Racconti di Nicola Oronzo Accattato


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Nicola Oronzo Accattato è nato a Oriolo (Cs) l11.10.1950.
Diplomato in ragioneria A Trebisacce, grazie alla bontà di alcuni professori perspicaci, si è laureato in Filosofia all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, con una tesi su Albert Camus, mantenendosi come manovale, muratore, marmista, fattorino, data la quasi omogenea calabresità della sua situazione familiare.
Attualmente insegna Lettere in una scuola di Cinisello Balsamo, e non ha ancora perso il gusto di pensare che, a volte, può bastare un solo capello lungo, per sentirsi capelloni.
Edisud di Salerno gli ha pubblicato alcune poesie "Questa vita di uomini", che l'autore ha già provveduto, fin dai primi anni settanta, a far digerire in molteplici televisioni, radio, giornali, feste de "l'Unità" e osterie.
Indirizzo e-mail: nicola.ac@inwind.it
 

Bibliografia

Poeta itinerante, dal 1976 ha cominciato a leggere le sue poesie in diverse piazze italiane. Ospite in programmi radiofonici e televisivi, collabora a varie testate giornalistiche, tra cui Il Quotidiano della Calabria.
Fa parte della redazione  de  IL TIRACCIO  e di CONFRONTI,  dove è responsabile della pagina Di pane e di rose.
Ha ideato e cura sul sito www.beiposti.it la rubrica Alto Jonio nella poesia e nei racconti.
Ha fondato, assieme a Bonifacio Vincenzi, Alfredo Bruni, Angela Lo Passo, Francesco S. Mangone e Gianni Mazzei, la rivista trimestrale di Letteratura La colpa di scrivere.
Ha vinto numerosi Premi di poesia. Tra gli altri, gli sono stati assegnati il  Premio Alto Jonio per la poesia; il Premio Cerchiara alla Cultura per la narrativa (2003); il Premio Setea  alla Cultura (2004), il Premio alla Cultura “Città di Oriolo”  (2004) e il Premio Capo Spulico (2005), con presidente di giuria Dante Maffia.
Ha pubblicato:
“Questa vita di uomini” (Poesie) –Edisud-Salerno“Improbabili confessioni al veterinario”(Narrativa)  “Altre storie di uomini, di alcune donne e di molte bestie” (Narrativa)Di prossima pubblicazione una nuova raccolta di poesie e il romanzo breve “Il bassotuba”, anticipato a puntate nella rivista La colpa di scrivere.


Leggi le poesie di Nicola Oronzo

La Cantina di Spaventa                                                               
           negli ultimi ultimi tempi aveva cambiato il  nome in "Osteria del Passante", e non era più la stessa cosa, e neanche corrispondeva a verità perché, mano a mano che gli anni sono passati e siamo andati sparpagliandoci per il mondo in cerca di migliore  fortuna,  sono rimasti solo qualche vecchio, qualche impiegato comunale, qualche invalido e alcuni presunti tali.
E poi non c'era più motivo di passare da queste parti perché ognuno aveva il suo bel bagno mattonellato in casa e la Scifuel, dal cesso a cielo aperto che era una volta, era diventata un prato di ortiche e di altre piante officinali e non.
                     Ma non è solo questione di nome: è che avevano cambiato gli scannetti di legno massiccio, avevano bruciato i tavolini bruciacchiati di sigarette e incrostati di vino.
Via la lampadina e la carta moschicida.
Via il pozzo che faceva da frigo.
Via pure i bicchierini come ditale.
Via le voci alterate.
Via le fave abbrustolite.
 Via compare Totonno.
Via tutto, insomma.
Il mio Spaventa era proprio morto.
Negli ultimi tempi non ci ho messo più piede e neanche ce lo metterò mai, perché oramai è chiusa definitivamente.
E' rimasto solo un pezzo di legno annerito dal tempo con su inciso, con delle lettere piegate tutte a destra, il nome "Osteria del Passante", e vi assicuro che non ha niente a che fare con la mia "Cantina di Spaventa ".
Forse, è anche una questione di nome, ed io non ci metterei mai più piede pure se la facessero diventare il "Pub della Serenità".    
               Eppure di serenità ne avrei tanto bisogno: se la vendessero al mercato, andrei a raccogliere le briciole che qualche volta  rimangono quando hanno tolto le bancarelle; se fosse una donna, me la sposerei anche senza dote e anche se non fosse bella e ricca e intelligente.
Purtroppo non so chi ne ha vietato la vendita anche nei negozi specializzati ed ho seri dubbi che ad una donna siffatta possa venire la voglia di venirsi ad accasare con me, che non sono bello, né ricco, né neanche tanto intelligente, visto la mia minchionaggine di non sapere comprare neanche un paia di occhiali meno appannati.
          
