveva vista riflessa nella vetrina e che lo aveva accompagnato per tutta l'affannosa ricerca.
Il funambolo terminò il suo numero, qualcuno gettò il suo obolo nel piattino e gli astanti si girarono per tornare alla loro passeggiata.
Si voltò anche la donna e il suo sguardo incontrò quello di Stefano.
- Silvia, sei tu Silvia!
- Scusi, non ho capito?
- Dico che sei Silvia.
- Guardi che lei si sbaglia.
- Sono sicuro di quello che dico.
- Mi chiamo Luisa e adesso se non si sposta e la smette chiamo una guardia.
- Non è possibile; prima mi hai lasciato senza una spiegazione e ora fai finta di non riconoscermi.
La donna si innervosì visibilmente, si guardò intorno e, visto che la gente sembrava interessata ad altro, si mise allora a gridare a squarciagola: - Aiuto! Aiuto, c'è un pazzo che ce l'ha con me.
Accorsero alcuni uomini, un vigile urbano e infine due poliziotti.
Stefano, bloccato, continuava a ripetere: - E' Silvia, la mia ex, lasciatemi andare; voglio solo parlarle.
Andò a finire che entrambi furono portati in Questura.
- Dunque lei si chiama Stefano Dalmasso, ha 38 anni e abita in via Dunant numero 10…
- Sì, ma che cosa conta questo?
- Dobbiamo, o no, identificare le persone coinvolte nel reato?
- Ma quale reato! Come vi devo ripetere che la signora è Silvia, la mia ex fidanzata e che desidero solo parlarle, chiederle dei chiarimenti su una certa vicenda accaduta in passato.
Il poliziotto alzò gli occhi dal foglio e si rivolse alla donna: - Il suo documento di identità, per favore.
- Eccolo.
- Dunque, vediamo… Luisa Altamura, nata a Cremona il 10/12/1962, residente a Bari, in Via Silla, 14. Mi sembra proprio che lei non sia la Silvia a cui si riferisce il signor Dalmasso.
Stefano avvampò, si protese a dare un'occhiata al documento e sbottò: - E' evidentemente falso, oppure io ho preso un granchio.
In quel momento entrò un uomo alto e barbuto, mise una mano sulle spalle di Stefano e gli disse:
- Sì, consideri solo la seconda ipotesi. E la smetta di fare queste pagliacciate, perché se la signora non sporge querela la lasciamo andare. Siamo sotto Natale, vero signora?
Lei abbassò gli occhi, poi rispose: - Sì, poveretto, tutto sommato mi fa compassione; non sporgerò querela, purché la cosa non si ripeta, anche se è difficile che lo possa incontrare di nuovo, visto che sono di passaggio e già fra una decina di giorni rientro a Bari.
Il poliziotto si rivolse all'uomo alto: - Commissario, che facciamo?
- Semplice: mettiamo in libertà questi signori, con la raccomandazione a Dalmasso che non ne combini altre. A proposito, signor Dalmasso, come si chiamerebbe questa sua ex di cui lei ha accennato?
- Silvia Rubini.
Il commissario restò un attimo assorto, poi fece un cenno al poliziotto e si misero in un angolo a parlare sottovoce. Indi, ritornarono dai due, li salutarono porgendo gli auguri di buone feste e li lasciarono andare.
Fuori, davanti al portone della Questura, Stefano si scusò ripetutamente con la signora Altamura e poi si avviò, prostrato, verso casa. Ora, più che in passato, avvertiva netto un senso di angoscia che gli tormentava lo stomaco: le luci delle feste erano diventate insopportabili, la vista della gente lo infastidiva e tutto il mondo gli sembrava crollare addosso.
Intanto, il commissario si era fatto portare una cartella.
- Dunque, Silvia Rubini, nata a Cremona il 10/12/1962, residente in Cremona - Via Tito Speri, 15. Scomparsa improvvisamente il 20 settembre 1983. Prova a guardare la foto?
- Sì, commissario.
- Non trovi una certa somiglianza con la signora Altamura.
- Beh, un poco sì.
- Hai preso nota di tutti i dati?
- Sì.
- Prova a telefonare alla Questura di Bari e cerca di avere più informazioni su questa signora: che scuole ha fatto, che lavoro svolge, se è sposata, se si è mai mossa da Bari, ovviamente non per un breve periodo.
- Sarà fatto.
- Non è finita: voglio, anzi esigo, sapere tutto su questo Stefano Dalmasso. E sai perché? Perché Silvia Rubini è sparita, si è volatilizzata, senza che nessuno ne sapesse niente e, soprattutto, senza che si portasse appresso almeno una valigia. Ricordo quando andai nell'appartamento, su segnalazione della madre, defunta poi pochi giorni dopo la scomparsa, che c'erano perfino le luci accese.
- E in quell'occasione ha parlato con i vicini e magari anche con il signor Dalmasso che dice di essere stato il suo ex fidanzato?
- I vicini non mi hanno saputo dire niente: Silvia Rubini non era quasi mai in casa, per motivi di lavoro, e inoltre era molto riservata; non ho parlato con il fidanzato per il semplice motivo che, secondo la madre, non l'aveva e anzi era il suo dispiacere che la sua bella figliola non avesse in testa di sposarsi.
- Ma allora che dice mai il signor Dalmasso?
- E' questa la novità di un caso abbandonato perché tutti gli elementi non facevano che convergere o su un allontanamento volontario, o al massimo su un suicidio.
Il giorno dopo, nel pomeriggio, Stefano Dalmasso fu convocato in Questura per comunicazioni urgenti e lì trovò il commissario.
- Si sieda, per cortesia.
- Ha da dirmi qualche cosa?
- Tante cose che spero le possano portare quella serenità di cui ha bisogno per il resto della sua vita.
- Lei pensa che io sia pazzo, vero?
- Pazzo? No. Le voglio fare una domanda: sapeva che Silvia aveva una madre?
- No. Mi ha sempre detto di essere rimasta orfana di entrambi i genitori fin da piccola.
- E le ha detto una bugia, anche se più che giustificabile. Era stata semplicemente adottata. E non le ha nemmeno detto di avere una sorella gemella?
- Certo che no.
- E in questo caso non mentiva, perché non poteva saperlo.
- Commissario, io forse non sono pazzo, ma se avanti così va a finire che ci divento veramente e immagino che le sorprese non siano finite.
- Facciamo una cosa: adesso le racconto tutta la storia. Però, prima, osservi questa fotografia che avevo trovato tanti anni fa in casa di Silvia e che ho conservato nel fascicolo.
- Ma sono io con Silvia!
- Appunto e questo mi ha subito indotto a pensare che quanto lei diceva non fosse un mero frutto della sua fantasia. Anche la gemella fu adottata, ma da un'altra coppia. Inutile dire che entrambe furono cresciute in ambienti differenti, ma da persone che vollero loro sicuramente bene. Non siamo ancora riusciti ad appurare come la gemella riuscì a sapere dell'esistenza di Silvia e perfino il suo indirizzo, ma scopriremo anche questo.
Un giorno suonano alla porta, Silvia va ad aprire e crede di specchiarsi, perché quella che le sta davanti è tale e quale lei. L'altra le spiega tutto, viene fatta entrare, viene ospitata, ma per non più di un paio di giorni. Silvia è felice di avere una sorella, ma questa le impone di non farne parola a nessuno per un breve lasso di tempo, adducendo chissà quali motivi. E infatti lei, signor Dalmasso, non ne viene a conoscenza e nemmeno l'ultima sera in cui vi siete visti con Silvia questa le ha accennato della sorella. Voi due trascorrete il tempo cenando in pizzeria; lei la riporta a casa, ma senza salire, perchéè tardi. Silvia entra in casa, la gemella si offre di prepararle una tisana per conciliarle il sonno e invece l'avvelena. Il corpo viene trasportato, con l'aiuto di un complice, in una discarica dove non potrà mai essere trovato. Bisogna però sistemare, in altro modo, il fidanzato, affinché non possa scoprire il tutto e allora il giorno dopo, la mattina, le telefona. Le voci sono quasi identiche, le parole dette sono sicuramente poche e lei, signor Dalmasso, ci cade ed entra in crisi.
Successivamente, la gemella, spacciandosi per Silvia, va a trovare la madre, giustificando in chissà quale modo la sua temporanea scomparsa; lì la fa schiattare con un intruglio a base di digitalina e nessuno fa caso a una morte improvvisa per un attacco cardiaco, considerata l'età della signora e i disturbi circolatori da cui è afflitta. Compiuto anche questo delitto, l'omicida sparisce, salvo riapparire proprio in questi giorni.
- E il perché di tutto questo orrore?
- Soldi, beni immobili, insomma una bella eredità e, dato che proprio il 29 dicembre si prescrive il diritto per accettarla, la gemella, sicura che nessuno possa sospettare di lei, ritorna; davanti al notaio, con cui ha già preso l'appuntamento, avrebbe giurato di essere Silvia, esibendo una falsa carta di identità.
-Avrebbe?
- Certo, avrebbe, perché già le abbiamo messo le mani addosso edè bastato poco per far luce su questo mistero: una telefonata alla Questura di Bari, con cui abbiamo appurato che la gemella di Silvia è Luisa Altamura. Se non ci fosse stato lei, signor Dalmasso, e l'amore, direi meglio un sentimento più smorzato come l'affetto per chi l'ha lasciata di colpo e apparentemente senza motivo, non saremmo mai arrivati alla conclusione di questo caso. Dopodomani è Natale e le porgo i miei auguri: ne ha bisogno.
- Buone feste, commissario.
Uscì all'aria aperta, osservò i festoni, le luci, la gente che sciamava per le ultime compere: gli sembrò di ritornare alla vita.

La fontana magica
Come ogni favola che si rispetti è d'obbligo iniziare con C'era una volta e infatti sarà così, ma, se leggerete con attenzione, noterete che il tema trattato non ha tempo.

C'era una volta, talmente tanto tempo fa che non è possibile ricordare quando fu, un piccolo staterello, un borgo medioevale arroccato su una collina con tanto di castello, di armigeri, di principi e principesse.
All'intorno digradavano i campi coltivati dai villici e quasi ai suoi confini, dove la terra sembra toccare il cielo, un fitto bosco dava ospitalità ad animali selvatici e anche a qualche brigante da strada.
Gli unici a penetrarvi erano il signore del castello e la sua scorta, nelle battute di caccia al cervo o al capriolo, ma, non del tutto infrequente, nonostante i rischi se sorpresi, si aggiravano improvvisati bracconieri, tesi ad integrare con un po' di carne di qualità lo scarso e povero cibo di ogni giorno.
E uno di questi è proprio il personaggio di questa storia, un povero servo della gleba; né brutto né bello, né alto né basso, Girolamo - così si chiamava - era il settimo di una famiglia che non riusciva a combinare il pranzo con la cena. Era giovane, e anche abbastanza forte, e senza spirito di ribellione ogni tanto si avventurava nel bosco a metter trappole per le lepri, che vi abbondavano.
Un giorno, mentre faceva il giro delle tagliole per vedere se qualche bestiola vi era imprigionata, nel prendere per sbaglio un altro sentiero, a lui sconosciuto, arrivò a una radura dove al centro troneggiava una fontana di granito, come quella della piazza davanti la chiesa, e, assetato, si accostò per bere. Fu allora, che fra i cerchi mossi dall'acqua che cadeva, vide riflesso il suo viso, con la barba tutta incolta e la pelle che già iniziava a raggrinzirsi, nonostante la giovane età.
Rimase triste a guardare l'immagine della sua modesta condizione, ripensò alle ore di lavoro per il suo signore, al poco cibo con cui si sostentava, ma, soprattutto, vide accanto a sé il volto stupendo, dallo sguardo altero, della giovane principessa, un sogno del tutto proibito per lui. Si prese la testa fra le mani e iniziò a piangere e quando le lacrime, lasciando il suo viso, presero a cadere nell'acqua della fontana, udì una voce:
- Chiedi e sarai esaudito.
- Chi parla?
- Io.
Girolamo si volse all'intorno impaurito e non vide nessuno.
- Dai, non fare lo sciocco; sono io, la fontana.
- La fontana che parla? Gesù, Maria, Santissimi Apostoli, o sono pazzo, o c'è il diavolo.
- Ma no, non temere. Ti ripeto: chiedi e sarai esaudito. Che cosa vuoi? Ti piace la bella principessa, vero?
- Sì,è vero, ma io sono povero e brutto.
- Formula un desiderio alla volta, qualsiasi desiderio, e io lo tramuterò in realtà.
- Mi piacerebbe essere bello, almeno come lei.
- Ecco fatto.
Girolamo si specchiò nell'acqua e non si riconobbe: davanti a lui c'era un giovanotto, alto, biondo, dagli occhi azzurri e con un volto dai lineamenti regolari e delicati.
Grazie, grazie - e corse via.
Quel giorno iniziava il torneo dell'Immacolata e tutti si raccoglievano intorno al campo di gara, plebei e signori.
Girolamo si fece avanti con forza nella calca del settore dei servi, ma alla fine si mise in prima fila, proprio davanti al palco dei principi e la vide subito, splendente nella sua bellezza altera.
Si agitò per farsi notare e infatti lei lo degnò di uno sguardo; fu solo un attimo e poté leggere nei suoi occhi l'interesse improvviso, ma altrettanto rapidamente subentrò un chiaro atteggiamento di disprezzo.
Dire che rimase deluso è dir poco, perchè si rese chiaramente conto che la sua bellezza passava in secondo piano rispetto al suo stato sociale.
In preda allo sconforto, ma deciso di ritentare corse al bosco, si affannò a cercare il sentiero per giungere alla fontana e quando il sole già cominciava a calare lo trovò.
Arrivato alla radura si accorse che già stava sorgendo la luna; stremato si lasciò cadere e fu vinto dalla sonno.
Fu una notte di cui ebbe a lungo memoria, con sogni popolati da sabba di streghe, da diavoli danzanti intorno a un fuoco, da lontani suoni di cornamuse.
Il primo sole lo svegliò e ancora con gli occhi piccini si appressò alla fontana per tergersi il volto.
- Sapevo che saresti tornato.
- Sapevi?
- Certo. Agli uomini non va mai bene niente.
- Non ho avuto fortuna e, soprattutto, per lei non conta la bellezza, ma la classe sociale.
- Niente di nuovo sotto il sole; da quando esiste il mondo conta più l'apparenza.
- Fammi diventare nobile, trasformami in un cavaliere di alto lignaggio che partecipa al torneo.
- Nessun problema; per quanto ovvio, però, fisicamente ritorni quello di prima. Per te è lo stesso?
- Certamente.
- Detto, fatto.
Girolamo non ebbe nemmeno bisogno di specchiarsi, mentre si sentiva avvolgere dall'armatura e prendeva le redini del bianco cavallo che uno scudiero gli porgeva. Poi fu aiutato a issarsi sul destriero e finalmente si incamminò verso il borgo.
All'arrivo sulla piazza del torneo tutti si volsero ammirati nel vedere il nuovo cavaliere, nella sua lucente armatura. Quando il maestro di cerimonia gli chiese il nome gli venne spontaneo:
- Sono Girolamo Barbarico da Cortona, duca di Forlimpopoli e visconte di Castrocaro.
Sotto la celata i suoi occhi corsero al palco, a cercare la principessa. Lei era là, splendida come al solito, e lo guardava stupita.
Si diede inizio alla tenzone, ma lui che non pensava ad altro, che non vedeva che quella leggiadra figura femminile, al primo scontro fu disarcionato e, quel che è peggio, un pezzo di legno della lancia gli si conficcò nel costato.
Corse subito il cerusico, ma lui, nonostante il dolore, era lei che cercava e invece la bella principessa stava lanciando il suo guanto di candida seta al cavaliere che lo aveva sconfitto.
Gli si fecero intorno, lo sollevarono di modo che l'occhio clinico constatasse la gravità della ferita e l'insigne e dotto medico si limitò a scuotere il capo.
Con il poco fiato che gli restava, Girolamo pregò gli astanti d'esser messo sul suo cavallo, così da cercare di andar a morire a casa sua.
Fu accontentato e allora incitò il cavallo a correr più veloce del vento, a raggiungere il bosco in un baleno, ad accostarsi ancora una volta alla fontana.
Così fece la bestia e stramazzo affranta, disarcionando il suo cavaliere che finì dentro la vasca d'acqua fresca.
- Un po' di educazione! Mi fai traboccare. Capisco, però, il motivo. Hai un ultimo desiderio da esprimere.
- Fammi ritornare me stesso.
- Siete strani, voi umani. Cercate di essere sempre diversi per poi alla fine desiderare che nulla sia cambiato. E va bene, non preoccuparti. Sarai di nuovo tu e non morirai; però, resterai un povero servo in un mondo che sarà sempre fatto di tanti servi e di poche principesse.
Girolamo si ritrovò nei vecchi panni, senza più ferite al costato; uscì dalla vasca e prese la via del ritorno. Giunto al margine della radura si volse un attimo a guardare la fontana da cui non usciva più acqua.
Alzò la mano in segno di saluto, poi corse alla sua capanna.

Uomini o bestie?
Fra tutti gli esseri viventi l'uomo ha avuto la grazia dell'intelligenza, dono che l'ha elevato sulle altre specie, anche se non è mai stato capace di farne buon uso. Certamente è riuscito a inventare tante cose che gli hanno reso e gli rendono la vita più facile, ma al tempo stesso più complessa; ha ottenuto lusinghieri successi in campo medico, tanto d'essere riuscito ad allungare notevolmente la vita media, senza per questo concretizzare l'agognato sogno dell'immortalità; il suo estro creativo non si è limitato alle scienze, ma anche alle arti, con un arricchimento culturale che troppo spesso finisce con l'essere snobbato.
Insomma, la specie ha avuto un'evoluzione notevole, senza che tuttavia si sia persa una caratteristica propria fin dalle origini: il curioso metodo di risolvere i dissidi, o di soddisfare il desiderio di potenza, con la violenza della guerra.
Sembra quasi incredibile che la storia dell'umanità sia disseminata da milioni di morti dovuti non a cataclismi o a malattie, ma a seguito di eventi bellici.
Sappiamo bene che gli animali, spesso, si combattono fra loro, ma la natura di questi conflitti, non di rado dovuti a esigenze territoriali, sembra impossibile che possa accomunare le bestie con gli uomini, con un distinguo ben preciso: i secondi hanno l'intelligenza che non hanno le prime.
E' lecito quindi chiedersi se questa scintilla creativa non sia più che carente, visto che per far delle guerre non occorre l'intelligenza, ma la bestialità.
Pretendere di risolvere i problemi con la forza è un atto di debolezza,è la negazione assoluta della ragione, perché, al di là della barbarie in se stessa, l'esperienza ci insegna che la vittoria è una soddisfazione effimera, che da una tragedia immane non escono in effetti né vincitori, né vinti, perché la guerra è una sconfitta per tutti, anche per chi non vi ha partecipato.
L'indifferenza per le disgrazie altrui è un pessimo viatico per l'evoluzione della specie,è quasi una tacita giustificazione che nulla si può fare contro drammi di così vasta portata. E non mi riferisco a coloro che invece alzano voci di protesta, più o meno interessata, a favore o contro uno dei contendenti, ma proprio alla quasi totalità degli altri che di fronte al fatto, pur nel timore, finiscono con il considerarlo come ineluttabile.
La guerra può e deve essere evitata, cercando di rimuovere da un lato i motivi, o pretesti, che l'hanno provocata, e dall'altro ricordando ogni giorno che la vita è troppo breve per essere così malamente sprecata.
Il nostro incerto cammino su questa terra avrà un giorno senz'altro fine, e proprio per questo dobbiamo metterci in testa che percorrerlo in armonia, senza sogni di gloria o di potenza, ci renderà più agevole il passaggio al buio in fondo alla strada.
Le ricchezze che esistono sul pianeta non sono di Tizio, o di Caio, ma sono di tutti noi, nessuno escluso, e l'impossessarsene è come toglierle a tutti.
Duemila anni fa ci fu uno che perfino morì perché l'animo umano si aprisse alla solidarietà; da allora, nonostante tanti si professino suoi seguaci, hanno continuato come se lui non fosse mai esistito.
Mi chiedo se allora abbiano un senso queste righe che ho scritto: se non è stato ascoltato lui, chi mai ascolterà me?
So solo una cosa: che continuerò la mia pacifica battaglia contro ogni guerra.

Un UOMO da ricordare, sempre
Non amo le commemorazioni, giorni in cui si ricorda un evento, un personaggio, per poi metterlo in disparte, salvo ripresentarlo la stessa data dell'anno successivo.
Il 28 luglio, però,è il secondo anniversario della scomparsa di Tiziano Terzani, un grande scrittore, ma, soprattutto, un grande UOMO. Sì, non ho sbagliato, UOMo è scritto a tutto tondo in maiuscolo, edè anche poco per uno che ha segnato la storia vivendola in prima persona, giorno dopo giorno, ora dopo ora, nel completo rispetto delle idee che andava predicando. Ha saputo dimostrare che il miglior insegnamento è l'esempio e mentre scrivo mi sembra di veder emergere dal foglio quella folta barba bianca da cui prorompeva la straordinaria luminosità dei suoi occhi.
E' stato definito in vari modi: maestro di vita, religioso laico, ma io preferisco ricordarlo come uomo, secondo quel concetto che gli era proprio e che sapeva dare dignità a un essere spesso spregevole. Se l'uomo è la bestia più intelligente, l'uomo Tiziano Terzani è l'uomo, cio è ciò che dovrebbe essere e, purtroppo non è, questa specie superiore di cui facciamo parte.
Se Gandhi è stato il profeta della non violenza, Terzani è stato il profeta del dialogo, di quella indispensabile comunicazione fra gli uomini volta a evidenziare i comuni punti di contatto e non a esaltare le inevitabili divergenze.
Sì, perché il più grande nostro nemico può tenderci la mano se cerchiamo in lui ciò che ci unisce, non ciò che ci divide.
Un'amica mi ha pregato di ricordarlo sul mio sito e io ci ho provato, ma il miglior ricordo che ho di lui è sempre dentro di me,è quella tolleranza che, ammetto con difficoltà, cerco di avere ogni giorno,è quel senso di pace con me stesso che mi fa indignare, ma senza odio, per tutti gli orrori che non pochi uomini perpetuano nel tempo,è quella consapevolezza che il cammino verso la specie superiore sarà lento, ma inarrestabile,è quel sogno che un giorno, che mai vedrò, potrà diventare realtà.
Sì, Tiziano Terzani è morto il 28 luglio 2004, ma vive ancora, dentro di me, dentro tutti quelli che aspirano a un mondo di pace e di fratellanza.

