Racconti di Fabio Rocca


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Il cuore saggio
Ho sempre pensato che ogni esistenza a questo mondo, ogni essere vivente abbia uno scopo. Che ci sia una logica, precisa e indissolubile cui tutti siamo legati, il destino. Ho vissuto così, limitandomi ad accettare con pazienza ciò che avveniva quotidianamente, tanto è il destino! Mi sono spinto alla ricerca del senso della vita, del perché di tutto questo, ho attraversato gli studi di fisica, metafisica, religione, simbolismo e illusione, poi, sono tornato indietro ed ho trovato l'origine di questa logica. È solo attraverso le misteriose trame dell'amore che noi esistiamo attraverso le nostre azioni e le quotidiane scelte, scelte che ci portano a vivere eventi piacevoli e spiacevoli, ricchi di gioia e dolore, ma sempre pronti in qualsiasi modo a insegnarci il senso della vita stessa.
 

Il gioco del destino.

Guardavo fisso il pavimento scuro del salotto, non avevo il coraggio di guardarla in faccia, mi faceva male, oh sì, posso giurarlo, avevo un intero universo nel cuore pronto a esplodere, che voleva liberarsi dalle prigioni mentali, dalla fortezza di ghiaccio delle paure insensate infuse dall'educazione. Guardavo il pavimento, tirai così un sospiro e dissi quello che dovevo <<Mi dispiace Vissia...io non voglio stare più con te, nonostante provo amore per te, io non posso..non è possibile.>> Il perché? Quello non l'ho mai scoperto, forse per vigliaccheria o per paura d'amare, ma ogni definizione sembrava uscita da una rubrica di psicologia da quattro soldi, il significato è che l'amore a volte compie dei giri davvero lunghi, come quando il navigatore satellitare ti porta per strade assurde fino a sbucare nel punto prescelto, solo che potevi arrivarci più in fretta. La vedevo piangere, le stavo dicendo addio, lei mi amava ed io, a modo mio le dicevo di non andar via, che avevo solo paura. L'epilogo di queste storie lo conosciamo bene, la porta di casa si chiude e invece del volto di chi amiamo, fissiamo la porta color mogano. Addio Vissia, esci dalla mia vita, ora e per sempre, via, va via che ho un destino da compiere come ogni uomo, il problema è che questo destino mi ha portato a congetture e continue ricerche. Conoscere, a me importava conoscere, certo, è ancora il cavallo che traina il mio carro, ma all'epoca cercavo solo conoscenza. Ho visto cose strane nella mia vita, quelle ai confini della realtà tanto per intenderci, davvero l'amore era un intralcio, una vera palla al piede che mi avrebbe portato all'esasperazione. No, no, Vissia doveva andar via da me, ormai ero libero, casa vuota, io e i miei libri, i miei tramonti, i pensieri folli, gli incubi, le premonizioni e i pianti inconsolabili. Chiusi definitivamente con lei, la vita scorreva agiatamente, tutto era perfetto, ormai non mi restava che coltivare i sogni e farli crescere, senza tener conto che ogni sogno per crescere ha bisogno del fertilizzante giusto, l'amore.

Proprio quell'amore mi aveva reso cieco, portandomi sulle altezze vertiginose del vivere, tra le illusioni, gli spettri del passato e futuro, tutto insieme come in una macedonia. La sera mi ritrovavo lì, davanti al computer, cercando, cercando e cercando ancora. Viaggi, misteri da scoprire e persone da incontrare, una sera il destino aveva organizzato un appuntamento inaspettato, Vissia. Dopo un anno preciso, anche se solo attraverso una tastiera e un monitor, io l'avevo ritrovata, a mia insaputa qualcuno o qualcosa aveva tramato affinché potessi parlare ancora con lei. Nelle antiche epopee degli eroi, è spesso fatta distinzione tra destino e fato. Il destino è il volere superiore, il fato è espressa opera dell’uomo e delle nostre azioni. Possiamo spezzare le catene del fato, ma non quelle del destino cui siamo legati saldamente. Io avevo spezzato le catene del fato alcuni mesi fa, allontanandomi da lei, ma il destino mi aveva ricondotto al punto di partenza. Nel cuore della notte presi il telefono e la chiamai <<Vissia>> dissi solo una parola e lei si sciolse in lacrime, il mio cuore ritornava a battere come non mai, rinvigorito di qualcosa di misterioso. Le lacrime, la voce singhiozzante era per me, come una voce che s'insinua tra le fronde degli alberi in una giornata ventosa. E mi parlava di amore, solo di amore, quello necessario per vivere l'intera esistenza. Così appresi della sua infelicità, di un fidanzamento riparatorio e del dolore di un amore passato, legato alla gamba come un cilicio sanguinante. Chi siamo noi per dichiarare che non c'è più amore tra due persone? E perché cerchiamo di convincerci miseramente che la vita è bella finché viviamo da soli? Senza obblighi e leggi, senza morale, sola adrenalina nelle vene, decolliamo in alto, sempre più in alto e perdiamo il contatto con la realtà, nelle vene scorre il sangue e basta, questa è la realtà. Da bambino ero affascinato dai grandi dipinti che vedevo nelle chiese barocche che ritraevano i santi, la mia catechista mi diceva che sacrificarono tutta la vita terrena per cercare l'illuminazione attraverso la fede in Dio. E se invece l'unica vera ragione di vita fosse stata solo l'amore? Esso travalica la materia e il tempo, quell'amore che magnetizza due esseri indissolubilmente. Ognuno di noi è un santo che cammina verso l'illuminazione, c'è chi rinuncia e aspetta che passi il treno ad alta velocità per il paradiso, e chi invece decide di viaggiare con un interregionale, fermandosi a ogni stazione della vita con i propri compagni di viaggio. Sentivo che lei, in quella notte, a quel telefono era la mia compagna di viaggio, ascoltai il cuore, solo il cuore, misi un cerotto sulla bocca del cervello, staccai il collegamento tra di essi, "il cuore è momentaneamente assente, è impegnato nella vita, sta costruendo la propria esistenza senza barriere e condizionamenti, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico beeeeeep." Questo stava accadendo in me...e in lei.

Mi ha raccontato la storia di un amore di plastica, di un uomo medio, con pensieri medi, una vita media e senza sogni. Spesso ricadiamo su noi stessi, partiamo con grande slancio verso nuove terre, poi l'uragano degli eventi ci riporta nel piccolo porticciolo sicuro, dove attracchiamo la barca alla banchina della sicurezza. Sì! Un bel porto sicuro, dove le cose sono modeste ma durature, oltre la scogliera c'è la tempesta della vita, "forse la mia barca non avrebbe resistito ed io sarei annegato" ecco cosa pensiamo! E' la filosofia di vita della gente su questa Terra, vivere tiepidamente la propria esistenza. Idolatriamo chi scala le vette del successo, beati loro, noi che possiamo fare? Nulla, siamo nati sfortunati, disagiati e forse con un marito o una moglie che un giorno a stento riconosciamo, un pezzo d'antiquariato che gira per casa. Questi pensieri vorticavano nella mia testa, il cuore faceva pulizia della mediocrità della vita, oltre quel telefono c'era lei, sì lo ammetto, c'era mia moglie, la mia sposa, solo che lei ancora non lo sapeva, in quel preciso istante vidi le nostre mani con la fede nuziale al dito, io e lei.

 

La scelta.

Vissia ha due occhi verdi come il mare dopo la tempesta, quando esso si riposa dall'enorme sforzo delle onde frustate dal vento, lei è così, un mare ventoso con le sue onde lunghe a riva, bello, chiaro e forte, di un verde profondo e agitato. In lei ho visto la matrice dei miei sogni ed ho seguito tutto questo sentendo solo la natura dei sentimenti. Lei ha lasciato l'amore di plastica, anzi, gliel'ho chiesto io. Con forza ho assaltato la sua nave, issando la mia bandiera, l'ho conquistata, la stavo salvando dalla bonaccia del mar dei sargassi dov'era finita. Esistono delle realtà di vita che sono povere, senza onore, senza amore, c'è solo il buio dell'insicurezza, ho avuto paura di lei, di tutto quello che poteva rappresentare per me, per il futuro e per quello che potevano pensarne gli altri. Gli altri, temiamo il giudizio, il confronto, Vissia ha sei anni più di me, credevo veramente inconcepibile vivere alla luce del sole con una donna più grande. La cortina di nebbia ormai era svanita, tutto è esploso ed è scomparso in una bolla di sapone, ho conosciuto la sua famiglia ben presto, portavo a loro l'unico dono e richiesta, volevo Vissia come mia moglie e offrivo a lei il mio cuore, senza riserva, senza i "vediamo come stiamo insieme, e se funziona, ci sposiamo." Hanno detto che il paradiso è per i violenti, per coloro che lo assaltano con determinazione, che lottano per arrivarci, infischiandosene di tutti e di tutto. Io e lei abbiamo lasciato dietro di noi molto del passato, delusioni, attese e idee deludenti, volevamo solo vivere e viverci, via da tutto e tutti.

Mettemmo su una vita insieme, io già vivevo da solo, essendo un nomade emigrante dal sud dell’Italia ho lasciato presto casa per lavoro, ho vissuto per circa sei anni in silenzio tra le mura di casa, e così le chiesi di venire a stare da me. Come un gatto timido sull'uscio della porta che non vuole entrare, lei esitò qualche giorno, alla fine divenne totalmente parte della mia esistenza quotidiana ed io della sua. Ovviamente quando due correnti oceaniche si scontrano, nasce una tempesta, come tutti gli esseri umani abbiamo vissuto momenti splendidi dove ho trovato me stesso nei suoi occhi e momenti dubbi e rabbiosi, dove avrei voluto accusarla come causa dei miei fallimenti. Questa è la visione sbagliata che ci facciamo della vita, puntando il dito alla ricerca di un colpevole, spesso siamo aguzzini di qualcuno, giusto perché non riusciamo ad affrontare i nostri carcerieri che profanano i sogni che abbiamo dentro, ed ecco che ci accusiamo a vicenda, o ci sfoghiamo paurosamente con chi amiamo. Superammo la burrasca, ormai il nostro universo girava bene, come una perfetta macchina celeste tolemaica, la Terra al centro, e tutto il firmamento ruotava intorno a noi. Abbiamo arato la terra arida delle nostre vite solitarie e l'abbiamo resa fertile con l'amore, poi abbiamo seminato il futuro racchiuso in piccole gocce di speranza, a guardia da uccelli approfittatori, ci siamo impegnati insieme, costantemente affinché tutto potesse andar bene. Pioggia e sole, estate e inverno, caldo e freddo, noi insieme, sempre insieme, a volte come amanti, altre come amici di una vita, ma sempre e solo come anime speculari l'una dell'altra, ci siamo divertiti e annoiati insieme.

Per chi non crede che esista un Dio artefice delle esistenze, è difficile pensare che ci siano anche anime destinate a vivere insieme, o meglio, che esista l'anima nel vero senso della parola. La mia vita è farcita di sogni premonitori, visioni e fatti che farebbero sorridere molte delle persone che ascoltano, ma non posso fare a meno di negare quello che sento, quello che sono. Siamo abituati a tramutare noi stessi nel corso degli anni, da bambini abbiamo i nostri amici invisibili, il mondo è bello e innocuo, esistono eroi, mostri e sirene. Poi cresciamo, ma questo non vuol dire dimenticare, cancellare con un colpo di spugna quello che abbiamo scritto; in tanti secoli della storia umana l'uomo ha sognato e seppur genuinamente ha formulato tesi errate, queste comunque ci appartengono. Mai dimenticare chi siamo, mai chiudere le porte del passato e tantomeno mai creare delle stanze cui mettere le porte, noi siamo l'insieme delle esperienze e non siamo dei monolocali, dove lo spazio è ridotto, ci sentiamo infiniti, immortali e riusciamo a ricordare tantissimo della nostra vita, non ridete di voi stessi, anche quando vi deridono, perché troverete chi vi leggerà il cuore e lì, anche se non avete Dio nella vostra vita, almeno in quel momento potete sperimentare un senso di appartenenza a chi vi scorge dentro. É una specie di magia, non tutti se ne accorgono e spesso le relazioni finiscono per stupidaggini, per gli spazi, la collezione di fumetti, la seduta settimanale dall'estetista o per la partita di calcio. Chi si accorge di essere letto nell'animo e di rimando legge l'anima della persona che ha accanto, in quel momento scatta l'amore e non c'è nulla, nulla esistente a questo mondo che possa annientarla.

Più vivevo la mia vita con Vissia e più queste idee entravano in me, io e lei, due stelle binarie attratte l'una dalla gravità dell'altra. I suoi occhi, specchio dell'anima, hanno raccontato la forza trainante che la caratterizza, la profondità oceanica della sua dolcezza e il dolore di un passato turbolento, ho sempre amato il suo presente, il suo passato apparteneva a lei. Non ci restava che vivere insieme e arrivare alla vecchiaia come due vecchie tartarughe centenarie che passano le giornate al sole contandosi le rughe sulla faccia. Molte coppie non credono più nel matrimonio, ormai logoro, abusato e farcito d’inettitudine e artificiosità, poiché non credono che esista una spiritualità. Gli uomini sono diventati sterili, esseri avvizziti che rincorrono il sogno della giovinezza, l'importante è essere belli e consumare il proprio tempo in quante più sciocchezze possibili. Decidemmo così di celebrare il rito religioso, volevamo che la regalità di quel giorno intriso di mistero, potesse amplificare un giuramento di parole ripetute da secoli, ma sempre vibranti in chi crede nell'amore. Nel pieno dell'enfasi, dei preparativi, la nostra vita scorreva veloce, almeno io avevo l'impressione di arrancare dietro di lei, non riuscivo a starle dietro. Lei correva veloce col tempo, prevedeva il nostro futuro di mesi e di anni, siamo inclini a commettere l'errore di pianificare tutto della vita, di programmarla in ogni piccolo dettaglio fino alla fine, come se fosse un compito di matematica, basta seguire le regole, attenersi ai piani e tutto filerà liscio. Ero anche capace di frenare la sua corsa, credo che le relazioni umane vanno d'accordo quando c'è una certa sinergia negli eventi, quando uno contrappone una forza uguale e opposta all'altra, fino a creare l'equilibrio. Vissia mi ha aiutato a rimanere con i piedi per terra, mi sono reso conto che oltre il mio mondo personale esisteva anche quello in cui viviamo. Per quanto schifo possa farci, questo è il nostro mondo, per merito o colpa nostra, nulla nasce a caso, c'è sempre una causa e un effetto, bisogna fare interminabili file per ogni cosa, tenere d'occhio l'orologio e rispettare gli impegni, siamo fatti anche di carne oltre che di emozioni. Lei ha ancorato il palloncino dei miei pensieri al suolo e questo mi permetteva di vivere abbastanza in equilibrio. Io invece le ho insegnato a volare. L'ho trovata naufraga nell'oceano delle passioni turbolente, nel rimorso e nella rabbia, le ho insegnato a guardare le stelle, perché su nel cielo a volte troviamo risposte che sul suolo polveroso non esistono, insieme abbiamo chiuso gli occhi e respirato a fondo, sciogliendo i nodi del cuore, abbiamo camminato a lungo in silenzi boscosi, in cima alle vette e visto tramonti di una bellezza impareggiabile, perché? Perché lei merita i gioielli del cielo, i tesori della terra e le trame del tempo, per lei ho aperto le vele del cuore per navigare verso lidi lontani, giacché nessun uomo su questa terra merita di soffrire e in un modo o nell'altro, che ci sia amore di coppia o solo fraterno, noi dobbiamo impegnarci affinché tutti possano sognare.

 

Un giorno qualunque

<<Guarda qui, guarda com'è duro qui il seno.>> disse una sera mostrandomi il suo piccolo seno perfetto, <<Pare quasi che ci sia qualcosa che pulsa dentro.>> disse tastandosi il seno destro <<Beh, saranno le solite cisti che si sono infiammate, domani sera verrai in ospedale si da un'occhiata.>>

Lavoro come infermiere in un ospedale, questo mi ha permesso di avere ben presto il quadro della situazione. Sono sempre stato un tipo lascivo, spensierato, comprensivo dei problemi altrui, ma alla fine del turno, tolta la divisa e rinchiusa nel piccolo armadietto, non portavo a casa nessun problema lavorativo. Le profonde emozioni che si possono provare in questo tipo di lavoro, alla fine ti distruggono se non sei capace di mettere un freno all'emotività. Questo spesso porta a un processo disumanizzante, dove molti svolgono l'attività meccanicamente come se fosse una cosa normale vivere una disgrazia o un dolore. Sì certo fa parte della vita, ma credo che le figure come quella che rivesto, intrecciate quotidianamente con la salute delle persone, debbano avere molto più cuore che mente. La tecnica a un certo punto si ferma, è asettica, ha il fine a se stesso, ciò che guarisce è il sapiente uso del cuore. Nei confronti di Vissia mi sono lasciato travolgere dalle emozioni e questo ha annebbiato inizialmente la mia parte di lucidità, una lucidità sconsiderata.

<<Vieni in ospedale, diamo un’occhiata con l'ecografo, che vuoi che sia.>>

<<Questa cosa mi preoccupa, non mi aveva mai dato fastidio in questo modo, sento che pulsa, è una cosa dura come la pietra.>> Spazientito mi alzai dalla poltrona tralasciando il libro, costatai effettivamente che era vero, non era la solita "pallina" morbida e sfuggente di qualche mese fa, era duro, irregolare e preoccupante. Ho imparato a nascondere determinate emozioni, l'ultima cosa che una persona vuol sentirsi dire è qualcosa di spiacevole, nel mio lavoro determinate informazioni, spettano al medico, seguiamo un protocollo di privacy e di etica, con Vissia non sono stato sincero e tanto meno lo sono stato col mio cuore. Avevo paura e la paura la leggevo profondamente nei suoi occhi, poi l'atmosfera di casa cambiò, in altre parole, cambiai argomento dirottando la conversazione sul tempo, sulla nostra gatta che aveva disfatto per l'ennesima volta l'albero di Natale. Era proprio una bella casa la nostra, un bilocale a piano terra, circondata dal giardino. I vicini erano cordiali, la zona tranquilla e noi l'avevamo arredata come uno di quei negozi di antiquariato, dove ogni angolo del locale è pieno di chincaglierie: candele, foto, quadri, raccolte di minerali, una decorazione fatta con delle pigne raccolte nel bosco, il tappo di spumante della prima bottiglia stappata in quella casa e tutti gli oggetti che nel rivederli ci riportavano a una data ben precisa. Poche persone l'hanno vista, eravamo gelosi del nostro angolo di pace, io avevo molto più tempo da passare in casa, lei lavora a tempo pieno in ufficio, mattino e pomeriggio. Questo faceva di me la casalinga ufficiale, anche se le sue lamentele spesso mi ricordavano che la mia indole maschile, amante di quello strato di polvere che si depone sui mobili, non sempre si sposava col ruolo che mi ero accaparrato. Passavo molto tempo in solitudine e questo non mi dispiaceva, quindi continuavo a leggere, scrivere, pensare, dubitare e tormentarmi l'esistenza con congetture e teorie, una vita semplice, placida, filantropa, come il fiume che scorre in pianura. Avevamo un matrimonio da preparare e un sognante viaggio di nozze, il suo esame rientrava in una routine di piccoli acciacchi e malanni, un’infiammazione ecco, nulla di che, ho scacciato via l'idea più brutta a priori, era praticamente impossibile. E venne così il mio turno di notte in ospedale, era una sera di dicembre, c'erano poche persone in attesa, spesso l'ambiente è affollato e caotico sia mattino sia la sera, ma in quel momento tutto era tranquillo. Fortunatamente il radiologo che doveva eseguire l'ecografia era anche senologo, quindi ne approfittai fissandole l'appuntamento alle ventuno. Vissia aveva la faccia tesa, rigida, aveva edificato l'impalcatura dell'attesa sfibrante, conosco bene la sua faccia di tensione, diventa una sfinge monolitica, immobile e gli occhi, pare quasi che divengano azzurri e freddi. Nel buio del piccolo studio, il dottore frugava con la sonda cosparsa di gel sul seno di Vissia, dirigendosi direttamente sul punto interessato e devo asserire, in quel preciso momento il rigonfiamento era vistoso e solido al tatto. Quello che apparve nell'immagine fu qualcosa che almeno un infermiere deve saper riconoscere, i punti neri sono zone vuote, ma le conformazioni bianche e più dense del tessuto circostante riportano a qualcosa di organizzato e anomalo. Serrai i denti nel vedere l'immagine, lei mi guardava, sapevo che cercava il mio sguardo ma non la guardai, rimasi fisso con gli occhi sul monitor e insieme al dottore, in silenzio, guardavamo increduli l'immagine lattescente che cambiava continuamente forma, posso dire ora che assomigliava a una piccola medusa. Quando attivò la funzione doppler dell'apparecchio, per misurare la presenza di un flusso sanguigno, notammo che quell'addensamento enorme, era anche vascolarizzato. Sentii immediatamente i battiti accelerare, guardai Vissia che intuì la mia preoccupazione, in quel momento nella testa balenò una sola parola, cancro.

Il dottore si schiarì la voce, era imbarazzato e anche lui basito, esiste una solidarietà tra colleghi, una familiarità in effetti, passiamo buona parte della nostra vita a lavoro, stringiamo a volte dei legami fortissimi che diventano amicizie di una vita. Sfido chiunque che non abbia mai confidato a un suo collega i problemi familiari, le gioie, i dolori della vita, tanti piccoli confidenti, antipatici o simpatici che siano, loro sono le nostre valvole di sfogo, sono tutti complici e partecipi delle vite altrui. Evidentemente il mio collega ha avuto un colpo al cuore, misurò le dimensioni di quella cosa che ci ha fatto palpitare, era un problema grande 3,5 centimetri, un grosso problema.

<<Non sono cisti benigne, quest'ultime si trovano qui.>> Il dottore aveva girato lo schermo per mostrare l'immagine a mia moglie che singhiozzava e mi stringeva la mano, non riuscì a dir nulla, guardava quell'immagine come una condanna a morte.

Il dottore si voltò lievemente verso di me <<Fabio questo deve farlo controllare assolutamente, non voglio affrettare i giudizi ma bisogna fare una biopsia del tessuto in urgenza.>> Io annuii capendo al volo e come se ci fossimo letti nel pensiero io e il dottore iniziammo a stemperare un po' l'atmosfera, prima che l'emozione di Vissia divenisse incontrollabile. L'unico che si doveva controllare ero io, abbracciai mia moglie, lei piangeva a dirotto, mi stringeva e soffocava il suo pianto sul mio petto, con le lacrime parlava, chiedeva aiuto, gridava e implorava che tutto quella faccenda fosse stata un grande errore. Uscimmo dalla stanza e nel corridoio i colleghi che camminavano a passo svelto, incrociavano lo sguardo mio e di Vissia, rallentavano e ci guardavano con aria stupita e preoccupata, anche loro colpiti dal senso comune delle emozioni. Era un luogo estraneo, avrei voluto portare Vissia via con me, lontano da lì, ma non potevo, ero al lavoro. Camminavamo per il corridoio e qualcuno ci confortava, ma camminavamo sotto la neve solo io e lei, provavo la stessa sensazione di quando la lasciai per la prima volta, l'universo intero stava per esplodermi dentro, continuava a balenare la parola “cancro”.

<<Oh Dio Fabio, non è possibile...non ci credo...>> Non dissi nulla, non una parola, parlava il mio silenzio in quel momento. Fu fatto tutto alla svelta, la stampa dell'ecografia, la richiesta per una biopsia in giorno dopo <<Tranquilla amore, potrebbe essere anche un grosso nodulo infiammato, va soltanto tolto.>> Riuscii a dire solo queste banali parole prima di lasciarla andare a casa. La accompagnai all'automobile, lei se ne tornava a casa da sola, nel nostro luogo segreto che non aveva visto nessuno. Adesso credo che in quel momento non era sola, ma in compagnia della paura e quando questa signora si siede accanto a te, silenziosa e scrutatrice, è capace di non lasciarti solo neanche per un istante. Tornai in ospedale, postazione di triage, seduto dietro una scrivania, svuotato, smembrato. Era come in quei film di guerra che quando scoppia una bomba accanto al protagonista, tutti i suoni divengono ovattati e le scene si svolgono a rallentatore, così mi sentivo io, frastornato, era esplosa una granata nella nostra vita. Chiusi gli occhi e raccolsi il viso tra le mani ma non vedevo il buio, c'era un vortice ciclopico che mi risucchiava e dentro il vortice stesso vedevo scene di una vita intera fino a quel momento, e ora riuscivo a vedere quella cosa, l'immagine lattescente sull'orlo del computer non andava via dalla mente e ancora quella parola, cancro.

 

Insieme per sempre.

