Racconti di Angela Plati


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Evviva
                                Per Cesco
                                che mi appartiene, almeno un po'


L'ho rivisto.
Ma dai!
Già …..
E ti fai pregare? Racconta …..
No. Non c'è proprio nulla da raccontare ……
Bugiarda!
È così.
Non la bevo.
È così.
Ti conosco troppo bene.
Ho sbagliato tutto.
Ah. Adesso si che iniziamo a ragionare. Che c'è?
Nulla.
Mi stai scocciando. Che c'è?
Come faccio a dirgli che gli voglio bene?
Ma come vuoi dirglielo! Che mica ti crede! Con tutto quello che gli hai combinato? E tu, non la smetti? Cos'altro vuoi?
Niente.
Bugiarda!
Mi viene da piangere, non essere così pungente.
Mi irriti! Mi dai fastidio. Non provi vergogna? Proprio non hai pietà? Cos'altro vuoi? Lo hai già messo con le spalle al muro. Lo hai svergognato, ridicolizzato, offeso. La corda è quasi spezzata, cosa piangi? Te lo meriti di essere chiamata Principessa sul pisello. Te lo meriti proprio. Ma perché non lo lasci in pace? Pensi di avere scuse? Quelle che gli hai dato non le ha capite. Non erano sufficienti. Avanti! Adesso come gli chiedi scusa? Con la tua faccetta di puppù? Che gli dici? Ormai è andata così. Se la spicci si rassegna pure lui. Non alimentare il fuoco, che può finire solo male. Ti conosce come stronza, lascialo così, che forse per lui è meglio. Lascia il mondo come sta, che sai solo fargli male. Stagli lontana. Stronza! La testa è diversa ….
Forse il cuore no, se potessi dirglielo ….
Forse, forse …..gli hai fatto vedere la tua bella faccia e lui si è allontanato. Ha fatto bene. È giovane, in gamba, come niente ne trova un'altra. E poi, puttana, sai bene che è innamorata di lui quella che chiamavi "la mia migliore amica". Brava! Ne affoghi due per volta con la tua cattiveria. Vattene da lui che non hai niente di buono da dargli.
Forse ….
Distruggi tutto, distruggi gli altri perché non hai niente. Non sei niente. Sei solo fumo negli occhi, e lo sai. E poi, tu che parli di cuore ….. col triangolo in vendita che ti ritrovi!
Adesso basta!
Sai che ho ragione io!
Basta!
Avanti, voglio proprio vedere se sei capace di riavvicinarlo, se guardandoti non vede solo merda ambulante e non scappi per la puzza.
Si, voglio avvicinarlo.
Per fargli ancora pagare il bene che ti ha voluto? Adesso vuole solo essere lasciato in pace. Ti ha già dato tutto se stesso.
Io non ancora.
Mi fai ridere! Tu, la bella principessina, che vuoi bene a qualcuno!
A lui si!
Ti crede! Sicuramente ti crede!
Voglio solo dirglielo.
Perché? Che ci guadagna? A che gli serve, adesso?
A niente. Ma voglio dirglielo.
A che serve dire ad un uomo che gli vuoi bene?
Non lo so.
Vuoi solo essere giustificata e perdonata, ma sai che non te lo meriti. O non vuoi che si liberi dal tuo guinzaglio? Se lo perdi, che ti succede? Non avrai mai più qualcuno disposto a darti il suo sangue. Hai la faccia tosta di dirgli che il sangue lo daresti tu per lui?
Mi stai convincendo. Sono stata brava solo a fargli male. A che gli serve che vada a dirgli che invece gli voglio bene? Con la mia espressione da puzza sotto il naso?
Evviva! Hai capito.
Volevo essere accettata per quella che sono. Amata per come sono. Bastarda con la puzza sotto il naso. Che mi vedesse e amasse per come sono realmente.
Evviva. Finalmente sai che nella vita questo non succede mai. Devi fingere di essere un'altra e scoprirti solo quando lui non può più andare via. Fingere un amore pazzo che non morirà mai. Sai quanto gli importa se gli vuoi bene?
Mi sarebbe piaciuto dirglielo.
Gli hai dimostrato coi fatti il contrario.
Non ho modo di cancellare quello che è stato.
Evviva. Guarda che lui ha capito chi sei. Se volevi farti vedere come stronza ci sei riuscita. Ma le stronze non si amano.
E adesso?
Adesso? Adesso lui può finalmente dire Evviva, volto pagina. Sono amato, da ragazze migliori. Evviva la mia vita e la mia realtà. Evviva me e la mia capacità di dare il cuore. Evviva sono un vero uomo e quella non mi merita. Evviva me ne sono finalmente sbarazzato. Evviva ho quello che serve per essere persona: i sentimenti. Evviva ho la forza per lasciarla e dimenticarla.
Ma io?
Hai quello che ti meriti. Piangere da sola.
Basta!
Promettimi che lo lasci in pace.
No. Proverò ancora ad essere ascoltata. Ci proverò ancora una volta.
Evviva! Punto tutto sulla sua capacità di dirti chiaro chiaro e tondo tondo quello che meriti! Se deve trionfare, deve farlo proprio per benino. Brava! Dagli almeno questa possibilità. Che forse è proprio l'unica cosa che puoi fare per lui.

