Racconti di Giuseppe Costantino Budetta


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Giuseppe Costantino Budetta è nato a Bellosguardo (Salerno).
Si è diplomato presso il liceo classico "A. Genovesi" di Napoli e laureato con lode in Medicina Veterinaria. Si è specializzato in alimentazione degli animali domestici e in citochimica. Per tre anni ha insegnato presso la Facoltà di Agraria di Viterbo (Università della Tuscia). Ha scritto oltre settanta ricerche scientifiche alcune delle quali pubblicate su riviste americane ed inglesi.
Ha stampato articoli sulle riviste scientifiche in WEB: ArcheoMedia, Psychologia e PsicoLab.
Ha stampato i seguenti romanzi:
Vento di Terra presso Anna K. Valerio di Udine.
20 Racconti: Andrighetti editore Ferrara.
Giallo Fiordaliso: La Carmelina - Ferrara.
La rosa del Grillo: A. Grasso - Padova.
Doppia Venere di Milo: Edizioni Fabula - Roma.
Attualmente è professore associato di Anatomia, fisiologia e morfologia degli animali domestici presso l'Università di Palermo nella Facoltà di Agraria.
Coltiva fin da ragazzo la passione per la letteratura ed ha scritto numerosi romanzi, racconti e poesie vincendo premi letterari. Alcune composizioni sono presenti nel Web e in particolare in Poetilandia.
Ha vinto la targa d'oro della Regione Campania "Città di Caserta" per il racconto OTTO.
Ha vinto la medaglia d'oro "Città di Avellino" per il romanzo DOPPIA VENERE DI MILO.
Mail: giuseppe.budetta@alice.it
         gbudetta@unipa.it

Leggi le poesie di Giuseppe Costantino

Napoli - Lazio zero a zero
Stamattina, mi sono tolto un peso dallo stomaco. Tomo - tomo, sono entrato nel Duomo e in faccia a San Gennaro ho confessato a bassa voce il peccato del giorno prima. La violenza c'è stata e toccherebbe al Santo valutare i fatti. Da protettore di Napoli e della relativa squadra calcistica, capisce tutto. A lui mi rivolgo per le scommesse clandestine. Dunque davanti a San Gennaro inginocchiato, nella deserta e semibuia chiesa, ho esposto i fatti a bassa voce:
"San Gennaro, credetemi e voi lo sapete. Tra noi ed i laziali non c'è buon sangue. Vanno troppo orgogliosi per la loro squadra, giusto un punto sopra il Napoli. Ieri pomeriggio dopo lo zero a zero in casa contro la Lazio, i miei compagni ed io abbiamo inseguito un furgone di nemici, bloccandolo poco prima dell'imbocco autostradale. In quel tratto, ci sono sempre lavori in corso ed il furgone dei laziali ha rallentato. Con le nostre auto la mia Brava grigia, due Mini Cooper nere e una BMW X3 anche questa nera, abbiamo sbarrato il transito all'avversa tifoseria dentro un furgone Peugeot, cogli stemmi della Lazio appiccicati ai lati. Si sanno come vanno queste cose. Con spranghe, bastoni e catene e con le sciarpe del Napoli al collo li abbiamo aggrediti. Siamo stati in sette: io e gli altri sei ultrà della curva B. Sette contro cinque, però due di noi facevano da riserva, osservando il tafferuglio. Abbiamo fracassato i finestrini del Peugeot ed arraffato ciò che abbiamo potuto. Uno dei laziali si è messo a guardarci come un cane a quattro zampe: l'ho steso con un calcio. Un altro più massiccio lo abbiamo tirato fuori dall'abitacolo e messo a K.O. con una ginocchiata sul panzone. Un altro, avendo ricevuto una bastonata tra collo e spalla, si è afflosciato senza dire niente. Don Vincenzo o' carpecato dei Quartieri Spagnoli, sferragliando in aria la catena, si è messo a dire che i laziali sono mariuoli, che il gol di Hamsik era buono. Don Ciro o' frizzicuso della Duchesca ha marcato la dose: "Laziali di merda, venite a Napoli a rubarci il risultato."
Don Ciro si è messo a sferrare calci al Peugeot, per l'ammonizione a Cannavaro al primo tempo."