Ho passato un'infanzia solitaria, non perché non avessi avuto amici, ma per il semplice fatto che adoravo stare solo e spesso inventavo le mie storie, le mie avventure, la realtà cambiava aspetto e vivevo nel regno di fantasia appena creato, spesso ho giocato all'ultimo uomo sulla Terra. Immaginavo che tutti erano morti ed io giravo indisturbato ovunque volessi, senza chiedere permesso a nessuno per fare o non fare una determinata cosa. "Che bello se morissero tutti" dicevo disteso sul prato a guardar le nuvole, da grande quel gioco ha assunto i connotati reali di una malattia e il regno fantastico è diventato un regno di paura e orrore, sarebbe stato la fine per me se qualcuno a me caro si fosse ammalato. Pensieri, semplici pensieri di un ego affannato dalla vita quotidiana, con la semplice differenza che il regno di fantasia cercava di farsi spazio dentro di me, sembrava che il destino volesse giocare ancora all'ultimo uomo sulla Terra, per me Vissia era ed è ancora il mondo, immaginare una Terra senza di lei, significa restare solo. Cercavo di convincermi e di convincere lei che tutto si sarebbe risolto per il meglio, ma Vissia era cambiata, avevo notato in passato quel suo comportamento arrogante di sfida, pronta sul piede di guerra contro il mondo e involontariamente contro di me. Quando chiamai i miei genitori che vivono a Procida, cercai come sempre di stemperare la situazione, cauti, entrambi eravamo cauti, anche i genitori di Vissia, cercarono di mantenere la calma, tutto apparentemente era sotto controllo, la situazione doveva essere obbligatoriamente normale. Un altro controllo, altre analisi, dobbiamo calmarci, essere cauti e respirare a fondo, il fiume sotterraneo delle emozioni cercava un punto dove zampillare fuori dal terreno della calma apparente, la biopsia era l'esame fondamentale.

<<Stia tranquilla signora, le faccio prima un po' di anestesia, poi inserirò questa cannula per prelevare del tessuto da analizzare.>> Semplice come bere un bicchier d'acqua, Vissia per la seconda volta era a seno nudo davanti a molteplici occhi puntati su di lei, occhi che sorridevano timidamente, un sorriso tirato, quasi da protocollo. Anch’io avevo imparato quel sorriso, il sorriso da etichetta di noi sanitari, chi è passato in prima persona sa a cosa mi riferisco. Lei era diventata irrispettosa, a mio giudizio sgarbata, ma chi sono io per dare questo giudizio? Sì, il suo compagno di vita, ma il dolore e la paura che in quel momento stava provando io non potevo nemmeno sfiorarlo, la sua paura era come l'impalpabile cenere di un fuoco spento, appena tangibile ma presente <<Mi raccomando dottore non mi faccia male, ho paura degli aghi.>> disse Vissia tra le lacrime, in effetti non era un ago, ma un vero e proprio chiodo lungo dieci centimetri circa. Vedendolo pensai a qualche sera prima, quando costatai la consistenza del nodulo e il dolore che provava alla pressione, sì, avrebbe sentito dolore, non poco. Il dottore serio e teso infilò senza esitare la cannula nel nodulo, Vissia gemette e mi strinse forte la mano, implorava aiuto, mi parlava ancora una volta solo con gli occhi, mi leggeva nell'anima "portami via da qui", io avevo il battito accelerato, sotto il maglione di lana sudavo copiosamente e la fronte si ricoprì di perline, mi sentivo debole, ecco le vertigini, da lì a poco sarei svenuto. Mi divincolai dalla stretta della mano di Vissia, smisi di preoccuparmi di lei e come se lo studio fosse la mia residenza abituale, cominciai a girare intorno al lettino di visita <<Prendo un po' di carta, dopo ti toglierai il gel appiccicoso.>> Espirai a bocca aperta guardando in aria, le infermiere lì presenti si accorsero del malore e mi davano un'occhiata di tanto in tanto. Stavo meglio, dimostrai a me stesso che avevo la forza per fermare il treno in corsa delle emozioni, pregai, pregai affinché tutto fosse finito alla svelta. Vissia continuava a piangere, il trucco le colava sulle guance mentre lasciava fare alle infermiere la medicazione. Salutammo il dottore e uscimmo in silenzio, non ci guardammo in faccia, in auto si lamentava per il dolore, le pulsava, le faceva male, arrivati a casa l'aria pesante della tensione si sciolse in un profondo pianto liberatorio. Ce ne stavamo seduti sul divano, Vissia accoccolata tra le mie braccia, raccolta e indifesa, io in silenzio con gli occhi asciutti guardavo il vuoto, il mio battito regolare, il respiro profondo, ero stranamente calmo. In quel momento sentii qualcosa al petto, come un'apertura, capivo che io e lei eravamo destinati a vivere insieme, non era più una questione di attrazione ma c'era qualcosa di profondo e indefinibile, vasto come l'oceano, io avevo ed ho ancora la certezza di aver scelto colei che mi avrebbe riscattato, ed io l'avrei sorretta e amata per tutta la vita.

 

L'incantesimo infranto.

Nei momenti nefasti della vita di una persona, emergono dalle profondità dal dimenticatoio sociale i famosi amici. Un esercito di amici, ovviamente nulla togliendo alle intenzioni dettate dal cuore certo, ecco tutti che si muovono all'unisono per confortarti, come tanti anticorpi si scagliano contro di te a migliaia, in quei giorni di attesa il suo cellulare ha squillato incessantemente, tutti si sentono vicini, avrò letto e ascoltato decine di volte le frasi "se hai bisogno, chiedimi qualsiasi cosa", "credimi vi ho nel cuore entrambi", "io ci sono ok? Mi raccomando chiama, io ci sono mattina e sera". Il mio giudizio a riguardo? Siamo tutti degli ipocriti, me compreso, siamo tutti dei prodotti confezionati dalla società con una bella etichetta conforme alle regole. Sentiamo l'obbligo morale di congratularci, di augurare gioia e fortuna, di porgere le condoglianze, sono proforma perché così vuole l'etichetta sociale. Nessuno agisce in questi frangenti in malafede, ma non sentiamo quello che diciamo, è un percorso automatico della nostra mente "eccì! Salute!" ecco il classico esempio, a noi non interessa la salute della persona che ha starnutito, ma così si dice e così si fa. Avevamo intorno a noi tante persone, questo tranquillizzava Vissia per il momento, anche se l'onda più dura doveva ancora abbattersi su di noi.

Esiste una banca conosciuta in tutto il mondo, famosa a ricchi e poveri, probabilmente la più antica, nata prima della moneta che tratta cambi e operazioni complesse, è la banca dei favori. Ovviamente va usata nel limite della legalità, chiunque abbia un minimo di potere o di conoscenza, lo mette a disposizione della banca dei favori come titolo creditizio, il titolo è venduto a chi ne ha bisogno e così si crea un debito, che è colmato con un altro favore. L'individuo che si è presentato all'ufficio di mia moglie era un tecnico di microbiologia dell'ospedale, tramite la banca dei favori riuscimmo a farci un’idea, un'idea sconvolgente "signora io non posso dirle il risultato dell'esame, ma le auguro davvero tanta fortuna". Un tiro basso, forse inconsciamente l'uomo ha agito con cuore, ma questo ha generato un terremoto in quella giornata nuvolosa. Ero a casa squillò il telefono, all'apparecchio c'era Vissia con voce rotta dal pianto <<Oh dio Fabio, vieni qua ti prego.>> Mi spiegò quello che era successo e mi precipitai subito nel suo ufficio. Per la prima volta visitai il suo posto di lavoro tanto odiato, c'era lei seduta alla scrivania in lacrime, una collega la consolava, mi abbracciò continuando a piangere, in silenzio le misi il cappotto e andammo via da quella scena surreale.

“Carcinoma duttale infiltrante al terzo stadio”, bastava solo questa frase tra i tanti numeri e sigle per capire che la situazione era peggiore del previsto, ed ecco che esplose quel fiume sotterraneo di emozioni, trovò una linea di faglia attraverso la rigidità della persona per erigersi potente come un geyser nell'aria. Non potrò dimenticare la scena, Vissia seduta sul divano, le mani raccolte sulla pancia e chiara in avanti urlava, urlava di dolore e piangeva. Era un urlo straziante, mi lacerava dentro, era incontenibile, ebbi paura persino ad avvicinarmi, orrore allo stato puro, intuivo nella sua persona la paura della morte, la fine imminente dell'esistenza, l'inevitabilità. Tutto era irreale, l'albero di natale luccicava, il gatto ci guardava con aria interrogativa, sotto l'albero cesti e pacchi decorati con colori sgargianti, divenne tutto cupo, grottesco e nauseabondo. Vissia mi trasmise la paura e come un ariete sfondò la corazza dietro la quale mi ero nascosto, m’inginocchiai davanti a lei e piansi, piansi lasciando sciogliere i ghiacciai delle emozioni <<Fabio non voglio morire! Non voglio morire!>> continuava a ripetere ad alta voce queste parole, la distesi sul divano, sentiva freddo, tremava in preda al panico. Tante volte a lavoro capita di trattare pazienti in preda al panico, bisogna calmare i loro tremori convulsi, l'iperventilazione, le mani raccolte a uncino come preda di una paralisi tetanica. Spesso mi domandavo come può una persona giungere a una cosa simile, che emozione tremenda poteva aver sviluppato un disturbo di tale portata. Un pensiero che scivolava accanto senza toccarmi, un malato mentale da curare, niente di più. Mi resi conto che tutti noi siamo in bilico tra l'ordinario e il follemente straordinario, tutti potenziali pazzi, sul baratro degli attacchi di panico, nessuno di noi è esente dal trattamento della paura, cercavo di calmarla, ma tremava, forte, sempre più. <<Hey, se non ti calmi dovrò darti del valium, così non si risolve nulla.>> Mi sedetti sul divano, le feci poggiare la testa sulle mie gambe <<Respira con me, con calma, ti prego respira insieme con me.>> Era l'unica cosa che potevo fare, il controllo del respiro funziona sempre questo tipo di problemi, misi le mie mani sulla pancia e sul petto di Vissia, all'unisono respirammo a fondo, lei chiuse gli occhi iniziando a rilassarsi, ma io in silenzio piangevo, all'improvviso tutto divenne fragile, etereo tremendamente lontano. Il suo corpo il suo respiro, la paura del cancro, tutto divenne infinitamente minuscolo fino ad affondare nel mio cuore, nell'abisso del dimenticatoio. Come un proiettile di cristallo che si conficca in fronte, si conficcò un pensiero preciso, l'amore è la forza più potente sulla Terra più della gravità, che il destino di noi tutti è strettamente intrecciato non a caso con le persone che incontriamo sulla nostra vita. Vissia aveva bisogno di amore per guarire, per affrontare tutto quello che di lì a poco avrebbe dovuto attraversare, ed io, attraverso lei, stavo imparando la lezione più importante della mia vita, quella che non trovi nei libri di nessun genere, nei film, negli scienziati e santoni, nessuna religione o credo può afferrare l'infinito amore che ti sveglia come un terremoto dicendoti <<Tu sei vivo, tu vivi questa vita per lei.>> Tutto appare semplice, cristallino, definito, netto e allo stesso tempo universale e congiunto, quello che avevo dentro e che nutrivo in quel momento è difficile da spiegare ora, ma solo attraverso quel fotogramma di tempo sigillato, ho smesso di aver paura della vita e ovviamente questo lo avrei dovuto insegnarlo a Vissia.

 

Lo show delle marionette.

I giorni passarono in fretta, tra lunghi silenzi, speranze, l'aria tesa che si respirava in famiglia e ovviamente al lavoro, rendevano tutto ovattato. Un sogno, degli automi che camminano nel sogno, questo eravamo diventati. Alla banca dei favori chiesi il prestito più alto, bisognava fare in fretta, tracciare la strategia e per questo mi appellai alla mia professione. Abbandonammo quei rituali serali di rilassamento e pace, la nostra vita stava per stravolgersi, il piccolo bilocale, silenzioso e pieno di oggetti deliziosi stava per essere abbandonato, il matrimonio annullato, tutti i preparativi minuziosi annullati. Sul computer avevamo una piccola cartella con spese, invitati, fotografie di arredi, partecipazioni, un tempo ero nauseato da quelle sciocchezze effimere, ora tutto acquistava importanza, anche la polvere sui mobili, tutto era prezioso, utile, particolare, raro. Non aveva più senso sfogliare gli annunci di appartamenti, le ricerche di banca in banca per un mutuo sulla prima casa, buttai la pila di cataloghi sul Messico, la cartina cui avevo dedicato ore per calcolate l'itinerario di viaggio, quali tecniche fotografiche avrei utilizzato per catturare degli scatti d'autore "prima che il 21 dicembre 2012 finisca il mondo, dobbiamo vedere il Messico e le piramidi maya" scherzavamo così, immaginando l'avventura, il mondo ruotava nella sua meccanica celeste, io e lei eravamo il centro e tutto ruotava intorno a noi. Vissia dovette ben presto fare i conti con punture e prelievi, nel giro di venti giorni furono iniettate nel suo corpo sostanze radioattive per esami diagnostici. Esami, esami, ancora esami del sangue, consulenze, le telefonate dei vicini di casa “anche mio marito ha avuto il cancro, prendi questo numero, chiama tizio e caio, vai in tal posto che sono davvero bravi.” A volte la gente si trasforma in venditori ambulanti, ognuno di loro ha un rimedio, ha qualcosa da darti, neanche avessero in tasca i segreti dell'universo, fatto sta che la rubrica telefonica del mio cellulare e di Vissia in quel periodo era pieno zeppo di numeri senza nome, dottori, amici di amici, parenti e gente resuscitata da chissà quale oltretomba della compassione. Io dovetti ben presto fare i conti con la nausea, l’inappetenza e i chili che se ne andavano via uno dopo l’altro. Ogni volta che facevo e che faccio ancora un prelievo del sangue a mia moglie è un tormento, tachicardia, sudorazione, tensione, è come se stessi portando in bilico sulla testa un vaso di cristallo mentre corro in motocicletta, delicatezza, lei è l’espressione di ciò di più delicato che abbia al mondo. Ricordo che alla sua prima Tac all’addome ho rischiato di svenire, sono scappato via come un ladro in bagno, mi sono disteso sul pavimento sudicio e con le gambe appoggiate al muro. Non aveva importanza l'enorme carico di emozioni, io gioivo perché in Vissia stava nascendo qualcosa di molto importante, la forza, la determinazione che moltiplica le sue forze rendendola inflessibile. Restavo spesso in disparte a guardarla, ad ammirarla, nonostante gli sforzi e le sofferenze lei andava avanti e trascinava anche me. <<Tu mi dai la forza di andare avanti, se non avessi te sarei già persa.>> Questo mi ripeteva spesso tra le lacrime, ma in quel momento capivo quanto fragile possa essere un uomo, noi ammiriamo le persone, alcune di esse diventano modelli esemplari, ma anche il nostro eroe alla fine è fatto di carne, sangue e pensieri. Le nostre vite sono piene di tabù “gli uomini non piangono, non si lamentano non soffrono, stanno in silenzio con onore e rigano dritto.” Non è vero, tutti gli esseri umani, e tutti gli esseri su questa terra soffrono, chi in silenzio, chi ad alta voce e chi magari lo fa arrecando danni al prossimo, ma tutti soffriamo, non esistono gli eroi, ma solo persone normali che compiono gesta eccezionali in momenti del tutto straordinari. Pensieri, torbidi e oscuri, il mese di gennaio è stato il “mese nero”, freddo, piovoso e con tante cose da fare. Abbiamo inscatolato i nostri sogni con tutti i soprammobili di casa, eravamo in trasloco, chiudevo quelle scatole guardando con tristezza i ricordi materializzatisi in quei piccoli oggetti, come navi che salpano dal porto della memoria per andare via lontano. E’ strano come la vita di una persona possa riassumersi in quattro scatoloni, sembra quasi che per tutta una vita abbia accumulato chissà quali tesori e invece, tutto si riassume in qualche scatola. In quel periodo parlavamo poco, ognuno di noi temeva di ferire o angosciare l’altro, mi sono sforzato nel controllo di me stesso, quando finivano le consulenze, iniziavano i periodi muti tra le mura domestiche, solo il movimento sincrono degli orologi riusciva a rompere il torpore invernale. Alla fine di dicembre ci siamo trasferiti a casa dei genitori di Vissia, l’accoglienza è stata calorosa, ho preferito che qualcuno potesse badare a lei quando io ero a lavoro. Arrivarono così le feste natalizie, i miei genitori erano venuti a trovarci da Napoli, è stato un Natale teso ma unito, dove i regali che ci siamo scambiati sono stati belli e semplici, la sera io e Vissia dormivamo abbracciati, insieme pregavamo ed io le insegnavo esercizi di rilassamento, la quiete, cercavamo solo quiete.

<<Secondo me un oncologo che non prescrive la chemioterapia, dovrebbe essere indagato e messo in galera.>> Lo sguardo arcigno del luminare in oncologia che si trovava dall’altra parte della scrivania ci fece rabbrividire <<E aggiungo che in queste circostanze, vanno fatti tutti i farmaci che abbiamo in nostro possesso per avere una speranza di sopravvivenza, non mettetevi idee strane in testa, questa è l’unica strada.>>

E’ stata l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso, da gennaio abbiamo iniziato il giro degli oncologi e dei chirurghi, non passava un giorno settimanale senza che il seno di mia Vissia fosse palpato, disegnato con pennarelli e discusso con altri medici come se quello fosse solo un semplice mobile da restaurare. E così arrivò il giorno in cui ci presentammo davanti ad una “commissione”, se così la possiamo definire. Il chirurgo che si occupò del caso, ci aveva detto di andare presso la clinica per fare un briefing con il team oncologico, che belle parole, sembrava di assistere a una pantomima americana dove c’erano sei camici bianchi seduti dietro questo enorme tavolone. Io, Vissia e suo padre stavamo dall’altra parte del tavolo come alunni all’esame di stato. Nessun briefing, parlavano tra di loro, chiacchieravano con i loro bei termini scientifici, lasciandoci nella totale oscurità di quello che stava accadendo. Vissia in quel momento era una pentola a pressione pronta a esplodere e infatti esplose <<Ma si può sapere qualcosa di quello che state dicendo? Siamo venuti qua per sapere cosa bisogna fare con questo tumore.>> I signori medici si ricomposero e prese parola l’arcigno oncologo con il viso da furetto <<Bisogna cominciare dalla settimana prossima con la terapia neo-adiuvante per ridurre la massa tumorale e poi tra sei mesi, se il tumore s’è ridotto, possiamo operarla, in seguito lei dovrà fare altri otto mesi di chemioterapia, è probabile anche che non possa avere più figli.>> Bravo! Bravo! Applausi signori! Che recitazione! Vissia scoppiò in lacrime, suo padre rimase muto più del solito ed io in quel momento incamerai il colpo, cercavo in quei volti qualcuno che potesse dirmi altro, qualcuno che magari dicesse “oppure possiamo fare in quest'altro modo.” No! Tutti annuivano, come se il medico avesse letto il vangelo in quel preciso momento. Una giovane psicologa lì presente prese parola con la sua compassione professionale, l'ho vista più di qualche volta quell'espressione menefreghista che cambia appena il paziente esce dalla stanza <<Ti capisco...non ti preoccupare abbiamo un bel gruppo di donne che fanno la chemioterapia, potranno esserti di supporto quando andranno via i capelli.>> Vissia sprofondava sempre più nel baratro della disperazione, raccogliendo le lacrime tra le mani, io annuivo, ma in cuor mio odiavo quella psicologa profondamente, intervenne per ultimo il chirurgo capo dell'equipe, un anziano pensionato che dopo aver operato per una vita intera e giunto alla pensione, ha preferito continuare a operare presso una clinica privata, forse perché quella era la sua missione o forse perché non aveva altra vita all'infuori dell'ospedale. L'uomo sorrise <<Coraggio cara, non si preoccupi, anzi le dico che una volta ho operato una ragazza della sua età che si chiamava quasi come lei, Viska, ma era un po' stramba non ha voluto fare la chemioterapia, ma ora sta bene.>> Avevo sentito abbastanza, era come star davanti al televisore in una serata da olimpiadi della noia,  ti ritrovi inebetito cambiando in continuazione canale, perché ovunque sintonizzi l’apparecchio c'è lo stesso schifo.

Il furetto, così l'ho chiamato, era già partito spedito, come se noi avessimo accettato per tacito consenso. Ci congedammo con la frase classica “dobbiamo pensarci.” In auto regnava il silenzio, non una parola per tutto il viaggio di ritorno, l'inverno sferzava l'autostrada. Dalla radio il mondo continuava a scorrere ignaro di una tragedia personale, pensavo a quante migliaia di persone nel mondo stessero soffrendo per una malattia, pazzia, solitudine, abusi, maltrattamenti, ferite di guerra, e noi eravamo l'ennesima famiglia, che in quel momento era entrata nella vasta macchina articolata dalle ruote dentate di medicina, chirurgia, psicologia, speranza, amore, odio, rabbia e morte.

 

Il coraggio di parlare.

Le forchette e i piatti all'unisono si organizzarono in un concerto monotono, nessuno parlava a tavola, guardavamo la tv con sguardi vacui, poi mi decisi e ruppi il silenzio <<Io non voglio vederti ridotta a un mucchio di ossa in un letto, ne ho visti abbastanza di uomini e donne che nella speranza di guarire, hanno offerto le loro vene per una terapia che li ha portati alla morte, preferisco che tu muoia sotto un treno.>> I genitori di Vissia si guardarono in viso, avevo trovato il coraggio di dire quello che pensavo e non m'importava se a lei in quel momento facesse male, ma andava detto, perché lei se lo aspettava. <<Dimmi allora cosa devo fare, aiutami.>> Una sola parola chiara, aiuto, aveva bisogno di me, aveva bisogno di quella parte di cuore che ci rende unici e indissolubili, lei stava pagando l'alto tributo ed io, sarei diventato povero se fosse servito a qualcosa. La lista settimanale degli appuntamenti era fitta, approdammo all'ennesima scrivania, questa volta consigliata dai vicini di casa. Un uomo quieto, dalle mani lunghe e affusolate, un chirurgo alla fine della sua carriera che come molti altri continua imperterrito il suo lavoro. Una palpatina qui, un'altra lì, due domandine, una sbirciatina agli esami, e la solita risposta accademica del team precedente: neo-adiuvante, otto mesi di chemioterapia e poi si sarebbero tirati i dadi. <<Dia questo alla mia segretaria all'uscita.>> Ci disse porgendoci un foglietto di carta senza neanche guardarci in viso, quel foglietto costava 250 euro. Cambio di stanza, cambio di scrivania, ci trovammo davanti al furetto, caso volle che nella stessa giornata e nella stessa clinica si trovasse l'ultimo chirurgo consultato e l'ostico oncologo. <<Dottore, vorremmo sapere se la terapia neo-adiuvante è davvero in grado di ridurre o far scomparire il tumore, ecco sul piatto della bilancia vorremmo vedere i rischi e i risultati, otto mesi di chemioterapia credo che devasteranno la mia fidanzata.>>

<<Allora non ci siamo capiti, non c'è alcuna sicurezza di guarigione con qualsiasi terapia, la neo-adiuvante è una procedura che potrebbe permette di avere una riduzione della massa tumorale per avere un impatto meno visivo dell'intervento.>> Avevo capito bene? Potrebbe? Tutto questo carosello per fare di Vissia una cavia?

<<Quindi lei mi sta dicendo che questa chemioterapia pre intervento potrebbe anche essere inutile.>>

<<I dati della sperimentazione ci fanno sperare che ci potrebbe essere una riduzione della massa.>>

<<Quindi preferite provare a rischio e pericolo dell'organismo?>> Dissi io inorridito, quella discussione mi stava portando a osservare i due fronti diametralmente opposti, da una parte gli occhi di Vissia che mi supplicavano affinché fosse trovata la strada giusta, e dall'altra gli occhi clinici, dell'oncologo. Mentre parlava snocciolando dati e statistiche smisi di ascoltarlo, immaginavo lui seduto e annoiato su una poltrona mentre ascoltava un convegno nazionale d'oncologia, dove è studiata a tavolino da un gruppo di vecchi luminari la strategia migliore, tanto che fa, un mese in più un mese in meno di chemioterapia, patate, cipolle, è sempre verdura. Parlano di sopravvivenza a cinque anni, non importa a nessuno se i farmaci devasteranno o no l'organismo, tanto è un rischio che va calcolato, come gli effetti collaterali delle moderne guerre, dove qualche aereo può bombardare per sbaglio dei civili, tanto che fa? Rientra nella percentuale di rischio! <<Dottore se lei avesse una persona cara in queste condizioni...>> Il dottore non fece neanche finire di parlare mia moglie <<Ma lei pensa che casi del genere non mi stiano a cuore, qui non si scappa dalla strada che bisogna scegliere ed è la sola, l'unica.>> Ci congedammo dal nostro boia <<Grazie dottore le faremo sapere fra tre giorni.>>

Ormai rassegnati ci recammo presso l'ultima spiaggia, no, non un mago, nessun intruglio, abbandonammo la strada delle cliniche del tutto, seguimmo il consiglio di una mia cara collega di lavoro che ha attraversato la stessa strada. Ospedale pubblico, appuntamento, trafila e colloquio col chirurgo. Dopo aver visto i volti dei potentati della chirurgia, l'uomo che si presentò alla nostra vista era semplice nel suo essere. Alto quasi due metri, magro, camicia a quadri, sorriso benevolo e gli occhi, quelli che vedi nelle persone che hanno cuore. Solita palpata di seno, qualche domanda, lettura dei dati, la storia è sempre la stessa <<Signora non pianga.>> disse sorridendo e stringendo la mano di Vissia, <<A mio giudizio non c'è bisogno di fare la terapia neo-adiuvante, non ci dà nessuna certezza di riduzione del tumore, lei è giovane, preferirei la rimozione definitiva della lesione, è probabile che le tolga solo un pezzetto, una quadrantectomia, poi la chemioterapia che farà dopo è solo a livello precauzionale. Gli esami che ha fatto confermano l'assenza di metastasi.>> Sorrideva, la voce flebile e gentile trasmise a Vissia la calma e la fiducia che cercava nella persona cui doveva affidare il suo corpo. <<Mi piace, sarà lui a operarmi.>> Questa è stata la prima frase che mi ha permesso di risollevarmi dal baratro d’inutilità in cui ero sprofondato, lei stava muovendo il suo coraggio verso la tempesta in arrivo, stavolta vestiva la corazza della determinazione. La dose di coraggio fu rinforzata dal colloquio con l'oncologa, una donna che a mio parere sa il fatto suo, professionalmente e moralmente. Credo che Vissia l'abbia presa veramente a cuore, giacché come donna è stata capace di carpire la sua paura principale, non quella di morire, ma quella di non poter avere figli. Il piano terapeutico prescritto le ha permesso di vivere normalmente fino a questo momento in cui scrivo, accanto a me ho sempre la mia dolce canaglia, forte, testarda, ostinata, insicura, leggera nel suo essere. Viviamo spesso nel nostro piccolo universo personale di convinzioni, e devo confessare che avevo negato fin dall'inizio la chemioterapia, ma credo anche di essere stato abbastanza corretto nei confronti di Vissia. Ho proposto i pro e i contro della terapia di quest'ultima dottoressa, a mio avviso, sì, potevamo tentare e così è stato.

