Poesie di Guglielmo Aprile


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La scoperta del fuoco

 

Esilio
Ho a lungo senza memoria dormito
all’ombra delle tue ciglia, che tramano
su sabbie d’ambra melodiosi portici
e mobili archi di palme, e in un golfo
di placide acque speziate si specchiano;
e nel folto dei loro rami ho visto
il colibrì dal festoso piumaggio
tuffarsi e fare il suo nido, impazzito
dei colori dell’iris che stordiscono,
e la sua voce ho udito, che ricorda
il flauto d’onde della tua risata;
ubriaco non di vino ma di baci,
ho fatto naufragio sulla tua pelle,
spiaggia non menzionata non citata
su miopi mappe su sbadati atlanti.
 

Da un’altra e più meravigliosa stella
tu non somigli al mondo
ma alle fragole, tu nata dal sogno
di una nuvola, a immagine sei fatta
di un’isola non ancora scoperta:
tu vieni da oltremare
e mi porti una musica
di palme che la carezza dorata
degli alisei a lungo culla, le figi
perdute nello zaffiro, e il bagliore
che si intravede al largo
delle grandi onde e chiama a un’altra vita.
 

Indie amorose
Appena sveglia, spettinata e nuda,
sei una frontiera ancora da violare,
ed evochi il miraggio
di un nuovo continente
sulle lenzuola umide e sgualcite,
e delle sue coste sfocate e intatte:
rotte incerte e rischiose
verso indie di tigri e di fragranze,
mussola e gelsomino, lo smeraldo
e le febbri, lusinga
di spezie e di gioielli; e navigare
il tuo corpo vorrei come se fosse
un paesaggio di arcani
e di delizie; e il firmamento cieco
in sella alla tua bocca
cavalcherei fino a che da una nuvola
sarei sbalzato giù, precipitato
sul fondo del burrone
del letto vuoto.
 

Disgelo
mi sfiora a volte il dubbio
che tu non sia reale; ma accarezzo
la rosa del tuo viso, e sui loro assi
rientrano in zelante corteo gli astri.

tu apostola del glicine e del suo
primo annunciarsi da un cancello a marzo,
e testimone che oltre i cornicioni
una patria delle farfalle esiste,

tu porti l’arcobaleno nei vicoli,
e balli sotto la pioggia d’estate;
sei il disgelo del sangue:

dai il suo turgore il suo luccichio al grappolo,
dai con lo sguardo il tempo
alle maree che danzano, e ogni minimo

cenno delle tue ciglia fa da perno
alla ruota degli alisei, da bussola
alla corsa sbandata delle nuvole.
 

Rabdomanzia
tu passi e stillano acque
dalla pietra del mondo, che guariscono
chiunque ne beva, tu conosci le arti
della rabdomanzia; sfiori il suolo arido
e mette gemme il mandorlo all’istante
e dai roveti una voce, la tua,
ora si è alzata e incomincia a cantare
e sui terreni spaccati una pioggia
tiepida scende inaspettata, e i muri
delle strade che erano muti e grigi
d’improvviso si ammantano di petali,
hanno imparato a parlare e pronunciano
oracoli, quando tu li attraversi
quasi volando sull’asfalto, lieve
come seta che scorre sulla pelle.
 

Ambasciatrice dell’arcobaleno
tu col tuo passo l’asfalto dissemini
di stelle marine, tu hai il dono
se ridi o taci di far germogliare
il corallo all’istante, in tutti i luoghi
in cui ti manifesti; entri nei vicoli
con una spiga nella mano, e spargi
coriandoli nelle cloache e porgi
ai mendicanti una tazza di laudano
e narri a chi è accasciato in un portone
l’epopea del ciliegio; ti fa strada
l’arcobaleno, ti porta per mano,
ti scortano legioni di farfalle,
ti viene in scia il vento dell’estate;
e ogni cosa su cui posi lo sguardo
sorride di rugiada e sembra palpiti
di piume innumerevoli, dorate.
 

La promessa della rugiada
le insegne del miracolo tu porti,
uno stemma turchese
con sopra ricamata a fili d’oro
la mappa di cassiopea, quando scendi
nei sobborghi degli atei,
nei ghetti in cui è proibito
il nome pronunciare dell’estate,
e ovunque un coro di merli ti annunci;
e se socchiudi le palpebre o rivolgi
in su o di lato lo sguardo dimostri
che la profezia del papavero
non è del tutto falsa; e se sorridi
provi che non è bugiarda l’estate
e dai, se solo parli, compimento
alla promessa che giorno per giorno
la rugiada rinnova su ogni prato.
 

La prova dei miracoli
tu bussola delle comete,
agli alisei la rotta indichi in base
al movimento delle tue pupille,
tu orienti gli uccelli che stanno
per migrare e spalanchi loro
il sud dalle indolenti dorate
frontiere, mentre io
assisto ad ogni tuo minimo gesto,
privilegiato e unico spettatore
stupito come di fronte a un miracolo
ininterrotto, arrivo ormai a crederti
depositaria di poteri magici:

fai pure le acque basse degli stagni,
converti il sangue in rubino, in conchiglie
le spine che incoronano
la fronte al mondo, fai ogni cosa buona.
 

Da dove viene il fuoco
mi immergo nella tua bocca ed è come
se entrassi in una grotta:
dalle sue ombre estraggo
la scintilla che è madre di ogni incendio,

e apprendo bacio su bacio la formula
che innesca la combustione dei fulmini
e fa le stelle bruciare e i vulcani,
e palpita negli uragani e in danza

li conduce ebbri, e dà
al corallo e alla rosa il loro fuoco,
e tempra la pupilla del rubino.

la pietra d’oro dell’estate canta,
il rosso verbo che parla nell’alba
sussurra il mio nome sulle tue labbra.
 

Mongolfiera
io e te insieme voliamo,
spieghiamo i nostri baci così in alto
da non fare più ombra sull’asfalto,
spariti da tutti i quadranti,

scivoliamo per mano
sui roghi che cospargono le strade,
i cavi dell’alta tensione
oltrepassiamo indenni,

i cornicioni il loro artiglio allungano
per ghermirci
ma nemmeno ci sfiorano,
i complici venti ci portano:

nuvole i nostri corpi
e ali le labbra, fili che allentiamo
di una mongolfiera, invisibile

o quasi dalla folla priva di occhi,
a stento la riconosce un bambino:
punta il dito a un minuscolo
fiore di carta lassù ma pochi attimi
e senza lasciare scia
è già dissolto, o forse si è nascosto

dove l’azzurro è più profondo e limpido.
 

Ogni momento è festa
chi ti ha inventata merita
il Nobel per le favole.
ti pettini allo specchio, e in mezzo ai rami
impazziscono i passeri,
l’aria al primo mattino torna limpida;
parli, e nella tua voce
c’è la promessa di ogni primavera,
e fingono i tuoi gesti
feste sfarzose e giochi
nel palazzo di cnosso; e la tua mimica
passa in rassegna la storia del circo
e del suo malinconico mistero:
sospende per qualche secondo,
tra i piatti da lavare
e le nuvole, il palco di un teatro
improvvisato, ai margini
del ghetto degli zingari, su cui
figure in costume balenano
di bizzarri animali, e fa il suo numero
una compagnia di artisti bambini.

È a vederti già festa, guarigione,
è il sole che accarezza
le sbarre di una prigione.
 

Danza delle tue mani
Nel parlare, spesso agiti le mani
in una estrosa e variopinta mimica;
mi fai pensare a un circo
sospeso a mezz’aria, alle strade
nei giorni del carnevale a New orleans,
ai paesaggi di Zanzibar: s’incantano
stupefatti a fissarti in questa camera
lo specchio e le ante dell’armadio e il letto,
e l’autunno interrompe
il suo soliloquio monotono
contro i vetri, il suo lungo lacrimare;
scosse da una brivido euforico elettrico
scoccano lampi le tue mani:
danzano fanno festa
a un qualche dio diverso da ogni altro –
un dio forse un po’ matto, mai imbronciato,
che va in giro in abiti da pagliaccio,
e che solo i bambini e le cicale
riconoscono quando il corteo ubriaco
dei tuoi gesti lo evoca, e il suo passo
tempesta l’aria di luci di giostre
e coriandoli ed elargisce grazie
senza risparmio scivolando lieve
lungo le strade dalle grigie facce.
 

Del mondo fai un roseto
Ho imparato, da quando le tue labbra
fiorirono sulla pietraia
arida delle mie notti, a pregare
ad amare anche il vento, anche lo scempio
che fanno i suoi primi branchi affamati
scesi da nord a settembre infierendo
sul mandorlo mansueto e saccheggiandone
i ricchi regni: basta che sorridi,
e istituisci un sacramento a un buffo
dio della gioia; un tuo cenno, e converti
scettiche folle di uccelli dispersi
al verbo che il cavaliere dell’est
annuncia quando dalle nebbie emerge
e nella sua armatura tempestata
di papaveri avanza; ora ho le prove:
il cielo non è vuoto, e sono cigni
a solcarlo mentre mi parli; e il mondo
si fa tutto un roseto, da cui odo
il canto di un colibrì, la tua voce,
dal folto delle ombre alzarsi e giungermi.
 