Il matrimonio di Antonia Infante
Antonia si abbandonò sulla sedia, affranta, distrutta. Quella giornata la casa era risuonata come non mai di decine di voci, parenti di cui ignorava l'esistenza erano venuti da luoghi anche lontani, tutto un susseguirsi di frasi, per lo più di circostanza, che l'avevano confusa e tramortita. E come se non bastasse, davanti al feretro, Giovanni e Giuseppe, i due figli gemelli, avevano cominciato ad accapigliarsi per mettere le mani sull'eredità, su quella vecchia casa colonica e sul circostante fazzoletto di terra da cui anni prima avevano voluto andarsene per sporcarsi le mani nelle industrie della città. Non l'avevano nemmeno guardata, come se lei non fosse quella che li aveva generati: un'estranea, o peggio una persona senza il minimo valore.
Ora che tutto era finito, che il marito riposava nel piccolo cimitero del paese, Antonia guardava smarrita le pareti annerite della cucina, la fila delle pentole di rame appese al muro, le mosche che ronzavano sui vetri, mentre l'ultima luce del giorno rischiarava a malapena l'ambiente, in un gioco di chiaroscuri, esaltando ancor di più quel senso di solitudine che si sentiva addosso.
- Giacomo - chiamò, cercandolo con lo sguardo fino a quando non lo vide rincantucciato in un angolo, assorto, con quei suoi occhi che sembravano smarriti.
- Giacomo! - gridò nuovamente, ma il ragazzo non rispose.
Allora si portò le mani alla testa, le impresse sui capelli troppo presto imbiancati e nel buio incipiente la sua mente corse al ricordo.
- Vedi Antonia, ragazza mia, la tua non è una bella situazione.
Credimi, spesso a voler far di testa propria, si finisce con lo sbagliare. Capisco che certe cose non fanno piacere, che tuo padre non avrebbe dovuto toccarti, né farti certe cose, ma tu, invece che dirlo solo a me, sei andato a spifferarlo al maresciallo e così adesso tu e la tua famiglia ne pagate le conseguenze. E poi, il peccato più grave che hai commesso, e che Dio ti possa perdonare,è l'esserti liberata anzi tempo di quella creatura che portavi in grembo.
- Padre, e che avrei dovuto fare? Tenermi il frutto di una violenza?
- Tutto quello che accade è nel segno del Signore e ti dovevi rassegnare; invece, adesso, tu e i tuoi otto fratelli siete lì a patir la fame con vostro padre in galera. E tu, che pur saresti in età di maritarti, non troverai qua mai nessuno che ti vorrà per quell'infamia che ti porti addosso.
Antonia stava in silenzio e piangeva.
- Io che sono il tuo parroco e che ti voglio bene ho trovato però la soluzione del problema, l'unica possibile.
Vedi, mi ha scritto il curato di Bertosso, un paesino lungo il Po, per dirmi che un suo bravo parrocchiano, buono, timorato di Dio, una bella posizione economica, dacché gli è morta la madre è rimasto solo e sentirebbe la necessità della compagnia di una donna.
Ha intenzioni serie, serissime, edè disposto a sposare quella donna. Per via del lavoro non ha tempo di cercarsela e allora ha demandato tutto, saggiamente, al suo pastore. Antonia, credimi,è un'occasione unica! Ce ne dici?
Antonia non rispose, ma pensò alla fame di ogni giorno, agli sguardi di disprezzo della gente del suo paesino calabro, e assentì con il capo.
- Brava, ne ero sicuro, tanto che gli ho già risposto di aver trovato la persona giusta.
E così il giorno dopo, dopo aver guardato per un'ultima volta i suoi fratelli, salì sul treno che l'avrebbe portata al lontano Nord.
Fu un viaggio lungo, sulle strade ferrate di un'Italia che era appena uscita dagli orrori della seconda guerra mondiale e solo dopo una trentina di ore, sfinita, arrivò a destinazione.
Sulla banchina sbrecciata della stazioncina Lui l'aspettava; quando scese dalla vecchia carrozza e si guardò intorno smarrita l'uomo si fece avanti.
- Sei tu Antonia?
- Sì.
- Va bene; seguimi, io sono Angelo.
Non disse altro per tutto il percorso che fecero, a piedi, dal paesino fino alla casa colonica.
Appena arrivarono, Angelo si limitò a indicare una pila di piatti da lavare, poi le si buttò addosso, le strappò le vesti e sul tavolaccio della cucina la fece sua. Non fece in tempo a rivestirsi che cominciarono a piovere gli ordini "Prepara la cena! Ci sono da mungere le vacche! E così via".
Si sposarono dopo tre giorni, con una cerimonia semplice, con ben pochi intimi e le parole del prete sul reciproco rispetto le sembrarono l'unica nota stonata di quella funzione.
Poi cominciarono i giorni, tutti uguali: poche le ore di sonno e di riposo, molte, troppe quelle di lavoro. Già all'alba nella stalla, poi di corsa a preparare la colazione per il marito, quindi a faticare nei campi, ad affannarsi intorno ai fornelli, e infine alla sera a subire le pretese del marito, sempre senza nessun rispetto. La domenica poi era peggio del solito, perché lui ritornava dal paese ubriaco e prima di prenderla la picchiava, botte sorde, pugni calati all'improvviso sulla schiena, calci, e, quando si lamentava, quella frase che più di ogni altra cosa la feriva "Taci, pezzente che senza di me moriresti di fame!".
Nemmeno la nascita dei due gemelli portò qualche sollievo, anzi le cose peggiorarono, perché Giovanni e Giuseppe presero tutto il carattere dal padre e così la prepotenza si moltiplicò per tre.
Quando venne alla luce l'ultimo, Giacomo, Antonia sperò, ma benché diverso dai fratelli, più quieto fin dai primi mesi, alla lunga rivelò un problema tutto suo, con quello sguardo assente, l'assoluto mutismo, la chiusura al mondo. Il medico che lo visitò scosse la testa e disse solo una parola che lei non capì: autismo.
Spesso sembrava che non fosse nemmeno in casa, insensibile a ogni gesto d'affetto, quasi ormai un oggetto.
Gli anni così passarono, senza novità, fino a quando Angelo si ammalò all'improvviso e altrettanto rapidamente se ne andò all'altro mondo.


Antonia si scosse dai suoi ricordi di una vita che pensò amaramente che fosse meglio non fosse mai avvenuta. Si alzò, accese la luce e andò allo specchio della credenza. Da fuori giungeva il muggito delle mucche che chiedevano di essere munte, con le mammelle traboccanti di latte. Antonia guardò quel volto segnato dal tempo e dalla sofferenza, si passò le mani sui seni cadenti, chiamò ancora Giacomo, senza ottenere risposta. Chiuse gli occhi e in quel momento seppe chiaramente che cosa avrebbe dovuto fare. Lasciò la cucina, raggiunse la scala che portava al piano superiore, guardò la trave sporgente e la corda robusta che giaceva lì per terra da tempo immemorabile. Lentamente, con calma, fece il nodo, poi, salita su una sedia, legò la cima alla trave e infilò la testa nel cappio, senza nessuna emozione. Stette un attimo così, chiuse gli occhi, poi diede un calcio allo schienale del suo sostegno; la corda si tese, si serrò intorno alla gola, cominciò a mancare l'aria in una sofferenza crescente. Poi, mentre perdeva i sensi, le sembrò di venir sollevata e che il dolore sparisse del tutto.
Una voce martellava le sue tempie, un suono sconosciuto, un'invocazione ignota, mentre lentamente andava riprendendosi; mani leggere le sfioravano i capelli, le carezzavano le guance, gocce calde le cadevano sul viso.
Dov'era mai? In Paradiso forse? No, dalla molla che le premeva sui reni doveva essere coricata sul vecchio divano.
Tutto era così confuso, tutto era così incredibile che non sembrava vero e il suono martellante poco a poco divenne più comprensibile, era un "mamma" ripetuto con angoscia. Aprì lentamente gli occhi e vide subito il volto disperato di Giacomo che si affannava per aiutarla. Strinse a sé quel ragazzo ritrovato, assaporò il battito del suo cuore, si abbandonò estasiata a quel "mamma" ripetuto ossessivamente e per la prima volta sentì forte il desiderio di vivere.

Le bocche
- Si sdrai sul divano, si rilassi e cerchi di rispondere alle mie domande con spontaneità, senza vergogna.
- Sì, dottore, farò come dice lei, anzi qualsiasi cosa purché questo incubo finisca.
La luce si abbassò nello studio del Dottor Muhleim, celebre psicanalista di origine austriaca, e cominciarono a diffondersi le note di un brano di Mozart.
- Mi dica allora com'è quest'incubo.
- Vede, dottore, vado a letto in genere a mezzanotte e, stanco per la lunga giornata di lavoro, mi addormento subito.
- Prima ha dei rapporti con sua moglie?
- Non sono sposato e dormo solo.
- Prosegua.
- Non so dirle quanto tempo passa da quando prendo sonno, ma immancabilmente ogni notte l'incubo si ripete, ossessivo, asfissiante.
Il Dottor Muhleim si grattò la barbetta da capretta che gli copriva il mento, si avvicinò al paziente e gli sussurrò: - Sì, sia bravo, si rilassi, e mi racconti tutto.
- Ebbene, a un certo punto cominciano ad apparire, a uscire dal buio, ad avvicinarsi al letto.
- Che cosa?
- Bocche, tantissime bocche spalancate, lingue gonfie e coperte di saliva. Bocche sdentate, o con denti in pessime condizioni.
- E si limitano a questo?
- No, no! Magari! Vomitano parole senza senso, suoni disarticolati, quasi dei gargarismi.
- Interessante. E poi?
- E poi…quando mi risveglio madido di sudore, e in genere è l'alba, spariscono.
- Per oggi abbiamo finito; alla prossima seduta.
- Mi dica dottore, sia sincero: c'è speranza che il mio sonno possa tornare tranquillo?
- Vedrà che troveremo il motivo di tutto questo e di seguito la cura adatta.

Tre giorni dopo

- Buongiorno. Sempre lo stesso sogno?
- Purtroppo sì.
- Per caso, da piccolo, ha visto sua madre e suo padre che facevano l'amore?
- No.
- Sia sincero. Dica che lei li spiava sempre.
- Ma sono sincero. Mai fatta una cosa del genere.
- Va bene, cercherò di crederle. Lei, per caso, in gioventù praticava l'onanismo con particolare assiduità?
- Dottore, mi mette in imbarazzo, ma le posso dire che avevo un comportamento normale.
- Quante volte in una settimana faceva pratiche masturbatorie?
- Come faccio a ricordarmelo! Comunque, poche.
- Poche quanto?
- Che ne so. Due-tre volte la settimana.
- E adesso?
- Nessuna; ho una relazione con una signora e a lei dedico le attenzioni del caso.
Il Dr. Muhleim si avvicinò al paziente e gli sussurrò con tono imperioso: - Questa donna le ricorda sua madre?
- Certo che no. Adele è alta e bionda; mia madre era piccola e mora.
- Ha una bocca particolare?
- A me sembra normalissima.
- Il caso si presenta difficile e temo che il nostro rapporto sarà assai lungo.
- In verità, Dottore, avrei anche i miei impegni di lavoro.
- Insomma, vuole o non vuole che queste bocche spalancate non la tormentino più?
- Certo, sono qua per questo.
- E allora lasci perdere per un po' gli affari. A proposito, che lavoro fa?
- Il dentista…

Il bombardamento mediatico
Fra i tipi di bombardamento aereo quello a tappeto appare il più terribile, considerato che un'area prefissata viene di fatto saturata di bombe. I pochi sopravvissuti ne escono normalmente con profonde ferite morali e psicologiche.
Ci sono altri tipi di bombardamento assai più subdoli e che provocano pure danni incalcolabili; mi riferisco, in particolare, al bombardamento mediatico, a quel sistema che impone la notizia allo spettatore assiso davanti al televisore.
Una volta, e non si tratta di molti anni fa, c'era la notizia, in genere breve e succinta, lasciando un suo eventuale approfondimento a trasmissioni specifiche inserite successivamente nel palinsesto.
Oggi, invece, la notizia viene ripetuta ossessivamente e non è più la comunicazione del semplice evento, ma una sorta di bombardamento a tappeto da cui si esce frastornati e, spesso, del tutto indifferenti.
Si scava dentro la notizia, si passa al setaccio la vita dei protagonisti, si proclamano vere e proprie illazioni come verità sacrosanta. Mai, da come è entrata in vigore la legge sulla riservatezza, la cosiddetta privacy, questa è stata violata deliberatamente e senza alcun limite.
E' di questi giorni la notizia del tentato suicidio di un ex giocatore della Juventus, una vicenda triste gettata in pasto al pubblico, ripetuta ossessivamente, con contorni frequentemente in contrasto fra di loro.
Poi, una volta che questa vittima - perché di vittima si tratta con la sua vita alla mercé di tutti - riuscirà, come gli auguro, a superare i gravi traumi dell'evento, ritornerà nell'oblio, in quella normalità in cui era sempre vissuta.
Ci sono casi ancora più eclatanti, soprattutto quando coinvolgono minori, fatti in cui la morbosità prende il sopravvento. Allora la notizia assume tinte torbide, anche se magari l'evento in se stesso non lo è, ma è evidente che quanto più si può rimestare, spesso inventando di sana pianta, tanto meglio riesce il servizio.
Mi sono chiesto più volte il perché di un simile comportamento e alla fine ho formulato due ipotesi, che possono benissimo coesistere.
La prima è la scarsa professionalità di quasi tutti i giornalisti, lottizzati dai partiti, asserviti volontariamente agli stessi; in questo quadro viene privilegiato non il più capace, ma il più servizievole, il più disponibile.
L'altra rientra in un generale programma, voluto o meno, di sradicamento culturale dei telespettatori, ormai avvezzi a vedere spettacoli che , a definirli spazzatura,è già l'essere magnanimi. Imperano le fiction dove vengono mostrati aspetti della vita che assai difficilmente trovano riscontro con la realtà, in una sorta di girone infernale dove i più comuni sentimenti vengono annichiliti da piattezze di pessimo gusto.
Del resto è in atto una tendenza a trasformare tutto in fiction, a far vivere la gente lontana dalla realtà, intorpidendone le coscienze.
E mentre sono ormai sparite da tempo le commedie di grandi autori del teatro e perfino i concerti, assai rari, vengono relegati a ore impossibili, veniamo bombardati da reality show, programmi che di reale non hanno nulla e che invece sono un vero e proprio monumento all'imbecillità.

L'amico scomparso
- Ecco, vede, veniva ogni mattina a guardar sorgere il sole. Si accovacciava sulla sabbia, con le spalle rivolte a est, verso l'Alberese, e s'incantava a osservare il promontorio dell'Argentario che prendeva forma poco a poco mentre la luce si diffondeva.
- Diceva qualche cosa, parlava?
- No, stava muto e solo una volta, mentre aggiustavo le reti, l'ho sentito mormorare qualche parola, ma a voce molto bassa, tanto che non ho capito.
Fausto guardava il lontano promontorio dell'Argentario che sembrava emergere dalle acque del Tirreno, una specie di vascello fantasma diafano nella luce del tramonto.
Il vecchio pescatore gli si accostò e gli rivolse nuovamente la parola.
- Uno spettacolo che vedo da anni, ma che non finisce di stupirmi. Non c'è niente di più magico di un tramonto in questo posto.
- Veniva anche a quest'ora?
- No, mai che io mi ricordi. Gli interessava solo l'alba.
- Grazie, per quanto mi ha detto.
Risalì l'arenile nel silenzio ovattato dell'ora, interrotto solo dallo stridio di qualche gabbiano,
e dal rumore della corrente dell'Alberese che lì in mare se ne andava a morire.
Sì, come il fiume che nasce e che poi muore, anche il suo amico Alfredo, lo stimato professore di latino del liceo classico di Mantova, un giorno se n'era andato da casa, senza dire nulla alla moglie. Si erano avviate le ricerche in tutta Italia e poco a poco, sulla base delle segnalazioni, si era ricostruito il percorso che aveva intrapreso.
Una prima tappa di poche ore a Firenze, ove qualcuno si ricordava di quell'uomo non più giovane, magro e quasi scheletrico che era rimasto per più di un'ora estatico di fronte a Palazzo Pitti.
Il suo peregrinare l'aveva portato poi a Bolgheri,
dove aveva passeggiato a lungo su e giù per la stradina che portava alla chiesa di San Guido, sostando più volte a guardare i filari di cipressi.
Sì, lo ricordo bene - aveva detto il sagrestano.
E quando gli si chiese il perché, questi rispose in modo evasivo, quasi avesse timore di svelare un mistero, ma poi, supplicato, si era deciso a parlare.
- Mi ha detto che qua c'è stato tante volte con la mente, e non con il corpo, e ogni volta gli sembrava di essere più vicino alla fine della strada. Ha biascicato anche i primi versi della poesia, ma poi si è interrotto, mentre le lacrime gli bagnavano le guance. Gli ho chiesto il perché di questa commozione e lui mi ha risposto che era il ritorno.
Si era spostato poi in un piccolo borgo vicino a Siena dove aveva soggiornato, ospite di un convento, per un paio di giorni.
Come ebbe a dire il priore, l'uomo gli era sembrato malato, ma più nell'anima che nel corpo. Eppure, nonostante la brevità del soggiorno la mattina che se n'era andato aveva notato nei suoi occhi, prima sempre malinconici, un accenno di sorriso, una sfumatura di pace.
E quando, accomiatandosi, gli aveva chiesto dove sarebbe andato quello gli aveva risposto che la domanda esatta da porre avrebbe dovuto essere dove si sarebbe fermato.
Una segnalazione successiva lo dava come in cammino lungo le terre senesi e così un contadino, a cui aveva chiesto un'indicazione, lo descrisse.
- Era pallido, si vedeva un uomo sofferente nel fisico, ma i suoi occhi avevano un qualche cosa di indescrivibile, come se vedessero oltre le immagini.
E infine venne la notizia del suo ritrovamento.
Una mattina, un pescatore che già l'aveva notato da un po' di giorni, l'aveva trovato sulla spiaggia, vicino alle bocche dell'Alberese, prono su se stesso e quando lo aveva osservato meglio si era accorto che era morto.
Fausto trasse di tasca un foglio sgualcito e lesse ancora una volta.
" Caro Fausto,
tu che sei il mio amico più caro, quando leggerai questa è perché io non ci sarò più.
E' difficile spiegare perché me ne sono andato, perché un uomo non più giovane come me, sposato, con una casa, con un lavoro, abbia lasciato tutto di colpo. Qualche cosa saprai già, se avrai cercato di capire il motivo di questo mio allontanamento. Il cancro che mi ha colpito non perdona e allora perché vivere in un asettico letto d'ospedale, con cannule infilate ovunque per procrastinare inutilmente la mia vita? Perché vedere il dolore negli occhi di mia moglie, perché ogni giorno cercare di illudermi?
Se è giunto il mio momento voglio che il tutto avvenga con dignità, con rispetto per la mia persona e desidero anche che ci sia un senso nella morte.
Ecco perché sono andato via e sono venuto qua, in questa terra dove ancora c'è un rapporto fra uomo e natura.
In queste albe sul mare ho visto e imparato più di quello che ho osservato e studiato in tanti anni. Per la prima volta mi sono sentito parte del creato, un minuscolo granello di polvere nel disegno perfetto delle cose e così ho accettato la mia fine dopo un percorso che mi ha portato a conoscere me stesso e che solo in questa terra puoi effettuare, solo fra questi borghi che resistono oltre il tempo, solo in quest'atmosfera ancora indenne dall'illusorio dominio dell'uomo e dove tutto è in eterno armonico equilibrio.
Caro Fausto,
un abbraccio."

Fausto ripiegò il foglio e lo rimise in tasca.
Si avviò all'auto, ma prima di salirvi buttò un'occhiata al lembo di spiaggia dove il vecchio pescatore metodicamente e con calma riparava le reti.
Era prono sulle stesse e, nella mano che riavvolgeva i fili, gli sembrò di vedere quella ferma di Alfredo che stilava la lettera.

Panem et circenses
In epoca imperiale erano abbastanza frequenti feste di varia natura tenute al Colosseo, durante le quali venivano generosamente distribuiti cibi e vivande.
Il volgo si divertiva e chiudeva volentieri un occhio, se non addirittura tutti e due, sugli intrallazzi a suo danno perpetrati dal Senato e dall'imperatore stesso.
Se la storia insegna, occorre anche dire che la quasi totalità dei suoi scolari è disattenta, perché continua ricadere, inesorabilmente, nello stesso errore.
Il miglioramento delle condizioni economiche non rende più necessaria la distribuzione dei cibi, ma i circenses sono insostituibili, tanto che con il tempo si è riusciti a instillare nel popolo italiano il convincimento che il gioco del calcio è lo sport nazionale. Si comincia a giocare a calcio fin dalla più tenera età, inseguendo il miraggio di successi smisurati, si diventa i patiti di una squadra, si parla di foot ball in televisione, nei bar, nei posti di lavoro, si azzardano strategie da Von Clausevitz, ci si rode il fegato nel guardare una partita e se i propri beniamini vengono sconfitti la colpa è solo degli allenatori o degli arbitri.
E' da un po' che non vado allo stadio, ma ricordo i volti dei tifosi: tesi, spasmodici, per dilatarsi nel momento della rete segnata dalla squadra del cuore. Persone insospettabili nella vita comune diventano improvvisamente dei leoni, oppure degli animi straziati, demandando il loro equilibrio interno alle pedate a una sfera di cuoio.
Non deve essere stato facile per costoro digerire l'ultimo degli scandali del calcio, con partite dai risultati pilotati e interferenze di ben noti personaggi. Dal boom della notizia iniziale ( un fuoco pirotecnico di intercettazioni, di smentite, di accusati che diventano accusatori) si è passati poco a poco a una fase di stanca che non lascia presagire nulla di buono in ordine a condanne severe e indispensabili per moralizzare un ambiente che ha sempre difettato del più elementare senso etico.
Ma i tifosi buggerati, che hanno gioito allo spasmo per la vittoria della propria squadra, convinti che fosse maturata nel contesto di un'autentica competizione sportiva, che faranno?
Chiuderanno un occhio, perché quel che conta è il successo della propria squadra a prescindere dal mezzo per ottenerlo?
Oppure faranno il gesto tipico di chi è stato truffato, vale a dire non autoalimenteranno questa incredibile frode, disertando in massa gli stadi?
Difficile a dirsi, anche perché quando le malefatte sono così diffuse diventano parte normale di una società, con il risultato che ai rei si finirà con lo strizzare l'occhiolino.
In tal caso, il mio fondato timore è che i tifosi buggerati, di fronte alla chiusura di un occhio di chi dovrebbe sanzionare questi misfatti finiranno con il chiuderli tutti e due (come è sempre stato, del resto…).