Nina
Ogni sera, si accende il riflesso della lampada nello specchio.
Le salviette cancellano il trucco dagli occhi mentre fissano la loro notturna nudità. Sguardi silenziosi che riversano ciò che non sarà ascoltato, mai, da nessuno.
Ogni sera, per tutte, più che un confessionale.

Mi sento gli occhi addosso, che sparlano di me. Sempre, ovunque.
Soltanto mia madre piange il mio destino, povera donna. Dopo una vita a crescere figli, senza mai uscire dalle sacrosante mura domestiche, è bestemmiata per me. Non è stata capace d'insegnarmi onestà, rettitudine, semplicità, ed altre imbecillità simili. E adesso pure lei viene chiamata donnaccia. A noi toccava solamente desiderare di essere poveri, ma onesti. Non dovevamo aspirare ad altro. Santa giustizia umana e divina.
Ero riuscita ad avere un marito.
Parevamo una famiglia felice. Ci guardavano con invidia, e mi piaceva. Poi ci hanno distrutto. E delle amiche proprio non bisogna fidarsi. Io ne ho avuta una, una bastarda, Giulietta, che mi ha tolto tutto quello che avevo. Un visetto angelico con occhi celestiali. Bastarda. Sembrava tanto pura, tanto ingenua. È di quelle che non bisogna fidarsi, a quelle non bisogna credere. Sembrano sempre tanto sincere, poverine sfortunate a cui capita tutto senza loro colpa. E invece la sanno lunga. La sanno veramente lunga.
Il muro piastrellato del bagno incassò un pugno.

Abbasso le serrande sulla notte. Questa giornata non mi regalerà altra luce. L'intimità dell'abajour può rischiarare solo i ricordi, farli fluire perché non mi sopprimano nella notte. La rilassatezza della stanza da letto consolerà ogni delusione. Un sereno clima autunnale mi ha accolta nel pomeriggio per le vie cittadine. E finalmente, ero serena anche io. Rappacificata con l'intero universo nel tiepido imbrunire. Aspettavo Lella al bar Gazebo. Gustavo il tempo dilungato nella contemplazione della trafficata piazza rettangolare. Ogni mattone è un ricordo o una speranza. Il mio asilo, il punto d'incontro dell'adolescenza e, a settembre, di vendita libri usati, l'ufficio in cui lavorerei. Grigia d'acquazzone o rossastra di tramonto. Il bar Gazebo, proprio un gazebo in un angolo della piazza, dà le spalle al convento di suore. L'antico edificio ad un piano si stende su metà dell'isolato. Le alte finestre dalla volta ovale non emettevano alcuna luce. Alcune avevano le persiane verdi chiuse, un tentativo di difesa dalle malvagità esterne. Ma io, cresciuta in quel piccolo universo, vedevo comunque le ultime suore, ormai anziane, sperdersi nei cameroni dalla volta sempre più elevata. Mi atteggiavo ad un'insofferente attesa. Volevo fondermi con la scia dei passanti nell'omogeneità incolore, essere partecipe della banale atmosfera. Anonima, annoiata, stressata. Un pomeriggio qualunque con anonimi visi ciondolanti nella solita strada centrale. Ed è apparsa Nina. Sgusciata da un passato creduto dimenticato. Mi passò d'avanti indifferente, riaccendendo il mio disprezzo. Sparì anonima, tra una folla anonima, in un pomeriggio anonimo.
Rimasi io.

