Poesie di Rita Santoro


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Infanzia violata
Come un fiore reciso t'affacci alla vita
mentre il tuo petto tenero cela viva ferita,
tua infanzia vilipesa, tuoi sogni calpestati,
sono segni indelebili, sul viso tuo marcati.

Se avanza la marea sconvolge rupi e sabbia
Ed onda turbinosa s'abbatte con gran rabbia,
così tua ingenuità, carpita e violentata,
da vortice impietoso un dì fu risucchiata.

Hai solo tredici anni, dissimuli lo sguardo
di chi ormai "vissuto" bruciato ha il suo traguardo,
ma gli occhi di bambina tradiscon il tuo ardire,
lor parlano silenti di angosce e di soffrire.

Fioca luce rischiara stamberga in un cortile,
dove bimbi sfruttati, con ritmo febbrile
migliaia di fili annodano mentre aguzzino incalza,
stremati in corpo ed anima, taccion…e la tela s'alza.

Così sorge l'aurora dove i diritti umani
sono sogni irreali che sfuggon dalle mani,
così declina il sole dove la sofferenza
scavar sa sue radici con forza ed irruenza.

La dignità dei popoli, fresco alito di vento,
è impulso che dà vita, linfa ad un cuore spento.
or vigilar conviene su chi, vile oppressore,
decreta sorti umane e semina il dolore.

Il podere
Così io ti ricordo, oh padre mio,
allor che nel vigore dei tuoi anni
spingevi con le spalle poderose
l’aratro sulla terra avida e avara.

Con passo fermo e accorto
seguivi scia che il vomere lasciava
mentre profondo rovistava
nelle avide ed assetate viscere
della terra natia.

E mentre abbondante il tuo sudore
si mescolava alla fitta polvere dei solchi,
velato era il tuo sguardo,
ma in cuor tuo gioivi un poco,
pregustando generosa ricompensa.

La ruggine, sovrana al tempo che incalza,
or copre con tirannia il vecchio vomere.

Dei sacrifici tuoi mi parlano le zolle
ormai feconde,
e impresse vedo, oh padre mio, su ogni
palmo di questo podere tutte le tue fatiche.

Zolle
Zolle sudate e logorate,
quasi esauste come questo mio corpo,
queste mie membra che il tempo
corrode impietoso e senza tregua.

Zolle svuotate dalla linfa,
fiaccate ed eternamente assetate.
Zolle della terra mia!

Sopra di voi io consumai i miei anni,
e pur l’anima mia tacque un bel dì,
sopra di voi marcato è il mio cammino
fatto d’infanzia vilipesa e gioventù negata.

Tarda è già l’ora ed io or vado via.

Vi lascio, zolle, dominanti il tempo,
che un po’ vi plasma,
ma pur sempre impotente
di misurarsi con voi
e di cambiar di vostra vita
il corso.

Quel muro della vergogna
E cadde a pezzi un dì,
e spazzò via le angosce e l’ira;
ed anche il tempo cancellò,
fatto di lunghe attese e indugi.

Palpiti soffocati,
repressi sentimenti
e libertà oltraggiata,
or ritrovano ristori
all’anelata fonte del riscatto!

Quanto caro è costato questo giorno,
quanta sete di libertà violata,
quante vane speranze
dentro tenero cuor di giovanetto
che vita sua azzardò
e vita sua carpì filo spinato.

Forse vite immolate
e fior di gioventù spezzato
non furono un vano sacrificio;
forse mai più barriere
il passo intralceranno,
e agevole sentiero
strada comune segnerà,
sicché le genti di questo grande mondo
gioie e passioni viver potranno in libertà!

Etnie
Di lacrime e di sangue sono i sentieri intrisi
e d’innocenti bimbi smorzati sono i sorrisi,
orme coglie la terra di passi senza meta
dei disperati l’esodo cerca ragion concreta.

S’accalcano ai confini scacciati dalle case
che al crepito di fiamme al suol cadono rase,
nelle pupille vitree il pianto or si è fermato
la morsa di dolore il ciglio ha prosciugato.

Un fiume immane d’anime lascia terra natia,
s’appaga il cuor d’un cinico pervaso da follia,
primeggia la violenza che accresce iniquità
e schiaccia col suo peso dell’uomo dignità.

