-Si sieda e aspetti-
Una luce che sembra sporcare gli occhi, o forse sono gli occhi a
prepararsi alla realtà che temono, filtra dalla finestra
Il poliziotto resta in piedi accanto alla porta aperta della stanza.
Dal corridoio va e viene gente , soprattutto gente che passa e resta con
la sensazione
di farlo per sempre. Le questure si somigliano tutte.
Macchine da scrivere su tavolini metallici a rotelle, mobili d'ufficio che
accumulano periodi storici dal legno al tentativo inutile di farle
somigliare a quelle che si vedono nei films americani.
Agenti in borghese sull'orlo del pensionamento, poliziotti ideologizzati
nel culto dell'ordine fascista, ostentatamente giovani, accumunati dalla
divisa e da un pizzetto sottile di barba curatissima che incornicia le
labbra e scende squadrata sul mento.
Stizziti dalle ore che gli scivolano tutti i giorni tra le dita, in mezzo
a un'altra umanità
sconfitta e vinta.
Con aggressività meccanica, entra un graduato e si siede di fronte
all'uomo che aspetta.
Fa un cenno del capo al poliziotto in piedi accanto alla porta che lo
traduce istantaneamente e la chiude.
Scappa un grido nella stanza accanto e le parole urlate minacciosamente,
si rompono contro i muri di labirinti quadrati.
-E allora?-
Alcuni minuti lunghi e larghi e il commissario si accorge che Diego è
ancora in manette.
Altro cenno al poliziotto con gli occhi e gli fa togliere i ferri ai
polsi.
L'aspetto del funzionario ha la naturalità metallica di un laureato in
scienze politiche che si è perso qualche concorso per diventare
commissario.
Piange mentre gli sfilano le manette.
Alza gli occhi arrossati verso l'ispettore Quaglia e comincia a lamentarsi
senza alcun allenamento.
-Armanda. Povera Armanda mia!-
-Povera Armanda! Povera Armanda! Poteva pensarci prima di ficcarle una
pallottola in testa-
-Povera Armanda mia- continua a piagnucolare Diego, incurante
dell'ammonizione dell'ispettore
di passaggio. Lo aspetta ben altro dopo quel primo interrogatorio.
- Non sono mai stato messo in manette. Non sono manco mai passato per caso
in questo posto.
Trent'anni di matrimonio e non era mai successo niente.
-L'ha uccisa?-
Risponde di no, scuotendo la testa e scossoni di pianto che cercano di
strappare le lacrime a profondità misteriose della sua anima, gli tremano
nelle spalle.
-Povera donna. Mi contraddiva sempre. Volevo accendere il fuoco in
giardino per preparare la carne alla brace con la legna. Una stupidaggine.
Abbiamo una villetta e il sabato arriviamo ad essere anche in quindici
persone. A volte mia sorella e mio cognato con i loro figli, altre la mia
figlia più giovane con il fidanzato. Allora ti preparo la griglia fuori-
le dico
-Comincio a sistemare la carbonella e lei dice no, qui non lo voglio, poi
entra il fumo in casa
dalla finestra e sono io che devo pulire. Cazzo, e io avanti a rompermi la
schiena mentre avevo già acceso il fuoco. Do una pedata al grill e lei
comincia a dirmi che sono matto.
- Sei matto come tuo padre-
Comincia a insultarmi e a sbottare su tutto il parentado. Perfino su mia
madre che è morta-
Glielo giuro. Glielo giuro. Non so cosa è successo. Ci si mette di mezzo
anche la mia figlia più giovane e volevo che smettessero con quelle urla
isteriche che mi spaccavano la testa.
Allora gli salto addosso e scappano di corsa verso il cancello del
giardino e da lì le sentivo ancora blaterare.
Non so come sono entrato in casa e sono uscito con la pistola. E'
regolarmente registrata. Tutto in regola. Sa, non c'è più da fidarsi a
vivere in villetta al giorno d'oggi con tutte le rapine che ci sono.
Volevo solo farle tacere.- E' matto! Ora ha la pistola quel figlio di
puttana- e sparo un colpo e loro scappano e io non volevo farle scappare e
sparo ancora e ancora e loro cadono.
Oh, madonna santa cosa ho fatto…-
Sono ormai le nove di sera. Lo vengono a prendere e lo caricano sul
cellulare blindato.
L'ispettore Quaglia lo accompagna con lo sguardo mente esce dalla stanza.
Lui conosce la strada successiva. Scomparso il labirinto d'uffici,
inizierà lo spazio di cemento,
le scale che sprofondano in un inferno umido e freddo e chiuso da una
porta con le sbarre e
più in là il corridoio con le celle a entrambi i lati, il cesso finale
dove gli escrementi impediscono
di fare la doccia e dove l'odore di disinfettante riesce a soverchiare il
lezzo delle urine più tristi e disperate di questa terra.
-Porta!- grideranno dall'alto in basso e con la calma di un custode
notturno,
una guardia aprirà la porta, in attesa del detenuto e delle istruzioni.
Quaglia ha dato ordine di metterlo in isolamento.
Diego ritroverà nella cella la propria identità per scavare fino a che
punto l'aveva persa.
Scoprirà con precisa coscienza che in questo gioco era impossibile
vincere.
Anche se tutto è avvenuto in poche ore, hai perso qualcosa che nessuno
potrà mai più restituirti.
La vertigine d'un volo dentro al burrone è ancora sospesa.
La voce del poliziotto che sopraggiunge alle spalle lo devia dal pensiero.
-Ispettore è arrivato un cablogramma. Quello che ha appena finito di
interrogare ha ucciso moglie e figlia. Sono morte dieci minuti fa.-
Sente i passi che vanno e vengono dal corridoio. L'ha chiusa a chiave
nella stanza ma non avrebbe neanche la forza di battere i pugni come ha
fatto tante altre volte. Non ha più fiato per urlargli "bastardo". La
chiave gira sulla toppa e lo scrocchio ha il rumore di un sasso che
rotola.
-Ti amo, lo capisci? Ti amo e non so cosa mi prende in certi momenti.
Ma ti amo, lo capisci che ti amo? -
Resta dov'è la donna. In silenzio, la mano a pugno premuta sulla bocca.