Mi ha presa contropiede, quella bastarda di Giulietta. Bruciavo di affrontarla, mimato ceffoni ben assestati, immaginato folle esultanti del mio sputo. Mi ha ingannata. Bastarda. Ho aspettato questo momento. L'ho sognato. L'ho desiderato.
Non l'ho fatto. Quello schiaffo ancora non l'ho dato.
La fronte sull'avambraccio e le piastrelle del tutto indifferenti alle scariche di rabbia. Lo specchio la raddoppiava non avendo parole per tranquillizzarla.

Lo sguardo perduto nello specchio annullò ogni temporalità, riflettendo i ricordi remoti, e poi quelli recenti. L'abajour li cullava debolmente. Il tepore della camera da letto smorzava il rancore.
Nina sapeva di essere brutta. Conosceva anche gli appellativi che le davano. Malcelava noncuranza e recitava intelligenza nel declamare i suoi difetti, risultando molto sveglia. La rivedevo dopo vent'anni. Non aveva cambiato modo di pettinarsi. Capelli neri, lisci sino alle spalle. Molto ingrassata, una vera balena per la sua altezza media. Anonima, nel suo vestiario da povera. Orrenda, se giudicata da una donna. Con un non so chè di piacevole, se guardata da un uomo. Ma gli uomini sono strani e Nina aveva sempre avuto più ragazzi di me, bambolina vestita firmata.
Ed era bugiarda.
Nina sognava. Sognava tanto. E tutti la vedevano sognare, trattandola come una donnicciola di un'insopportabile stupidità. Non se ne accorse mai. Sognava l'alta società, di farvi parte come moglie di un potente. E si preparava. Simulava conversazioni brillanti da cui far scaturire un'incontenibile verve. Controllava le pose e si lanciava in racconti fantastici verificando il livello di attenzione. S'illudeva. E l'illusione, doppiamente fallace, non permette di vivere la realtà e ferisce più di un sogno svanito.
Nina piaceva ai ragazzi e a lei piacevano quelli ricchi. Solo quelli. Non so dire quando scelse questa opzione, solo quando decise la sua strada.
La invitai a passare un week end alla mia villa. Accettò pacatamente dopo essersi assicurata di tutte le comodità. Ne rimase folgorata. Lo sfarfallio degli occhi tradiva ciò che la forzata compostezza tentava di celare. Il viso si arricciò in una smorfia incredula. L'atteggiamento da donna intelligente negava la fisicità dei fatti, ma gli occhi troppo spalancati abbacinavano di stupore in un tempo indefinitivamente lungo per chi trattiene il fiato. Le comparve un mondo magnifico e reale, così bello che manco nei suoi sogni più fastosi era riuscita a concepire. Un giardino paradisiaco nel quale si ergeva un edificio bianco scintillante. Poi si rabbuiò. L'espressione del viso concordò con quella degli occhi. Espresse rabbia, odio per quel destino che non le aveva donato cotali magnificenze. Quattro in due stanze, in una strada così buia da non farla uscire di sera. Lo sguardo nero iniziò a perimetrale l'abitazione, solcare il terreno, quantificare la proprietà proporzionandola alla disponibilità nei miei confronti. Soppesò la mia credulità e la comodità di vivere nei miei panni.
Nina arrivò dove aveva stabilito, con le menzogne. Ne divenne esperta È difficile per tutti affrontare la realtà, e Nina compì i suoi primi passi nell'impostura proiettando negli occhi di chiunque una plausibile ed abbellita. La sofferenza per l'inadeguatezza, il bisogno di essere accettata la portarono ad indossare una maschera, che pian piano accomodò sino a sentirsi il personaggio creato. L'ambizione malata acutizzò il dolore che Nina superò raccontandosi favole, allo stesso modo in cui si desidera sbalordire un bambino, e si gioisce di aver ingannato la sua ingenuità. Comprese quanto fosse diffusa la sua fragilità e forte la sua fantasia. Fu il suo modo di iniziare ad accaparrarsi simpatie: mentire a chi non fosse in grado di reggere la realtà. Le persone psicologicamente più deboli sono riconoscibili perché hanno sul volto la necessità di spalancare la bocca ad un'illusione. Nina imparò a riconoscerle e le usò senza scrupoli.