Codarde son le mani di chi sopra le genti
s’alzano soffocando pensieri e sentimenti,
di chi terrore semina con gesti assai beffardi,
spadroneggiando beni e reprimendo sguardi.

Quando l’onda impetuosa un dì s’arresterà
e il tempo oltre gli eventi suo iter seguirà,
racconterà una madre al figlio allor piccino
d’una etnia la storia, d’un popolo il destino.

Il ragazzetto forse saper vorrà se etnia
sinonimo è di colpa, di grave epidemia,
se gli uomini dissocia e genera vendetta
se stimola coscienza a guerra maledetta.

La libertà e la pace egli saprà apprezzare
e dei diritti umani voce saprà esaltare,
così che convivenza non venga più scalfita
e identità degli uomini mai venga sminuita.

Mai più Kosovo
Gira la ruota e macina dolore e sofferenza,
travolge nel suo moto infanzia e adolescenza,
e vecchio che cammino credeva già concluso
or vaga senza meta, si piega ad empio abuso.

La terra che donava coi frutti i suoi sapori
intrisa oggi è di sangue, di odio, di dolori,
le lacrime che bagnano le zolle abbandonate
sguardo vitreo diventano di masse disperate.

Verso i confini aperti, segno di civiltà,
strenua si fa la corsa che insegue libertà,
che a giovinetto vita carpì non certo invano
dietro filo spinato, un dì poco lontano.

Cadono le barriere, si sbriciola ogni muro
soccombe il dispotismo al tempo ormai maturo,
s’apre nuovo millennio e perirà il tiranno
che oltraggia dignità, si nutre dell’inganno.

La sofferenza immane del popolo vicino
è monito pungente al grande e al piccino,
perché i diritti umani restino sacrosanti
e libertà anelata al mondo vada avanti.

La sete di giustizia nel cuore dominante
soffocherà di un cinico furore fuorviante,
e scriverà la storia d’un genocidio vero
di un vile sanguinario e ignobile guerriero.

Vorrei giocare anch’io
Sudata è la mia fronte per ciotola di riso
che tu mi porgi cinico senza degnar sorriso,
accetto ormai passivo, quasi da bravo artista,
la parte che mi vuole schiavo e protagonista.

L’occhio cattura appena di sole caldo raggio,
è inverno nel mio cuore anche se fuori è maggio,
da lucernaio mi giunge solo sbiadita luce
mentre mano stremata la dura pelle cuce.

Io costruisco i giochi che portano allegria,
ma tetra è la mia infanzia, senz’ombra di poesia,
i sogni io ravvivo nei bimbi del gran mondo
che ignorano il patire nel cuore mio profondo.

Iniquo è il mio compenso, oltraggia fanciullezza,
e la mia povertà accresce altrui ricchezza,
quando la mia pupilla insegue ago veloce
stanco è il mi pensiero e fioca la mia voce

Convivo col disprezzo, subisco prepotenza
Ed ardua è la mia lotta per la sopravvivenza,
il misero guadagno mai mi potrà sfamare,
così muore mia infanzia mentre vorrei giocare.

Mine impietose
La luce dei tuoi occhi
S’offuscò,
e abbandonasti al vento
il tuo aquilone,
volteggiante
nell' aria vespertina.

Muta divenne la tua voce,
e spenta fu la tua pupilla
rivolta verso il Cielo,
mentre inseguivi trepidante
l’opera tua ingegnosa.

Sul campo devastato
dalla violenza umana,
a solo sette anni,
giacevi dilaniato dalle mine
che il passo incerto
aveva osato calpestare.

Gocce di lacrime
al posto di rugiada
si posano sui campi
a primavera.
Anima senza macchia,
tenera pianta eri tu,
tenera come l’erba
che abbraccia la pianura,
e tremolante e incerta
par esiti a spuntare.

Albania
Delusa e soggiogata con sguardo basso e assente
vaghi da mane a sera tra gente indifferente,
sul ciglio di una strada, seguendo falsa rotta,
atroce è la tua vita nell’incessante lotta.

Due occhi di smeraldo su un viso di Madonna,
bruciando giovinezza sei diventata donna,
le ansie tu assapori d’un mondo deviato
che ingenuo tuo sorriso per sempre ha cancellato.

