Racconti di Pietro Zerella


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Pietro Zerella, nato a Beltiglio di Ceppaloni (BN), vive a San Leucio del Sannio (BN), laureato in Scienze Politiche e Sociali, Funzionario della Polizia di Stato in pensione, è’ inserito in tre Edizioni (1996 – 2001 - 2006) del “Dizionario Autori Italiani Contemporanei” Ed. Guido Miani, Milano ed in altre antologie.
Ha vinto premi letterari e di poesia.
Ha pubblicato:
- “Frammenti di vita”, Raccolta di poesie. 1994;
- San Leucio del Sannio – Frammenti di Storia. 1994;
- San Leucio del Sannio – Viaggio nel tempo. 1996;
- Ho conosciuto il nonno del mio bisnonno. 1997; (Menzione speciale Comune di Montecelio Romano Ed. 1998-1999, Roma;
- Il Clero Sannita nella crisi dell’Unificazione (1860-1862) saggio pubblicato nella Rivista Storica del Sannio, 1997;
- San Leucio del Sannio- Ieri e Oggi in Bianco e Nero, 1998;
- Preti Contadini e Briganti nell’Unità d’Italia (1860-1862). 2000. ( Premio Speciale 2001 alla 7^ Edizione del Premio letterario “Giuseppe D’Alessandro”, Benevento);
- Arturo Bocchini e il mito della sicurezza (1926 – 1940). 2002;
- Il Sole dei Lupi, 2006; Ristampa nel 2007. (Vincitore Premio di Merito al concorso letterario di Anquillara Sabazia VI Edizione).
- Angela, la scala della vita ed altri racconti, 2008.
- Fondatore e organizzatore Premio Letterario Nazionale“Città di San Leucio del S.”
- Scrive sulla pagina Cultura e Spettacoli del giornale “Il Sannio Quotidiano.


Angela, la scala della vita ed altri racconti di Pietro Zerella



Prefazione
La società che vi è descritta, infatti, è quella contadina così fortemente radicata al territorio e
alle storie incessantemente tramandate con le varianti e le concessioni al fantastico e al miracolistico
che la tradizione orale e popolare comporta. Esse sono diventate paradigmi morali, “exsempla”
comportamentali, funzionali a quella cultura preindustriale così solidamente sedimentata nel tempo
lungo della storia, pur se la diaspora dell’ultimo secolo ha disperso nel mondo gli uomini che vi
facevano parte.
E, quindi, questi racconti giungono opportunamente a recuperare un autentico sapore locale e
si pongono come un affettuoso contributo alla memoria collettiva di questo piccolo angolo di mondo.
Troviamo, allora, la tenerezza di “U’ purtuallu”, la commistione tra delitti atroci e interpretazione
della salvezza in chiave ingenuamente miracolistica “ Il miracolo dopo la strage”, l’aggancio inventato
tra fatto di cronaca vero e la tragica macrostoria in “Il forno”. Anche “Il pataccaro” e “Il Marchese
Zattèra” sono il frutto di una sintesi tra ricordi reali o addirittura personali, racconti orali locali e
depistaggi letterari per confondere il lettore in cerca di una identificazione dei personaggi.
Sapientemente giocati sul filo delle verosimiglianze attestano che il compromesso letterario
permette di dire senza accusare, ricordare senza recriminare, incontrarsi in un “milione” di rimandi
e fantasie. Certo, proprio fantasie perché è su di esse che si gioca l’identità di un gruppo socialmente
identificabile.
Come nelle parabole, spesso, il racconto è allegorico (“L’ultimo percorso”) e finalizzato a un
messaggio morale come in “Vita disperata”, o si avvale di un gusto macabro-umoristico (“La bara”)
dal sapore vagamente pirendialliano ma dai forti risvolti fantastici popolari nella parte finale.
Anche “Il prete del villaggio” ripropone questo incontro tra cronaca vera e conclusione fantastica,
in una visione della religione utilitaristica e funzionale alle esigenze di una società agricola.
“Il clarinetto” e “Roseto - per un sacco di grano” affrontano l’amara realtà delle cause
economiche dell’emigrazione meridionale e dei suoi prezzi altissimi sia a livello umano che familiare.
In alcuni Racconti, poi, si scorge la necessità di un intervento più autobiografico che si traduce
in una vena patetica e nostalgica come in “La farfalla nera”, “Angela”, “La cavalla sposa” e
“L’operazione”.
