Ildegarde
Dalla carrozza, la giovane Ildegarde assisteva al duello col cuore in
tumulto. Era accorsa sperando di fermare i due contendenti, ma era
arrivata troppo tardi, la tenzone era già al culmine. Sapeva che il suo
Bertran era un maestro della spada, ma la furia dell'avversario la
terrorizzava. Egli roteava la sua arma lanciando urla rauche, prima di
gettarsi contro il rivale.
E c'era sempre quel ghigno di maligno piacere sul suo volto bruno.
Ildegarde sapeva che egli era certo di vincere.
Il duello le parve protrarsi per un tempo infinito, in quella gelida alba
sfumata di bruma.
Si sentì quasi venir meno, vedendo Bertran schivare miracolosamente una
stoccata, e socchiuse gli occhi per un poco, rivivendo in quegli attimi
tutto il suo recente passato.
Era felice perché le sue nozze con Bertran erano ormai prossime. La sua
famiglia di antica origine sveva aveva acconsentito, la potente famiglia
di Bertran aveva dato a sua volta l'approvazione e ora le due nobili
casate erano riunite nel palazzo in Aquitania, in cui Ildegarde era nata,
per festeggiare il fidanzamento dei due giovani. Molti nobili erano
presenti. I due promessi sposi avevano aperto le danze guardandosi
teneramente negli occhi. Bertran era biondo e bello, in lui la dolce
Ildegarde aveva trovato il suo sole e ora desiderava soltanto brillare di
luce riflessa per tutto il resto della sua vita. L'avvenire non poteva
apparirle più roseo ma, mentre danzava con Bertran, aveva avvertito uno
sguardo insistente su di sé, uno sguardo sfrontato che non si staccava da
lei. Lo aveva guardato, spiandolo di sottecchi e lo aveva riconosciuto:
lui, il conte Roland, intrepido cavaliere del re.
La fissava con un sorriso scanzonato che si accentuò quando i loro sguardi
si incontrarono. Ildegarde aveva provato una violenta sensazione
nell'incrociare quegli occhi neri, piccoli come fessure. Il volto angoloso
dell'uomo, incorniciato da un'incolta chioma corvina, non era bello e le
parve animato da una luce perversa. Distolse subito lo sguardo, turbata.
Fu allora che tutto cominciò. Ildegarde era una giovane donna esile, dai
lunghi capelli di rame e l'incarnato chiarissimo, molto bella. Era
abituata agli sguardi ammirati degli uomini, ma nello sguardo di Roland
aveva percepito qualcosa di più dell'ammirazione, qualcosa che la
sgomentava.
Quella stessa sera egli era sotto le sue finestre. Lo riconobbe, quando si
affacciò per ammirare le stelle, nell'ombra nera che attraversava
velocemente il cortile. Prima di ritirarsi frettolosamente e di chiudere
la finestra, intuì il suo sorriso e i suoi gesti: un profondo inchino e un
bacio sulla punta delle dita.
Non lo disse a nessuno e di ciò ebbe a pentirsi, non lo disse né a Bertran
né ai suoi genitori, nemmeno in seguito, quando la presenza di Roland
sotto le sue finestre divenne la consuetudine di ogni sera.
Egli era abile a non farsi scorgere dalle guardie e dai servi. Se ne stava
lì, immobile nel silenzio, nera figura confusa con le tenebre. Di certo si
sentì incoraggiato dal di lei fuggevole mostrarsi alla finestra e cominciò
a parlarle sommessamente, sussurrandole parole d'amore e versi di poeti.
"Siete la fulgida scintilla del mio desiderio, Ildegarde", le diceva ogni
sera, anche dopo che lei era scomparsa dietro le tende chiuse. "Non bramo
che voi…"
Lei non gli rispose mai una sola parola.
In una mattina assolata, all'improvviso, il conte le si fece incontro al
limitare del grande parco che circondava il palazzo, mentre la giovane
passeggiava insieme alle sue dame di compagnia.
Le dame gridarono, ritraendosi spaventate. Ildegarde rimase immobile
sfidando col suo sguardo d'ambra quel sorriso sfrontato. Roland accennò un
inchino, poi con incredibile rapidità la prese fra le braccia e tentò di
baciarla. Lei si divincolò rabbiosamente, senza poter tuttavia evitare che
le avide labbra dell'uomo sfiorassero le sue. Egli, ridendo, fuggì fra gli
alberi, e si dileguò con la stessa velocità con cui era comparso.
L'oltraggio era troppo grave e ormai Ildegarde non poteva più tacere.
Bertran sfidò immediatamente a duello il conte Roland e ora i due rivali
erano lì, nella nebbia densa della mattina invernale, a battersi per lei.
Ildegarde si sentiva attanagliare il cuore dai sensi di colpa, ma ormai
non c'era modo di fermare quel duello. Riaprì gli occhi, si costrinse a
guardare. Lo scenario le parve mutato. Sebbene Roland fosse un campione
della spada, ora non stava combattendo al suo meglio. Il giovane Bertran
riusciva a schivare i suoi assalti poco convinti e aveva iniziato ad
incalzarlo. Era come se Roland avesse preso a fingere, anche le sue urla
risuonavano false.
Ildegarde pensò con terrore che forse egli stava solo giocando come il
gatto col topo e che, da un istante all'altro, avrebbe dato sfogo a tutta
la sua ferocia. Allora Bertran sarebbe stato perduto.
Inaspettatamente Roland arretrò, schivò con distrazione due colpi di
Bertran, fece qualche finta e si volse verso la carrozza, gridando: "Ildegarde,
io vi amo, ma voi non sarete mai mia, vero?"