           Un po' di colpe , Caro Spaventa Mio, ce l'hai anche tu che mi hai lasciato senza neanche avvisarmi.
Hai voluto fare in fretta.
Non hai avuto fiducia nelle persone, non hai voluto darle la possibilità di ricredersi.
Se ti fossi degnato di scrivermi una cartolina postale e mettermi al corrente, sarei volato da te con le penne, con le parole, con i capelli cotonati.
Avrei portato delle majorettes con i tamburelli, le pajettes e le cosce all'aria.
Avremmo insieme deciso una strategia tra una fava abbrustolita e l'altra, tra un ditale di vino e l'altro, tra un stai zitto tu che adesso parlo io dell'uno e dell'altro.
Questa volta avremmo vinto, te lo garantisco.
L'altra volta c'era andata male perché tu ti eri fatto trovare dal quel fetente di maresciallo della Finanza senza camice e senza il cappellino salva igiene.
         Mandammo in giro il nostro caro compare Totonno con la sua trombetta da banditore a dirla lunga sulle bellezze della vita, nonostante la miseria e gli acciacchi.
 Ci mise il suo linguaggio colorito, la sua simpatia, la sua faccia tonda e solare.
Chiamava "Don" pure i ragazzini che frequentavano la seconda media, invitava ad andare a casa sua in caso di necessità a prendersi qualche prosciutto o forma di ricotta.
          Insomma giocava sulla capacità di essere leggeri anche di fronte alle cose toste che la nostra Calabria e i nostri comandanti italiani e locali ci davano.
Il motto  che "gira e rigira è sempre meglio a vita ca a morte " non era sbagliato ed era pure di facile presa.
Fece il giro delle bocche, non arrivò, però, né al cuore né alle teste.
Ci andò male.
Ci restasti male.
Perdesti la parola.
Non trovasti i soldi  per pagare la multa.
Non votasti  tu, non votarono in migliaia.
                Eppure  lo ricordi come fosti proprio tu a volerla quella petizione popolare e pubblica contro la morte e come convincesti i miei genitori sul mettermi in lizza: perché le cose o si fanno da giovani o si fanno che è troppo tardi  o si fanno mai.
Lo ricordi con quanto ardore riuscisti a vincere la loro naturale diffidenza e la loro  rassegnazione.
                         L'essere l'unico abbonato della Calabria Citra e zone limitrofe al Reader's Digest aveva giovato alla tua proverbiale parlantina, aveva aggiunto certe cazze di parole mai sentite e aveva dato una patente da guida di camion  rimorchiato ai tuoi argomenti.
E quando mio padre, in tutta la sua ingenuità, ti venne a chiedere tra un interstizio di silenzio che avevi lasciato per accenderti la sigaretta a chi e dove avremmo dovuto mandare quelle firme, non rispondesti.
Non sentisti perché quel fiammifero umido richiese tutta la tua attenzione e, forse, ti stavi già preparando un argomento ancora più convincente.
             Io ero come il ciuccio in mezzo ai suoni perché se poco capivo, altrettanto poco avevo i piedi per terra.
                                                         E poi andò a finire che non ci parlammo più, perché io continuai, non tanto per convinzione, ma perché ci avevo dato la parola, e tu ti sei appartato facendo credere a chi voleva già crederlo che ero quello che crede che l'asino vola.
Il loro successo fu netto e al di sopra di tutte le aspettative.
              Secondo l'opinione del mio amico Franco , che insieme  a me condivideva la lotta,  la  nostra sconfitta era da attribuire al fatto che delle tante donne che avevano delle mire su di lui come stallone da monta e delle poche che con me volevano fare quattro chiacchiere in privato, poche erano state soddisfatte
…e come si sa il loro voto vale due, tre e qualche volta anche cinque, visto come sanno farsi ascoltare dai mariti, dai figli e in alcuni casi anche dal proprio amante.
             Invece, io, te lo ripeto, dò la colpa anche un po' a te, perché non devi fare nemmeno tanto sforzo a ricordare tutta quella gente che venne sotto casa mia a manifestare la propria incontenibile gioia.
Tu non facesti in tempo a vedere, perché dopo avermi dato un'occhiata, l'ultima della nostra vita, ti chiudesti la porta  dietro le spalle.
        Se ti fossi fermato ancora un po', se avessi fatti altri dieci passi, facendoti largo tra la folla gaudente, avresti visto un povero cristo prendermi di mira con la fionda come fossi un passero su una spiga di grano, o una civetta portadisgrazie nel buco del muro di casa sua.
        Avresti sentito e non solo con le orecchie di come un'altra piagata si accaniva con tutto l'ardore delle parole e degli occhi che "il pezzo più grosso che doveva restare di me su questa terra doveva essere il lobo dell'orecchio".
Il resto, le mie gambe con i miei piedi storti, la mia lingua, il mio sesso doveva diventare più fine della cenere.
L'avresti sentita  meglio senza la  porta chiusa.
L'avresti vista paonazza, saltellante da una gamba all'altra: come una focosa indiana nella danza della pioggia, del tuono e del fulmine.
Quel fulmine, che mi avrebbe dovuto ridurre -seduta stante- cenere fine fine e orecchio, uno solo che vi troneggiava nel mezzo.      
         Non era tarantolata, non era figlia di Giove tonante, era madre di un figlio nato scemo, era, forse, una donna dell'analisi ridanciana del mio amico Franco.
                        Era devota e ci aveva una immaginetta di San Giorgio Martire che le ballonzolava sul collo.
Invocava la Madonna, la madre di tutti i figli, che "se mai in vita mia ti ho chiesto niente, questa grazia me la devi proprio fare sotto i miei occhi e senza neanche farmi aspettare domani o domani l'altro".
Dovevi vederla, Spaventa mio!
                                       Tu così scettico sulla cattiveria degli uomini e anche delle donne, tu così fragile da farti azzittire da una multa di sessantamila lire, le avresti dato torto perché ti avrebbe dato fastidio il tanto nominare invano i Santi.
 E, in special modo, non avresti tollerato che parlassero del tuo  San Francesco da Paola come se fosse il vicino di casa.
Quel santo a cui tu eri tanto devoto, perché, per aver osato  prendere a sassate una gallina dispettosa, comprata all'incanto della sua Festa del 24 Aprile, ti aveva punito facendoti rinsecchire un braccio.
Non ti  sarebbe piaciuta  proprio l'idea di piangere sulla bara di tuo figlio con dentro solo un orecchio e un mucchietto di cenere; quel tuo figlio col sorriso, che non si capiva se era minchioneria dalla nascita, o solidale compassione.
             Spaventa mio,  se tu avessi fatto quei dieci passi, magari dando spintoni, magari dando cazzotti con il tuo unico braccio, e fossi venuto a spiegarmi tutta quell'allegria, forse le cose della vita mia avrebbero preso un'altra piega.
Forse, a  quest'ora sarei ragioniere allo sportello di una banca tutta mia e godrei nel vedere il mio capitale lievitare, presterei soldi a tassi di usura; godrei ancora nel vedere il mio capitale lievitare; avrei sposato quella donna siffatta.
Sarei venuto sulla tua tomba a depositare ghirlande di garofani rossi.
Avrei meditato.
Avrei convenuto che chi nasce è destinato a morire.
Me ne sarei andato alla mia banca e ti avrei lasciato fino all'altra visita del 2 Novembre dell'anno successivo.