<<Buongiorno signorina, chiamo dalla preospedalizzazione dell'ospedale, l'intervento è fissato per il 27 gennaio.>> Un sussulto nei nostri cuori, ma eravamo felici, se così possiamo dire, fino a qualche giorno prima brancolavamo nel buio, in totale balia di burocrati più che medici, e ora eravamo sollevati, era come uscire dalla coltre di nuvole in alta montagna, in quel momento riesci a vedere solo il suolo, poi la nebbia si dirada e tutto si trasforma in vetro argentato, tutto appare chiaro, riprendiamo così il nostro cammino.

 

Uniti per sempre.

La mattina era soleggiata, il cielo terso, classico dell'anticiclone artico, col suo freddo pungente e il sole che baciava la terra, guardavo lontano il paesaggio mentre l'auto sfrecciava sull'autostrada di ritorno da Firenze <<Ora possiamo anche sposarci, abbiamo rinunciato al matrimonio in chiesa, alla cerimonia, al viaggio di nozze e a tutti i preparativi, ma non rinuncio ad averti come moglie.>> E così avvenne, nella stessa giornata fissammo l'ampia sala storica del comune di Pistoia, il fioraio, e le fedi <<Per quando vi servono?>> disse l'orefice incurante dei nostri sguardi <<Veramente per venerdì prossimo, poiché ci sposiamo sabato.>> Disse Vissia con naturalezza, giusto per vedere l'effetto sul piccolo uomo dietro al bancone. Infatti, sollevò lo sguardo dalla scatola di gioielli, pensava a uno scherzo, mi era capitato di vedere spesso giovani coppie passare ore e ore davanti a file di anelli, quello sì, questo no, è fuori moda, troppo grosso, troppo caro, non s'intona col vestito. É proprio così, rendiamo difficile e dubbiosa la cosa più facile, l'amore. La fede, ovvero l'anello che sancisce l'unione di una coppia, s’indossa all'anulare della mano sinistra, perché c'è la credenza che da lì passi un’arteria che arrivi direttamente al cuore, visto che l'oro è il metallo che ricorda la purezza e la spiritualità, essa dovrebbe nutrire il cuore di un amore puro verso il proprio coniuge. Quante volte abbiamo visto persone anziane indossare due anelli d'oro, il proprio e quello del coniuge scomparso, credo che quando qualcuno d’importante nella nostra vita viene a mancare, in questo caso marito o moglie, quell'anello è l'ultimo simbolo che ci collega a chi è scomparso. Proprio così, passando per l'arteria dell'anulare che giunge direttamente al cuore, la persona che li indossa entrambi potrà sentire che il loro amore esiste ancora, nonostante l'inevitabilità del tempo. Quella che indosso è una fede classica, semplice, scelta con un sì congiunto, avevamo fissato e organizzato il matrimonio nel giro di tre giorni, non c'era nessuna lista d'invitati, nessun viaggio ai confini del mondo, nessuna villa da addobbare per il ricevimento. Io e Vissia ci siamo scambiati gli anelli la mattina del 22 gennaio, è arrivata in piazza su una carrozza trainata da due cavalli bianchi come una principessa. Non dimenticherò mai i suoi occhi, umidi del pianto, di un verde acceso e vivo, portava i capelli raccolti con fiori e nastri cremisi. Come avviene nelle favole mi avvicinai alla carrozza e la feci scendere porgendole la mano e baciando la sua, aveva un vestito come le viole primaverili, il suo viso radioso mi parlava ed era felice, era il nostro giorno, iniziava la nostra vita insieme. Ci siamo goduti quei giorni di pace e serenità, la casa era piena di fiori, e regali, le persone andavano e venivano con sorrisi e frasi d'affetto, lei era determinata e sorridente, era ritornata la belva bionda di un tempo.

 

Eclisse.

<<Aiutami.>> mi disse Vissia una sera davanti al piatto fumante di tagliolini, il viso raggiante del matrimonio aveva fatto posto a quello stanco e gonfio di pianto, i suoi capelli raccolti ora erano corti e spinosi, aveva preferito tagliarli per abituarsi prima del tempo nel vedersi senza capelli. Il giorno dell'intervento si stava avvicinando e tutti noi eravamo in tensione, lei mi chiedeva aiuto ed io non sapevo cosa rispondere, la stringevo a me con tutte le mie forze per farle sentire il mio calore, nonostante il mio silenzio di queste situazioni io le parlavo, io c'ero, ci sono sempre stato e ancora oggi è così. Decidemmo di concederci anche un piccolo viaggio di nozze, un fine settimana a Venezia, delle tante fotografie che ho scattato ne ho una in particolare, di lei che sorride, ed è un sorriso enigmatico, come quello della Gioconda, ancora oggi non riesco a capire se sorrideva per amore e serenità di quel momento o per rassegnazione. Spesso sento dirmi che sono il suo angelo, quando mi guarda dritto negli occhi e tende quel sorriso mi fa star bene, anche se non riuscirò mai a decifrarlo, ma riempie l'animo di pace.

Quei giorni passarono, ora la nostra barca stava per essere risucchiata nella tempesta oceanica, ammainammo le vele dei sorrisi spensierati, indossammo gli impermeabili della tensione e dell'ansia e via verso l'ignoto. Dopo interminabili ore di attesa in una saletta per la preospedalizzazione, Vissia indossò il pigiama e s'infilò a letto <<Prendi la fede, se dovesse accadere qualcosa...>>

<<Non accadrà nulla, questa fede me la chiederai appena uscita dalla sala operatoria perché sono un testone, e me ne sarò già dimenticato di averla in tasca.>> La vidi andar via per il corridoio su una barella, piangeva e aveva paura, lei piangeva ed io sorridevo, l'accompagnai col sorriso finche potei, poi mi rinchiusi in bagno e piansi anch'io seduto sul pavimento contro il muro, qualcuno bussò ripetutamente imprecando alla porta di quel cesso lurido, pieno zeppo di annunci sessuali scritti sulle pareti, era il luogo meno indicato per aprirsi alle emozioni, ma l'importante era stato accompagnarla col sorriso.

<<Dai non piangere, che vuoi che sia, sai quante volte l'ho fatto in ospedale.>> Le dicevo mentre la lavavo. Il suo torace era fasciato, le avevano detto di non muovere il braccio, a sinistra portava sul dorso della mano una cannula con una batteria di flebo attaccate tramite raccordi, ovviamente l'igiene intima è una cosa personale, ma non mi sono nemmeno posto il problema <<Mi dispiace Fabio, tu non meriti tutto questo...mi dispiace.>> Lo ripeteva spesso, rimasi due giorni in ospedale accanto a lei, avevo bisogno di una doccia, di biancheria pulita, ho dormito su una sedia e quando la schiena reclamava il suo riposo, all'insaputa di Vissia mi stendevo a terra su un lenzuolo, ma sono rimasto accanto a lei. La guardavo e avevo dentro una grande tensione, fragile come il cristallo, in quel momento temevo per qualsiasi cosa, come se da infermiere non sapessi i vari problemi di routine nella convalescenza post chirurgica, ma era diverso, era mia moglie, giocherellavo spesso con il nuovo anello d'oro, lucido e liscio, lo guardavo e ripensavo al giorno del nostro matrimonio, perché l'ho fatto? Direi che l'ho fatto per amore, compassione, ma in effetti l'ho fatto perché ho ascoltato il cuore senza indugi, era la cosa più semplice e ovvia da fare, non c'era nulla su cui riflettere, era così e basta. Spesso ci troviamo sul filo del rasoio, scegliamo sempre tra il peggio e il leggermente meno peggio, non siamo mai felici, raramente seguiamo il cuore. Svolgiamo lavori che non vogliamo fare, con famiglie che non volevamo e viviamo in appartamenti sub urbani sognando per tutta la vita una casa in campagna. Questo siamo, degli insoddisfatti cronici. Ci sforziamo e alla fine, quando ormai l'età ha indurito la corteccia dell'anima, crediamo di aver vissuto una buona vita di aver fatto le scelte giuste, votando sempre lo stesso partito, versando regolarmente la questua in chiesa, e pagando le tasse fino a toglierci il pane da bocca, perché quella era l'unica cosa giusta che potevamo fare. I nostri occhi portano il velo della cateratta e questa è l'illusione dell'inevitabilità, citando Primo Levi nel suo “Se questo è un uomo”, alcune persone prima della cattura e della deportazione in Germania da parte dei soldati dell'Asse, abbandonarono le abitazioni, rifugiandosi nei boschi, sui monti, in scantinati, come topi in fuga. Solo alcuni si consegnarono spontaneamente alla polizia, per il semplice motivo che lo imponeva la legge. Seguiamo ciecamente la legge, mentre il cuore grida e ci fa cenno della sua presenza, ma fingiamo di non vederlo, di non ascoltarlo. La notte passò silenziosa e tranquilla, io avevo la schiena a pezzi ma quando i primi raggi di sole illuminarono il viso dormiente di Vissia, allora sorrisi, perché quella era la mia scelta, la scelta giusta, oltre ogni aspettativa io ero lì accanto alla persona che c'è sempre stata e ci sarà sempre. Aveva il torace fasciato stretto, osservai accuratamente il suo respiro, i seni compressi dalle bende erano simmetrici, il destro leggermente più piccolo, ma in sostanza non era cambiato nulla, gioii io per Vissia, immaginandola allo specchio e piangere di gioia alla vista dei suoi due piccoli seni perfetti. <<Buongiorno amore.>> Mi disse con la voce roca <<Buongiorno, hai dormito bene?>> Le accarezzai i suoi capelli corti baciandola sulla bocca, aveva il sapore di medicinale, ma era la sua dolce bocca. <<Tu invece non hai dormito bene, mi dispiace ancora per stanotte quando mi hai accompagnata in bagno...>>

<<Shhhhh, già sei sveglia e già rompi le scatole.>> Ridemmo insieme, poi le consegnai la fede e la rimisi alla sua mano, la giornata era bella e piena di sole, in quel momento io e lei navigavamo a vele spiegate, la tempesta era passata, il mare era ritornato calmo.

 

Una doccia fredda.

<<Ho i risultati dei linfonodi sentinella che sono stati prelevati durante l'intervento, ci vederemo domani mattina qui in ospedale.>> Il gigante buono, ovvero l'altissimo chirurgo dal sorriso solare che aveva operato Vissia, ci richiamò per i risultati dei linfonodi ascellari. I giorni di convalescenza erano passati noiosi e a volte tesi. Vissia è la classica persona che fa tutto da sé, riesce a gestire il dolore e la sofferenza in un modo incredibile, le raccomandarono di non fare sforzi col braccio destro, io le cambiavo quotidianamente le medicazioni e spesso la riprendevo come si fa con i bambini piccini <<Ma che stai facendo?>> Tutti i vestiti dell'armadio erano disposti in pile sulla scrivania, sedie e poltrone. <<Metto in ordine l'armadio, guarda che casino.>> Chi ha vissuto almeno un trasloco nella sua vita, sa che  è una vera tortura, fino ad ora ho dovuto affrontare tre traslochi, a ogni cambio di abitazione aumentavano le scatole, poi si aggiunse una poltrona, due scrivanie e una marea di cianfrusaglie ornamentali, infatti nell'ultimo trasloco dalla nostra abitazione a quella dei suoi genitori c'era il tocco femminile e questo significava decine di scatole in più. Cosa ti hanno raccomandato i medici? Ma non riesci a star ferma un attimo? Leggi, ci sono tanti libri, guarda la televisione, ma non fare le pulizie di primavera!>> Alla fine di ogni giornata le massaggiavo il braccio, Vissia eseguiva quotidianamente gli esercizi per riacquistare la motilità dell'arto e per questo posso ringraziare la sua mente selettiva e ben organizzata. Ho sempre avuto la testa tra le nuvole, un sognatore ecco, lei riesce a farmi stare ancorato al suolo, bisogna guardare la realtà prima di sognare, in effetti aveva trasformato la sua malattia come l'attività d'ufficio che svolgeva quotidianamente. C'erano appunti, raccoglitori, cartelline organizzate per data e importanza di esami, agenda di appuntamenti, calcoli mensili per le chemioterapie, tutto in ordine e catalogato. Se fossi stato nei suoi panni, mi sarei ritrovato a passeggio nei boschi in cerca del senso della vita, avrei lasciato i documenti buttati sulla scrivania, come qualcosa di gretto e inutile, tanto a chi interessano quei quattro fogli. In lei come allora anche oggi c'è la voglia di guarire, di vivere, di credere, e questo desiderio è potente in ognuno di noi, quadruplica le nostre forze rendendole visibili nei piccoli gesti quotidiani. Vissia stava sbocciando di nuovo, passata la fase tetra del dubbio sulla propria esistenza, si era armata di tutto punto per combattere la propria battaglia per la vita. La telefonata del chirurgo non ci fece presagire niente di buono e infatti quello che ci disse fu come una doccia fredda <<Come vi ho detto.>> Rivolgendosi a entrambi <<I linfonodi che abbiamo prelevato sono stati marcati con un liquido radioattivo, e questi campioni servono per vedere se il tumore ha colonizzato altri distretti con delle metastasi. Nell'area circostante la lesione, il tessuto è sano, come ha visto il seno è rimasto invariato di forma e struttura, è andato meglio del previsto, la grossa massa che lei sentiva in buona parte era tessuto infiammato.>> Il chirurgo fece una pausa e poi riprese <<Ma abbiamo visto che i due linfonodi risultano positivi, cioè presentano delle metastasi tumorali al loro interno. Signora mi dispiace dirlo, ma è necessario rimuoverli tutti, bisogna fare uno svuotamento del cavo ascellare, se non fermiamo ora il cancro nei linfonodi, è probabile che in poco tempo possa attaccare altri organi più importanti, bisogna intervenire tempestivamente.>> Chiaro e gentile allo stesso tempo, a differenza degli anziani chirurghi della clinica, quest'uomo non giocava con la vita delle persone, aveva rinunciato alla Porsche parcheggiata nella sua villa, per venire a lavoro con una semplice utilitaria, era un chirurgo della sanità pubblica in uno dei tanti ospedali di provincia. Nessun Veronesi, nessun polo oncologico europeo, nessuna star della medicina, seguendo la strada del cuore credo che abbiamo trovato sul nostro cammino le persone giuste nel momento giusto, persone che parlano e lavorano con cuore. Nonostante ciò, Vissia dovette sottoporsi a un nuovo intervento chirurgico, ho sofferto molto in quel periodo per la sua irascibilità, d'altro canto era comprensibile, il terreno era franato ad un passo dalla conquista. "passerà, tutto passa col tempo, le nuvole passano e cambiano forma in continuazione, passerà anche questa cosa come le nuvole”. Ogni volta che succede qualcosa di spiacevole nella mia vita, ripeto a me stesso questa frase, perché l'unica certezza che possiamo avere in questa vita è che il sole brilla sempre, sono cinque miliardi di anni che illumina la Terra, mentre le nuvole che a volte lo nascondono, hanno vita di pochi giorni e poi svaniscono. L'esistenza è il sole, imperterrito lui splende, immutabile, potente ed eterno, solo che noi riflettiamo la nostra esistenza nelle nubi minacciose che si susseguono giorno e notte, quindi pensiamo che la vita sia misera, schifosamente breve, è il ghetto dove ci hanno recluso dall'infanzia. No, non è un postaccio, siamo noi a trasformare il giardino dei pensieri in una discarica a cielo aperto, solo noi e nessun altro ha il potere di cambiare questa condizione.

Altro intervento, altri drenaggi, nuovo accampamento sul pavimento, questa volta per due notti, i chirurghi hanno prolungato la prima ferita chirurgica fin sotto l'ascella destra, era un vero e proprio colpo di spada. La seconda convalescenza è stata più estenuante della prima, tutti in casa la tenevamo d'occhio sui suoi movimenti, stavolta non poteva per nulla sollevare pesi. Mi adoperavo quotidianamente nel massaggio linfodrenante, svogliatamente faceva gli esercizi con una pallina di gommapiuma, ribelle e testarda Vissia voleva uscire dalla gabbia della propria abitazione, ci sono stati momenti che avrei voluto spaccare tutto quello che mi capitava davanti, ho avuto dubbi sull'amore, paure e spauracchi di un tempo si riaffacciavano in quei giorni difficili. Siamo cavalieri erranti in cerca della nostra leggenda personale, sulla strada siamo spesso accompagnati non da persone, ma dalle nostre paure, indecisioni, sofferenze, cambiano volto di volta in volta, ora sono fratelli, padri e madri, poi sono mariti e mogli, oggetti di desiderio, stati sociali che rivestiamo, ma sono sempre le nostre paure che ci accompagnano fino alla fine. Vissia aveva tanta rabbia racchiusa in sé, la lasciavo fare, diventavo il suo spettatore, me ne stavo lì sotto il portico aspettando che smettesse di piovere e quando passava il temporale della sua furia, lei si scioglieva in pianto e allora in quel momento lei trovava la mano ad asciugar le lacrime, infondo come ho sempre detto, la pioggia dura poco tempo, il sole durerà per millenni. Passato un mese dal secondo intervento Vissia ritornò a lavoro, parlava di progetti, viaggi e shopping, aveva fame di vita, di riempire le borse con cose futili, di andare al cinema, al ristorante, di saltare, correre, ballare e ubriacarsi, sì voleva vivere, toccare la terra con i piedi nudi.

 

La lunga marcia.

<<É maleducato, non si è nemmeno presentato.>> il viso paonazzo di Vissia presagiva la sua rabbia, nei confronti dell'oncologo che aveva preso in carico le terapie farmacologiche. Infatti, la sua amata dottoressa, le aveva consigliato di fare le terapie a Pistoia, non c'era bisogno di viaggiare inutilmente ogni volta a Firenze per fare la stessa terapia. La cosa ottima dell'oncologia è l'organizzazione, i piani terapeutici sono molteplici ma pressoché standard, uguali a livello internazionale.

<<Beh non siamo tutti uguali ognuno ha il suo carattere, secondo me sono affidabili, fanno il loro lavoro, e non stanno qui per leggerti le poesie, oppure vuoi che ti tengano per mano ogni volta che fai la chemio?>> La mia ironia graffiante in alcuni momenti era l'unica arma per spezzare i suoi conflitti interni, che vuoi che sia! É umorismo nero! Scherzare sui problemi e sofferenze, sì è la vita che ti sfreccia accanto a 150 all’ora! <<Non sei te a dover fare ogni settimana prelievi di sangue e non sei te a dover perdere i capelli!>>

<<In effetti è vero, però voglio farti notare che i tuoi capelli tra qualche mese ritorneranno a crescere, mentre io li sto perdendo e basta. Guarda qui, si sta aprendo una piazzetta.>> Indicavo la sommità del capo.

<<Lo sai che sei scemo vero?>>

<<Certo! Se fossi stato sano di mente, non ti avrei sposato!>> Bastava poco per ridere e tornare di buon umore, conoscevamo i meccanismi l'uno dell'altro, sapevo come stuzzicarla per farla reagire, o come ignorarla per farla scalciare. A volte mi allontanavo da casa per passeggiare in solitario nei boschi, anch'io avevo bisogno di disintossicarmi dalla chemioterapia settimanale, la sua era fisica, la mia mentale. Dopo la prima settimana di chemio Vissia tirava i suoi capelli davanti allo specchio <<Guarda non cascano, sono ancora ancorati alla testa, forse sono una di quelle persone che non perderanno i capelli!>> Potevo solo incoraggiarla, ma in cuor mio sapevo che da lì a pochi giorni li avrebbe persi a chiazze e così accadde dopo la seconda chemio. Quando ricoprii la sua testa con la schiuma da barba, lei pianse, sua madre spiava dalla porta del bagno, la sentivo singhiozzare, ogni settimana rapavo a zero mia moglie. Nello spogliatoio dell'ospedale sentivo i miei colleghi scherzare e ridere <<Hai visto ieri la partita? Che vittoria!>> <<Ieri ho ha mangiato una bistecca da un chilo, i bambini hanno giocato tutta la sera e non ci hanno dato problemi!>> oppure <<Accidenti mi tocca pagare 300 euro di bollo, non potrò mettere i cerchi in lega all'automobile!>> Bella la vita vero? Ripetevo tra me, in fondo non potevo biasimarli, loro vivevano la vita che fino a qualche mese fa vivevo anch'io, ora mi trovavo a rasare la testa di mia moglie, a reggerle la testa mentre vomitava fino a strabuzzare gli occhi, sì i primi cicli di chemio sono stati orrendi. Cominciai a informarmi accuratamente sulle molecole utilizzate per la lotta al cancro, metodo Di Bella, l'ascorbato di potassio, le ricerche di frontiera, in qualche angolo sperduto di mondo un ricercatore aveva scoperto una solitaria molecola capace di sconfiggere il cancro, parole, parole, inganni e ancora parole. Avevamo scelto insieme questa strada, ma la decisione finale è spettata a Vissia, in fondo il corpo che doveva ricevere queste sostanze era il suo, sarebbe egoistico scegliere per un'altra persona. I genitori scelgono per i figli, una moglie sceglie per il marito quello che deve indossare, il dittatore sceglie la tortura per la propria popolazione, perché nella sua mente malata è l'unico metodo per garantire la sicurezza dello stato. Despoti e tiranni, facilmente in nome dell'amore costringono altri a scegliere tra la padella e la brace. Vissia ha accettato la terapia che ancora oggi sta facendo e ringraziando il cielo, cammina con le sue gambe, camminiamo insieme sui crinali di montagna, andiamo al cinema, cenando dopo al miglior ristorante della zona, ho accanto a me la compagna di sempre. Avevo letto esperienze personali di donne che al primo ciclo di chemio hanno perso unghie e denti, con tutto l'amore e il cuore, la forza e la dolcezza che dono a queste donne, posso dire che Vissia non ha patito nulla del genere, abbiamo scelto la strada del cuore, sono abituato a seguire i segnali che ci mostra la vita, qualcuno chiama tutto questo, provvidenza, miracolo, Dio, destino, ma io la chiamo vita.

Quattro cicli di ciclofosfamide hanno debilitato Vissia. Non so da dove ha attinto per quattro settimane la forza per andare a lavoro il giorno seguente, dopo aver passato tutta la sera precedente abbracciata al water in preda al vomito. Quando tornavamo a casa dopo la chemio, ogni cosa che infilava in bocca, anche se fosse stato un seme di girasole, dopo un sonno profondo di cinque ore, lei lo vomitava. Non passava nulla oltre lo stomaco <<Non ce la faccio...>> Fu l'unica volta che la vidi in seria difficoltà, quel pomeriggio aveva avuto diarrea e vomito, la trovai distesa sul pavimento con la mano appoggiata sul water <<Andiamo a letto...>> Quelle sono state le uniche parole che riuscii a dire, soffocavo le lacrime mentre le rimboccavo le coperte, con odio ripensavo alle pesanti giornate lavorative del pronto soccorso, tra finti malati, approfittatori e agitatori di folle, in quel momento odiavo le persone, l'umanità e tutto ciò che rappresentava, avevo bisogno di sfogarmi, di prendermela con qualcuno ma con chi? C'era solo il silenzio in casa, potevo rifugiarmi tra quelle nuvole dove spesso vivevo, lontano dal puzzo di questa vita e dai sorrisi di rame di attori televisivi. Anche questa tempesta sarebbe passata, ma in quel momento desideravo che la pioggia allagasse tutto il mondo e annegasse i suoi abitanti.

Nelle ore di silenzio pomeridiano durante il riposo dalle chemioterapie “pesanti”, leggevo il suo diario, un documento scritto sul computer, prescrittogli dallo psicologo nei primi giorni della malattia, giusto per trovare un canale di sfogo. Lei dormiva ed io temevo che il mio respiro potesse disturbare quella tensione surreale, come quando c’è silenzio nell’aria e il cielo incombe prima della neve, ecco, solo silenzio. In quelle pagine c’era Vissia, con la paura della morte, dell’intervento, della chemioterapia, il nostro matrimonio e il destino crudele. La cosa che mi colpiva di più non erano le sue paure umane, ma il dispiacere, lei soffriva per il forte dispiacere che aveva dato a tutti noi. In lei era presente una bestia nera, selvaggia e indomita, una rabbia atavica che irrompe e spacca tutto, e questa “cosa” la accusava di creare solo dispiacere gettando fango sulle persone a lei care. Quando abbiamo paura della morte, o quando per nefasto volere ci approntiamo a essa, la prima cosa che ci fa sobbalzare è quella di dover lasciare persone e cose di questo mondo. Non è la paura di non esistere più, in fondo non ci ricordiamo nulla prima della nascita, non ricordiamo tutti i secoli che sono passati e neanche la paura di non essere ricordati, nonostante lasciamo tracce del nostro passaggio, la paura è di non poter avere accanto le persone che amiamo. Lo leggevo tra le righe del diario, il mio nome si ripeteva in ogni paragrafo, sono il suo angelo caduto, la sua speranza, la sua vita, la sua essenza e lei hanno paura ed ha rabbia. Il percorso è semplice e lineare, la paura porta all’odio, l’odio porta all’ira e quest’ultima a volte porta al lato oscuro di noi. Depressione profonda e suicidio spesso vanno di pari passo. Non mi ritengo un angelo, un essere speciale, ma sono un uomo come tutti, che piange ride e si arrabbia, sogna, mente e vigliaccamente scappa, allora cos’è che ci rende unici? E’ solo l’amore.