Spartir dovevi il pane in terra d’Albania,
duro, ma tanto onesto e senza tirannia,
ed or che da soubrette ti hanno travestita
t’accorgi amaramente che è inutile la vita.

Da riva opposta un video bugiardo e prepotente
Nella tua vita entrava in modo sconvolgente,
e tu, vinta d’abbaglio al facile guadagno
cadesti inesorabile nella tela d’un ragno.

Vorresti far sentire al mondo la tua voce,
ma poi, rinchiusa in guscio, sopporti la tua croce,
le tue chimere e i sogni ormai tanto lontani
sono vuote conchiglie che stringi tra le mani.

Diritti umani anno 2000
Bimbi senza carezza, abbandonati, schiavizzati,
bimbi sfruttati, violentati, da bombe dilaniati,
bimbi sgozzati e sottratti al dono della vita,
cui sete di giustizia negli occhi è ancor scolpita.

Il vostro sacrificio dovrà scrollar le menti,
l’eco del vostro grido raggiunger dovrà genti,
così che il mondo intero acceleri il suo passo
verso i diritti umani, travolti, andati in basso.

Parole scritte dentro il cuore
Sei lustri sono volati dal dì quando in “Vallée”
eterno amor giuravo di dedicare a te,
baciava il sol d’ottobre i monti e le colline
e i ruscelletti in corsa dalle acque canterine.

Vaganti ed ovattate nel cielo terso e arcano
in danza, bianche nuvole, svanivano lontano,
rintocchi di campane in quel giorno radioso
nell’aria si spandevano con ritmo festoso.

Ricordo come ieri allor che con coraggio
per studio faticoso pagavi alto pedaggio,
fermo e determinato seguivi il tuo cammino
per poi, oltre i confini, sfidare il tuo destino.

Semplice nei pensieri, genuino dentro il cuore
impresso nel tuo sguardo scorgevo solo amore,
così che insieme a te dopo quel nostro “sì”
percorsi un bel sentiero che gli anni rinverdì.

La vita oltre i confini, di lieti eventi densa,
offrire seppe a te la giusta ricompensa,
le mani tue operose, la mente tua sagace,
prevalsero sul tempo nella lotta tenace.

Gli anni di giovinezza vissuti in sintonia
di luce assai splendente lasciaron viva scia,
la fiamme che si accese nell’idilliaca Aosta
brilla ancor vigorosa e non conosce sosta.

Imprimer sulla carta voglio le mie parole
spontanee e luminose come raggio di sole,
è un regalo umile che il cuore offre a te
perché lo custodisca, lo tenga per noi tre.

Da te ho imparato molto
Abbozzi quel sorriso semplice come un fiore
e parli con lo sguardo ti esprimi con il cuore,
celi dentro il tuo petto pensieri e sentimenti
che colmano gli spazi dei lunghi dì silenti.

Tu stringi la mia mano e aspetti una carezza,
con gli occhi mi trasmetti la mite tua gaiezza,
la voce tua è spenta, né il suono mai ti giunge,
muta la tua preghiera s’alza e il Ciel raggiunge.

Quando estasiato ammiri la luna nel suo regno
s’illumina il tuo volto, e par che lasci un segno
tra quelle stelle fulgide della volta infinita
che i tuoi silenzi accolgono, i vuoti della vita.

Eppur non chiedi nulla se non che l’amicizia
di me che ti sto accanto per addolcir mestizia,
dell’amicizia il dono, scavar sa sue radici
e col diverso fondersi per conquistare amici.

Della vera amicizia, da te ho imparato tanto
e ringraziarti voglio, non puoi sapere quanto,
credimi, caro amico, son io che a te son grato
per tutte quelle cose che Tu mi hai insegnato.

Il lago
Stormir di foglie al vento
e cinguettio d’uccelli
tra le omertose canne
che a guisa di muraglia
si affacciano sulle acque
del cheto e silenzioso lago.

Immergo le mie brocche
ed il liquido prezioso
scorre nell’arsa creta,
avida si disseta.
Anch’io rinfranco la mia fronte
e il viso, e il refrigerio è dolce,
nell’afa del meriggio siciliano.