Ho guardato il santo che è rimasto come muto. Ho continuato, passando dal voi al tu, tanto per intenderci meglio:
"San Gennaro, tu lo sai come vanno queste cose. Abbiamo portato via i giubbotti di due di loro con delle chiavi, un telefonino, una carta di credito ed un biglietto per la partita Parma - Lazio. Abbiamo sequestrato i loro trofei, gli stemmi della Lazio e una bandierina arrotolata. Doverosamente, abbiamo trasferito il bottino di guerra nella sede ultrà della Loggetta, mettendolo sotto chiave in apposita bacheca. I trofei servono, San Gennaro, voi mi capite? servono da monito alla tifoseria laziale ed è un vanto per i sostenitori del Napoli. Con rispetto parlando, San Gennaro, hanno una squadra di merda, una squadra razzista che in casa vince per mazzo. Ho fatto bene?"
La statua mi ha guardato con la solita malinconia. Ho sentito affianco una voce:
"Non sono queste le cose importanti. Ci vogliono altri trofei nella vita."
Mi giro e vedo don Antonio Perrone. Non è stato San Gennaro a rispondermi, ma il prete avendo ascoltato la supplica, seduto nel propinquo confessorio. Mi alzo e dico:
"Padre, quando ci vuole, ci vuole. I laziali sono arroganti…"
"Sentite a me, cambiate vita e pentitevi dei vostri peccati."
L'ho salutato appena. Mi sono fatto il segno della croce e sono uscito. La giornata si rasserena. Domenica, al Napoli tocca una partita fuori casa e Cannavaro, per colpa della Lazio, è in forse.

 

DE INSULA REMOTA

    Antenato monaco materno, morto in monastero cistercense, lasciò in eredità al mio paterno nonno una vetusta pergamena col titolo in gotici caratteri:

DE • INSULA • REMOTA

  Alla scadenza esatta del quindicesimo compleanno, il nonno mi regalò la preziosa pergamena su consiglio di mio padre, entrambi speranzosi d’invogliarmi nello studio sia pur tardivo, del latino. Di recente, mi sono ancora cimentato nella traduzione del vetusto testo, sia per curiosità, sia per rinverdire la classica cultura. Mi sono infine accorto che vi si narra di una inesplorata isola, visitata nei tempi andati da Goti fuggitivi. I fatti si riferiscono a poco dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente: sanguinosi accadimenti, consequenziali alla riconquista di Cartagine da parte dei Bizantini. Nel 533 dopo Cristo, le milizie di Belisario distrussero Cartagine e fecero strage degli occupanti Goti. Come ordinatogli da Giustiniano, il generale Belisario non solo distrusse la città, ma sterminò i barbari che vi si erano insediati, compreso le donne, i vecchi ed i bambini. I pochi superstiti riuscirono a prendere il mare aperto su una vecchia trireme. I fuggitivi si portarono via l’ingente tesoro sottratto a Roma da Alarico, nel 410 dopo Cristo. Come la pergamena dice, questo tesoro fu nascosto non secondo la tradizione sotto il corso del Basento, ma in mare nei pressi di una misteriosa isola, o insula remota che suppongo sia l’ultima delle odierne Azzorre. Nella traduzione, ho lasciato di proposito alcune brevi frasi in latino. Per pochi nomi comuni e propri come Gothi e monacho, ho rispettato la vecchia dicitura Alto-medioevale. Qua e là, ho inserito le congiunzioni latine et, o atque. Dove non capivo il senso della frase, ho usato il termine quoniam coi punti sospensivi. Ecco cosa il vetusto testo dice.

   Alone lunare inargentava l’acquosa et piatta distesa. Mi ricordai di un vecchio detto latino:

Adspirant aurae in noctem nec candidua cursus luna negat.

La prua della grande nave tagliò le placide onde diretta ad occidente.