L'americano
Così all'improvviso come se ne era andato, altrettanto inaspettatamente Cosimo Gasparini riapparve in paese, uno dei primi giorni di agosto del 1950, dopo ben 15 anni di assenza.
Scese dall'autobus, ritirò dal bagagliaio la valigia e si guardò intorno: nulla sembrava cambiato. Stava respirando a pieni polmoni l'aria umida, olezzante del putridume del vicino fiume quasi in secca, quando un'esclamazione lo fece trasalire.
- Ma sì, sei proprio tu, Cosimo! E' ritornato, gente,è ritornato!
Si volse a guardare chi lo chiamava e vide un uomo in tuta da meccanico, sulla porta di un'officina da fabbro, che gli si faceva incontro. Gli sembrò che il viso non gli fosse nuovo, ma c'era qualche cosa che non quadrava in quel volto, che un tempo doveva essergli stato familiare: una benda nera infatti copriva l'occhio sinistro.
- Non mi riconosci, cavolo. Non vedi che sono io, il Guercio.
- Il Guercio?
- Ah sì,è vero che tu mi puoi ricordare con tutti e due gli occhi; uno l'ho perso quando non c'eri edè stato in guerra. Però non puoi esserti dimenticato delle nuotate che facevamo nel Po, io nudo e tu pudico con le mutande tutte scucite.
Cosimo si portò la mano alla fronte, fissò il suo interlocutore ed esplose:
- Ma certo! E quando andavamo a rane di notte con la lampada ad acetilene e tu riempivi il sacco e poi ti divertivi a guardare quelle che cercavano di saltar fuori? Sì, ti riconosco, sei il mio vecchio amico Annibale!
- Sei vestito come un damerino, da gran signore. Hai fatto fortuna via e io ci avrei scommesso perché, anche se non hai studiato, hai sempre avuto una mente sveglia. Senti, facciamo un salto all'osteria, che lì troviamo senz'altro qualcun altro che ti conosce, e poi, detto fra noi, questo caldo, la polvere di ferro e l'urlata mi hanno fatto venir sete.
Nell'osteria erano in pochi ma, come si suol dire, di quelli buoni, cio è tutta gente che era in paese da una vita e che, avendo già udito l'urlata del Guercio, non poteva che riconoscere subito in quel signore elegante il Cosimo di tanti anni prima.
- Offro da bere a tutti, così da brindare al mio ritorno.
Inutile dire che questa frase fu accolta con tripudio e tutti gli si fecero intorno a chiedergli dove fosse stato, che cosa avesse fatto, se fosse sposato o avesse figli, una domanda dietro l'altra che non lasciava spazio alle risposte.
- Sono stato all'estero, perché in paese ero stufo di far la fame e di dover inghiottire anche l'olio di ricino dei fascisti; dove ero non c'era l'olio di ricino e non c'era la fame, tanto che come vedete ho messo su un po' di pancia.
Il Carruba, l'oste, anche per ingraziarsi l'uomo, esclamò:
- L'America è l'America, e là chi vuol darsi da fare diventa un uomo di successo!
La frase non piacque per nulla al Guercio, che nell'America vedeva il principale nemico del proletariato, ma, pur rabbuiandosi, preferì non replicare e anzi intervenne:
- Scusa Cosimo, come sai in paese ognuno ha un nomignolo: tu sarai l'Americano.
L'interessato sembrò voler puntualizzare qualche cosa, ma poi preferì desistere, spiegando solo che non era ritornato definitivamente, ma per un periodo di ferie di un mese, anche troppo per i pressanti affari che imponevano la sua presenza in ditta.
E che fosse arricchito lo dimostrò anche nei giorni successivi, con altre offerte di bevute, con la promessa che l'anno dopo sarebbe ritornato con un'automobile.
A chi gli chiedeva di che si occupasse rispondeva laconicamente, come uno che preferisse non parlare di lavoro durante le ferie, dicendo che lavorava nel mondo della finanza.
Dato che in paese non c'erano alberghi, si era offerto di ospitarlo a casa sua proprio il Guercio, ma lui aveva rifiutato, ringraziandolo, e aveva preferito stare dall'Annina, la bidella, che, per arrotondare il bilancio, era usa affittare una stanza della sua abitazione.
La circostanza non passò inosservata al Guercio che ricordava ancora il debole che Cosimo, anni prima, aveva avuto per questa donna, rimasta ora sola con un figlio, dopo che il marito, partigiano, era stato ammazzato dai tedeschi.
In paese, tuttavia, più d'uno era a conoscenza di questa lontana simpatia e in breve cominciarono a essere ricamate le chiacchiere.
Anche il Guercio decise di prendersi un po' di ferie e di trascorrere del tempo, nonostante gli impegni di partito, con il caro vecchio amico Cosimo.
La mattina presto, spesso i due si trovavano davanti l'osteria, con canne e lenze, e andavano a pescare lungo i numerosi canali di bonifica del circondario.
La pesca però era un pretesto per rivisitare insieme i luoghi della giovinezza e per discutere.
- Quella là in fondo mi sembra la vigna del Tula; quanti bicchieri di quello buono ci siamo fatti con lui. Un grande affarista, però un compagno di bisboccia ineguagliabile. Parlami di lui, di cosa ha fatto in tutti questi anni e se è cambiato.
- Per lui gli affari sono sempre stati il vero senso della vita e durante la guerra ne ha fatti ancora di più; poi, dopo l'8 settembre del '43, ha fiutato il cambio del vento, ma dato che non c'erano certezze è stato contemporaneamente con i piedi in entrambe le parti. Gli ho detto più volte che era un gioco pericoloso, una volta aiutare i partigiani e l'altra i repubblichini, ma non mi ha voluto ascoltare e alla fine qualcuno si è stufato. Una notte le camicie nere hanno bussato alla sua porta, l'hanno caricato su un autocarro e il giorno dopo l'abbiamo trovato sull'argine del Po coperto dalle mosche.
- E don Zeffirino, il parroco, che ha fatto durante la guerra?
- Ha fatto il prete e l'ha fatto bene: né con l'uno, né con l'altro, ma ha usato per entrambi la stessa misericordia. Forse può apparire sbagliato, ma io lo rispetto: fossero come lui tutti gli altri preti!
- E questa tua passione per la politica?
- Arriva un giorno in cui devi fare una scelta, giusta o sbagliata che sia, purché in buona fede: con l'arrivo dei tedeschi sono andato alla macchia e sono entrato nelle formazioni garibaldine; qualcun altro è andato con i repubblichini, molti per sete di potere e di guadagno, qualcuno perché credeva in quello che faceva e, fascista o no, questi ha tutto il mio rispetto. Finita la guerra, l'esperienza partigiana, che mi aveva insegnato a fare delle scelte, mi ha imposto di trovare un'idea che cambiasse questo mondo, dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Mi è sembrato che l'unica via fosse il partito comunista e vi ho aderito con entusiasmo, un entusiasmo che non si smorza mai di fronte anche a certe voci che vengono dall'Unione Sovietica.
Rimase un attimo assorto, come in imbarazzo, e proseguì:
- Sì, perché io credo a queste voci; là dove l'idea è sostituita dalla politica i sogni si infrangono, ma non i miei, segretario locale di un gruppo di cenciosi che sperano che qualcosa cambi e che danno tutto perché ciò avvenga.
- Lo sai che io sono un apolitico; eppure, questo non è bastato per sfuggire alle bastonature e all'olio di ricino dei fascisti, e questo solo perché osavo parlare, dire ciò che non andava.
Un'altra volta andarono in barca sul Po che, benché molto ridimensionato dalla magra estiva, restava tuttavia un fiume maestoso, non ancora ridotto a una cloaca come invece sarebbe avvenuto di lì a non molti anni.
Il Guercio, in piedi, remava e Cosimo stava seduto a prua, immergendo le mani nell'acqua.
Ogni tanto dalle rive si alzavano in volo gli aironi cinerini, rispecchiandosi nell'acqua lenta.
Cosimo li guardava, inebriandosi di quella natura, anche lei sempre uguale, se pur diversa.
- Sai Annibale…
- Chiamami Guercio.
- Non ci riesco, mi sembra di offenderti; mi vuoi dire com'è successo, insomma come in guerra hai perso l'occhio?
- Un'altra volta;è una storia lunga.
- Va bene e allora parliamo d'altro. Che fine ha fatto Luigi Marchetti?
- Disperso in Russia.
- E suo fratello Aldo?
- Imboscato, sempre insieme ai fascisti, solo per opportunità; alla fine della guerra è sparito, tanto che pensavamo che fosse scappato in Sudamerica.
- E invece?
- E invece ce lo siamo ritrovati in Parlamento con i democristiani; in primavera è tornato al paese per una visita ufficiale. Era il 25 aprile e ha commemorato la Liberazione; ha parlato, ma che dico, ha dato a tutti un lezione di antifascismo, tanto che quasi quasi mi ha fatto diventare simpatici i fascisti.
Si ammutolì, guardò l'acqua increspata, il solco aperto dalla prua che subito si richiudeva dopo la poppa.
- Cosimo, finita la guerra, ma non so se ci crederai, tanto sembra impossibile, non c'erano più fascisti; tutti, dico tutti, dal podestà al Ludron, lo sporco usuraio, erano diventati antifascisti e noi che avevamo rischiato la pelle alla macchia ci siamo trovati fianco a fianco con chi avevamo combattuto.
Passi per il medico condotto, il Dr. Chesi, un fascista che non avrebbe fatto male a una mosca, ma anche quel bastonatore di Guerra era finito con il passare con i partigiani negli ultimi giorni di guerra.
- E come avete potuto sopportare una cosa simile?
- Ordini superiori dei politici, di qualsiasi colore: la parola d'ordine è stata la riappacificazione nazionale, come se la Resistenza fosse stata una schermaglia di parole, e non una lunga serie di battaglie, di morti, di torture.
Anche il giorno prima del Ferragosto, i due si trovarono per una battuta di pesca e il Guercio, mentre appoggiati a un salice guardavano le lenze flosce sull'acqua, colse l'occasione per togliersi un sassolino dalla scarpa.
- Come va con l'Annina?
- Bene,è una gran brava donna, così com'è, da sola, a mandare avanti la baracca.
- Non evitare la risposta alla domanda; ricordo bene la simpatia che avevi per lei che, del resto, tutti in paese sanno.
- Non ci crederai, ma non l'ho nemmeno sfiorata;è ancor più bella di allora, ha messo su un po' più di carne e anche il seno ci ha guadagnato. Però, mi sono accorto che io per lei, come allora, non rappresento nulla e mai lo rappresenterò.
E' ancora innamorata di suo marito e questo amore lo riversa tutto sul figlio:è un piacere vedere la tenerezza di una madre, quando gli accarezza i capelli, quando lo lava. No, per me non c'è posto nel suo cuore.
- Dici la verità?
- Sì, Annibale, e perché dovrei dirti il contrario? Siamo entrambi liberi, io e lei, e nulla vieta che possiamo vivere insieme, tranne la mancanza di un amore reciproco. Lei mi ha detto che l'hai aiutata molto, soprattutto appena finita la guerra, quando stava in città e non aveva di che vivere…
Il Guercio quasi arrossì e troncò il tutto con un secco:
- Sciocchezze, cose da niente.
Verso sera, sulla via del ritorno, decisero di passare a trovare un comune amico, che aveva casa in golena. Non fu una decisione saggia, perché l'uomo, compagno di tante avventure di gioventù, non disse parola quando li vide, anzi rimase assorto, con occhi vuoti, a fissare il tramonto.
Una vecchia correva all'intorno a raccogliere le galline, imitandone il verso con suoni sgraziati.
La luce bassa del sole, quell'uomo dallo sguardo assente e la donna che s'affannava intorno al pollaio sembravano fuori ruolo nel panorama del fiume su cui i pioppi della riva protendevano una lunga fila di ombre
Si allontanarono alla svelta e Cosimo non poté fare a meno di chiedere al Guercio una spiegazione per quel comportamento.
- Caro mio, la guerra è una gran brutta cosa; lui era in marina e quando la sua nave fu affondata fu l'unico superstite di tutto l'equipaggio. Lo raccolsero in mare dopo ben dieci giorni, più morto che vivo, ma riuscirono a salvarlo. Purtroppo da allora non c'è più con la testa; come hai potuto vedere vive con la vecchia madre, perché la moglie, poveraccia, è scappata via con un tedesco alla fine della guerra.
Passò il Ferragosto e si avvicinava sempre di più il giorno in cui l'Americano sarebbe ritornato da dove era venuto.
Una sera, mentre passeggiavano sull'argine, smanacciando per le troppe zanzare, Cosimo, quasi fra sé e sé, mormorò:
- In questi giorni ho osservato tanto e nulla è cambiato: le stesse abitudini, la medesima atmosfera di allora. Eppure, tutto mi sembra diverso, come un'immagine sfocata; forse, sono io che sono cambiato, che non riesco più a ritrovarmi nel mio paese.
- E dai, Cosimo, non fare il piagnone:è la malinconia per il giorno che si avvicina.
- No,è la certezza di un passato che non ritornerà.
- Senti, cambiamo argomento; dimmi un po' da dove vieni e che cosa fai.
Cosimo si fermò, guardò l'amico negli occhi, si lasciò sfuggire un sospiro, poi si decise a parlare.
- Mi hai chiamato l'Americano, ma chi mai l'ha vista l'America?
Quando ho lasciato il paese sono andato in Francia da mio cugino e là ho lavorato per un paio d'anni nelle vigne di un conte, con una paga da fame simile a quella che prendevo qua; allora sono scappato in Belgio a lavorare in miniera e quando ci sono state le prime avvisaglie della guerra sono emigrato nuovamente.
- Magari hai pensato di andare in America?
- Macché; volevo andare in un posto che non c'entrasse con le guerre e già allora si sapeva che l'intervento americano era solo una questione di tempo… Ho sempre odiato la guerra, quell'atmosfera greve che accompagna la gente, quell'angoscia che corrode l'animo giorno dopo giorno.
- E allora?
- Allora sono andato in Svizzera, a Zurigo; ho fatto lo sguattero, lo spaccalegna e infine mi sono trovato con altri tre italiani, poveracci come me; abbiamo fatto una piccola società, un'impresa di pulizie di uffici e lavoriamo per alcune banche di quella città.
Il Guercio si lasciò sfuggire una risata, scusandosene immediatamente.
- E pensare che tutti sono convinti che tu lavori nella finanza! Beh, in un certo senso, sì.
- Caro Annibale,è un lavoro duro e in tutti questi anni ho risparmiato centesimo su centesimo per mettere da parte un gruzzoletto che mi possa permettere di vivere dignitosamente al mio paese; però, prima, e anche perché la somma non è ancora sufficiente, ho voluto vedere se è ancora il mio paese.
- E lo è?
- Non lo so, ma spero di sì.
Un giorno che stavano facendo un giro in bicicletta, su una strada polverosa e tutte buche, Cosimo si rivolse all'amico.
- Mi devi togliere una curiosità: perché a volte usi la benda e altre hai l'occhio di vetro?
- La benda è per l'officina, perché non entri la polvere di ferro; l'occhio di vetro, che fra l'altro non riesco mai a fissare bene,è per tutte le altre volte, compreso quelle in cui faccio all'amore, perché mia moglie dice che si impressiona a vedere l'occhiaia vuota e va a finire che si blocca sul più bello.
- Già che ci sono, ricordo l'Annibale dei miei tempi … gran bestemmiatore, e che parlava come un bifolco; adesso sei diverso, sembri quasi uno che ha studiato.
Il Guercio fece una risatina:
- E' vero, ma tutto questo è merito di Trepassi, un vecchio che non puoi aver conosciuto perchéè ritornato dall'estero, dove lavorava, quando tu eri già andato via. Lui mi ha insegnato più di ogni maestro e di ogni commissario politico. E' un anarchico, un uomo libero da tutto e da tutti e, prima o poi, se capiterà l'occasione, te lo faccio conoscere.
- Certo che per noi è stata la vita la nostra scuola.
- E che scuola!
- Ricordi la prima volta che siamo andati al casino?
- E come no.
- Ci sembrava di compiere un'impresa, pensavamo a chissà quali follie e poi per la tensione e l'emozione tu hai fatto cilecca.
Il Guercio esplose in una risata sguaiata:
- Pensa che credevo di essere un finocchio!
- Sì,è vero, mi ricordo bene che ti ho detto anche che avremmo ritentato un'altra volta.
- Ma non c'è stata un'altra volta, almeno con le puttane. In verità ho imparato il vero significato della parola amore solo con mia moglie. E tu, ce l'hai una donna?
- No, ci potrebbe essere, l'ho sempre amata, ma per lei, come sai, sono poco più che un amico.
- Non disperare. Chissà che con il tempo l'Annina non ci ripensi; ne sarei felice per entrambi.
Cosimo non rispose, anzi si mise a spingere con più forza sui pedali, gridando:
- Facciamo a chi arriva primo alla casa cantoniera?

A fine agosto partì, con la promessa che sarebbe ritornato.

Passarono alcuni anni senza che se ne avessero più notizie e ormai quasi tutti lo avevano dimenticato quando un giorno il sindaco chiamò il Guercio; gli comunicò, imbarazzato, che dal Municipio di Zurigo gli avevano scritto che il Sig. Cosimo Gasparini era morto e che la salma sarebbe ritornata il giorno dopo con il treno delle 15; gli consegnò una lettera indirizzata all'Annina e, a parte, un assegno di 5.000 Franchi svizzeri con un'altra lettera, questa volta indirizzata al Sig. Annibale Chiocchetti.
Strinse la mano al Guercio e gli porse le condoglianze.
- So che eravate molto amici; non ho parole.
Il Guercio rientrò alla svelta all'officina, si chiuse nel suo ufficetto e aprì la busta destinata a lui.
Gli tremavano le mani e appena cominciò a leggere gli si inumidirono gli occhi.
Caro Annibale,
prima di tutto ti chiedo di spendere bene i 5.000 franchi svizzeri dell'assegno;è un piacere grosso quello che ti chiedo, ma sarebbe un mio grande desiderio se tu con il denaro provvedessi ai bisogni più urgenti di Annina e suo figlio, cercando di farlo studiare, in modo che abbia un avvenire. Annina però non lo deve sapere; mi raccomando di non dirle nulla.
Per le spese del funerale ho già provveduto in Svizzera e mi basta una semplice sepoltura in terra e una croce.
E' bello il nostro paese e spero che resti tale.

Il Guercio si asciugò l'occhio con la manica della tuta e si strinse forte la fronte con la mano.
Speravo di tornare in un altro modo, ma si vede che non ero destinato; ho avuto una vita difficile, senza affetti, ma quel mese che ho passato da voi è stato il più bel regalo che potessi avere, più di ogni fortuna in denaro, più di ogni successo.
Un caro abbraccio
Cosimo
E il Guercio, che pur in vita sua ne aveva viste e provate tante, si mise a singhiozzare come un bimbo, poi si asciugò e fu preso dall'irrefrenabile curiosità di leggere la lettera indirizzata all'Annina. Con pazienza certosina scollò la chiusura, prese il foglio e lesse.
Grazie di tutto.
Cosimo
Solo quelle tre parole e la firma; si fermò un attimo a pensare e alla fine si rese conto di aver capito come in così poco Cosimo avesse detto così tanto.
Il giorno dopo tutto il paese partecipò ai funerali, e più d'uno che non sapeva - perché il Guercio non disse mai nulla in proposito - ebbe a commentare che l'Americano, se aveva avuto fortuna negli affari, non ne aveva avuta altrettanta nella vita.
(da "Storie di paese")

Best seller
"Carissimo editore,
è con animo affranto che ti mando la mia opera che tutti gli altri hanno rifiutato.
Non so perché tu sei l'ultimo che la riceverai, cio è non ti so dire perché nella classifica occupi l'ultima piazza, ma probabilmente è perché sei sfigato come me. Ho visto il tuo catalogo: nessun problema di scelta, visto che hai solo un romanzo di uno un po' meno sconosciuto di me. E allora mi sono detto: quel titolo da solo si annoia poverino e chissà come starebbe in compagnia con quello della mia fatica. Sì, fatica, non tanto a scrivere il romanzo, ma a trovare anche un cane disposto a pubblicarlo. In quelle pagine ho messo tutto me stesso, in quelle righe c'è ogni minuto della mia vita. La trama forse non è interessante, la sintassi lascia un po' a desiderare, ma è tutta roba mia, anche le pagine più scabrose, con la descrizione del primo rapporto, ovviamente andato buco (te l'ho detto che sono sfortunato).
C'è tutta la mia merda di vita, con il matrimonio fallito già durante la luna di miele, la ricerca di un lavoro che mi aiutasse a dimenticare la delusione amorosa e quando l'ho trovato alla fonderia la ricerca di una donna che mi facesse dimenticare il tedio del lavoro. Vedi, io ho sempre cercato qualche cosa nella vita e quando credevo d'averla trovata dovevo cercarne subito un'altra. Le ho provate tutte per cambiare, ho pensato perfino di farmi prete, ma quando credevo di aver trovato la vocazione per nostro signore Gesù Cristo ho sentito un crescente interesse per il buddismo. No, nessun timore di vedermi vestito di arancione, perchéè un colore che detesto. Nel mio libro scrivo tutto questo, parlo di questa sfiga che mi perseguita in tutte le occasioni, anche le più semplici, come quando all'ultima lotteria di capodanno il numero del biglietto vincitore del primo premio era immediatamente precedente a quello del mio e quello che si è aggiudicato il secondo premio era immediatamente successivo.
Visto che con le donne andavo buco, ho provato anche con gli uomini, ma anche lì, o ci si nasce, o non ci si diventa: insomma ho provato una sola volta e ancora la parte mi duole.
Lo so che non sarà facile vendere il mio libro, ma qualche cosa nella vita la debbo fare per essere certo di esistere e allora ho avuto l'idea geniale che ne farà un successo senza precedenti. Legga il titolo. Letto? Il primo e l'ultimo, perché il suo autore in segno di protesta contro una vita da sfigato si toglierà la vita. Mi immagino già i titoli: il best seller dell'anno, un romanzo verità.
Ho fatto tutte le cose per bene: ho messo il francobollo sulla busta, l'indirizzo esatto e una volta terminata questa mia la piegherò ben bene, con il massimo della precisione; poi la metterò nella busta e la incollerò. Indi mi sparerò un solo colpo, una volta infilata la canna in bocca.
Mi sto esaltando, anche perché penso proprio di esser riuscito a dare un calcio alla sfiga.
Grazie infinite.

Suo….
"

- Maresciallo, ma ha letto questa lettera?
- No, me la faccia vedere.
- Più sfigato di così…
- Perché?
- Si è sparato prima di imbucare la lettera.


Riflessione

Il referendum del 25 e del 26 giugno

Come molti penso sapranno, il 25 e il 26 giugno gli italiani saranno chiamati alle urne per esprimere il loro voto sulla proposta di referendum avanzata dal comitato avverso alla riforma costituzionale deliberata dal precedente governo con il voto favorevole solo dello schieramento di centro-destra.

Questa legge, meglio conosciuta con l’appellativo di “devolution”, a chiaro sintomo della sudditanza non solo politica, ma anche culturale di non pochi italiani, attua una profonda e corposa riforma della nostra costituzione, con il pretesto di adeguarla alle mutate esigenze della nazione, uniformandola ad analoghi statuti che reggono paesi definiti dai proponenti più evoluti e moderni, quali la Francia, gli Stati Uniti d’America e l’Inghilterra.

A parte il metodo con cui si è avviata e deliberata questa riforma, per nulla in sintonia con lo spirito della nostra Costituzione, intesa dai padri fondatori della Repubblica come una “Casa Comune”, ritengo opportuno mettere in evidenza come si debba parlare più di riforma politica con implicazioni istituzionali che di rinnovamento istituzionale con riflessi politici.

La mancanza di collegialità del nostro parlamento nell’approvare questa riforma dimostra da sola, e inequivocabilmente, che si tratta di un qualche cosa di parte e non di una concertazione comune.

Si è parlato di benefici in termini di snellezza delle procedure legislative, di minori costi per un più ridotto numero di parlamentari, di una chiarezza esemplare nelle attribuzioni dei poteri, ma posso tranquillamente affermare che ciò non risponde al vero.

Quindi è opportuno tratteggiare le novità di questa legge, limitandomi, non solo per ragioni di spazio, ma anche perché penso che sarebbero di difficile comprensione alla maggior parte dei lettori, non adusi a termini giuridici, a delineare quelle che appaiono più rilevanti e controverse.

Mi riferisco ” in primis ”, alla riforma del Capo del Governo.

Il testo costituzionale non parla più di Presidente del Consiglio dei Ministri. Parla di “Primo Ministro”. Si utilizza, cio è, un termine, che non a caso la Costituente non aveva utilizzato. L’espressione “primo ministro” infatti era stata introdotta da una delle c.d. leggi fasciste (l. 24 dicembre 1925, n. 2263, art. 1).

Nella riforma il Primo ministro:

-è eletto a suffragio universale e diretto dal popolo (art. 92);

- non necessita della fiducia della Camera (“ … la Camera si esprime con un voto sul programma …” (art. 94, comna 1);

- il Primo ministro determina la politica generale del Governo. Egli dirige, promuove e coordina l’attività dei ministri. Non è più, quindi, come nel sistema attuale, uno sopra le parti;è il capo-padrone che comanda e dispone.

- Il Primo ministro chiede al Presidente della Repubblica lo scioglimento della Camera dei deputati, che provvede con decreto (art. 88, comma 1, lett. a)).

- “Il Primo ministro può porre la questione di fiducia e chiedere che la Camera dei deputati si esprima con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle Proposte del Governo, nei casi previsti dal suo regolamento. La votazione ha luogo per appello nominale. In caso di voto contrario il Primo ministro si dimette” (art. 94, comma 2)
Le dimissioni del Primo ministro comportano lo scioglimento della Camera (salvo nel caso in cui venga presentata una mozione di sfiducia costruttiva, oggetto di una disciplina estremamente complicata e di fatto inapplicabile).

In buona sostanza, il Primo Ministro può sciogliere la Camera, ma questa non può sfiduciarlo senza determinare con la sua stessa sfiducia il proprio scioglimento. Quindi la vita della Camera e quella del Primo Ministro corrono sullo stesso binario,  nel senso che esistono e cadono insieme.

E’ facilmente comprensibile come ciò comporti un radicale stravolgimento del garantismo costituzionale, elemento portante della Costituzione del 1948.

Inoltre, questa norma di fatto ci esclude dai principi democratici dei maggiori paesi occidentali, perché in nessun sistema il parlamento si regge sulla fiducia del governo, senza dimenticare che in tal modo viene a mancare l’indispensabile indipendenza fra l’esecutivo e il legislativo.

A fronte delle critiche il governo precedente ha tentato un espediente sterile, dicendo semplicemente che si è operato in analogia con le costituzioni francesi, inglesi e americane.

L’affermazione non solo è inesatta, ma falsa e dimostro subito il perché.

L’art. 12 della Costituzione Francese prescrive che: “Il Presidente della Repubblica può, sentito il Primo ministro e i Presidenti delle Assemblee, sciogliere l’Assemblea nazionale”.

Negli Stati Uniti il Congresso è del tutto indipendente rispetto al Presidente. Il Congresso non può sfiduciare il Presidente; il Presidente non può sfiduciare il Congresso.

