Giochiamo ancora?
un campo di vibrisse verticali
le tue pupille spalancate come spighe
dentro la tua scatola chiusa di cartone
ti arroterai le unghie
giocherai con me a nascondino
in questo cielo di maggio incostante
mi ascolterai attento
mentre cerco ancora tracce di te
nelle ciotole in buon ordine perdonami
perdonami perdonami nella terrazza
nella cesta nel
c
u
s c
i
n
o
Ballata di Ines
Ines è stata ragazza e bambina con riccioli neri
la Persia e quell’uomo di Urbino che le sta sempre accanto
ormai nonni a volte stanno per mano
lui va a fare la spesa con un taglio alla gola.
Ma Ines si porta fantasmi di plastica dentro la borsa
a volte diventa cattiva (ma lei non lo sa
e pensa che siano gli altri a farle del male)
e siede sdegnosa regina sul bordo del muro.
Lontano è una macchia scura con gesti meccanici
(formica, fatina di legno?) parla e il tempo
le si schianta addosso disfandole i ricci .
Le ballano attorno fantasmi di agosto,
lei gioca con loro e talvolta uccide qualcuno.
Anch'io sono stata la neve
anch’io sono stata la neve
ho sfiorato gli alberi con piccole mani,
le dita dei pini, gli abeti che fanno inverno e fanno Natale
sentivo che c’era un mistero oltre la sdraio della terrazza
o dentro il silenzio dei monti;
era in me o era mia madre lontana, giovane ancora,
caduta alla prima stazione -
sulla sua schiena la valigia o una croce
io, in bianco e nero, sorridente leggera come la neve
Abissi
no, non è che si confondono
i nomi e marzo finisce
nelle maglie di novembre
grigie fredde come quest'assenza
di volti di mani di parole
la rete in cui il dito di Dio
allargò il buco e poi tutto scomparve
ed è un abisso in cui si affoga
(come, bambina, in quel mare
selvaggio che mi trascinava via)
e gli appigli feriscono si spezzano
non coralli anemoni di mare
non sogni non più sogni silenzio
e questo precipitare senza fine
Cercami
Cercami, se ti ricordi
che ci sono stata anch'io,
nella mia faccia chiara
nella mia faccia scura
nell'ultima matrioska
cercami in mezzo alla polvere
alle parole divenute bava
cercami nel dolore
che s'accartoccia e si nasconde
cercami nelle campagne
tra gli insetti che si nutrono dell'erba,
nel legno roso dalle termiti
e nelle case diroccate
dove qualcuno è andato via
ed è tutto finito
e non è finito niente
E' tardi
È tardi. Piove una piccola luce
dalla finestra silenziosa,
un piccolo ventaglio in cui galleggiano
atomi di polvere luminosa.
Tardi per dire che ci sono ancora strade,
paesaggi inesplorati e vie nuove
e che c’è ancora un bar aperto
con l’insegna accesa o il negozio senz’ore
acquattato come un animale
che finge il sonno e, se gli parli,
muove un orecchio e schiude gli occhi.
È tardi. Tardi per tornare indietro.
Tardi per scegliere l’abito nuovo,
per fissare progetti e appuntamenti.
La sera già scivola via dietro una nube
le dita degli alberi sfiorano il buio
di questa notte in cui vanno
stordite ombre di desideri inespressi
di speranze, sogni disattesi.
È tardi
Erosioni
La casa dove vivesti
ha fenditure ove nidificano
le formiche della memoria
(camminano dentro la testa,
portano via, a mucchi, lentamente,
i grani di passate stagioni
e accumulano, per un inverno
che è già qui).
Nelle stanze più interne,
quelle costruite nei tuoi recessi
più profondi, ci sono crepe
che si allargano, erosioni
che saranno voragini, fino a che
non ci sarà che il vuoto,
un buco nero, come per la morte
di una stella.
E chi passerà dopo di te
vedrà ancora l'indifferenza
delle formiche che non ricordano,
la piccola anfora del tuo corpo
le sue minuscole incisioni indecifrabili.
Fiaba d’agosto
mentre la notte
ardeva
sui fianchi della luna
la bambina strappata
ripiegò
tutte e quattro le stagioni
e le mise via
schiuse
il suo unico cancello
e s’allontanò nel buio
brillando a intermittenza
e poi si spense La caduta degli dei
Nel viale esiguo una piccola brezza porta con sè
il profumo dei giorni andati via.
L’iride riflette l’oro falso di un sole
che si fa ruggine scura.
Eravamo deità che tenevano il filo dell’andare.
Tutto era o credevamo essere nostro: gli alberi altissimi,
il percorso del sole, le rose, il vento, l’amico che amavamo.
Ci apparteneva anche il sorriso incerto e coraggioso
di chi va incontro ad un futuro che, da lontanissime sponde
ed illusorie, si affacciava.
Eccolo, il futuro che non esiste, che non è già più qui
e già si è allontanato.
Eravamo deità che tenevano il filo dell’andare.
Ci muoviamo, ora, storditi, persi e disperati dentro il bozzolo
di un sogno già finito.
La madre (La noia, l’attesa, la speranza)
La madre era l’attesa imprescindibile,
la gola fiorita di ginestre, l’insenatura calda;
era l’approdo certo.
La speranza scintillava inavvertita
tra le sue braccia.
La madre era musica alta, era la culla
che nutriva il sogno.
Improvvisa, la madre , si frantumò
contro pareti altissime
lasciò dietro di sé pozzi di solitudine
attese senza attesa, noia,
musica che, come in un disco
di vinile che s’inceppa,
ripete ancora e ancora
la stessa nota, all’infinito.
Nel buio
Avrò una penna,
un foglio bianco
su cui scrivere addio
quando il mare si sarà ritirato
e il muschio ricoprirà la casa,
le nocche del vento
busseranno alla finestra;
avrò rami, ancòra, rami
su cui sbocciare dentro il buio? |