Una donna ha sempre maggiori difficoltà ad ingannarne un'altra, piuttosto che un uomo. Dalle donne Nina doveva difendersi, erano rivali pronte a stroncarla, tranne quelle stupide, ovviamente. Il suo intento era poi quello di conquistare un uomo. E niente ha l'efficacia della bugia nella seduzione. Nina s'impratichì ad interpretare chiunque, a diventare Messalina o Giovanna D'Arco, anche cambiando camaleonticamente nella stessa relazione. Finchè non arrivò quello adatto a lei.
Dal sogno alla realtà, per un po'.
Si usa dire che le bugie hanno le gambe corte, e il castello di sabbia un giorno si disperse nel vento.
Lella mi avvisò con un sms di un consistente ritardo.
Mi raggiunse raggiante e rossa in viso. I capelli decolorati, già sempre disordinati, erano ancora più arruffati dalla corsa per raggiungermi. Parlava velocemente strozzando il fiato. Nella sua agitazione ansimò di essersi fermata a salutare Nina. Un incontro voluto, senza il coraggio di raccontarlo ad alcuno. Non aveva mai creduto alle dicerie su Nina, ne aveva giustificato i tradimenti. Ora l'aveva ritrovata e aveva ricevuto le scuse tra i singhiozzi. Tutti commettono errori. Nina aveva sbagliato ma anche pagato. Chiedeva di ricominciare. Chiedeva di tornare a vivere. Lella era commossa da non terminare le frasi. Ansimava, s'inceppava, si asciugava le lacrime. Era tutto finito e dimenticato. Ed anche perdonato. Non avrebbe potuto abbandonare un'amica. A Nina non era rimasto niente. Peggio, non era rimasto nessuno. Ma forse solo perché nessuno la conosceva a fondo, quanto avesse sofferto per reagire in quel modo e quanto stesse soffrendo per non poter riparare. Questo la feriva mortalmente, perché non le permetteva di dimostrare il suo pentimento. Non aveva alcun modo di far capire di aver imparato la lezione e di non essere così stupida da commettere altri errori. A Nina era rimasta lei che l'avrebbe aiutata in tutti i modi senza risparmiarsi.
M'investiva con le sue emozioni impedendomi di sentire le mie. Il fiato, ormai, mancava anche a me, ma non per l'entusiasmo. Mi rividi impastata in un sudiciume difficile da graffiare. In situazioni pericolose da gestire. Funambola su una corda infinita. Ancora tra pettegolezzi, equivoci, imbrogli. Ebbi istintivamente paura a espormi, a spiegarle cosa pensassi. Avrebbe cercato di convincermi che mi sbagliavo. Dimostrava un grande affetto per Nina, per niente smorzato dagli scandali. Si sarebbe offesa. Le avrebbe chiesto conferma di ogni mia affermazione, e ne sarebbe uscita rafforzata nella convinzione della sua innocenza. Alla fine, sarei stata additata come diffamatrice.
Stare zitta mi sembrava, però, una falsità. Sarebbe equivalso a mentire. Già, mentire, perché sul cambiamento proprio non contavo. Mentire, ed ingoiare la rabbia di essere presa ancora in giro. Mentire, e sentirsi pari a Nina. Quest'ultimo pensiero mi stomacò. Io con Lella sarei stata sincera. Le avrei dimostrato amicizia attraverso la lealtà. Senza condizionarla. Senza trattarla da cretina. Non avevo una coscienza malfidente, solo bruciata da una disillusione. Avrei aspettato che si calmasse per guardarla negli occhi.