Il riferimento alla Costituzione inglese, ammesso sia possibile,è ancora più inesatto. La Costituzione del Regno Unito non è come quella italiana una Costituzione scritta; essa è il risultato di stratificazioni successive nelle quali ha un ruolo rilevante la prassi. E’ quindi a priori metodologicamente sbagliato porre a confronto due esperienze così diverse. In ogni caso il potere di dissolution (potere di scioglimento delle camere) che in epoca passata è stato di fatto utilizzato dal Premier inglese oggi è “caduto in desuetudine nella Gran Bretagna del parlamentarismo avanzato” (Torre, in www.associazionecostituzionalisti.it). La dissolution è quindi un decrepito fantasma del sistema costituzionale britannico, sistema in cui, in ogni caso, il premier dopo le elezioni è (a differenza della riforma Costituzionale che stiamo esaminando) soggetto alla fiducia parlamentare. (*)

Insomma, il rischio è che si introduca una tirannia della maggioranza.

Il Presidente della Repubblica, già con pochi, ma ben delineati poteri, diventa una figura meramente rappresentativa, una sorta di re senza scettro e senza trono, senza più nemmeno rappresentare l’unità nazionale, perché il dominus sempre, e comunque, sarà il Primo Ministro.

La vera e propria devolution, cio è il trasferimento di alcune competenze dallo Stato alle regioni,è contenuto nel nuovo articolo 117. In buona sostanza la sanità, la scuola e la polizia locale saranno di esclusiva competenza regionale, con l’inevitabile conseguenza di disparità di trattamento, anche essenziali, fra una realtà e un’altra. A questa norma poi si associa anche il cosiddetto “Federalismo fiscale”, da attuarsi entro tre anni dall’entrata in vigore della nuova costituzione, con il riconoscimento di un’ampia autonomia impositiva alle Regioni,alle Province, alle Città Metropolitane e ai Comuni.

Come per gli altri precedenti articoli, tuttavia, non vengono ben definiti i poteri delegati e di conseguenza, al di là dell’opportunità o meno della normativa,è più che lecito attendersi un’insorgenza di conflitti fra organismi che, anziché snellire l’apparato pubblico, finirà con l’appesantirlo in misura non facilmente prevedibile, ma senz’altro corposa.

Ciò premesso, dopo questa disamina abbastanza veloce e peraltro non dell’intera legge di riforma costituzionale, nel mentre mi corre l’obbligo di evidenziare come in effetti sia necessario un ammodernamento del nostro Statuto, pur senza arrivare a violarne lo spirito, faccio presente che la precedente maggioranza ha di recente riconosciuto essa stessa i non pochi limiti e difetti della sua legge, proponendo all’attuale governo un’azione concertata per pervenire a un generale aggiustamento. Un’ombra però grava sulla sincerità di questo proposito: che il centro-destra sia divenuto accomodante nel timore che il 25 e il 26 giugno gli italiani boccino questa legge, con inevitabili ripercussioni politiche e di immagine.

Da parte mia sono dell’idea, come del resto persone molto più edotte di me nella specifica materia (si può dire che pressoché tutti i costituzionalisti hanno bocciato questa legge), ripeto sono del fermo convincimento che al seggio non debbano esserci dubbi, che il “NO” debba essere chiaro e inequivocabile, proprio per dimostrare a chi voleva stravolgere concetti radicati che il potere è e deve restare nelle mani dei cittadini italiani.

Formulo anche un appello: non disertiamo questo appuntamento, affluiamo in massa, dimostriamo a noi stessi e al mondo intero che siamo un popolo che vuole restare libero di decidere il proprio avvenire.

(*) Giuseppe LOSAPPIO. Brevi riflessioni sul metodo e sui contenuti (il c.d. premierato in particolare) di una riforma della costituzione francamente anti-costituzionale

 Articolo reperito sul sito http://www.referendumcostituzionale.org/


La grande piena
Correva il novembre 1951, tredici mesi esatti da che si erano concluse le elezioni amministrative comunali che avevano visto la vittoria, se pur per pochi voti, della lista civica, di fatto creata e sostenuta dalla Democrazia Cristiana. Anche in quell'occasione il Fronte Popolare, riunito sotto l'insegna di Civiltà e Progresso, aveva fallito, nonostante l'attivismo a tutto campo del Guercio. I motivi di questa sconfitta erano molteplici, ma su tutti pesava la personalità del sindaco della lista vincitrice, il prof. Teofilo Romani, considerato, non a torto, il cittadino più illustre. Laureato in filosofia a pieni voti, insegnante della stessa al liceo classico della vicina città, era l'autore di un saggio su Sant'Agostino che aveva attirato l'attenzione del Vaticano al punto da meritare un'ampia e positiva recensione sull'Osservatore Romano.
Benché non fosse politicizzato di fatto gli fu imposto di candidarsi, cosa che fece con una certa riottosità, perché uomo avulso dai problemi contingenti del mondo, sempre assorto nei suoi pensieri, tutto lavoro, libri e chiesa. Poco importava che si curasse assai di rado della moglie e che questa, insoddisfatta, lo tradisse; la circostanza gli era nota, ma il suo quasi fanatismo religioso gli impediva di prendere, anche solo in considerazione, l'ipotesi di una separazione.
Così la coppia era assidua alle messe festive, ma poi, usciti di chiesa, ognuno se ne andava per la sua strada, il che voleva dire per lei gli appuntamenti con gli amanti e per lui le lunghe letture nella biblioteca di casa.
La sua astrazione dai problemi correnti era altresì un vantaggio per gli altri eletti della sua lista, per quegli assessori che tranquillamente facevano solo i loro comodi, come il geom. Francesco Archibugi, delegato all'urbanistica, titolare di una ditta di costruzioni e quindi in chiaro conflitto di interessi. Appena assunto il suo mandato, aveva fatto briciole del progetto del precedente governo, e con la scusa di migliorare la viabilità interna e di modernizzare il paese si era costruito un piano regolatore a hoc. Erano iniziati così gli espropri che avevano interessato una decina di famiglie, guarda caso quelle che avevano casa proprio in centro. Nella circostanza, il geometra con una sensibilità rara si era accollato l'onere di sistemare gli sfrattati in una nuova palazzina in corso di costruzione, ultimata in fretta e furia nell'ottobre del 1951, con un'inaugurazione in pompa magna.
Presenti tutti i consiglieri comunali e anche il sindaco, il parroco, Don Zeffirino, aveva impartito la benedizione all'opera e già nell'occasione si era potuto notare l'eccelsa qualità della costruzione, poiché gli schizzi dell'aspersorio, raggiunti i muri, avevano quasi istantaneamente sciolto l'intonaco, mettendo a nuda il rosso dei mattoni sottostanti. Le piogge di quell'autunno poi avrebbero fatto il resto, con gli inquilini dell'ultimo piano a raccogliere in secchi l'acqua che filtrava dal soffitto e quelli del piano terra intenti invece a combattere con i riflussi dello scarico fognario.
Si è parlato di pioggia e quello fu un anno ricco d'acqua, anche troppa. Già dai primi di novembre il Po cominciò ad ingrossarsi, dapprima in modo quasi impercettibile, poi dal giorno 11 in maniera evidente. Più l'acqua cresceva, più serpeggiava la paura, ma, a parte l'istituire delle ronde di controllo anche notturne, non vennero presi dalle autorità altri provvedimenti. Fu proprio in questa occasione che ancora una volta emerse lo spirito organizzativo del Guercio.
Grazie a un amico ingegnere, che aveva ispezionato con lui gli argini, furono individuati i punti critici, che avrebbero dovuto essere rafforzati, almeno con dei sacchi riempiti di terra, ma le autorità puntualmente disattesero le richieste in tal senso.
E il Po si gonfiava sempre di più, sbattendo contro i vecchi piloni del ponte ferroviario che gemeva sotto quella spinta.
Finalmente, alla sede provinciale della Democrazia Cristiana si accorsero del problema e fu dato ordine al sindaco, prof. Teofilo Romani, di provvedere con la massima urgenza. Il poveraccio, che manco s'era accorto di tutti quei giorni di pioggia, delegò l'incarico all'assessore all'urbanistica che non trovò di meglio che abbozzare un progetto di sfollamento del tipo "Si salvi chi può".
Don Zeffirino non poté non accorgersi di questo sfacelo e pensò bene di interessare l'unico che avrebbe potuto fare qualche cosa.
L'incontro avvenne dietro la canonica e fu incisivo e rapido, come richiedeva la situazione.
- Annibale, con la politica ci siamo tirati la zappa sui piedi, con un sindaco onesto, ma incapace, e un assessore all'urbanistica capace, ma disonesto. E' per il bene di tutti che ti chiedo di trovare una soluzione.
Il Guercio fissò con l'unico occhio il parroco, si grattò il mento, poi rispose - E va bene, ma lo faccio perché sono parte di questo paese, perché il pericolo è comune. Organizzerò i miei uomini, ma mi servono degli aiuti: ho bisogno di terra, di sacchi che possano contenerla, di autocarri che la portino sull'argine dove dirò io, e tutta questa roba me la deve dare chi ce l'ha, cio è quel porco del geom. Archibugi.
- Non preoccuparti, provvedo subito.
E infatti, dopo nemmeno due ore, il responsabile di cantiere del geometra si mise a disposizione del Guercio.
Come fosse riuscito Don Zeffirino a convincere l'imprenditore non si seppe mai, anche se qualcuno malignò, ipotizzando una sorta di ricatto per tutta quella ricchezza che gli era venuta dalla guerra.
Il Guercio si mise all'opera e, grazie a un rapido passa parola, riuscì a raccogliere intorno a sé un migliaio di volenterosi.
Li divise in squadre di sorveglianza e di pronto intervento e prese ad andar avanti e indietro sull'argine pedalando come un dannato, misurando spesso il livello dell'acqua.
Il giorno successivo la situazione si fece quasi all'improvviso di assoluta drammaticità; l'acqua correva con un rumore sinistro, sbatteva contro gli argini nelle anse, distruggeva sistematicamente tutti i pennelli, strappava alberi dalle rive, si allargava nelle golene. Portava con sé un incredibile varietà di rottami, quali tronchi, barche e barconi, usati poi come arieti contro le sponde, quasi che il fiume cercasse disperatamente una via di fuga dove poter espandersi.
Ogni tanto, anche a distanza di qualche centinaio di metri, l'acqua riusciva a passare sotto gli sbarramenti ed esplodeva in giganteschi fontanazzi, prontamente circoscritti dagli uomini del Guercio con i sacchi.
Sotto una pioggia incessante, quasi immersi nel fango, questi sconosciuti volontari avevano ben poco tempo per mangiare e per dormire e ogni tanto capitava chi, fra i meno robusti, si lasciasse cadere a terra, vinto dalla stanchezza e dallo sconforto.
Il giorno 13 novembre il Guercio cominciò a pensare che "Il si salvi chi può" restasse l'unica possibile soluzione; infatti, l'acqua già lambiva la sommità dell'argine e, se non ci fossero stati i sacchi di terra, si sarebbe riversata con tutta la sua furia e potenza a inondare la valle, abbattendo case, distruggendo raccolti, rendendo lunare il paesaggio della fertile pianura padana.
Nel primo pomeriggio fu raggiunto dal sindaco.
- Come va Annibale?
- Come vuoi che vada…lo vedi anche tu; se cresce con lo stesso ritmo delle ultime ore non basta un muro di sacchi alto tre metri.
- Mi devi scusare, se sono un incapace. Ho deciso che, finita questa catastrofe, mi dimetto e cedo il mio posto a te.
- Ma dai! Lo sai che non è possibile, anche perché siamo di partiti opposti.
- E allora, come posso fare per dare una mano?
- Teofilo, non so se conterà, ma fa l'unica cosa che sai fare bene. Va in chiesa e prega, prega continuamente e speriamo che ci sia qualcuno che ti ascolti.
Verso sera cominciarono ad arrivare dalla città gli autocarri dell'esercito per portare in salvo la popolazione. Il Guercio, però, non si diede per vinto e scongiurò il comandante di mettere i mezzi a disposizione per quella grande battaglia. Questi parlottò via radio con il suo comando e poi diede la sua disponibilità.
C'era un punto, vicino all'argine maestro, che più di tutti preoccupava il Guercio. Lì il fiume faceva una curva stretta e la velocità e la massa dell'acqua sbattevano sempre nello stesso posto. Le osservazioni, più volte effettuate durante il giorno, dimostravano chiaramente che era in corso un'erosione impressionante. Ci sarebbero voluti un bel po' di massi, precipitati in acqua, per vincere la forza degli elementi, ma questi non c'erano e allora il Guercio ne combinò una delle sue.
Propose infatti al capitano che comandava le truppe di soccorso di utilizzare, al posto dei massi, i dieci autocarri che aveva a disposizione. Questi ovviamente rifiutò, ma il Guercio, che aveva previsto la risposta, gli puntò la sua vecchia pistola da partigiano, dicendogli:
- Vuoi che li butti in acqua con il tuo cadavere, o che li spingiamo dentro assieme?
La risposta fu del tutto ovvia e insieme precipitarono nel fiume tutti e dieci gli autocarri.
La notte trascorse febbrilmente, con il Guercio, che ormai non dormiva da 48 ore, intento ad andare su e giù, controllando, verificando, impartendo ordini.
Si giunse così all'alba, con l'acqua ormai trattenuta a stento dagli infradiciati sacchi di sabbia.
Il Guercio si mise in disparte, dietro una pianta; guardò il suo paese, le vecchie case che avevano visto la sua infanzia, l'officina dove aveva imparato a lavorare, la chiesa con il campanile danneggiato dai fulmini, e si mise a singhiozzare. Non gli importava più del partito, della sua attività, perché da lì a poco il suo mondo sarebbe naufragato. Si accorse allora che la pioggia stava cessando e che un pallido sole cercava di affacciarsi nel cielo grigio. Udì il cinguettio di un passero, un suono debole e rimase stupito, perché non si sentiva più il cupo mugghiare del fiume. Corse all'argine, si sporse oltre i sacchi e guardò in basso. Incredibile, ma vero: il livello stava scendendo. Con quanta forza gli era rimasta gridò: - Cala! Cala! La piena è passata!
E lungo tutti gli argini, in ogni paese, come un tam tam, il grido fu ripetuto, tanto da diventare un unico coro, in concorrenza con le campane che suonavano a festa.
Il sindaco urlò anche lui, anzi gridò al miracolo, convinto che lo fosse.
La radio intanto gracchiava dicendo di tre grosse falle prodottesi negli argini maestri nella zona di Occhiobello, con l'acqua che trovava sfogo nelle basse terre del Polesine, provocando numerose vittime e danni incalcolabili.
Il Guercio rientrò a casa: l'attendeva la moglie che l'abbracciò e lo sostenne fino al letto, dove restò, quasi inanimato, per 24 ore.
Il grande pericolo era passato, il fiume lentamente ritornava alla normalità, ma la storia non finisce qui.
Infatti, il capitano dell'esercito dovette giustificare la sparizione dei dieci autocarri e ovviamente raccontò delle minacce del Guercio. Lo vennero a prendere una mattina i carabinieri e, invero a malincuore, lo condussero alle carceri della città. Fu riconosciuto colpevole di svariati reati e rinviato a giudizio. Il processo, nonostante l'epoca refrattaria all'incalzare delle notizie, assunse una notorietà incredibile, vista anche la figura politica dell'imputato.
C'era anche da considerare il gesto eroico dell'aver contribuito al salvataggio di tante vite umane e così dall'alto si decise che non conveniva a nessuno esacerbare gli animi.
Ci furono quindi pressioni sulla Pubblica Accusa e sui giudici e infine si trovò la soluzione, che avrebbe salvato capra e cavoli: non doversi ulteriormente procedere, perché l'imputato aveva agito in stato di necessità e nel comune interesse.
Insomma, poco ci mancò che si arrivasse a un finale da fiaba, con la fatidica frase "tutti vissero felici e contenti".
Il sindaco rimase al suo posto, come l'assessore all'urbanistica, il Guercio ritornò alla sua officina, il capitano fu promosso maggiore, ma ci vollero anni per sistemare i danni nel Polesine e, soprattutto, nessuno poté rimediare alle 84 vittime della grande piena.
(da "Storie di paese")  

L'uomo dei treni
- Quando sono partito questa mattina era già là e quando sono ritornato l'ho ritrovato seduto sulla panchina di ferro sgangherata, incurante dell'umidità e del freddo. Così da più di due mesi, da quando gli è morta la moglie.
Il Guercio si grattò il mento e poi si rivolse al suo interlocutore che, per lavoro, andava ogni giorno in città utilizzando il treno - E tu non gli hai mai chiesto perché sta lì?
- Sì, un paio di volte e mi ha sempre risposto che aspetta, solo non si sa che cosa. Guercio, quello è vecchio, con la morte della moglie è andato giù di testa. Se non si fa qualche cosa, va a finire che si ammala.
- Va bene, vedrò di parlargli.
Il giorno dopo il Guercio fece un salto in stazione, si guardò intorno e vide il vecchio seduto sull'unica panchina; gli si avvicinò e gli chiese - Signor Testa, aspetta il treno?
- Sì, ma come al solito è in ritardo.
- Beh, non si può aver tutto; fino a qualche hanno fa non c'era nemmeno un treno, per colpa della guerra, la linea era distrutta e ora lentamente si sta ricostruendo e i convogli ricominciano a passare, anche se non hanno un orario fisso. Deve andare in città, per caso?
- No, aspetto il treno fino a quando lui non scenderà e mi correrà incontro per abbracciarmi.
- Scusi, lui chi?
. Franco, mio figlio, disperso in Russia. Che vuol dire disperso? Che non lo trovano e che quindi magari è in un campo di concentramento, dove soffre le pene dell'inferno e nemmeno sa che la sua mamma è morta.
Il Guercio avvertì un improvviso imbarazzo, un senso di inquietitudine per l'atteggiamento rassegnato, ma ancora con un filo di speranza, di quel povero vecchio, rimasto solo e nel dubbio per la sorte del figlio.
E fece allora una cosa di cui in seguito avrebbe avuto modo di pentirsene: offrì al genitore tutta la sua disponibilità per cercare di ritrovare il disperso.
Si mise in moto subito; dapprima ne parlò al segretario provinciale del partito che gli fece tante ampie promesse di interessamento da avere più di un ragionevole dubbio sul mantenimento delle stesse. Decise, comunque, anche per una questione di gerarchie, di attendere un po' prima di tornare alla carica, cosa che fece dopo un mesetto.
- Caro compagno, hai avuto notizie del disperso in Russia?
- Che cosa?
- Ma sì, quel caso di cui ti ho parlato una trentina di giorni fa.
- Mi sono interessato, ma sono ricerche lunghe, laboriose, e non si sa ancora nulla.
Il Guercio, sempre sospettoso, escogitò il sistema per verificare se le parole del suo capo rispondevano a verità e, accomiatandosi, così come per caso buttò lì - Che cosa devo dire allora al Sig. Festucci per le ricerche di suo figlio Carlo?
E quello, con una naturalezza impressionante, nell'accompagnarlo alla porta, pronunciò con tono solenne una frase che fece andare il sangue al cervello del Guercio - Gli devi dire che il segretario provinciale ha sempre impresso nella sua mente il nome di Carlo Festucci e che quanto prima sarà possibile dargli una risposta.
Come arrivò in strada, cominciò a tirar moccoli a tutto spiano finché, sbollita l'ira, ritrovò se stesso e la sua capacità di ragionare. Il problema era ora cosa dire al vecchio quando sarebbe sceso dal treno che lo riportava dalla città in paese.
Ci pensò continuamente durante il breve tragitto, ma senza trovare una soluzione. Quando la locomotiva si fermò sferragliando, scese a occhi bassi e guardò subito verso la panchina. Il vecchio si era alzato in piedi a guardare la gente che lasciava le vecchie carrozze di legno, ma poi, quando tutti abbandonarono il marciapiedi, ritornò a sedersi, impassibile.
Il Guercio tirò un sospiro di sollievo e lasciò velocemente la stazione, ripromettendosi però in cuor suo di tentare nell'impresa accedendo a gerarchie più elevate.
L'occasione gli si presentò all'incirca tre mesi dopo, alla festa provinciale dell'Unità; una sera era atteso come un vate addirittura il segretario generale del partito, quel Palmiro Togliatti che tanto incantava le folle di operai e contadini.
Il problema era di avvicinarlo; il Guercio sapeva che non avrebbe potuto parlargli alla presenza del segretario provinciale e allora pensò scrivergli una bella lettera in cui spiegava la questione, senza tuttavia far cenno al tentativo esperito infruttuosamente.
Meditò a lungo sulle parole, poi decise di mettere tutto nero su bianco.
"Caro compagno,
so che i tuoi impegni sono sovrumani, ma ti chiedo una cortesia, e non per me, ma per un povero padre, vedovo, che dispera di rivedere l'unico figlio disperso durante la seconda guerra mondiale nell'Unione Sovietica.
Se tu, grazie ai contatti che hai là, puoi fare ricerche, non solo io e questo sventurato padre, ma tutti i lavoratori del mio paese te ne saranno eternamente grati e il partito avrà un motivo in più per essere orgoglioso." La lettera si chiudeva con i convenevoli e con i dati anagrafici e militari del disperso.
Quando gliela consegnò personalmente, in mezzo a un frastuono di suoni e di voci, gli tremavano le mani e fu con disappunto che vide che lui non era che uno dei tanti che aveva escogitato quel modo per comunicare con il capo del partito.
Durante il ritorno al paese si sentì vincere dall'angoscia che tutto fosse stato inutile e che quella sua lettera potesse perdersi nella miriade di quelle consegnate quella sera; quando scese dal treno si ripeté la stessa scena che aveva già osservato una volta: il vecchio che si alzava, guardava la gente che lasciava le carrozze con uno sguardo attento e poi tornava a sedersi come annichilito.
Gli andò bene anche quella sera e poté svicolare senza dover spiegare lo stato delle sue ricerche.
Dopo una decina di giorni, quando il Guercio ormai disperava che il suo messaggio fosse giunto a chi di dovere, il postino gli recapitò una lettera della segreteria generale del partito, con la quale personalmente Palmiro Togliatti prometteva il suo interessamento, aggiungendo però in calce che non avrebbe potuto garantire il risultato, stante la situazione.
Nondimeno il Guercio non poté evitare di trattenere un urlo di gioia e mise subito la lettera fra le reliquie a lui care: la foto di sua madre, una vecchia edizione del Capitale e il diario della sua esperienza partigiana.
Fu tentato di comunicare la notizia al vecchio, ma si trattenne, memore improvvisamente di tante promesse poi non mantenute.
Passarono così i giorni, anzi i mesi e da Roma non perveniva nulla.
Il Guercio cominciò a inquietarsi, prese ad attendere ogni giorno con ansia l'arrivo del portalettere, ma fra la numerosa e varia corrispondenza che gli veniva recapitata non c'era mai la tanto sospirata lettera da Roma.
Quando aveva necessità di andare in stazione lo faceva quasi di nascosto, timoroso di una richiesta di notizie da parte del vecchio, sempre presente.
Dopo che erano passati due anni il Guercio aveva cominciato a mettersi l'animo in pace, dando un colpo di spugna alle sue ansie con le più disparate congetture, dalle quali aveva voluto forzatamente escludere la possibilità di un disinteressamento del segretario del partito.
Ogni tanto si ripeteva "l'Unione Sovietica è un paese immenso e non è facile trovare un disperso", oppure " Magari quello si è trovato una moglie russa, ha cambiato identità e quindi non è rintracciabile".
Si era quasi dimenticato della questione quando questa si riaffacciò improvvisamente il 5 marzo 1953, giorno della morte di Stalin e grande lutto per il comunismo mondiale. Appresa la notizia, fu immediatamente convocato a una riunione straordinaria dei quadri del partito a Roma. Fece in fretta e furia la valigia e corse in stazione; si fermò sulla banchina in attesa del treno e fu allora che si sentì chiamare.
- Sig. Chiocchetti,è di partenza?
Si volse e vide il vecchio che reclamava la sua attenzione; si sentì quasi mancare quando si sovvenne della faccenda che proprio lui aveva avviato.
- Sì, devo correre a Roma:è morto Giuseppe Stalin.
- Pace all'anima sua.
- Sì.
- E' da un po' di tempo che volevo parlarle. Posso?
- Certamente.
- Lei si è preso la briga di avere notizie di mio figlio.
- E' vero, ma purtroppo non ho nuove da comunicarle.
- E' meglio così, anzi la prego di non dirmi mai nulla, tranne nel caso che venga a sapere che è vivo e che il suo ritorno è prossimo.
- Scusi, ma non capisco.
- Sono gli ultimi anni di vita che mi restano, solo se non con la mia illusione, unica compagnia che mi consente di tirare avanti. Sono ormai quasi sicuro che Franco non tornerà, ma ancora mi resta una piccola flebile speranza di vederlo un giorno scendere dal treno, guardarsi intorno, vedermi e poi correre da me per abbracciarmi. In un'esistenza che volge alla fine nulla può essere più crudele della verità, mentre il sogno, così lontano dalla realtà, per me è vita.
Il Guercio lo abbracciò e riuscì a stento a trattenere la commozione, indi con sollievo salì sul treno per Roma.
Trascorsero altri due anni e una sera di primavera del 1955, quando ormai l'ultimo treno era passato sferragliando, il capostazione si accorse che il vecchio era scivolato giù dalla panchina. Pensò a un incidente, a un malore, ma il medico condotto, prontamente accorso, non poté far altro che constatarne il decesso.
Il giorno dopo si svolsero i funerali e a tutt'oggi della sorte del figlio Franco non si hanno ancora notizie.
(da "Storie di paese")  

Guerra partigiana
Che il Guercio amasse parlare poco della sua esperienza partigiana era un fatto risaputo: poche e vaghe le risposte a chi gli chiedeva di quel periodo alla macchia, tanto da sembrare quasi scortese.
Quando spiaccicava quelle poche parole si poteva notare nel suo unico occhio una sofferenza antica, quasi un vento del ricordo che, invece di addolcire, lo irritava, facendolo quasi trascendere.
E fu un evento del tutto inaspettato quando una nebbiosa sera del novembre del 1948 si rivolse agli amici del bar:
- Chiedete, chiedete continuamente e io quasi non vi rispondo; voi lo fate perché volete sapere, volete conoscere com'è stata la resistenza e io mi sono quasi sempre negato, perché di quel periodo triste mi porto dentro ancora il peso. Questa sera, però, e a patto che poi non mi chiediate più nulla, vi racconterò un episodio, un fatto di cui io malgrado sono stato protagonista. Perché lo faccio? Un po' per venire incontro ai vostri desideri e molto perché voglio liberarmi di questo peso che mi opprime. So che parlarne con voi non cambierà molto il mio stato di sofferenza, ma sono anche conscio che così potrete capire quale grande sacrificio e tragedia sia stata la resistenza.
Così, nel silenzio più generale, iniziò il suo racconto.