 

Messaggeri dall'infinito.

Cicli di chemio, esami del sangue, ecografia del fegato <<Come stai? Gli esami vanno bene, non ti preoccupare.>> Frasi di routine dell'oncologo, terapia di routine e le solite quattro ore in attesa che la pompa peristaltica finisca il suo lavoro. L'unico cambiamento era dentro di lei, una sostanza altamente tossica e cancerogena, capace di ustionare la pelle, l’era sparata ripetutamente in vena, delle mini bombe atomiche una volta a settimana distruggevano, così dicono, le famose cellule ribelli dell'organismo, da qualche parte nel suo corpo era in atto un colpo di stato contro il regime cellulare. E l'esplosione atomica era l'arma per eccellenza, spazzava via il male e miliardi d’inermi abitanti del corpo umano, debilitando la catena di montaggio del midollo osseo. Guardavo pazientemente ogni volta le gocce di liquido scendere una a una, scandivano il tempo macabro fino alla prossima chemio. <<Fa un bel respirone.>> Le dicevano ogni volta che infilavano l'ago nel Port sottocutaneo. Durante le interminabili sedute, Vissia si addormentava e mentre lei dormiva io la guardavo, ovviamente la mia mente cominciava a vagare in teorie e supposizioni. Adoro la logica, ascolto ovviamente il cuore, ma a ogni gesto, relazione, impressione, visione, di tutto ciò che mi circonda cerco una spiegazione. Forse è dovuto alla passione per le scienze in generale, mentre gli altri vedono solo la sagoma bidimensionale della realtà io, immagino gli atomi che vorticano e si saldano in legami chimici, poi penso alle stelle che esplodono in remoti angoli della galassia e alle cellule che lavorano freneticamente nel corpo umano, immerse nel buio e alle molecole di chemioterapici che approntano legami con le strutture di membrana delle cellule tumorali. Forse è un bene che riesca a pensare in questo modo, mi aiuta a vedere le cose da un punto distaccato e unitario, per quanto siano belle le emozioni, non bisogna mai dimenticare che facciamo parte di un vasto oceano di atomi organizzati, questo modo di vedere l’esistenza mi aiuta a sminuire le ansie e le paure, siamo materia e ultramateria, facciamo parte di un tutto. La questione del cancro non l’ho mai capita fino in fondo, le cellule tumorali per natura propria sono immortali, non vanno incontro al processo di morte programmata della cellula, il corpo muore perché si svolge la battaglia titanica tra questo “essere che vuole spazio” e noi che siamo limitati nella forma. Ricordo un racconto fantascientifico di Roberto Vacca, dove afferma che miliardi di anni fa, gli alieni arrivarono sulla Terra, alcuni approdarono nei bagni solfurei dei vulcani, altri nelle profondità oceaniche o nei ghiacci delle vette. Luoghi troppo inospitali perché crescano e si sviluppino, hanno deciso così di cambiare strategia, l’unico modo per sopravvivere sul mondo alieno era la simbiosi. Così si trasferirono nel nostro corpo e in quello di tutti gli esseri viventi, ma erano piccoli, troppo piccoli perché possano manifestarsi e rendere nota la propria presenza, allora ecco che iniziò il “programma di contatto”. Solo modificando le catene di DNA gli alieni poterono avere un po’ di attenzione, non hanno mai abbandonato l’uomo, vivono in lui da sempre e per sempre, scelgono per qualche misterioso motivo che sfugge, un determinato individuo e attuano il programma di contatto. Allora in quel caso la persona si accorge di loro, ma sono ancora troppo piccoli, infinitesimali, nessuno si cura del loro messaggio. Inizia così il periodo di gradi speranze, c’è solo il profondo desiderio di arrestare l’invasione dell’ultracorpo. Gli alieni sfortunatamente hanno trovato l’unico modo di comunicare con noi, ci dicono che sono immortali e si espandono all'infinito, questo processo di crescita e rivelazione spesso porta alla loro fine e a quella dell’ospite, a questo essere alieno abbiamo assegnato un brutto nome, è il cancro.

Illumina l'oscurità.

Ricordo di aver scritto su facebook una frase che accompagnava una nostra foto del matrimonio, parlavo di momenti bui, sì posso dire che quelli sono stati momenti bui, momenti in cui temevo ogni giorno di non farcela, di non reggere, di dover dire addio a mia moglie prima di aver visto ancora tanti tramonti in riva al mare, senza visitare i luoghi leggendari dei nostri desideri, oppure di aver bevuto un vino costoso in una serata speciale. Tutto era ed ancora é importante, ogni piccolo gesto, ogni frase detta o solo pensata, alla fine sarà scritta affinché uno di noi due la legga. Ora la vedo ogni santa sera davanti allo specchio, passa strati di crema su una vasta cicatrice, e ogni volta che la guardo e ovviamente che lei la guarda nello specchio, nessuno di noi due può fare a meno di ripensare al teatro grottesco di quei mesi. La vita cambia lo dicono tutti, ogni volta che accade qualcosa di eccezionale, la vita cambia. Non cambia essa, il mondo vive come ogni giorno mutando lentamente, nonostante Vissia abbia il cancro e ancora porta avanti il vessillo della speranza, questo non ha impedito alla Terra di girare.

Questa estate abbiamo deciso di passare una settimana in montagna davanti alle pale di San Martino, in vita mia non ho mai visto montagne così alte, essendo vissuto per una vita intera su un’isola ad appena 20 metri sul livello del mare. Nonostante la globalizzazione, nonostante che l'immagine di un contadino in India rimbalzi in ogni parte del mondo grazie ai satelliti, noi abbiamo bisogno di vivere l'esperienza sensoriale per crescere. E proprio davanti a quelle montagne immense, irte come una cattedrale dove il sole tende i suoi raggi nelle prime luci del mattino, in attesa che la lesta aurora sveli il segreto millenario del suo silenzio, ho appreso che tutto quello che viviamo, gioie, dolori, emozioni, nascita e morte, sono solo un battito di ciglia, un granello di polvere posatosi sulla nostra pelle, la quale non dà sensazione, questo siamo noi nei confronti della Terra. Quando accade un evento che ci cambia la vita, dal primo bacio, all'orgasmo, alla prima volta in bicicletta, alla tesi di laurea, al matrimonio, alla morte del gatto o del cane, alla malattia del padre o di un fratello, alla morte della compagna e alla nascita di un figlio; ogni cosa, ogni terremoto nel nostro universo personale non causa un bel niente a ciò che ci circonda. Siamo noi, siamo solo noi che al mutare della nostra realtà siamo capaci di cambiare anche il mondo, solo noi. Il pianeta se ne sta lì, buono buono e guarda tutti noi che viviamo le nostre brevi esistenze.

<<Vuoi tornare indietro? Possiamo andare al rifugio e poi tornare giù con la cabinovia.>>

<<No! Ora sono arrivata quassù e voglio arrivare in cima.>> Aveva l'affanno, l'aria di alta montagna è incredibilmente sottile, ogni dieci passi Vissia si fermava, si sedeva e respirava a fatica. Allora mi sedetti accanto a lei <<Ti ricordi la respirazione completa? Riempi prima l'addome e poi espandi il torace, facciamolo insieme.>> Respirare è sempre stato il miglior metodo per calmare l'ansia, scacciar via le preoccupazioni e riempire i polmoni ad alta quota, arrivati in cima, potevamo vedere tutta l'ampia vallata e il complesso montuoso della Marmolada. L'aria frizzante, la leggera brezza, il sole maestoso e benevolo su tutto l'altipiano, facevano risplendere le rocce di dolomia, scattai una foto a mio parere memorabile. Rifacendomi a uno spot televisivo adesso posso dire che dopo cinque mesi di chemioterapia, vedere tua moglie che si arrampica a 3000 metri sulle Dolomiti, che si aggrappa alle rocce e tenta di catturare tutta l'aria possibile col respiro, beh, non ha prezzo. Quella era una conquista, anzi la conquista, ho appreso così una lezione importante dalla vita, la volontà, solo con essa l'essere umano riesce nelle sue sfide, anche quando siamo distrutti e dilaniati nel corpo e nell'anima, in alcuni sorge qualcosa di tenace, come le stelle alpine che resistono alle intemperie su dirupi impervi. Vissia aveva dentro l'energia giusta per andare avanti e questa energia compressa è stata liberata solo grazie all'amore, io ho scoperto il nuovo mondo, sono cadute vecchie credenze dell'inevitabilità, del destino e della rassegnazione. Sì è solo l'amore, come forza preponderante in natura a legare gli esseri e tutto ciò che ci circonda in intricati arabeschi di vita ed esperienze. Misteriose equazioni detengono i segreti dell'universo, ma la variabile dell'amore è quella che decide l'andamento dell'equazione stessa. Guardavo da lontano quella misteriosa variabile vibrare come una fiamma che resiste al vento, Vissia stava illuminando l'oscurità, quel momento preciso era l'inizio del suo rinascimento.

 

Il cuore saggio.

<<Eppure è passato tanto tempo e sono accadute tante cose.>>

<<Sì, ricordo quando temevi tutto quello che doveva succedere, l'intervento, gli esami, la chemioterapia e i tanti dubbi. Credo che l'unica terapia sia stata il tempo e la pazienza, solo in questo modo possiamo andare avanti, è inutile affannarsi, programmare giorni e giorni avanti, bisogna solo aspettare e sforzarsi di vivere il presente.>>

Vissia non parlava, guidava in silenzio e quando alla fine di ogni mio discorso non diceva una parola, era il segnale che stava pensando accuratamente su ciò che avevo detto. Mi sforzo quotidianamente per insegnare qualcosa di buono quando è possibile e se questo rientra nelle mie capacità, non sono un dispensatore di perle di saggezza, ma posso ascoltare ciò che bisbiglia il cuore e dirlo, anche se questo è tremendamente difficile e non sempre fattibile. Il cuore è un saggio, un vecchio saggio che se ne sta lì seduto, nel suo giardino e cura con pazienza i suoi fiori apprezzandone la bellezza e ogni minimo particolare, contempla i colori e aspetta prima di parlare, attende che la visione si presenti mentre noi attendiamo i suoi consigli. A volte sbattiamo forte il cancello del giardino, lasciando che il vecchio saggio ci guardi affranto ma senza dire una parola, perché sa che torneremo. Ritorneremo a esso, quando il nostro ego avrà deciso di divorziare e se ne andrà via di casa urlando e piangendo, noi torneremo a trovare il nostro vecchio amico Cuore, piangeremo tra le sue braccia e lui ci darà un lembo della sua veste per asciugare le lacrime. A lui non interessa se accarezzandoci, verranno via i capelli nel palmo della mano, se vomiteremo o se non potremo alzarci dal letto per salutarlo, a lui non interessa la paura della morte, i progetti e i sogni rinchiusi in un vecchio baule polveroso. Il vecchio Cuore se ne sta lì, legge i messaggi dei fiori è il guardiano dell'anima che profuma di pace. Possiamo vivere insieme con lui ogni volta che vogliamo e solo allora, solo nel momento in cui sceglieremo di vendere l'appartamento in condominio al sesto piano della strada trafficata dei caotici pensieri, quando decideremo di trasferirci nelle campagne immutabili e silenziose dell'amore per noi stessi, in quel momento noi possiamo rinascere, vedremo così le ansie, le paure, i tormenti e gli affanni, andar via come bolle di sapone.

 

Epilogo.

Vissia si guarda allo specchio, ha il viso tondo e sbuffa perché ha messo su dei chili, ma i suoi capelli sono tornati a crescere, la nausea, il vomito, la stanchezza cronica ha lasciato il posto alle serate a lume di candela mentre beviamo un vino costoso e guardiamo le fotografie scattate per l'intera giornata. C'è ancora da fare, ma il fuoco che arde dentro di noi ha illuminato la grotta, e questa non è soltanto fredda e buia, ma ha anche pareti costellate di scintillante quarzo, tutto risplendente come un cielo stellato. C'era bisogno della luce per renderci conto che il buio è solo un’illusione, esso non si può misurare, mentre la luce sì, ed è proprio la luce del cuore che ci permette di misurare l'intensità e la profondità della vita, dipende cosa scegliamo di vedere.

A voi tutti che attraversate la stretta gola della malattia, delle pene, dei dolori e delle morti, dico questo: la vita è un soffio di vento leggero sulla pelle, vale la pena viverla con amore e con coraggio. Ponete la luce al centro del vostro cuore affinché essa possa illuminare la caverna e mostrare quanto sia scintillante la roccia che lo contiene, quando è il cuore a parlare, vi rendete conto che esso ha più di mille anni, è saggio, semplice e ancora bambino nel suo essere. Supera le congetture e vi dice la scelta giusta, la mente consiglia attraverso i suoi molteplici dubbi, il cuore invece, non ha bisogno d'inganni, esso ama.


 

I giorni del silenzio
Il passo cadenzato delle esequie riecheggiava nel piccolo cimitero di comunità, il cielo era terso, il mare faceva sentire i suoi frangenti sulla riva e tra le folli insenature tufacee. Una piccola folla raccolta, senza lacrime, intonava un canto delizioso appena sussurrato sulle labbra. La giovane Maya stringeva tra le mani delle margherite appena colte che vennero sepolte insieme al corpo, non racchiuso in una bara, ma adagiato nella terra grassa, coperto da un semplice panno di lino bianco. Petali di rosa dei presenti e le margherite di Maya, poi la sepoltura composta accompagnata dalle parole di conforto del prete, parole lontane un tempo, adesso presenti nei cuori più che mai. L'inverno era finito, finalmente, era come se dopo tanti sforzi, qualcuno avesse aperto il serraglio della tagliola per volpi e liberato la gamba accidentalmente caduta dentro. Il caldo leniva i dolori e i bruciori della carne e della coscienza, un inverno era passato e ancora altri sarebbero giunti. Smottamenti, alluvioni, tempeste, interi paesi ghiacciati da metri di neve. Quanti eventi sono passati nell'inverno appena trascorso? Disse tra se Maya. Non lo sapeva, nessuno lo sapeva, le notizie arrivavano sporadiche, lente come le carovane d'intrepidi viaggiatori, con le notizie dei temerari arrivavano anche le lettere, qualcuno ancora scriveva. Maya era abituata alle lettere commerciali, quelle scritte col sottile inchiostro dalle stampanti laser, scritte con regole inventate da etichette ormai dimenticate, la lettera che giunse tra le sue mani invece era chiusa non in una busta, ma in un altro foglio di carta, ripiegato affinché ne contenesse un'altro.
L'omelia terminò, i presenti ricoprirono il tumulo con fiori di campo, quelli acquistati dai campi incolti e non dai fiorai, nessuno aveva portato, crisantemi, garofani, orchidee e rose blu. Solo margherite e bocche di leone, avevano  quelle e basta <<Andiamo mia cara.>> disse sua nonna cingendole il fianco, sorrideva la donna pur sapendo che suo marito era sepolto, sorrideva con una dolce malinconia, di chi sa che un giorno le toccherà la morte con suo fare silenzioso ed inevitabile. <<Il nonno ha trovato un po' di pace, mi dispiace però che non sia riuscito a vedere la primavera.>> disse Maya guardando lontano, mente risalivano la stradina in pendenza che riportava al piccolo borgo. <<Lui avrebbe voluto essere cremato, ma non so come si brucia una persona e quanto tempo ci vuole per bruciarla, nessuno ha voluto farlo, in qualche modo seppellirlo così è stato più umano, tuo nonno ha provato un po' del tepore di stagione>> Nonna Amelia si appoggiava con tutto il suo peso alla nipote, zoppicava e le sue gambe erano sempre più gonfie, spesso dovevano fermarsi mentre camminavano, l'asma cardiaco era un vero tormento e senza medicine non restava altro che affidarsi alla sorte o a quelle frammentarie notizie della farmacopea naturale. La donna aveva gli occhi asciutti, aveva pianto tre giorni e tre notti per la perdita di una parte della sua vita, Amelia decise di guardare avanti, alla fine l'avrebbe raggiunto, lo credeva con tutto il cuore, doveva essere così, altrimenti era vana tutta l'esistenza.
Mezzogiorno, l'ora più bella quando il sole splende alto, Maya e nonna Amelia si sedettero per riposare sulla via del ritorno, la vecchia prendeva fiato e chiudeva gli occhi verso il sole, la luce calda le illuminava il viso, fu allora che la ragazza uscì dalla sua borsetta la lettera <<Domani la carovana partirà di nuovo, ancora non ho scritto nulla....>> la guardava e la rigirava, l'aprì e rilesse alcune parole nella sua mente, come se la coscienza andasse a cercare automaticamente quelle parole che evocano le emozioni del primo momento. Di solito ricevere lettere rievoca la curiosità infantile, la voglia di sapere cosa c'è nella busta, le e-mail rientravano nella routine della sua vecchia scrivania, e le buste delle bollette erano spesso angoscianti, le cartoline dei paesaggi esotici le mettevano un po' di buonumore ma quella lettera la faceva piangere, era di suo padre.
<<Credo che dovresti rispondere Maya, tuo padre è vivo, dopo quest'inverno mortale è ancora vivo, te l'ho sempre detto che mio figlio era un uomo che sapeva cavarsela.>> La donna sorrise e diede due buffetti sulla guancia dell'adolescente, quante notti passate insonni, a lume di candela nella sua stanza umida. Maya guardava e riconosceva a memoria i poster dei personaggi che ormai appartenevano ad un passato lontano, finto come i fiori di stoffa <<Sarebbe bello scriverla insieme a mamma, è via già da due settimane.>> <<Tornerà tranquilla, tante donne sono partite per i monti, presto torneranno con la lana, tua madre sa badare a se stessa.>>
Maya si stese col viso sulle gambe della nonna, sentiva l'odore di sapone a mano e di foglie di lavanda <<Perchè dobbiamo soffrire così tanto nonna? Perché è successo d'inverno? Perchè....>>
<<Perché così doveva andare.>> la interruppe <<Perché prima o poi doveva finire, era veramente troppo, il silenzio s'è ripreso il sonno che abbiamo rubato alla terra.>> Maya ascoltava sempre sua nonna, dogmatica e forte in qualsiasi evenienza, se un corpo potesse esprimere la sua tempra, sarebbe quello di una statua possente, ma anche lei stava attraversando il suo tempo finale, doveva resistere, finche suo padre e sua madre non fossero tornati, allora lei poteva congedarsi dall'adempire la sua vita, come ha fatto suo marito Edoardo prima di lei. <<Credo che tu debba scriverla lo stesso la lettera, Lorenzo ha bisogno di sapere se siamo vivi, deve avere una speranza per tornare qui, ci vorranno mesi lo sai.>>
Le vie erano deserte e nell'arteria principale del paese le persone camminavano e chiacchieravano tra loro, ovunque si udiva battere martelli su chiodi, il fracasso delle pale graffiare l'asfalto nell'impastare il cemento, con l'arrivo della primavera tutti erano diventati come piccole api industriose. Le saracinesche dei negozi erano aperte e vendevano alimenti di giornata, qualcuno aveva avuto l'idea di scendere in strada, dagli appartamenti dei palazzi, strumenti musicali e grammofoni d'epoca ed anche il grosso pianoforte del maestro in pensione Michele Alfieri. Musica, la musica riprese a suonare tranquilla e melodica, i bambini ridevano e come nugoli d'aerei da caccia scemavano tra i passanti e cantavano, l'inverno era finito. Maya e nonna Amelia ritornarono in casa, la vecchia si precipitò alla cucina, versò dell'acqua dal grosso contenitore di plastica nella pentola, prese una delle tante zuppe precotte e accese i batuffoli di cotone impregnati d'alcool, li poggiò su una pirofila d'argento elegantemente cesellata, la pentola poggiava sul telaio dei fornelli da cucina <<Tra un'ora a tavola Maya.>> disse la nonna alla nipote nell'altra stanza. Maya era seduta alla sua scrivania, lo schermo ultrapiatto del computer era spento  e nella sua camera c'era il silenzio, aveva spostato la scrivania sotto la finestra per sfruttare la luce del giorno fino al tramonto, fissava il foglio bianco e la penna giaceva immobile su di esso, in attesa d'essere posseduta dalla forza delle dita e del polso. La ragazza fissava quel soldatino immobile, la sua mente era distratta dal rumore della strada, dagli schiamazzi dei bambini, dal profumo di bollito delle massaie al lavoro in cucina. Aveva la mente svuotata da ogni pensiero, era concentrata altrove, nonostante la morte di nonno Edoardo lei pensava al sole della giornata triste e delicata, appena sussurrata e fragile come una porcellana antica. Pensò poi a suo padre Lorenzo, nel nord Europa, era un navigante su una porta macchine, scarrozzava a bordo di quelli che sembravano dei palazzi immensi tra le onde, alte decine di piani e colmi nel ventre d'automobili, ogni tipo di automobili. Poi la nave si fermò e non c'era più scopo stare lì, sul gigante di ferro di migliaia di tonnellate e per di più, con un carico privo di valore, l'automobile. Una volta suo padre la portò a bordo di uno di questi giganti, ed era bello vedere come affrontavano il mare aperto e la furia delle onde  senza problemi. Dalla plancia di comando vedeva grandi spruzzi d'acqua contro la prua, mentre una nuvola di schiuma inondava il ponte deserto. Le navi ora giacevano silenziose nei porti dall'inizio dell'inverno, il più duro in assoluto, il mondo era stato preavvisato con largo anticipo dagli scienziati e nonostante le precauzioni, non c'è stato nulla da fare, l'impero dell'energia elettrica era crollato come un castello di carte su se stesso, un gigante dai piedi di balsa.
Maya aveva passato un inverno di speranze e sospiri insieme a sua madre Sabrina, oltre alla vita difficile, oltre a dover pensare quotidianamente a cose che ormai davano per scontato, c'era la morbosa speranza del ritorno di un marito ed un padre, chissà dov'era. L'ultima volta che lo sentirono telefonicamente fu verso la fine d'ottobre <<Siamo arrivati ad Arcangelo, in Siberia. Sentissi che freddo!>> e poi più nulla, improvvisamente il silenzio alla cornetta e via la luce nella stanza, spenta la televisione, computer, radio e forno a microonde. La luce dalla strada svanì come inghiottita da un manto di notte, Maya lo ricordava bene, il 25 ottobre alle 19.43 tutto si spense, come si spegne una giostra, tutto. Al solo pensiero di quei momenti, un brivido le fece venire la pelle d'oca, suo padre aveva scritto una lettera a tutta la famiglia "Sono vivo", due parole ed otto lettere, un modo inusuale per iniziare una lettera. Sabrina e sua figlia piansero abbracciandosi, quando ricevettero dalla carovana di speziali quella lettera, la gente aveva ancora il buon cuore di curare gli affetti del prossimo, nonostante tante avversità, quel foglio di carta era giunto a loro da Holwerd in Olanda "C'è voluto un po' per capire che non era un guasto alla nave e che non era un black-out momentaneo al porto della città, la nave è stata abbandonata in rada ad'Arcangelo e dopo pochi giorni è stata imprigionata dal ghiaccio, noi siamo giunti a terra in scialuppe a remi e da lì insieme, uniti abbiamo cercato riparo…" Le mani di Maya stringevano ancora quel foglio e rileggeva le frasi dure e quasi impossibili "il comandante è morto dopo pochi giorni, sono finite le sue medicine per il cuore" oppure "ci siamo rintanati in un magazzino, fa freddo, abbiamo bruciato quello che poteva ardere, ogni notte girano i lupi per la città, si sentono degli spari." Alla fine erano riusciti ad uscire dall'inferno di ghiaccio, attraversando la costa del baltico a piedi, come nomadi in marcia nella gran migrazione della loro vita, fino ai paesi bassi. Lorenzo era ancora lì, lavorava spalando carbone e spaccando legna per poter acquistare un cavallo, che valeva più di un'auto di lusso, sarebbe ritornato a casa, prima della fine dell'estate sarebbe ritornato dalla sua famiglia.
Maya sospirò e istintivamente la penna prese a muoversi sul foglio bianco.