Lei si ritrasse atterrita all'interno della carrozza. Bertran, ancora più
infuriato per le ultime parole dell'avversario, approfittò della sua
noncuranza e sferrò il colpo mortale. Ferito in pieno petto, il conte
Roland lasciò andare la sua spada, compagna di tante battaglie vittoriose,
e sorrise, mormorando: "Non ha senso vivere, né morire." Poi cadde a terra
morto.
Era incredibile, ma vero: il grande Roland si era lasciato uccidere e
Bertran era salvo. Il sollievo e la sorpresa si avvicendarono nel cuore di
Ildegarde nei giorni successivi. La giovane insistette per presenziare ai
solenni funerali del conte Roland, celando un fiore per lui in una mano,
un bocciolo di rosa bianca che lasciò cadere a terra dopo che il rito
funebre fu terminato.
Si sentiva triste e svuotata, il gelo di quella mattina in cui grandi nubi
di neve attraversavano il cielo le era entrato nell'anima.
"L'ho incoraggiato", pensava con rammarico. "Se io non fossi andata alla
finestra, se avessi chiamato le guardie fin dalla prima sera, forse ora
lui non sarebbe morto."
Il senso di colpa si trasformò in breve in qualcosa di molto simile a un
dolore sordo.
Nel giorno delle sue splendide nozze la giovane Ildegarde era una sposa
tanto bella quanto triste. Nessuno, tuttavia, si accorse della sua segreta
mestizia, perché lei seppe nasconderla molto bene, e così iniziò la sua
vita di moglie fra gioia simulata e inconfessato rimpianto.
Bertran, dal canto suo, non poteva immaginare le inquietudini della sua
sposa. Per lui Roland era ormai solo un occasionale ricordo, l'orgoglioso
ricordo di un nemico sconfitto.
Passò del tempo. Ildegarde cominciò a sognare Roland quasi ogni notte. Nei
sogni egli la guardava e le sorrideva, ma non rispondeva alla sua accorata
domanda, quella domanda che la tormentava in modo ossessivo: "Perché ti
sei lasciato uccidere?"
Era questo che il cuore inquieto di Ildegarde non riusciva ad accettare:
che quel nobile cavaliere all'apice della gloria avesse scelto di morire
per lei.
Ildegarde voleva trovar pace e pensò che l'unico modo fosse andare a
visitare il sepolcro del conte.
Adducendo un pretesto col marito, vi si recò da sola, una mattina.
L'inverno ormai scemava lentamente verso la primavera, ma l'aria non si
era addolcita e il gelo tesseva ancora i suoi ricami sull'erba.
Ildegarde rabbrividì nella sua pesante veste di lana dalle ampie maniche,
ma continuò ad avanzare decisa nella nebbia mattutina col suo fascio di
rose bianche fra le mani. Giunse al sepolcro e sostò a lungo presso la
lapide, dopo avervi deposto le rose.
"Perdonami Roland", sussurrò con gli occhi velati di lacrime. "Io non
volevo la tua morte."
Restò per un poco in silenzio, come in attesa d'una risposta. Era andata
in quel luogo con la segreta speranza che lo spirito di Roland le si
manifestasse e placasse il suo delirio, ma le rispose soltanto il silenzio
nudo della morte.
"E' tutto vano", pensò tristemente Ildegarde. "Non può esserci alcuna
comunicazione fra vivi e morti. Essi sono lontanissimi, persi nel nulla
per sempre."
Da quel giorno il suo animo sprofondò in un'angoscia ancora maggiore.
La giovane donna non aveva più pace e cominciò anche a rifiutare il cibo.
Il marito, in ansia per lei, mandò a chiamare vari medici, ma nessuno di
loro riuscì a diagnosticare la misteriosa malattia della castellana.
Ildegarde cercò di rassicurare il marito, gli disse che il suo turbamento
era dovuto al non aver ancora concepito un figlio, che non c'era altra
pena nel suo cuore, che nessuna malattia l'affliggeva.
In realtà il suo unico desiderio era tornare alla tomba di Roland e, per
quanto si sforzasse d'ignorarlo, non vi riuscì.
Infine si recò di nuovo al sepolcro.
Presso la lapide, le sue rose bianche stranamente erano ancora intatte, ma
appena lei si avvicinò, i petali cominciarono a staccarsi dagli steli e a
volteggiare nell'aria fino a formare una bianca spirale che prese a
turbinare intorno al corpo della donna. Trasognata, lei stava immobile al
centro di quella girandola di petali che sfioravano le sue vesti, come a
volerla accarezzare. Era un segnale, una risposta, Ildegarde lo sapeva.
"Egli gradisce la mia presenza qui", pensò felice, allargando le braccia e
alzando lo sguardo al cielo, avvolta nella danza dei petali di rosa.
"Tornerò qui ogni giorno!" E il suo cuore si schiuse finalmente al
sollievo.
In quel momento seppe di essere incinta.
Passò del tempo e, malgrado la gravidanza, il corpo di Ildegarde si
assottigliava sempre più. Per recarsi ogni giorno alla tomba di Roland
ormai non aveva quasi più bisogno di camminare, era il vento che la
portava con sé.
Sostava sempre più a lungo presso la tomba, invocando in silenzio lo
spirito che lei bramava, ma che non le aveva più dato alcun segno.
Tuttavia una mattina trovò una bella bambina tutta vestita di bianco,
seduta presso la tomba.
La bimba la guardò con i suoi tristi occhi cerulei, identici a quelli di
Bertran, e le tese una rosa bianca. Sorpresa, Ildegarde si chinò su di lei
per prendere il fiore, ma quando aprì le labbra per parlare alla bimba,
lei svanì. Ildegarde ebbe un capogiro e cadde svenuta sulla lapide. Restò
riversa a lungo, in preda a un sogno.