"Dopo la fuga dal paese per essermi inviso ai fascisti andai a Vignola, dove abitava mio cugino e lì venni a sapere che su in montagna, verso l'Abetone, si andavano raccogliendo gli sbandati dell'8 settembre. E' inutile che vi dica che mi unii a loro, che ci aggregammo in bande e che trascorremmo il freddo inverno alla macchia, patendo freddo e mangiando poco e niente. Eppure quella stagione fu importante, ci fortificò, perché restarono solo quelli, e non erano molti, che volevano dare all'Italia un volto nuovo; lì diventai anche comunista, lì appresi che i discorsi dell'onore sono solo retorica e che la vera dignitàè la libertà degli uomini.
Ma veniamo al fatto, un episodio dei tanti, anche se non preso a caso.
Era uno dei primi giorni della primavera del 1944, con il sole che si azzardava sempre di più a farsi vedere e che mitigava, anche se poco, il freddo; già le nevi invernali cominciavano a sciogliersi e il nostro intorpidimento scemava di giorno in giorno, anche per il proposito di dimostrare a noi e ai tedeschi che non eravamo lì solo per sfuggire alle deportazioni.
Il comandante del gruppo, Nero, questo era il suo nome di battaglia, ci riunì e ci fece un bel discorso:
- E' arrivato il momento di entrare in azione. I nostri compiti sono di intralciare il movimento del nemico, di rallentare le sue comunicazioni, di assillarlo con frequenti colpi di mano, di modo che il suo pensiero non sia rivolto solo al fronte, ma che abbia a cominciare a temere anche nelle retrovie.
Domani mattina faremo saltare il ponte sulla statale, a 15 chilometri da noi. Abbiamo esplosivo da cava e la zona ancora non è presidiata. Un'azione quindi che si presenta facile e come prima è giusto che lo sia, ma mi raccomando la massima attenzione.

Partimmo in dieci che ancora non albeggiava e in tre ore, quando il sole già cominciava a illuminare le montagne, fummo al ponte. Io ero di retroguardia e per questo mi salvai, perché ad aspettarci c'erano un drappello di tedeschi e una ventina di camicie nere. Ai primi spari mi fermai e dato che io ero più indietro ebbi la disgraziata occasione di vedere tutta la scena.
Subito tre dei nostri furono colpiti e restarono a terra privi di vita, mentre gli altri sei furono fatti prigionieri e, dopo che il nemico si accanì su di loro con pugni e calci, furono gettati vivi dal ponte e si sfracellarono sul greto del torrente sottostante.
Ritornai al campo piangendo e raccontai a Nero quello che era accaduto.
- Dici che ci aspettavano? Non è possibile, perché l'azione e l'obiettivo l'ho congegnato pochi minuti prima che vi parlassi.
- Sarà così, ma sta di fatto che tutte quelle truppe non erano lì per caso e io mi sono salvato solo perché ero di retroguardia.
Gli altri compagni mi stavano intorno e non riuscivo a capire se mi guardassero come un fortunato, o come uno che si era salvato perché aveva tradito.
- Nero, ho paura che qualcuno abbia fatto la spia.
- Ma non dire sciocchezze, Guercio…
Era la prima volta che mi si chiamava così, perché, per quanto strano, avevo preferito come nome di battaglia il mio: Annibale infatti mi ricordava imprese epiche e gloriose.
Quell'appellativo, detto in quel momento, mi infastidì, anche per via delle tante dicerie sui vari Guercio, visti sempre come brutti ceffi.
La cosa finì lì, ma non per me, perché mi ero messo in testa che doveva esserci per forza una spia.
Sette giorni dopo si decise di ripetere l'azione, anche perché si disse che dove cade una bomba non ne cade un'altra ed infatti questa volta tutto filò liscio e il ponte andò giù.
I colpi di mano si susseguirono senza intoppi e ben presto mi dimenticai della spia, o meglio mi resi conto che doveva essere solo un parto della mia mente.
Arrivammo così al 5 maggio, una data che resterà sempre impressa nella mia mente. Quel giorno al campo non 'ero, perché con la mia squadra di nove uomini eravamo andati a far saltare alcuni tralicci delle linee elettriche e, dato che avevamo fatto più alla svelta del previsto, ritornammo un po' in anticipo. Già quando mancavano circa un paio di chilometri udimmo gli spari, i colpi di mortaio e vedemmo uno Stuka che si gettava in picchiata per sganciare le bombe.
Era inequivocabile: la nostra base era sotto attacco. I miei uomini volevano correre per soccorrere i compagni, ma li trattenni: vista la disparità di forze in gioco, non c'erano possibilità concrete di dare una mano e anzi avrebbe voluto dire andarci a far massacrare. Raggiungemmo alla svelta un piccolo rilievo e, protetti dagli alberi, benché a distanza potemmo vedere tutta la scena, con i nostri, sorpresi e numericamente assai di menoi, che si difendevano disperatamente. La disparità delle forze, il nostro armamento, inferiore e spesso in cattivo stato, portarono alla tragica conclusione dello scontro; fu una vera e propria carneficina: i nostri vennero falciati e quando gli spari cessarono ben pochi, peraltro feriti, continuavano a vivere. Anche per questi non ci fu processo e, ancora a terra e sanguinanti, furono finiti con il classico colpo di grazia.
In quei momenti, quando l'impulso mi diceva di fare qualcosa, subito frenato dalla ragione, mi ritornò in mente la questione della spia, che mi apparve sempre più che certa, visto che il campo era ben mimetizzato, pressoché sconosciuto alla popolazione, tranne al contadino che ogni tanto ci portava qualche cosa da mangiare. Su di lui, tuttavia, si poteva fare il più completo affidamento perché era una di quelle persone dotate di una fede incrollabile in noi quanto il suo odio nei confronti dei fascisti; sarebbe morto, piuttosto che rivelare il nostro nascondiglio, e immaginiamoci quindi quanto potesse essere infondata l'ipotesi di un tradimento. Eppure, quel contadino era l'unico nesso logico che mi balzasse alla mente, quello stesso ragionamento che tuttavia mi portava a escluderlo.
Durante la notte, abbandonammo la nostra posizione e dopo alcune ore di cammino ci riunimmo a un'altra banda.
Lì raccontai tutto al comandante, anche i miei sospetti.
- Senti Guercio, penso proprio che ti sbagli; quel contadino darebbe anche la vita per noi.
- Ma qualcuno deve pur avere informato i tedeschi la prima volta che siamo entrati in azione e poi sulla posizione del campo.
- Non è detto, perché anche se il tuo ragionamento è logico a volte subentrano delle casualità.
- Devi ammettere che due casi analoghi sono un po' troppo.
- Questo è vero e allora ti dico che, una volta riposati da questa giornata di tragedia, tu e tuoi uomini avvierete delle indagini, il più discrete possibile, per arrivare a una soluzione del caso, effettivamente un po' strano.
L'incarico non è che mi piacesse, ma ritenevo giusto che si dovesse arrivare a una spiegazione delle circostanze, sia per evitare il ripetersi di analoghi episodi, sia affinché i nostri morti avessero giustizia.
Dormii tutta la giornata; ero arrivato all'alba e mi risvegliai al tramonto, così che la notte restai ben sveglio, solo con i miei pensieri e le mie congetture. Per quanto arrovellassi la mente concludevo sempre che non poteva che esserci stato un tradimento e che in tale ipotesi l'unico che avrebbe potuto fare la spia era necessariamente il contadino.
Verso l'alba mi addormentai, ma si vede che anche nel sonno la mente lavora perché mi ricordai che il giorno in cui Nero ci aveva parlato della nostra prima azione c'era qualcuno che non faceva parte della banda e che era venuto a portarci un po' di latte: non era il contadino, ma sua figlia Marietta, una bella ragazza di circa 18 anni, dallo sguardo sempre triste e malinconico. Cercai di cacciar via subito questa idea, ma il cervello mi tambureggiava e anche la logica mi spingeva a identificare nella sua persona la spia.
Fu così che decisi di far visita al contadino, portandomi dietro un paio di uomini. Quando arrivammo alla fattoria, l'accoglienza fu calorosa: ci fecero mangiare e vollero che raccontassi quello che era accaduto ai miei disgraziati compagni.
- Avete fatto bene a non intervenire, a non farvi ammazzare per niente.
Era l'uomo rude, con le mani segnate da anni di duro lavoro, che mi parlava così, quell'uomo che aveva perso il suo unico figlio maschio il 9 settembre 1943, trucidato dai tedeschi.
Mi guardava e leggevo nei suoi occhi tutto il dolore che provava e il rancore, anzi l'odio che si autoalimentava nei confronti dei tedeschi e dei fascisti. No, non poteva essere stato lui a tradirci.
- Mi chiedo come hanno fatto a sapere dove era il campo?
- Vede, mi spiace dirlo, ma penso sia stata una spiata.
- Penso così anch'io, ma non dubiterà di me, spero? Nemmeno se mi avessero torturato, avrei parlato, perché Martino è un povero contadino ignorante, ma sa dove sta il bene e dove sta il male.
- Martino, stia tranquillo, perché nessuno sospetta di lei. Qui vivete solo voi due, cio è lei e sua figlia?
- Sì, purtroppo, da quando nel 1939 mi è morta la moglie e più tardi mi hanno ammazzato mio figlio questa casa è diventata troppo grande. Un momento, un momento solo che c'è qualche cosa che mi è venuto in mente e mi tormenta…
Si volse verso la figlia, che teneva gli occhi abbassati - Dimmi che non sei stata tu, dimmelo, giuramelo!
La ragazza non rispose, chinò il capo e si mise a singhiozzare.
- Dunque sei stata tu, sei stata tu che hai fatto morire tutta quella gente; non volevo crederlo, ma è così.
- Mi avevano detto che avrebbero salvato la vita di Luigi se collaboravo; lui non parlava, ma allora io ho detto di sì! Papà, Luigi era il mio fidanzato; lo sapevi che era anche un partigiano, no? Credevo fosse bastato raccontargli di quella prima azione che dovevate fare e invece hanno voluto sapere sempre di più, fino a promettermi di liberarlo se avessi rivelato dove era il vostro campo. E così ho fatto senza sapere che Luigi era già morto sotto tortura.
Adesso lo strazio era in me, per quel padre che tanto già aveva sofferto, per quella ragazza che aveva cercato invano di barattare una vita. Ero intriso da un senso di pietà che non avevo mai provato, ma sapevo quello che dovevo fare, perché gli ordini erano ordini.
- La ragazza viene via con me!
Martino si voltò di scatto, con gli occhi di fuoco:
- Mai!
- Ma non posso, io la capisco, ma cerchi di capire anche noi.
L'uomo afferrò la doppietta che teneva appesa al muro e ce la puntò:
- Fuori, andatevene, andate via! Abbiate compassione di me.
Ce ne uscimmo a ritroso tenendo le mani alzate; la porta fu chiusa dietro di noi a doppia mandata.
Restammo in silenzio a guardarci.
Non sapevo che fare, non riuscivo a prendere una decisione e mi ripugnava dover usare le armi per far trionfare la giustizia.
Si udì un colpo di fucile e subito dopo un altro.
- Martino! Martino!
Benché chiamassi più volte non ebbi risposta; decisi allora di sfondare la porta e di entrare.
Fu così che li trovammo: la ragazza con il petto squarciato e ormai rantolante, Martino con la testa devastata e già morto.
Rimasi impietrito a guardare quella vita che si spegneva, quegli occhi sempre più opachi che sembravano chiedere perdono. "
(da "Storie di paese")      

Il mondo di Tonio
Quando nacque fu subito chiaro che c'era qualche cosa che non andava, con quella testa sproporzionata, gli zigomi sporgenti, il naso schiacciato, per non parlare delle orecchie, enormi, quasi da elefante, come ebbe più volte a ridire in paese l'ostetrica, con la raccomandazione che doveva essere considerato un segreto, e aggiungendo, per maggior chiarezza - E' un mostro, qualche cosa di orrendo, peggio di una scimmia.
Per quanto ovvio, tutta la comunità nel giro di ventiquattro ore era già a conoscenza dell'avvenimento e nel passaparola ogni caratteristica somatica veniva ingrandita, tanto che più d'uno ebbe a raccomandare alle gestanti di evitare accuratamente di guardarlo, onde non rischiare di perdere il nascituro.
Il medico condotto, il vecchio ed esperto Dottor Chesi, dopo averlo esaminato, si passò le mani nei capelli e si rivolse agli attoniti genitori - Purtroppo, non è normale;è affetto da una grave sindrome, di cui al momento ignoro il nome; vedremo come si svilupperà.
Il piccolo fu chiamato Antonio, ma, per le tradizionali abitudini dei paesi di storpiare, il nome venne ben presto modificato in Tonio.
Per tutto il tempo che fu in fasce l'occasione di vederlo da parte di estranei all'ambiente familiare fu del tutto casuale, preferendo i genitori non portarlo in carrozzina per le vie del paese; nondimeno in giro tutti sapevano di altre caratteristiche emerse, quali la costante irrequietezza e il fatto che non riuscisse a parlare, fatta eccezione per improvvisi e acuti strilli. Era la zia che passava le notizie e che aveva anche trovato il motivo di quella disgrazia; che fosse vero o inventato, infatti, andava ripetendo - E' stato tutto al sesto mese, quando un pipistrello una notte d'estate è entrato nella camera da letto di mia sorella; ha preso uno spavento incredibile e sapete bene che certe cose, in quello stato, possono provocare conseguenze irreparabili.
Gli altri annuivano e qualcuno più maligno diffondeva la voce di una tara ereditaria, ricordando, velatamente, che il nonno era stato spesso soggetto a esaurimenti nervosi.
Chiacchiere su chiacchiere che si smorzarono alla svelta non appena Tonio, ormai in grado di reggersi sulle proprie gambe, in preda alla sua irrequietezza, cominciò a guadagnare la porta di casa, sfuggendo alla sorveglianza della mamma, per avventurarsi per le vie del paese, senza una meta, un deambulare forsennato che lo portava a percorrere non poca strada.
Fu aumentata la sorveglianza, ma mano a mano che il bimbo cresceva si dimostrò del tutto inutile, perché proprio non si riusciva a tenerlo chiuso in casa: si agitava, strillava, sbatteva perfino il testone contro il muro. E allora, considerato che all'epoca il traffico era del tutto sporadico, i genitori decisero di non ostacolarlo. Stava fuori quasi tutto il giorno, dall'alba al tramonto, a gironzolare su e giù, con un'andatura ciondolante, il corpo scosso tutto da un tremito come in preda alla febbre. Il medico condotto consigliò ai genitori di somministrargli dei calmanti, ma le dosi, sempre più massicce, non sortivano alcun effetto e già disperavano di trovare il medicinale più efficace quando accadde uno strano fatto.
Era un giorno di sagra, una di quelle feste semplici di paese: tutti si ritrovavano in piazza a giocare all'albero della cuccagna, a correre nei sacchi, a sentire la banda. E quando questa iniziò la sua esecuzione, Tonio, che girava su e giù, si fermò di colpo, si sedette sul selciato ad ascoltare assorto.
Il medico che, per caso era lì, ebbe poi a ricordare l'espressione estatica degli occhi del ragazzo - Era come rapito; il suo corpo non tremava più; ero davanti a lui, ma sembrava non vedermi; il suo sguardo seguiva il ritmo della musica.
Quando la banda terminò il suo repertorio, Tonio si mise a strillare e fu di nuovo percorso dal tremito; si alzò in piedi e fuggì via.
Da allora, ogni giorno, quando usciva di casa, correva subito alla piazza e cercava quella banda e quella musica che non c'erano più.
Su consiglio del medico, i genitori fecero un grosso acquisto per l'epoca: una radio.
La soluzione, tuttavia, non sortì effetto: la musica riprodotta dall'apparecchio non destava interesse a Tonio, quasi non l'udisse.
Non così l'anno successivo, alla nuova sagra: era un caldo giorno d'estate e Tonio era sulla piazza già da ore, ma solo a sera inoltrata arrivò la banda. E l'errabondo si trasformò nuovamente: il volto contratto si distese fin dalle prime note, gli occhi seguirono una visione solo sua, in una serenità che, appunto perché non gli era propria, si notava immediatamente.
Inutile dire che il beneficio durò solo per il tempo dell'esecuzione e subito dopo Tonio ridivenne quello di prima che tutti conoscevano.
Gli anni passarono, Tonio divenne un adulto, a suo modo, e, poiché i giapponesi avevano messo in commercio delle piccole radio portatili, i genitori decisero di regalarne una al loro disgraziato figliolo.
In quel minuscolo apparecchio Tonio ritrovò la sua banda; non mancava giorno che non uscisse di casa, portandoselo dietro, per precipitarsi in piazza, dove l'accendeva, se lo portava all'orecchio e stava ore e ore seduto ad ascoltare musiche di tutti i tipi, dalle canzonette ai brani d'opera. Si trasformava e pur nell'orrore di quel viso così scimmiesco si potevano notare gli occhi rilucere di vita e, qualche volta, riempirsi anche di lacrime.
Fu per lui un periodo felice, anche se non era proprio così per i negozianti della piazza, a cui di certo il volume elevato della radio non poteva non dar fastidio, ma che non dicevano nulla, perché tanta era la gioia di Tonio che ne venivano contagiati. Sì, come qualcuno andava dicendo in giro, era lo scemo del paese, ma grazie a quella musica non era più considerato una bestia, bensì un essere umano, sfortunato, diverso, ma che provava anche lui emozioni, e forse sentimenti.
Poi, come spesso capita con questi poveri disgraziati, la cui vita ha un corso più breve della media, un giorno di primavera Tonio non apparve sulla piazza. Tutti si chiesero subito il perché e temettero il peggio; sentirono i genitori e seppero così che non stava bene, non aveva forze, non riusciva ad alzarsi dal letto.
Passarono i mesi della primavera e la salute di Tonio andò gradualmente peggiorando; il figlio del Dottor Chesi, subentrato al padre come medico condotto, andava dicendo in giro, a chi glielo domandava, che probabilmente non sarebbe arrivato alla fine dell'estate.
Fu una stagione caldissima quell'anno, senza pioggia, con la gente che attendeva con impazienza il giorno della sagra, a metà agosto, quando in genere un bel temporale cambiava la stagione.
E quel giorno arrivò; la sera, sul selciato ribollente la gente aspettava la banda e guardava il cielo, dove nubi cariche d'acqua cominciavano a comparire.
Parlottavano tutti del più e del meno, quando lo videro: magro, barcollante, Tonio si trascinava per la strada. Quando fu sulla piazza, si buttò a terra, davanti ai componenti della banda, in prima fila.
Cominciò l'esecuzione, con il solito repertorio da anni, e Tonio oscillava il capo, seguendo il ritmo; arrivati all'ultimo brano, fecero appena in tempo a iniziarlo quando un tuono secco coprì il suono degli ottoni e immediatamente iniziò a piovere. In un attimo la piazza si svuotò, tutti sparirono, tutti meno uno: Tonio, che rimase seduto, immobile, sotto la pioggia scrosciante, come se nulla accadesse intorno a lui.
Il suo vecchio padre provò a chiamarlo, a dirgli di mettersi al riparo, ma inutilmente; andò allora a prenderlo, gli mise una mano sulla testa e Tonio si rovesciò su un lato. Capì subito e, mentre le lacrime si mescolavano alla pioggia, lo strinse a sé, prese il suo volto fra le mani, gli accarezzò i capelli fradici, poi se lo caricò sulle spalle e si avviò verso casa.
(Da "Storie di paese")   