Caro papà,
in quest'inverno buio appena passato, la tua lettera è il primo raggio di sole di questi giorni, qui abbiamo passato questi mesi duri tutti insieme, tutti uniti a casa nostra. Nonno Edoardo ci ha lasciato quattro giorni fa, era molto malato, aveva preso la polmonite dopo un forte acquazzone, era rimasto nei campi per finire l'aratura, il nonno s'è spento tra noi, l'abbiamo seguito fino ala fine, con amore .Nonna Amelia e mamma stanno bene, degli zii, cugini, amici, non abbiamo più notizie, nessuno viaggia senza uno scopo, le giornate sono abbastanza fredde per viaggiare giorni e giorni attraverso l'Appennino. Papà mio, ho le lacrime agl'occhi scrivendo, devo fermarmi spesso per sospirare e nascondere il viso tra le mani, non accetto  ancora questa realtà assurda. Una tempesta solare, non sapevamo neanche com'era fatta una tempesta solare, e poi un pomeriggio di fine ottobre vedemmo i colori più belli del cielo, pareva che una grande tenda da salotto colorata sventolasse sopra di noi e poi il buio. Nessuno nel mondo immaginava che il fenomeno avesse spento totalmente tutta l'elettricità del mondo, dopo pochi minuti dall'apparizione dell'aurora, nella centrale elettrica in fondo alla valle, s'accesero delle scintille e lampi di luce blu .Udimmo così esplosioni e boati e l'aria si riempì di un odore acre di plastica bruciata. Chiunque avesse un trasformatore attaccato alla rete elettrica, andò in frantumi e venne così improvvisamente buio. Ero in strada quando è successo,  insieme a Gianna e Miriam nel parco, guardavamo il cielo a bocca aperta e le persone si fermavano guardando il cielo anch'essi stupefatti, e rimasero ancora più stupefatti quando si guardarono attorno vedendo le auto ferme, immobili e l'improvviso silenzio, si udiva il vento tra le fronde dei platani accompagnato da un brusio crescente e da qualche urlo. Papà ti giuro, è stato come un istinto improvviso, l'ultimo raggio di sole stava per tramontare e il viale Marconi, sempre trafficato, si riempì di persone, tutti scesero dalle auto e parlavano tra di loro, nel brusio s'udiva la parola "sole", "eruzione solare", "tempesta magnetica". Come dei burattini ci siamo diretti tutti verso le nostre case, in preda al panico, come se l'aurora del cielo potesse avvilupparci nei suoi colori, tutti avevano un improvvisa paura di morire, io Miriam e Gianna ci tenemmo per mano silenziose e ci avviammo a casa insieme alla folla, cresceva come un fiume, dalle traverse uscivano persone sbigottite e turbate, il viale divenne un fiume di gente. Ho accompagnato le mie amiche a casa e poi ho fatto una corsa da mamma, mi aspettava sull'uscio della porta preoccupata e mi abbracciò forte quando entrai dentro. I primi giorni sono stati i più difficili, poi rileggo la tua lettera e capisco che a confronto dei nostri problemi i tuoi sono stati di gran lunga peggiori. Il nonno ha tirato giù dalla soffitta quei vecchi pacchi di candele e da una cassa di legno prese anche dei grossi ceri che gli aveva dato il sagrestano, se non erano per le candele, potevamo stare perennemente al buio. In casa non funzionava praticamente nulla, mamma buttò i piccoli trasformatori bruciati, e l'acqua usciva dal rubinetto sempre più poca, allora ci siamo affrettati a riempire tutto quello che la poteva contenere, dopo un ora l'acqua non uscì più, per tutto l'inverno. Sembrava che ci fosse il coprifuoco, la mattina la gente scemava senza meta per le strade, alla ricerca di cibo, vestiti, legna e acqua. Sono morte tante persone i primi giorni, nessuno costruiva più le bare, le segherie erano ferme e immobili, abbiamo avuto tanto dolore qui in paese, anche l'ospedale rimase deserto una settimana. I dottori trovavano difficoltà nel curare le persone senza le apparecchiature elettriche, laboratori d'analisi fermi, TAC, risonanza magnetica, radiografie, elettrocardiografi, defibrillatori, tutto fermo le scorte di farmaci finirono in fretta. Ci volle un po di tempo, l'unica intelligenza non è quella artificiale, ma la nostra, e grazie all'ingegno la medicina ritorno ad arrancare verso un'accettabile stato di salite. Mal di denti, coliche, il cuore affaticato della nonna, le malattie venivano curate con una buona riserva di fortuna. Le persone sapevano, anche io sapevo come funzionavano le cose, le avevo studiate, tutti le avevamo studiate, ma nessuno sapeva ricrearle. Così ci fu l'assalto ai negozi, andammo anche io e mamma ad arraffare quello che si poteva mangiare, tante persone si avventarono sui cibi freschi, all'inizio in pochi presero cibi in scatola e liofilizzati. Io e la mamma abbiamo portato via di tutto, ho avuto vergogna in quanto ci siamo trasformati in bestie fameliche in poche ore, guardavo le persone e molte le conoscevo, tutti affannati e decisi a rubare più dell'altro, senza guardarsi in volto. Papà qui c'è stato un periodo di vero terrore, chi possedeva un'arma dettava legge su poche rumasuglie di viveri. All'inizio di novembre è arrivata la neve, tantissima neve, le notizie che giungevano fuori città dicevano che tutto il continente era sepolto sotto pioggia e neve. Il torrente qui è straripato tre volte, le case nella zona degl'argini sono state abbandonate per sempre, le persone giravano e ancora girano per strada fino al tramonto, poi c'è il silenzio assoluto, a volte sento dei lamenti, qualcuno che sta male di notte, oppure dei pianti e delle urla lontane. Queste cose sono andate avanti per tutto l'inverno, i primi a morire dal freddo sono stati gli anziani, stipati in appartamenti dal riscaldamento elettrico. Chi aveva delle bombole di gas era un signore, riusciva a cucinare e riscaldarsi, anche se qualcuno rimaneva ucciso dalle esalazioni. Nonno e nonna sono stati una vera benedizione per me e mamma, in breve riuscirono a riparare la vecchia stufa di ghisa, quella stipata in garage dietro la lavatrice, abbiamo impiegato un'intera giornata a portarla su. Ha fatto bene mamma a non fartela buttare, ora qui non buttiamo nulla, non si spreca proprio niente, mangiamo tutto quello che si può mangiare anche se ha un saporaccio.Il nonno era ritornato in campagna, s'alzava prima dell'alba e insieme con altri uomini e donne si dirigevano alle campagne nelle fattorie. Ti ricordi quel ragazzo che venne a casa nostra?Il mio amico di classe Matteo?Tutti lo prendevano in giro a scuola, perché la sua famiglia era ignorante e campagnola, un giorno mentre nevicava, io e il nonno eravamo andati alla sua fattoria per elemosinare qualcosa in cambio di manovalanza. Vivevano come se non fosse accaduto nulla, a parte il buio in casa però, c'era il tepore del camino con grossi ciocchi di legno e qualcosa bolliva sul fuoco. La famiglia di Matteo dopo un mese prese fiducia nel nonno e poi a scuola ero stata l'unica a non prenderlo in giro, siamo vivi grazie a loro papà, nonostante il vento gelido e la neve alta, loro continuavano a crescere gli animali da cortile, e a lavorare nelle loro serre al tepore. Tutti gli altri li faceva lavorare e in ogni caso li ricompensava bene, sempre in natura. Qui scambiamo tutto, tutto quello che possa servire, le automobili sono state sventrate da lamiere e sedili caldi, i centri commerciali sono diventati rifugi per animali, grossi spettri troneggianti nelle campagne, circondate da autostrade che ormai, restano spesso deserte. Sembra strano dirlo, ma tutti vanno in chiesa, è un piacere sentire le campane che sono state mute per giorni interi, suonavano tutte con un motore elettrico, don Luigi accoglieva ogni giorno affamati e disperati, faceva quel che poteva per tenerli buoni. Il vescovo non si vide più qui da noi e non venne nessun altro prete o monaco. Buona parte delle chiese sono state chiuse i loro curanti sono spariti, molte sono state depredate dalle statue per poterle bruciare nei camini. Solo ora capisco l'importanza della terra coltivata, dei boschi, dei fiumi, delle giornate di sole e pioggia, non possiamo vivere senza il nostro suolo,  la nostra aria. Da quando s'è spento il computer ho ripreso a leggere tutti i vecchi libri in soffitta, ho scoperto che leggere è una delle cose più belle che possa fare una persona per sognare ad occhi aperti. Ci siamo abituati al silenzio, dolce, sacro e piacevole, la signora Marisa che soffriva d'insonnia e attacchi di panico ora dorme beatamente, senza più il traffico sotto casa. A dicembre c'è stato un grande fermento, il sindaco e le persone più importanti del paese sono scesi nelle piazze per indire una grande assemblea cittadina. Non siamo mai state bestie e la barbarie doveva cessare, ci voleva un ordine e lavorare insieme. Tutti lavoravano per la comunità, ogni comune aveva la sua comunità, chi se la sentiva di arare i campi o spaccare la legna nel bosco faceva quel lavoro, buona parte delle donne presero a filare, cucire e tessere. I negozi derubati furono risistemati e riadattati come delle vecchie mercerie dell'ottocento. La saggezza giungeva dagli anziani e dai libri nelle biblioteche, i soldi ci sono serviti per il fuoco, i banchieri e i politici ora si rendono utili alla comunità. Non so che fine hanno fatto le star della televisione e tanti personaggi che vivevano da nababbi, non m'interessa. So solo che il sole brilla e quando lo fa per un bel po' di giorni è una gran festa, infatti le sagre di paese, un tempo denigrate o trasformate in discoteche di piazza, sono vere toccasana per il cuore delle persone. In paese abbiamo scavato molti pozzi pubblici e anche tanti servizi igienici da usare sempre in comune, questa è l'unica cosa che non sopporto. Non so lì cosa è successo alla struttura nazionale, se esiste più una nazione, ma qui non sentiamo più parlare di politica da un po' di tempo, l'inverno è stato duro papà mio, davvero intenso, spesso ho pensato di morire di stenti insieme con tutti, anche le fattorie si sono trovate in difficoltà, verso la metà di gennaio c'è stato quasi il tracollo della nostra comunità. Nessuno era preparato ad un simile evento, abbiamo dato tutto per scontato, come se l'acqua uscisse dal rubinetto magicamente, e che un interruttore accendesse obbligatoriamente una lampadina, un forno, una televisione, un asciugacapelli. Il frigorifero l'abbiamo usato come credenza, i cellulari se ne stanno zitti in un cassetto, insieme a macchine fotografiche, lettori musicali, orologi digitali, torce elettriche e lampade a led, tutto inutile. Abbiamo provato a costruire dei semplici circuiti elettrici, non funziona nulla, è come se la fisica dell'elettricità non fosse mai riuscita, non funzionano neanche i vecchi accumulatori dei musei di fisica, nulla, non c'è fenomeno elettrico che avvenga, tranne che per i fulmini. Ho scoperto una cosa papà, che sono felice, anche la mamma che ora è in viaggio con la carovana della lana, anche il nonno prima di morire era felice, aveva visto tante famiglie sparse per migliaia di chilometri ed ora sono riunite. Ogni figlio è tornato a casa, in ognuna di essa ci sono tante persone, siamo ritornati a parlare, a guardarci in faccia, ad usare carta e penna, andiamo in bicicletta e a cavallo, sì, i cavalli sono tornati a moltiplicarsi per nostro volere. Dicono che in chiesa le persone pregano dio col cuore, le liturgie si sono abbreviate in parole di conforto, tutto ciò che facevo quotidianamente appartiene ad un sogno, lentamente abbiamo scoperto come ci venivano naturali cose impensabili in passato e come appaiono ridicole alcune fissazioni quotidiane. La mamma si lamentava dei soldi, "che fine avranno fatto i nostri risparmi in banca?" Tutti scomparsi, come i bit di molti computer, infatti quando assaltarono la banca del paese, nella sua cassaforte c'erano appena che poche migliaia di euro, il resto del patrimonio di tutti noi era svanito. Qui è ricco chi produce e lavora per la comunità, tutti partecipano in qualche modo, ho creduto fin dall'inizio che ci saremmo ammazzati in breve, invece siamo scesi nelle strade e ci siamo abbracciati aiutandoci a vicenda, all'inizio è stato tutto difficile, fino alla fine di gennaio le persone si ammalavano e morivano facilmente, almeno l'abbondanza di neve ci ha permesso di avere acqua e le carni degli animali potevano essere conservate nel freddo, il natale è stato magico. La nonna e la mamma mi hanno regalato due libri usati e una sciarpa calda, fatta da mastro Nanni, ti ricordi di lui? Aveva chiuso la bottega per fallimento e lasciato lì il vecchio telaio, a nessuno più interessava un vecchio tessitore avvizzito dietro una macchina arcaica, ora ha tre allievi che imparano il mestiere. Credevo che la scuola fosse finita finalmente, invece dopo un po' di caos le lezioni sono riprese, per insegnare non importa tanta tecnologia, gessetto e lavagna, i libri passano di classe in classe. Non so cosa accadrà a chi voglia pubblicare e scrivere cose nuove, o la stampa come funzionerà, per ora legna e carbone, ma qualcuno sta usando i pannelli solari per sfruttare il vapore dell'acqua.
Manchi molto a mamma, veramente tanto, manchi a tutti noi, mancano i pomeriggi insieme, posso solo rivederti nelle fotografie fatte in posti ormai irraggiungibili, più passano i mesi e più ti sento lontano, ma adesso nel cuore ho la certezza della tua presenza, sempre accanto annoi, anche in questi giorni silenziosi. Ogni giorno faccio le cose con serenità e dedizione, quelle poche cose che possiamo fare le facciamo bene, con calma e silenzio. Non c'è più bisogno di controllare e-mail, delle previsioni del tempo, del telegiornale, dei film, dell'estratto conto, della benzina all'automobile e delle tasse, l'unica tassa che le comunità chiedono e la collaborazione per il bene e la sopravvivenza di tutti. Anche se sei lì lontano e aspetti che la prossima carovana parta per raggiungerci,  anche se sono morti in tanti ed anche il nonno se n'è andato, anche se la nonna è malata, io sono felice. Sono felice che tutto stia ricominciando daccapo, coloro che erano cattivi hanno dovuto fare i conti con l'approviggionamento e questo avviene solo con la collaborazione. So che tra i valichi di montagna, nei boschi e nei luoghi isolati si annidano bande di ladri, ma stanno scomparendo lentamente, perché la merce di scambio non è la ricchezza delle pietre preziose o dell'oro, ma del lavoro stesso. L'ordine è mantenuto da cittadini volontari e la legge è semplice, appunto perché semplici sono diventate le persone. Di quello che una volta era il mondo articolato e complesso, difficile e disumanizzato, ci resta solo la complessità d'idee di tutti noi. Siamo ritornati al settecento, ma abbiamo la crescita della coscienza diversa da quell'epoca, spero che tu venga presto qui papà mio, abbiamo tutti voglia di ricominciare, ti aspettiamo a braccia aperte. Ogni viaggiatore porta la sua esperienza di silenzio dei viaggi, io non vedo l'ora di ascoltare i tuoi nel silenzio della mia camera. Non ha più senso, veramente tutto quello che facevamo è diventato inutile, l'unica cosa utile e bella è quella di essere uniti, insieme come una vera famiglia e correre d'estate sulle spiagge silenziose. Ti amo papà, tanti padri stanno tornando dopo viaggi estenuanti, aspetterò il tuo ritorno qui sull'uscio di casa, in questo mondo silenzioso accarezzato dal vento e dal sole.

Un bacio e un abbraccio da tutti noi,
                                                                                    Maya

Lorenzo asciugava le lacrime copiose e sorrideva alle parole di sua figlia, le giornate si stavano allungando e la bruma tardava a coprire i sentieri della foresta nera. Alla fine del mese di aprile molti uomini, chi a piedi, in bicicletta o a cavallo, presero la lunga strada verso il sud Europa. Anche Lorenzo era diretto a sud insieme alla fiumara di gente, aveva patito freddo e fame, guerriglie urbane e poi un improvvisa rinascita, come se i cuori di tutti gli uomini all'unisono avessero preso a battere in coro, tutti insieme, la natura è più furba di quanto l'uomo crede. Qualcuno lo chiama destino, o Dio, Lorenzo non è mai stato un grande frequentatore di chiese, eppure scorgeva in quell'evento planetario una trama silenziosa e invisibile, appunto il destino o Dio. In quell'inverno ormai passato, il pianeta venne investito da una grande ondata di radiazioni magnetiche, esse penetrarono la magnetosfera e distrussero tutti gli apparecchi elettrici e derivati da essi, il mondo in pochi istanti tornò ad alcuni secoli addietro. Nessun proclama od emergenza nazionale, tutto fermo in un solo istante, nessuno sapeva quando sarebbe durata l'interferenza, ma tutti sapevano che quando l'elettricità sarebbe tornata, avrebbe trovato un umanità cambiata, forse con una coscienza più attenta a se stessa.  La lettera di Maya era una delle tantissime lettere che circolavano nel mondo e attraversavano i mari, mai le emozioni furono così intense e vere, tutti i pensieri archiviati in terminali elettronici scomparvero, un foglio di carta proveniente da lontano, che odorava di casa, era il miglior ricordo che un uomo potesse avere nella sua esistenza.

Figlia della luna
<<Una sola condizione figlia mia, in cambio voglio che il tuo primo figlio venga a stare con me.>> Sereide in ginocchio sollevò il viso che guardava il freddo pavimento marmoreo <<Ma…mia signora io….>> L'anziana sacerdotessa dall'identità ignota la guardò con maestosa dignità e ferma risolutezza <<Puoi sempre tornare nella cupa disgrazia della tua vita insozzata di calunnie e bassezze.>> Allora Sereide guardandola con gli occhi pieni di lacrime, annuì in silenzio, ripensando al turbine degli eventi infausti accaduti nella sua vita. Il tempio della luna sorgeva sulla collina di Naghar tra le impervie montagne della Macedonia del terzo secolo avanti cristo, splendido e ammirevole il bellissimo calcare, porfido, piperno e marmo venato adornavano l'ampia terrazza di cinquecento colonne e al centro del quadrilatero c'era un cerchio d'oro enorme dove la sacerdotessa della luna, in eremo silenzio, riceveva i suoi fedeli singolarmente per elargire aiuti dalle avversità terrene. Proprio in quel plenilunio di una notte di giugno, Sereide, la casta figlia del principe Atuasio, reggente delle frontiere greco-macedoni, era accorsa per chiedere del suo destino e del più grande incantesimo elargito al contatto divino. L'amore, eccolo il sentimento che discerne dal comune raziocino e da ogni meticoloso intento di bloccare od arginare almeno, l'impulso quasi animalesco di versarsi nel cuore del proprio amato. La sacerdotessa della luna lo sapeva bene, quanti uomini in pena aveva visto in ginocchio davanti a lei, in lacrime, feriti a morte e ansimanti "Vi prego, fate che lei o lui mi ami per sempre", ecco la richiesta gravosa di responsabilità, non per la sacerdotessa, ma per il singolo mortale, perché la Candida chiedeva sempre qualcosa in cambio, il tributo in oro massiccio, forgiato in una piastra circolare in cui era inciso il volto della donna, dell'uomo o dell'azione da compiere. I capi di stato e gli uomini di guerra andavano da Apollo e inneggiavano nelle strade il possente Eracle per il propizio esito della battaglia e lei, la Luna se ne stava lì solitaria, fragile e quasi evanescente tra i drappi bianchi accarezzati dal vento della prima sera, proveniente dalle coste dell'Esperia.
Sereide scese dalla collina prendendo il sentiero buio, era possibile ammirare la grande luna piena e il circondario stellato sulla valle silenziosa. I campi di grano maturi splendevano tenuamente sotto la luce sottile di luna e lei, accarezzava il suo grembo, immaginando che il primo figlio doveva diventare un servitore della luna. <<Quando sei colpito da una freccia>> le diceva il padre Mendocle <<non sai se fa più male il dolore lancinante che dura un batter d'occhio, oppure la carne calda che deve subire il freddo del metallo che entra violento. Potrebbe essere una sola sensazione invece no, perché c'è sempre un dolore nascosto, uno sottile e silenzioso che fa male per molto tempo e tu devi scegliere immediatamente quale dei due mali devi eliminare.>> Sereide capiva sempre quando suo padre affettuosamente le parlava, seduta su una sua gamba da bambina le spiegava il mondo, il perché delle guerre e del'ira degli dei. Marce nei deserti e imponenti eserciti si sono scontrati sulle terre greche e anche i macedoni hanno fatto la loro parte nella difesa del mondo libero, della nascente e fragile legge democratica. Ora lei, adulta e bellissima aveva mancato fedeltà al giuramento fatto a suo padre e alla sua gente, il giuramento di difendere con cuore anima e sangue i confini contro un solo invasore l'invasore persiano.
Erano barbari per gli illirici, sgraziati conquistatori assetati di acqua, sangue, terre e ricchezze, credevano nell'esistenza e nel potere assoluto di un unico dio incarnato nella figura del re. Persiani, orrendi e puzzolenti, vestivano con pelli di serpente e mantelli di vacca, prima del fendente della spada si veniva colpiti dal puzzo pestilenziale, dai pidocchi e dalle malattie che essi trasportavano. No, non era così, lei aveva visto, era stata lontana, lungo le coste dell'Anatolia e aveva visto il fiore candido della civiltà persiana, silenziosa, immensa e serena, proprio come gli occhi del principe Argor, figlio di Mircador, generale dell'elite militare degli immortali.
L'amore, lo stesso che trafigge e insanguina il pavimento del tempio della luna, che versa lacrime amare di disperazione e capelli strappati dalle teste delle vedove che piangono in convulsi movimenti del corpo, lo stesso amore crudele dilaniante, ha cucito in silenzio una trama fitta e complessa del segreto sogno di matrimonio tra Sereide e Argor. Non sarebbe bastato scudo e lancia per difenderli dall'ira invincibile dei rispettivi popoli, se avessero scoperto una cosa del genere, ovviamente in nessun posto del mondo sarebbero stati al sicuro dai segugi persiani e dalle infallibili spie dei greci, che bisbigliavano ovunque, in silenzio nell'ombra di luoghi anonimi, li avrebbero scoperti. Ma il loro, sì che era amore, forse il più stupido di tutti, il più irrazionale dei comportamenti di innamorati, ma, il loro era una comunione umana, oltre il confine della sconosciuta barbarie di altri popoli, solo un silenzioso amore.
La vecchia sacerdotessa della luna, sorrise guardando la ragazza scendere dal colle del tempio recandosi speranzosa in riva al lago, di quest'amore non vi è traccia in canti e leggende, forzato dalle potenze celesti una vicenda umana non può far altro che soccombere ed anche questa vicenda umana sarebbe crollata inesorabilmente. Il principe Argor aveva notato Sereide cavalcare un pomeriggio tardo su dei bassi crinali erbosi, sulle isola di Crima, una delle piccole calcaree bianche che cingono l'Anatolia. Indossava vesti bianche e turchesi, la sua pelle ambrata metteva in risalto sulle forme bianche la parte delicata del corpo scoperto, Sereide cavalcava quando s'accorse di essere osservata da un giovane uomo bardato con pelli e corazza pettorale, appoggiato ad una lunga lancia con una piuma rossa al vento. Il muto sguardo, non c'è raziocinio che possa reggere allo sguardo fulmineo di un uomo e una donna, il tempo e lo spazio deflettono le loro leggi a quello degli occhi, a un miglio di distanza, o in un quadro dipinto da secoli, gli occhi si cercano incontrandosi nella comunione dei ricordi. Argor e Sereide scrutavano ognuno nei corpi dell'altro alla ricerca dell'anima. Fermato il cavallo, solo il ronzio di insetti nell'erba alta bisbigliava incomprensibili messaggi e il sole dietro Argor ne raccoglieva la sua figura nel rosso acceso di un tramonto senza pari. Volle il caso che qualcosa disturbò il cavallo marezzato di Sereide, lanciandolo inaspettatamente ad una galoppata sferzante per la giovane ragazza, la furia sembrava non placarsi e Argor scattò immediatamente intuendo il pericolo, lanciandosi a galoppo col suo cavallo dietro Sereide. La raggiunse per un soffio, afferrando le redini del marezzato e bloccandolo a poca distanza da una ripida scarpata che terminava con denti aguzzi di roccia vulcanica. Sereide inebriò il suo respiro con l'odore forte delle pelli e della corazza di Argor e fu proprio in quel momento che ne accolse in se i lineamenti netti e delicati del viso color fumo, tra una capigliatura nero corvino e liscia, non aveva nulla a che fare con i riccioluti e barbuti persiani. Argor era un figlio del vento, che si distingueva in battaglia per la personale e singolare espressione di se stesso. E tantomeno il persiano non poté fare a meno di notare la carezza leggera del mantello turchese sul suo braccio nudo, oli profumi e strane fragranze piacevoli avvolgevano Sereide <<Dovresti fare attenzione al tuo cavallo, a quanto pare è stanco di cavalcare.>> Argor sorrise strizzando un occhio accecato dal tramonto abbagliate, trattenendo con mano ferma il cavallo di Sereide <<Sulle mie terre i cavalli sono liberi di andare dove vogliono e di portare chi vogliono, non ho mai avuto timore del temperamento di Itios.>> accarezzava il cavallo senza guardare Argor negli occhi, ma in cuor suo sentiva la sensazione della quiete e della serenità interrotta a tratti dall'ebrezza veloce del più recondito istinto passionale.
<<Beh se queste allora sono le tue terre, io sono un invasore, a considerare dalle tue vesti ioniche, sei greca, anzi credo te tu sia macedone da come parli.>>
<<Le mie terre, hai detto la cosa giusta ed è vero anche che sono macedone, tu invece sei il mio salvatore e d'altronde nemico persiano.>>
<<Argor, per te sono solo Argor, sì principe persiano, ma non voglio esserti nemico.>>
<<Voglio fidarmi della tua parola principe Argor e del resto hai il dovere di accompagnare la principessa Sereide al porto dell'isola, visto che appresta ad imbrunire.>>
Risero insieme e si avviarono costeggiando la scogliera di ponente, lontano all'orizzonte c'erano le coste greche, il sole le illuminava da dietro con i suoi ultimi raggi, il villaggio dei pescatori costellato di piccole e bianche casette, iniziava ad accendere i fuochi serali e le lucerne, tre navi greche erano ancorate in porto e la brezza morente del maestrale disegnava chiazze crespe sulla superficie liscia del mare. Sereie e Argor parlarono ben poco, non c'era il confine, la diversità, la lingua, la cultura, gli antenati a dividerli, solo un ultimo sole che li illuminava, esponendoli ad occhi indiscreti.
Accadde che le questioni politiche non sempre sposano la ragione dei sentimenti, la bella isola di Crima venne attaccata dall'esercito persiano e la piccola cittadina colonica rasa al suolo, rappresaglia giustificata dal fatto che i greci attaccarono un villaggio in riva all'estuario del fiume Arcadios, roccaforte dello sconfinato impero persiano. Dopo cruente battaglie, toccate e fuga tra manipoli di uomini ed eroi solitari, Argor scomparve dalle linee dei soldati. Omicidi, stupri, rapine e torture, la sua giornata iniziava col sangue e finiva col sangue, ma la notte al calare delle palpebre, Sereide, bellissima, seduta in un campo di grano tra veli cremisi accarezzati dal vento. Non ci volle molto per convincere Argor a partire nel cuore della notte, trafelato, senza armatura vestito alla meglio come un pastore, con se portò la sua formidabile spada, un pugnale e delle provviste. Non volle sapere nulla di suo padre ubriaco e folle, della sua gente, del suo impero, voleva invece conoscere a fondo l'amore. Lo stesso che lo ha folgorato quel giorno sul crinale erboso di Crima, e gli occhi di lei profondi e limpidi, no, non sanno le malefatte di una guerra lontana in nome di un bene supremo intangibile, che qualcuno chiama volontà di Dio. Conservava un pezzo di stoffa lilla avvolto intorno ad una ciocca di capelli castani, legati da un nastrino bianco intrecciato, unico ricordo di Sereide.
<<Mi dispiace Sereide, ma…non posso disonorare gli dei, il popolo e mio padre. Da persiano odio quello che voi greci avete fatto, ma…come tuo servitore del cuore mi rammarica doverti lasciare e lasciare questo posto magnifico tra le alture di casa tua.>>
<<Tieni, ricordati Argor che io sarò qui ad aspettarti, e questa ciocca di capelli ti farà capire che io ci sono sempre, sono vera e viva e ti aspetto, capisci Argor? Io ti aspetterò.>> Cinque anni, cinque lunghi anni lontano da queste ultime parole di Sereide, lui la immaginava seduta sul muretto tra le due colonne rovinate da malva selvatica, sulla sommità di una piccola collina a un centinaio di passi da casa sua, la immagina guardare lontano oltre la leggera bruma del mattino all'orizzonte, tra le pianure che terminavano sotto le alture del monte Olimpo. Una sola settimana di viaggio e sarebbe ritornato per sempre da lei, da disertore, da vigliacco ma innamorato, devoto e affrancato della pienezza delle parole di Sereide.