Come se volesse trattenersi dal dire qualcosa, come se la rabbia e la
tristezza miscelate nello sguardo, fossero parole già dette e talmente
consunte ormai da non avere più suono.
Si è ucciso il senso delle parole in quelle estenuanti litigate. E lei
è colpevole quanto lui: ha tradotto un pensiero contorto quando non
andava neppure ascoltato, ha permesso che il termine "amore" si
infilasse nelle loro discussioni perverse, prive di contenuto. La
responsabilità intellettuale giocata a dadi e la posta in palio una
bugia dietro l'altra.
- Elena, vedi che sono sempre stato introverso? Lo ricordi? Quando ci
siamo conosciuti fu la prima cosa che notasti in me. Dicevi che ero..,
come dicevi amore?-
Resta dov'è Elena, non si muove di un centimetro e ha deciso che non
gli parlerà più.
Lo punirà così: non parlerà mai più con lui.
-Dicevi che ero una sfinge. Ricordi che mi chiamavi "sfinge"?-
Il silenzio di Elena perfora i timpani.
Renato apre la finestra, accende una sigaretta e si mette a guardare di
fuori, i gomiti appoggiati al davanzale, lo sguardo che cade
nell'asfalto di sotto e come un volo di farfalla si alza a contemplare
la notte estiva.
Il rumore di un motorino che passa, striscia il silenzio come un'unghia
sul vetro e scompare portato via dall'aria di fine agosto.
( Non ci siamo mai compresi io e questa donna. Mi trascina in discorsi
senza senso. Pensa di sollevarmi dentro i sensi di colpa, di cambiarmi.
Tira fuori la parte peggiore di me con tutte le paranoie che gli
passano per la testa)
Butta il mozzicone e socchiude la finestra.
La guarda. E' sfatta, spettinata. S'è ingrassata ultimamente, pensa
Renato.
-Non puoi pretendere che io non abbia altre donne per il resto della
vita-
Ricomincia da dove è iniziata la discussione ed Elena continua a
tacere.
-L'amore è una questione, il sesso un'altra. Lo capisci che io ti amo,
ma non mi attiri sessualmente, non mi hai mai fatto sangue Elena. Tu
non vuoi ficcarti nella testa che per un uomo è diverso, non vuoi
accettare la realtà delle cose.
Ma perchè amore mio non fai finta di non vedere, perchè non fai finta
di non sapere? perchè ti diverti a prendermi in fallo? a cogliermi in
bugia? Pensi che io sia talmente idiota da lasciare nella tasca della
giacca i biglietti del cinema perchè dimentico di buttarli? Dovrei
essere ipocrita come la maggior parte dei mariti? Eh si, fare come
tutti. Cancellare le chiamate, o meglio avere un numero privato,
un'altra sim. Dovrei dirti che ho una riunione all'ultimo minuto.
Sissignora non sei altro che una banale donnetta. Una massaia noiosa
quando ti comporti così.
Se tu mi lasciassi in pace, non mi passerebbe neppure per l'anticamera
del cervello di discutere-
Elena è muta. Un rivolo di sangue le stà uscendo dall'orecchio, cola
lungo il collo e si ferma sul colletto della camicia blu. Una macchia
scura che si allarga lentamente.
Non parlerà mai più con lui. Non si farà toccare mai più da quello
schifo di uomo.
Sposta la mano dalla bocca e sfiora con le dita il liquido caldo che le
scivola sul collo. C'è un silenzio totale ora nella casa. Un silenzio
fatto di assenza di rumori se non fosse per il ronzio di un'ape nel
cervello che sfonda quel bel muro di ovatta.
Gli occhi di Elena sono striati da lividi blu che in qualche punto si
sono gonfiati e tinti di viola. Le palpebre tirano il sonno. Non gli
parlerà mai più. E' stanca delle sue botte, dei maltrattamenti, dei
tradimenti. Per la prima volta dopo tanto tempo, sente che staserà si
addormenterà prima di lui, che non elemosinerà la sua buonanotte. Il
pensiero le scorre dentro e le regala un senso di soddisfazione mai
provato. Ancora più che immaginare di sbattere la porta e andarsene
come si è promessa mille volte di fare e poi è rimasta là per anni a
farsi infinocchiare da questi rosari di "amore" postumo. E' sempre
stato postumo, l'amore di Renato.Lo dichiarava a parole, sempre
dopo."Dopo" contiene un "Prima" inaccettabile.
"Idiota" le sgorga ancora dalla la mente. E non capisce se le viene
pensando a sé stessa o a lui, quell'idiota che suona tre note. Per
fortuna ha avuto la musica in quegli anni a lenirle il vuoto interiore,
il pianoforte a suonarle l'anima.
Scivola di lato dalla sedia Elena.
Scivola elegantemente e cade a terra, come una signora dopo un lungo
valzer.
(E' finita Renato.Tocca morire per non parlarti mai più)
Da oggi ho iniziato il turno di
lavoro diurno.
Un mese sì e uno no: quello notturno mi ammazza, specie d'inverno. Inizio
alle venti e stacco dopo le tre.
E' quasi un anno che mi destreggio con questi turni del cavolo, con
l'arroganza del datore di lavoro, con quella sorta di promessa violenza
che gli aleggia perennemente negli occhi se non produci nei tempi
stabiliti.
Del resto, non avevo molto altro da scegliere quando sono arrivata a
Milano. Prendere o lasciare.
Il turno diurno è meno pesante, alle diciasette smetto e il mattino inizia
dopo le dieci. Orario continuato, in piedi. Se non fosse perchè non ho mai
smesso di guardare con gli occhi e il cuore, il mondo che mi passa
accanto, sarei già cieca.
Sì, perchè questo è un lavoro che ti toglie la voglia di osservare, ti
deruba dei sogni, ti spegne il desiderio.
Hanno voglia i maschi di dirmi che sono sprecata, che con il fisico che
ho, potrei fare l'indossatrice o qualcosa di simile!
Il turno diurno è già un toccasana, non resto a discutere con loro di
cos'altro potrei fare.
Non avrei mai e poi mai pensato di riuscire a lavorare in questo settore.