Il bordo della vasca da bagno accomodò il crollo di nervi. Lo specchio non raccolse più nessuna immagine, ormai libero da ogni complicità.
Ho perso tutto. Maledette apparenze. Ho calcolato male. Ma ho imparato dai lividi sulla pelle. Gli allarmi saranno più acuti. L'attenzione, allertata. Non mi scopriranno più. Il nemico ha sembianze da amico, e l'intelligente da stolto. A chi credere? Incrociare sguardi senza berla tutta. Scappare da fascini sconosciuti per non regalare sottomissione. Quanti pericoli. Ma se vuoi vivere, non puoi esitare. Devi fottere o sei fottuto. Inculare o sei inculato. Io voglio esistere. Voglio essere. E per essere devi avere. Se non sei nessuno non esisti manco. Se hai, vali. Ma per chi nasce pezzente, è dura la rassegnazione. La rassegnazione è solo stupidità. L'intelligenza spinge alla conquista. La vita è guerra e lascia cadaveri. Ma ancora non ha il mio. I fessi soccombono. E io sono nata per vivere bene. Il mio sogno sarà ancora realtà.
Mai dire la verità. Mai. Non serve. Nessuno merita schiettezza. Nessuno merita fiducia. Perché la sincerità non esiste.

Menzione speciale XVIII Concorso Internazionale di Poesia e Narrativa MOIARCARTE 2008

La magia della "Terra Bianca"
Le leggende della valle di Vitalba raccontano che Federico I Barbarossa, in vecchiaia, si ritirò nel castello di Lagopesole. Leggende e storicità lo indicano afflitto da una deformità congenita ilare: orecchie allungate e puntute. Un imperatore, non poteva essere soggetto al ludibrio dei sudditi, le persone da temere devono essere perfette, per la qual ragione era un problema anche la semplice rasatura. La capigliatura doveva sempre rimanere fluente affinché coprisse la deformità. Non potendo contare sul silenzio dei barbieri, questi venivano puntualmente eliminati, compiuta la loro opera. Se ne salvò uno, giovane e scaltro. Preservò la vita e, a modo suo, il segreto. Il semplice termine "segreto" induce alla divulgazione. È destino di questo vocabolo. Ci si sente sempre onorati di venirli a sapere e la clausula di doverlo custodire porta a tenerlo sulla punta della lingua. Essere, poi, a conoscenza di quelli di persone ricattabili investe d'autorità. Il giovane barbiere, scampato all'agguato, non resistette alla necessità di sfogarsi: scavata una profonda buca nelle campagne di Lagopesole vi gridò dentro, con tutta la forza che aveva in corpo, il segreto dell'imperatore. E il segreto non morì in quella buca. Vi crebbero delle canne che, agitate dal vento, diffusero la notizia ai quattro angoli della terra come una canzone: "Federico Barbarossa tène l'orecchie all'asinà a a a a ..."! I ritornelli lucani hanno continuato ad evocare la leggenda nei canti popolari. Potrebbe, tuttavia, non essere affatto una leggenda. La mensola in forma di testa maschile scolpita sul donjon del castello sopra il suo ingresso è una testa coronata, con due grandi orecchie a punta in bella vista, in cui la tradizione riconosce ancora una volta il nonno di Federico II.
Una luce intensa appare e scompare in prossimità del Castello nelle notti di luna piena. Il suo chiarore si diffonde per tutta la campagna accompagnato da lamenti e singhiozzi disperati. Si tramanda che questa luce sia di Elena degli Angeli, sposa felice di Manfredi di Svevia, in cerca del marito, dei figli e della loro felice esistenza, ad un certo momento troncata. Nelle stesse notti, negli angoli della campagna non raggiunti da essa e dalla luce lunare, si aggira lo stesso Manfredi, all'oscuro della presenza della moglie. Infelice quanto lei, vaga avvolto in un mantello verde su di uno splendido cavallo bianco. Si cercano vanamente, nel tentativo di ricongiungersi e ritrovare la felicità nello stesso posto che li ha visti vivere amorosamente. Un desiderio dannatamente impossibile.
Leggende e storicità del Castello Rosso.
La Basilicata ha tanti segreti da svelare. Storie irrisolte che la fanno definire dall'antropologo Ernesto De Martino "magica terra lucana". Di recente, uno spontaneo passaparola ha scatenato la ricerca del "Santo Graal" nelle Basiliche Lucane, meta dei ritiri spirituali dei Templari. Secondo la maggior parte delle fonti storiche, il "Santo Graal" è il calice di Gesù dell'ultima cena anche usato per raccogliere il suo sangue dopo la Crocifissione, custodito dai Cavalieri Templari e mai ritrovato. "Il Codice Da Vinci", discusso successo editoriale di Dan Brown, ha riportato l'argomento all'attualità. Per quanto contestato, il suo libro ha acceso i riflettori su un'incognita, dando la possibilità agli appassionati di trovarvi una risoluzione. La bellezza dei libri è proprio quella di incuriosire le menti, nutrirle, sfamarle. Soddisfarle.