Maschi
La vita nel paese scorreva negli anni prima della guerra regolata dalle norme ferree della consuetudine: lavoro tutto il giorno, dalla mattina alla sera, il sabato pomeriggio gli esercizi ginnici inventati da Starace, la domenica mattina la messa e nel pomeriggio invece la disperata ricerca di qualche cosa di nuovo, che non si trovava mai, per dare un significato a una settimana altrimenti opaca.
Annibale Chiocchetti era uscito da poco dal seminario, il cui ambiente ottuso non era certo di suo gradimento, e, dopo una giornata di duro lavoro nell'officina da fabbro del Dusi, si rifugiava all'osteria, avido di apprendere le novità, che poi tanto novità non erano: a parte qualche notizia del calcio l'argomento principe erano sempre le corna, di cui nessun maritato sembrava immune.
Se ne stava attento ad ascoltare, seduto in un angolo, fantasticando amplessi mirabolanti e accrescendo ancor di più il desiderio sessuale sempre presente e che lo obbligava spesso a un autarchico fai da te.
Il sabato sera l'osteria stranamente contava meno avventori perché una buona parte se ne andava in città al casino; il giorno dopo l'inevitabile argomento delle discussioni era ciò che si era visto, ciò che si era fatto, con annotazioni colorite, vicende al limite dell'inverosimile, ma che affascinavano inevitabilmente un giovane dal ragguardevole desiderio.
Fu così che un giorno, parlando con l'amico Cosimo Gasparini, si decise ad affrontare il problema.
- Cosimo, scusa la domanda: ma tu, sei mai andato a letto con una donna?
Quello lo guardò incerto fra il raccontare una menzogna e il dire la verità, poi si decise per quest'ultima.
- No, Annibale, non ho mai avuto l'occasione. In paese le ragazze non te la danno se non sentono parlare di matrimonio, ma io a legarmi prima del tempo non ci tengo. Ho ben altri progetti! Voglio andarmene per il mondo, a vedere se riesco a uscire da questa miseria che m'accompagna da quando sono nato. Certo che prima di partire vorrei togliermi la voglia.
- Che ne dici, se anche noi il sabato sera andiamo con gli altri in città?
- Ma non è la stessa cosa che fare all'amore con una ragazza, insomma quelle non te la danno gratis.
- La tariffa non è poi così cara; certo che se vogliamo andare in un casino di lusso non ci basterebbe la paga di una settimana, ma possiamo, anzi dobbiamo anche accontentarci, e poi che sia di lusso o che vada bene per dei poveracci il risultato è sempre lo stesso. E' da un mese che risparmio; il vecchio Dusi non mi dà quasi niente per tutto il lavoro che gli faccio, ma mi ha promesso che, quando smette, mi lascia l'officina.
- Allora andiamo sabato?
- Andiamo sabato.
E il sabato arrivò. I due si aggregarono al solito gruppo e in treno andarono in città.
Il viaggio fu breve, ma a entrambi sembrò interminabile, con il cuore che batteva forte e il desiderio che stava per esplodere.
Per fortuna che, dalla stazione ferroviaria alla casa chiusa, il percorso era breve e, accodati ai già esperti, arrivarono alla meta in nemmeno cinque minuti.
La casa, sita in un vicolo poco illuminato, era uguale a tante altre, con le imposte rigorosamente chiuse e l'unica differenza dalle altre abitazioni era rappresentata dal continuo viavai di uomini: gente che entrava speranzosa ed altra che ne usciva con uno sguardo fra il trasognato e il colpevole. Era un campionario di varia umanità e si andava dal ragazzo inesperto al vecchio che credeva di trovare una seconda giovinezza, tutti accomunati da quel convincimento della superiorità del maschio che il regime aveva ulteriormente accresciuto.
Cosimo non aveva mai visto delle puttane, a differenza di Annibale che ricordava perfettamente un pomeriggio di qualche mese prima, allorché, in città per commissioni, era stato presente al passaggio di una carrozza scoperta su cui facevano bella mostra sei signorine della nuova quindicina, tutte truccate e ben vestite, prodighe di sorrisi invitanti.
Quando entrarono, tuttavia, la realtà si presentò ben diversa da quella della sfilata pubblicitaria.
Al piano terra, su alcuni divani, c'erano delle matrone un po' avanti negli anni e in abiti succinti; dalla scala che portava al piano superiore scendeva un cliente, seguito da una donna che si andava rivestendo.
Annibale li osservò e restò colpito da una certa avvenenza di questa femmina che, fra uno scalino e l'altro, si infilava le mutandine di pizzo nero, di misura un po' ridotta rispetto alle forme che avrebbe dovuto contenere. Questa se ne accorse e si diresse verso di lui, con il seno scoperto in bella mostra.
- Ciao, bel ragazzo. Sei nuovo? E' la prima volta?
Annibale si sentì avvampare e, tenendo fissi gli occhi su quel balcone che si trovava a pochi centimetri da lui, assentì con il capo.
- Bravo, ma sai che sei un bel ragazzo! E sotto dovresti anche esser ben fornito...
Annibale era ormai tutto in incendio e cercò disperatamente Cosimo, ma già questi stava salendo le scale in compagnia di una magra dal volto butterato.
- Vuoi salire con me? Vai a pagare la tariffa e dopo troverai il Paradiso.
Corse a saldare il conto e si affrettò con lei su per le scale, dove c'era un ballatoio, lungo il quale si aprivano diverse camere.
Entrarono in una di queste, dall'arredamento essenziale limitato a un letto, a una sedia, a un catino e a una brocca d'acqua.
- Intanto che ti lavi sotto, mi fumo una sigaretta.
Ad Annibale le parole arrivarono ovattate da una nebbia di cui si sentiva avvolgere e, in stato di tranche, obbedì meccanicamente.
Quando ebbe finito l'abluzione si volse verso il letto, dove la donna, nuda completamente, l'attendeva a gambe spalancate, mostrando quello che in un tempo di certo non recente doveva essere un normale organo sessuale, ma che ora mostrava evidenti segni di usura.
Quasi incespicando, con passo incerto, si avvicinò al talamo, vi salì e si buttò a capofitto.
Gli venne del tutto naturale di baciarla, di cercare con la sua lingua quella di lei, ma la donna si ritrasse e lo fermò: - Questo no!
Quel rifiuto di un atto che gli sembrava così naturale lo bloccò e si accorse con orrore che gli era venuto meno il desiderio.
Vergognoso, imbarazzato si ritrasse e la donna si mise a ridere sguaiatamente.
- E' la prima volta vero? L'ho capito subito che sei un pivello, un maschio tutto desiderio e basta.
Annibale cercò di rispondere, ma la voce gli sembrava strozzarsi in gola e allora si limitò ad annuire.
- Non preoccuparti, perché capita a molti. Vedrai che la prossima volta andrà meglio. Ma ora rivestiti alla svelta e scendiamo, perché il tempo è denaro.
A piano terra ritrovò il suo amico Cosimo e entrambi uscirono per andare a riprendere il treno.
Lungo la strada, al silenzio di Annibale faceva riscontro la straordinaria parlantina dell'altro, che non smetteva di magnificare la serata.
Quando chiese poi come era andata, la mancanza di risposta gli fece comprendere che qualche cosa non aveva funzionato.
- No, non dirmi; non posso credere che il mio amico Annibale abbia fatto cilecca.
- E invece sì, purtroppo. Sai che ti dico? Che non andrò mai più con una donna.
- Ma dai! Può capitare a tutti.
- Sì, peròè capitato a me, e ora ho rabbia e vergogna insieme. Mi sembra di essere una testa di cazzo. Era lì nuda davanti a me, io quasi scoppiavo, poi di colpo mi sono afflosciato: la mente voleva, ma il corpo non l'assecondava. Che sia un finocchio?
- Scherzi, se la mente voleva non lo sei. Credimi, la prossima volta andrà senza dubbio meglio.
- Non ci sarà una prossima volta e non voglio più pagare una donna per averla.
E invece, da lì a nemmeno una ventina di giorni, Annibale conobbe a una festa sull'aia Tilde Sguazzi, una ragazza del paese che in passato non aveva nemmeno notato.
Fu un incontro del tutto casuale: lui, per niente ballerino, se ne stava seduto a guardare gli altri volteggiare, mentre lei, che non era proprio una Venere, attendeva, ormai disperando, l'invito di un cavaliere.
Erano fianco a fianco da almeno un'ora, ma non s'erano accorti l'uno dell'altro, quando alla ragazza andò di traverso la gassosa che stava bevendo. Si mise a tossire, strabuzzò gli occhi, le scesero due lacrimoni e, quando dopo esserseli asciugati, li riaprì vide il volto preoccupato di un giovanotto che la osservava.
- Niente di grave, spero? E' passato, no?
- Sì,è passato.
Se c'è mai stato un colpo di fulmine in amore, questo lo fu proprio.
Non riusciva a parlare, la sua mente pareva annebbiata e l'unica cosa a cui pensasse era lui, bello da non credere, con quegli occhi azzurri, i capelli biondi, lo sguardo vivo e intelligente.
Anche Annibale era in stato confusionale e i pensieri gli scorrevano rapidi nella mente.
"Non è una bellezza, ma peròè carina, con quegli occhi nocciola così innocenti; sì non ha proprio un gran naso,è un po' a patata, ma ha una bocca stupenda, con due labbra invitanti e poi il resto non è proprio male; è un po' magra, ma ha le gambe dritte, un bel culetto e credo due belle tettine."
- Mi scusi signorina se non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Annibale Chiocchetti e sono del paese.
- E io invece sono Tilde Sguazzi e pure io abito qua. Che strano che non ci siamo mai visti!
Il desiderio in Annibale cresceva a vista d'occhio e già avvertiva un certo movimento al basso ventre che stava mettendolo in imbarazzo.
Nemmeno a farlo apposta, la ragazza gli propose di ballare.
Non sapendo che fare, Annibale, mentre sentiva le mutande che gli diventavano troppo strette, buttò lì una scusa: - Magari, ma proprio questa mattina ho fatto un brutto movimento, insomma ho preso una storta e ora il piede destro mi duole tutto.
- E' un peccato! Mi sarebbe tanto piaciuto ballare con te. - E buttò un'occhiata alla patta dei pantaloni che sembrava sul punto di esplodere.
- Sarà per un'altra volta, Annibale.
- Sì, lo prometto; già domenica c'è la festa del patrono a San Vitaliano e se vuoi ci andiamo insieme.
- Mi piacerebbe, ma non ho il modo di andarci, nemmeno una bicicletta, e farla piedi sono un po' tanti quei cinque chilometri.
- Per quello non c'è problema; io ho la bicicletta e ti porto sulla canna. Va bene?
- Va bene.
E si lasciarono, con Annibale che procedeva lentamente fingendo il dolore al piede, il che però non gli impediva, ogni tre passi, di volgersi, incontrando sempre lo sguardo della ragazza.
Fu una settimana di fuoco, di trepidazione, tanto che il vecchio Dusi se ne accorse e, ridendo, gli disse: - Mi sembri un luccio in fregola.
- E che vuol dire?
- Dicesi di pesce innamorato, e del pesce hai pure gli occhi ora.
Non riusciva a star fermo e, quando non era al lavoro, andava su e giù dal paese, sperando di incontrarla, ma per quanto cambiasse gli itinerari di questo suo peregrinare di Tilde non vide nemmeno l'ombra.
Quando si coricava esausto nel letto, non gli riusciva di prendere sonno, anzi l'agitazione cresceva, soprattutto quando con moto, quasi involontario, la mano correva a sovrapporsi al pene, provocandogli delle ondate di calore quasi incontrollabili.
Nella veglia, fra le immagini che gli riaffioravano del volto e del corpo di Tilde, s'accavallano i pensieri, i programmi per quella prossima domenica che nelle sue intenzioni sarebbe dovuta diventare memorabile.
"La passo a prendere, la faccio sedere sulla canna. - e qui gli scappava un risolino - Quale canna? No, basta scherzare e pensiamo seriamente. Lungo la strada chiacchieriamo del più e del meno, anzi no, le chiedo che cosa fa, cerco di capire quanto le piaccio. E io? Glielo devo far capire quanto la desidero, quanto vorrei stare con lei? Beh, dipende da quanto riesco a capire di quel che prova per me. Arrivati alla festa, balliamo, ma poco, anche perché non sono capace. L'importante è che riesca a stringerla, a sentirmela addosso. Poi, alla prima occasione, le rubo un bacio, e poi lungo la strada un altro, un altro ancora, tanti baci. E poi le infilo una mano fra i seni, andiamo nel bosco, la spoglio, mi spoglio, e… Porca miseria, questo non ci voleva!" E ritrasse la mano tutta bagnata.
Poiché non poteva correre il rischio di arrivare al gran giorno con la virilità ai minimi termini si propose di non pensare alla ragazza negli ultimi tre giorni, ma la decisione se era facile a prendersi si mostrava difficile da mettere in pratica, e allora gli venne l'idea di andare a correre lungo l'argine un paio d'ore prima di coricarsi, così che la stanchezza gli avrebbe agevolato il sonno, scacciando tutti i suoi pensieri e le sue fantasticherie.
Il rimedio funzionò e Annibale arrivò alla domenica in condizioni che lui definì ottimali.
Nel pomeriggio, subito dopo il pranzo, passò a prendere la ragazza a casa sua; non entrò, anzi rimase fuori nella strada in bella vista e si sottopose all'attenta analisi di due vecchine che, come cariatidi, sedevano ai lati della porta. Parlottavano fra loro e ogni tanto lo guardavano, mettendolo in imbarazzo. Lui non sapeva che fare, volgeva gli occhi all'insù, fingeva di guardare il cielo, e ogni tanto abbassava lo sguardo verso la porta, sperando in cuor suo che l'attesa fosse breve. Trascorso all'incirca un quarto d'ora, sull'uscio apparve Tilde, che indossava un bel vestitino a fiori, forse un po' strettino, ma che modellava meglio le esili forme.
- Ciao Annibale.
- Ciao Tilde.
- Andiamo?
- Andiamo.
La fece salire sulla canna e si avviò pedalando lentamente, nonostante si accorgesse che le due vecchine ora lo fissavano come se volessero fargli una radiografia.
Nonostante tutti i programmi e i propositi Annibale non riuscì a pronunciare una parola e anche la ragazza stava zitta, ma quando furono in procinto di arrivare alla meta, lui, quasi biascicando, e senza che l'avesse pensato, disse: - Che bel vestitino che hai Tilde e quanto sei bella.
- Anche tu hai una bella camicia e sei un bel ragazzo.
Più di ogni programma, più di ogni proposito, quelle due frasi scatenarono la felicità in Annibale che si mise a pedalare con maggior vigore, così che arrivarono quasi di volata all'aia dove si teneva il ballo.
Memore della virilità prorompente fece in modo che la ragazza potesse immaginare senza arrivare a un diretto contatto e così le danze furono poche e con i corpi prudentemente non avvicinati.
Venne così il tramonto e si avviarono verso casa.
Lungo il tragitto Annibale si sentì pervaso da un vago senso di tristezza, come se la giornata avesse registrato un'occasione sprecata. Ascoltava distrattamente quel che la Tilde gli diceva, ma quando, imbarazzata, gli disse - E' stato bello oggi: mi piacerebbe fosse sempre così. - fermò la bicicletta e la strinse forte a sé. La donna si voltò e lui, tremante, non poté fare a meno di baciarla. Lei non si ritrasse, anzi lo assecondò e fu un lunghissimo bacio, che accelerò i battiti cardiaci di entrambi. Stranamente, Annibale avvertì che il desiderio sessuale sembrava venir meno per l'accrescere invece di una infinita sensazione di gioia.
Ripresero la strada del ritorno, silenziosi e felici e quando arrivarono al paese, un po' prima di entrarvi, si scambiarono un altro bacio.
Il distacco non avvenne con timori; sempre senza parlarsi si lessero negli occhi la serenità di essersi incontrati, quella gioia così intima e forte che si può provare solo quando si ama.
La sera Cosimo trovò Annibale che passeggiava fischiettando e, dato che era a conoscenza dei progetti dell'amico gli chiese, se avesse fatto.
Questi lo guardò, tranquillo e, con gli occhi che sprizzavano lampi di gioia, rispose:
- E' una brava ragazza e la voglio sposare; verrà il giorno anche per quello.
E infatti, da lì a cinque mesi, ci furono le nozze, anticipate perchè Tilde era già in attesa.
(Da "Storie di paese")

Prima del tramonto
Fronte dell'Isonzo - 15 ottobre 1916.

- Signor Tenente,è vero che verso sera ci sarà l'attacco?
- Sembra di sì; hai immaginato a causa della distribuzione straordinaria di grappa, vero?
- Sì, sempre così quando…

Il soldato Mario Paltrinieri, classe 1896, abbassò gli occhi come a cercare la punta degli scarponi affondata nel fango, poi si sedette su una panca sgangherata, trasse di tasca un foglio sgualcito e una matita smozzicata; restò assorto un attimo, gli occhi fissi verso il cielo plumbeo, poi cominciò a scrivere.

Cara Marta,
ho ricevuto ieri la tua lettera di due settimane fa e non sai la gioia che ho provato nel leggere le tue poche righe; per alcuni minuti mi sono ritrovato con te, al paese, sotto il pergolato:è stato meraviglioso. Ho pensato al nostro bambino che nascerà fra un paio di mesi e mi sono sentito felice in mezzo a queste miserie di ogni giorno. Da noi non è poi così male come certa gente dice; la guerra non è peggio della vita a casa, con qualche accettabile rischio in più. Non temere per me: sto attento e voglio portare a casa questa pellaccia; già sogno quando ti stringerò a me. Un lungo bacio e un abbraccio
Tuo Mario


Piegò il foglio, lo mise in una busta, ma non la chiuse: tanto l'avrebbe riaperta la censura militare.
Guardò di nuovo il cielo pieno di nubi cariche di pioggia e si incupì; era da sei mesi in quell'inferno, in quel girone di disperati, distrutti dalle bombe, dalle pallottole, dalla disperazione per aver firmato con la morte una cambiale a vista.
Ogni tanto arrivavano le zaffate di carne putrescente, di quelli che giacevano esanimi nella terra di nessuno; le prime volte gli era venuto da vomitare, ma poi si era rassegnato..

- Mario, vuoi darmi la lettera per la spedizione?
Si scosse e - Un attimo, Signor Tenente, un attimo solo, devo scrivere ancora: sa, potrebbe essere l'ultima e voglio che mio figlio, che nascerà fra poco, possa avere almeno una lettera dal suo papà.
- Va bene, ma non pensar male; sta su d'animo.
- Ci provo, ma ogni volta che c'è battaglia temo che per me non ci possa essere ritorno.
Trasse di tasca un altro foglio, si portò alle labbra la mina della matita e infine riprese a scrivere.

Adorato figlio mio,
è il tuo papà che ti scrive, il papà che non hai mai conosciuto e che tanto avrebbe voluto vederti.
Ho un desiderio incredibile di stringerti a me, ma non mi è possibile; dove sono io ormai
Il tempo e la gioia non esistono, ma spero, anche se non potrai scorgermi, di esserti accanto, giorno dopo giorno, di condurti in questo mondo affinché almeno tu non abbia da vedere orrore e morte.
Vedi, la vita è bellissima,è un dono di Dio che l'uomo spesso, inutilmente, spreca;
vivila, fino in fondo, con tutte le tue forze e il tuo ardore.
Diffida di chi parla di gloria, di onore, di bella morte: la gloria non è immolarsi su un campo di battaglia, ma comportarsi umanamente; l'onore non è credere in qualche cosa di astratto, ma rispettare i valori della vita: l'amore, la famiglia, la pietà per chi non sa vivere;
la bella morte non esiste, perché per tutti è un dolore, per chi va e per chi resta.
Rispetta tutti, per prima la tua mamma, e gli altri rispetteranno te; sogna, perché altrimenti il mondo ti sembrerà impossibile, ma resta ancorato a terra con i piedi, perché c'è sempre chi è pronto a sfruttare i tuoi sogni.
Un giorno ti troverai una brava ragazza: amala, con tutto il tuo cuore, perché non c'è nulla di più bello dell'amore.
Vorrei dirti tante altre cose, mi piacerebbe parlarti di me, ma il tempo stringe e devo chiudere.
Sappi solo che ti amo tanto, ancor prima di conoscerti.
Addio, dolce bambino mio.
Il tuo papà.


Piegò il foglio, lo ripose in un'altra busta, scrisse il destinatario e appose un'annotazione "da spedire solo in caso di morte del mittente". Si levò lentamente, mentre le prime gocce di pioggia si mescolavano alle lacrime, e porse entrambe le buste al tenente.
- Manca poco;è quasi il tramonto.
A occidente il cielo si andava squarciando, lasciando intravedere, fra le nubi, il disco rossastro del sole.
Mario volse lo sguardo: là dove il cielo incontrava la terra, dove i bagliori rossastri attraversavano il maltempo c'era casa sua, sua moglie, tutta la sua vita. Sul suo capo invece imperversava la pioggia sferzante e oltre il reticolato c'era un'altra trincea, dove esseri come lui attendevano trepidanti e angosciati.
Il tenente, quasi avesse indovinato il suo pensiero, gli diede una pacca sulle spalle.
- Dai, Mario, che ce la faremo anche questa volta.
La sua voce fu coperta dal cannoneggiamento, appena iniziato; dapprima i grossi calibri, i 305, che passavano rombanti sulle loro teste per infrangersi duecento metri oltre con un frastuono assordante, poi le bombarde immediatamente alle loro spalle che lanciavano in aria una sorta di grossi zaini che ricadevano provocando un insostenibile spostamento d'aria, e infine i piccoli calibri da trincea.
Quando il tiro cominciò ad allungarsi, tutti capirono che era arrivato il momento; ci fu chi si fece il segno della croce, chi strinse spasmodicamente il moschetto, chi, come Mario, volse gli occhi imploranti al cielo.
Il tenente per primo, la pistola in pugno, balzò fuori dalla trincea e gridò - Avanti, Savoia.!
Il grido fu ripetuto da mille bocche arse dalla sete.

Fronte dell'Isonzo - 16 ottobre 1916

- Sono stante tante le perdite?
- Il reggimento ha perso circa la metà degli effettivi: 350 morti e 260 feriti.
- Mi passi la lista dei caduti; bisogna fare la comunicazione alle famiglie, ma prima cerchi di verificare che fra la posta in partenza non ci siano lettere delle vittime.
- Sì, signor colonnello, provvedo subito.
- Già che c'è, capitano, mi faccia portare una bottiglia di cognac; la battaglia è stata dura e avverto il bisogno di un po' di conforto.
Il colonnello si tolse gli occhiali e ripensò alla giornata, alla trincea nemica conquistata, persa, riconquistata e poi ripersa definitivamente: sì, 350 morti, per non dimenticare i feriti, per cercare di ottenere 200 metri in più d'Italia, insomma uno sproposito.
- Ecco la lista dei caduti, le lettere in partenza degli stessi e il cognac.
- Scriva lei capitano, perché io non me la sento.
- Ecco, signor colonnello, fante Giuseppe Ciribanti; metterei la solita allocuzione: ho l'ingrato compito di comunicare la perdita del fante tal dei tali, caduto gloriosamente nell'adempimento del proprio dovere. Io mi permetterei di aggiungere l'assicurazione che non ha sofferto.
- Non ha sofferto? Non ha sofferto un corno: giorni e giorni di trincea, fra pidocchi, fango, morti, cibi scotti, pioggia, freddo, gli assalti, le veglie notturne, la morte sempre davanti agli occhi… Sì, in confronto morire è porre fine a una sofferenza che ti assilla di continuo, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Va bene, metta pure questa frase idiota.
Si rigirò fra le mani il bicchiere, poi tracannò avidamente e scagliò il vetro contro la parete della baracca.
- C'è qualche caso particolare?
- Non mi sembra, o meglio c'è n'è uno che ha scritto due lettere, di cui una da spedire in caso di sua morte.
- Me le faccia vedere, controlliamo che c'è.
Lesse velocemente la prima, più breve, e la mise da una parte.
Passò alla seconda e rimase annichilito.
Si portò la bottiglia alla bocca, bevendo a lunghi sorsi, poi guardò il capitano.
- Lei che ne farebbe di questa?
- Aspetti che la leggo.
Mentre il dito correva a sottolineare le righe, la fronte si imperlava di sudore.
- Signor colonnello, questa sarebbe da censurare pressoché totalmente, anzi, meglio ancora, sarebbe da cestinare. E' stata scritta da un sovversivo, non ci sono dubbi.
- Un sovversivo? Lei dice un sovversivo? Vorrei avere avuto un padre che mi avesse scritto una lettera simile, un uomo che mi avesse voluto bene, attento al mio futuro, e non obbligato dalla nascita a rispettare solo il destino che lui mi aveva voluto imporre.
- Secondo me,è disfattista, e contiene pericolosi riferimenti rivoluzionari; se si sapesse in giro che l'abbiamo fatta passare non deporrebbe a suo favore, anzi penso che sarebbe un freno alla sua brillante e meritata carriera.
Il colonnello si rigirò la bottiglia fra le mani, poi tracannò il contenuto fino all'ultima goccia; rimase un attimo assorto, come se la sua mente seguisse un lontano pensiero, fissò quasi beffardo il capitano…
- Forse ha ragione, capitano, ci sono cose più importanti e più grandi di noi che non stare ad ascoltare le idee irrealizzabili di un povero soldato. Non la distrugga; la terrò io fra le mie cose personali, se non altro perchéè scritta bene.

Domodossola - 24 dicembre 1926

Gentile signora,
sono il colonnello che comandava il reggimento in cui prestava servizio suo marito e in colpevole ritardo Le allego una lettera per suo figlio; adesso avrà l'età per leggerla e per capirla e, soprattutto per comprendere, quanto bene gli volesse suo papà.
E' la vigilia di Natale; non voglio dire che per questo tutti devono essere più buoni, ma spero tanto che mi perdonerà le debolezze umane che mi hanno impedito di mandargliela subito.
Nella lettera con cui Le ho comunicato la sua morte ho scritto che era morto eroicamente, ma non è vero, perché invece lui è vissuto eroicamente.
Buon Natale.
    