Questo libro ha voluto dar voce e senso ai destini di uomini più o meno umili. L’autore ha cioè,
cercato sia di offrirci il piacere della lettura e del ricordo sia di contribuire a restituire il respiro delle
cose e delle passioni, delle ferite del cuore e del conforto della speranza.
 

Il forno
Era stato prigioniero in Germania, nel campo di sterminio di Auschwizt.
In cinque anni di conflitto non era mai tornato a casa.
Aveva combattuto con l’armata italiana (ARMIR in Russia, sul Don).
Al disastro dell’assedio di Stalingrado, dove i tedeschi, al comando del generale von Paulus, furono costretti ad arrendersi, seguirono altre sconfitte sul suolo russo per l’esercito di Hitler.
Nel corso della ritirata, nella steppa gelata, a meno 35°, dei sopravvissuti della divisione Iulia, lui, Benito, caporal maggiore, ferito e stremato, con i piedi semicongelati, non riuscì a proseguire con il resto dei compagni e fu lasciato, insieme agli altri feriti, alla pietà dell’esercito russo che incalzava gli italiani ed i tedeschi in ritirata. Benito riuscì a nascondersi sotto i cadaveri congelati, a riscaldarsi le mani nelle viscere dei compagni morti per poi trovare rifugio presso un’isba semibruciata, abbandonata.
Una contadina, che aveva perso il marito durante l’avanzata dei germanici, dopo l’ondata di terrore era ritornata nella sua casa, dove ferito giaceva Benito. Entrambi ebbero pietà e compassione di loro stessi, delle loro sventure e si aiutarono a vicenda. Fra i due infelici, dopo un po’ sbocciò la passione. S’innamorarono. Entrambi avevano un motivo per amare, per sopravvivere.
La guerra sul suolo di Stalin era ormai terminata, si era trasferita sul territorio del Grande Reich.
Benito, fibra forte, robusto, non troppo alto, occhi grigi e capelli scuri, tipico meridionale, guarì completamente dopo un paio di mesi.
Si trovava bene in quella casetta, lontano dalla tragedia della guerra. Si mimetizzava tra i pochi contadini della zona per sfuggire agli occhi curiosi dei vicini. La sua compagna si dimostrava premurosa e piena d’amore.
Dopo qualche anno, Benito, incominciò a pensare alla moglie lasciata a casa con un figlioletto nel grembo che ora doveva avere tre anni. Dopo qualche mese sul Don, non era riuscito riuscì più a scriverle. Poi gli eventi catastrofici, la ritirata, lo squarcio alla gamba, la fuga ed in seguito Nataschia, contribuirono a fargli dimenticare la famiglia.
Una notte sognò la moglie, il figlioletto piccolo, la casa, il fiume che lambiva i suoi campi, i vecchi genitori e corvi beccare il grano dalla maggese. Ebbe uno strano presentimento e un’improvvisa nostalgia della famiglia.
Incominciò ad essere triste. Non gli bastavano più le cure e l’amore di Nataschia.
Il giorno lo trascorreva spaccando legna, dissodando il duro terreno, sgobbando per non pensare.
Arrivò l’otto settembre del 1943, si sparse la notizia che l’Italia aveva chiesto la pace e che la guerra era finita. Almeno così si vociferava fra i contadini del posto.
All’alba di un mattino di primavera, tra i pianti della sua compagna, Benito intraprese il viaggio di ritorno.
Natascia gli promise che l’avrebbe in ogni caso aspettato, era sicura che sarebbe ritornato.
Dopo varie vicissitudini, arrivò in Polonia dove fu catturato dalla polizia tedesca. Riconosciuto quale soldato italiano, fu inviato nel campo di concentramento d’Auschwitz.
Il 27 gennaio del 1945, il campo fu liberato dalle truppe sovietiche. I soldati trovarono 7.000 esseri umani che i tedeschi non avevano fatto in tempo ad eliminare. (In totale furono deportate ad Auschwitz più di 1 milione e 300 mila persone. 900.000 furono uccise subito al loro arrivo e altre 200.000 morirono a causa di malattie, fame o eliminati poco dopo).
Terminato il conflitto, nel 1946, Benito finalmente riuscì a ritornare in famiglia.
Dopo la partenza per la guerra, aveva lasciato a casa la moglie Vittoria: una bella ragazza di venti anni, dagli occhi scuri ed ardenti ed una capigliatura nera e con il pancione, in attesa del loro primo figlio.