 



 

Questa raccolta si snoda intorno a un unico filo
conduttore, perseguito con coerenza tanto a livello
tematico che stilistico: il rapporto dell’uomo con gli
alberi, esplorato nei suoi ramificati legami con il
mito e con la storia delle religioni, si fa spunto per
un viaggio lirico nell’universo vegetale, alla ricerca
di un’intima comunione tra l’io e lo spirito vivente
che pervade boschi e campagne e che in foglie,
radici e fili d’erba palpita.
Gli alberi si elevano così a confidenti fraterni
e privilegiati, complici di un’avventura esistenziale,
testimoni di un dialogo accorato, colmo di
nostalgia e deferenza, che l’anima intrattiene con
i rappresentanti della loro famiglia: camminando
in luoghi appartati, la loro presenza può ancora
dare l’illusione di essere vicini ad epifanie e rivelazioni,        
resuscitando almeno in parte il sentimento
primordiale di una consonanza profonda
tra l’individuo e la natura.


Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel 1978. Attualmente
vive ad Ischia, dove si è trasferito per lavoro. È stato
autore di alcune raccolte di poesia, tra le quali Il dio che vaga
col vento (2008), Nessun mattino sarà mai l’ultimo (2008),
L’assedio di Famagosta (2015); Il talento dell’equilibrista
(2018); Elleboro (2019); Il giardiniere cieco (2019); Falò di
carnevale (2021); Il sentiero del polline (2021); Thanatophobia
(2021); per la saggistica, ha collaborato con alcune riviste
con studi su D’Annunzio, Luzi, Boccaccio e Marino, oltre che
sulla poesia del Novecento.
 

                         Guglielmo Aprile

QUANDO GLI ALBERI  
ERANO MIEI FRATELLI

                      

Tabula Fati


Quando gli alberi erano miei fratelli

 

Un albero mi ha parlato
 

La forza dell’olivo (I)
Guardalo, questo olivo: così magro,
tenere le sue braccia, da fanciullo,
eppure salde, che sembrano tese
al cielo a tenerlo su, loro sole.
E le radici, con quale tenacia
avvinghiate alla roccia, che nemmeno
una piena del fiume, una burrasca
le disarcionerebbe dal terreno.
E il seme è duro, paziente, sopporta
gelate e siccità, con la fierezza
di un martire: lo sa, prima o poi il tempo
verrà di aprirsi, basta solo attendere.
Appare delicato, quasi fragile;
ma c’è una forza nascosta in ogni albero,
la stessa che nel grembo oscuro dorme
che genera i vulcani, i fortunali;
e una linfa indomabile attraversa
le sue vene e cavalca lungo il tronco:
quella che nutre anche i fiori d’argento
sparpagliati nei prati bui del cielo.


La forza dell’olivo (II)
Povero olivo, tutta questa notte
esposto alle ventate che battevano
il fianco della collina scoperto,
così rabbiose e aspre da strappare
la verde pelle di dosso alla terra;
eppure lui, così mite, è in realtà
un guerriero, e non cede, non demorde
da quell’impari lotta, anzi lo tempra
la sfida dell’autunno presagito
dai primi indizi di rovesci e brine,
e trova in sé la volontà e il vigore
per resistere a quell’accanimento
immotivato, ne regge gli assalti
in silenzio, senza recriminare
per una qualche ingiustizia subita,
senza chiedere al cielo un’elemosina
di pietà o comprensione; a volte trema,
forse ha paura, ma resiste, ha fede
che in fondo alle proprie buie radici
vi sia un sole che dorme e attende solo
di levarsi: lo sa, l’olivo, l’acqua
che attinge dalla zolla gonfia anche
le vene dei torrenti, si fa sangue
di nuvole e maree; una sola goccia
delle linfe che battono nel polso
di ogni suo ramo colma la lanterna
delle stelle, e di un olio la alimenta
che scintillando brucia senza estinguersi.


Il segreto degli alberi
Provo quasi per ogni albero invidia:
quanto per me è cecità, nebbia, enigma
è per un tiglio, come per gli steli
che popolano il prato più ordinario,
certezza innata, che non ha bisogno
di prove o spiegazioni, conoscenza
che serba in sé ogni povero cespuglio
che sull’orlo di una radura affacci,
ogni arbusto che provi ad ancorarsi
nella più angusta fessura tra i sassi,
ogni germoglio che le esili braccia
aggrappi con quanta forza ha ai riarsi
zigomi di una parete o sui fianchi
di una scogliera che digradi ripida
e quasi verticale, fino al mare;
e lo sanno le alghe che si lasciano
pettinare dalle correnti e in grembo
all’altalena delle onde si dondolano;
e nelle venature di ogni foglia
e sulle rughe dei tronchi, memoria
della nazione vegetale, è scritto
che ha tutto ciò che è verde sempre un’anima.


La grande anima
Noi e l’albero, così poco simili:
noi morsi dalla serpe delle ansie
a ogni fruscio sussultiamo a ogni ombra
che agiti i rami, e ci affanniamo in preda
alla febbre alla frenesia allo spasmo
delle brame, aneliamo a braccia tese,
ciechi, a un cielo di polvere; lui invece
non conosce paura o desiderio
e in una pace distante, difesa
dall’inganno delle passioni resta
a meditare in silenzio; e fedele
soltanto alla sua indole, incurante
delle stagioni, sicuro persevera
anche nelle più ostili condizioni
di siccità o di burrasca: lui stoico
gigante che fortifica il suo cuore
e affina la sua saggezza nel culto
di ciò che è vasto, solitario, libero;
fiero e modesto, maestro ma umile,
acconsentisse a dirci suoi adepti,
a eleggerci discepoli perché
dal suo esempio impariamo a non temere
se un addensarsi di nuvole annuncia
il temporale, a mantenerci fermi
di fronte a raffiche contrarie e a oltraggi
di grandine o di nevi, a non piegare
la fronte al cielo quando ci rivolge
il suo sguardo severo, a respirare
a un ritmo uguale e lento, a fare nostra
la sua costanza, la profondità
e la calma della sua grande anima,
almeno in parte: la forza che ha dentro,
il coraggio con cui senza tremare
ogni arbitrio dei venti e ogni rovescio
avverso della sorte accetta e affronta.
 

L’albero è mio maestro
Ne sa abbastanza più di noi un albero
su quanto l’orizzonte sia più ampio
del nostro sguardo, che a lui ci si accosta
umili, con ossequio, ci si inchina
come al cospetto di un re, gli si deve
deferenza perché la sua è una specie
più nobile più antica della nostra;
o sembra di vedere in lui un avo
millenario, un vegliardo venerando,
un saggio buono, un maestro mansueto,
che saprebbe, se solo ci parlasse
e assumesse di nuovo aspetto umano,
farci da guida, dirci come vivere
e tenerci per mano come un padre;
lo immaginiamo come un testimone
ma di poche parole, di un mistero
a cui non siamo ammessi: uno sciamano
reincarnato in un corpo vegetale,
un sacerdote, dalle verdi bende,
di un culto che ha nei prati le sue chiese,
i suoi iniziati in ogni filo d’erba.
È dagli alberi che anche noi potremmo
che significhi vivere imparare.


Bibbia di foglie
Pagine di un poema le vostre, alberi,
che la pioggia con le sue molte dita
ha diritto a sfiorare, ma non l’uomo,
parole che solo il vento conosce
e sfogliando libri di foglie legge
e a memoria ripete e poi disperde,
rune scolpite nei tronchi, parabole
inaccesse se non alle sibille
che in pepli d’ali e piume profetizzano,
saghe di cui è depositario il bosco,
favole che potrebbero narrarci
i rami se la lingua ne intendessimo,
intrico delle labbra vegetali
che balbettano una rivelazione
appena udibile, su noi e sul cosmo:
rotoli sigillati, ancora intatti,
codici d’erba e pietra d’acque e nuvole,
papiri solo da aprire, ancestrali.