Si trovava al centro d'una grande sala lucente di candelabri d'argento e
un armonioso suono d'arpa le arrivava all'udito. All'improvviso le
appariva Roland. Le regalava il suo sorriso scanzonato, s'inchinava
profondamente e la invitava a danzare. Lei si muoveva con grazia, seguendo
la musica, con gli occhi persi in quelli di lui ed egli finalmente
rispondeva con voce roca alla sua antica domanda: "Mi lasciai uccidere,
mia Ildegarde, perché ero stanco. Stanco di me, della mia stessa gloria, e
avido solo di te che non potevo avere. Ma, morendo, spregiai la morte
insieme alla vita, così entrambe mi rifiutarono e ora vago solo fra vita e
morte, aspettando te. Vieni con me, Ildegarde, saremo insieme per sempre…"
"Sì, Roland, sì…", sussurrò Ildegarde, rinvenendo.
Il sogno svanì e lei tornò faticosamente a casa. Si sentiva distrutta e
quella sera stette molto male. L'indomani seppe d'aver perso la sua
bambina. I medici la costrinsero a restare a letto, il marito si mise al
suo capezzale per vegliarla amorevolmente. Ildegarde non smetteva di
piangere e non pronunciava una sola parola. Ma non piangeva per la perdita
della sua creatura, piangeva per non essere potuta andare, quel giorno,
alla tomba di Roland.
A notte fonda il sonno colse Bertran.
Facendo appello alle sue ultime forze, Ildegarde si alzò dal letto, corse
allo scrittoio, vergò in fretta alcune righe, poi fuggì via.
Al sepolcro di Roland tutto era solitudine e silenzio.
Ildegarde attese, immobile e sospesa. Il suo respiro era sempre più debole
e infine le mancò. Stava per cadere a terra, quando due braccia forti, la
sorressero. Alzò gli occhi, prima che la luce li abbandonasse, incontrando
lo sguardo cieco di Roland. Svanirono nel buio in un convulso abbraccio,
smarrendo il proprio essere per poi ritrovarlo e perderlo di nuovo…
"Mio dolce Bertran", diceva il breve biglietto lasciato da
Ildegarde a suo marito. "Non sono mai appartenuta né a te, né a questo
mondo, per questo ora vado via, verso un regno senza nome, dove la vita si
confonde con la morte. Perdonami e non piangermi.
Ildegarde" La Casa
La mia casa ha cinque stanze: é troppo grande per me.
Venderla e trasferirmi in una più piccola, quando sono mancati i miei,
sarebbe stata la soluzione migliore. Ma io non avevo l'energia sufficiente
e la volontà per andar via di qui, come non l'avevo avuta per laurearmi e
per lavorare.
Io non faccio niente, perché sono depressa. Io so solo star qui immobile a
fantasticare e a ingoiare pillole per dormire il più a lungo possibile e
non pensare che questo mese non posso pagare tutte le bollette, che non
riesco più a tirare avanti.
Cinque stanze… In cinque stanze ci possono stare un sacco di persone,
cinque stanze si possono affittare: mi sveglio dopo mezzogiorno con questo
pensiero nella mente, che forse mi risolverà i problemi.
Studenti universitari. La mia villetta si trova vicino all'università, può
andar bene per loro.
Mi ritrovo a convivere con due studenti di medicina, Flavia e Gianni,
fidanzati, e con uno di giurisprudenza, Bruno. Se arrivassero un altro
paio di persone, sarei a posto, potrei campare di rendita, restando qui.
Non voglio andarmene: questa è la mia casa, la grande casa dove sono nata
e cresciuta, la casa che mi ha sempre tenuta al caldo, al sicuro dal male
del mondo. Non posso rinunciare a questa casa, non me ne andrò mai.
Passa del tempo: mi manca un po' la mia privacy, i miei spazi, sebbene i
tre studenti siano persone molto corrette e discrete.
Quasi mai in casa, studiano e lavorano, loro, sono così diversi da me...
Fra noi una silenziosa lotta per le finestre: loro le spalancano
continuamente per far entrare il sole, io le richiudo subito dopo, avida
della mia abituale penombra.
Oggi pomeriggio sono tutti in casa, stranamente, e io mi sento oppressa
dalla loro presenza.
Uscire no, non ce la faccio. Magari due passi in giardino…
Non è più un giardino da quando non c'è più mamma ad occuparsene, è
un'accozzaglia di sterpi, di piante secche, di erbacce. Mi aggiro in
questo groviglio di vegetazione morta, calpesto foglie secche, qualche
petalo avvizzito di quei fiori che mamma curava con tanto amore.
Cos'erano? Rose? Ciclamini? Gigli? Non ricordo nemmeno più, non sono mai
riuscita a dare una goccia d'acqua a queste povere piante.
Forse c'erano arbusti e piante sempreverdi: alloro, edera, oleandri che
crescevano liberi sorridendosi fra loro...
Qui c'era il limone…Mi appoggio all'esile tronco della pianta morente. Ha
ancora un alito di vita, ma le sue foglie, un tempo d'un verde
sfolgorante, hanno perso la loro brillantezza, si sono accartocciate. E i
limoni non ci sono più, il mio giardino non risplenderà più del giallo
luminoso dei limoni. Ora è grigio e oscuro come la mia anima. Gli sterpi,
i rami scheletriti degli alberi si stagliano contro il cielo, lo tagliano
a pezzi, sembrano minacciare di morte anche i raggi del sole. Sfioro con
la mano le erbacce, le arse cortecce e immagino che uno spiritello diafano
esca da quelle povere fronde e venga a tenermi compagnia. E' così
spettrale, il mio giardino, che qui si potrebbe perfino credere ai
fantasmi…
Lo squillo del cellulare mi riporta bruscamente alla realtà: i due
inquilini che mi mancavano.