Il padre
- Come mai è chiusa l'officina del Guercio?
- C'è sua madre che sta male.
- E' grave?
- Ormai è solo questione di ore, se non è già morta. E' attaccato a sua madre, visto anche che non ha mai avuto un padre.
E infatti la povera donna morì quello stesso giorno, lasciando l'unico figlio in uno stato di profondo dolore.
Conosciuti com'erano, lei e il Guercio, al funerale andò tutto il paese. La cerimonia fu semplice, anche se il feretro fu portato in chiesa, circostanza non strana, data la nota religiosità della defunta in contrasto con l'agnosticismo del figlio.
Inginocchiato in prima fila, apparve ai più un Guercio ben diverso dall'uomo energico, dal capo popolo, nonché ex partigiano, che tutti ben conoscevano. Il volto scavato, l'unico occhio spento, i singhiozzi a stento trattenuti, denotavano un profondo stato di smarrimento che lo caratterizzò anche nei giorni immediatamente successivi, tanto che sulla porta dell'officina venne affisso un cartello con cui si annunciava la chiusura a tempo indeterminato per il grave lutto.
Gli amici, i compagni di partito, cercarono di alleviare le sue sofferenze, ma si rivelò tutto inutile: il Guercio, oltre all'occhio, sembrava aver perso anche la ragione. Se ne stette per un paio di giorni chiuso in casa, sordo a ogni sollecitazione, poi una mattina qualcuno lo notò alla stazione, vestito nel migliore dei modi, mentre attendeva il treno per la città.
Camminava su e giù per il marciapiede, pensando e ripensando alle ultime parole della madre.
Quello che di più l'aveva afflitto, nella vita, era stato il non avere un padre, tanto che il portare il cognome della madre gli sembrava un viatico insopportabile, di fronte a certe domande impertinenti come possono fare solo i bambini, quando andava a scuola alle elementari, e ricordava bene quella sua risposta imbarazzata e quasi sciocca: io non ho il papà; c'è chi ce l'ha e c'è chi non ce l' ha.
L'imbarazzo di non avere un padre lo tormentò ancor di più nell'adolescenza, tanto che decise, per trovare un genitore al di sopra di ogni sospetto, di andare in seminario per farsi prete. Ma anche lì le cose non andarono meglio, con quel superiore che ogni volta che lo rimproverava per qualche mancanza cominciava sempre il discorso con un:
- Caro ragazzo… non mi ricordo mai il cognome… ah sì, ora rammento,è lo stesso di tua madre!.
E indubbiamente quella ripetuta presa per i fondelli ebbe la sua parte nella decisione di buttar via la tonaca e di laicizzarsi completamente.
In seguito le cose andarono meglio, ma la questione era sempre ben presente, tanto che non poche volte si era rivolto alla madre per conoscere il nome del padre, ottenendo però sempre un deciso rifiuto.
Tuttavia, quando la povera donna era quasi in agonia, con le poche forze rimaste e con un esile filo di voce aveva mormorato quel nome, e allora il dolore e l'angoscia si erano mescolati all'emozione, in uno con lo strazio di aver ritrovato un padre nello stesso momento in cui perdeva la madre.
Il treno finalmente arrivò e il Guercio vi salì, provando un brivido di emozione: fra poco avrebbe conosciuto suo padre di persona.
Quando fu in città, il passo veloce che prese lo mise ulteriormente in affanno. Nei due giorni precedenti aveva fatto delle prudenti ricerche, in modo da sapere dove avrebbe potuto trovare il genitore, e ora che si avvicinava alla meta la curiosità sembrava soffocata dal timore dell'ignoto.
E così arrivò davanti alla clinica "Mater Dei", istituto privato per l'assistenza agli anziani di non trascurabili possibilità economiche.
Gli si fece incontro una suora, dalla veste candida, e gli chiese che cosa desiderasse.
- Vorrei far visita al signor Antonio Guerra.
- Lei chi è, come si chiama?
- Sono… - e titubò, poi riprese: - sono un parente. Mi chiamo Annibale… Annibale Chiocchetti.
- Si accomodi, le faccio strada.
Si incamminarono per un lungo corridoio, sul quale si affacciavano diverse porte, di cui alcune aperte. Il Guercio ogni tanto dava un'occhiata: si intravedevano dei piccoli ambienti, ben tenuti e ordinati, in cui vivevano la loro fine uomini che immaginava fossero stati, in passato, potenti e forti, e che ora erano ridotti a ombre mute.
Arrivarono alla fine del corridoio, girarono a destra, e alla prima porta che trovarono la suora bussò.
- Signor Guerra, ci sono visite.
Nessuna risposta.
- Le ripeto che ci sono visite!.
E finalmente si udì un flebile avanti.
La suora salutò il Guercio e ritornò indietro; mentre lui, quasi tremando, si trovò a varcare quella soglia.
Anche questo ambiente era piccolo: un letto, un comodino, uno scrittoio, un armadio e, accanto alla finestra, una poltrona su cui stava seduto un uomo dai capelli bianchi.
Questi si volse al Guercio e gli chiese:
- Voi chi siete?
Quel "Voi", ormai desueto e tipico di una certa epoca, lo fece trasalire.
- Io sono.., mi chiamo Annibale Chiocchetti. Questo le dice nulla?
- Non mi pare.
- E Armida Chiocchetti, il nome di mia madre, neanche questo le dice nulla?
Il vecchio cambiò espressione e cominciò a innervosirsi.
- Sì, adesso ricordo: l'Armida, una gran bella donna; era una delle mie cameriere. Poi dovetti licenziarla, perché era rimasta incinta. Che fa di bello, ora? Ah, non sarete venuto per chiedermi dei soldi? Le ho dato a suo tempo tutto quanto le spettava!
L'occhio del Guercio sprizzò quasi scintille e avvertì chiaramente che la rabbia cominciava a prendere il sopravvento sull'emozione.
- E' morta, dopo una vita di lavoro e di stenti, a crescere un figlio che non aveva un padre, quel padre che ora sta davanti a me.
Attese la risposta del vecchio che lo guardava con un'espressione fra lo stupito e l'adirato.
- E così, voi sareste mio figlio? Potrebbe anche essere, perché ai miei tempi di donne ne ho avute tante e mi sono dato da fare.
Il Guercio lo guardò sbalordito: si era immaginato, in treno, che suo padre si sarebbe commosso alla notizia di aver ritrovato un figlio, e l'avrebbe abbracciato, insomma avrebbe dimostrato per una volta quell'affetto che non gli aveva mai riservato, e ora invece, questo vecchio magro e canuto accennava addirittura alla possibilità di aver seminato figli qua e là.
- E se anche fosse? Non sareste certo un figlio come gli altri, che sono nati da un matrimonio consacrato. Sareste assolutamente di nessun conto. Tengo a precisare, però, che io sono un buono e che non ve ne faccio una colpa di essere un bastardo, anzi se avete bisogno di qualche cosa, tipo una raccomandazione per un posto, posso darvi una mano.
- Non ho bisogno di nulla. Ho sempre avuto necessità di un padre, ma di uno degno di essere chiamato tale e non di uno come lei. Credevo che l'aver ritrovato un padre sarebbe stato un motivo di gioia, ma mi pento di essere venuto.
- Che ho detto di male? Non mi direte di essere uno di quei sciocchi sovversivi di comunisti che credono di cambiare il mondo? Quando c'era "lui" era diverso e finalmente noi veri uomini abbiamo potuto dimostrarlo.
La porta che sbatté fece cadere a terra un piccolo busto di bronzo con l'immagine del duce. Il vecchio si chinò a raccoglierla, mormorando - Che epoca! Se n'è andato senza nemmeno salutarmi.
Il Guercio, più che andarsene, fuggì da quel posto e raggiunse velocemente i giardini, dove, seduto su una panchina e al riparo da sguardi indiscreti, pianse amaramente.
Ritornato al paese, si precipitò al cimitero, dove, sulla tomba della madre, disse fra sé:
- Mamma, quanto è bello il cognome Chiocchetti!
Il giorno dopo l'officina riaprì e tutti si rallegrarono nel vedere il Guercio del suo solito umore.
(da "Storie di paese")

Il ladro di fiori
- Che gli venga un accidente! Giuro che se lo prendo gli faccio rimpiangere d'esser nato.
- Anche questa volta? - fu il commento unanime degli altri dell'osteria.
- Anche questa volta! Eh sì che sono rimasto di guardia fino a dopo la mezzanotte, ma questa mattina presto quando sono ritornato sul cimitero del bel mazzo di dieci gladioli ne erano rimasti cinque, tale e quale lo scorso anno, e l'altro ancora.
Il Guercio guardò Soldino che, dopo la sfuriata iniziale pareva ora più calmo, anche se visibilmente sconsolato, e gli disse - Ti giuro che il 7 agosto del prossimo anno saremo lì a darti una mano, organizzeremo dei turni di guardia e lo prenderemo questo lurido ladro di fiori.
La vicenda di Soldino, al secolo Carlo Gentilini, ma così chiamato da prima della guerra per la tirchieria che lo connotava, aveva dell'incredibile.
Il 26 aprile del 1945, mentre tutti festeggiavano la fine del conflitto con canti e balli, un aereo americano aveva sorvolato il paese e, invece di lanciare zollette di cioccolato, come facevano quel giorno altri piloti, aveva scodellato una bomba da un quintale che aveva sfracellato la casa del Gentilini, in quel momento al lavoro nei campi, seppellendo le poche suppellettili e, soprattutto, l'Adalgisa, consorte di Soldino.
E' possibile immaginare il dolore di quest'uomo che, in un attimo, si era ritrovato senza casa e senza moglie, completamente solo, poiché dalla loro unione non erano nati figli.
Per l'Adalgisa, con cui aveva vissuto per quasi quarantanni, nutriva un affetto profondo, frutto di un legame sincero che si era cementato con il tempo.
Si era così ritrovato a quasi settantanni allo sbando sulla strada, con poco denaro per vivere e, soprattutto, senza il conforto della persona amata.
Il Guercio, segretario della locale sezione del Partito Comunista, gli aveva trovato un modestissimo alloggio e ogni tanto gli faceva arrivare qualche piccolo aiuto economico, per integrare l'insufficiente pensione con cui doveva fare i conti per mangiare, poco, il mezzogiorno e la sera.
Nonostante le ristrettezze e privandosi di tutto il superfluo riusciva ogni anno a mettere da parte la somma necessaria per acquistare dieci bei gladioli da portare il 7 agosto sulla tomba della moglie, ricorrendo in quella data l'anniversario delle nozze.
Era quindi più che comprensibile l'animosità che lo coglieva accorgendosi che il giorno dopo il mazzo risultava puntualmente dimezzato; si era arrovellato, pensando a uno sgarbo nei suoi confronti, visto che era l'unico furto che avveniva sul cimitero, ma aveva trovato presto il motivo della preferenza del ladro, guardando le altre tombe, disadorne o al più ornate da modesti fiori di campo. Aveva anche pensato di adeguarsi allo stile comune, ma proprio non gli andava giù di dover rendere omaggio alla defunta con dei papaveri o delle margherite selvatiche, quando lei in vita aveva amato tanto i gladioli.
Anche quel 7 agosto del 1947 la cosa finì lì; in paese ne parlarono tutto il giorno, qualcuno fece trapelare dei sospetti, senza nessun fondamento, ma poi il giorno appresso la vicenda risultò completamente dimenticata.
Tuttavia, a parte Soldino, c'era chi aveva la memoria lunga e infatti il Guercio il 7 agosto del 1948, così come aveva promesso, organizzò le ronde, ognuna composta da due uomini. Era una giornata calda, con un'afa opprimente, quando il vedovo portò i fiori sul cimitero, li aggiustò nel vaso quasi con tenerezza, mormorò a bassa voce alcune parole, quasi si fosse messo a conversare con la defunta, poi recitata una preghiera, ritornò a casa, come gli aveva detto di fare il Guercio. La sua, più che una raccomandazione, fu un ordine - Te ne torni a casa subito e fai le solite cose; non azzardarti a tornare là; vai a letto e domani mattina, quando ti svegli, vai all'osteria, dove ci troverai con il ladro ad aspettarti.
E così fece; dopo una lunga notte insonne, un incubo dietro l'altro, arrivò finalmente l'alba. Attese un po', nel timore che all'osteria non avrebbe trovato nessuno, poi, quando suonò la campana della prima messa, decise di andare. Si sentiva strano, avvertiva un'ansia corrosiva che lo spingeva a coprir di botte il furfante e, quando gli venne il desiderio di ammazzarlo, si rifugiò in chiesa. Restò poco, in un angolo, a contemplare il crocefisso con quel povero Cristo in legno rosicchiato dai tarli che faceva più pena di lui, vestito sempre allo stesso modo, con la camicia vecchia di dieci anni, come i pantaloni, tutti rattoppati, per non parlare delle scarpe, con i buchi delle suole rattoppati con il cartone che si scioglieva alla prima pioggia.
- Gesù, fa che non commetta un atto più odioso di quello che ha commesso lui. In questo mondo di miserie la sua forse è più grande della mia. Lo denuncerò, questo sì, ma non voglio mettergli le mani addosso.
Si segnò, uscì dalla chiesa e si affrettò verso l'osteria. Appena entrato, vide un crocchio di gente al centro della sala e udì subito la voce forte del Guercio - Oh, Soldino,è da un po' che ti aspettiamo; proprio questa notte ti è venuto così sonno? L'abbiamo preso, colto, si suol dire, con le mani nel sacco, anzi nei fiori. Già gli abbiamo fatto capire l'errore che ha fatto; se vuoi favorire?
Il crocchio si aprì e poté vedere un uomo legato a una sedia, con il volto tumefatto, gli occhi pesti e un labbro spaccato. Soldino restò come paralizzato: quell'uomo davanti a lui, che non conosceva, era il ritratto della sofferenza in persona.
Si rivolse al Guercio - Ti prego, non toccatelo più; portate qualche benda, un po' acqua, cerchiamo di rimediare un po' al danno.
- Se vuoi tu così, provvediamo subito, anche se a malincuore.
Soldino si accostò al prigioniero, gli sciolse i nodi, passò una mano fra i suoi capelli bianchi e gli mormorò - Perché l'hai fatto? Perché mi rubi sempre la metà dei gladioli? E chi sei e dove abiti?
L'uomo, con voce tremante, lo guardò in viso e prese a parlare - Mi chiamo Franco Rigattieri e abito a Pieve, a nemmeno cinque chilometri da questo paese. Ho sessantacinque anni e vivo, se si può dire vita, della mia modestissima pensione, insieme con mia figlia di quarantanni, nata prematura e non a posto con la testa. Mia moglie è morta il 7 agosto 1945, di stenti, di mancanza di medicinali, una vittima della guerra, anche se deceduta pochi mesi dopo che era finita. Lei deperiva ogni giorno e non riuscivo a capire il perché; certo da mangiare non ce n'era quasi, ma mai più potevo sospettare che quando rientravo dai lavori saltuari che facevo in campagna e lei mi diceva di aver già mangiato, non era per niente vero; quel poco che c'era di commestibile lo lasciava per me e per mia figlia. Quando me ne sono accorto era troppo tardi e in pochi giorni mi ha lasciato. Aveva deciso di fare finita così quella vita senza avvenire, con la figlia cresciuta solo per affetto materno, ma senza speranze, se non la certezza che la miseria genera solo miseria. L'amavo tanto e non avevo nemmeno i soldi per un po' di fiori; così quel giorno ho cercato di procurarmi quei gladioli che tanto le piacevano in un altro modo. Nel cimitero del mio paese non c'erano, ma ho saputo che da voi li avrei trovati; ho avuto vergogna, mi sono quasi scusato con la morta, e ne ho preso la metà, in modo da rendere meno grave l'offesa.
Il Guercio lo squadrò - Ma risparmiare come Soldino, no eh?
- Risparmiare è una parola che ignoro, quando se mangi, poco, a mezzogiorno non ti resta nulla per la sera. Ho pensato perfino di chiedere la carità, ma a chi, se tutti, anche se meno di me, sono poveri?
- E chi mi dice che tu racconti la verità? Adesso verifichiamo.
Il Guercio chiamò uno dei suoi compagni, parlottò brevemente con lui e questi uscì subito.
Soldino, intanto, gli faceva degli impacchi con un po' d'acqua e piano piano le tumefazioni presero a ridursi.
Il tempo passava e, quando la pendola dell'osteria segnò le undici, arrivò il tirapiedi del Guercio.
Entrò, abbassò gli occhi e disse - E' tutto vero; ho chiesto in paese, sono andato a casa sua, due camere ricavate in una stalla; c'era la figlia che mi ha guardato in modo strano e si è messa a ridere come una pazza. Ho guardato nella credenza, dappertutto, e di mangiabile ho trovato solo un pezzo di formaggio ammuffito e un filone di pane comune.
Il Guercio si mise le mani nei capelli, tirò un calcio a una sedia, cominciò a bestemmiare, contro la guerra, contro il fascismo, contro il governo e contro i preti, poi fece una cosa che in vita sua non aveva mai fatto: chiese perdono e pretese che lo chiedessero anche gli altri.
Si rivolse poi a Soldino - Chi l'avrebbe mai detto? Che facciamo ora?
Rigattieri disse solo - Se mi accompagnate a casa, magari con un carretto, mi fareste un grande piacere, perché ho le gambe che mi fanno male.
- Certo, provvediamo subito. - disse il Guercio, poi parlottò con i suoi uomini.
Trovarono il carretto, ci caricarono il Rigattieri e un sacco con un po' di pane, del formaggio, un salame e delle albicocche, e lo riportarono a casa.
Da allora, il Guercio inserì nella lista dei suoi assistiti quel poveraccio e ogni tanto, quando gli era possibile, gli faceva avere qualche cosa, in particolare ogni 7 agosto, quando Soldino toglieva cinque gladioli dai dieci che grazie alla sua parsimonia riusciva ad acquistare.
(da "Storie di paese")        

Nessun dorma!
L'osteria era un perfetto campionario della varia umanità del paese e così accanto al farmacista, di giorno impettito e di sera compagno di bisbocce, sedeva il salariato, rotto dalla fatica del lavoro nei campi; fianco a fianco stavano poi i cornificatori e i cornuti e spesso interpretavano entrambi i ruoli.
Benché si formassero dei gruppi, quando l'argomento di uno diventava interessante si perveniva a una formidabile compattazione e allora, fra frequenti innalzamenti di voce, risate sguaiate e moccoli ben aggiustati, la serata proseguiva come una grande festa, in una vera e propria simbiosi collettiva.
Del resto, i personaggi non mancavano, con le loro storie, in parte inventate, sì che l'impressione era di trovarsi a una corte dei miracoli.
Prendiamo il Guercio, tale Annibale Chiocchetti, ma chiamato così per via di quell'occhio che gli mancava, perso in guerra, e sostituito con una sfera di vetro non ben fissata e che ogni tanto, sporgendo eccessivamente dall'orbita, gli cadeva sul tavolo, dove saltellava fra i bicchieri e il fiasco di vino. Se non fosse bastata la menomazione a connotarlo, c'era il suo acuto spirito di osservazione: nulla e nessuno sfuggiva al suo sguardo. La circostanza non sarebbe stata una gran cosa, se non fosse stata accompagnata dai coloriti commenti che uscivano dalla sua bocca sdentata.
Né si accontentava di argute e ridanciane osservazioni, ma si divertiva a coniare nomignoli di ognuno e, quasi sempre, del tutto azzeccati.
Così l'affossatore comunale Ludovico Bianconi, il più cornuto in paese, era conosciuto da tutti, lui compreso, come Tricorno, mentre sua moglie, ninfomane emerita, era chiamata Unapertutti. Non c'era cattiveria, però, in questa esaltazione delle disgrazie e dei vizi altrui, ma solo un eterno spirito da ragazzini che con i lazzi e gli scherzi evadevano la monotona realtà quotidiana.
A volte, tuttavia, lo scherno incupiva o rattristava il soggetto preso di mira e alla fine la risata degli altri lasciava un amaro in bocca, come quando un fanciullo scopre che la vita non è solo gioia.

Accadde così una sera d'inverno, fredda, nebbiosa più del fumo delle sigarette dell'osteria, e la vittima fu un uomo schivo, riservato, che nascondeva in sé la malinconia per un grande sogno spezzato. Giacomo Salami era raro che si vedesse in giro, se ne stava sempre ritirato in casa, con le persiane chiuse e l'unico segno certo della sua esistenza era dato dalle romanze d'opera che ascoltava in continuazione, tanto che molti si chiedevano come potesse essere così longevo il suo giradischi.
Le visite all'osteria erano del tutto sporadiche e quando vi andava era perché si sentiva più giù di corda del solito e allora affogava la sua disperazione nel vino.
Quella sera, come entrò, andò a sedersi al tavolo in angolo e ordinò un bel fiasco di quello buono.
Tutti sapevano della sua passione per la musica lirica, ma solo il Guercio era riuscito a scoprire proprio quel giorno il suo segreto: da giovane aveva avuto una promettente carriera da tenore, ma poi un problema alle corde vocali gli aveva stroncato voce e futuro.
Lo guardò fisso con l'unico occhio, fece con le mani agli altri cenno di zittire e - Caruso, come mai con noi? Nel locale non abbiamo musica; che ne dici, se ce la dai tu, se ci canti qualcosa?
Salami se ne stette zitto, tracannando in un sol colpo il bicchiere che aveva in mano.
- Dai, non aver paura, cazzo siamo tra amici che sanno, sanno tutto di te.
- Non sapete nulla e non potete capire.
- Insomma, non avrai paura a farci una cantatina, o tutte quelle meraviglie che si dicevano di te sono solo palle?
Ci fu un lungo silenzio, durante il quale il Salami prosciugò il fiasco, poi, con voce impastata e già alticcio - Dico solo che non sapete quel che dite. Mi avete chiamato Caruso, ma avrei potuto diventarlo, se la sorte non mi fosse stata avversa - e si asciugò la bocca piagnucolando.
- Dai, bevi un altro goccio, che ti farà bene.
Gli allungarono un altro fiasco e Caruso cominciò a parlare, fra un bicchiere e l'altro: ricordi di una carriera ormai trascorsa, concerti nei principali teatri italiani, sogni che stavano diventando realtà, e poi quella malattia che gli aveva minato le corde vocali, riducendogli le possibilità di estensione della voce.
La serata, a differenza delle altre, stava prendendo un andamento tranquillo e melenso, e nel silenzio generale si udiva solo la voce biascicata di Salami.
Il Guercio, allora, batté le mani e, alzando il tono - Facci sentire qualche cosa, non ci importa se la tua voce non è quella di una volta, dai, fallo.
L'uomo si levò in piedi, appoggiandosi con le mani al tavolo, giusto per non cadere - Il mio miglior repertorio erano le opere di Puccini e in particolare la Turandot, un capolavoro che voi nemmeno immaginate, una perfetta fusione fra musica, canto e trama. La compose prima di morire, anzi venne a mancare prima che fosse terminata. Se solo avessi ancora la voce, vi farei sentire, anche senza orchestra, la bellezza di un brano che forse conoscete: Nessun dorma!
- Dai, canta come puoi, per noi; per il solo fatto che sei tu, andrà sempre bene..
- Davvero, non riderete?
- Ma no, figurati.
Salami si schiarì la voce, guardò gli astanti, aprì la bocca e fu un incanto.
La voce era sì leggermente tremante, ma sua l'interpretazione, la passione, la forza furono quelle che avrebbe riservato alla Scala o al Metropolitan.
Tutti ascoltavano rapiti quella melodia eterna e tutto andò bene fino a quando si arrivò al famoso acuto di "Vincerò" e quindi a romanza pressoché conclusa; Salami quasi si gonfiò prendendo fiato, ma nel momento di estendere tutta la voce venne fuori un suono sgraziato, una sorta di stecca in sotto tono.
Applaudirono comunque tutti calorosamente, ma il tenore, piegato su se stesso, piangeva a dirotto e quelle lacrime furono interpretate, malamente, come provocate dalla gioia per quell'ovazione.
Come al solito, si sbaraccò sul tardi e quando uscirono l'ultimo fu Caruso, che si avviò barcollando verso casa.
Il giorno dopo, nebbioso e freddo come il precedente, il barbiere, che aveva bottega sotto l'appartamento di Salami, notò che stranamente non c'erano romanze da ascoltare, ma poi ricordò che il tenore, quando si ubriacava, faceva riposare le sue orecchie e quelle degli altri per almeno ventiquattro ore,
L'indomani, tuttavia, il silenzio cominciò a preoccuparlo, ne parlò con il sindaco, a cui stava facendo la barba, e questi riferì al maresciallo dei carabinieri che decise di entrare nell'appartamento.
In paese lo seppero subito e una piccola folla si radunò davanti al negozio del barbiere, tutti ansiosi di sapere.
Quando il maresciallo ritornò dalla visita dell'appartamento apparve costernato e riferì che, abbattuta la porta, lo aveva chiamato, senza ottenere risposta; allora era entrato, aveva guardato in cucina, in sala, dove aveva notato il disco della Turandot sul piatto del grammofono, poi era entrato in camera da letto e lì lo aveva trovato, impiccato a una delle travi del soffitto.
La sera, all'osteria, l'atmosfera fu greve, con gli avventori taciturni e incapaci di farsi una ragione di quel che era accaduto. Fu ancora una volta il Guercio che decise di rompere il silenzio - Ragazzi, che volete farci….La colpa è mia, non avrei dovuto invitarlo a cantare e fargli così ricordare i suoi tempi.
Intervenne allora il farmacista - No, non è colpa tua; Salami chissà quante volte ha avuto in animo di togliersi la vita, di porre fine al suo disagio; l'altra sera ha avuto l'opportunità di superare l'ultimo scoglio nel miglior modo per un artista, con un'ultima esibizione, con gli applausi di un pubblico incolto, ma sincero.
La serata finì lì e tutti se ne ritornarono a casa.
Il giorno dopo al funerale non mancò nessuno e, terminata la sepoltura, appresero dal maresciallo che il Salami aveva lasciato uno scritto, un testamento.
Quando lo lesse, gli astanti si rammentarono dell'intervento del farmacista, poiché tutti i dischi e il grammofono furono lasciati "agli amici dell'osteria".