L’albero è mio maestro
Pensieri su di un mandorlo
Timido e insieme vanitoso, il mandorlo:
ha un portamento quasi femminile
e forse fu una Dea in un’altra vita,
e anche se oggi non se ne ricorda
ha mantenuto i tratti delicati
della snella figura, e non ha perso
affatto quel contegno aristocratico
che ostenta nella preziosa eleganza
e nella noncuranza con cui osserva
intorno venti e stagioni trascorrergli;
è una regina, il suo tempo è marzo,
quando indossa il suo abito nuziale
per lo sposo che viene con le piogge,
e si agghinda di fiocchi bianchi i riccioli,
e un carillon, proprio dietro il suo orecchio,
avvisa che hanno messo casa i passeri;
è una bambina, vive nella grazia
che accomuna tutte le cose sacre
e pure della terra, che hanno in merito
all’immortalità, a che cosa sia
la vera beatitudine, nozioni
per noi ingenue o, chissà, troppo profonde
perché riusciamo a prenderle sul serio:
le acque dalla risata scherzosa,
le buffe nuvole e la docile erba,
le chiocciole e gli insetti, e i tanti piccoli
inquilini che fanno il nido o giocano
sulla schiena di ogni albero, e non sanno
nulla dell’uomo e neanche si curano
delle misere angosce del suo cuore.


Insegnamento del salice
Di tutti gli alberi il più saggio è il salice,
dal corpo così esile, cedevole
alle correnti, lui che ha rinunciato
a combattere, lui che anziché opporvisi
la corsa delle acque la asseconda:
solo così non ne verrà travolto;
mite maestro, ha compreso che è
nella resa il segreto della forza
e che all’infuori del capitolare
non esiste vittoria. Imita il salice,
quando la piena monta e si accanisce,
pensa a quanto in realtà tenaci e salde
siano le sue radici, che difendono
l’orlo scosceso di un’ansa fangosa
del fiume che non cessa mai di scorrere,
anche se così sottili a vederle,
quasi indifese, che un’ondata appena
più alta basterebbe, in apparenza,
a strapparle via – e invece esse resistono.


La sapienza dell’albero
Non lo sa l’uomo ma lo sanno gli alberi,
e le acque profonde che ne nutrono
le radici, e gli uccelli che ne abitano
il fogliame, e le nuvole in corteo
che oltre le loro spalle sfilano, e anche
le montagne e le galassie lo sanno:
ogni frammento della creazione
è unito agli altri in una trama armonica
e insieme ad essi compone un arazzo
nascosto eppure a un tempo manifesto,
un mandala che la complessità
del suo disegno, del suo intimo ordine
così semplice e insieme quasi arcano,
specchia nella squisita geometria
di un alveare o di un fiocco di neve,
nelle precise ellissi misurate
dalle inesauste vagabonde astrali
che incrociandosi come in una danza
coordinata nei vergini anni-luce
intessono una rosa di diamante,
nella perfetta struttura sottesa
a un cristallo di sale, a un minerale,
ad una ragnatela, alle spirali
concentriche che srotola il serpente
della Via Lattea, o che formano il guscio
degli ammoniti, ai petali disposti
sulla fronte di una magnolia a cingerla
di una corona, o ancora al dispiegarsi
dei rami e delle loro molte dita
che del cielo diversi punti toccano
e ad uno stesso tronco li congiungono,
figure di un vegetale zodiaco.
 

La compagnia dell’albero

I
Quali pensieri farà mai un albero?
Li tiene per sé, non ha a chi si fidi
di confidarli, e li coltiva a margine
di un viale per cui solo di rado
qualcuno passa, o in mezzo a una radura
in abbandono, invasa da rottami;
e immerso nel bagno d’oro del sole,
il corpo stanco steso nella gloria
dei lunghissimi pomeriggi estivi,
il bianco oceano a colmargli le palpebre,
egli studia la luce che si attenua
lenta con le ore, digradando in toni
dall’arancio al violetto, finché Sirio
gli appunta sulla spalla una minuscola
spilla d’argento, un tremolante stemma;
e mentre il mondo sprofonda nell’ombra,
può dedicarsi ai propri ozi, e starsene
raccolto, indisturbato, fino all’alba,
a speculare sulle gerarchie
siderali e sul moto circolare
delle sfere celesti, e a tempo perso
sfoglia il libro illustrato in cui è scritto
il firmamento, che uno stemma araldico
porta impresso, un’immagine miniata,
su ognuna delle sue infinite pagine;
e non sa nulla, e forse non si cura
degli uomini, simili agli insetti
che nel viluppo delle sue radici
ordiscono i loro infimi alveari,
dell’epopea che scrivono nel fango.

II
Parlami, albero, dimmi chi sei,
e di che enigmi teneri e solenni
si fa la tua mente verde custode;
che sogni concepisci, quale pena
quando viene la sera sembra scuotere
i tuoi rami, quale ansia li tormenta
come corpi tremanti; e quali mondi
di cui ignoriamo l’esistenza visiti
quando il soffio che sale da ponente
ti consegna le melodie e i profumi
di un luogo caro e mai dimenticato;
non temere, saprò esserti complice,
non renderò partecipe nessuno
se non il vento della confessione
che mi porta il brusio delle tue foglie;
e forse apparirà la solitudine
a entrambi dolce, se sediamo accanto
in silenzio su un prato: impareremo
ad amarla perfino, a preferirla
ad ogni compagnia che non sia quella
delle ombre dei rami e delle nuvole.
 

 

La via degli eremiti

La verde chiave
Di tutto l’arco degli affetti umani
hanno esperienza, fuorché delle brame;
non soggetti a una volontà, non soffrono
degli affanni che sconta ogni creatura
che del sangue conosca le tempeste;
e la loro monotona esistenza
consacrano alle disinteressate
gioie della contemplazione pura;
nessuna cosa cercano né fuggono,
bene e male non sono ai loro occhi
che simulacri, e non credono al tempo,
ma indifferenti lasciano che il sole
li estenui nella sua morsa o che il fulmine
li minacci e la grandine infierisca
a flagellarli, come non ne siano
neanche toccati, come se a subire
le asprezze dell’ambiente sia un altro essere
al posto loro, concentrati solo
a perseguire lo sforzo di un qualche
miraggio di ideale perfezione
che solo a loro, agli alberi, è concessa –
budda che forse un’illuminazione
da quel nirvana vegetale attingono;
e chissà che non abbiano scoperto
l’unica beatitudine possibile
su questa terra, la via per accedere
a quella pace di cui siamo tutti
perennemente e senza esito in cerca;
ma gelosi ne tengono per sé
la verde chiave, e al vento che li interroga
non dicono qual è e come trovarla,
né all’universo, che vorrebbe loro
somigliare e che invece si tormenta.


Misticismo degli alberi
I
Veggenti e asceti, meditano gli alberi
in disparte dal mondo, assorti scrutano
un qualche enigma da lungo irrisolto,
con gli occhi fissi notte e giorno al cielo:
occhi puri di astrologi, di magi,
di verdi sfingi, fissi sull’eterno
che in quelli delle stelle i propri specchia;
leggono forse i pensieri di Dio
o di Dio il volto in una nube scorgono,
o traggono pronostici, decifrano
rivelazioni intorno all’aldilà,
nella coreografia per noi casuale
e illeggibile che il tramonto inscena
sul palco dell’orizzonte, a suo estro.

II
Cenobiti in preghiera, a mani giunte
o spiegando le enormi braccia, invocano
dall’azzurro e dal suo labbro di pietra
risposte a un dubbio che i rami ne macera,
supplicano pietà dal firmamento,
scegliendo a loro eremo un costone
di rocce a picco, ma alla solitudine
di cui hanno bisogno basta appena
il bordo di un qualunque marciapiede
su cui siedono, mendicanti scalzi;
e astratti non si sa come dal traffico
che turbina loro intorno, anche se
immobili, piantati in terra, volano
con la mente, librandosi da fermi
su ali che hanno per piume ogni foglia
che i corpi ossuti ne adorni, e percorrono
verdi mondi, regioni siderali
e i segreti di spazio e tempo interrogano.
 