Si chiamano Diego e Antonio. Mi dicono di essere studenti di sociologia,
ma non hanno l'aria seria e a posto degli altri tre. Sembrano dei
vagabondi. Diego: alto, dinoccolato, capelli neri e ricci, spenti occhi
azzurri, risata strana, modo di parlare strascicato. Antonio: più basso,
scuro di pelle, ombroso, parla pochissimo, tiene sempre gli occhi bassi.
Jeans sdruciti, maglioni stropicciati dai colori indefinibili: questi due
sembrano proprio degli straniti, forse non c'è da fidarsi.
Prendono una sola stanza per entrambi. Pare abbiano bisogno di poco
spazio, a quanto mi dice quello di nome Diego. L'altro si limita ad
annuire.
Io non mi sento molto sicura, ma non so dire di no. Mi decido a guardare
negli occhi il ragazzo di nome Diego e sento qualcosa di strano, un
brivido di freddo, un senso di debolezza, di struggimento, non so… Lui mi
fissa con i suoi occhi vacui.
"Questo è fatto perso", penso, mentre comunico loro il costo mensile della
stanza, quasi certa che non potranno permetterselo.
Invece non fanno una piega.
Se ne vanno con aria soddisfatta. Torneranno domani. Mi sento inquieta.
A sera informo gli altri dell'arrivo dei nuovi inquilini. Non sembrano
molto entusiasti, ma non possono obbiettare nulla.
In cucina, Flavia sta preparando la cena per tutti.
"Mangi con noi, Francesca?", mi chiede gentilmente.
Non mi sento di stare con loro, non mi va di dare confidenza, preferisco
rintanarmi in camera mia.
"No, grazie, non ho fame."
"Come vuoi, ma dovresti mangiare un po' di più, sei così magra…"
Le lancio un'occhiata torva che sta per: "Fatti gli affari tuoi", e filo
in camera.
La sento bisbigliare a Gianni: "Certo che Francesca è proprio un orso!
Chissà come saranno questi due nuovi…"
"Li ho intravisti un attimo stamattina: pessima impressione", le risponde
lui.
Chiudo la porta della mia stanza con un tonfo, in modo che si capisca che
ho sentito tutto. Al diavolo!
La mattina seguente li vedo arrivare dalla finestra: attraversano
velocemente la sterpaglia del mio giardino, zaini in spalla e un unico
borsone.
Sembrano proprio dei mentecatti, ma che m'importa? Al primo pagamento
mancato li caccio.
Scendo ad accoglierli, fabbricandomi una specie di sorriso. Antonio
ricambia appena il mio saluto, Diego mi regala un sorriso scanzonato e un
lungo sguardo: "Ciao, Fran!"
Mi ha già trovato un confidenziale diminutivo. Ancora quel brivido, quello
strano languore e poi… Mi sembra di sentirmi addosso una corda che avvolge
me e lui…Vaneggiamenti!
Li conduco subito nella loro stanza e mi dileguo.
Ma questi due quando ci vanno all'università? A differenza degli altri,
stanno quasi sempre in casa e non mi sembra di averli mai visti con un
libro. Qualche volta escono la mattina presto in abiti da operai e tornano
la sera lerci e distrutti. Mi piacciono sempre meno, ma non posso
lamentarmi di nulla con loro: mi pagano puntualmente e non creano problemi
in casa, a parte la musica a volume troppo alto, qualche volta.
Ciò che in realtà mi disturba è che mi sento inspiegabilmente attratta da
quel Diego.
Mi guarda in un modo insistente che mi gratifica e nello stesso tempo mi
fa rabbia. Ha sempre quel sorriso scanzonato, come a voler provocare o
sfottere, che ne so? Cos'avrà da guardami tanto, poi? Non sono certo una
bellezza.
Oggi a casa non c'è nessuno, tranne lui e io chiusi nelle rispettive
stanze.
Nuda, in piedi davanti allo specchio, osservo impietosamente i miei
difetti. Ossuta, senza curve, pelle chiara, occhi grigi, lineamenti
irregolari. Solo i miei capelli mi piacciono: lunghi, nerissimi, li tengo
raccolti in un'unica treccia.
Mi infilo stancamente una maglietta e un paio di shorts, sentendomi un
disastro totale.
La verità: ho ventinove anni e non ho un ragazzo da… Neanche me o ricordo
più. Sono stanca di essere sola..
Dalla camera di Diego, un suono di chitarra. Attratta dalle note, esco
furtiva dalla mia stanza e mi avventuro silenziosamente lungo il
corridoio.
La porta della stanza è aperta, lui se ne sta seduto sul bordo del letto,
pizzicando le note di una vecchia chitarra acustica.
Appoggiata allo stipite, lo guardo avidamente, accorgendomi che mi piace
la sua aria sciatta, il suo volto magro e bruno chino sulla chitarra,
concentrato sulle note. Mi sento attratta da tutta la sua persona pervasa
di noncurante languore…
Si accorge della mia presenza, solleva su di me i suoi occhi chiari, mi
regala il solito, ambiguo sorriso.
"Ciao, Fran!"
"Ciao… Non sapevo suonassi la chitarra."
Ride.
"Macché suonare! Strimpello due note ogni tanto. Dai, entra!"
Avanzo nel caos della stanza. Non so come muovermi, nemmeno come tenere le
mani. So che lui si accorge del mio imbarazzo.
Mi fa segno di sedermi accanto a lui, accenna alla chitarra: "Che ti
disturbavo con questa?"