Sentiero ciotoloso e impervio
rimonta il somarello
con brocche sciacquettanti,
e par che a tratti scrollar si voglia
dal faticoso peso.

Di quella vita dura certo si duole
Ed io che accanto guido i passi suoi
Divido il suo destino,
che poi anche per me
non è dal suo diverso assai.

Addio bel golfo
E va il bastimento tra i flutti spumeggianti
nel bel tramonto d’oro lascia chine cangianti;
colori che rapiscono si adagiano sul mare
ricamano il bel golfo a notte le lampare.

Abbraccio con lo sguardo la costa cristallina,
riecheggia nel mio cuore muta voce in sordina,
candide insenature e spiagge ciottolose,
nel tempo che non muore, vi lascio silenziose.

Come spaurito bimbo, smorzato è il mio coraggio,
i sogni e le chimere or restano un miraggio.
Framura e Bonassola vi lascio ai cari sassi
che scalzano le onde per poi posarsi lassi.

In questa mia valigia racchiuso ho la speranza
e dei pendii scoscesi gli odori e la fragranza,
a guisa di regina che domina il gran mare
s'erge rupe smagliante nell’ora crepuscolare.

Incerto è il mio domani che affido ora al destino,
addio borgate e valli, deviar devo cammino,
l'infanzia mai vissuta e precoce giovinezza
incalzano mia vita, trafugan mia gaiezza.

Lascio là, sulla sabbia, le reti e la mia voce
ed il fluire lento del fiume alla sua foce,
lembo di cielo porto dentro l’anima mia
e mille stelle fulgide della terra natia.

Segni della terra natia
Avviluppata nel tuo manto nero
siedi sull’uscio di casa diroccata,
sguardo dimesso tu volgi quando è sera
verso quel cielo arcano, che accolse,
nel corso di tua vita, occhi pietosi e
sconsolati.

I tuoi capelli che furono già assai neri
il vento sfiorò appena in giovinezza tua,
allor che assiduo, avverso al tuo destino
dei tuoi cari affetti ti privò negli anni.
E tu costretta fosti a coprire il tuo capo
Eternamente di un fitto velo nero.

Profonde rughe or solcano il tuo viso,
e il tempo è pure impresso sulle mani stanche
che la fatica risparmiar non seppe un solo attimo.
Duro fu il pane che accompagnò muta preghiera
E vuote le speranze che docile tuo cuore osò nutrire.

Al sol d’autunno or siedi,
e dalla vita ormai niente più aspetti.
il tempo non ti incalza e tu del tempo ignori
ogni presenza.

Se un alito di vento quel ramo spoglio scuoterà,
si staccherà… e via l‘ultima foglia.

Rimani
A sera, si tingeva il cielo di violetto
ancor che il sole velasse scenario sì perfetto,
di zagara profumi si confondean con le onde
che s’infrangeano indomite, sfidanti e vagabonde.

Le palme, le magnolie e i platani ondeggianti
nell’aria impettiti svettavano imperanti,
due mari, un sol dominio, in eterna simbiosi
sospiri raccoglievano di pescatori ansiosi.

Lo sguardo si estasiava attratto da miraggio
che l’animo ammaliava in quel lontano maggio
scenario irreale che sublimava mente,
che forte mi attraeva legandomi a mia gente.

Rimani, m’invitava dolce luna vezzosa
che dall’eterno regno scrutava senza posa,
quasi volesse avvolgermi in quella sua magia,
dissuadermi volesse ch’io me ne andassi via.

Rimani, insisteva la flora penetrante,
l’odore che dai pendii staccavasi abbondante,
ma dentro il cuore mio in quella primavera
voglia di maturare fu simile a bufera.

Andai, con entusiasmo, andai assai lontano,
in mezzo a nuova gente che mi porse la mano,
lassù, oltre i confini, fu facile il domani
e dissi rincuorata a me stessa: rimani!

Il barbone
Spegnevasi riverbero quel dì che vita mia
vinta da delusioni cambiò scenografia,
senza una meta, errando per vicoli e giardini
conobbi il vero mondo: il mondo dei bambini.

Sorrido quando siedo su solita panchina
e con lo sguardo seguo lor passi la mattina,
avvolto nei miei stracci, col freddo che mi punge
mie orecchie tendo attento a voce che giunge.