Accanto al fiume
Su una radura isolata, o in un’ansa
di questo fiume che i Celti credettero
sacro, al riparo dall’urlo attutito
della città, qui dove il vento bacia
i capelli dei pioppi quando si alza
e imita il lungo ansito di un mare
non visibile, che ha foglie e non onde,
troverò sempre asilo – ormeggio i passi
su una lingua di sabbia asciutta e fresca
e lì mi stendo, dove a me ben nota
una corte di alberi si leva
e m’offre con la sua mobile cupola
un nascondiglio complice alla vista
del mondo; e come un figlio che ritorni
da un vano errare alla casa del padre,
mi accoglie su un letto d’erba, in attesa
che il sole cali. Alla vostra oasi, alberi,
sosto con gli occhi socchiusi, e mi sento
come protetto, almeno per mezz’ora,
al sicuro da un certo inquisitore
che va frugando i miei pensieri e ha il compito
di consegnarmi prima o poi una carta
con sopra impressi i termini di quella
vecchia pendenza solo accantonata
ma non risolta, con cui farò i conti.
(Riva dell’Adige, estate 2022)


Il mio rifugio
Vengo a quest’angolo a me solo noto
dell’Adige, dove una città sorge
antica, verde, non da mano d’uomo
innalzata: e nell’ombra dei suoi rami
lavo il mio sangue stanco, non so più
quale fu la mia storia, non più mio
è il nome con cui il mondo mi chiamava,
e mi spoglio del volto che indossavo
in mezzo agli altri, come pelle morta;
e nient’altro che stendermi vorrei
sotto un salice, e attendere che il sonno
versato dalle cicale mi copra,
miele sonoro che assorda i ricordi;
e immergermi nel mormorio dell’acqua
che bacia i ciottoli senza svegliarli,
e con le sue molli onde ripete
che anche il dolore a questo fiume è simile
e il destino delle sue onde imita.
IN UNA PINETA, IN ESTATE
Mi sdraio sulle ginocchia dei pini:
versano l’ombra, premurosi sporgono
i rami folti, volti in cerchio affacciano
vigili a farmi la guardia nel sonno.
Li agita il vento e sembra che mi parlino;
pretoriani gentili, per lorica
hanno il fogliame e come lance i tronchi,
Cureti che scuotono al vento i sistri;
posso chiudere gli occhi, non ho più
da temere, finché le loro schiere
mi offriranno riparo, alzando un argine
tra me e ciò che era il mondo, e finché il sole
di tanto in tanto farà capolino
fra i loro elmi, a baciarmi la fronte.
 

In una pineta, in estate
Mi sdraio sulle ginocchia dei pini:
versano l’ombra, premurosi sporgono
i rami folti, volti in cerchio affacciano
vigili a farmi la guardia nel sonno.
Li agita il vento e sembra che mi parlino;
pretoriani gentili, per lorica
hanno il fogliame e come lance i tronchi,
Cureti che scuotono al vento i sistri;
posso chiudere gli occhi, non ho più
da temere, finché le loro schiere
mi offriranno riparo, alzando un argine
tra me e ciò che era il mondo, e finché il sole
di tanto in tanto farà capolino
fra i loro elmi, a baciarmi la fronte.


Confidenza con gli alberi
Sussurra il pioppo il suo segreto al cielo
e il cielo è chino su di lui in ascolto;
ogni creatura con le altre comunica
ma in un codice non intellegibile
dai nostri sensi, se non per pochi attimi
privilegiati, in cui ci fanno parte
gli alberi della loro confidenza
e in cui non più inerti e muti ma vivi
crediamo i loro volti, di persone
anche se non umane, e ci accorgiamo
che c’è fra loro un accordo, una sorta
di sintonia sottile anche se tacita,
una complicità ma sottintesa;
e quasi, mentre sembrano guardarci,
una condiscendenza intenerita
verso di noi, una pietà indulgente.
 

Dono degli alberi
La loro è una compagnia ma discreta,
e loro è fra tutti gli esseri il compito
di farsi emblemi, di testimoniare
un’armonia che terra e cielo abbraccia
e che è riflessa nelle loro forme;
non chiedono altro che silenzio e altezze
in cui immergersi, in cui allungare i rami;
non giudicano, non fanno domande,
non distinguono meriti da colpe,
non vantano opinioni o idee, non hanno
cognizioni di giusto e di sbagliato,
non hanno di stare soli paura;
quest’ombra fresca è il dono che concedono
a chi hanno scelto, e la loro presenza
austera, al cui cospetto ci si sente
come protetti, al sicuro dal mondo.


Investitura
Convengono come a un appuntamento
gli alberi a questo gomito di fiume
puntuali al tramonto, hanno risposto
anche oggi a una sorta di chiamata
che da secoli si ripete; e a margine
della loro assemblea, io sono ammesso
a quella cerimonia così intima
a cui essi presiedono compunti.
E il sole li incorona, li proclama
ciascuno re, li investe di un diadema
di fiamme bianche sui rami più alti:
il sole che ogni membro che compone
la vostra milizia, alberi, consacra
vassallo della potenza sovrana
su tutto ciò che metta e perda foglie.
 

Patto antico
Come se mi abbiano atteso da secoli
questi alberi tra le loro schiere
mi accolgono, e uno di loro in me vedono
anche sotto la mia maschera d’uomo;
fare ritorno alla loro famiglia
sa ogni volta di riconciliazione,
ricuce un’alleanza ribadisce
uno strappo rinnova un patto antico –
compensa una quaresima o un esilio.


A un pioppo
Da quant’è che sei qui, pioppo? Quest’ansa
del fiume a te e ai tuoi fratelli appartiene
da ben prima che fossi nato io
e che le auto il tuo sonno violassero
dalla strada che rade il tuo rifugio;
ricordi quando in processione gli uomini
venivano a inginocchiarsi al tuo altare?
Invocavano da te protezione
con riti e offerte e danze e torce accese
intorno al tronco per tutta la notte;
forse da un tempo ancora più remoto
scegliesti questo ritiro, qui dove
l’occhio del mondo non ti può raggiungere:
la pace bevi qui, la forza attingi
dalla corrente in cui affondi radici,
nel suo respiro ti avvolge il silenzio
e un nido d’ombre un castello di rami
fissa confini al tuo esilio e ti scherma
dalla sferza di soli e di uragani;
e amici non ne chiedi, pago già
che tanti della tua stessa progenie
ti stiano accanto lungo queste rive,
come te assorti e muti, o con cui forse
comunichi ma come non sappiamo,
come te parte di un fitto sipario
di foglie da cui ecco, appena il vento
lo smuove, appare l’acqua, il luccichio
del suo sorriso di dea mite e verde,
dea bambina che a suo arbitrio si mostra
e solo a pochi elargisce le grazie.
Potessi somigliarti, avessi anch’io
un angolo in cui sparire! Non posso:
troppe cose conosci più di me,
troppo più fragile il mio del tuo corpo
anche solo per prenderti a maestro.
 

Vecchio olmo
Avrei vissuto bene da eremita;
mura di legno, massi come letto,
una capanna, perfino una grotta
sulla spiaggia, a due passi da un ruscello,
ghiande per cibo e per compagni i passeri.
E avrei imparato a pregare, in ginocchio
davanti all’Orsa, avrei fatto dei boschi
la mia chiesa; e nel fiume e nella pioggia,
quando le loro voci sembra che alzino,
avrei il grido di Dio riconosciuto.
Ma non è dono il mio essere solo:
non mi so fare simile a quell’olmo
che non ha accanto se non la sua ombra
in cima all’erta, e non sembra soffrire
il proprio esilio, anzi ne prova orgoglio
e allunga i rami forti tutt’intorno
negli spazi: e non ha bisogno d’altro
che del sole e dell’acqua che lo nutrono
e di ciò è pago, e ogni bene del mondo
nel verde fitto di canti racchiude.
 

 

Orme nel bosco


La verde porta
Dove mi porta il bosco – o meglio, questa
pineta senza pretese che in pochi
conoscono, alle spalle di un quartiere
di più recente costruzione: seguo
le spire di un sentiero che si snoda
sinuoso nella macchia, me ne lascio
condurre docilmente, come polline
che si arrende alla brezza, dal fogliame
mi chiamano invisibili sirene,
e a lato dei miei passi vedo aprirsi
antri incantati, maliosi cunicoli
che Sibille potrebbero ospitare,
oscuri anditi, grotte scavate
nella corteccia, dedali di muschio
che mi tentano a spingermi più avanti
a costo di smarrirmi, anche se ignoro
la direzione e la meta; poi ecco
un lampo smalta la fronte degli alberi:
varco archi di tronchi che si mutano
in braccia e mani, in artigli che intorno
mi si stringono come ad afferrarmi
e a farmi loro prigioniero, penetro
una porta ritagliata nel verde,
foglie e massi oltrepasso che sorvegliano
una frontiera sovrannaturale.


Lo sguardo degli alberi
Sarò pazzo; ma sembra che mi osservino,
che curiosi o benevoli mi seguano
occhi nel folto, e discreti mi spiino
e mi scortino, e di cui solo a tratti
mi accorgo, mentre più a fondo m’inoltro
nell’intreccio di rami delle vie
della loro vivente città che ha
tronchi invece che mura, da altri passi
non violata prima dei miei, che stanano
recessi d’ombra, sconosciuti ai runners
domenicali, oasi alla canicola,
scrigni odorosi, che schiudono gemme
d’erica e menta, di bacche selvatiche
e velenose; e minuscoli incendi
di aghifoglie, di more che traboccano
dagli architravi lignei tempestati
da grappoli rigonfi color sangue
vedo esplodermi intorno su ambo i lati
del sentiero; e più in là, oltre i rovi, un brivido
di lampi, di farfalle adamantine
tremulo solca la schiena del fiume,
un’effimera pioggia di riflessi
che il sole scocca e che il rombo costante
delle acque sovrasta; e avanzo come
un cieco che obbedisca ad una voce
che lo chiama, smorzata eppure limpida,
e che a lui solo parla – finché a un tratto
una paura che non so spiegarmi
mi assale rapida, ma alzo gli occhi
e loro mi rassicurano, gli alberi,
che tutto sanno, di me e di ogni cosa,
e che ogni dubbio e ogni tormento spengono
nel verde sonno delle loro cime.
 