Quand'ero bambina, soldi a casa ne giravano pochi, tuttavia mio padre e
mia madre sognavano per me un avvenire diverso, avrebbero desiderato la
loro Misha professoressa o chennesò, almeno maestra.
Ce l'ho anch'io una storia che ad un certo punto è uscita dal pianeta
"favola": un bel giorno mio padre è schiattato e mi sono ritrovata con tre
fratelli e mia madre senza l'ombra di un quattrino.
Avevo sedici anni e la voglia di sbattere in faccia al destino la mia
assolutà volontà:sarei diventata qualcuno.
Ho scalato montagne per arrivare in questa città.
A diciasette, scendevo dal treno alla stazione della città più elegante
del mondo, convinta che ce l'avrei fatta.
San Babila era ai miei piedi, ho percorso la galleria del Duomo con gli
occhi all'insù, fissi sulla volta e poi ancora in giù sulle vetrine dei
negozi.
Dopo quindici giorni avevo già il mio bel lavoro, pagato così e così
perchè le trattenute sono altissime.
Spero che prima o dopo, riavrò il mio passaporto. Una questione è certà:
non resterò a Milano.
Lavorare qui e così, mi stà uccidendo.
Il turno di lavoro diurno è meno tremendo, perchè almeno vedo la luce del
sole e la paura mi assale diversamente quando salgo in macchina con i
clienti.
Vendo amore a pagamento per conto di una piccola società Russa.Tre ceffi
che odio.
Mi chiamo Misha, il prossimo ottobre compio diociott'anni e tutto ciò che
desidero oggi, è tornare a casa dalla mia famiglia. Aiutatemi!
E' la giornata ideale per scrivere.
Diluvia da ore senza sosta. Il cielo stà scaricando sulla terra le lacrime
dell'umanità, il dolore di chi non ha più fiato per urlare. Capita che il
cielo si incazza a guardare quello che succede nel pianeta. Capita che
discute violentemente con il dio di tutte le teologie esistenti e poi, non
ottenendo garanzie per i poveri cristi che lo invocano, il cielo si sbatte
le nuvole alle spalle ed esce dal regno dell'infinito, dall'onnipotenza,
dell'onnipresenza. E piove, piove a dirotto. Tutte le lacrime della terra
e degli uomini. Se le ingoia il mare, in silenzio.
E' la giornata ideale per scrivere.
Ideale per ricordare, ascoltare la mente, soffermarsi sul respiro
dell'anima divenuto ormai asmatico.
Dovrei vedere settimanalmente lo psicanalista. Da un buon periodo a questa
parte, evito quelle sedute. Ne ho le scatole piene delle diagnosi, delle
case di cura, dei distretti di Igiene mentale.
Gli strizzacervelli possono pulirmi le scarpe. So manipolarli come voglio.
Non ho bisogno che siano loro a spiegarmi la schizofrenia, l'isteria
paranoica. Mi fanno ridere quando parlano di "soggetto Border Line".
Mi sono sempre servito di questi tirapiedi che hanno la presunzione di
leggere la psiche, di scovarne gli squilibri.
Avevo dicisette anni, quando la "famiglia" decise di affidarmi alla prima
struttura. Un manipolo di idioti incapaci.
Ho raggirato più psichiatri io che un truffatore di professione.
E' la giornata ideale per scrivere. Piove che pare un castigo.
Cosa volevano dimostrare quegli emeriti imbecilli? Che andavo aiutato per
il trauma della morte di mio padre?
Il silenzio in cui mi chiusi per un anno, dopo la sua morte, era quanto mi
dovevo per riflettere e metabolizzare la sua morte.
Ucciderlo non era stata una faccenda semplice.
Lo odiavo quell'essere che si divertiva ad andare a caccia e mi imponeva
di seguirlo.
-E' uno sport salutare figliolo. Cammini, stai all'aria aperta-
Sparava alle lepri, ai fagiani, alle foleghe. A qualunque cosa si
muovesse.
-Spara figliolo! Centralo. Così, tieni la canna con il palmo. Bene
ragazzo. Accosta il calcio alla guancia; no, non così. Appoggialo alla
spalla. Vai, Vai, spara, perdio spara. L'hai mancato. Hai alzato il
braccio figliolo. Sei negato ma imparerai-
Tse. Ho alzato il braccio. Certo che l'ho alzato. Come faccio a sparare ad
un essere inerme?
-Spara figliolo, spara-
Pareva che mio padre valutasse le persone per come usavano il fucile. Quel
tale era un "grande" se portava a casa sei lepri. Straordinario, se gli
veniva all'orecchio che se n'era andato oltre frontiera a cacciare il
cervo.
Tutti gli altri, quelli che non sapevano andare a caccia, erano uomini a
metà. E lui, un figlio a metà, non lo voleva.
Non avevo neppure un fratello al quale passare la staffetta.
Mia madre, priva di nerchia com'era, s'era defilata da qualunque ruolo che
fosse d'opposizione. Preferiva la manovalanza casalinga. Lo lasciava
parlare, gli permetteva d'essere un maschio tutto d'un pezzo.
-Non ripeto le cose due volte. Chi sbaglia paga- questo il suo slogan.
Fu così che quella mattina d'inizio autunno, a tre mesi dal giorno in cui
sarei divenuto maggiorenne, accondiscesi ancora una volta ad alzarmi ad
un'ora assurda per accompagnarlo a caccia.
Mi venne a mira nella tarda mattinata. Mi precedeva lungo il percorso,
avanzavamo tra sterpaglie e alberi. Dalle fronde filtravano triangoli di
luce e lo stormire degli uccelli pareva ossessivo.
Rimasi ad osservare qualche istante, i riquadri della camicia verde e
gialla che entravano ed uscivano dalla mia vista attraverso il mirino.
Sparai nel momento in cui si fermò per spostare i rami d'un cespuglio che
gli ingombrava il passo.
Lo centrai in piena schiena. Cadde in avanti con il rumore d'un sacco di
farina che piomba dall'alto. Lo lasciai tirare le cuoia com'era giusto,
steso sul letto di foglie cadute.
Rimasi a fissarlo fino a che il rantolio si spense e il torace non smise
di sussultare.