Il voto alla luna
<<Oh luna, fa che il mio Argor ritorni indenne da me, tu che guardi con occhio lucente nella notte e squarci le tenebre del cuore degli uomini. Tu luna, portami lontano con i tuoi occhi, mostrami Argor, è l'amore che ci lega.>> Così dicendo la sacerdotessa della luna, avvolta perennemente nel suo delicato velo di lino bianco e dal volto coperto, agitò le acque della vasca circolare al centro del tempio, proprio l'acqua in cui Sereide aveva parlato invocando l'aiuto della luna. Quando le acque si calmarono apparve l'immagine di Fiamme e persone in preda al terrore, soldati, cavalli e spade. Il suo Argor guidava uomini all'attacco, trucidando file di soldati greci. Sereide si coprì il volto piangendo, la sacerdotessa immobile sentenziò <<L'amore è la causa della sofferenza di tanti esseri umani e tu ragazza mia sei già caduta in disgrazia dalla morte di tuo padre in battaglia, trucidato dallo stesso uomo che ami e la tua gente implora la pietà degli dei, mentre un mostruoso ed oscuro imperatore avanza a grandi balzi verso di noi.>> Infatti la sventura era piombata nella vita di Sereide, scoperta la clandestina relazione con un principe persiano suo padre la allontanò dalla vita di corte, confinandola al tempio della luna, in affidamento alle vergini. Raramente vedeva la sacerdotessa, ma quando ne parlava con le altre ragazze, queste la descrivevano diversamente da lei <<Ma no Sereide, come fa ad essere una donna giovane, è gobba e le sue vesti sono quasi consunte dal tempo, credo che non abbia poi tanti abiti a disposizione.>> Lei non capiva, chi era allora che la notte la istruiva sul cielo e le mostrava il suo uomo? Non aveva comunque importanza, lei voleva solo Argor e scappare via da una terra ormai avversa, lontano dalla guerra e dall'orrore degli uomini.
Come l'ultima immagine apparse nell'acqua, così apparve Argor un giorno nel villaggio di Gamiante, aveva raccolto le informazioni e la storia sulla sventura della principessa Sereide e la morte di suo padre, lui lo aveva ucciso nel furore della battaglia, senza prestare attenzione agli occhi di quell'uomo in pensiero per sua figlia e speranzoso di un ritorno a casa. Doveva dire tutto a Sereide e dopo la passione commossa del ritorno e del ricongiungimento, Argor raccontò della guerra e della morte di suo padre <<Lo so Argor, so tutto, ho visto con gli occhi della luna, non è stata colpa tua, amo mio padre come amo la mia terra, ma quello che fa di me un essere umano non è il pensiero che occupa la testa di altre persone. Io credo in noi, nel nostro futuro e nella nostra vita.>> Commosso dalle parole sagge e amorevoli di Sereide, Argor l'abbraccio piangendo e sotto le stelle consacrarono il loro amore avvolti nelle lenzuola della notte.
La vita breve della felicità fa capire agli esseri umani di quanto sia ancor più breve e mortale la stessa esistenza. Sereide venne promessa in sposa da un suo parente e rettore, ad un giovane principe di Sparta, un temerario condottiero di battaglia, ricoperto di cicatrici sul corpo, ma non certamente indegno dell'autorevole maestosità di portamento. L'autoritario Artikos esigeva da Sereide la totale sottomissione di donna, in quanto futura sposa. <<Mi ucciderà Argor, non capisci e ucciderà anche te! Io lo so tenere a bada, ma non voglio che ti faccia del male, ti raggiungerebbe in capo al mondo.>>
Argor strinse i pugni, non riusciva a capire, la rabbia e il tradimento lo trafissero più del metallo pungente di mille lance <<Tu avevi promesso di essermi a fianco, di passare tutta la vita insieme e invece, sei stata promessa in sposa e tu, non hai detto nulla per impedire che ciò accadesse. Scappiamo ora Sereide…ora via lontano, nel cuore del'Europa.>> Ormai farneticava, mischiava repentinamente, il disprezzo alla voglia di evadere per sempre con Sereide, follia pura. Sereide convenne a nozze due giorni dopo, lei era morta, affranta dal dolore e dal dilaniato amore, dal fendente inferto da Artikos al suo cuore e dalle percosse all'anima con le parole di Argor. Fuggì di notte, mentre suo marito dormiva profondamente, prese un cavallo di soppiatto e cavalcò veloce verso la collina del tempio, seminava lacrime al vento durante il tragitto, avrebbe pregato la dea Luna, perché tutto fosse stato messo a posto, voleva divenire invisibile e apparire ad Argor nei suoi sogni e stringerlo forte a se, sì avrebbe chiesto che il suo unico amore fosse tornato da lei.
<<Oh madre abbracciami ti prego! Stringi forte che ho tanto freddo madre mia!>> Sereide abbraccio forte il bacino poggiando il viso sul ventre della sacerdotessa della luna piangendo a dirotto <<Voglio morire, ho tradito Argor con quell'uomo, ho ceduto alla tentazione di una vita sicura e protetta, ho avuto paura di una vita da fuggiasca con l'uomo che amo, e non posso avere figli madre mia.>> La donna le accarezzo il capo <<Cosa chiedi piccola Sereide?>>
<<Voglio che Argor si leghi di nuovo a me, voglio avere dei figli da lui, voglio solo lui.>>
Dall'amore, all'odio, dall'odio alla follia e poi la superbia, ecco la superba richiesta umana "a tutti i costi fa che torni da me" quante volte la luna aveva concesso la grazia con prevedibili conseguenze umane, omicidio, violenza, gelosia erano tutte sfumature dello stesso colore della passione. Infondo come dire di no ad un essere umano, nella pietà del momento di massima devozione al cielo, divengono così devoti ed austeri, proiettati totalmente nel centro del pensiero spirituale che li congiunge con i loro creatori. <<Una sola condizione figlia mia, in cambio voglio che il tuo primo figlio venga a stare con me.>> Sereide alzò incredula lo sguardo e guadò il velo coprente il viso della sacerdotessa, cercava di scorgere lo sguardo voleva vedere il volto di quella donna che cinicamente stava chiedendo il tributo più alto, donare un figlio e rinchiuderlo alla clausura di un tempio. Non avrebbe avuto neanche il tempo di allattarlo e crescerlo quanto basta, perché questo sarebbe stato prelevato dalle vergini del tempio. Sereide chinò lo sguardo e guardò a terra, sospirò e mise il cuore in pace. Scesa dal tempio montò in sella al suo cavallo e galoppò nella notte mentre la luna maestosa s'ergeva dalle montagne lontane, travolgendo immediatamente le pianure sottostanti con la sua luce argentea. Guardava lontano davanti a se e giunse ad un piccolo specchio d'acqua, dove usava rifugiarsi da bambina quando scappava di casa, si sedette sul prato e guardava le foglie leggermente adagiate sull'acqua, pensava alle criptiche parole della sacerdotessa e alla richiesta meschina. Oro terre, ricchezze qualsiasi cosa, lei avrebbe fatto di tutto per ricoprirla di bene e invece le ha chiesto il bene più prezioso. Sentì dei passi sull'erba e si voltò di scatto posando rapidamente la mano sul pugnale in vita <<Chi…chi sei?>> disse alzandosi all'impiedi ed estraendo il pugnale <<Guarda che non scherzo, mio padre mi ha insegnato bene ad usare la lama.>> La figura avvolta dall'ombra procedette veloce verso di lei e all'improvviso senti un tuffo al cuore, credendo che sarebbe stata aggredita da uno sconosciuto. Non ci pensò due volte, afferrò saldo il pugnale e iniziò a correre spedita contro il suo aggressore, questo si fermò di scatto lasciando che Sereide vibrasse il fendente, improvvisamente il braccio delicato della ragazza fu stretto nella mano forte dell'uomo misterioso, lei si ritrovò ben presta prigioniera di quella statua immobile <<Lasciami! Ti ho detto lasciami!>> Poi, diradatosi le nuvole, un raggio di luna investi in pieno il viso del misterioso uomo, era Argor che la guardava commosso <<Vuoi che io muoia? Davvero desideri che io muoia amore mio?>> Sereide sgomenta lasciò cadere il pugnale dalla mano destra e i suoi occhi si ricoprirono di lacrime, si abbracciarono baciandosi in preda ad una convulsa passione, era finita, l'amore alla fine aveva trionfato.

Sacrificio
Era di maggio, nella tiepida primavera macedone, le pianure si riempirono di semi e pollini sparsi al vento, mentre gli aratri dei contadini disegnavano le geometriche delle nuove arature dell'estate. Sereide accarezzava la sua grande pancia protesa in avanti e sorrideva, vivevano isolati dalle città, ma d'altronde era un vita serena e piacevole, Argor pascolava bestiame, coltivava e batteva il ferro, Sereide curava un bellissimo roseto e le aiuole intorno la loro casa, un antico bastione ristrutturato nel tempo adattandolo alle loro esigenze. Artikos furioso dell'abbandono del tetto coniugale, confiscò tutte le terre della moglie fuggiasca, unica erede. Li cercò in lungo e in largo ma Argor si pavoneggiava per la sua destrezza alla fuga, quando poi Sereide sapeva che era la dea Luna a nasconderli al furioso spartano. Quella notte di maggio iniziarono le doglie, il tanto atteso nascituro, quante volte coccolato tra vezzeggiamenti e sorrisi alla luce di un focolare. Argor lasciò la sua donna e cavalcò veloce dalla levatrice che viveva in un piccolo villaggio a poco tempo di cavallo. La donna quando giunse da Sereide, l'aiutò facilmente a partorire, ma restò sgomenta da quello che vide. Certo due braccia e due gambe, una bella bambina, ogni cosa al suo posto, ma aveva la pelle bianca come il latte e anche i capelli e la peluria del corpo era bianca, e incastonati nel viso c'erano due occhi color cobalto, profondi e bellissimi che scrutavano sua madre. <<Mia signora…devi nascondere questa bambina, il tuo uomo…>>
<<No, il mio uomo capirà.>> Dopo che si riprese, Sereide la levatrice fu congedata e nella tenda entrò Argor sorridente. Prese il fagotto dalle mani di Sereide e uscì fuori alzandolo al cielo sereno, la bimba piangeva a squarciagola, ma quando la scoprì per guardarla meglio, vide il colore della sua pelle, allora si avvicinò ad una lucerna, sì, bianca come la luna, una figlia pallida nata da un padre nero come il fumo. Lui un persiano discendente delle popolazioni nomadi degli altipiani, che avevano lineamenti si delicati ma la pelle era scura come la cenere, i capelli nero corvino e i loro occhi erano come dipinti con un carboncino carico. Argor guardò la bimba e poi Sereide che aspettava il suo consenso <<Beh…è bellissima…questa è mia figlia…>> Consegno la bimba nelle mani della sua donna e con un timido sorriso uscì fuori dalla tenda.
Il Persiano folle di dolore, fu colpito proprio al centro del suo onore, tradito, quello non era frutto della sua carne. <<Lo spartano, Artikos, è figlio suo.>> disse a voce alta, cercò di trattenersi, strinse i pugni e respirò a fondo, nulla, sentiva la violenza bestiale ribollire nel suo sangue. Lei lo aveva mentito, era ritornato da lui, invocando il perdono con la storia della fuga dal marito, Sereide aveva trovato l'oasi protettiva di Argor, solo perché non aveva mai alzato la voce contro di lei e tantomeno le aveva mai chiesto qualcosa per lui. <<Dopo tutto questo tempo…quella bambina…non è mia figlia.>>
Quella notte Argor dormì nella stalla su un giaciglio di paglia, la piccola bimba Esperia dormiva serene tra le braccia di sua madre, mentre Sereide aveva paura, di quello che ora sarebbe accaduto, quell'esserino era un fiocco di neve, in tuta la Grecia non erano mai nati bambini così e ovviamente temeva la reazione di Argor, che era sì il suo uomo, ma anche padre e ovviamente, quello non era il tipo di bambino che si aspettava che nascesse. Argor udì dei passi fuori la stalla, si alzò di scatto, ma rimase paralizzato quando vide la figura candida velata alla luce della luna, la sacerdotessa del monte era lì, come li aveva trovati non si sa <<Tranquillo Argor, sono qui per omaggiare tua figlia bianca come il latte.>>
<<Tu..che ne sai! Sei solo la serva di una statua!>> Argor raccolse tutta la sua rabbia, era stanco di divinità, incantesimi e profezie ed ora la sacerdotessa della luna era lì davanti a lui incurante delle sue azioni <<A quanto pare gli dei non ti sono stati propizi, dopo tanta fedeltà, dopo tanto amore e devozione nei confronti di Sereide, dopo che hai commesso atti impronunciabili e percorsi migliaia di miglia per tornare da lei, cogli il frutto di un tradimento…spartano.>> Argor odiava la gente di sparta, poderoso esercito davvero, ma brutali assassini che non conoscevano altro che guerra, anche nelle loro case erano bestie schiaviste, non conoscevano onore se non quello per la lancia. <<Chi dice che lui non è mio figlio?>>
<<Lo dicono i suoi occhi giovane persiano, anche suo padre è un albino, comanda una delle falangi spartane, e poi il blu degli occhi appartengono a Sereide.>> Udite le ultime parole dalla sacerdotessa Argor scappo via correndo lungo il sentiero e fu allora che la donna velata entro nella tenda dove Sereide e la piccola Esperia stavano lì accucciate nel tepore familiare <<Mia signora….>> Sereide sapeva il perché della visita della donna, ella s'inginocchiò e sfiorò delicatamente con un dito il viso placido della dormiente <<E' una bella bimba figlia mia, bianca come il viso della luna e incantata dalla serena saggezza della vergine.>> La madre iniziò a piangere, doveva dire addio a sua figlia, sapeva che l'amore di Argor le sarebbe costato caro e ora oltre a sua figlia stava per perdere tutta l'esistenza. <<Tu hai partorito Esperia la vergine, benedetta dalla dea Luna, maledetta da chi ti ama, inseguita da chi ti odia. Sereide, il momento in cui mi hai chiesto un sacrificio d'amore, ho capito subito che il tuo cuore era ormai colmo di passione, mentre il semplice e sconfinato amore universale era già stato scacciato via dalla tua vita, ora, come hai vissuto il turbinio della passionale vita, vivi anche il resto che il destino ti ha preposto. Mi dispiace figlia mia, ma la vita degli uomini è imperfetta, il giorno in cui capirete come discernere l'amore dalla passione che vi consuma col suo ardere, gli dei scenderanno sulla terra, donandovi il segreto dell'universo.>> Sereide rimase a guardare immobile, mentre la donna velata si allontanava da lei con in braccio la bambina, finche scomparve dietro la tenda.
Argor sentì in se crescere l'esplosiva rabbia, le lingue di fuoco del passionale e insano gesto che si apprestava a compiere, lo avviluppavano facendolo fremere in un orgasmico atto impulsivo. Tornato a casa, afferrò la lama del pugnale in vita e guardò Sereide negli occhi, piangevano entrambi, s'accorse che la figlia non c'era più, nella sua testa le parole della sacerdotessa "..figlia di uno spartano.." incurante della follia omicida impossessatosi di lui, afferrò Sereide per la vita e affondò la lama fino all'elsa. Sentì il corpo accasciarsi senza un gemito sulla sua spalla sinistra, lui la adagiò dolcemente a terra e ne baciò li occhi inespressivi. Sereide era morta, il ventre suo ancora rigonfio dal parto aveva ospitato per tanto tempo il frutto del loro amore, non avrebbe mai immaginato che quel frutto non gli apparteneva. D'un tratto il velo ottuso dell'odio svanì davanti i suoi occhi e lì, in quel momento si accorse di quello che aveva fatto, aveva ucciso la sua donna amata, per sempre. Non poté far altro che lacerarsi il cuore col dolore, la prese tra le braccia e uscì fuori dalla tenda, alzò gli occhi al cielo e guardò la luna <<Perché…perché maledetta luna! Cosa abbiamo mai fatto di male?>> Cadde in ginocchio col corpo esangue di Sereide, la sua pelle stava diventando pallida come quella della luna, i riccioli castani si disposero lungo la linea del viso delicato, le labbra un tempo rosse divennero pallide e fredde. Argor vide che dalla strada sterrata che si arrampica in collina, avanzava una colonna di cavalieri armati di torcia, lui già sapeva il destino che gli aspettava.
Artikos giunse matido di sudore, cinto di corazza e sporco di terra, la rabbia e la meraviglia del viso erano illuminate dalla torcia, vide seduto a terra, nel cortile dell'isolata casa, Argor che accarezzava dolcemente Sereide. Gli spartani si raggrupparono famelici e silenziosi intorno a loro e Artikos si fece spazio tra la folla giungendo davanti alla scena. Vide sua moglie col ventre macchiato di sangue caldo e quell'uomo impassibile alla sua presenza, del tutto dedicato ad accarezzare i capelli e il viso di Sereide <<Sei tu Argor figlio di Mircador principe persiano?>>
<<Sì sono io e questa è Sereide la donna della mia anima, ora fa presto.>> Gli uomini incitarono il guerriero a decapitarlo, ma lui rimase impassibile e dopo molti minuti di silenzio sfilò il pugnale e lo porse ad Argor. Diede segnale ai suoi uomini di montare a cavallo e ripartirono giù a valle. Argor guardava il bronzo scintillante alla luna <<Questo è il prezzo da pagare sulla terra, per vivere a pieno una vita ecco cosa bisogna fare, nessuno ce lo dice alla nascita, almeno sussurrarcelo alle orecchie, no. Vivere, amare e morire, di queste tre massime non so quale sia meno crudele. Arrivo Sereide.>> Pose la punta dell'affilato pugnale lavorato sullo sterno e con forza si trafisse sbarrando incredulo gli occhi, guardò per l'ultima volta la donna greca, che un giorno sull'isola di Crima lo fece innamorare, inebriandolo con profumi di fori selvatici e oli delicati. Chiuse gli occhi anche lui, il silenzio ne era testimone.

Figlia della luna
I passi leggeri della donna velata salivano sul monte, la piccola Esperia dormiva serena tra il morbido lino della sacerdotessa che scoprì il volto e alzò gli occhi alla luna. Giunse al tempio e posò la piccola tra vesti calde sull'altare cerimoniale, l'accarezzò un ultima volta sorridendo e baciandola sulla fronte, poi, le sue mani che accarezzavano il piccolo viso divennero trasparenti e scomparve a poco a poco raccolta da un raggio di luna.

Ancora oggi narra la leggenda, di una donna che pregò la luna, e la luna scese dal cielo per cullare sua figlia nato dal ventre umano, e generato dal vento divino, per divenire poi figlia della luna.

Le ali di un angelo
Nella guerra dei cieli, un terzo delle legioni celesti furono precipitate sulla terra. Coloro che si allontanarono perdutamente dalla grazia di Dio, furono chiamati Caduti. Ed ora vagano sulla Terra, dannati dalla notte dei tempi, alcuni sprofondarono nelle ferite del mondo, attraverso gli oceani, fino al centro fuso. Coloro che furono presi dal rimorso del gesto ripararono tra i monti ghiacciati, per nascondersi all'occhio di Dio. Ma solo pochi di loro, decisero di vagare sulla Terra, ed essere perseguitati dall'occhio vigile del cielo, per intere Ere hanno viaggiato da un continente all'altro, tra i popoli, mischiandosi tra la gente. In questi caduti la voglia di redimersi era sempre forte e viva, nascosero fin dall'inizio le loro ali per non mostrarle agli uomini. Poi, per la misericordia della luce, nei confronti dei suoi figli, venne stretto un giuramento con gli Arcangeli, la redenzione in cambio della rettitudine degli uomini. I caduti avrebbero fatto da sentinelle agli esseri umani, in lotta perenne con i loro fratelli dannati e nascosti infondo al baratro. Questa è la storia di un angelo caduto, di una sentinella che da tempo immemore vaga sulla Terra buia, in cerca della luce, che redimerà la sua anima.