Nell’uliveto
Come un cieco, in un uliveto penetro
e in mezzo ai suoi abitanti mi aggiro
e ad uno ad uno li interrogo, batto
il loro dedalo e ogni via setaccio
del loro regno, a stanare orme, indizi
di un certo enigma che da tempo tentano
di decifrare quei rami, raccolti
in pose meditative, contorte;
gli alberi mi accompagnano e mi fissano
come sul punto di sciogliere un voto,
di pronunciare un responso o rispondere
a un dubbio che mi trascino irrisolto,
però per qualche motivo che ignoro
tacciono, reticenti si trattengono
dal dirmi quella parola che attendo
e muti di fronte a me ancora restano.


Incontro con le ninfe
Nell’intrico dei rami, un infinito
minuto e ombroso, a misura di sguardo,
verde dedalo che con i suoi uncini
arborei mi ghermisce, sortilegio
che in queste membra lignee tramutò
membra che erano umane; bevo il filtro
degli alberi, nel folto brusio affondo
e cieca una risacca mi trascina
di muschi e di radici anziché d’acque:
io complice io consenziente vittima
della malia che dissipa i miei passi;
bosco gremito di oscure invisibili
presenze femminili, popolato
da spiriti di vergini che uccidono
seducendo, che un arabesco simulano
di mani e braccia, sinuoso, annodando
le spire di una morsa vegetale
avviluppante, e tramano un incanto
pericoloso ai danni di chi incauto
attratto dai loro cori si inoltra
per quel sacrario, e nell’agguato cade
dei loro lacci flessuosi predaci.
 

Porto in mezzo ai rami
Da quando il caldo è iniziato, mi capita
di venirci quasi ogni pomeriggio
nella pineta che sta a poche svolte
di strada dalla spiaggia, e posso credere
che i suoi abitanti ormai mi riconoscano,
mi abbiano in un certo senso adottato;
e mi sembra che verso di me nutrano
quasi un affetto, una benevolenza
mista alla canzonatura bonaria
che si ha nei confronti di un amico
non troppo sveglio, sprovveduto, ingenuo,
o di un fratello più piccolo; e a volte
ho l’impressione, quando sono solo
in mezzo a loro, e il vento imita voci
umane tra le foglie, in una lingua
per me straniera, che in mezzo a quei rami
mi offrano un porto, e che perfino provino
a parlarmi, che sappiano chi sono
e quale pena, che non oso agli uomini
confessare, anche oggi mi conduca
a cercare conforto alla loro ombra.


Il vento è una promessa
Esiliato in un bosco, è come se
mi fossi agli occhi del mondo nascosto
in un angolo della più lontana
galassia; nessuno sa in questo istante
dove io sia né quali echi sottili
dal folto delle balze si diffondano
e mi chiamino, verdi melodie
sull’arpa tesa tra opposti crinali;
narratori di favole, benevoli
gli alberi mi accompagnano mi indicano
un luogo a loro soli noto, in fondo
a un sentiero dove l’oblio elargisce
una fonte a chi attinga alle sue acque;
e il fiume sa a memoria ogni mio passo
e nel suono che fanno le sue labbra
contro la pietra colgo una sommessa
esortazione a spingermi più avanti;
e c’è nel vento una verde promessa.
 

Verdi navate
Mi spingo lungo un filare di platani
e un tremore mi prende: sto violando
con i miei passi il silenzio di un tempio
in cui assorti come sacerdoti
sono riuniti in preghiera questi alberi.
Vati barbuti, pensosi vegliardi,
depositari ultimi di un arcano
dimenticato: alberi, si scopre
l’uomo tornato bambino e di nuovo
capace di stupori, quando entra
nelle vostre basiliche e vi osserva
nudi nel sole e nella pioggia ergervi,
quando vi ascolta mormorare salmi
sulla frusciante pagina che srotola
scorrendovi in mezzo ai capelli il vento.


Mi fanno da guida questi alberi
Dove vado lo ignoro ma mi fido
di questi alberi, lascio che mi guidino
mi portino per mano: loro sanno
l’uscita dal labirinto gorgoneo
di questo bosco che nel suo viluppo
mi tiene prigioniero – districato
il groviglio asfissiante dei sentieri
avvinti gli uni agli altri in una morsa
di serpi a divorarsi, ci dev’essere
oltre il muro dei rami che fanno ombra
sui miei passi, oltre le cascate d’edera
che assediano le facciate, e in agguati
di mani vegetali le sommergono,
un prato calmo, che dorme disteso
nel letto del chiarore: è lì che l’eco
del traffico non giunge, è lì che a breve
coricherò il mio corpo, e le mie orme
troveranno la foce che le attende;
mi porta il vento il suo sussurro verde,
mi chiede di seguirlo, e non mi mente.
 

Parentela con gli alberi
I più nobili alberi a vedermi
si compiacciono, sembra mi salutino
senza alcun imbarazzo, e come un membro
delle loro famiglie mi ricevono;
compagni schivi e fedeli mi sono
nella solitudine delle mie
ore più pure, mi illudo che vedano
in me un loro fratello d’elezione.
Forse in un’altra vita fui anch’io
uno di questi pioppi, o uno dei salici
che tra un’estate e quella dopo offrono
su queste rive riparo ai rondoni,
e di nuovo scontato il temporaneo
esilio nella mia menzogna d’uomo
mi vestirò di rugiada e di canti,
perché è al loro sangue che appartengo.


Adunata dei papaveri
A ridosso di certe case, un campo
che non ha proprietario; lo hanno invaso
in meno di un pomeriggio i papaveri
con le loro legioni, convenute
da chissà quali remote miniere
di cinabro, all’unisono qui, sede
del loro appuntamento ogni anno, al termine
di un’epopea di nevi sconfinate
che alle selvagge redini affidandosi
dei venti di primavera affrontarono,
delle correnti fecondanti e tiepide.
A radunarli, in questa verde piazza,
un rito da officiare di cui sono
insieme adepti e ministri; hanno indosso
tutti, per l’occasione, una livrea
di porpora e lo sguardo verso ovest
tendono insieme, nella direzione
in cui il sole sta migrando, oltre
i fili neri della ferrovia:
e fanno voto, testimone il sole,
che torneranno anche il prossimo maggio.
E un giorno dopo o due, sul presto è già
vuoto quel campo: i papaveri, tutti,
sono partiti senza lasciare orma,
ma nessuno li ha visti andare via,
nessuno sa dov’è che siano adesso.
 

Tempo sacro
Alle prime ore, quando le auto ancora
nelle loro tane di ferro dormono,
intessono fitti dialoghi i piccoli
abitanti degli alberi fra loro;
cosa ognuno affacciato dal suo ramo
racconti agli altri è mistero per noi,
ma è spontaneo fantasticare quale
sia il senso che essi a quelle voci affidino:
forse si stanno chiamando per gioco
come bambini a inseguirsi nel folto,
forse si sfidano in gare canore
o esultano del giorno che incomincia;
o hanno note più amare, che rievocano
la gloria e i fasti di un’età sconfitta
e un regno che è tramontato, in cui esseri
animati per boschi e fiumi andavano:
camuffato di piume, un cantastorie
rimpiange quando fu un re ma una maga
gelosa lo mutò da uomo a uccello
per averne la mano rifiutato;
e un altro, un innamorato di certo,
fruga impazzito in un cespuglio in cerca
della compagna ma ignora che questa
divenne un fiore, e non gli può rispondere;
e quelli in cima a una palma, forse anime
impazienti di reincarnarsi a breve.
Tempo sacro del mondo: i vostri salmi,
uccelli, ne perpetrano il ricordo.
 


Teofanie silvestri


Qualcuno in mezzo a quei rami mi parla
Divinità nelle foglie, di solito
nascoste sotto il vegetale inganno,
eppure in grado, se solo volessero,
di riprendere forma in membra umane
in qualsiasi momento; e forse accade,
anche se a nostra insaputa, al riparo
però da sguardi che non capirebbero
e solo dove un magro ulivo o un salice
siedono ore ed ore al sole come
se stessero raccontando una fiaba
a un qualche invisibile ascoltatore
che è loro amico, la storia di quando
avevano come noi gambe e bocche
e per il mondo andavano e conobbero
delle passioni la tempesta. Oggi
un sortilegio li condanna, avvolti
nella corteccia, a dormire; ma a volte
– sarà uno scherzo del vento che imita
voci tra i rami o un miraggio del sole
che tra le ombre sul terreno traccia
scene animate, effimere figure
che parlano e si muovono, mi sembra
di sorprendere cenni, ammiccamenti
negli alberi, come anche in certi scogli
modellati dalle correnti in pose
bizzarre o buffe o inquietanti: segnali
in codice che una qualche presenza
in incognito invia, come cercasse
spiragli che la svelino e ad un tempo
volesse non farsi troppo notare:
e il mondo è un suo oracolo, un delirio
che non si fa penetrare, dettato
dalla sua mente in preda alla mania.