                        Hai preferito, invece, darmi quell'occhiata e chiuderti la porta dietro le spalle, lasciandomi la compassione e non la complicità.
Più solo io, più solo tu.
Senza  un figlio tu, senza un secondo padre io.
                  Comunque quel piccolo sforzo di scrivermi una cartolina per avvisarmi avresti potuto farlo.
Io, per quanto stava nelle mie possibilità, avrei cercato di trattenere la signora aggrappandomi alle sue vesti e magari, raccontandole aneddoti spiritosi sul sesso dei pesci e dei porci e degli angeli, farle sparire il suo libricino nero degli appuntamenti.     Invece hai voluto fare come fanno tutti.
Hai voluto piegarti alla volontà popolare .
Non hai voluto sperare che mano a mano gli uomini potessero capire che morire è la cosa più facile di questo mondo.
             Nella nostra nuova campagna elettorale avremmo martellato con manifesti e spot televisivi sui piaceri dell'olfatto e del gusto, sulla sensualità del tatto e per ultimo, ma non per questo meno importante, anche sulla bellezza che hanno udito e vista.
                            Insomma avremmo giocato sulla nostra realtà contadina che sa che in ogni stagione dell'anno c'è un frutto morbido o spinoso.
La nostra gente avrebbe capito.
Avrebbe votato in massa.
Avrebbe pure aiutato a consultare le pagine gialle, avrebbe scoperto su internet, sarebbe, magari, pure andata dall'Arcivescovo a chiedere l'indirizzo a cui mandare la petizione.
Invece …
Hai chiuso la porta.
Hai aspettato che io ne uscissi vivo con tutta la mia carcassa da quella masnada di innamorati della tradizione.
Ti sei lasciato cadere nelle braccia della malinconia silenziosa.
Hai disdetto il tuo abbonamento al Reader's Digest.
 Non hai più partecipato all'incanto di S.Francesco.
Non ci siamo visti mai più.  
               
               
              Hai voluto nella tasca (chi lo sa perché?) della tua ultima giacca quella poesia che avevo scritto appena dopo la sconfitta: dove  ce l'avevo con te e col mondo calabrese intero.
Ce l'avevo con la rassegnazione.
Forse ti piaceva vedere la mia faccia sul giornale e non importava se era mischiato al pruriginoso di donne descamisade di un ABC, con un Montale da Nobel che ce l'aveva con me ragazzino perché, a suo avviso, avevo pagato la giuria per beffarlo, arrivando primo e lasciandogli solo la misera consolazione di  una piccola medaglia di bronzo.
Tu che hai sempre saputo di quanta fatica mi è costato far diventare i soldi una lira, tu che mi rimproveravi la mia testa di cazzo moscio, ma intransigente, di non sapere usare neanche il mio sorriso per accattivarmi un voto alla causa.
Tu, voglio credere, non ci hai creduto neanche per un momento.
 E ci potrei mettere la mano sul fuoco: non hai nemmeno guardato le donne che la raccontavano lunga con i loro seni scoperti.
 E chissà con quali occhi l'hai letta?
Chissà se il tuo Reader's Digest ti ha aiutato a capirla?
               E se tu hai voluto portarti quel pezzettino di me per farti compagnia nella solitudine della tomba, io nel mio andare a zonzo tante volte ho trovato persone che avevano il tuo sorriso e tante altre che avevano  la tua stessa devozione  timorosa per San Francesco da Paola.
Alcune parlavano meglio e più di te: ci avevano gli argomenti, ci avevano gli aggettivi, ci avevano la pronuncia.
Nessuna persona, però, è  riuscita neanche lontanamente ad essere come te, il cinicamente candido Spaventa… il mio Spaventa.
Ora, a trenta  anni di tempo  e di distanza  ho trovato le parole per portarti dalle viscere alla testa, dalla testa alle dita e dalle dita alla carta.
Ora, da questa umida Lombardia con i cieli corti:
spogliato come un albero nei miei ricci,  nei miei sorrisi, nei miei entusiasmi.
Orfano di padre naturale.
Via pure compare Totonno.
Falcidiati gli zii.
Via Giorgio Berardi.
Lontano da Giacinto e da Rocco e da Gianni e da Franco
Inconsolabile senza la mamma.
Ora...
Ora sono in trattative.
Gira e rigira ho trovato le persone giuste:
quelle che contano,
quelle che, come diceva mia madre, a furia di mettersi dei peli sullo stomaco lo hanno perso e viaggiano con il cuore matematico e il portafogli pieno.
Insomma con loro, forse,  inizierò una nuova crociata e...  