Siedo compunta sull'orlo del letto, maledicendo gli shorts che lasciano le
mie gambe scoperte. Non potevo infilarmi un paio di jeans? Ma non volevo
farmi vedere…
Mi fissa: "Allora?"
Ho la netta sensazione che voglia prendersi gioco di me, mi salta su il
nervoso.
"Veramente stavo dormendo…"
"Ah scusa non lo sapevo!"
"Non fa niente, però a volte tenete la radio troppo alta…"
Ride: "Questo te l'ha detto Flavia: E' già venuta a lamentarsi con me.
Sembra un generale austriaco, quella!"
E' abbastanza vero. Reprimo a fatica un risolino divertito.
"Però ha ragione, lei studia e anche gli altri…"
"Ah sì, sì!", mi interrompe lui. "Studiano tutti, non pensano ad altro.
Che noia!"
"Scusa, ma non studi anche tu?"
"In teoria. Antonio e io ci siamo concessi una lunga pausa e ormai siamo
molto, ma molto fuori corso."
"E le vostra famiglie che dicono?"
"Quali famiglie? Niente famiglie, siamo dei raminghi, noi!"
Non capisco. Il suo tono è bonario, ma sembra sottintendere che non vuole
parlare di sé e della sua vita. Forse non dovrei chiedergli: "Ma allora
che fate?"
Risposta ancora più sibillina: "Un po' di tutto, un po' di niente. Qualche
lavoretto qua e là per campare e per pagarti l'affitto, signora padrona!"
Il sorrisetto strafottente danza sulle sue labbra.
Scatto sulla difensiva: "Perché, pretendereste di star qui gratis?"
"E chi l'ha mai detto? E' ovvio che bisogna pagare! Saremo sempre
puntualissimi, vedrai."
Ho la netta sensazione che si diverta a prendermi in giro e ciò mi dà
terribilmente sui nervi. Mi alzo in piedi, prendo ad aggirarmi nella
stanza. Lo sbircio e avverto il suo divertimento per la mia tensione. Se
lo ammazzassi? Decido di provocarlo:
"Insomma siete due nullafacenti: niente studio, poco lavoro… E per quanto
tempo pensate di poter andare avanti così?"
"E chi lo sa? A trent'anni ci siamo arrivati tranquillamente…"
Lo guardo sorpresa: ha un anno più di me, strano, lo credevo più giovane.
Ha la faccia da ragazzino, ma lo sguardo di un vecchio.
Approfitta del mio silenzio: "E tu Fran? Tu che fai di bello?"
Che devo rispondergli? Mi stringo nelle spalle, abbassando gli occhi.
"Niente eh?", incalza lui. "Fai solo la signora padrona."
Lo fulmino con lo sguardo: "Fatti i fatti tuoi!"
"Va bene, va bene, non ti arrabbiare! Però quando sei arrabbiata sei più
bella. Sei bellissima sai?"
Mi spiazza: io non sono mai stata bella, nessuno mi ha mai detto nulla del
genere. Quella parole e l'occhiata insistente che le accompagna mandano in
fumo tutta la mia rabbia e mi attraggono irresistibilmente verso di lui.
Mi ritrovo di nuovo seduta sul letto, al suo fianco, persa nei suoi occhi
vuoti. Vorrei toccarlo, vorrei che mi toccasse, percepisco distintamente
che anche lui desidera le stesse cose. Le nostre mani si cercano, ma non
riescono neppure a sfiorarsi. Possiamo solo guardarci avidamente, in
silenzio e sento ancora quella corda che ci lega…
Non so quanto tempo passa così.
Infine lui mi sorride: "Non ti preoccupare, in fondo non c'è niente di
male a non far nulla…"
Recupero la parola e l'aggressività: "Tu e Antonio siete fatti, vero?"
Ride senza rispondermi.
"E poi state sempre insieme", insisto. "Lui è la tua ombra, date proprio
l'impressione di essere gay!"
Ride ancora, poi torna vagamente serio e mi fissa: "Da come ti guardo ti
sembro gay?", mi sussurra con voce roca.
Il suo sguardo vacuo è diventato rovente e mi brucia sulla pelle.
"No…", mormoro impercettibilmente.
Sussulto, vedendo Antonio entrare nella stanza. Non l'avevo sentito
arrivare.
Scatto in piedi, ricambiando nervosamente il suo saluto appena udibile.
"Allora… io vado."
Diego mi sorride e mormora con la sua voce strascicata: "Francesca… Non ci
manderai via, vero?"
Non rispondo e mi dileguo.
Quanti sottintesi in quella domanda? Non ci manderai via nemmeno se non
pagheremo più l'affitto, se devasteremo la stanza, se daremo fastidio a
tutti con la musica a tutto volume, in pratica se faremo sempre più i
nostri comodi! Era questo che voleva dire. Sono arrabbiata, furiosa, lo
odio e mi odio. Avrei dovuto reagire, invece mi sono lasciata irretire da
quelle sue due parole, "sei bellissima", perché non me le aveva mai dette
nessuno…
Ora, quando mi capita d'incrociare Diego, non lo guardo nemmeno e cerco di
ignorare quella mia strana, assurda attrazione per lui. In compenso mi
sento sempre più inseguita dai suoi occhi e dal suo sorriso provocatorio.
Devo far finta di niente, devo fingere che non mi metta a disagio. Ma lui
lo sa che sono a disagio e questo lo diverte.
Passeggio nello squallore del mio giardino, pensando a un modo per
sfrattare lui e il suo enigmatico amico, ma non so proprio a che
attaccarmi, non hanno nemmeno più tenuto la musica troppo alta. Un brivido
di freddo… No, è la sua presenza. E' alle mie spalle, a un centimetro da
me. Mi giro di scatto e incrocio i suoi occhi persi.