Abitavano in campagna, in una casa antica, vicino al fiume dove possedevano un bel pezzo di terra che dava da vivere ai due sposini.
Benito, dopo avere viaggiato per giorni su treni e tradotte sgangherate, riuscì ad arrivare a casa. Il primo incontro lo ebbe con il figlio di circa cinque anni, bello, con gli occhi scuri come la madre, ma il viso ed il fisico simile al suo. Il bimbo fuggì via gridando: “ mamma, mamma ti cercano”. Si affacciò la moglie e, senza entusiasmo e gioia, andò incontro al marito. Questi, l’abbracciò fremente e la coprì di baci.
Rientrarono in casa. Mentre Benito si toglieva i miseri e sporchi indumenti per farsi finalmente un bagno, sentì nell’altra stanza il pianto di un bimbo. L’uomo guardò stupefatto la moglie. Questa, piangente, lo abbracciò e lo coprì di baci. Il coniuge, intuendo qualcosa, furioso, scostò la donna ed entrò nella stanza. Vide un bel bambino, paffuto, biondo, con gli occhi azzurri, invocare con insistenza la sua poppata.
Il consorte stava per chiedere spiegazioni, ma la moglie lo precedette quasi aggredendolo:
“ Non ti sei fatto sentire da circa cinque anni, pensavo che fossi morto, che non tornassi più ed io, sola, mi sono sentita abbandonata e vedova.”
“ Chi è stato quel farabutto che ha abusato di una donna sola, mentre suo marito difendeva la Patria? Dimmelo che lo ammazzo!”
La moglie terrorizzata cercò di trovare attenuanti, di farfugliare scuse, di impietosirlo, vista la determinazione dell’uomo a scoprire a tutti i costi la verità.
“ Benito”, escalmò la donna: “non te la prendere, è stato un mio errore, comprendimi, ti consideravo morto, perduto per sempre. Perdonami. Ti amo, il mio cuore è solo per te.”
“Chi è stato, dimmelo!” Insistette il marito.
“Un militare di passaggio che tornava dalla guerra. Non è stata passione. Mi ha preso con la forza e quasi stuprata. Subito dopo è sparito. Non l’ho più visto.”
“Quasi stuprata!” Ripetè il marito: “Quasi stuprata. Ma allora, tu, tu eri compiacente? Non ti ha violentata! Brutta cagna.”
“Vedi che bel bambino, lui non ha colpa, è simile al nostro, saranno due bei fratellini, si terranno compagnia,” soggiunse la donna in lacrime.
Il coniuge, che ne aveva viste tante di brutalità, fu preso dalla tenerezza e pensando ai tanti morti visti in guerra, prese il piccolino fra le braccia e lo baciò. Lo stesso fece con il suo vero figlio.
La coppia, apparentemente, si riconciliò e sembrò che la vita si fosse normalizzata. Passarono molti mesi tranquilli. Benito, però, controllava la sua donna in ogni spostamento. Non si fidava più di lei; pur se non lo dava a vedere. Forse aveva intuito qualcosa di strano.
Un mattino, di buon ora, si recò in città, dicendo alla consorte che sarebbe tornato tardi, doveva trattare affari con un suo amico.
Invece rincasò prima del solito. La moglie non c’era. Trovò solo suo figlio che giocava con il fratellino.
Girò per casa, per i campi vicini e poi andò di corsa, con un triste presentimento, alla fontana, riparata da un fitto canneto. Come un segugio che fiutata la lepre l’insegue bramoso di azzannarla, così Benito si avvicinò in silenzio. Aveva sentito dei rumori e dei sospiri di piacere. All’improvviso gli apparve sua moglie, seminuda, distesa a terra, che fremeva d'amore sotto un giovanotto del paese. Benito non ci vide più. Gli salì il sangue agli occhi, come davanti al nemico che aveva più volte infilzato con la baionetta. Perse la testa. In un baleno, accecato dalla gelosia, afferrò una vanga poco distante, e giù, giù sulla testa dei due amanti. Picchiò più volte, e più volte ancora fin a quando non sentì l’amaro in bocca ed una schiuma verdastra colargli dalle labbra.
I due innamorati non ebbero il tempo di gridare. Dal gemito del piacere passarono direttamente al rantolo della morte. La furia di Benito cessò quando non li vide più muoversi. I due erano immobili, l’uno sull’altro come nel momento del godimento.
Si lavò, nascose gli amanti nel canneto e ritornò tranquillo a casa.