Hanno già cantato
            uomini dalla voce rauca
imbottiti di vino fino alle croste del naso
vecchi canti di montagna,
blues senza titolo
dalle frasi sparse.
             Uomini dalle mani dure
Senza sorrisi nel giorno,
lascivi e creduloni la sera .
            E l'oste è un uomo sottile
relegato a San Francesco in devozione;
è uno che aggiunge dell'acqua al vino
con umiltà e rispetto
delle leggi dell'economia.

Hanno già cantato,
fra ragnatele di fumo di trinciato forte
lanciato senza cura
sui raggi della lampada.
            Anche il vecchio dall'ernia
si è lasciato trascinare;
si è fiaccato la schiena
fino a farsi uscire quell'ingombro
fra le gambe
e ora i nipoti
non vogliono ascoltarlo.

           Hanno già cantato
toni  acuti e bassi e stonati,
vecchi canti di montagna
blues senza titolo
     dalle frasi sparse.           
 -Tratto da "Altre storie di uomini, di alcune donne e di molte bestie" Ed.Galasso-

Il  cesso…come l'acqua calda                                                                                             
Il cesso fino ai miei tredici, quattordici anni è stato una campagna a mezza costa chiamata "a Scifuel".
L'altra mezza costa apparteneva ad uno che l'aveva recintata con un filo spinato spinato, tenendoci i fichi rossi e polposi come un miraggio, in lontananza.
Qualcuno attribuiva l'abbondanza e la loro prelibatezza unica al concime naturale che giorno dopo giorno ci andava lasciando.
E se qualcun altro gli faceva notare che le piante erano sulla salita ed era improbabile che le sue feci ci avessero le gambe o qualche altra virtù che le permettessero di invertire le leggi della fisica, o si limitava a guardare perplesso, o, con la più grande faccia tosta, rispondeva che poteva pure essere così come diceva lui, ma comunque…
               La carta igienica erano dei sassi che non sbaglio se dico che erano un bene di tutti e non erano neanche tanti; e quindi li si usava più volte e in più persone.
La speranza era che qualche acquazzone venisse a lavarli, altrimenti ci si arrangiava possibilmente senza guardare e andare troppo per il sottile.
              Molte donne non ci venivano: preferivano scaricarsi dentro ad un pitale smaltato e  mandare i figli a rovesciarlo.
Poche -per fortuna- non ci pensavano due volte e neanche stavano a guardare se qualcuno passava, lo svuotavano dalla finestra.
Naturalmente dopo aver miscelato  con una certa maestria nelle rotazioni  il contenuto: per far diventare meno solida la parte liquida e meno liquida la parte solida.
      Alcune, invece, non facevano tante moine, sarà perché non avevano figli da mandare a fare il servizio.
Sarà perché non sapevano dare l'orario giusto all'intestino (in genere era dalle venti alle ventuno… a meno che non si avesse la diarrea).
Sarà perché non ci trovavano assolutamente niente di male a stare a distanza di una diecina di metri da un uomo, oppure due, o anche tre, con i pantaloni arrotolati sulle cosce e con lo sguardo serafico di chi fa una cosa così tanto naturale.
Altre, e non erano poche, stavano aspettando che arrivasse il giorno del mercato e di racimolare qualche uovo in più da quelle fetenti di galline per barattarle con quell'oggetto smaltato da mettere sotto il letto per la bisogna.
Nel frattempo, anche loro erano costrette a condividere, magari nascondendosi il più possibile dietro un tronco di ulivo; e magari si portavano pure quel pezzo di carta che avevano risparmiato nell'accendere il fuoco.
                
       Insomma non mi sembra di esagerare più di tanto se affermo che la Scifuel è stato il luogo di incontro di tante generazioni, dove ci si facevano tante belle chiacchierate, ci si confidava sulla propria stitichezza, sul lavoro che non c'era, sull'acqua che non arrivava, su Andreotti.  
Alcuni, sia uomini che donne, ci andavano in gruppo (al massimo composto da tre persone) e  il più delle volte era sempre lo stesso.
                          Anch'io facevo così: ci davamo una voce, ossia una volta andavo io a chiamare loro, un'altra volta erano loro a chiamare me e ci avviavamo: qualcuno stringendosi nelle gambe perché ce l'aveva prossima prossima, qualcun altro che lo seguiva con minore urgenza e qualcun altro adeguandosi, come si fa tra amici.
        Naturalmente era una conclusione a cui ero arrivato da solo, in quanto mi era capitato più di una volta che ci ero andato a casaccio o col primo venuto, e me ne ero tornato stomacato perché il tutto si svolgeva come la più banale e solitaria delle evacuazioni.
 Infatti,  era solo un andare di corpo e di aria tonante, con gli occhi strizzati dalle palpebre e qualche mugugno sulle cicorie e fave che erano diventate come  calcinacci, e non volevano saperne di uscire.
         