Culto dell’albero
C’era per gli antenati sempre un albero
da venerare e da chiamare padre,
che del mondo era l’origine e il centro
e che con la sua enorme ombra offriva
agli uomini scudo da ogni male:
era il frassino, che da una scogliera
svetta sui mari del Nord e a suo arbitrio
le briglie scioglie o incatena dei fulmini,
e a cui nella criniera del fogliame
la burrasca comunica i suoi oracoli;
era l’abete, vegliardo smarrito
tra nevi immani e tundre, che percosso
dalla sferza polare, dalle labbra
dei propri rami vaticina in sillabe
che solo la colomba artica intende;
era il cedro che sembra gema, appena
lo scuote il vento (è il lamento di un dio
rimasto imprigionato nel suo tronco);
e la quercia, che sulle vette gli uomini
incerti del futuro interrogavano;
e la betulla bianca, chiamata anche
la figlia della luna, per le braccia
così chiare e flessuose, da ragazza,
che appare nuda al viandante e gli offre
il nettare inebriante del suo seno
Amante e insieme figlio della terra,
antenato comune di ogni specie,
di ogni essere il più saggio e il più regale,
mette foglie ogni anno dal suo scheletro
e perciò emblema di resurrezione;
vertice dell’equilibrio tra i mondi,
lungo il suo tronco si snodava un asse
invisibile che la terra e il cielo
teneva uniti, ponte che saldava
etere e abisso, misteri simmetrici.
 

Regno di Pan
Mi illudo, alle volte, di scorgere
negli alberi delle presenze
nascoste ma dai tratti
familiari, il profilo di qualcuno
che volto e voce d’uomo
ebbe in un’età oscura
e che per un prodigio
pietoso o malefico assunse
sembianza vegetale:
questo è il mandorlo fragile, che ancora
ha fretta di fiorire, e insonne aspetta
che torni il suo sposo dal mare;
e questo è il gelso, le cui bacche insanguina
un patto fra due amanti;
e il noce e il pino nero
che furono fanciulle, ma che un dio
punì per averne spregiato
i doni e respinto le brame;
e il pioppo e il cipresso, che un lutto
entrambi vinse e ne tradusse in legno
la pelle e in rami e radici le membra;
e il salice in cui abita
la sconosciuta che cadde nel fiume;
e l’ontano che cresce su acque morte
che danno la follia a chi ne beva;
e il cedro che il vento fa gemere
perché nel tronco imprigiona uno spirito;
testimoni e superstiti
di un tempo tradito: alberi,
sono labbra le foglie
e il ricordo tramandano
di quando era vivo era sacro
il mondo, e ogni suo figlio
parlava la lingua di Pan.


Driadi
Sono abitati i boschi – con un fremito
mi accorgo di volti tra i rami, labbra
insinuanti che ambigue allusioni
nel loro coro indistinto pronunciano;
e ritto nella corrente, da un masso
che l’onda ora sommerge ed ora scopre,
un piccolo uccello acquatico tiene
la sua orazione per me a piena voce;
e il fiume parla, anche se non intendo
quanto quel suo monotono monologo
va ripetendo, nel suo idioma ampio;
e sono risa e canzoni di driadi
che il vento scorta nelle alte valli
e di cui l’eco passando disperde.
 

Le metamorfosi
Sia cauta la mano che sfiora
certi arbusti, si guardi dal violare
senza saperlo il funesto incantesimo
in essi trattenuto:
fu un tempo una giovane donna
la ninfea, che alle insidie
lascive di un dio trovò scampo
gettandosi in un lago,
rendendosi irriconoscibile
sotto vesti di petali;
e uomini furono gli ontani,
cacciatori sul fiume,
ma una fata feroce
dopo averli sedotti
in tronchi mutò i loro corpi
per renderli suoi prigionieri;
e stanno in quei rovi selvatici
imprigionate delle anime, e scontano
una penitenza lunghissima
per colpe commesse da vive;
e i due pioppi che intrecciano
i rami in un tenero abbraccio
accolgono due amanti
sventurati, che anche
da morti resteranno uniti;
memoria del mondo, alberi,
nostri fratelli foste:
un’unica linfa scorreva
in voi e nelle vene di ogni essere,
ardente feconda celeste.


Sono aedi gli uccelli
Antiche fiabe struggenti o feroci,
da tempo dimenticate dagli uomini,
ma che ancora negli alberi, custodi
dell’infanzia del mondo, sopravvivono;
il vento sfoglia pagine tra i rami,
apprende gesta di un’età lontana
scritte su rotoli d’erba, consulta
biblioteche sepolte tra i canneti:
a bassa voce narra a questo pino
che egli era un ragazzo e non un albero
ma di sua mano si diede la morte
perché ebbe orrore di un amore illecito;
e sono aedi gli uccelli, e tramandano
che un fiume aveva una figlia infelice
che pregava da donna di mutarsi
in una pianta, ed esaudita vide
farsi all’istante verde la sua pelle,
e in tronco il corpo indurirsi, dove oggi
braccia e gambe spuntano ma di legno,
e ricoperta di foglie la fronte.
Non è spento quel tempo, la sua eco
anche se appena udibile percorre
luoghi schivi, sentieri d’orme vergini:
“la terra dorme ma è viva, e creature
senza numero nel suo cuore sacro
racchiuse in forme molteplici ospita”.
 

Canti sciamanici
I
Nove giorni di fila ho digiunato,
rinchiuso in una grotta separata
dal resto del villaggio, o su una altura,
da solo, al centro di un cerchio di pietre;
e uscire dalla mia pelle mi vidi,
vidi il mio corpo in sogno farsi scheletro
o dilaniato da mani invisibili
o mutato in uccello in pesce in fulmine;
quando fui puro, sciolsero dal tronco
la corda che mi teneva legato:
ora potevo un ramo dopo l’altro
come gradini ascendere dell’albero
che in asse con la stella del mattino
si erge e allunga i suoi ultimi rami
fino alla tenda in cui abita Dio,
al luogo in cui rientrano ogni sera
le nuvole in carovana, e da cui
non appena fa giorno ancora salpano.

II
Sulla schiena mi arrampico dell’albero
e salgo fino alla casa delle albe
issata in cima ai suoi rami più alti;
ipnotico mi incita il tamburo,
dal corpo del cavallo appena ucciso
il fumo si alza e indica la via,
mi fa credere il fungo di avere ali
e non più braccia; ora parlo la lingua
del corvo delle nuvole dei fiori,
ora posso ad un solo tempo essere
qui e in ogni luogo, al centro della terra
e più in alto delle costellazioni;
si gonfia e si contrae il mio petto a tempo
con la corsa dei soli e col respiro
di tutte le maree, di tutti i venti;
le mie orbite rovesciano fiamme,
dalla mia bocca fiumi d’oro nascono,
i morti mi si radunano intorno,
e una lastra di selce mi consegnano
con una formula da pronunciare
incisa sopra, perché al mio ritorno
la pioggia cada, il popolo guarisca.

III
Nove gradini tra il mio passo e il cielo,
mi fa da scala il più sacro degli alberi:
è per me barca o cavallo, e mi guida
6968
ora nella spelonca in cui i morti abitano
e ora nelle lagune che si aprono
nel buio che astri da astri separa;
e diventa solo per me una porta
da cui ho potere di entrare e di uscire
verso ogni luogo su terre e su oceani
e in ogni tempo che è stato e sarà;
albero che dalle radici ai rami
attraversi i tre mondi e li congiungi,
tra me e gli dei e tra gli dei e gli uomini
anello di un arcaico patto eterno.
 

Profezia dell’acacia
Acacia in fiore, insegnami a sperare!
Genitrice di ogni primavera
e del dio che dalle ombre fa ritorno,
hai per corona un intrico di rami
ispidi e duri, ma di nuovo è marzo –
non più aculei la fronte ti trafiggono,
ma frecce bianche e dritte, che l’arciere
del cielo scocca in ogni direzione:
ma raggi della ruota d’oro e fuoco
del carro che attraversa l’equatore
e annuncia che un qualche risveglio è prossimo;
a miriadi i tuoi petali minuti
ne sono anche quest’anno testimoni.
 