Cattedrali fra Dolomiti in un comune svettare verso il Cielo. Kilometri di silenzio. Un silenzio fatto per preghiere raccolte. In una terra povera da sempre non ci si risparmia in devozione, perché tutto ciò che si riesce a produrre, da tanta caparbia aridità, è miracolo e lode al Signore. Solo la Lucania poteva ricevere segreti e conservarli. In silenzio.
Terra che ha visto il passaggio di martiri.
Innocenti e fedeli sino alla morte ad una Chiesa che, in principio, non ebbe la forza di proteggerli dall'inquisizione di Filippo IV il Bello e poi si asservì allo stesso, i Templari non si piegarono d'avanti a torture o roghi, nonostante potessero comprarsi la libertà. Fino alla fine martiri della Verità, cristiani migliori del Papà Clemente V e dei suoi cardinali. Non confessarono mai la loro ereticità, né mai sono rinvenute prove. Il desiderio di libertà è più forte di ogni abnegazione. È una naturale propensione. Rinunciarvi sino al sacrificio della vita, per non tradire il voto di ubbidienza, è, per molti, al di sopra di ogni umana comprensione. Nonostante ciò, nessun Templare venne meno alla regola.
Ritengo Papa Clemente V un'icona delle contraddizioni medievali. Pontefice, nonostante che per carattere, per condizioni di salute e per sfacciati interessi personali, non fosse all'altezza della carica papale, tanto meno in un periodo di profondo fervore religioso. Accusato dalla storia di simonia, è noto per aver inaugurato il periodo della cattività avignonese. È lo stesso che Dante collocò nel IX girone infernale. Bertrand de Got, diventato Pontefice senza neanche essere cardinale, iniziò il suo papato sotto cattivi auspici. Durante il corteo per la sua incoronazione a Lione, morirono 12 uomini per la caduta di un muro che colpì lui stesso. Carlo di Valois, fratello del re, gli riconsegnò la tiara rotolata nella polvere. Sia lui che Filippo IV ebbero, poi, una morte orribile.
I Templari sono gli unici ai quali non è stato rivisto il processo d'inquisizione nonostante i ritrovamenti di numerose testimonianze a loro favore, da ricerche laiche. Giovanna D'arco, già dopo 40 anni dal suo rogo, fu canonizzata Santa. È stato, tra gli altri, rivisto il processo di Galileo Galilei. Al contrario, i Templari, che non sguainarono la spada come Calvino, gli albigesi e gli ugonotti, cruentamente dissenzienti e tuttavia supplicati di perdono da Papa Paolo VI, e che rimasero sino in fondo servitori della Chiesa, non sono ancora per Essa argomento di dibattito. Il loro ordine non è mai più stato reinstaurato, al contrario di quello dei gesuiti ripristinato con un decreto di Pio VII che abrogò quello di Clemente XIV.
L'ordine dei Templari, in realtà, non aveva avuto amici neanche nel periodo del loro massimo fulgore. Gli altri due ordini, i Cavalieri Teutonici e i Gerosolimitani, assistettero in silenzio al loro sterminio, nonostante il loro intervento potesse essere determinante. Dissidi politici ed economici, specialmente in Terra Santa. I Gerosolimitani si mostrarono, comunque, i più cavallereschi. A Chinon, in prigione, contattarono il gran maestro dei Templari, Molay, per offrire il loro sostegno. Molay rifiutò, considerando già tutto perduto. I Gerosolimitani si ritirarono in nome della prudenza. Se si fossero schierati troppo apertamente dalla parte degli sventurati Templari, sarebbero stati sospettati di difendere, in fondo, se stessi. La Chiesa è da sempre accusata d'interessi economici ed è palese come questa motivazione sia stata motivo di divisione al suo interno. I Templari, divenuti ricchissimi, persero tutti i loro averi per la cupidigia di Filippo IV, senza alcun intervento a loro favore da parte di chi, apparentemente svolgeva il loro stesso servigio, in realtà mirava ugualmente a conquiste del tutto temporali.
Ad accoglierci nella terra bianca, però, non sono stati i Templari, dissolti nella loro storia, ma proprio le Dolomiti Lucane. Dalla superstrada che percorre la valle del Basento, ripide e tortuose strade conducono a Castelmezzano e Pietrapertosa, i due paesi sorvegliati dai torrioni rocciosi del parco Gallipoli - Cognato. È elemento distintivo dei paesi lucani sorgere sui pendii.