                             Quando la compagnia era giusta era meglio che essere in cantina o al Bar Novecento con nessuna fretta o timore che qualcuno ti potesse guardare in malo modo o addirittura cacciarti via, come, invece, succedeva in quei posti, se non consumavi.
                    Se pioveva sembravamo tanti funghi con l'ombrello nero, gli uomini e anche le donne, perché non erano ancora in commercio quelli colorati, almeno dalle nostre parti.
                    D'estate era una continua lotta con le mosche  e non solo di quelle solite che già di per sé sono fastidiose ed antipatiche, ma di  altre ancora: più tozze,con una certa leggera venatura rossastra, più testarde  e soprattutto più pizzicose, pure più pizzicose nelle parti più tenere.
    Se nevicava, si ripeteva sempre lo stesso ritornello sull'accidenti di freddo; sull'adesso, avendocelo, sarebbe stato buono ammazzare il maiale; e, ridendo, che: " gli stronzi si sarebbero visti solo dopo la squagliatura della neve ".
               Insomma la Scifuel era per molti di noi come una seconda casa e senz'altro pure più arieggiata e pure più intima della prima perché, oltre a far spaziare lo sguardo tra le fronde degli ulivi seguendo il gioco leggero delle nuvole e del chiaro e dei nostri pensieri, ci si acuiva lo spirito di osservazione, notando quello che in posizione normale non si sarebbe mai visto: per esempio, se c'era un nido di cardellini da quelle parti, oppure come fanno l'amore le lucertole e tanto altro ancora anche sugli uomini del nostro bel vicolo.
                      Di questi, ce n'erano alcuni che avevano le idee confuse e si liberavano non solo corporeamente, ma anche della loro decenza; insomma, lasciavano a casa i loro freni inibitori e parlavano delle loro paure dei topi e consimili,  da grande minchione dei loro dubbi sulla propria potenza virile, e qualcuno dei più fessi anche dei suoi sospetti  fondati sulla fedeltà della moglie.
                         Ed era peggio che averci fatto un comizio nella Piazza del Borgo, dopo aver fatto centinaia di volte il giro con la macchina megafonata ad annunciarlo, perché le voci maligne sui suoi attributi poco adeguati o magari adeguati affatto facevano il giro delle vie di tutta la Fontanella.
 Si fermavano nei capannelli di persone della Piazzetta della Madonna, ripartivano  con qualche aggiunta in discesa per il Corso Giannettasio.
E dopo aver toccato Carfizi, risalivano per la Barisana e si diffondevano come una gran-cassa grancassa  nel rione San Pietro  e in quello San Rocco, che si trovano in linea d'aria dall'altra parte della collina.
Vicolo dopo vicolo, piazzetta dopo piazza fermentavano come il mosto nei tini  e così i suoi dubbi erano diventati delle certezze e qualcos'altro ancora.
         Per farla corta, lo sventurato,che si era sbracato anima e corpo, aveva perso del tutto i suoi attributi: era oramai ridotto ad una femminuccia, nonostante quelle spalle da groppa di mulo che si ritrovava.
       Poteva pure andare a finire che, superato quel piccolo momento di apatia, riuscisse ad avere una diecina di figli, ma tanto  la frittata era già fatta: lui era fottuto, e insieme a lui era fottuta tutta la sua settima generazione maschile.
                   Insomma non c'era possibilità di riscatto… erano marchiati come le pecore, come le capre, come quelli che hanno avuto la sventura di nascere nei sud  poveri del mondo.       
                                                              Sulle corna poteva andare leggermente meglio perché, come suggerisce il mio grande compare Ciccio Caruso, non appena cominciano a cespugliare anche nelle lingue delle comari (donne e uomini) si può cambiare paese, e se ti cornifica ancora, si cambia un'altra volta, e così fino a quando si arriva alla serena vecchiaia e alla pace dei  sensi …di lei.
Il difficile è solo abituarsi all'idea che nella vita non sempre si può essere sedentari.
                               In alcuni casi e solo in alcuni casi, anche al cornuto sedentario   poteva andare leggermente meglio, nel senso che imparava a rispettare i turni, e non appena vedeva nella moglie gli occhi da agnella illanguidita, e averci una morbida cura nel lisciarsi il vestito e, quasi per caso, trovata una mollica di pane prenderla sognante tra pollice e indice e farla cadere a terra, -dolce dolce come  fosse un fiocco di neve- capiva che era il momento di sellare l'asina e andare in campagna ad abbeverare le galline, che  avevano tanto bisogno di acqua e di compagnia.
                A lui toccava l'altro turno, quello delle sere di tutti giorni in cui non si festeggiava né un battesimo, né un matrimonio, né l'arrivo della pioggia salva raccolto.