Dopo qualche giorno si sparse la notizia che la moglie era fuggita con un vicino di casa. La novità non sorprese nessuno. Tutti in paese sapevano che il giovanotto aveva una relazione ed un figlio con la donna di Benito.
Questi, con freddezza, fece sparire i due corpi e con apparente tristezza riprese le sue consuete abitudini. Per molti giorni si vide un fumo nero, denso, uscire dal forno. I vicini lo commiseravano:
“ Poverino deve provvedere ai due ragazzini, farsi da mangiare e cuocere il pane. Ora è solo come un cane”.
Dopo qualche mese Benito affidò i figli ai genitori dicendo che si sarebbe assentato per qualche tempo.
Oltrepassata la frontiera del Brennero, rimise in tasca il passaporto con il visto dell’ambasciata Russa e si appisolò cercando di scacciare quegli angosciosi ricordi che lo rincorrevano.
Rivide la guerra, l’ìsba, Nataschia che l’attendeva, i suoi baci…, e poi, all’improvviso, il terrore del campo di sterminio di Auschwizt, lo sguardo ultimo dei tanti ebrei morenti che introduceva nel forno crematoio cui era addetto. Per quel lavoro, sotto lo sguardo sprezzante degli altri prigionieri, si era offerto volontario ai tedeschi per salvare la pelle, come i tanti kapò. Il forno crematorio era diventato la sua specialità, come fare il pane.
-Tratto dal libro “Angela, la scala della vita ed altri racconti”-

Roseto – Per un sacco di grano
“Fate presto, camminate, ci vuole ancora molto per arrivare”. Il capo cordata sollecitava gli amici di non fermarsi, non attardarsi.
Avevano percorso a piedi soltanto 30 chilometri, ne dovevano percorrere altrettanti. La meta era ancora lontana.
Stava per terminare la guerra. Benevento era stata bombardata. I tedeschi avevano iniziato la ritirata dal Sud verso il Nord.
La città si era quasi svuotata: molti erano rimasti senza abitazione e fuggivano nei paesi limitrofi. Ogni casa aveva una famiglia di sfollati. Era stata occupata finanche la piccola grotta, scavata nel sasso, che da Benevento porta a S. Leucio del Sannio.
Il paese collinare, già povero, fu ulteriormente immiserito dall’affollarsi di tanti “profughi”. Fra le persone note, c’era la famiglia di Alfredo Zazo, studioso e storico, che aveva trovato ospitalità nella Villa di Antonio Iannace. Da questo osservatorio scrisse il diario di guerra di quei giorni. Altri sfollati trovarono rifugio anche nei locali del comune.
Non si trovava più nulla da mangiare. Nei campi erano scomparse anche le verdure selvagge. Si mangiava pane fatto con le fave o con le ghiande. Da queste, arrostite, si ricavava un imbevibile caffé. Il poco pane bianco si dava ai malati ed ai bambini.
A San Leucio, ma anche nella vicino Beltiglio, si sparse la voce che nei paesi di confine con il foggiano, Castelfranco in Miscano, Roseto (Foggia)…si poteva trovare ancora del grano e del granturco. Fu un passa-parola veloce. I più audaci, per lo più giovani dai quindici ai venticinque anni, con sacchi in spalla si mettevano in cammino. In fila indiana partivano subito dopo mezzanotte per arrivare la sera a destinazione. Con gli uomini vi erano anche giovani donne e madri. La distanza da percorrere era di circa 60 chilometri.
Arrivati in quelle zone, il gruppo si sperdeva nelle immense campagne e nelle masserie in cerca di grano o pagnotte di pane ed altro da portare a casa. Di solito tutto ciò si barattava con fiammiferi, accendini, sapone, tabacco…
Quei contadini erano molto ospitali. I giovanotti, spesso, la sera ridevano e ballavano, forse, per dimenticare la guerra, i lutti e la miseria. A volte, fra i giovani c’era qualche innamoramento con le ragazze del luogo. Un bacio fugace e la promessa di ritornare. Passata la mezzanotte, con i sacchi di provviste sulle spalle, si ripartiva. Il ritorno era il momento più difficile.
Si poteva essere bloccati dalle forze dell’ordine ed avere il grano sequestrato e essere denunciati per contrabbando e mercato nero. A volte dei finti carabinieri o poliziotti si appropriavano della merce di qualche sfortunato che, isolato, cadeva nelle loro mani. Si viaggiava in gruppi numerosi per non essere depredati. Alla comparsa della polizia era un fuggi-fuggi nei campi, un nascondersi dietro le siepi.