La rinascita
<<Cosa cerchi?>> disse l'uomo all'angolo della strada, da come appariva poteva passare per un povero diseredato, ma anche lui aveva la sua fetta di potere nel quartiere. <<Dammi un pò di roba.>> Joey afferrò la piccola bustina dalle mani sporche dello spacciatore, il rapido scambio dei soldi e si avviò lungo la strada dagli angoli fumanti. La tristezza che rifletteva sulle pareti appena illuminate, da fiochi lampioni di periferia. Sentiva il gelo dell'inverno sul viso, le nocche delle mani bruciate dal freddo pungente, in quel tempo infausto la sua figura, nonostante la tristezza e la pesantezza della vita, andava lentamente a casa.
"Che stanchezza", ripeteva tra se, una giornata passata da un palazzo abbandonato all'altro alla ricerca di una dose, un pezzo di pane, un disegno sul muro. La sua vita passava in continuazione da un evento all'altro della storia umana, che poteva fare la sua serenità quanto il suo dolore. Toccava stavolta al lento declino in un baratro profondo, che le impedì di ricordare la sua vera essenza, infatti lei non era umana. Aprì la porta sprangata di quella che si può chiamare casa, vuota, una branda, qualche mobile e tanta solitudine. La cosa più bella della casa di Joey era l'ampia finestra che le permetteva di vedere un cielo limpido, e quando pioveva, sembrava quasi che i grattacieli potessero fendere il cielo greve con le loro antenne.
Era una nomade, insieme a migliaia di nomadi sparsi per il mondo, per anni interi avevano percorso le strade lunghe che si perdevano all'orizzonte. Joey aveva deciso di sistemarsi in città, lontano dal silenzio delle strade anonime, sentiva che era la fine del suo viaggio.
<<Buon compleanno Joey, nessuna torta per te oggi?>> Disse quell'uomo dal viso pulito, dai dolci lineamenti, fluenti capelli castani, e dagl'occhi del blu eterno. Passeggiava sul parapetto dell'alta palazzina mantenendo l'equilibro a braccia aperte, Joey saliva lì a volte per guardare tutta la città e le colline lontano.
<<Ringrazia che non ti butti di sotto, lasciami stare almeno oggi, vattene via.>> disse lei raggomitolata sul muretto sfidando il vuoto.
<<Andarmene via? Lo farei volentieri, la forma umana è troppo pesante e goffa, guardali, creati a sua immagine e somiglianza e sono così impacciati, magri, grassi. Sporcano la loro pelle con marchi per animali, indossano oggetti assurdi all'inverosimile. Che assurdità tutto questo, infondo li voglio bene.>>
<<Bene, quando pronunci quella parola sei sempre così magnanimo, quasi facessi una carezza al cane appena bastonato, certo che secoli tra di loro mi hanno fatto capire la vera natura di quelli come te.>>
<<Ah, ah, attenta a come parli caduto, devo ricordarti ogni volta quel che sei, perché fai così con me? Guardami negl'occhi quando parlo, ti prego.>> Joey aveva un viso anch'esso dolce, ma solcato dalla vita terrena degli umani, a differenza dell'uomo che aveva di fronte, lei poteva esprimere sul viso le sensazioni, in quanto le provava. Questo contribuiva a deturpare col tempo l'espressione pura dell'inizio dei tempi.
<<Di tutti gli arcangeli, proprio in grande Michele doveva capitarmi.>> Disse guardando fissa in avanti cercando di non calcolare lo sguardo penetrante dell'angelo <<Proprio te che ci hai preso uno ad uno, sei venuto a prendere anche me, devo chinarmi e mostrarti il collo?>>
<<Hey ma quanta rabbia abbiamo oggi, comunque i tuoi fratelli hanno fatto una scelta, non hanno tenuto fede al giuramento.>> Michele si avvicino a Joey l'afferrò per le
braccia e la voltò verso di lui <<Guardati, guardati come ti
sei ridotta, le tenebre scorrono in te, di tutti i caduti te sei quella che ha la possibilità di farcela, la prima tra tanti altri, ma capisci che sei l'unica Joey?>> Joey la guardava con aria attonita, come se dalla sua bocca uscissero solo suoni incomprensibili, mentre si perdeva negl'occhi profondi e vasti di Michele.
<<Lasciami Michele, non ce la faccio io, non doveva essere così.>> Pianse, gli occhi gonfi di lacrime e la vergogna nei suoi confronti, Joey non riusciva a vincere il suo rimorso. Michele la guardò con uno sguardo compassionevole, lasciò le sue braccia e s'allontanò da lei.
<<Non posso obbligarti a scegliere, ma sappi che sceglierò io per te.>> L'arcangelo scomparve nell'ombra della sera e Joey scoppiò in lacrime. Non sapeva cosa fare, tanti pensieri s'affollavano nella sua mente insieme ai ricordi di migliaia di anni insieme agli uomini. Interi periodi dedicati a singole persone, quante vite salvate, quanti omicidi scongiurati solo con la parola e con la compassione. Ora era stanca, quanti altri compiti, quante altre gesta, o quante persone ancora doveva salvare? La vita umana era difficile, dopo tanto vagare ancora non riusciva a capirla, anche se ne apprezzava le sue sfumature, quelle più belle. Un essere umano a differenza di un angelo può scegliere, se salvare la sua scintilla o dannarla per sempre. Così almeno hanno creduto per tutto questo tempo, sempre alla ricerca del loro creatore ricercandolo nei templi, sempre alle prese con l'interrogativo della creazione e della loro presenza al mondo, gli uomini sono alla costante ricerca dell'equilibrio del corpo e dell'anima. Joey invece lo sapeva benissimo,
aveva vissuto l'appagamento eterno, l'equilibrio dell'intero universo espresso in nella singola scintilla e condivisa col l'oceano di anime. L'umanità cercava Dio nei templi, costruendoli più alti possibili da sfiorare il cielo, ma i suoi messaggeri già camminavano sulla terra.
Decise quella notte di non tornare a casa, ma di girare per le strade, le parole di Michele risuonavano nella testa, era finita anche per lei, non c'era scampo, come poteva una razza così imperfetta non poter essere governata con la forza, i caduti avrebbero potuto usare la loro forza attingendola dalla luce per rettificare gli uomini. Forse Dio non era così saggio come molti uomini credevano, oppure era solo lei ad essere annebbiata dall'orgoglio più basso, nato dal seme della paura e cresciuto innaffiato dall'acqua dell'ignoranza, sapeva bene che fine avevano fatto i suoi fratelli ribelli. Ecco, dopo lo slancio iniziale e dopo aver visto insieme alle schiere dei caduti convertiti, il patto siglato dagli Arcangeli, ora stava scivolando tutto nel dimenticatoio. Il giorno dell'alleanza, non quella narrata tra Dio e l'uomo dopo il diluvio, ma quella ancestrale, quando l'umanità era appena che neonata. Erano giorni di speranza, mentre la Terra tornava a germogliare di nuovo dopo la guerra dei cieli e la perversione dei più ostici ribelli sprofondava nelle profondità bollenti della terra. Un giorno di luce dopo la guerra infinita, doveva essere il primo di una nuova era, a caso era stato scelto quel pianeta, come accade ad alcuni luoghi anonimi che all'improvviso prendono valore a causa di una poderosa battaglia. Gli uomini non avrebbero conosciuto il male se il loro pianeta non fosse divenuto teatro di guerra. Era dovere quindi degli
Arcangeli rimediare alla devastazione, l'alleanza poneva una via d'uscita per i caduti pentiti e per gli uomini sedotti dal male.
I ricordi quella sera si perdevano nelle pozzanghere ai margini della strada, tra i rumori delle auto, tra la vita grigia e l'esplosione di colori. Tra il miserabile, il conquistatore, il confessore, il ladro e l'uomo mite c'è un filo conduttore, e lei doveva scoprirlo, altrimenti il paradiso come lo ricordava, sarebbe divenuto così lontano che a confronto l'angelo Lucifero lo avrebbe ricordato con un pensiero ben più vivido. Prese l'autobus dalla periferia, adorava fare il lungo giro sulla linea nove, per l'intero perimetro esterno cittadino, dal finestrino guardava la sua vita terrena scorrere, leggeva le anime degli uomini seduti accanto a lei era possibile scorgere la grigia malinconia quotidiana di un'esistenza sofferta. Quando capitava che tipi loschi e poco rassicuranti si presentavano a bordo nel giro notturno, lei non faceva altro che svanire, guardo con invisibile sguardo il baratro profondo al posto del loro cuore. Non ce la faceva più, non riusciva più a guarire nessuno, aveva fallito la sua missione di caduto, l'umanità era cresciuta, moltiplicatasi su una terra un tempo florida, e viveva continuamente sull'orlo della barbarie.
Joey tutto s'aspettava in quel momento, meno che sentire la forte sensazione, perduta da molto tempo, l'impulso vibrante attraversargli il cervello, bruciando con onda di luce ogni pensiero e imponendole l'attenzione della sua essenza divina, su quello che stava accadendo. Era una richiesta d'aiuto. Fu assalita dalla sorpresa, dalla paura, non sapeva quasi come agire, fu talmente presa dalla vibrazione che gli occhi divennero neri, senza iride, segno dello stato di trance e del collegamento diretto con la fonte di luce. Tra lo stridore dei freni dell'autobus alla fermata di percorso, Joey si riprese, fiondandosi rapidamente giù dal mezzo poggiandosi al muro di fronte. <<Non è possibile….da quanto tempo…>> Ripeteva a bassa voce fissando l'asfalto, non se lo fece ripetere due volte, un altro acume d'energia le trafisse il cuore, qualcuno era davvero in pericolo, qualcuno invocava l'aiuto di un angelo. S'infilò tra alcuni vicoli bui di un complesso di edifici, era la periferia e dopo qualche minuto la strada diede spazio a viali sterrati, in lontananza l'autostrada veloce. Tra la vegetazione rada e incolta, in mezzo ad un gruppo di alberi sistemati in cerchio, alcune ombre si agitavano. Joey corse col fiato in gola, sentiva dopo anni l'aurea delle sue ali dispiegarsi dietro le spalle e divenire immense esprimendo la loro grandezza, sentiva pulsare in lei un'energia assopita, strano, avveniva tutto così rapidamente all'improvviso. Sentì odio, paura e delirio vorticare tra gli alberi, una scena delittuosa era pronta a per consumarsi, arrivata ad una decina di metri dalla scena, vide le ombre scure voltarsi di scatto verso di lei e sgattaiolare oltre gli arbusti, svanendo misteriosamente nella notte. Si avvicinò con passo deciso e svelto tra gli alberi scarsamente illuminati dalla luce fioca della periferia, c'era una ragazza, accucciata a terra stringendosi le gambe e la bocca sanguinante. Joey s'avvicinò lentamente a quel corpo indifeso e rannicchiato, s'inginocchiò e racchiuse se stessa e la vittima trovata, in un guscio protettivo delle sue invisibili ali.
<<Hey…sta tranquilla, andrà tutto bene.>> Joey le mise la mano sulla fronte e con l'altra la sollevo da terra, leggera e fredda, ricoperta di terriccio ed erba, sentiva mugolare sotto i capelli arruffati sul volto, molti dei quali raccolti in grosse ciocche miste a sangue. Una giovane ragazza di circa vent'anni, il suo maglioncino beige strappato ed un paio di jeans slacciati appena, i suoi aggressori non avevano fatto in tempo a consumare la scelleratezza. Joey teneva tra le sue braccia caritatevoli l'essere umano, ricordando subito la sua vera natura, il suo corpo era solo un guscio che a stento, tratteneva l'immensa energia divina. Mentre cullava istintivamente la povera anima, si sentiva viva, anche se era un caduto, un dannato del paradiso che per scelta aveva desiderato l'esilio e la tortura della vergogna eterna al cospetto di Dio, lei si sentiva felice e viva. Assorbiva il dolore terreno e donava amore, come in un indissolubile connubio o quanto meglio, una perfetta osmosi.
<<Chi sei?>> disse la ragazza guardandola allibita e dall'espressione pietosa allo stesso momento <<Grazie comunque, ho pensato di morire per sempre…mio Dio ti ringrazio.>>
<<Non sono Dio, infatti lui manda i suoi angeli, non sopporteresti la sua luce>> rispose Joey accarezzandola.
<<Cosa…>> cercò di ribattere la ragazza, ma fu subito interrotta dal suo soccorritore <<Ti porto al sicuro, sento il buio scorrere in te.>> Joey prese in braccio la ragazza, e senza sapere chi fosse, la portò via con se, ovunque, ma tranne che in quel posto.
Aveva la vista debole, solo ombre opache davanti a lei, Joey non era piena delle sue forze, aveva consumato buona parte della sua forza vitale per sciogliere il veleno nel
sangue di quella povera ragazza. Dormiva su un materasso consunto vicino al muro, in quella che un tempo era stata una grande cattedrale. La guardava e sembrava quasi di vivere in un sogno, "perché non l'ho portata in ospedale? Perche non ho chiamato un soccorso…qualcuno, la polizia? Perché proprio in questo posto adesso?" Domande senza risposta la tormentavano, infondo aveva agito solo d'istinto, anche se il suo corpo materiale era rimasto giovane, sentiva dentro di se il peso dell'eterna vita di punizione. Una volta Michele giocando a scacchi con lei e indecisa sulla mossa da compiere, le disse che poteva aspettare senza fretta, fino alla fine delle stelle. Joey la prese come una battuta, ma infondo era la pura verità, le fece ricordare di quanto eterna fosse la vita degl'angeli, di quanto eterna era la sua agonia, in un mondo difficile. Davvero, la vita umana è una cosa assurda, fatta di atti orrendi e impronunciabili, ma anche di un tale amore sconfinato e proprio loro, anime perfette, non potevano far altro che invidiare agli uomini.
Sentì un gemito, ecco, era la ragazza che si stata svegliando, l'aveva avvolta in alcune coperte calde. Joey si avvicinò accarezzandole il viso come una mamma farebbe a suo figlio <<Tranquilla, qui sei al sicuro, io mi chiamo Joey, non devi aver paura.>>
<<Io…io mi chiamo Aisha, dove mi hai portata? Che posto è questo?>> disse Aisha guardandosi intorno.
<<E' una vecchia chiesa abbandonata, certo forse t'immaginavi un ospedale, ma hai bisogno di un altro tipo di aiuto, non di cure mediche.>> Joey s'appollaiò come un uccello su una panca, con il viso poggiato sulle nocche delle mani, e fissava Aisha. Sentite queste parole Aisha tolse le coperte da dosso e si mise seduta sul giaciglio fissando il vuoto <<Non capisco cosa intendi dire...>>
<<Intendo dire che c'è buio in te, troppo buio, diverso da quello degli uomini. Non sei quello che vorresti essere, vero Aisha?>> La ragazza fissava ancora il vuoto, Joey poté osservare sulla sua tempia un rivolo di sudore, anche se faceva abbastanza freddo. L'aria sembrò quasi congelarsi, il silenzio strinse con le sue catene le due persone e le statue immobili da anni, non facevano altro che rendere ancora più surreale quella scena. Joey sentì dentro di se la paura crescere, in Aisha un'ombra nera si stava muovendo era pronta ad esplodere verso di lei e tutto intorno.
Aisha dall'espressione seria e attonita passò immediatamente a quella sadica con un ghigno tagliente, irreale per chiunque potesse osservarla. Guardava ancora dinanzi a se, Joey aveva già un'idea di quello che stava per succedere, infondo non avrebbe potuto negare aiuto ad un essere umano, anche se al suo interno era presente il male assoluto. <<Brava Joey, vedo che sei sveglia, infondo non potevi essere da meno.>>
Joey era in preda ad un terrore acuto <<Dimmi chi si nasconde in…>>
<<…in me? Credi che mi sia dimenticato dei miei legionari? Credi che tra tutti quelli che vivono sulla Terra e sotto di essa io mi sia dimenticato di uno di loro? Ciao tesoro, Lucifero è venuto per portarti all'inferno.>> L'espressione di Aisha era orrenda, il suo corpo marionetta del caduto più pericoloso dell'intero pianeta. Il suo Capitano era tornato per portarla nell'ombra. Joey non poté far altro che mostrare lo sgomento e il profondo orrore nel cuore e nell'anima, avrebbe voluto volare via lontano ma non poteva. Accadeva raramente, un duello di anime e Joey non l'aveva mai fatto, specialmente contro colui che un tempo era stato il primo serafino di Dio, quello più vicino alla luce. <<Lo sapevo che prima o poi sarebbe successo, é per colpa tua se siamo tutti qui a marcire sulla Terra e…>> Si sentì bloccata, paralizzata da capo a piedi, Aisha era in piedi dinanzi a lei, la sua espressione deformata dal male <<Cosa c'è non riesci più a parlare piccolo angelo? Mi si spezza il cuore, anche se quello, l'ho colmato di odio. Comunque se pensi di potermi battere eroicamente ti sbagli.>> Finì l'ultima parola e Joey venne avvolta dal buio e cadde a terra priva di sensi. Aisha, ovvero, quello che era rimasto di lei, si avvicinò alla sventurata e le mise la mano sulla fronte sorridendo malvagiamente.
Quando Joey rinvenne nei sensi, s'accorse di sentirsi molto strana, più pesante del solito, ma non poté fare a meno di notare quel brivido del tutto umano di terrore, correre lungo la sua schiena. Due occhi rossi la fissavano nel buio della cattedrale, lei si guardò le mani e strinse i pugni, due lacrime rigarono il suo viso <<Cosa…mi hai fatto…>> disse a bassa voce <<Dimmi cosa mi hai fatto angelo deforme!>> ripeté con forza divenendo rossa in viso e guardando ovunque intorno a se.
<<Deforme, non lo sono mai stato, sono sempre stato il perfetto, l'angelo con dodici ali più vicino alla verità di quanto tu ti possa immaginare. Cosa credi che sia uscito pazzo in quel tempo? Io ho visto i suoi pensieri e noi non facevamo parte della sua grazia.>> Lucifero uscì lentamente dall'ombra, Joey vide Aisha a terra con gli occhi chiusi priva di sensi. Il caduto era un ombra dalle sembianze umane, delle sue dodici ali erano rimaste solo dodici avvizziti scheletri per le piume, sembrava un orrenda vedova nera. Joey capì in quel momento che il male era uscito nella sua piena forma, da migliaia di anni aveva combattuto contro quelli che un tempo erano stati fratelli, ne aveva visti tanti, ma Lucifero possedeva un potere magnetico sulle sue vittime. Demoni, possedevano i corpi degli uomini traviandoli dalla luce, mostrando loro una via diversa da quella della rettitudine.
Infondo Lucifero anche se perse la battaglia dei cieli, non smise mai di combattere per il dominio sulla terra, una delle tante cornucopie di vita sparse nel cosmo, che il creatore proteggeva con infinito amore. Joey per la prima volta vide cos'era il male, un'ombra che non rifletteva luce, un buco nero che risucchiava intorno a se la luce, un baratro per ogni sorta di sentimento, ai suoi antipodi solo l'odio, il terrore più infinito che angelo ed uomo non avrebbero retto allo sguardo.
<<Hai paura di me? Non devi mezzo umano, prima ti ho stretta tra le mie braccia perché ti voglio più bene di Gesù.>> Camminava lentamente tra le rovine di quello che una volta era stato un altare al centro della navata principale, poi si sedette sul tavolato di marmo. <<Penso che tu ora ti stia chiedendo perché ti senti così pesante, perché ti strappato le ali. Ti fai chiamare Joey, un banale nome come sono banali gli uomini, giusto per sembrare più umano. Tu lo sai che non hai un nome, sei solo un verme
ragazza e te ne vai strisciando insieme a quei vermi traditori, che personalmente di tanto in tanto, vado a stanarli bruciando loro le ali.>>
Era vero, la sensazione della presenza delle ali era svanita, per la prima volta non sentiva più l'aura delle sue ali sulla schiena, Lucifero le aveva strappate, ora, era diventata una semplice anima racchiusa in un corpo umano. <<Mi hai uccisa…>> Portò le mani al viso singhiozzando, disperata di quella assurda situazione. <<Mi hai strappato le ali, non potrò…>>
<<Cosa!>> Tuonò la voce oscura nella sala, <<Cosa non puoi più fare! Salvarti?! Sei solo un'anima in pena ora, come sei miliardi di anime in pena che affollano questo sasso.>> Lucifero rise sonoramente, Joey strinse i pugni e diede uno sguardo ad Aisha a terra, ma sentiva che non era morta, solo che l'angelo del male la teneva invisibilmente stretta a se. Anche se non aveva più le ali, sentiva in se la stessa forza divina, aveva la forza per sfidare il male, come del resto hanno fatto tutti gli angeli prima di lei. Lucifero d'un tratto parlò con voce drammaturgica <<Vorresti sfidarmi vero? Ma non sono venuto qui per combattere, vedi, i caduti come te sono pochi sulla terra, parlo di quelli che godono della protezione degli arcangeli. A questo punto non posso pietrificarti il cuore, ma puoi star ben certa che ti lascerò vivere per l'eternità senza ali.>>
<<Che sarebbe a dire?>> disse Joey aggrottando la fronte <<Significa che sei meno di un angelo caduto, meno della luce, sei solo un'anima racchiusa in un guscio di carne, oh sì…sentirai tutti i dolori degli uomini, la tua scintilla è pari a quella di un cane o di un vegetale, ho le tue ali, aspetterò la fine del mondo per riscuotere anche la tua anima.
Salutami il vecchio Michele, un giorno gli strapperò quegl'occhi blu.>> Un mormorio ovunque e poi tante voci ridere all'unisono, l'ombra orrenda del primo caduto divenne enorme, coprendo interamente la vetrata della chiesa, Joey ebbe paura perché vide il diavolo diventare un enorme ragno nero e le sue zampe s'agitavano ovunque, poi l'ombra s'assottigliò riempiendo gli spazi bui dell'edificio. Era finita, se n'era andato, corse da Aisha e vide che dormiva profondamente, Lucifero l'aveva lasciata. Era finita davvero, sentì un tuffo al cuore, ormai era morta nell'anima. Sentì la sua testa vorticare, in preda alle vertigini e lasciò Aisha che si stava riprendendo da un profondo sonno, uscì dalla chiesa e corse finche il cuore non sembrò scoppiare. Vedeva la realtà in modo offuscato, era debole, la testa continuava a girarle, l'ultima cosa che udì prima di fiondarsi in mezzo alla strada trafficata dalle auto, fu la voce di Lucifero ripetersi chiara nella sua mente <<Ti lascerò vivere per l'eternità senza ali>>. Sentì forte il clacson dell'auto che le veniva veloce incontro , un tremendo dolore e poi il buio, molto di più, del buio dell'anima del diavolo.
Lontano dalla memoria di quel giorno.
"Sembrava quasi irreale il sole di quella giornata, tiepido e bello come non mai. Henry baciò sulla fronte Jasmine, era un devoto bacio d'amore." Joey chiuse il libro e guardo alcuni bambini che ridevano e giocavano sulla neve del parco, la giornata era tiepida come quella del romanzo che stava leggendo. Sorrise e socchiuse gli occhi, era serena, in
pace con se stessa, poi il buio all'improvviso, delle mani le coprirono gli occhi e lei rimase immobile. <<Sento l'odore del tuo odioso profumo da un miglio.>> Sorrise divertita e tolse le mani dagl'occhi, era David che nel frattempo già aveva poggiato le labbra sulla guancia liscia di Joey <<Guarda un pò è proprio il profumo che mi hai regalato.>> rispose David. Joey era felice, anche se aveva perso le ali in quel giorno lontano e per poco non aveva perso anche la vita nell'incidente mortale subito dopo l'incontro con Lucifero, venne soccorsa da un angelo e questa volta non aveva le ali sulle spalle. Le ali di David erano cucite sulla sua divisa, insieme ai serpenti intrecciati al centro dello stemma. Il soccorritore dell'ambulanza l'aiuto a rimanere in vita, Joey voleva morire ma delle forti scosse la riportavano indietro dal tunnel buio, non era ancora tempo di morire. Per la prima volta un angelo caduto, dopo migliaia di anni, sperimentava la salvezza dalla morte. Lei, che aveva salvato innumerevoli vite ed è stata consigliera di uomini saggi e di molti potenti, aiutandoli a guidare gli uomini in ere di luce e tranquillità. Lei quel giorno non vide Michele correre in suo soccorso, ma un essere umano, l'essere conteso tra cielo e terra, la pedina di un grande gioco, imparò infatti ad amarli e provando per la prima volta l'amore per uno di essi.
Prima che il cielo bruciasse e che molti angeli venissero trafitti dai dardi di luce, conosceva l'appagamento eterno, immenso e senza fine. Ma l'amore umano, terreno, era particolare, nulla di che se paragonato all'eternità, agli spazi siderei e gli orizzonti del tempo, ogni angolo degli infiniti universi avevano le sembianze del suo creatore e lei,
un tempo entità asessuata, poteva respirare l'amore infinito e la perfezione del creato. E poi il giorno della guerra dei cieli, le alabarde issate alte, i vessilli di rivolta e il sangue dei puri versato sulla terra incontaminata, in lei il rimorso dell'ingenuo errore di aver creduto ad una falsa voce di libertà, troppo tardi s'accorse dell'inganno e neanche le sue ali veloci poterono portarla lontano dai vortici di vento causati dagli arcangeli, molti precipitarono come comete su un pianeta silenzioso, che divenne improvvisamente teatro dei destini dell'universo. Un vento impetuoso, il soffio di Gabriele e Michele all'unisono, poi il buio e poi…
<<Cosa c'è Joey? Ti vedo turbata?>> disse David tenendola dolcemente per mano. David era per Joey il paradiso perduto <<Nulla amore mio, un leggero capogiro.>> Sorrise carezzando le sue labbra, David aveva un viso dolce, diverso da molti umani che aveva incontrato, o forse era perché aveva perso l'inibizione dell'onnipotenza di messaggero divino, vedeva in lui una bontà unica, il primo viso che vide una volta riaperti gli occhi in ambulanza. Dolce e caritatevole, la sua voce eterea "Guardami, resta sveglia, continua fissarmi" sentiva il suono intermittente delle apparecchiature mediche e sapeva che la sua vita era appesa ad un filo. Immortale, Lucifero aveva profetizzato la sua immortalità ma il suo fragile corpo in quel momento, non aveva saputo accoglierla. <<Oggi mi sono mancati particolarmente i tuoi occhi lo sai?>> disse Joey lanciandosi addosso a lui e cingendo le braccia al collo, David perse l'equilibrio e stava quasi per cascare dalla panchina <<Hey ma che hai! Sembra quasi che non mi veda da un millennio! Dai andiamo devo
mostrarti una cosa.>> David prese per mano Joey, poi l'abbracciò e si avviarono lungo il viale del parco al tramonto, camminando lei vide dei bambini stesi a terra che agitavano le braccia nella neve ridendo, disegnavano le ali di un angelo, Joey sorrise e distolse lo sguado.
La sera avanzava inesorabile e la giornata di sole dava spazio al crepuscolo all'orizzonte, Joey e David entrarono nel palazzo dove vivevano e lei scriveva racconti storici per un quotidiano, mentre lui continuava la sua vita di medico. <<Allora adesso chiudi gli occhi e non aprirli per nessuna ragione al mondo.>> disse David, lei rimase in silenzio e con gli occhi chiusi in attesa, sentiva David trafficare vicino la porta e poi l'accompagnò sull'uscio. <<Ora li puoi aprire.>> le candele soffuse rischiaravano appena le pareti spoglie del loft, dalle ampie vetrate la luce della luna alta nel cielo, disegnava arabeschi sul pavimento. Joey aveva vissuto per molti secoli alla luce di candele, nei tempi in cui il fuoco illuminava le piccole case con le lucerne e le grandi sale dei palazzi reali con centinaia di lumi. Ma quella scena, così dolce e trasognata, accompagnata da un profumo denso e dolce, riempiva il cuore di Joey di commozione e profondo amore. <<Vieni joey, mettiti qui.>> David era abbastanza imbarazzato e impacciato, sapeva diventare un uomo sicuro di se quando si apprestava a salvare le vite, ma in quel momento era totalmente imbevuto d'amore per Joey. Si misero uno di fronte all'altro al centro del salone <<Come sei bella amore mio, dalla prima volta che hai aperto gli occhi in ambulanza, non ho potuto fare a meno di perdermi nel tuo sguardo, come del resto ho fatto ogni giorno fino ad ora.>>
David la prese per le mani e aspettava che lei dicesse qualcosa <<Amore ma…tutto questo è bellissimo, ma dimmi perché questa sorpresa?>> Joey si guardava intorno meravigliata, come quando entrò per la prima volta nell' Eden preistorico, aveva perso le ali, ma i suoi sensi ancora riuscivano a leggere i cuori degli uomini, e se spesso aveva visto un buco nero al posto del cuore di molte persone, in David poteva vedere chiaramente il sole brillare dentro di lui, se non fosse stato un essere umano, sarebbe stato uno degl'angeli messaggeri. <<Perché questa sorpresa? Per te farei questo ed altro Joey e quindi io…io..>> David si toccò le tasche della giacca e poi il retro dei pantaloni, sembrava quasi avesse perso qualcosa <<Allora tesoro, adesso aspettami qui torno tra un attimo, tu non muoverti ok?>> David baciò sulla bocca Joey, che rimase lì impalata e meravigliata e vide uscire dall'appartamento David di tutta furia, di sicuro era qualcosa che aveva a che fare con la sorpresa che le doveva fare e forse lei aveva anche una piccola idea in mente. Joey si guardò intorno, il loro appartamento non sembrava lo stesso, era tutto così dolce ed ogni giorno che passava tutto il mondo diventava più bello. Una volta perse le ali e c'è mancato poco che perdesse anche la vita, Joey uscì da un tunnel lungo anni e anni. Aveva visto tante persone morire ma non aveva mai amato nessuno di essa, era un amore diverso quello di un angelo, tiepido e infinito se paragonato a quello intenso degli uomini, ed è talmente grande che può travolgere e distruggere, le forze del male fanno appello su questa debolezza umana, per traviarli dall'appagamento eterno. Se vissuto con equilibrio poteva essere una sensazione stupenda, che Joey stava vivendo in quell'arco di tempo.
Sorrideva e passeggiava tra le candele sfiorandone la fiamma e sentendo il calore tra i palmi delle mani, ma un improvviso soffio di vento freddo le spense. Ad un tratto una voce distinta in un angolo buio della casa <<Piccolo angelo.>> Appena un sussurro, ma bastò infatti a farle tremare le gambe ed un brivido gelido le percosse la schiena come una frusta di ghiaccio, Joey assunse un espressione di impotenza ed immensa paura <<Lu..lucifero..>> ed era proprio lui dopo sette anni ritornò a percepire il respiro del diavolo, ciò voleva dire che come un tempo s'era preso le ali, questa volta si sarebbe preso ancora una parte di se stessa. Non poteva chiamare nessuno, neanche gli arcangeli, essi l'abbandonarono dal momento che perse le ali, non più un caduto ma molto meno. Appena un anima con qualche consapevolezza in più, un immortale, ma pur sempre un'anima.
Questa volta Lucifero non si mostrò, rimase una voce intorno a lei <<Quante belle candele e immagino che il tuo David le abbia accese tutte per te, per Joey, il suo angelo.>>
<<Cosa vuoi da me! Sparisci nel tuo infermo! Hai le mie ali, mi hai castigato all'eterna presenza, cos'altro vuoi?>> Urlò Joey intorno a se, nel buio rischiarato dalla luna, visto che tutte le candele erano spente. <<Vedi, forse un concetto non ti è tanto chiaro, con o senza ali, appartieni alla razza dei caduti. Avresti potuto servire la causa, invece ti sei piegata alla menzogna di Dio, gli Arcangeli vi controllano, ma infondo nessuno di loro alzerà mai la spada contro uno di voi. Quindi per tacito consenso, mi sono preso io la briga
di annientarvi. Tu mi appartieni Joey, le tue ali, la tua anima e la sapienza divina è solo mia. Avrei potuto spazzarvi tutti dalla Terra molto prima di quanto tu pensassi, ma dovete soffrire prima di perire eternamente.>> Il monologo di Lucifero lasciò Joey senza parole e poi riprese <<Pensi di poter amare, provare l'amore terreno, ma è così sconsiderato che è la mia arma migliore contro gli stessi umani che lo provano e sai che un giorno il tuo David dovrà morire, ma già so cosa hai in mente. Vorresti portarlo sul monte Erebus in Antartide vero? Dove si trovano gli esuli, e magari vorresti renderlo immortale donando le tue lacrime fatte cristallo, un bel gesto d'amore, un amore eterno.>> Lucifero prese forma umana ed usci dal buio rischiarato dalla luce, era nudo e asessuato, un corpo statuario e perfetto e il suo viso liscio. Ne bocca, occhi, naso, nulla, un volto vuoto. <<Cosa c'è non parli più? Orrendo essere inferiore che non sei altro, oggi non sono venuto a prendere nulla da te, ma per punirti della tua insolenza, quello che avrebbe dovuto fare Michele lo farò io stesso, David ha acceso tutte queste candele per te, fa una cosa, prendine una e portala sulla sua tomba.>> Gli occhi di Joey si colmarono di lacrime e la sua bocca iniziò a tremare e le guance furono solcate dal dolore <<No….non lui…>>
Strano che la portiera della sua auto non si aprisse, tentava e ritentava ma la chiave non entrava del tutto <<Ma dannazione! Entra dai che sta aspettando.>> David era troppo impaziente, e quel momento di certo non era uno dei più calmi, aveva lasciato l'anello in macchina nel cruscotto. Voleva sposarla, chiedere la sua mano e almeno una volta nella vita, voleva che tutto si fosse svolto come in un fiaba.
Joey era la sua vita, il suo faro nella notte, la sua stella del mattino, uno strano ed unico amore piombato all'improvviso nella sua vita. Quando la guardò per la prima volta nell'ambulanza, certamente non poteva immaginarsi che se ne sarebbe innamorato, infondo i suoi occhi non avevano nulla di speciale, al primo impatto erano occhi sofferenti come quelli di chiunque, ma quando si fermç a fissarli nell'intento di controllare le pupille, si perse al suo interno e sembrò quasi poter ammirare la bellezza dell'anima di Joey. Fece di tutto per mantenerla stabile, poi il coma, le giornate passate accanto a lei, il miracolo della guarigione e Joey aprendo gli occhi gli sorrise, innamorandosi per sempre. Quella sera era l'apice di un amore, David voleva sposarla e sapeva che lei non avrebbe desiderato altro, riuscì ad aprire la portiera e prese la scatoletta chiusa nel cruscotto, stava per ritrarsi dal sediolino uscendo all'esterno dell'auto, ma sentì una gelida fitta nel fianco destro e quella voce meschina <<Mi dispiace amico, ma quell'anello lo prendo io.>> L'individuo voltò David come una marionetta ed andò ad accasciarsi privo di forse addosso a lui, un volto duro, scarno con occhi malvagi e poi un ghigno poco rassicurante che David aveva visto più volte nei centri psichiatrici <<Anzi sai che ti dico? L'anello tienitelo, quello che mi interessa è vedere l'orrore nei tuoi occhi.>> Lo baciò sulla fronte, e un rivolo di sangue scese dall'angolo della bocca di David, l'assassino se lo scrollo di dosso e lo gettò a terra, David lo vide sorridere ancora con quel ghigno assurdo e gli occhi malvagi fissi su di lui, poi venne il buio.
Joey s'accorse di essere sola, Lucifero l'abbandonò con le ultime parole su David, sentì improvvisamente il dolore nel cuore ed era fin troppo conosciuta quella sensazione, senza pensarci due volte uscì fuori dall'appartamento e si diresse in strada, guidata dall'istinto attraversò la strada scansando sconsideratamente le auto in corsa, si diresse nella stradina dove di solito David parcheggiava la sua auto e vide la scena. Sotto il lampione l'auto aperta e David a terra in una pozza di sangue scuro <<Nooooo! David nooo!>> Le urla squarciarono la sera umida, quella stessa sera che era iniziata con la magia di soffuse candele, la stessa sera che David era impacciato e divertiva Joey, quella sera David stava esalando i suoi ultimi respiri. Si precipitò accanto a lui, non sapeva cosa fare, delicatamente lo raccolse da terra portandolo tra le sue braccia e anche lei si ricoprì di sangue. David era ancora cosciente, sentì infatti dolore nell'essere sollevato, era debole e perdeva molto sangue, aprì appena gli occhi e vide Joey piangere in silenzio e i suoi occhi erano tristi, sembravano quasi sciogliersi dal volto <<David….amore…>> lui tossì e dalle labbra insanguinate fluì la debole voce <<J..Joey….mi dispiace…>> aprì la mano e le mostro la scatoletta di velluto rosso, fece scattare il sigillo ed uscì uno splendido anello sormontato da un'ametista che brillava di violetto alla luce <<Avrei voluto sposarti amore….ma temo che non accadrà…il…il mio fianco….il fegato, ho un emorragia grave.>> Joey ritrasse la mano dal fianco caldo e fradicio di sangue, era proprio vero ancora qualche minuto e sarebbe morto <<Ascoltami David! Guardami! Io…io ti salverò tu non morirai capisci? Tu non morirai!>> Lo baciò sulle labbra e lavò il sangue con le lacrime in un sommerso pianto
disperato <<Stasera il mio angelo custode…non mi ha protetto.>> David sorrise e strinse la medaglietta che aveva al collo regalata da Joey, raffigurava l'effige di un angelo <<Ti sbagli amore mio, staserà il tuo angelo custode ti salverà.>> Detto questo lo sguardo di David divenne vitreo, sentì il cuore rallentare ed il sangue coagularsi nel cuore, il respiro ormai bloccato, ecco, che un uomo muore. Joey rimase pietrificata, sentì il suo cuore implodere e il corpo bruciare, la sua anima s'espanse intorno, gli occhi divennero tutti neri come la pece, era l'aumentata percezione delle cose che la trasformava. Aveva perso le ali, ma a Lucifero aveva anche nascosto l'illimitata fonte d'energia concessa ai caduti e solo pochi di essi avrebbero potuto usarla, in tanti secoli non l'aveva mai fatto, perché ciò avrebbe consumato se stessa.
La terra intorno prese a tremare, Joey alzò gli occhi ciechi al cielo, in un lampo di luce incredibile lei sparì insieme a David. A terra rimase solo del sangue rappreso.