E allora erano le parole smozzicate delle  cene, i silenzi, il batti batti delle gocce sulle tegole, il rito del poggiare i vestiti sulla sedia e prepararsi al sonno ristoratore, recupera forze, annulla pensieri.  
Il suo turno era  tra le coperte e con la luce spenta dove, quando era compassionevole, o in buona vena, o con qualche bicchiere nella testa, gli poteva pure fare l'elemosina di una cosina svelta svelta, "così ti giri dall'altra parte e dormi, perché domani è un'altra giornata e ti devi alzare prima del canto del gallo".     
      In qualsiasi caso al cornuto, sedentario o peregrino,  andava sempre leggermente meglio dei non dotati o ritenuti tali, perché la colpa al novantanove virgola nove per cento era attribuita senza possibilità di sbagliarsi a quella zoccola senza vergogne della moglie.
Lui era solo una vittima.
Pure se ci aveva quel gran brutto vizio di bere.
Pure se ci aveva l'ubriacatura cattiva.
Pure se era taccagno di quelli che non mangiano per non cagare.
Pure se l'aveva sposata quando ancora non l'aveva mai vista in vita sua, e  in cambio aveva dato una vacca al futuro suocero…
pure così: lui era solo una vittima di quella zoccola senza vergogne della moglie.
 Queste così dette zoccole, per fortuna, però, era raro che soccombessero.
  Di nessuna, infatti, ho mai saputo di suicidio o altri accidenti che capitano o si fanno capitare quelli che vivono nel peccato capitale del prurito della carne e nella debolezza di cederle.
Anzi, quelle che conoscevo io erano tutte abbastanza tracagnottelle, rosee, pettinate bene, ben fornite di tette e, chi lo sa perché, di una dentatura  bianca e perfetta.
           Quando camminavano ci avevano un certo non so che da gallina padovana e come questa, che  non si alza in volo neanche quando è minacciata da vicino, così loro andavano con quelle protuberanze e lo sguardo altero  sfondando l'aria e pure i malevoli pensieri, anche quelli appena ammiccati.
Insomma da agnelle erano diventate lupe.                      
             Io passai per pazzo, quando in pubblica piazza e con microfono, proposi di candidare da sindaco quella che a me sembrava  fornita oltretutto anche  di lingua.
 Argomentai alla mia maniera sulle nostre tante necessità di paese del sud profondo, sulle non buone capacità dimostrate dai nostri precedenti amministratori di non sapere neanche farsi i cazzi loro.
          La misi anche sotto il profilo estetico, facendo risaltare la bellezza  in più che un pacchetto-regalo ha, se è legato da uno spago colorato ed ha un fiocchetto a forma di fiore.
I tanti papabili candidati non si sentirono offesi nella loro vanità, non mi ruppero la faccia e le corna, ma nemmeno diedero segni di assenso.
Mi andai a ficcare nel discorso sull'inversione.
Su quello, tanto per intenderci alla buona, che dal male può nascere il bene, dal pianto una risata, dalla merda un fiore, dal pazzo il sano, l'utile e il dilettevole.
        Andò a finire che mi capirono solo quelli della mia Fontanella e riuscimmo a strappare che una donna di queste così dette diventasse il Presidente del  Nostro Quartiere.
 Fu una conquista per noi e per  l'intera Calabria Citra e limitrofe zone, perché  noi imparammo a convivere con  le battutine pesanti degli altri nostri beneamati paesani sulle nostre qualità virili per non sapere trovare neanche un uomo fornito di pantaloni e voce grossa, o melliflua, o, a seconda dell'arroganza del padrone di turno, genuflessa.
Loro scoprirono che le donne sapevano mettere al mondo figli e cucinare e chiacchierare, ma anche  vedere e parlare e  lungimirante pensare e muoversi con la destrezza delle faine, con la grazia delle farfalle, con le palle dei tori.
         E furono cazzi loro, intendo di Sindaco e Amministratori e pure di Don Questo e Don Quello, perché non c'era giorno che non si presentasse pettoruta, risoluta, plateale, ferrata di parole e di faccia tosta in Comune.
     E se non li trovava, neanche ci pensava a dichiararsi sconfitta, ma pettoruta, risoluta, plateale, ferrata di parole e di faccia tosta andava a  stanarli a casa loro.
Ottenne che a noi, per primi, ci misero la corrente elettrica.
Poi cominciarono a spaccare dappertutto per metterci le condutture dell'acqua e, giacché  c'erano, ci piazzarono accanto  pure i tubi delle fogne.
                                                L'acqua, allora come adesso, ci arriva con il contagocce e in orari certe volte prestabiliti e certe volte no, il cesso, invece è diventato il locale più bello della nostra casa.
                                         Io non mi sono ancora arreso e se faranno Sindaco chi adesso non dico (e le prospettive sono buone), le sussurrerò nell'orecchio di fare della Scifuel un parco con panchine e fontane e zampilli, con uno stronzo finto oro  a mò di statua  nel mezzo a perenne ricordo dell'età degli odori e della chiacchiera.  