"Che vuoi?"
"Niente, passeggiavo. Perché ce l'hai con me?"
"Non ce l'ho con te e tu non sei qui per passeggiare. Ti sembra un posto
adatto per passeggiare questo groviglio di sterpaglie?"
"No, ma tu lo fai… Come mai tieni il giardino così?"
Mi stringo nelle spalle con noncuranza, appoggiandomi al fusticello del
vecchio limone: "Semplice, non mi va di occuparmene."
Lui ride: "Ottimo motivo!", si guarda intorno. "Però sai, mi piace così,
ha un suo fascino decadente, un che di famigliare…"
Lo fisso stupita. E' esattamente quello che penso io. Siamo uguali, ecco
perché mi sento tanto attratta da lui, vediamo le cose con gli stessi
occhi, è questo quel che ho percepito in lui fin dal primo momento. Gli
altri sono diversi, sono un altro mondo.
Sta immobile a un centimetro da me, mi fissa: "La regina Francesca al
centro del suo regno di morte…", mormora con aria assorta.
Mi viene voglia di schiaffeggiarlo, ma non riesco a muovere la mano.
"Smettila di prendermi in giro!"
"Non ti sto prendendo in giro. Sei bellissima."
Ma che vuole da me? Il suo viso è vicinissimo al mio, le sue labbra quasi
sfiorano le mie. Aspetto il suo bacio, ora lo vorrei tanto, invece si
ritrae, sorride.
Si sta alzando il vento, sento freddo.
"Rientriamo?", mi dice. "Vieni un po' in camera mia?"
Non riesco a dirgli di no.
Anche oggi Antonio non c'è.
Mi siedo di nuovo sul letto, del resto sull'unica sedia sono ammucchiati
degli indumenti da lavare.
Sbircio Diego che traffica con un vecchio lettore di cd e cerca un disco
fra i tanti disordinatamente sparsi sul pavimento.
"Ti vanno i vecchi, mitici Pink Floyd?"
Annuisco, anche perché sono i miei preferiti, a quanto pare abbiamo anche
gli stessi gusti musicali. La scoperta di questa nuova affinità mi fa
scattare di nuovo sulla difensiva. Lo sfido con lo sguardo, giocando con
la mia treccia: "Il tuo amico inseparabile dov'è? A rimediare una dose per
entrambi?"
Ride, per nulla turbato: "Magari! Purtroppo adesso non ci sono i soldi per
questi lussi."
"Non ne fai mistero, vedo."
"Perché dovrei?"
Si siede sul letto, ma non vicino a me. Se ne sta appoggiato col gomito al
cuscino e continua a fissarmi e a sorridermi, mentre le note di 'Wish you
were here' si diffondono nel silenzio.
Canticchia sottovoce.
"Non è bellissima?", mi chiede.
"Sì, è splendida."
"Come te…"
Abbasso gli occhi, imbarazzata. Ma perché mi dice queste cose?
"Ecco, così mi piaci ancora di più. Aggressiva, ma timida. Sei dolce, Fran.
Mi guardi, per favore?"
Sollevo lentamente lo sguardo sul suo volto, sorridendo vagamente. Ha
infranto tutte le mie difese. Dimentico tutto e forse anche lui e restiamo
lì per un tempo infinito, persi nella magia della musica, a guardarci e a
sorriderci senza dire più nulla, senza sfiorarci, distanti, ma tanto
vicini da non riuscire neppure a comprenderlo.
Sono quasi tre mesi che va avanti questa convivenza. Fra me e gli altri i
rapporti sono praticamente inesistenti. Solo con Diego si è instaurata
quella strana comunicazione, fatta di sguardi complici, di silenzi, di
battute aspre e di sorrisi. Ormai non passa quasi giorno che non stiamo un
po' insieme, in giardino fra le erbacce, o nel disordine della sua stanza.
Mi guarda avidamente, mi sorride, si avvicina per baciarmi, poi ci ripensa
e si allontana. Infine che vuole da me? A volte mi rende furiosa, ma
quando non c'è mi manca e lo cerco, lo aspetto. Nell'ultima settimana è
stato via giornate intere, con Antonio. Chissà che diavolo fanno…
Notte. Non riesco a dormire. Vago inquieta per la casa silenziosa e buia
alla ricerca di non so cosa. Rumore di chiavi, la luce nell'ingresso:
Antonio e Diego rientrano a quest'ora. Antonio mi elargisce un "ciao" a
bassa voce, accompagnato da un'occhiata bieca, poi fila in camera. Diego
si ferma nell'ingresso, si lascia andare contro una parete, mi sorride e
mi fissa con uno sguardo più inespressivo che mai.
"Fran…", sussurra, socchiudendo gli occhi.
"Che c'è?"
"Nulla…"
Non sopporto i suoi insensati vaneggiamenti anche a quest'ora di notte.
"Sei più stranito che mai, che hai fatto?"
"Nulla…", ripete con aria stolida. "Stai un po' con me?"
"No, vado a dormire, è tardissimo."
"Però mi stavi aspettando…"
Glisso: "Corri da Antonio, mi ha guardato malissimo, che sia geloso di
me?"
Ride sommessamente: "Ma no! Antonio è solo molto timido. Dai, non te ne
andare!"
Gli rivolgo un'occhiata carica di disapprovazione.
"Ma non vedi che non ti reggi in piedi? Sei strafatto, va' a letto che è
meglio!"
Fine mese: tutti mi hanno pagato l'affitto, tranne Diego. Dovrei
chiedergli i soldi, ma non ci riesco, non so come affrontare l'argomento
nemmeno quando sono sola con lui.