In prossimità di Benevento, la compagnia si divideva per evitare i controlli della polizia e dei soldati americani. A volte si attendeva la sera per aggirare la città per vie secondarie e impervie.
Non tutti ritornavano con il sacco pieno. Qualcuno faceva ritorno a casa più povero di prima perché era finito nelle mani dei banditi. Questi, oltre a perdere la roba, ricevevano anche schiaffi e calci.
“Eugenia, Eugenia, sono qui” la voce disperata del marito percorse la lunga fila dei compagni e poi marito e moglie si trovarono l’uno nelle braccia dell’altro. Entrambi piangevano: “Non preoccuparti, l’essenziale è che siamo a casa sani e salvi. Io ho salvato qualcosa da mangiare”, assicurava la moglie.
Il marito, Carmine, un giovanottone alto e robusto con mani callose dal duro lavoro dei campi, era stato aggredito da un gruppo di banditi, pochi chilometri prima di arrivare in paese, mentre la sua donna e le altre giovani erano riuscite a fuggire, salvando i pochi chilogrammi di maccheroni che avevano acquistato a Roseto. Carmine aveva mandato il gruppo delle donne, quasi tutte parenti, per una strada secondaria, mentre lui, per attirare l’attenzione di qualche male intenzionato, aveva percorso la strada principale sicuro che, se lo avessero fermato, avrebbe saputo difendersi.
Grazie alla sua forza, portava sulle spalle un pesante sacco di frumento.
Nel camminare si guardava intorno, cercando di prevenire eventuali sorprese da parte di malintenzionati.
All’improvviso da sotto un ponte uscirono tre uomini armati che gli intimarono di consegnare il grano. Carmine cercò di difendersi, ma uno dei banditi gli puntò alla tempia una pistola, e allora non oppose più resistenza. Fu legato e giù, pugni e calci: volevano sapere dove fossero i suoi compagni.
Non ricevendo alcuna risposta, lo sventurato fu lasciato legato, privo di conoscenza. Dopo qualche ora, il frinire delle cicale lo svegliarono. Subito fece un tentativo di liberarsi le mani, ma fu inutile. Tentò ancora, ma niente. Lo sforzo lo privò completamente delle forze. Intravide la guerra, il sangue, l’Albania lo scoppio di una granata e la ferita alle gambe. La Croce Rossa, la degenza in ospedale, la visita della Regina Margherita e di Mussolini ai feriti. La dolcezza della prima e la mascella dura del secondo che si soffermava solo presso i feriti appartenenti alla camice nere, mentre la Regina portava una parola di conforto a tutti i soldati, che combattevano in prima linea.
Carmine avrebbe voluto protestare con il Duce, dirgli: “Siamo noi che andiamo a morire in prima linea, la camice nere vengono dopo a raccogliere i frutti del nostro sangue”. Non poteva dirlo e ancora si rammaricava di questa ingiustizia, quando, il suo cane “Badoglio”, ritornato, iniziò a leccargli il viso. Carmine si riprese e con un tremendo sforzo riuscì a slegarsi.
La sua stessa disavventura era stata vissuta da un ragazzo di Beltiglio, di appena dodici anni, Raimondo, che con la giacca strappata e con il viso tumefatto dalle botte, non era riuscito a sfuggire all’agguato. Alcuni banditi, vedendolo piccolo, lo avevano picchiato e gli avevano portato via il sacchetto di grano e anche la bicicletta. Il ragazzo, aggrappato alla ruota del mezzo, piangendo gridava: “la bicicletta no, non potete togliermela, è la mia vita, è tutta la ricchezza della mia famiglia”. Poiché non mollava la presa dalla ruota, con ceffoni e calci lo costrinsero a lasciare il suo tesoro. (Il ragazzo tornò a casa piangendo senza il mezzo ma con un po’ di grano che gli amici avevano raccolto fra loro).
Casi simili se ne contavano a decine.
Per le strade era un via-vai di gente in cerca di un po’ di farina o qualcosa da mangiare da portare a casa.
Non erano ancora terminati i bombardamenti su Benevento, che le case semidistrutte erano assalite da branchi di gente senza scrupoli, “sciacalli” in cerca di biancheria, argenteria o qualche soldo nascosto. I negozi erano svuotati in pochi minuti e la merce venduta alla borsa nera.