Una concitata palpata
Non ricordo che notte di Natale fosse, ma certamente ne è passata di acqua sotto i ponti.
Quello che è certo che la cerimonia era stata la stessa di sempre: con la chiesa gremita, con la gente vestita a festa, con Filomena che intonava, con il prete che ci aveva le parole migliori, con il lancio beneaugurante dei passeri, o di chissà quali altri sventurati di uccelli, non appena rintoccata la mezzanotte.
Ci baciammo.
Ci augurammo.
Ce ne andammo.
Io, e non mi è mai passata questa malattia, come in tutte le cerimonie, ci avevo anche quella notte la stessa malinconia sottile, un vestito leggero e nessuna voglia di andare a dormire.
Allora me la presi per le lunghe saltellando dietro a quelli che mi potevano regalare, o almeno prestare un po' di allegria. E fu così che appena orecchiai un gruppo di persone che non avevano le solite frasi dolciastre che i miei compaesani hanno in queste occasioni, mi misi a seguirlo.
Erano tre donne, avanti di quattro o cinque passi, e due uomini che conoscevo tosti, cafoni dalla punta dei piedi alla cima dei capelli, vestiti di fustagno marrone e coppola.
Le donne sgambettavano corto e veloce con il loro fazzolettino reggipudore e paraorecchie.
Gli uomini avanzavano quasi affondando gli scarponi sulla strada di sassi e terra battuta.
Le donne parlottavano concitate.
Gli uomini rasentavano i muri, cadenzati e silenziosi nel loro incedere da ronda.
A vederli così sembrava una di quelle tante compagnie di calabresi di una volta, e forse anche di adesso, in cui alle donne è riservato il ruolo di avere la lingua un po' più lunga e agli uomini quello di lasciargliela, ascoltando in lontananza e talvolta annuendo e molte altre volte guardando col cipiglio storto.
Insomma, niente di strano da queste parti.
Invece il più tosto dei due si poggiò sulla punta dei piedi, inarcò le spalle e volò con le mani sul collo della sventurata di mezzo.
Fu un attimo e quello che sentii fu un gridare da galline strozzate delle due scostate di lato… un tramestio… un che cazzo fai dell'altro uomo.
Quello che vidi, invece, fu il bacio più appassionato e il più perduto: come quelli che i cormorani danno ai pesci, o meglio sarebbe dire il contrario, qualora fosse possibile, perché Francesco si tuffò sulla bocca di lei come se volesse entrarci dentro e sparirci una volta per tutte e non se ne parlasse più.
Lo presero per il collo del cappotto.
Lo afferrarono per le spalle.
Cercarono di alzarlo di peso abbracciandolo dal petto.
Gli gridarono con tutto l'ardore del momento aggettivi cattivi.
Ci fu pure chi pensò di dargli una sassata sulla testa debosciata.
Poi, però, non se ne fece niente, perché come tutti quelli che vanno in apnea e dopo debbono prendere aria, si staccò da quelle labbra, ci guardò con il più stralunato degli sguardi e si allontanò a galoppo.
Quando riuscirono a prenderlo gliela chiesero a manganellate una spiegazione.
Fecero intervenire la madre con le sue lacrime.
Si prese un paio di calci dal padre davanti a carabinieri e maresciallo.
Gli misero davanti la sventurata tremante.
Lui sollevò la testa lentamente, la guardò come se non l'avesse mai vista in vita sua, le afferrò dolcemente la mano sinistra, se la portò nel palmo della sua, con il dito medio le accarezzò tutte le unghia e disse "grazie".
Non ci fu verso di tirargli altro né dalla bocca, né dai gesti.
Fu condannato a tre mesi di carcere.
Se li scontò.
Quando ritornò, riprese le sue pecore, le sue capre; divenne inseparabile di un cane spelacchiato.
In paese ci ritornava nelle feste santificate, si aggirava pacifico tra le bancarelle di noccioline e palloncini gonfiabili, scambiando qualche parola di poco conto con chi lo avvicinava.
Non partecipò né a matrimoni, né a funerali, né tanto meno a comizi elettorali.
Non lo si vide mai più in Chiesa.
Qualcuno azzardò l'ipotesi che per lui era come andare all'osteria: dove ci si ubriaca e si è tutti allegri e ci si vuole tutti un bene dell'anima, almeno fino a quando ci hanno l'ubriacatura allegra, o non c'è qualcuno che, bevuto o non bevuto sempre stronzo è, comincia a sfotterti su figli o peggio ancora sulla moglie.
Insomma a lui, quell'ascoltare le parole tonanti del prete così buone sulla bontà, sul vogliamoci tutti bene, gli faceva venire una dolce dolcezza che, se non poteva essere sfogata seduta stante perché si era in un luogo così santo, non poteva essere rimandata più di tanto.
La sventurata, per farla breve, non era quella sulla quale aveva appuntato le mire e neanche quella che ci poteva avere una camminata prudimano, ma solo la prima che gli era capitata a tiro.