...una catena di guglie di rocce arenarie,
profondamente incisa nella gola scavata
dal rio Caperino, svetta irta ed aspra
nella valle sinuosa del Basento tra
Albano e Campomaggiore.
La natura è un tempio dove pilastri vivi
mormorano a tratti indistinte parole;
l'uomo passa tra le foreste di simboli che
l'osservano con sguardi famigliari.
Ch. Baudelaire

Bellissime, aspre, selvagge. Spoglie e suggestive. Segrete, nella loro apparente nudità ricche di flora e fauna scomparsa altrove.

La cucina lucana ha sapori estremamente decisi come l'asprezza della sua terra inondata di sole. Il maiale ne è il protagonista indiscusso. In genere magrissimo, produce un prosciutto di consistenza asciutta e nervosa che i lucani amano insaporire in modo piccante. Ce ne parlavano già gli storici Varrone e Cicerone, ma anche Apicio e Marziale, della "luganega" aromatizzata con pepe nero e peperone rosso dal gusto aggressivo che si mangia fresca, arrostita o fritta, oppure la si fa seccare e affumicare, o ancora la si mette sott'olio. Le soppressate e i capocolli hanno un gusto introvabile, mentre la "pezzenta", il salame dei poveri fatto dagli scarti della macellazione minutamente tritati, aromatizzato con dosi generose di aglio e pepe, è la specialità culinaria che caratterizza la regione. Mi darà ragione chi ha assaporato questi salumi accompagnati con l'Aglianico del Vulture, l'intenso vino rosso locale. È particolarissimo. Rosso, se invecchiato con riflessi arancioni. Di sapore fresco e armonico, in sintonia col suo profumo delicato. La loro prelibatezza è ulteriormente esaltata se accompagnati col pane di Matera, unico per la sua fragranza. Anche questo si contraddistingue per l'introvabilità in altre zone. È di sola semola, in forme di grandi dimensioni, capace di mantenere intatto il suo sapore anche per alcuni giorni.
La cucina lucana è un'accogliente tavola umile e infuocata. L'assoluto, indiscusso, protagonista è il peperoncino, nelle accezioni dialettali diavulicchiu, frangisello, pupon o cerasella. Iniziato ad adoperare, il suo sapore forte e deciso fa sembrare sciapiti tutti i piatti che non lo contengono. Miscelare sapientemente le spezie per esaltare i piatti più poveri è nato come una necessità ed è diventato gusto. Fra tutte, il peperoncino, anche quello fritto nell'olio, è l'ingrediente immancabile nel "pranzo del contadino" che per natura o per usanza era tenuto ad essere "bue di giorno e toro di notte". Gli si affidava anche la cura della malaria. Il peperoncino, senza alcun dubbio, è l'incontestato spirito di Lucania.
L'unicità della calda cucina lucana, basata sulla sapiente unione di cibi semplici e genuini, ha come specificità l'uso del rafano, il tartufo dei poveri, e dei lampascioni, una cipolletta selvatica. Usato è l'olio d'oliva, mentre quasi sconosciuto è il burro.
Termino con un'ultima citazione, culturale e culinaria, per onorare la Lucania: Orazio nella VI satira parla della "zuppa lucana" di ceci e porri.
La regione Lucania è, alla fin fine, una fucina di sorprese, coglibili da chi non si ferma alle scarne apparenze.


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