Sono passati molti anni, da allora, ma ancora, sulla parete dietro il banco, fra le coppe del torneo di calcio, i gagliardetti del Milan e dell'Inter, coperti di polvere, come le bottiglie della cantina, fanno bella mostra i 78 giri, unitamente a un vecchio giradischi ormai definitivamente andato.
- Da Storie di paese -        

Alba pagana
Il 9 settembre 1943 iniziò con il rumore sordo dei cingoli dei carri armati tedeschi che passavano il Po sul vecchio ponte di barche.
In paese, dopo la momentanea euforia del giorno precedente, già si era installato un piccolo distaccamento della Wermacht e la bandiera con la croce uncinata sventolava sull'asta del municipio: la guerra non era per niente finita, anzi sarebbe diventata sempre più feroce e tragica, ma questo gli abitanti non potevano saperlo, anche se il naturale intuito di gente legata alla terra li aveva prudentemente fatti stare in casa.
Nelle vie non c'era anima viva e perfino i gatti se ne stavano rintanati, mentre i cani guaivano per il rombo assordante degli autocarri carichi di truppe che si avviavano al ponte di barche.
Nonostante ciò l'osteria era gremita e tutti gli avventori, nel timore di parlare, si osservavano, scrutavano le reciproche espressioni, onde avere la risposta inequivocabile su chi sarebbe stato un amico o un nemico.
Il medico condotto, fascista della prima ora, ma uomo sostanzialmente mite, decise di prendere la parola - Gente, non credo che ci verrà fatto del male, per quanto il nostro tradimento li abbia inferociti. Avete letto il proclama affisso sui muri? Non dice forse che solo le azioni ostili avranno una ritorsione pesante da parte loro? Noi ce ne stiamo buoni, facciamo gli affari nostri e vedrete che riusciremo a tirare avanti fino alla fine di questa sporca guerra.
Il Guercio sputò lo stecchino che teneva fra i denti, si alzò in piedi e, fissando il medico, prese a parlare - Lo speri o ci credi? Io ho fatto questa guerra; prima l'Albania, poi la Grecia, dove ho perso l'occhio e ho visto come si sono comportati là i tedeschi. Ho orrore perfino a pensarci: villaggi incendiati, donne violate, uomini massacrati, l'inferno in terra. E i greci non li avevano traditi.
Don Zeffirino si mise a pregare in silenzio e più d'uno si associò, perché tutti sapevano che il Guercio diceva sempre la verità, senza sminuire o ingrandire i fatti; l'unico che decise di intervenire fu Aldo Marchetti, meglio conosciuto come "Gerachetto" per le sue abituali frequentazioni degli ambienti fascisti - Il tradimento ignobile perpetrato ai danni del nostro grande e valoroso alleato richiederà inevitabilmente una giusta vendetta; con il sacrificio di qualche migliaio di italiani traditori, potremo costruire un mondo nuovo insieme al grande Reich.
Il Guercio si trattenne dal fare una pernacchia, ma fu un sacrificio immane vedere quel piccoletto che, con le mani appoggiate sui fianchi, il busto eretto e lo sguardo trionfante, invocava del sangue italiano per placare l'ira tedesca.
In quel momento entrò di corsa il messo comunale, gridando - Arrivano, stanno passando sul ponte i prigionieri italiani!
Bastarono quelle poche parole, gridate con angoscia, per far precipitare tutti fuori in strada; si allinearono sul marciapiedi, tenendosi stretti al muro, quasi a volersi sostenere.
Già in distanza, preceduti da camionette tedesche, si vedevano i nostri venire avanti lentamente e quando arrivarono vicino all'osteria tutti videro quello che restava del nostro esercito: uomini con la divisa in disordine, stanchi per la lunga marcia, affamati, assetati, ma, soprattutto, avviliti. Gli occhi di quei soldati sembravano spenti, come se all'incredulità di trovarsi di colpo l'ostilità del proprio alleato si fosse sostituita la rassegnazione per l'incapacità di essere perfino dei nemici. Abbandonati da chi li doveva comandare, senza nessuna direttiva, avevano ceduto le armi senza sapere nemmeno il perché.
Trascinavano in silenzio le loro logore scarpe, portavano avanti senza più dignità i loro corpi privi di volontà, erano diventati oggetti senza nessun valore.
Ogni tanto qualcuno chiedeva dell'acqua o del pane, ma i soldati della scorta impedivano a chiunque di avvicinarsi e a chi aveva invocato quel minimo di soccorso venivano immancabilmente riservati un paio di calci dove capitava.
Uno di questi disgraziati, colpito nella schiena, si lasciò andare e precipitò a terra.
Il messo comunale accorse, fece per aiutarlo a sollevarsi, ma una raffica di mitra li lasciò entrambi esanimi sul selciato.
Il Guercio e gli altri, a cui si erano uniti alcune donne, rientrarono precipitosamente nell'osteria.
Si guardarono l'un l'altro: le donne piangevano e anche gli occhi degli uomini erano arrossati, tranne quelli di Gerarchetto che, come se quello che era da poco accaduto fosse stata la cosa più naturale di questo mondo, ebbe a dire con tono solenne - Tipica efficienza tedesca.
Forse avrebbe voluto aggiungere qualche cosa, ma il Guercio non gliene diede il tempo; gli sferrò un pugno in pieno volto, fra il labbro superiore e il naso che presero a zampillare sangue, e a quello stava per farne seguire un altro quando, persa la sua boria, Gerarchetto si mise a piagnucolare, invocando pietà.
Altri si erano fatti sotto, pronti a colpirlo, ma il Guercio, per quella sua generosità innata che gli aveva anche fatto perdere l'occhio li bloccò - No, basta. Abbiamo già visto oggi scorrere troppo sangue di gente come noi. Ha avuto una lezione e speriamo che gli serva.
Gerarchetto si guardò intorno impaurito, vide che i pugni alzati verso di lui si erano bloccati e allora corse subito fuori.
Sull'assito del pavimento restarono alcune macchioline del suo sangue, nulla in confronto alla pozza che già si stava rapprendendo sull'asfalto accanto ai corpi del messo e del soldato.
Non passarono cinque minuti che entrarono tre tedeschi, guardando tutti.
- Chi di foi essere Guercio?
Nessuno rispose.
- Ripeto, chi essere Guercio? Non rispondere? Allora foi tutti kaputt.
Il Guercio si fece avanti e per dimostrare che era lui si tolse l'occhio di vetro.
- Dove afere perso occhio vero?
- In Grecia, combattendo al vostro fianco.
Il tedesco restò pensieroso, fece per uscire, ma poi si voltò di colpo e colpì con il calcio del fucile il viso del Guercio.
- Chi ha combattuto con onore e è stato ferito merita rispetto. Per questa folta ti è andata bene, ma la prossima ci sarà chi non è buono come me.
Mentre i tedeschi uscivano, tutti si affaccendarono intorno al Guercio, chi ha tamponargli la ferita che gli aveva provocato un largo taglio sulla guancia destra, chi a confortarlo con parole di circostanza.
Più d'uno ad alta voce chiese il perché e allora Don Zeffirino rispose con voce rotta dalla commozione - Scommetto che è stato Gerarchetto.
Sistemato alla meglio, il Guercio si rialzò barcollando, chiamò a sé il parroco e gli sussurrò sottovoce - L'ambiente non è più sicuro per me; faccio un salto a casa e questa notte sparisco.
- Ma dove andrai?
- Non lo so; ho sentito però che qualcuno non si è arreso e combatte ancora. Cercherò di raggiungerlo.
- Farai una brutta fine.
- Se non ci muoviamo, faremo tutti una brutta fine.
Uscì dal retro e prese la via dei campi; da allora nessuno più lo vide in paese fino alla fine della guerra.
(Da "Storie di paese")       

Il venditore di angurie
Una volta assai più numerosi, ora meno frequenti, ma chi non ha mai visto quei chioschi in fregio alle strade di uscita dalle città, oppure ai lati di certe provinciali preferite dal traffico veicolare perché più sgombre di auto? Una baracca, con il tetto di lamiera, sovente coperto da un po' di paglia, un bancone ricoperto di alluminio, o più recentemente di plastica, come le quattro o cinque sedie messe lì alla rinfusa accanto a un tavolo di legno segnato dagli anni e dall'uso, una tinozza piena d'acqua con le angurie al fresco e, nella migliore delle ipotesi, un grande frigorifero con la porta a vetro ed in bella mostra delle fette rosse del frutto tipicamente estivo, oppure bene ordinate in un contenitore fra pezzi di ghiaccio che la calura va sciogliendo sempre più rapidamente: questa è una melonaia, annunciata lungo il nastro d'asfalto da cartelli scritti in un italiano spesso approssimativo, evidenziata nelle notti d'estate da una ghirlanda di luci multicolori.
Ce n'è una anche vicino a casa mia:è lì, come il suo proprietario, da quasi trentacinque anni. Si anima con i primi caldi e si chiude non appena le sere si rinfrescano. Dietro il bancone c'è Claudio, capelli bianchi che un tempo erano biondi, occhi chiari, il volto segnato dalle rughe, la voce che si è fatta roca per via di quei sigari che costituiscono al tempo stesso il suo vizio e il suo passatempo.
Di giorno apre i battenti verso le nove e la sera chiude quando non ci sono più avventori.
Lo conosco da quando ero ragazzino;è un po' più vecchio di me e non ha avuto una vita fortunata, perché il matrimonio si è rivelato un fallimento e l'unico figlio, che adorava letteralmente, una sera di novembre non è più tornato dal lavoro: a un incrocio, complice la nebbia, un autocarro gli si è parato davanti; inutile è stata la frenata e in quel fragore di lamiere contorte e vetri infranti con cui si è spenta quella giovine esistenza è iniziata per Claudio una lunga vita di solitudine che sembra non avere mai termine.
Per lui la melonaia non è solo un'attività, ma è molto di più, perché rappresenta un breve intervallo di vita; ascolta le chiacchiere degli avventori, si unisce alle stesse, arriva perfino a sorridere.
Quest'anno l'estate è cominciata prima del solito e già ai primi di giugno il caldo è stato soffocante, e con esso l'arsura, che solo una fetta di anguria dolce, tenera e saporita può calmare. Ho deciso, quindi, di comprarne una intera e ovviamente, anziché ricorrere al supermercato, dove peraltro costa meno, sono andato da Claudio.
Ricordo, come fosse ieri, l'emozione che ho provato nel vedere quei bei frutti verdi, oblunghi, gocciolanti d'acqua e il sorriso del venditore che ne magnificava le qualità.
A onor del vero, ho avuto qualche cosa da ridire sul prezzo, aumentato un po' troppo rispetto allo scorso anno, ma Claudio ha saputo spiegarmi anche questo; ha abbassato gli occhi, poi, con voce bassa, mi ha detto:
- E' vero, costano caro rispetto al supermercato, ma io non vivo che di queste e in una stagione devo fare la provvista di quel poco che mi è necessario per vivere, ma che è aumentato a dismisura… Mi accontento, a mezzogiorno un piatto di pasta, la sera spesso di un po' di pane con il latte, ma anche questi hanno il loro prezzo, così come l'affitto del monolocale dove vivo, la luce che in inverno è d'obbligo, il riscaldamento, i pochi sigari, la benzina della motocarrozzina con cui vado a prendere dai coltivatori le angurie. Risparmio su tutto, ma non bastano mai.
E' stato talmente convincente che, quando gli ho dato una banconota da 10 Euro, a fronte di un prezzo di 8, non ho potuto fare a meno di dirgli di tenere il resto, ma non ha accettato. Mi ha guardato negli occhi e con tono normale ha quasi scandito le parole:
- Sono povero,è vero. Ti ringrazio, ma non offendermi con la tua misericordia.
Mi sono sentito un verme, ho abbassato lo sguardo, ho mormorato velocemente alcuni convenevoli per scusarmi e sono corso via.
Quando sono tornato le volte successive, nessuno di noi due ha accennato a quella mia infelice frase e anzi il tono di familiarità si è accentuato.
Un giorno, che non c'era nessun altro, mi ha detto:
- I tempi cambiano. Una volta si veniva da me per gustare l'anguria e per chiacchierare, oggi i più divorano quasi la fetta e poi scappano all'inseguimento di chissà che cosa e il saluto di commiato ha più il sapore di un obbligo di cortesia che del ringraziamento per un po' di tempo trascorso insieme. La gente corre come impazzita, ha molto di più come beni, come mezzi, ma in fondo in fondo si sente più sola di me.
Si ferma un attimo, abbassa gli occhi e riprende:
- Finita la stagione, io cambio e come un orso vado in letargo, modifico perfino il carattere,saluto appena, evito i clienti anche come te, perché non è il tempo per parlare. La solitudine può anche essere sopportabile se non ci sono brevi interruzioni della stessa, un po' come il silenzio di cui non ti accorgi se non dopo un rapidissimo rumore. D'estate è diverso, con il brusio della strada, il viavai dei clienti… E la solitudine allora non esiste, nemmeno la notte, quando dormo sulla brandina dentro la baracca.
Le sue parole fanno riflettere, i pensieri di quest'uomo scarsamente istruito sono una fonte che sgorga nel deserto, sono la base di qualsiasi esistenza e dimostrano che la felicità non è canonizzabile, ma come concetto è differenziato per ciascuno di noi. Claudio, nel pur breve periodo dell'estate, a suo modo è felice, perché realizza una condizione diversa dal solito, perché il contatto umano, per quanto spesso superficiale, può essere altamente gratificante.
Sì, lo ammetto, sono orgoglioso di essere parte della temporanea felicità di Claudio, perché pure io, quando ho modo di parlare con lui, mi accorgo di quanto la vita possa essere interessante: nel suo accontentarsi di così poco c'è tutta la ricchezza d'animo di chi sa che la vita è fatta di piccole cose, il cui significato, la cui portata, può anche essere molto grande.
Edè con vero dolore che oggi ho appreso una notizia quasi sconvolgente.
Sono andato per la solita anguria e ho trovato il mio amico Claudio invecchiato, quasi fossero passati da ieri più di cento anni.
Mi ha mostrato una lettera del Comune nella quale, con quel tono asettico tipico della burocrazia, gli è stato comunicato che non gli verrà rinnovata la licenza per esigenze di sicurezza del traffico sulla provinciale, quasi che, se invece di un chiosco dove fanno sosta sempre meno auto, si trattasse di un'avvenente passeggiatrice che richiama decine di clienti.
Il vero motivo lo sappiamo entrambi: quell'area è stata resa edificabile e per costruire bisogna abbattere.
Ha le lacrime agli occhi, la voce che gli trema, quando mi dice:
- Fammi un favore, passa la voce in paese che oggi, ultimo giorno di vita della melonaia, ci sono angurie gratis per tutti. Voglio vedere tanta gente, sentire una moltitudine di voci e ...
La voce gli si spezza e il pianto diventa irrefrenabile.
Gli metto una mano sulla spalla: Dopo, Claudio, qualche giorno vieni a trovarmi, stiamo un po' insieme, magari ti fermi anche a cena; guarda che mi farebbe piacere.
- Si asciuga gli occhi, mi guarda fisso e mi scandisce con voce ferma:Ti ringrazio, ma te l'ho già detto un'altra volta, se ricordi: non offendermi con la tua misericordia.
Non oso replicare, perché ha ragione; lo saluto, prometto che diffonderò la voce in paese e sto per andarmene quando lui mi allunga una bella anguria.
Non so se pagare o no, biascico un semplice ringraziamento e me ne vado, consapevole che non lo rivedrò mai più.
(da "Storie di paese")   

Il bel Danubio blu
"Buona sera, caro colonnello. Gran bella festa, come sanno fare solo a corte."
" Caro Stephan, quanto tempo che non ci si vede; vediamo…l'ultima volta è stata
l'estate dello scorso anno, al ballo in casa Hofmann? Sì,è stata in quell'occasione,
quando lei era accompagnato da una gran bella signora, un bocconcino come ebbe a dirmi. Come va?"
Il barone Schuss guardò negli occhi il suo interlocutore, un uomo di mezza età elegantemente addobbato con l'uniforme da cerimonia degli Honved.
"Ha un bel coraggio a chiedermi come vado, dopo avermi soffiato "il bocconcino" che Lei, e non io, ebbe a definire la signora che quella sera era con me. Comunque, acqua passata; la signora ora folleggia con un ricco banchiere e già si è dimenticata di noi, anche se in verità io l'ho ogni tanto in mente, visto quello che mi è costata in doni ed altro la piccola fuggevole relazione. E' stata un'esperienza, da cui ho ritratto un insegnamento ben preciso: mai andare con chi non si intende amare."
"Oh, barone, non dica così: la vita è anche frivolezza, anzi è solo questo; l'amore è un peso troppo grande che rende insopportabile l'esistenza; una donna si può, si deve sposare per ovvi motivi di convenienza, ma amarla…è un po' troppo. Ai comuni mortali, quali noi siamo, l'amore non è consentito; quello che ci è permesso, edè un nostro preciso diritto,è il piacere, l'avventura senza impegni, una notte di follie, un breve periodo di incoscienza, ma senza il gravame dell'amore. Ed a proposito di questo sentimento corrono voci a corte di una sua relazione, caro barone, con una fanciulla di Vienna di non nobili origini, figlia di un mercante di granaglie e per di più ebreo, e, come se non bastasse, descritta non proprio come una Venere, ma di normale aspetto. Rispondono a verità queste chiacchiere?"
"Sì,è così; l'ho conosciuta tramite i rapporti di affari che mi legano a suo padre edè stata un'autentica rivelazione; di normale aspetto? A me sembra di gran lunga più bella di tutte le dame che affollano questa sera il salone delle feste; e lo sa perché?
A dire il vero non saprei spiegarlo, ma …ecco è come se sotto l'esterno ci fosse molto di più, insomma c'è qualche cosa che le tante nobili e piacenti signore non hanno: c'è un'anima, un cuore che pulsa, che trasmette sensazioni che vanno ben oltre l'apparenza…"
"Ah, amico mio, crede di percepire, odè proprio così?"
"Non saprei, so solo che con lei sto bene, mi sento sereno, appagato e, francamente, sono felice."
"Bene, bene; un altro pezzo di questo mondo statico che se ne va; l'Impero si va progressivamente sgretolando, giorno dopo giorno, e come il vecchio Francesco Giuseppe che soffre di artrosi questa, che sembrava un'eterna istituzione, duole ovunque fuori da queste mura. Eppure, anche se ce accorgiamo, facciamo finta di niente, ignoriamo volutamente la realtà e continuiamo a vivere in questo sogno da cui non vorremmo mai risvegliarci."
"E' vero che fra pochi mesi ci sarà la guerra?"
"E' certo, e non sarà solo una guerra, ma sarà la fine di ogni cosa, di queste belle feste, di una corte pettegola e vociante, di passioni d'amore travolgenti ben presto sopite."
"Colonnello, mi meraviglio di questa sua analisi e, soprattutto, non riesco a comprendere quell'ineluttabilità allo sfacelo che trovo nel senso delle sue parole."
"Mi consenta una pausa per un ballo con la splendida duchessa Maybach e poi ne parleremo più diffusamente." Si allontanò per invitare la signora appena nominata e si apprestò con la stessa ad eseguire il ballo di turno. Sulle note del "Bel Danubio blu" di Strauss volteggiò a lungo nel salone, ora stringendo a sé la dama, ora allontanandola di poco, ma sembra tenendola fermamente per mano in un'imitazione tersicorea dell'amplesso.
Accaldato, e solo dopo aver baciato la mano della duchessa, se ne tornò nell'angolo ove l'attendeva il barone Schuss.
"Gran bella donna; sposata a quel beccamorto del Ministro degli Esteri si concede svaghi frequenti con diversi giovani, ed in particolare con uno, insomma un amante fisso. Il marito lo sa, tutti lo sanno, ma non c'è nulla di strano: alle cerimonie ufficiali è presente con sempre accanto la moglie, una coppia rispettabile, all'apparenza affiatata, anche se non è così. Quello che conta non è quello che si è, ma quello che si vuol far credere che sia. E come loro siamo tutti noi. Da quando è salito al trono Francesco Giuseppe il nostro mondo si è fermato edè come se ci fossimo chiusi in un bozzolo, vivendo una splendida irrealtà. Là fuori so che tutto cambia, ma da noi resta sempre eguale. La guerra, purtroppo, ci farà uscire da questo sogno, precipitandoci in un incubo, dove la realtà per noi sarà incomprensibile al punto tale che non potremo più rientrare nel sogno, ed allora sarà la fine. Il nostro è un mondo senza ideali, solo con concetti vacui, con l'illusione che il tempo non passi mai, dove, in mancanza di vigore, assume valore solo ciò che appare. Le parlavo dell'amore:è un sentimento che lei non ha saputo descrivermi, ma è un qualche cosa di concreto, suppongo, una forza interiore che sprigiona e sovrasta chi lo prova, ed a nulla valgono atteggiamenti per camuffarlo. C'è, si dimostra per quello che è vede, leggo nei suoi occhi l'entusiasmo, la gioia di vivere; guardi gli occhi degli altri presenti: spenti, stanchi, e se brillano è solo per la voluttà di concedersi ad un amplesso frettoloso. Noi siamo come un'automobile senza benzina; fin quando restiamo nella rimessa va tutto bene, ma quando ne usciamo, a forza, a spinta, veniamo travolti da chi ha energia da consumare."
"Ma se il suo pensiero è frutto di una così accurata disamina, perché allora non cambiare?"
"Perché chi vive in questo mondo non è in grado di affrontare la realtà. Per noi la vita è sogno a tal punto che appena ci accorgiamo di quanto sta cambiando all'intorno e la cosa ci spaventa talmente che preferiamo ignorare, chiudendoci sempre di più nella fiaba di cui siamo artefici e protagonisti. Forse, se io riuscissi a provare per un'altra donna lo stesso sentimento che lei prova per la sua piccola borghese, potrei cambiare, ma dubito a questo punto, dopo anni di questa vita irreale, di poter perfino ipotizzare una simile cosa. Sì,è vero, a noi manca l'amore, questa energia inesauribile. Ed adesso mi consenta un altro ballo con la duchessa Maybach, un altro autentico bocconcino."
"Si è fatto tardi; dovrei andare."
"Allora ci salutiamo, sperando di rivederci nuovamente in questo luogo alle prossime feste, ma ho tutti i motivi per dubitarne; la guerra ci spazzerà via ed io certamente non mi opporrò. Vada, corra caro amico dalla sua amata e viva per lei; dovrei invidiarla, ma non è così: semplicemente mi compiaccio di aver trovato in questo ambiente un uomo felice. Addio."
Il barone Schuss, mentre usciva dal salone, si voltò a guardare i ballerini; fra essi scorse il colonnello che volteggiava con la duchessa sulle note del bel Danubio blu.
Con una mano gli fece un cenno di saluto e questi gli rispose. Non l'avrebbe più rivisto.    

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