La morte terrona
…ma il giorno dell'ultimo giorno di scuola se n'era venuto cristallino, senza cartella e grembiule: più leggeri di così era la farfalla e quando si ammazzava il porco, che quella sì era una gioia che non stava nella pelle.
Insomma era andare a scuola tanto per, perché anche il maestro don Achille aveva lasciato la bacchetta -raddrizza ossa e intelligenza- a casa.
E le rondini facevano estate a volo radente sui fili della luce.
E comare Elvira aveva messo ad asciugare i panni.
E compare Francesco faceva montare la ciuccia, anche se non era stagione.
E compare Antonio che, accompagnato dalla sua trombetta, la diceva allegro che in Piazza del Borgo il pesce era regalato …quasi.
Si lamentava, invece comare Antonietta, perché un dolore così non l'avrebbe augurata neanche al peggior nemico, "che, se volete, salutatemi oggi, perché non so proprio se ci vedremo ancora domani". E adesso non so se è importante dire che dopo trent'anni e passa è ancora seduta là col suo vestito da pacchiana sul crocevia dei tre vicoli della Fontanella col suo tumore nella pancia e la stessa voglia di chiedere e dare addii con tanta afflizione da stringermi l'anima.
Ma non vorrei perdere tempo, perché c'è Giorgio che gironzola nella stanza e mi aspetta come la fidanzata il giorno della presentazione ufficiale alla famiglia riunita, con il suo grembiule nero con la V di quinta elementare ricamato dalla madre e il sorriso negli occhi.
E Giorgio ha gli occhi più buoni del mondo…due castagne che navigano in un mare d'azzurro.
…E mamma mia che odore aveva la casa di Giorgio, che ad ottobre erano ciliegie e a maggio pomi agostini, perché era come se le cose, appena entrate in quell'umidità, si spogliassero della loro fragranza e rimanessero con il vestito del companatico da tenere nascosto per chissà quali tempi peggiori.
Era la Calabria brutia con l'abito malinconico.
La tendenza al funereo.
Lo scialle nero.
I vicoli dimenticati dalle serenate, dove la morte era come la vita, con la sola aggiunta che -fra l'altro- bisognava pure buttarci il sangue e aspettare.
Tra un silenzio e l'altro.
Tra un figlio e l'altro.
Carne della carne mia, nutrita dal sole, cantata da un miliardo di cicale, accarezzata dalla meraviglia della scoperta dell'acqua che sgorgava dalla terra, in una ricreazione di terza elementare.
L'anima brutia, le radici, le piastrine del mio sangue che venivano a farmi suo.
Feritoia da cui guardare il mondo lontano, che cammina come un uomo dalle spalle larghe, in faccia al sole e con il cipiglio di chi sa dove andare.
Casolare vicino a casolare sul cucuzzolo di un monte.
A ridosso di una collina di rocce.
Protetta dai Saraceni, orde di barbari, con gli occhi rossi, che vengono e squartano e bruciano e allontanano dalla marina, e ti fanno venire la paura che la mano sinistra non sa quello che fa la destra.
Fino a che sei tutto una diffidenza della tua ombra.
…ma Giorgio sorrideva e si andava all'ultimo giorno di scuola.
E si tornava due ragazzi intelligenti, con la prima soddisfazione vera e un diploma sotto il braccio.
Con quel grembiule che non si cacciava mai e gli occhi come due castagne in un mare d'azzurro.
Quando gli anni passarono, in molti raccontarono che il suo sangue si era fatto acqua sporca.
Gli erano venuti dei nei sulla faccia, come un pallone colorato, e i capelli erano diventati secchi come le spighe di grano a luglio.
Giorgio seduto sui gradini della Posta e Telegrafo.
E nessuno ci parla.
Il mondo in salute passa, guarda e non vede.
Giorgio mio si serra nelle spalle, quasi a volerci ficcare la testa pesante, la vergogna che non sa dire, che non può dire.
Con gli occhi che erano diventati due papere che navigano in una pozzanghera.
La morte arrivò la sera prima.
Era una bella donna con i capelli a corona, come a dire con due trecce: una da destra e una da sinistra della testa che, girate con una certa accortezza, venivano a formare una specie di cestino, che era buono per portare una cesta di pietre o un paniere con il figlio in fasce.
Era la morte e non era cattiva.
Non mostrava i denti.
Non era secca.
Non faceva bau ba.
Non puzzava di secoli.
Era come una buona comare che viene a chiederti di scaldare le lenticchie nel tuo caminetto, con tante scuse e che Dio te ne renda merito.
Giorgio mio, povero Giorgio mio!
Io non c'ero.
Io non l'ho incontrata.
Se l' ho vista, non l' ho riconosciuta perché, con quella sua aria da matrona, somigliava a Donna Eugenia: quella con la quale nessuno ci ha mai parlato e sa tutto di tutti.
Solo una volta, forse: sarà perché era pomeriggio veramente Oriolo di Calabria, di sole ammazzauomini, scoppiacicale.
Io passavo e lei era un falchetto tra le inferriate.
E io ci avevo la falcata di una lucertola, la stessa mancanza di forze, una spossatezza di "lasciatemi qua che è bello come una pancia di mamma, come una dormita lunghissima e lontana".
Giorgio mio...
E la commozione fu tanta, perché morire a vent'anni non se lo spiegano neanche i preti, nonostante la loro sapienza di secoli su questo ed altro sulle ingiustizie sugli uomini e sulle donne e sui bambini.
E c'era Vincenzo che voleva denunziare Gesù Cristo, ma non sapeva dove mandargli l'avviso.
E poi c'era comare Rosa che: "ognuno ha il Dio che si merita, e il Nostro è quello che senz'altro ha meno voce in capitolo".
Il medico Don Giacinto se ne stava con le braccia conserte e la bocca serrata, perché non lo poteva raccontare a nessuno che bastava una semplice trasfusione e adesso il mio Giorgio sarebbe il buon meccanico che stava per diventare.
Io…io avrei voluto prenderlo in braccio e metterlo sulle sue gambe, ma non mi veniva altro che piangere e avevo una gran voglia di fumare una sigaretta.


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