Improvvisamente una sera Flavia, appena rientrata, inizia a sbraitare che
le sono spariti dei soldi.
"Avevo lasciata la borsa sul tavolo della cucina, prima di uscire", spiega
concitatamente a Gianni, in mezzo al corridoio. "Sono tornata un attimo in
camera a prendere il cellulare, poi sono uscita per andare in libreria.
Alla cassa, prendo il borsellino per pagare e i cinquanta euro non ci sono
più, spariti!"
Usciamo tutti dalle nostre stanze per vedere cosa succede, Antonio e Diego
compresi.
"Beh, li avrai persi o lasciati a casa", le rispondo io.
"Eh no, cara, sono sicura! Ci sto molto attenta ai soldi, io, e sai che ti
dico? Non è la prima volta che mi spariscono in questa casa: un giorno
cinque euro, un altro dieci e oggi addirittura cinquanta! Ed è successo un
paio di volte anche a Gianni…", guarda il suo compagno. "Non è così?"
"Veramente sì!"
"Ebbene, chi vorresti accusare?", replico spazientita.
"Non te, tranquilla, e di certo neanche Bruno, ma…", guarda con aria
allusiva verso Diego.
"Che vuoi da me?", brontola lui, in tono infastidito.
"C'eri solo tu in cucina, prima, quando ho lasciato per un attimo la
borsa…"
"E allora?"
"E allora due più due fa quattro!"
Diego sbuffa, guardando per aria: "Sì, e quattro più quattro fa otto!
Flavia, non li ho presi io i tuoi soldi!"
"Ma tutto sembra indicare il contrario!"
Decido di intervenire, voglio far valere la mia autorità in casa. Mi paro
di fronte a Diego, lo squadro minacciosa: "Insomma sei stato tu? Se è così
faresti bene ad ammetterlo!"
Mi fissa attonito: "No, pure tu, Fran, non ci posso credere! Andate tutti
all'inferno!"
Gira le spalle, scuotendo la testa, e fila verso la porta per uscire.
Antonio lo segue come un cagnolino.
"Che fai, scappi?", gli grido. "Guarda che non mi hai nemmeno pagato
l'affitto, questo mese!"
Si volge a mezzo per colpirmi con uno sguardo da lupo ferito, poi esce
sbattendo la porta.
Mi pento immediatamente di ciò che gli ho detto, guardo gli altri: "Forse
non avremmo dovuto attaccarlo tutti così."
"Perché no?", mi risponde prontamente Flavia. "E' ovvio che è lui il
ladro, non ti ha nemmeno pagato l'affitto e non hai visto come se l'è
svignata?"
"Sì, ma…"
Ne approfittano tutti per parlar male di Antonio e Diego: si vede
benissimo che sono tipi poco raccomandabili, sono molto disordinati,
disturbano, non collaborano minimamente alle faccende domestiche, a quanto
pare rubano, cominciano pure a non pagare l'affitto, insomma che altro mi
ci vuole per mandarli via? Conclude Bruno, guardandomi con aria molto
seria.
Non so che rispondere, in realtà sono preoccupata per Diego.
"Magari non sono stati loro a rubare…", replico.
Gianni scuote la testa spazientito: "E dai, Francesca, li vuoi proteggere
per forza?"
"No, io…"
Interviene duramente Flavia: "Certo che li protegge, non ve ne siete
accorti? La nostra padrona di casa ha un debole per quel Diego."
La incenerisco con lo sguardo e sibilo: "Non è vero e comunque non sono
affari tuoi!"
"Su, smettiamola!", interviene Gianni. "Non risolviamo niente litigando
fra noi."
"Sì, ma intanto quello va a rimediarsi la sua dose a spese nostre!"
"Non hai prove, Flavia", sentenzio in tono che non ammette repliche.
"Datti una calmata adesso!"
Me ne vado in camera mia senza aggiungere altro. Non ho voglia di
questionare con loro, sono troppo in pensiero per Diego. Non riesco a non
pensare allo sguardo terribile che mi ha lanciato prima di uscire. E se
facesse qualche stranezza, se non tornasse? Passa del tempo. Non resisto
più e lo chiamo al cellulare: spento.
Mi sento in preda al panico e mi odio per questo: perché diavolo mi sono
tanto attaccata a quel ragazzo? Solo per i suoi sguardi persi, per le sue
parole vuote? In realtà se sparisse dalla mia casa e dalla mia vita
sarebbe meglio. Ma mi sento morire al solo pensiero.
Passa la notte, passa tutto il giorno successivo. Me ne sto chiusa in
camera e continuo a chiamare Diego al cellulare: sempre spento. Ormai sto
dando i numeri. E' di nuovo sera quando finalmente il suo telefono
risuscita. Mi risponde Antonio.
"Passami Diego!", grido.
"Non vuole parlarti, Francesca, l'hai offeso."
Lo sento che urla in sottofondo improperi al mio indirizzo, con voce
rotta.
"Antonio ti prego, tornate a casa, chiedigli scusa da parte mia, ho
sbagliato…"
"Va bene, ma non so se mi ascolterà…"
"Ti prego, sono distrutta…"
Ha già riagganciato.
Passa dell'altro tempo, minuti o ore non so più. Gli altri sono in cucina
a preparare la cena. Li sento ridere, chiacchierare e li odio dal più
profondo del cuore. Improvvisamente il rumore della chiave che gira nella
toppa della porta di casa. Schizzo nell'ingresso. Diego è qui, davanti a
me: mi si apre il cuore. Sembra ancora più magro ed emaciato che mai,
tiene gli occhi bassi. Antonio, scuro e silenzioso, è alle sue spalle come
sempre.