L’albero sradicato
I
Di cosa esulta l’erba, che io ignoro?
Perché cantano i fiumi, a quale re
di ritorno da una epopea lunghissima
levano inni, con la loro corsa?
Chi è che il coro degli uccelli acclama?
E perché questa celeste inquietudine
che toglie il sonno al fogliame e lo colma
di un tempestoso giubilo di note?
La terra compie ogni giorno i suoi anni,
ma sempre verde e bambina rimane.

II
Un dio schivo ebbe scelto questi pioppi
a sede del suo esilio, e a suo santuario.
Cammino sotto le arcate che gli alberi
disegnano sul suolo, ed essi stendono
un’ombrosa carezza sui miei passi,
come se anch’io fra loro fossi nato
ma in un tempo di cui nulla ricordo;
nei loro sguardi non leggo rimprovero
di averli abbandonati, ma pietà:
anzi sento che mi hanno perdonato
che, facendomi uomo, li tradii.

III
Possenti, i platani, e insieme leggiadri;
una aggraziata imponenza ne fa
i re di tutto il popolo degli alberi.
Potessi un giorno, scontato il mio tempo
di uomo, in uno di loro mutarmi
e nulla più di chi fui ricordare!
Farei con il più umile insetto a cambio
che striscia sui loro tronchi, con l’uovo
di tortora in pericolo sui rami
fino a che i suoi genitori non tornano.
Ma in questa carne, che non mette foglie
e non affonda solide radici
nel suolo e non sopporta le intemperie,
resto recluso; mai mi spunteranno
dal corpo che mi incarcera ali o petali.

IV
Bambini d’aria, gli storni s’inseguono
su un prato, acrobati in cima a trapezi
non visibili, fanno festa forse
a un compagno tornato da altri climi,
e nelle loro capriole riversano
una gioia che a noi non appartiene.
Come vorrei, non più oppresso dal peso
di questo corpo, tra loro librarmi
e a quei divertimenti ingenui unirmi!
Ma è una condanna la mia pelle di uomo,
di me più puri e liberi essi sono,
di me incapace di canto e di volo.

V
Lucido e liscio, come una maiolica
trovata a Cnosso il cielo, ancora intatta;
lieve lo sguardo ci scivola sopra
come fa una canoa su un lago immobile,
o lo accarezza, come il polpastrello
con una seta fine, con un petalo.
L’amaca delle nuvole mi dondola:
aeree balie, larghe braccia soffici,
barche sulla laguna di velluto
ritagliata tra i rami, che indolenti
trascorrono; e vorrei ad occhi chiusi
dentro la loro scia, insieme alla ciurma
degli uccelli che ognuna a bordo ospita,
tuffarmi e perdere coscienza. E invece
non prendo sonno: lo stridio assordante
delle cicale non cessa un secondo
e simile a un rimprovero o a un’accusa
per una colpa che ignoro mi assale;
senza dormire, a lungo su lenzuola
d’erba e di cielo invano mi rigiro;
l’azzurro non è più sulla mia fronte
un’oasi ma uno squarcio, una ferita.
 

VI
Piumate nubi, portatemi via
aggrappato ai vostri orli stropicciati,
che io mi aggreghi ai vostri cortei in marcia!
Disperdete anche me dove fa il nido
l’airone che indossa un peplo cucito
nella mussola delle vostre ali;
come semplice marinaio, a bordo
caricatemi delle vostre flotte,
e insieme veleggeremo gli spazi,
non ci sarà confine misurabile
da bussole e compassi a trattenerci,
scavalcheremo distanze e paesi,
più in là delle catene dell’Atlante,
più in là di dove lo sguardo può giungere,
dell’orizzonte che fissa il suo carcere.

VII
Pellegrino dell’orizzonte, seguo
senza chiedermi dove la sirena
del vento quando mi invita a seguirla,
obbedisco al richiamo degli spazi,
a quella voce che corre nel luogo
in cui accampati su un braccio di fiume
hanno sepolto le proprie orme i pioppi;
cammino e ai lati del sentiero gli alberi
mi fanno dono dei loro profumi;
le colline hanno fronti quasi umane;
scolpiscono marmi azzurri le nuvole;
l’erba bambina si fida di me;
sui campi il vento e la luce disegnano
un volto calmo dai tratti regali
che sembra con indulgenza osservarmi
e conoscere tutto di chi sono
e della febbre che assedia i miei passi,
come se mi stesse accanto ogni giorno –
ma non mi parla, esita a dirmi quale
sia la meta che cerco e come giungervi –
o perderebbe ogni senso il mio andare,
questo viaggio all’istante avrebbe termine.
 

 

Il silenzio degli alberi


Perché più non parlate?
Un delirio gentile mi fa credere
che ognuno di questi alberi (ne ignoro
anche il nome, se siano forse larici
oppure lecci, eppure riconosco
esseri a me fraterni in tutti loro),
abbiano al pari degli uomini un cuore
che sa che sono estasi e abbandono,
che sa provare turbamenti e incanto,
che conosce malinconia e letizia
in base a come l’ombra delle nuvole
di passaggio sopra le loro fronti
ora si allunga ed ora si ritira;
eppure non confidano né a noi
né al vento la loro intima vicenda,
il vento dalle lunghe dita tenere
che ne accarezza le ciocche ora crespe
ora fluenti, ne sfiora la guancia
perché come bambini si addormentino,
ma stanno assorti in un riserbo altero
che un qualche loro oracolo protegge
terribile o magnifico chissà,
troppo grande perché lo condividano
con chi quasi senza guardarli passa
distratto, sotto i portici e le volte
che i loro corpi fingono sull’argine.
 

La lingua sconosciuta
In quale lingua un albero comunica?
Lo ignoriamo, capire non ci è dato
il senso delle parole che scorrono
pressoché al nostro orecchio impercettibili
di ramo in ramo, portate dal vento
o dal brusio dei passeri sommerse.
L’albero ama il silenzio, tanto che
viene il sospetto che sia muto – eppure
le sue foglie, se un fremito le sfiora,
facci caso, è come se parlassero,
nel toccarsi, fanno pensare a bocche
bisbiglianti fra loro, che approfittano
di quando siamo distratti e si scambiano
in quei momenti fitte confidenze,
e intessono in nostra assenza dialoghi
frammentati, furtivi, che proseguono
dopo che siamo andati via e che anche
il sole è già calato: voci oscure
all’uomo ma non al merlo, inudibili
oggi ma non al tempo in cui era il verbo
del fulmine e del fiume intellegibile.
Vorrei imparare ad ascoltarli, gli alberi.


Pietà degli alberi
Muti e inerti, questi alberi, oggi; eppure
ci fu un tempo in cui volti e voci ebbero
e parlavano e da un versante all’altro
di questa valle che fissò i confini
del loro regno andavano, e conobbero
anch’essi il tuono che sconvolge il sangue,
e amori e guerre, e insonnie e ebbrezze e febbri,
e le odalische del miraggio che incitano
alla rivolta, e tutte le tempeste
che terrore o delirio partoriscono;
poi una maledizione si abbatté
su quella stirpe, a punirne una colpa
che non sappiamo, o un’onta troppo grave
commessa all’alba del mondo; e a guardarli
oggi ispirano solo compassione,
poveri alberi: umiliati a scheletri
i loro corpi in balia dell’inverno,
templi ridotti da un incendio a ruderi;
e incatenati ad un crinale scontano
la loro resa, cenobiti assorti
in millenaria penitenza, e serbano
nascosto agli uomini il segreto strazio
che tende le loro braccia stremate
in una strenua ed inutile supplica
verso un cielo senza misericordia.
 

Il pino maledetto
Enorme l’ombra del pino, io minuscolo:
sacro terrore incute, deferenza,
alto com’è, chiuso in sé, accigliato
medita senza requie su un’offesa
che gli fu fatta e che non si perdona
di non aver vendicato – lo immagino
quando in diverse sembianze il suo spirito
su tutta la terra vuota squassata
da cataclismi dominava: lui
rappresentante di un’arcaica razza
terribile ma estinta, pagò un crimine
dimenticato, e vide la sua pelle
coprirsi all’istante di scaglie, il sangue
in resina rapprendersi, le braccia
convertirsi in tentacoli di rami
attorcigliati in spire di gorgonee
capigliature, in colli di serpenti,
in lingue coagulate di un incendio;
e non arreso il suo convulso assalto
contro la pietra del cielo protende
ma non lo intacca, il cielo indifferente.