Mari undique et undique coelum. Lucis egens aer.

   Atterriti dalle stragi perpetrate dai legionari di Belisario in Cartagine arsa, oltrepassammo le Colonne d’Ercole e virammo col vento amico verso il grande Oceano. Scrutavamo atterriti se mai qualche nave romana c’inseguisse. Ci ritenevano usurpatori dei territori imperiali nel nord-Africa, ma eravamo pacifiche tribù provenienti da oltre il Danubio, scacciate dalla furia degli Unni.

    Quoniam…Al mattino del quarto giorno di navigazione, s’intravide ad oriente ancora la costa piatta ed arsa della Mauritania e ad occidente, solo la nebbiosa linea dell’orizzonte. Un improvviso vento diresse la trireme nel grembo del grande Oceano, mai raggiunto dagli umani. Povero monacho dei Gothi prigioniero, costretto a seguirli nella rovinosa fuga da Cartagine, messa a ferro e fuoco, mi feci il signum crucis e cominciai a pregare. La divinità che tutto regge accolse le mie orationes magna cum desperatione plenae.          

   Al crepuscolo dello stesso giorno, mentre la pesante e vecchia trireme era sballottata delle gigantesche onde senza direzione et meta, la vedetta gridò: “Le isole, le isole…”

  Ringraziai la sant.ma immago dell’Immacolata et statim ricordai il monitum che l’Arcangelo Gabriele mi aveva detto in sogno et in aeterna ammonizione:

Chi ad altro tende che non sia solo Dio e la salute dell’anima, non avrà che tribolazione e dolore.

    Al crepuscolo serale, ci fu calma piatta. Il vento ed il mare avevano cessato le infernali, ma brevi sfuriate. Propinque alla costa, spiagge deserte con candida ed immacolata rena. Oltre le vaste radure sabbiose, palme di datteri e siepai intricati. In alto, volteggiavano ancora grossi e sconosciuti uccelli. Si vedevano tre scure isole non distanti tra loro, circondate da placida acqua, luccicante e trasparente. Colori fini et alieni et cum maximo pavore, sembravano appartenere più all’Arte che alla natura, più allo spirito che alla materia. Poteva essere che le silenziose ombre serali significassero che il sospirato approdo fosse più un fatto miracoloso atque eccelso che un evento del caso. I Gothi levarono un grido di gioia che trafisse la sera ed il silenzio angoscioso. Igor, il capo dei Gothi, decise di approdare sull’ultima delle tre isole, la più remota dalla Mauritania da cui cinque giorni prima ci eravamo allontanati. Siccome era quasi notte, si decise di aspettare il mattino seguente per il sicuro approdo. Nel frattempo, alcuni dei più validi guerrieri erano scesi in mare. Per non affogare, si erano aggrappati ad una specie di trave (ad traben), calata apposta in acqua. Enim, i guerrieri avevano risalito la spiaggia sabbiosa e legato con una lunga fune la prua agli alberi di datteri più vicini. Enim, alcuni dei Gothi avevano dormito in spiaggia con una sentinella di turno, ma la maggior parte, compreso le donne ed i bambini avevano dormito sulla nave. A turno anche sulla prua della nave, una vedetta di guardia restò. Dulcis et clara et serena fu l’alba rosata et la verde, iridescente boscaglia dell’isola extrema ebbe la freschezza dell’anima pura, timorata dal Creatore. All’alba del giorno dopo, Igor fece calare sul bagnasciuga la passerella. Cominciarono a scendere gli uomini, alcuni dei quali feriti nell’ultimo et strenuo combattimento contro i Bizantini. Subito dopo, scesero le donne con in braccio i bambini. Infine, furono traslati in riva i bagagli e le armi di riserva. Quando l’intero popolo superstite ebbe lasciato la nave, contai quasi trecento persone fuggitive. Si cominciò a scaricare altri bagagli, i viveri, la scarsa acqua da bere et in extremis, il tesoro di Alarico. Igor ordinò a gruppetti di guerrieri di perlustrare l’isola e cercare sorgenti di acqua dolce. Orgoglioso di sé e forse riconoscente al mio Dio, Igor estrasse un coltello e mi liberò dei lacci che mi legavano i polsi. Non so perché non mi avessero ucciso. Superstiziosi com’erano, non mi avevano ucciso temendo un maleficio infernale. In silenzio, ringraziai il Signore:

Pater noster qui es in coelis, santificetur nomen tuum…

    Le sentinelle spedite in perlustrazione erano discese trionfanti, indicando che alla base di un’altura nell’interno, c’era una grossa fonte d’acqua ed un laghetto. Le donne ed alcuni ragazzi si affrettarono con recipienti di creta ed otri a risalire il corto colle per raccogliere il prezioso liquido. Il tesoro dei Gothi accumulato su un telo verso il sottobosco, luccicava sotto i primi raggi solari che divenivano roventi.

Lumina solis super arbores iridescentes vinxit absoluta in apio coelo.

   Il mare si era chetato e la nave, una vecchia trireme romana che forse aveva superato il secolo, sonnecchiava immobile davanti a noi. Udimmo altre grida più concitate. Alcuni dei guerrieri armati di asce e di coltelli, spediti da Igor in perlustrazione sulle costa occidentale, tornavano gridando al portento ed indicando un punto dall’altro lato della spiaggia. Dopo aver parlato con loro, Igor volle andare a vedere e disse verso di me:

“Vecchio, tu sei segnato dagli dei benigni. Vieni dunque con noi a vedere di che si tratta.”

   Mi tenevano in vita perché ero l’unico a conoscere la scrittura e capace di tramandare le loro vicissitudini? Con Igor e la maggior parte dei guerrieri mentre gli altri sostavano in spiaggia, risalimmo un basso costone roccioso e passammo oltre un tozzo promontorio. Vedemmo infine il portento. Una scultura marmorea, più grande e massiccia di qualsiasi tempio pagano, più alta delle piramidi d’Egitto, si levava sul placido Oceano, ad occidente. L’opera magna distava duecento e più braccia dalla riva. Rappresentava una gigantesca dea, emergente dalle acque marine. Non poteva che essere la scultura tentatrice di un essere demoniaco, nella integrale nudità. Opera di smisurata magnificenza, simile alla Sfinge d’Egitto. La gigantesca scultura in parte emergeva dall’Oceano ed in parte ne era sommersa. Di certo, un potente popolo, con migliaia di schiavi aveva eseguito l’opera eccelsa. Un misterioso popolo, forse nei secoli scomparso. Ardua, possente fatica toccò alle schiere di schiavi nello scalpellare, secondo esatti canoni estetici, il gigantesco et siliceo monumento. La statua raffigurava una dea pagana del tutto nuda, emergente senza verecondia dalle profondità oceanine, come Venere dallo Jonio. Enim, si trattava di un’opera erotica, elevata al cielo per aggraziarsi un ignoto dio barbarico. Sollevai le tre dita in segno di benedizione, onde allontanare gl’influssi del maligno. La gigantesca scultura era come una montagna, o un colle e superava i trecento piedi in altezza. Pensai che all’origine, un masso emergente dal mare fosse stato modellato ad arte da un popolo misteriosamente scomparso dall’isola extrema.   

   Il volto inespressivo della scultorea opera era di una giovane dea compiacente, ma lo sguardo era vuoto a perdersi verso il misterioso orizzonte, là dove il mondo finisce ed incomincia la serie dei sette cieli. I piedi per intero fino agli stinchi, sprofondavano negli abissi, a perpendicolo, come le massicce colonne del tempio di Salomone. La dea pagana era immobile ed osservava come in estasi la linea remota che segna i limiti oceanici da nessuno superati.              