Di stelle nella notte colgo l’eterna danza
e dell’aurora luci ne seguo l’alternanza,
le ore più non conto, né conto più i miei anni,
al tempo senza fine cedo del petto affanni.

Mi fissi tu, passante, con gesto infastidito,
della città l’immagine, tu dici, ho sminuito,
mi guardi e ti discosti con vera riluttanza,
se mia presenza avverti da me tieni distanza.

Di tutte le mie colpe sol io ne pago il fio
onesto è questo posto, credimi amico mio,
dentro di me lealtà intatta ancor dimora
e sento d’esser limpido così com’ero “allora”.

Se al mondo niente do, io niente per me chiedo,
nemmeno col pensiero ferisco se qui siedo,
lasciai strada facendo i sogni e l’ambizione
ma dentro batte caldo il cuore di un barbone.

Australia
Scruto l’intensa luce che accende l’orizzonte
e mi ritrovo stanco, con la rugosa fronte.
Eppur mi pare ieri quando quel bastimento
con le sue gonfie vele sfidato aveva il vento.

Lambivano la sabbia marosi spumeggianti
e il carico di anime spingevano in avanti.
Penoso fu l’approdo tra il gran vocio di gente,
nella terra straniera che mi opprime la mente.

Come conchiglie fossili impresse tra le rocce
profondi solchi incisero di lacrime le gocce.
Speranze custodivo come pregiata essenza,
e al filo del passato legavo mia esistenza.

Paziente e fiducioso colsi del tempo voce
e l’acqua non più torbida raggiunse la sua foce:
Limpida e zampillante pervase i miei pensieri,
suadente nel suo corso deviò cammin di ieri.

La vita or mi assegnava il ruolo dell’artista
e scelsi senza indugio d’esser protagonista.
Facile fu il cammino tra gente non ostile
ed allentai le redini dal vecchio al nuovo stile.

Da più di dieci lustri parlo bene l’inglese,
leale compromesso verso un nuovo paese.
Il mio dialetto a giorni fa grinze ed è stentato,
è simile al mio vomere da me quasi obliato.

Lo so che il mio cammino or si conclude qui,
tornare al suol nativo fu un sogno che svanì.
L’Australia a sé mi volle ed io la seppi amare,
profonde mie radici non posso più estirpare.

La terra che mi accolse è quasi “madre terra”
e offrir mi seppe i frutti di fertile sua serra.
Finita è giovinezza, sbiadita è ormai sua luce,
ma il cielo di Melbourne stanotte mi seduce.

Donna
Assidua è la tua opera, e già sin dal mattino
spingono le tue braccia la ruota del mulino,
fucina è la tua mente nel mitico suo ruolo
e costruttive idee ricolmano il crogiolo.

Pacare sai del bimbo il ciglio sconsolato
e lacrime scacciare dal viso suo velato
stringendolo sul petto lo scaldi col calore
e luce in lui trasfondi, serenità al suo cuore.

Quando poi giovanetto rincorre libertà
fingi di assecondare la sua impulsività,
e invece vegli vigile che il passo sulla via
solida orma imprima, con vita in sintonia.

Talento e oculatezza fanno di te un campione,
determinata forza tu sei per la nazione,
avanzi nel millennio e sei di questo essenza,
di donno-imprenditrice palese è la valenza.

Il mondo del 2000 scoprir vuole i tuoi pregi
ma tu questo pianeta da sempre lo sorreggi,
consolida il sapere che a società ti accosta
ti vuole emancipata e madre senza sosta.

Paese mio
Paese mio che un dì io ti lasciai
nel cuore ancor ti porto, tu lo sai,
lo sguardo mio fissato è all’orizzonte
dove il mare vive in simbiosi con il monte.

Declivi profumati di flora penetrante,
lidi silenti a notte, sfiora luna calante,
e stelle più splendenti di preziosi smeraldi
ravvivano nell’animo dei sentimenti caldi.

Allor che il sol baciava le impervie tue vallate
natura dominava su cime incontrastate,
e riprendeva sfida di chi con gran sudore,
le zolle rimuoveva dal secolar torpore.

Eterna sua speranza poneva nel domani,
eterna sua fatica incalliva le sue mani,
biade e copiose messi, sogno sì accarezzato,
carpivan giovinezza sotto quel ciel pacato.