-Incidente di caccia. Una mattina di festa si trasforma in tragedia per il
padre e il figlio usciti per una battuta di caccia.
Il colpo partito per errore, centra in pieno l'uomo che muore quasi sul
colpo. Scioccante la reazione del figlio che non ricorda più nulla-
La notte seguente all'accaduto, dormii finalmente bene.
Finalmente libero, i pensieri sgomberati dalla presenza ingombrante di
quell'essere.
E' la giornata ideale per scrivere. Piove e non accenna a smettere.
Ho passato la vita ad ingannare il mondo. Non ho rimorsi. Mi restano
troppi rimpianti per cose che avrei voluto fare, per alcuni progetti che
avevo e, gioco forza, dovuto sopprimere.
La mia psiche "disturbata dal terribile evento", m'ha impedito d'avere una
vita normale.
Ho trascorso una buona parte della prima giovinezza a "lasciarmi curare"
ed è stato allora che ho iniziato a dipingere. A Venezia, la città dove
vivo ora, ho allestito le mie mostre importanti, grazie alle quali sono
uscito dall'anonimato e i miei quadri vengono quotati bene, sopratutto
all'estero.
E' la giornata ideale per scrivere. Piove senza sosta da molte ore.
Venezia invecchiata e ingrigita, silenziosa. Venezia ondeggia sull'acqua.
Da Cà de Sisto guardo oltre le cupole.
Le coperte e i cuscini hanno l'odore di Virginia.
L'avvocato Dejarbe annusa l'aria, scivola con la mano sulla federa che
conserva l'impronta della testa di sua moglie. Raccoglie un lungo
capello nero e lo trattiene tra indice e pollice.
Poi, lo infila nella tasca della giacca grigia. Indugia ancora un
secondo a guardare la stanza e pensa che anche con le finestre
semichiuse è colma della luce della donna.
-Vado in studio. Passi a prendermi alle sette?- dice battendo le nocche
sulla porta del bagno a fianco della stanza.
Il rumore lieve dell'acqua spostata dai piedi nella vasca
idromassaggio, accompagna la risposta di Virginia.
-Ok. A stasera-
Vorrebbe aggiungere qualcosa l'avvocato e invece raccoglie il cappotto
in stile ministeriale scuro, attraversa il lungo corridoio del reparto
notte; con un cenno del capo saluta la filippina che stà riordinando in
salotto ed esce.
Virginia gli appare come uno strano miraggio concreto dal giorno in cui
l'ha conosciuta.
Dejare aveva superato d'un pezzo i cinquanta e benché la consistenza
ricchezza gli regalasse un vantaggio nei confronti dei suoi coetanei,
il suo fascino era ugualmente visibile.
Un uomo di grande classe e cultura, sapientemente conservate; un
classico esemplare dell'alta società meneghina. Molto attento alla
forma, attratto dalle donne di un certo stile, mai appariscenti ma
dannatamente disinibite.
Per Virginia ha imbarcato moglie e due figli. L'ha liquidata con una
somma da capogiro e si è ripreso un lembo della vita che in fondo gli è
sempre mancata.
La sessualità di Virginia gli appare da subito un velo trasparente
sulla indubbia classe che possiede e che agli occhi di un attento
estimatore del genere, salta agli occhi in un solo balzo
Non fosse altro per come cammina.
Da cinque anni è divenuta la moglie dell'avvocato Dejare, uno dei
penalisti di Milano più contesi.
Trent'anni di meno, conserva nei lineamenti l'origine asiatica
ereditata da parte materna.
Un viso e un corpo che avevano spazzato ogni dubbio all'epoca, dalla
testa dell'uomo.
C'è da aggiungere che a togliere qualsiasi tentennamento all'avvocato,
tipico delle faccende che si trascinano moglie e figli in coda, era
stata l'assoluta libertà mentale di Virginia.
Fosse stato per lei poteva rimanere sposato. Nessuna preclusione sulla
condivisione dei letti. Ovviamente reciproca e, questo, lo ha messo in
chiaro fin da subito.
-Ti sposo, ma non voglio sentirmi limitata nella vita intima- e a
Dejare era parso davvero un miraggio, forse più per una serie di teorie
personali a vantaggio della propria coscienza maschile.
A parole era di una semplicità unica. Niente possesso, niente gelosie.
Lui, in fondo, si era convinto che era meglio essere comproprietari di
un vulcano che gli unici proprietari di un iceberg.
Quando poi, la prima stilettata di gelosia e orgoglio gli aveva fatto
fare qualche gesto innervosito, Virginia l'aveva messo al muro.
-Non c'è nulla che voglio nasconderti. Puoi essere presente anche tu.
In fondo sei mio marito e non l'ho mai nascosto agli uomini con i quali
mi concedo un passatempo-
Il senso di intrappolamento che aveva avvertito in quella provocazione,
l'aveva rimosso con delle semplicissime riflessioni.
Anche se non ci fossero stati i locali per scambio di coppie che
secondo statistiche facevano il pieno nei fine settimana, da che mondo
è mondo esistevano i minuetti a trois, a quattre
In tutta sincerità, se avesse potuto descriverla proprio tutta,
Virginia senza saperlo l'aveva spinto a volersela sposare quella
ragazza dal sorriso di porcellana bianca. I sensi dell'avvocato si
erano rinverditi; mille immagini di film a luci rosse gli erano
comparse all'improvviso e nell'abbracciarla aveva pensato che era tempo
di viverla appieno la sua ricca, noioso esistenza.
I dettagli in "un breve racconto" si risparmiano e lasciamo al lettore
chiunque esso sia e alla propria personale immaginazione, di quanto e
come Virginia avesse sedotto un uomo nato sotto i bombardamenti della
seconda guerra mondiale, con una precisa matrice di perbenismo,
tipico delle classi sociali aristocratiche e non, dell'epoca.
Molto si fa e altro non si fa- Molto si dice e altro non si dice. Nulla
di veramente etico.
Una moralità di seconda mano per buon uso e costume.
Le avventure si sono moltiplicate, le vacanze sono almeno quattro
all'anno e più giri e, più incontri ragazzi da sballo, abbronzati, la
pelle come e il bronzo e i capelli che solo il surf sa striare
naturalmente.