Sfinge dell’estate
Supplizio dei pomeriggi di giugno:
lungo l’arco del cielo, dallo zenit
ad occidente, una torcia è condotta
in processione, e avanzando, a miriadi
fa vorticare come salamandre
le lingue bianche le spire i tentacoli
della sua capigliatura in delirio;
il sole è una testa umana recisa
che brucia e non si consuma, o un altare
sul cui rogo è sacrificato un cigno;
il fiume scopre i suoi femori magri
lungo le rive, le sue sparse vertebre
emergono nei ciottoli del letto;
i salici svenati impallidiscono,
il verde sangue evapora dai tronchi,
esausti in qualche ansa all’ombra gli alberi
si accasciano stremati, come arresi
al peso che china loro le fronti,
alla morsa ostinata che li strangola,
alla calura e al suo martirio assiro;
e nell’aria di pietra, non un solo
bisbiglio d’erba, un insetto a violare
il sonno che pesa su tutto – solo
da qualche parte un uccello che infrange
il grido della sua protesta inutile
contro l’azzurro e il suo muro inflessibile,
ma già di nuovo lo inghiotte il silenzio
che calcina le ore in una sfinge.
 

Calvario degli ulivi
Protendono gli ulivi
esauste braccia tese in una vana
invocazione: il vento è già passato
su questa altura, mentre essi dormivano,
e svanito è l’odore del suo passo;
si contorcono i tronchi
in fiamme indurite straziate,
in lignee lingue atroci
che di enormi scintille nere palpitano;
e una nenia si alza
a intermittenza se una spuma grigia
monta e gonfia il fogliame.
Alberi rocce colline delineano
il ritratto di un volto
antico impenetrabile murato
in una pena muta, inconvertibile
in nessuna lingua agli uomini nota –
doloroso alfabeto, cifre oscure,
sillabe in cui l’estate inscena questa
liturgia di splendore e di rovina
sulle rive del lago, verde altare.
 

Leggenda bretone
Custodiscono massi e tronchi fiabe
di altre età; in questa terra scabra
c’è una quercia che quando a tarda ora
il vento si alza e cieco si accanisce
sulle sue ossa, sembra che diffonda
un gemito tutt’intorno, monotono,
diffuso nelle valli, e che non tace
prima dell’alba, ogni giorno. Fu un uomo,
raccontano gli anziani, tagliaboschi
e pescatori del posto, che un tempo
scontò un’ingiusta condanna mutandosi
in quell’albero che oggi s’erge dove
egli fu senza colpa messo a morte.
E piange, a lungo, da solo, rinchiuso
nel suo corpo indurito, e la sua voce
è prigioniera per un maleficio
in quelle scaglie: ed è per la sua vita
toltagli senza diritto che piange,
per la gioia di camminare e stringere
al petto un volto caro; ne hanno pena
al villaggio, ascoltando insonni a notte
il martirio che perpetrano raffiche
e gelo sulle sue povere membra,
ma nessuno può nulla che consoli
il suo lamento o lavi la sua offesa.


Ultimi bardi
Dall’alto del suo tripode di rami
una Pizia piumata profetizza,
druidi nel verso degli uccelli parlano.
Qui gli abitanti ancestrali del bosco
si riunirono tante volte, e i saggi
di quei popoli tennero consiglio
ed elessero a proprio tribunale
i più alti tra gli alberi, infallibili
e sacri testimoni, alla cui ombra
sancivano le norme, pronunciavano
verdetti e giuramenti; da millenni
le anime degli antenati riposano
imprigionate nei tronchi – ma ascolta,
un vento si alza, voci si diffondono
incerte, appena un mormorio, dal folto
del fogliame, a intervalli radi, quando
un brivido li scuote: ovunque bocche
occulte si dischiudono, nel canto
del colombo selvatico e delle acque
che scorrono, nel tremolio dell’edera –
favole che il corso del fiume porta
e disperde, parabole che oggi
gli uomini neanche ascoltano, il cui senso
non saremmo più in grado di comprendere.
 

Anche un albero sogna
Che cosa prova un albero, che sente
in quello che chiamiamo noi il cuore?
Amo fingere, e un po’ forse ci credo,
che debba avercela anche lui un’anima
e che questa sia fatta della stessa
sostanza della mia; osserva quello
(ne ignoro il nome e in realtà neanche conta):
sull’orlo di un muraglione si aggrappa,
sui fianchi impervi di una ripida erta,
e dal dirupo si sporge e lo sfida,
e sta da chissà quanto là e contempla
a molti metri di sotto nel vuoto
senza tremare, guarda fisso in basso
qualcosa che alla nostra vista sfugge,
attratto dalla vertigine eppure
determinato a opporvisi, a non cedere
alla sirena che tenta incessante
di persuaderlo che sia dolce arrendersi
al suo richiamo, al lasciarsi cadere.
E potrei immaginare cose simili
su una roccia o una nuvola, sul vento;
non è che un gioco, con in sé una dose
di follia, ma alle volte arrivo a credere
che anche le cose mute siano vive
(ma solo in un altro modo dal nostro),
e che ogni singola parte del cosmo
palpiti di anima e di sangue e ospiti
presenze che hanno però rinunciato
a rendersi da tempo manifeste,
a parlare, e ora dormono, non mostrano
il loro vero volto perché gli uomini
si sono fatti ciechi, non sarebbero
neanche in grado più di riconoscerle.
 

Dendrolatria
Gli alberi erano vivi, erano un simbolo:
in ogni bocciolo che si apre
in cima ai rami, ogni anno
l’universo resuscita
dal sonno, un dio ritorna
vittorioso dai morti; fu stupendosi
del periodico, certo rinnovarsi
della livrea del fogliame, che gli avi
s’inchinarono per la prima volta
alle potenze del fuoco e dell’acqua
e appresero che non esiste morte,
che vera è solo l’alba, la promessa
che all’onda segue l’onda, al seme il frutto.
Oggi non ho per bosco
in cui pregare, che questo, d’inchiostro;
riti sterili compio,
olocausti di sillabe,
su un altare di carta:
tempio vuoto, in cui talvolta il vento
vaste eco straniere,
perduti oracoli, fa risuonare.
 

Le voci degli alberi
Le vostre storie raccontatemi, alberi:
non di sostanza vegetale furono
i vostri corpi, ma di carne e sangue,
quando anche voi in sembianze umane un tempo
provaste cosa significhi amare
e quale sia il tormento d’esser vivi;
e tra quei tronchi furtivo aggirandomi
con passo deferente, come chi entri
senza permesso nel recinto sacro
di un’acropoli, e scivolando oggi
non visibile tra i dormienti popoli
che su un’altura trovarono esilio
o sul bordo del fiume si accamparono,
mi sembra quasi da un’età sepolta
di udire voci sorgere confuse
a miriadi, che narrino all’unisono
drammi eventi epopee, che nel profondo
ognuno sa, ma che ha dimenticato;
e nell’eco del vento scarne sillabe
di una perduta leggenda mi giungono
e ascolto dalle labbra bisbiglianti
del fogliame il racconto delle origini:
la prima alba che sorse, e affrescò il quadro
del mondo di montagne stelle e oceani.


Armonia degli alberi
Alberi, c’è un messaggio che portate
agli uomini e ad ogni essere che abiti
sopra la terra, incatenato al suolo:
non esistete che per ricordarci,
attraverso la sagoma slanciata
dei vostri corpi, con l’architettura
così complessa e insieme così limpida
dei vostri rami, con la perfezione
a un solo tempo elaborata e semplice
della figura in cui vi disegnò
ad uno ad uno la mano di un dio,
dalle radici al manto del fogliame,
che al di sopra del mondo che crediamo
reale e dei suoi veli debba esserci
non visibile ai nostri occhi un ordine
meraviglioso, un senso che trascende
la nostra capacità di comprenderlo,
e che ha nel firmamento il proprio specchio –
nel cielo che è un pavone e fa la ruota
e dispiega ogni notte la sua coda
tramata di pupille senza numero,
di iridi che bruciano, e compongono
un arazzo fittissimo di cifre
misteriose, nel buio dello spazio,
di sillabe di fuoco, che leggiamo
e non capiamo, e che ancora ci appaiono
fonte di ammirazione e di stupore
anche se non ne decifriamo il senso.
 

Paradigma dell’albero
Dal seme al frutto dall’uovo alla cellula,
tutto evolve conforme ad un principio
universale, a una legge infallibile;
tutto obbedisce a un ritmo silenzioso,
lo stesso che nell’albero accompagna
le linfe a risalire le radici
immerse nelle viscere del suolo
fino al sommo dei rami che si allungano
come palme in preghiera ad invocare
dal cielo grazie di pioggia e di luce;
e ogni essere cresce bilanciando
tensioni divergenti, opposte spinte,
da un lato attratto dalla gravità
verso la terra profonda, e dall’altro
assetato di altezze, lacerato
tra il richiamo della materia e quello
dell’aria e degli spazi; e tra le due
nostalgie parimenti irresistibili
di sangue e azzurro di istinto e di spirito
cerca il proprio difficile equilibrio.
 



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