"Diego…", sussurro guardandolo avidamente.
Finalmente solleva lo sguardo e incontro le sue chiare iridi prive di
luce. Non c'è bisogno che gli dica che mi dispiace, che gli chieda scusa.
Comprende tutto ciò che sento dal mio sguardo, annuisce impercettibilmente
e abbozza uno stanco sorriso. Sollievo infinito. E' di nuovo qui con me, a
casa. Vorrei tanto abbracciarlo, ma non riesco neanche a muovermi. Mi
passa accanto, diretto in camera sua, avvolgendomi nel suo sguardo come in
un abbraccio.
Anche Flavia ha perso il suo cipiglio. Si affaccia alla porta della
cucina: "Beh, è pronto. Se vogliamo cenare tutti insieme…"
"Ah…Ok!".
Diego e Antonio puntano verso la cucina. Sediamo tutti alla grande tavola,
io vicinissima a Diego. Non abbiamo molta fame e dimentichiamo anche di
mangiare per guardarci e sorriderci. Tutto svanisce intorno a noi, non
percepiamo altro se non noi stessi. Sento di essere lui, lui forse sente
di essere me. Stiamo insieme, stiamo al caldo, stiamo bene.
La pace sembra ripristinata, ma non dura a lungo. Poco tempo dopo
spariscono altri soldi a Bruno, poi la catenina d'oro di Flavia si
dilegua, infine l'orologio di Gianni non si trova più. E' chiaro che c'è
un ladro in casa, e visto che gli unici non derubati siamo Diego, Antonio
e io…
Ascolto in silenzio le lamentele e le discussioni, senza intervenire. Sono
stata troppo male l'altra volta e, anche se Diego non mi ha ancora pagato
l'affitto, faccio finta di nulla. So già come evolverà la situazione.
Bruno é il primo ad andarsene, Flavia e Gianni lo seguono a ruota. Origlio
i loro discorsi, mentre preparano i bagagli: "Avremmo dovuto andarcene
prima, a prescindere dai furti", dice Flavia. Gianni le dà ragione, come
al solito: "E' vero, c'è sempre stata un'atmosfera strana in questa casa…"
Mi fanno una gran rabbia. Che se ne andassero pure e alla svelta! Non li
saluterò nemmeno.
Ora siamo soli. Diego, Antonio e io, avvolti nella nostra penombra.
Non mi preoccupo più di niente. I soldi sono finiti, ma io dormo e non ci
penso. Quando sono sveglia, sto in camera di Diego ad ascoltare la sua
musica, oppure usciamo un po' in giardino a passeggiare fra le erbacce.
Non mangiamo, non parliamo quasi più. Forse non siamo nemmeno vivi.
La consapevolezza ci investe una mattina, mentre siamo tutti e tre in
giardino. Antonio se ne sta disteso nella sterpaglia; Diego e io ci
aggiriamo malinconicamente fra le piante morte.
All'improvviso mia zia e le mie due cugine irrompono nel giardino, puntano
verso la porta di casa, entrano usando una chiave che non so come facciano
ad avere.
Non le vedo da anni, non sono mai stata in buoni rapporti con loro, cosa
diavolo…?
Sento la voce odiosa di mia zia: "Che sfacelo! Ha mandato proprio tutto in
rovina, quella pazza suicida, ben misera eredità ci ha lasciato! Sarà
difficilissimo venderla…"
Rivolgo a Diego uno sguardo sconvolto, mentre si leva un vento fortissimo
che ci trascina via. Antonio è il primo ad essere risucchiato del vortice.
Un turbinio di foglie secche mi avvolge e non riesco quasi più a vedere
Diego. Lo chiamo disperatamente, tenendomi attaccata al fusto del limone
incurvato dal vento. Sento che i miei piedi non toccano più terra, non so
quanto ancora riuscirò a resistere.
"Diego!"
"Francesca!"
La sua voce mi giunge distorta dal boato del vento.
"Cosa succede?"
"Tu non lo capivi e io non sapevo come dirtelo…"
"Ma quando…?"
"Tempo fa. Prima che ci trovassimo…"
Lampi di consapevolezza: quella sera, prima che decidessi di affittare le
stanze, devo aver preso troppe pillole. Non me ne sono andata del tutto,
però, sono rimasta a casa mia, nella mia abituale non vita, come prima. E
intanto Diego, da qualche altra parte, forse per un'overdose… E Antonio
con lui, per restare insieme a lui, come sempre… Poi sono venuti da me.
"Dov'è Antonio?", grido, pur sapendo già la risposta.
"Era il più debole, stavolta non ce l'ha fatta, ma noi dobbiamo rimanere.
E' casa tua, resisti, resta qui e tieni qui anche me!"
Come faccio, come faccio? Perché tutto questo accade proprio ora? Quando
c'erano gli altri non… Ma ora i miei parenti vengono a portarmi via la mia
casa, è questo!
Unico pensiero: non perdere la casa, non perdere Diego.
Resto attaccata disperatamente al tronco di quell'albero senza vita come
me, ci resto, finché il vento infernale non cessa e mi ritrovo a terra,
sulle foglie morte, con le foglie morte che cadono su di me e su Diego.
Incontro i suoi occhi trasparenti.
"Ce l'hai fatta, Fran!"
"E adesso?"
"Adesso torniamo dentro, guarda…", accenna alle finestre di casa, che mia
zia sta spalancando con decisione: questo proprio non mi piace.
Sorrido a Diego: "Sì, torniamo dentro. Quando io e le mie cugine eravamo
piccole, la nonna ci raccontava spesso storie di fantasmi. Io non avevo
affatto paura, ma loro sì, molta, e scappavano via di corsa, piangendo…" |