Francesco l'hanno conosciuto insieme lui e Virginia, a Milano, guarda
un po'..A volte non serve fare voli transoceanici per incontrare una
creatura di ventiquattro anni appena abbozzati e una montagna di soldi
che gli riparano gli studi di ingegneria.
-Mi piace- dice dopo quella cena Virginia.
-Vabbè organizza- risponde Massimo Dejarbe. Pur di accontentarla e
accontentarsi ruberebbe la luna al mondo e gliela manderebbe a casa
confezionata da Bulgari.
Finchè Virginia sceglie perennemente uomini più giovani di lei di
almeno una decina d' anni, più di tanto non lo disturba. Se proprio si
va a scavargli nei meandri più profondi, lo eccita e lo fa sentire un
piccolo dio. In quelle stanze, là dove avvengono quegli incontri della
moglie, lui è un assistente silenzioso, mai volgare, mai invadente. Poi
è sua, è sempre sua, come una bella vettura di cilindrata che sì è
impolverata durante un tragitto e a cui basta un lavaggio per far
risplendere la carrozzeria nuova. Non è più tempo per Dejare di vendere
e acquistare le vetture con la furia di un tempo.
A un anno dall'imatricolazione le auto appartengono già al modello
precedente, subiscono una svalutazione mostruosa come le porti fuori
dalla concessionaria. Virginia è un esemplare unico di Ferrari che più
il tempo passa e più si rivaluta. In giro ce ne sono talmente poche che
il mercato tiene perfino in Giappone. E Dejarbe lo sa.
Di solito le "avventure" hanno vita di ore. Poi si passa ad altre
questioni. Non è che la vita dei coniugi sia basata esclusivamente su
questa divagazione. Cene, mostre, concerti, viaggi. Bè, si. Ci scappa
sempre qualcosa, anche se parti da casa con tutt'altra idea.
Virginia è una tritasassi quando ci si mette.
Con Francesco cominciano a perdere connotazione il "patto di
solidarietà".
Dejarbe ha scoperto che lo vede senza dirgli nulla.
-Perché devi mentire se tutto è chiaro tra noi?- gli dice la sera alle
sette quando entra nel suo studio privato. C'è un velo di rimprovero
nella sua voce, miscelato ad una certa amarezza.
-Non ti ho mai mentito Massimo- risponde Virginia passandosi la punta
dell'indice sulla palpebra.
E' un tic nervoso che la assale quando è in difficoltà.
Lui potrebbe leggerla come un libro quella giovane donna.
-E allora perché adesso?Perchè mi escludi dalla storia? E' una storia
vero Virgy?-
Pare un padre preoccupato per l'avvenire della figlia. La guarda
socchiudendo a fessura un occhio e tenendo l'altro ben aperto su ogni
minima mossa facciale che gli dia un segno.
-Meglio parlarne. Io lo amo-
Ecco è fatta pensa Virginia. Francesco non la vuole dividere con altri,
in due mesi si è scoperta un'anima nuova, come dire, diversa.
-Ha dieci anni meno di te, è uno studente. Cosa pensi di farci?-
Vorrebbe dirglielo cosa pensa di farci, ma ha pietà. Si dice che un
uomo vero lo riconosci dalle decisioni che prende e lei non ne ha mai
conosciuto uno prima di Francesco.
E' Francesco che conduce il gioco, Francesco che si è preso una
sventola che gli ha frullato in unico mix il cuore, il cervello, e
l'anima.
(Tu lo lasci. Punto. Se mi ami lasci lo "zio", lasci il "nonno". Fa
come cazzo vuoi.
Se mi ami lo molli, altrimenti Virginia si chiude.
O lo ammazzo e finisco in galera o, ci pensi tu a dirglielo)
Questo discorso chiaro, limpido come l'acqua di una fontana di
montagna, ha deciso per entrambi.
-Non è l'ultimo dei moicani Francesco. Ha di che vivere per due
generazioni. Quali ansie vuoi mettermi? Ho trentaquattro anni. Figli
non ne hai voluti, è l'unico baratto in fondo che c'è stato tra me e
te./ Niente figli -Tutti gli amanti che vuoi/ . E' finita Massimo, se
mai è cominciata.
Sono incinta, l'hai capito o non l'hai capito?-
(Incinta. Come può una statua bella come Virginia essere incinta? Come
si può pensare di deturpare un'opera scultorea? E' uno sfregio
all'estetica. E' un deficiente il ragazzino, un povero imbecille che
non ha capito nulla)
-E se non ti lascio andare con lui?- Dejare sa che non può mettersi di
traverso sul pavimento, sa che lei lo scavalcherebbe perché oltre che a
conoscerla, gliela vede dipinta sullo sguardo la decisione definitiva.
C'è silenzio nello studio. Massimo Dejare fa ruotare la Mont Blac sulla
scrivania e la fissa come fosse una trottola di lusso. Se la porta
quasi vicina al naso e la rimira.
-Non sono un perdente Virginia, per natura non lo sono e sono troppo
intelligente per mettermi a competere con un ragazzino-
-Quindi?- risponde innervosita ma già più sollevata da quando è
entrata.
E solo questione di orologio. Ormai il più è fatto.
-Quindi fammi parlare con lui, da solo, a tu per tu. Fallo venire da me
domani sera a quest'ora-
Virginia esita tra varie possibili risposte e l'idea di prolungare
ancora quel discorso ha l'effetto di spingerla ad acconsentire non
prima di sondare cosa effettivamente vuol dire a Francesco.
-Molto semplice tesoro. Mi firma una rinuncia a qualunque tipo di
responsabilità o eventuale richiesta da parte tua di somme di denaro o
altro. Fintanto che non ci sarà una soluzione del tutto legale, non
voglio mi si attribuiscano paternità inesistenti. Si da il caso che ho
due figli-
Lascia una scia di profumo e ricordi fastidiosi chiudendosi la porta
alle spalle, senza aggiungere una sola sillaba. Lui si mette il
cappotto ed esce fumando
.
(Ma davvero pensavi di invecchiare con lei? Invecchiare come? E' già
successo Dejare. Eri vecchio quando l'hai conosciuta. Lasciala andare,
in fondo ti ha regalato quattro anni della sua giovinezza. Cosa
pretendevi?)