Dopo qualche anno dalla furia devastatrice, molte persone, con i soldi ricavati dalle case depredate, aprirono negozi e ristoranti. Diventarono “Don”, riveriti e rispettati.
-Tratto dal libro “Angela, la scala della vita ed altri racconti”-

Nato sotto una cattiva stella
(Cap. 1)
“U Purtuallu”

La madre, che lo portava avvolto in uno scialle nero, camminava con passo veloce, ansimando, verso la casa del dottore. Qui piangente aprì lo scialle e disse: “salvatemelo dottore, salvatelo, solo voi lo potete fare”.
Il medico, un po’ anzianotto e mezzo sordo, sollevò meglio lo scialle e, dopo un breve sguardo, emise la brutta sentenza: “buona donna, voi state portando sulle braccia un cadaverino. Vostro figlio è morto”.
La povera donna emise degli urli, come una bestia che piange i suoi piccoli.
Strinse di più il corpicino inerte a sé e, come impazzita, si avviò verso casa.
Piangeva, gemeva, correva: “non è possibile, non è possibile”, andava farfugliando, come per convincere se stessa.
La vide una vicina di casa e le si avvicinò: “Carmè, che ti è successo? Fermati”.
La poverina aprì lo scialle e muta gli mostrò il piccoletto: immobile livido, con gli occhietti schiusi che non respirava.
“E’ morto, mio figlio, è morto. Vedi non respira, ha detto il dottore che non c’è più nulla da fare”.
L’amica, che piangeva anche lei per la tragedia, rivolgendosi alla donna stravolta dal dolore disse: “fatti aiutare a portarlo, passalo a me”. Carmela adagiò con delicatezza l’inanimato fardello nelle braccia distese dell’amica e lo coprì subito con lo scialle.
Era un uggioso mattino di novembre. La bruma ricopriva i campi e la strada disselciata.
Le due donne, avvolte nei rispettivi scialli, emanavano una scia di vapore dalle narici umide e dalle bocche semiaperte.
Dopo alcune centinaia di metri, l’amica si fermò, abbassò il capo sul cuore del morticino: “Carmé, il bambino è ancora vivo, respira”, e piangendo dalla gioia, lo pose fra le braccia della madre disperata.
La donna, alzò lo sguardo per ringraziare il Signore, e si accorse che si trovava di fronte alla chiesetta del’500, dedicata a S. Giovanni Battista. Cadde in ginocchio in segno di ringraziamento come un antico rituale sollevò il bambino verso il sacro luogo, per invocare la sua protezione. Era stato un miracolo, forse!
Rincuorata, pazza di gioia, ritornò a casa.
Il bambino, che si chiamava Narciso, come il nonno paterno, dopo un po’ di giorni superò il pericolo.
Crebbe bello e robusto. Correva nei campi intorno alla madre che coltivava ortaggi. Il padre non lo aveva mai visto perché impegnato a combattere sul fronte italo austriaco, nei dintorni del Monte Grappa.
Quando ritornò, il figlio aveva già cinque anni.
Il piccolo, appena lo vide, fuggì via, impaurito, dalle braccia che gli tendeva quell’uomo sconosciuto. Vani furono i tentativi e i sorrisi messi in atto dal padre per farsi accettare dal figlioletto; il bambino non si avvicinava, restava stretto alle gambe della madre.
Allora il pover’uomo tirò fuori dallo zaino due grosse arance.
Il ragazzino stupito perché, come la mamma, vedeva per la prima volta quel frutto color oro, si avvicinò fiducioso e si abbandonò, con le arance fra le mani, nelle braccia del padre.
La madre, rivolgendosi al figlio: “mangia i purtualli (arance) che sono buoni”. Il bambino, con curiosità e voracità, addentò il frutto con tutta la buccia, mentre il succo gli colava dalla bocca.
La famigliola ritrovata si abbracciò felice e sorridente mentre il figlio sgranocchiava “u purtuallu”.
Il mattino seguente il bambino si svegliò di buon’ora e, avvicinatosi al letto del genitore che ancora sonnecchiava esclamò: “Papà perché non parti per la guerra?”. Il padre stropicciandosi gli occhi, sorridendo: “ perché mi vuoi mandare di nuovo in guerra? Non mi vuoi più bene?”.
“ Si ti voglio bene papà, ma, m’ puorti u purtuallu!”. (1) (mi porti l’arancio!)
-Tratto dal libro “Angela, la scala della vita ed altri racconti”-
 


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