Altrove
La fiamma ardeva al centro dell'antro di ghiaccio, i cristalli smerigliavano la luce intorno, rendendo l'atmosfera eterea e surreale, il corpo esangue di David giaceva su un catafalco anch'esso di ghiaccio e lo stesso s'era intriso di sangue. Joey era seria, illuminata da una nuova aurea, dolce e bella come una dea, ma anche enormemente triste. L'uomo che teneva le sue mani fisse sul petto di David aveva un'espressione concentrata, i suoi occhi verde smeraldo sembravano quasi penetrare il corpo senza vita <<Avrei potuto fulminarti appena giunta qui, questo lo sai?>>
Joey rispose <<Ero pronta a correre il rischio, so perfettamente che mi sono spinta oltre i confini dell'alleanza.>>
Il monte Erebus svettava sull'aspra pianura ghiacciata dell'Antartide. Il luogo più inospitale della Terra, il rumore del vento era l'unica cosa che correva indisturbato nelle piane desertiche e in alcune notti ululava tra le gole del massiccio montuoso. Joey era arrivata alla velocità del pensiero in un luogo sconosciuto a tutta l'umanità, ma solo i caduti conoscevano bene, nessuno di loro ha mai osato giungerci, perché lì dimoravano gli esuli. Quando venne pietrificato il cielo, con esso precipitarono i caduti, i più saggi ripiegarono nel sottosuolo delle montagne al riparo dalla furia delle armate celesti, i giorni della battaglia erano indescrivibili e innominabili, Lucifero in persona guidò ancora molti dei suoi fedeli all'assalto finale e loro nelle viscere della terra poterono sentire i terremoti squarciare il pianeta, le grida disperate, le imprecazioni, urla di vittoria e poi il silenzio. Quando uscirono allo scoperto, il mondo era ricoperto di cenere e braci ardenti, intere pianure erano coperte di corpi di angeli e solo allora Alamir capì che era finita. Dio non avrebbe mai più concesso loro la salvezza e per tanto neanche volevano seguire la folle dottrina di Lucifero, troppo sapere c'era nelle loro menti e i demoni senza scrupoli avrebbero potuto usarli per sconfiggere la luce sulla Terra. Alamir e molti suoi fratelli decisero quindi di restare nelle montagne ghiacciate in attesa della fine delle stelle. Ed ora, la loro silenziosa esistenza era stata interrotta da un bagliore di luce sul monte, la luce di un angelo e non altri. Alamir corse in cima alla montagna
immersa nella notte stellata frustrata da raffiche di vento e ghiaccio, vide a terra esausta una ragazza che stringeva tra le sue braccia un uomo "non avevo mai visto una cosa simile" penso tra se. Ordinò di portarli al riparo nella grande sala, lei si riprese rapidamente, spiegando chi era e cos'era successo, i suoi fratelli ascoltarono in silenzio, alcuni erano contrariati sulla sua presenza in quel luogo sacro, ma altri l'abbracciarono e accolsero un altro fratello, dalle ali recise, ma pur sempre un triste angelo caduto dal cielo.
Almir sollevò le mani dal corpo esangue di David <<Ascolta, io non posso portarlo in vita, non perché non mi è in potere, ma perché vi è il sigillo alla vita.>> Joey lo guardò con meraviglia che ben presto divenne rabbia <<Che vuol dire? Tu..tu sei un caduto esule, hai conservato l'energia primitiva degli angeli, non sei contaminato dalla vita umana, solo tu puoi…>>
<<No Joey, io non posso farlo, perché il suo cuore è pietrificato e ti assicuro che questo è solo opera di qualcuno che ha più sapienza di noi, che ha il dono di trasmutare la materia in vita, sai bene di chi sto parlando.>>
<<Lucifero.>> Rispose tenendo gli occhi fissi su David, lei, che voleva donare l'immortalità alla persona amata, se solo gli avesse detto la verità, se solo lo avesse portato prima in quel luogo, ma non da morto, ormai la sua anima era già lontana da lui. Il cuore pietrificato, il sigillo messo sul centro della vita di un essere umano. Solo il Serafino più vicino a Dio aveva il potere di trasmutare la materia in vita e viceversa, parte del potere divino scorreva ancora in Lucifero, solo che lo usava per affliggere la già difficile
vita umana, ed ora, anche quella di Joey. Ovunque fosse andata, qualsiasi cosa avesse fatto, lei era perseguitata, Michele non si fece più vedere da quella volta sul palazzo. Era scomparso ma sapeva bene che la osservava da lontano. Nel silenzio della sala, Joey prese tra le braccia David ed uscì fuori con gli occhi bassi, gli esuli restarono a guardare. Almir non disse niente, infondo sapeva cosa succedeva nel mondo e seguiva da lontano le vicende degli uomini e dei caduti. Ma quell'angelo senza ali l'avrebbe stupito incredibilmente.
Il vento fece oscillare Joey una volta uscita dalle viscere della montagna, non piangeva più, non aveva più quell'angoscia, del disperato tentativo di salvezza, ma era determinata. Salì fino in cima, sul picco del monte Erebus e dopo alcuni metri sotto di esso sulla piana ghiacciata, il corpo di David era freddissimo. Lo posò dolcemente a terra, alzò lo sguardo al cielo e i suoi occhi divennero neri ed emise un acutissimo sibilo con la bocca, talmente acuto che risuonò per l'intera pianura sotto il monte e il vento cessò di colpo. Dopo un interminabile silenzio sentì la voce familiare <<Alla fine, tra tutte le soluzioni a tua disposizione, ha scelto quella più difficile.>> L'immagine di Michele la sovrastava, appollaiato su una roccia la guardava con i suoi occhi profondi, la luna alta proiettò la luce sulla scena, rendendo congelato nel tempo quell'evento. Michele si avvicino a Joey e poi diede uno sguardo a David a terra <<Sapevo che saresti stata travolta dagli esseri umani alla fine. Non ho potuto far a meno di udire il richiamo di un angelo, ricordi la guerra dei cieli? Tutta la terra era piena di quel suono.>>
<<Sai perche ti ho chiamato, ti prego Michele io…sto impazzendo di dolore, cerco di non pensare che David è steso dietro di me senza anima e col cuore pietrificato.>> La faccia di Joey traviata dalla sofferenza, dalla stanchezza, le labbra bruciate dal freddo, ad ogni parola la sua voce era tremante incerta. Non aveva mai provato quelle emozioni così forti, aveva ceduto alla solitudine al vizio della droga, all'invidia, all'orgoglio, piccole cose se paragonate all'amore. Michele si fermò a pochi centimetri da suo viso, poteva sentire il respiro ansimante di Joey, poi pigiò le mani sulla fronte e sugl'occhi di Joey e s'avvicino lentamente al suo orecchio <<So tutto di te, ma hai bisogno di vedere.>> Nella testa Joey sentì come un esplosione e poi la sensazione di precipitare in un baratro. Riaprì di scatto gli occhi e accanto a lei c'era Michele, si trovavano in un immenso deserto di sale bianco <<Dove..>> <<Siamo?>> Terminò Michele la frase <<Guarda il cielo, sta cadendo è tutto in fiamme e parte di esso è pietrificato.>> Il deserto tranquillo si riempì di fuoco, meteore che scavavano enormi crateri sollevando il terreno, il cielo turchino parve staccarsi come intonaco dalla volta e gli angeli caddero al suolo, a migliaia, milioni uno dopo l'altro. <<Ricordi questo giorno? Non credere che sia stato fiero ad alzare la spada contro i miei fratelli, non possiamo piangere, ma possiamo provare dolore e questo è stato un dolore immenso.>> L'ambiente circostante cambiò all'improvviso si trovavano su un enorme grattacielo e la città immensa distendersi sotto <<Da un certo punto di vista vi ammiro, provate emozioni come gli uomini, guarda
cosa hanno fatto, sembrava ieri quando vivevano nell'Eden
e a desso rischiano di distruggere se stessi e tutto il pianeta.>> Joey lo guardò con aria interrogativa <<Perché siamo qui? Cosa centra tutto questo?>>
<<Centra ragazza mia, perché voglio farti rendere conto che questa razza è imperfetta, Dio ha dato loro un immenso dono, loro avrebbero dovuto essere il frutto perfetto. E non è stato certo Lucifero a traviare la loro esistenza dalla retta via, ma è stato il libero arbitrio stesso a farli arrivare a questo punto. Ricordi l'alleanza? Beh temo che abbia fallito e voi caduti potete fare ben poco per tenerli a bada, scusami, non avete fatto proprio nulla per guidarli, siete stati solo osservatori silenziosi e molti di voi si sono resi ridicoli scendendo nelle bassezze delle emozioni. Avete avuto la vostra possibilità di redenzione e siete divenuti facile bersaglio del male, vi siete fatti corrompere.>> Michele parlava guardando lontano all'orizzonte, Joey ascoltava in silenzio, ma aveva già capito le intenzioni dell'Arcangelo <<Il tuo è stato un caso particolare, perche sei il primo caduto che ha provato l'amore per un singolo essere umano, non l'amore misericordioso, ma l'amore che provano solo tra di essi, il timore più grande è che questa cosa possa espandersi come un cancro, deviando gli altri caduti e persino i Custodi. Non ti è permesso di amare Joey.>>
Si sentiva tradita, nel cuor suo aveva provato l'amore, la rabbia, il dolore e adesso l'odio seguito dalla forma sopraffine del disprezzo <<Temo che tu ti sbagli Michele, se sono arrivata a questo punto è perché qualcuno mi ha ingannata, mi ha violentata nell'anima, ha strappato le mie ali e le ha bruciate nell'infermo, tutto questo è solo la
conseguenza di azioni accadute. Ma non mi pento delle mie scelte, affatto, anzi da un certo punto di visto sono grata a Lucifero per avermi permesso di provare l'amore, che per quanto breve sia la vita degli uomini, lo provano molto più intensamente di te, degli Arcangeli e di tutte le schiere celesti insieme. Questa è la sola disperata conseguenza dell'atto misericordioso dell'amore, io voglio sacrificarmi.>> Piombò il silenzio, nonostante tutto Michele si sentiva sconfitto, infondo spettava a lui giustiziare i caduti che avevano violato le leggi del giuramento, ma la parola sacrificio lo colpì nel centro dell'anima e verosimilmente provò una sensazione molto umana, la stessa sensazione che logorò Lucifero anzi tempo. Uno scatto rapido e abbracciò Joey, si fiondarono insieme giù dal grattacielo, istantaneamente si ritrovarono sul monte Erebus, nella fredda notte antartica.
Joey corse dal suo David, ormai un guscio freddo e vuoto, pianse disperatamente perché sapeva bene a cosa andava incontro <<Perdonami amore mio, non potrei vivere senza di te, ma non riuscire lo stesso a vivere pensandoti morto per sempre>> Michele rimase stupito di tanta devozione per un essere umano, era espressa prerogativa degli uomini sacrificarsi per un suo simile, ma mai un angelo, un figlio della luce, mai si sarebbe aspettato da uno di essi il sacrificio mortale. Il pianto di Joey s'espanse nell'aria come un dolce lamento e gli esuli uscirono dalle viscere della montagna, silenziosamente si raccolsero intorno alla scena. Michele gonfiò il suo cuore di misericordia e lacrime, anche se un angelo non può piangere, dentro di se provava una commozione unica. S'inginocchio posando il palmo della mano destra a terra e da essa uscì un'aguzza e scintillante spada, la lama del giudizio, Joey sentì il suono del metallo scindersi dal ghiaccio e capì che era giunto il momento, Michele si avvicinò e posò la mano sulla guancia di Joey <<Oggi non vengo al mondo da giustiziere, oggi, spoglio il mio corpo dall'armatura. Noi siamo angeli, servi della luce, ma siamo anche spiriti solidali e non c'è più grande solidarietà di quella provata tra due angeli. Oggi, non vengo da te come tuo capitano, ma come fratello ad esaudire un tuo desiderio, perché dell'umana sorte il tuo cuore s'è fatto carico, più di ogni altro angelo caduto, non hai salvato il mondo o la razza questo è certo, ma hai salvato uno dei suoi appartenenti. Una goccia nell'oceano fa la differenza, domani il mondo si sveglierà cambiato.>>
Joey si mise in ginocchio dinanzi a Michele, scoprì il suo collo delicato e bianco come il latte <<Dono la mia anima per un solo mortale, perché solo madre Morte può accogliere il mio sangue e portarlo in dono al creatore. La vita umana è molto difficile da viere, ma l'unica vera speranza per questa razza non sono i caduti, gli esuli, gli arcangeli, nessuno di loro. L'amore stesso laverà le loro anime da tutti i peccati.>> Si voltò guardando tristemente David <<Muoio per te amore mio, muoio per renderti libero dalla morte e dalla sorte del male che ti ha avvolto. Non ti ho servito come ho fatto a molti, ma ti ho amato e ti amo ancora, avrai dentro di te la mia vita, la dono a te David, l'intera anima è più importante delle ali di un angelo.>> Detto questo Michele pose la punta della spada sulla schiena di Joey, risparmiò il collo, perché la decapitazione era il segno del castigo, la trafisse al cuore affondando la lama fino all'elsa. Joey emise appena che un gemito, si accasciò al suolo. Istantaneamente David prese a tremare come in preda alle convulsioni ed urlo portando le mani al petto, era possibile udire crepitii provenire dal suo interno, era il suo cuore che sbriciolava la pietra e tornava di nuovo in vita. E poi ricadde a terra avvolto dal buio di un sogno.
Le labbra calde di Joey sfiorarono la fronte di David, steso sull'erba sotto un chiaro cielo turchino <<Do…Dove siamo?>> disse frastornato e meravigliato di vedere Joey avvolta in una veste bianca <<In un sogno amore mio, e questa volta è la principessa a svegliare il principe. Vorrei vivere tutta l'eternità insieme a te ma non è possibile, ho poco tempo, devo andare…>> David non capiva, ma si sentiva strano, ricordava precisamente quello che gli era successo, il buio ed ora la luce che permeava ogni cosa e fu in quel momento che la simbiosi delle loro anime li portò a comprendere tutto l'uno dell'altro, gli occhi di David erano lucidi e colmi di lacrime <<Perché non l'hai mai detto? Io ti avrei creduto amore mio, sarei stato pronto a vivere col mio angelo. Adesso te ne vai, dovrò aspettare l'eternità per poterti riabbracciare.>>
<<L'eternità sarebbe appena che un secondo, paragonata alla mia esistenza senza di te. Vivrò in te, mi troverai sempre accanto perché io ti amo e ti amerò anche oltre la fine delle stelle. A presto amore mio.>> Il viso di Joey fu avvolto dalla luce e tutto divenne bianco.
David si svegliò di soprassalto al centro del salone del suo appartamento, le candele spente erano ancora tutte lì. Portò la mano al fianco e la ferita era scomparsa, si mise una
mano sulla bocca per soffocare una smorfia di dolore e pianto. Joey non c'era più, era morta per lui. Non sapeva quasi nulla di lei, della sua vita misteriosa, a parte l'amore sconfinato. Si alzò dal pavimento e andò alla vetrata, fuori cadeva la neve, posò la mano sul vetro e con sguardo attonito fissò il balcone ricoperto dai fiocchi leggeri. Una tortora solitaria lo riportò alla realtà, andava tubando avanti e indietro sul parapetto, David sorrise ingenuamente, aprì la finestra e stese la mano alla tortora, lei vi salì sul palmo accovacciandosi, dopo un po spiccò il volo e David restò a guardare il suo amore volare alto nel cielo con le ali spiegate, le ali di un angelo.


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