Già. Si ha un bel dire cosa si pretende quando finisce una storia. E'
un bel casino quando ci sono le carte in regola. Figurati con la moglie
incinta di un altro che ha 43 anni meno di te. A chi gliela racconti
questa disavventura amorosa? Ti risponderebbero tutti che potevi
pensarci prima.
Gli stessi che si sono congratulati per la tua ottima scelta cinque
anni addietro, gli stessi che sono venuti al ricevimento del tu
o matrimonio.
(Meglio così. Invecchiare con dignità, un minimo di aplomb anche in
questo senso. Passerà). Passerà. Si è mai visto un uomo morire per una
donna?) pensa guidando verso la casa Limone.
( Che ci vado a fare a casa in via del Senato? Mi metto a parlare
nuovamente con lei della cosa?
Le pianto il muso?)
Con il cellulare avverte il guardiano di Casa Dejare a Limone, di
preparare per la notte.
E' così che vanno le cose, anche nei ceti più alti della società. Negli
altri per una questione del genere si finisce sul divano di un amico o
in una piccola stanza di una pensione.
I più sfortunati in macchina, se ce l'hanno. La vita può cambiare dalla
mattina alla sera.
Ma avete mai visto un uomo morire perché una donna lo lascia?
In genere no, per dirla in tutta franchezza, ma un uomo e una donna
insieme accade che si.
Francesco accompagnato a tutti i costi da Virginia, segna il proprio
destino.
Dejare aveva pronti nella canna del fucile per la caccia grossa due
colpi.
Due pallettoni che abbattono in un secondo un rinoceronte se hai la
mira buona.
Due, perché non si sa mai cosa puà succedere anche al più perfetto dei
percussori con dispositivo automatico.
Lui voleva parlare a tu per tu con Francesco. Da solo.
Virginia non doveva esserci e non si viene meno agli accordi.
Martino
(Devo stare attento a dove metto i
piedi. I piedi devono stare attenti a dove si mettono. Devo stare
attento a dove metto i piedi. La mamma dice che devo stare attento a dove
metto i piedi. Non trovo più la figurina nella tasca. Devo trovare la
figurina e devo stare attento a dove metto i piedi)
Martino cammina mano nella mano con la madre. Vanno da qualche parte,
Martino non lo ricorda ma la mamma l'ha detto prima d'uscire.
-Devi stare attento a dove metti i piedi che fuori piove e ti inzaccheri
tutto se non guardi-
(Come faccio a trovare la figurina nell'altra tasca se la mamma mi tiene
la mano?-Devo stare attento a dove metto i piedi e i piedi devono stare
attenti a dove si mettono)
Martino ha dodici anni e quando è nato, per incuria dei medici che non
hanno deciso per il parto cesareo in tempo, è rimasto troppo a lungo in
asfissia. Il danno che ha riportato è rimasto come una ferita inguaribile
nella sua mente e come una coltellata che sanguina in continuazione, nel
cuore di sua madre.
Come lo ama questo bambino che non avrà mai la mente di un uomo, che non
gli si invecchieranno mai i pensieri, non gli si logoreranno mai i sogni.
Martino va in una scuola speciale, una di quelle scuole dove non si
promuove e non si bocciano i ragazzi. Li si aiuta e basta. Martino ha
dovuto penare per imparare a muovere le gambe in sincronia. Non è perfetta
ma, cantano con garbo i passi, attento a non incrociare le punte dei
piedi, Martino va.
(Dovrei fermarmi, lasciare la mano della mamma e cercare la figurina
nell'altra tasca. Non posso fermarmi, devo stare attento a dove metto i
piedi. I piedi devono stare attenti a dove si mettono. Forse la figurina
l'ho lasciata a casa.)
Egle aveva desiderato quel figlio quanto la terra arsa dal sole desidera
la pioggia.
Anni a sperare di stagione in stagione di vederlo crescere dentro di lei
quel bel sogno.
Quando finalmente era successo, avevano pianto di felicità lei e suo
marito.
E di nuovo avevano pianto d'un dolore atroce e spaventoso, dopo che
Martino era nato. Dolore, rabbia per quegli incoscienti di dottori e la
loro superficialità che stava ancora dentro alla causa,ad aspettare che
qualcuno gliela facesse almeno pagare. Allevare un bambino con i problemi
di Martino, non era stato facile.
Quello che angosciava Egle, era il futuro di Martino. Non lo puoi vedere
il futuro d'un bambino che ha i problemi Puoi immaginarlo grande,
all'università, a fare il militare, a partire per una vacanza con gli
amici? Puoi immaginarlo con una ragazza, innamorato,che l'aspetta con il
motorino e il casco sulla testa, sotto casa?
Come rischi di guardarlo diventare vecchio senza farti cogliere dal
terrore? E sì. Ti viene la paura che ti assale se ti puntano la canna
d'una pistola carica sulla tempia. E' caricata a tempo quell'arma; come
una mina.
Sperare che Martino muoia prima di loro. A chi mai lo lascierebbe? Ad un
Istituto?
Dio come lo ama Egle quel suo bambino rimasto cucciolo, anche se di fuori
è cresciuto. Quanto ama quel suo passo lento e dondolante che ti fa venire
voglia di proteggerlo solo a guardarlo.
Il padre, il marito di Egle, non ha mai più smesso di piangere dalla notte
in cui Martino è nato. I momenti terrrificanti rimasti conficcati nel
cuore come spilli,gli brucia l'anima un'ortica cresciuta con la
disperazione: Martino cianotico, Martino che non piange, la bocca che
annaspa in cerca d'un refolo.Poche ore prima, nella pancia della mamma
volteggiava come un astronauta nel silenzio, nella pace, coccolato da un
amore che gli arrivava attraverso un cordone.
Ancorato come una barca nel porto, Martino era stato felice dentro quella
piccola, calda isola.
Poi, come un uragano che ti strappa con violenza dalla terra la sua
felicità era finita. Un lungo viaggio senza respirare, il mare ormai
lontano, le tiepide acque un ricordo. Giù nel profondo del burrone, giù,
sempre più solo, al buio. Mai più pesce, mai più acqua, mai più isola, mai
più.