Andai, con dentro l’alma un mare di speranza,
un mondo di chimere mi avvolse in dolce danza,
e conquistai benessere, ma a sera al tramontare
quel cielo pien di stelle giammai potrò scordare.

Romagna 2000
Del contadino agili sono mani operose
mentre il sudor si posa sulle fertili zolle,
sorridono all’aprile pianure ubertose
ricchi di frutti e fiori dal mare fino al colle.

Se spighe rigogliose ondeggiano dorate
s’illumina il tuo volto e la mente sagace,
se brezza sfiora lieve le valli incontrastate
sogna copiose biade quando natura tace.

Tu terra di Romagna, fatica non disdegni
ed apri le tue braccia a chi ti sa apprezzare,
la tua operosità lascia profondi i segni
che imprimono un carattere, certo da imitare.

Sei patria di poeti e pur del “Passatore”,
di cui versi decantano ancora le sue imprese,
di un coraggioso che vinse l’oppressore
e a povertà languente giusto servizio rese.

Non solo i tuoi granai, ma anche le cantine
esalano le braccia forti della tua gente,
grappoli profumati trasformi in liquor fine
che poi desco allietando, delizia soavemente.

Parte sei dell’Italia che svolto ha il cammino
Con asso assi sicuro e forza esaltante,
ed ora che il 2000 avanza e ti è vicino
l’Europa tu saluti con animo raggiante.

Perdere
Perdere nella vita vuol dire ricominciare,
i sogni caldeggiati, nel petto imprigionare,
sconfitte e vittorie hanno una lor valenza
anche se tra le due ampia è la differenza.

Allor che fosche nubi, preludio di bufera,
arrestano il respiro di dolce primavera
soccombe il pesco in fiore e cede nel tormento
sui petali inebrianti che via trasporta il vento.

Percorrere un sentiero significa azzardare,
con lotte quotidiane sapersi misurare,
la vita è eterno gioco, esige il suo coraggio
anche se ombre dense del sol velano il raggio.

Ritorneranno i petali fulgidi sullo stelo
se il pesco fiducioso scrutare saprà il cielo,
lotte e vittorie umane convivono in simbiosi
e intessono alternandosi i sogni più preziosi.

Ritorno al paese natio
Ma cosa cerco ancora nella mia vecchia via
dove il mio cuore è avvinto da gran malinconia,
dove i ricordi affiorano del tempo ormai volato
e pare un po’ m’inseguano mentre son qui tornato.

Accelero il mio passo, rivedo il campanile
che s’erge tra le case, intatto nel suo stile,
cerco volti e voci che non riascolterò
perché, ormai tra i giusti, il Cielo a sé chiamò.

La scuola, l’oratorio e poi la mia casetta
cerco ansimante, e al cuor provo una stretta,
di quel santuario eletto della mia giovinezza
neppure un segno resta a mitigar tristezza.

Deluso d’ogni cosa riprendo il mio cammino,
medito sugli eventi che foggiano il destino,
ritorno sui miei passi, m’aggrappo alle chimere
che in me vivranno eterne con le mie primavere.

Cinquefrondi 1946
Nell’arcano silenzio d’un meriggio
in lontananza scorgo una figura,
avanza lesta malgrado la calura
che addensa nubi sotto il cielo grigio.

E’ mio padre che mena la carriola
sotto la pioggia che or cade a catinelle,
che par cancelli il sudore della sua pelle
mentr’io l’aspetto con aria civettuola.

Gli corro incontro e gareggio col fratello
tra gli ombrosi filari che ornano la via,
resto assai indietro e nella mia euforia
mi diletto a canticchiare un ritornello.

La carriola ora spinge il mio germano
Verso di me che ormai gli son vicina,
egli m’aiuta, essendo ancor piccina,
a montar dentro, porgendomi la mano.

Sollazzandomi mi lascio trasportare
E della mamma voce non ascolto,
né il richiamo, né l’ansia del suo volto
mio fratello giammai potrà arrestare.

Torniamo a casa quando vien la sera,
dove per anni pesò la sofferenza,
dove una guerra, nella sua irruenza,
aveva cancellato l’odor di primavera.


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