(La mamma mi tiene la mano. Non posso aprire la mano.
Quando torno a casa cerco la figurina. Forse è nella tasca.Devo stare
attento a dove metto i piedi non posso lasciare la mano della mamma, la
mia mano è in quella della mamma)
Piove che pare un castigo di dio quel giorno di ottobre.
Piove sul viso di Egle e la pioggia si mescola alle lacrime.
Piove anche su Martino, ma lui l'acqua la adora. Non sa perchè, ma la ama
tanto l'acqua.
(Devo stare attento a dove metto i piedi. Non posso lasciare la mano della
mamma. La mamma mi tiene la mano.La figurina forse è casa.)
Non fa in tempo a frenare il macchinista.
Li vede troppo tardi.
Il treno passa su Martino e sua madre.
Pezzi che volano come vele che si
staccano dalla terra e si portano
via le storie, i sentimenti. Tutto.
-Era in mezzo ai binari con il bambino,
stretto, vicino. Ho azionato i freni,
ma in quel tratto chi può aspettarsi
di trovare qualcuno al centro delle rotaie?-
Piange il conduttore del treno.
Lo zoppo era grasso e agile.
Trascinava quel che era rimasto della sua gamba, con un movimento del
corpo perfettamente sincronizzato. Per questo l'avevano soprannominato
Tango.
A dirla tutta, non era esattamente il passo di un tango a ricordare la
menomazione ma, si sa, in un piccolo paese di montagna di mille abitanti,
l'immaginazione si ferma all'interno della valle circondata dalle cime,
innevate per buona parte dell'anno.
Così che quando nacque, Tango doveva averlo avuto un nome ma, gli durò
troppo poco per essere memorizzato dalla collettività. Già che a nascere
ed essere abbandonati fuori di un convento dentro a una cesta, non è il
massimo della fortuna, le suore gli avevano tuttavia permesso l'accesso
ufficiale a questa vita terrena. Le prime e uniche mani femminili ad
accarezzargli il corpo, furono le loro. L'unico profumo della pelle di una
donna, miscelato all'odore di minestrone, restò nella memoria olfattiva,
legato a loro: alle suore.
Nei giorni seguenti fu affidato all'orfanatrofio e altre consorelle si
presero cura di lui.
Gli odori, le percezioni olfattive, imbrigliate in quel piccolo mondo che
esalava aromi confusi. Pietanze e acqua santa, una tantum, il profumo del
sapone.
L'unico viaggio in macchina Tango lo fece a quattro anni, dentro
all'ambulanza che a sirene spiegate l'aveva portato al nosocomio del
capoluogo più vicino, in una tarda mattinata di diciotto anni addietro.
L'ortolano che si curava della piccola coltivazion dell'orfanatrofio,
manovrando il trattore non si avvide del piccolo sgusciato dal refettorio.
E anche in quella occasione Tango, Felice all'anagrafe, dovette
ringraziare il suo santo protettore.
San Felice era caduto per puro caso nel calendario un gelido 14 gennaio,
giorno in cui venne trovato.
In fondo, per come era iniziata la sua vicenda terrena, non si poteva del
tutto definirla una propria e vera "sfiga".
- "La gamba maciullata non è stata amputata.
- Vedi che Gesù ti ha tenuto stretto al suo cuore ?"-
Alla fine, anche il più scettico e ostinato degli atei, si convincerebbe.
Tango non ebbe negli anni seguenti molte opportunità per farsi una propria
idea personale relativamente alla fede, né di lasciarsi cullare la mente
dalla fantasia. Meno che meno di oltrepassare la soglia di un'istruzione
primaria.
Effigi di santi, madonne e crocifissi stigmatizzarono il suo immaginario
anche quando,
negli anni della pubertà certi riflessi involontari del suo basso ventre
lo lasciavano attonito.
Poi ci si abituò, come un cane maschio, quando da cucciolo diventa adulto
e, automaticamente
alza la zampa.
-E' la natura- gli disse un giorno l'ortolano al quale aveva fatto domande
confuse.
-E' la natura- confermò una delle suore più evolute.
In un certo qual senso, lo zoppo grasso e agile, viveva all'interno di una
bolla di plastica opacizzata.
Quelle di cristallo erano già state esaurite nel gran mercato dei destini,
quando nacque.
Qualcosa aveva imparato negli anni trascorsi in convento: come e quando si
concima il terreno.
Quanto si ricava dalla vendita delle patate e tutto sommato a ventidue
anni, non era neppure l'ultimo barbone della terra. Un letto nel convento
assicurato per il resto dei suoi giorni, grazie alla carità dei fedeli. Un
lavoro che gli garantiva la pagnotta e, la vita che gli aveva donato il
suo Dio. Eh, sì
- "La vita che ti ha donato Dio è una cosa preziosa"- avevano ripetuto
fino allo sfinimento le monache, ignorando forse, chissà, che la vita la
doveva formalmente a una donna che si prostituiva e non avrebbe saputo
cosa farsene di lui.
Quello che Tango non riuscì mai a spiegarsi, fu il cumulo di emozioni che
lo travolsero
quel giorno memorabile. Il giorno dell'innamoramento al primo sguardo,
benedì le sue sensazioni segrete, suonò le note sconosciute di uno
strumento percussivo.
Il cuore iniziò a battere così forte che temette di udirlo echeggiare
nella valle.
Jlenya gli si parò alla vista in una mattinata di inizio estate. Alla
fermata del pulman che collegava il paese, era sola ad aspettare la prima
delle quattro corse giornaliere; l'unica via
di congiungimento con la rete ferroviaria distante trenta chilometri.
Tango, a bordo dell'Ape carica di patate destinate al mercato, arrancava
sulla salita e l'ebbe
di fianco, come se la visione di un angelo si fosse improvvisamente
materializzata.
Rallentò a tal punto che la tre ruote si spense e Jlenya incrociò il suo
sguardo beota per la frazione di un istante.
Com'è vero che sono i nostri occhi a vedere quello che vogliono vedere.
Jlenya nello sguardo di Tango non lesse null'altro che quello che c'era:
un grande vuoto la cui assenza di vita interiore appiattita, rendeva
innocuo.
Lui, invece, vide il riflesso degli aghi dei pini, il più bel tono di
verde dell'erba e, le forme acerbe di Jlenya gli ricordarono Suor Giselda,
quand'era giovane e lui la spiava dalla grata del dormitorio prima di
dormire.
Così iniziò quell'amore. E divenne l' amore segreto di Tango-Felice.
Divenne un tale fisso e costante pensiero che forse ci fu qualcuno ad
accorgersi che in lui qualcosa stava mutando. Era più Felice che Tango.
Quegli incontri si moltiplicavano; lui l'aveva rivista altre volte alla
stessa fermata della corriera e , alla fine si convinse che quello era una
sorta di appuntamento tacito.
Jlenia dalla pelle bianca e gli occhi verdi, non aveva nome per lui. Non
lo conosceva.
Era semplicemente la "ragazza bionda" che lo aspettava tutte le mattine.
Nello scambio delle stagioni, l'estate volò e l'autunno giunse con il suo
bel carico di nuvole e pioggia, che in montagna durano per giorni e
giorni.
Quella pioggia era benedetta come l'acqua santa.
Se non fosse piovuto con una tale intensità quel mattino, chissà mai se
Jlenya, fradicia e inzuppata fino al collo, avrebbe fatto segno con la
mano a Tango, di fermarsi. Tutto era assurdamente in ritardo quella
mattina alle sei e trenta.
Anche lo zoppo agile e grasso lo era, con il suo solito carico di patate
ma, si fermò.
-Mi daresti un passaggio fino alla piazza? Forse riesco ancora ad
acchiapparlo il pulman-
Tango guardò all'interno dell'abitacolo, lo strapuntino del tre ruote
aveva posto per il corpo esile del suo amore segreto. Alzò il braccio dal
manubrio e lo sporse in fuori, parallelo al busto, così che Jlenya sgusciò
dentro e gli fu sotto l'ascella.
Ecco, quello fu il momento più bello di tutta l'intera esistenza di
Tango-Felice.
Un momento di una intensità fuori da ogni grazia terrena e, non si sarebbe
potuto spiegare a nessuno quello che lo zoppo avvertì scorrergli dal cuore
alla testa.
-Sono Felice- riuscì a balbettare lo zoppo e, per davvero, la sua mente
danzò un Tango
denso di virtuosismi e caschè.
Jlenya sorrise, pensando che essere felici sotto quell'acquazzone era a
dir poco, originale e si sapeva che in fondo in fondo, ogni donna iniziava
proprio in quell'età adolescenziale ad avvertire la forza della propria
femminilità. Non che le importasse poi molto di essere valutata da uno
come lui.
Era una sensazione vaga di vittoria mescolata al fastidio.
Il tergicristallo segnava come un compasso una mezza luna che
immediatamente si opacizzava e il rumore nell'abitacolo pareva il suono di
una vecchia sveglia.
La pioggia scrosciava come se migliaia di secchiate d'acqua cadessero
contemporaneamente
su loro.
Svicolando attraverso la strada sterrata che passava in un tratto di
bosco, le fronde degli abeti funzionavano a mò di ombrello e, Tango,
arrestò all'improvviso il trabiccolo.
Chiusa nella stretta di quell'abbraccio obbligato, Jlenya fu presa da una
strana vertigine di paura.
Cercò con la mano la leva d'apertura della portiera ma, lui la tenne
stretta a sé.
Tango stava sequestrato all'interno di onde dense e liquide.
Il calore gli saliva a flutti sulle gote e gli colorava il viso di
chiazze.
All'improvviso, era stato all'improvviso.
Come una folata di vento annoiata di posarsi sulle fronde degli alberi e
decide di infischiarsene della rotta. Può essere che il vento ha questa
improvvisa voglia di spazzare via tutto,
stanco d'essere considerato brezza, ponentino?
Le sensazioni aggredirono Tango nell'arco temporale che passa tra
l'istinto e l'azione,
scavalcando a piè pari tutti i comandamenti.
Aveva tra le braccia il corpo della ragazza dalla pelle bianca che si
divincolava.
-Non piangere, non gridare. Non voglio farti male-
Avrebbe voluto accarezzarla, accarezzarla ma, lei riuscì ad aprire la
portiera di latta
di quell'inferno e si mise a correre incespicando nel fango.
Era zoppo, grasso ma, agile e gli fu subito alle spalle; l'agguantò per
una caviglia.
Caddero entrambi sulla terra bagnata impastata di aghi di pino e muffe.
Il terrore stravolgeva i lineamenti di Jlenya: il viso contratto in una
accozzaglia di smorfie. Paralizzato dalla paura.
La mano libera dello zoppo scivolò lungo l'altra gamba.
La pelle umida di Jlenya era un fiume che scorreva. Oltre gli argini,
distese di prati estivi e lusinghe sconosciute.
Lo ebbe sopra; l'alito dello zoppo disegnava brevi fiotti di condensa
nell'aria fredda.
Allora lei gli piantò le unghie sulle guance, iniziò a scalciare come una
forsennata sentendo quell'arma nascosta di Tango, farsi largo tra le sue
gambe
Se non fosse piovuto, se non avesse chiesto quel passaggio, se Tango fosse
nato in un'altra situazione o non fosse mai nato, chissà se sarebbe andata
così.
-E' la natura. E' la natura- ripetè allo spasimo Tango-Felice
La natura bruciò in pochi secondi e, lui, l'ebbe nuovamente di fronte come
la prima volta che l'aveva vista solo che, sembrava un'altra.
Lo sguardo paralizzato, catturato da un punto invisibile del cielo scuro
come la terra,
che filtrava dai rami dei pini.
Tutt'intorno il silenzio interrotto dal rumore del diluvio incessante.
Il sangue colava dalla testa di Jlenya e veniva mano a mano che scorreva,
lavato dalla pioggia.
In quel gran cataclisma della natura Tango non si era neppure reso conto
di averla colpita più volte con quel sasso alla fronte, che teneva ancora
in mano.
Gli occhi immobili e spalancati di Jlenya intrappolati al di là delle
curve della vita, avevano rubato un lembo al cielo per l'ultima volta. |