   Fu allora che accadde il portento. Nel ricordo, persiste il dubito di ciò che vidi. Mirabilia et mirabilia. Fummo senza fiato. La grande scultura si animò, acquistò colorito umano e d’un tratto si girò verso di noi con sguardo umano. Non credemmo a ciò che vedevamo. Ci guardavamo l’un l’altro. Il cielo ebbe sia pur per poco, un cangiante aspetto. Apparve una sottile e lucente trama, come una vasta rete di pescatore: una rete non di spago, ma di luminescente filo. Ad alcuni, parve una ragnatela, o una nuvolaglia nel cielo aleggiante. La lucente trama setosa, diaframma tra questo e l’altro mondo, avvolse l’enorme e muta statua, vivificandola all’istante. L’opera magna ebbe davvero esistenza novella e come un colosso di ciclopica fattezza si mosse e parlò. Verso di noi, con roboante voce, dunque disse:

“Ave, sono Hypnos, sorella di Thanatos e figlia di Chronos, il Tempo infinito. Oltre i sette cieli io sono. Vi aspettavo et nunc vi dico: salverò l’umanità dal baratro prossimo venturo. Io ingrandirò il pianeta con l’aggiunta di un nuovo continente che voi umani solo nel 1492 scoprirete. L’umanità avrà a disposizione nuove terre per espandersi e proliferare. Io manovrerò la Storia affinché nulla della planetaria trasformazione si abbia sospetto. Nel nuovo continente, introdurrò antiche tribù che sembreranno autoctone. Non abbiate timore, ma fiducia.”

   Così dicendo, la gigantesca statua tacque e riprese il colore, la staticità e la fissità della materia amorfa. Utqunque, il portento non era finito perché sopraggiunse un forte terremoto. Le onde dell’oceano, poc’anzi chete, presero ad agitarsi frenetiche con incessanti creste schiumose. La statuaria mole ondeggiò e cominciò ad inabissarsi, prima lentamente, poi con maggiore rapidità. Le ginocchia, i fianchi, il prospero seno, il collo, il dolce viso ed infine gli occhi, la fronte arcuata ed i capelli scomparvero sotto il ceruleo mare. Fu come se l’abissale gola dell’Oceano l’avesse ingoiata.

   Subito dopo, olim coelum deinde il mare si chetò. Statim, Igor il grande capo dei superstiti Gothi, ordinò che il tesoro di Alarico fosse gettato in mare, là dove Hypnos era emersa e poi scomparsa.

Haec rebus in casu aut in quadam animi pernicone factis perabsurda videntur.

  PS. Ho fatto analizzare da più esperti la pergamena, ingiallita e con piccole chiazze di muffe lungo i bordi. Il responso è stato negativo. Si tratta di una copia, risalente alla metà del XVII secolo circa. Secondo gli esperti, è probabile che qualcuno abbia copiato il testo da una originaria pergamena dell’alto medioevo. Ho tradotto alcuni nome come per esempio “trave” che nel testo latino è l’accusativo di trabs-trabis.

 A parte tutto, i fatti narrati mi sembrano inverosimili ed assurdi. Non è credibile che forze aliene abbiano impiantato sulla Terra un intero continente, le Americhe. Un’operazione di maquillage planetaria per salvare i destini dell’umanità.

F I N E

Oltre la sbarra
Una voce mi avvisava con autorità, come un annuncio dall'altoparlante nelle stazioni dei treni:
"Questo è quasi un sogno."
Un improvviso fragore si diffuse ovunque. Non molto distante da sopra la mia testa disperata per altro, un elicottero da guerra statunitense (lo si capiva dalle insegne) scese in picchiata, sollevando terriccio e sassolini che schizzarono dovunque. Mi riparai la bidimensionale faccia col braccio. Dall'elicottero, partirono dei colpi di mitra qua e là, senza colpirmi. Già, se uno dei proiettili mi avesse trapassato che sarebbe accaduto? Ero una semplice figura onirica, trasparente alquanto. Che poteva accadermi di più? L'elicottero che vidi trattarsi di un Cobra da combattimento, di quelli usati dagli USA nel conflitto iracheno degli anni Novanta del Novecento, virò verso una livida striscia di orizzonte, al di sopra di tozzi e brulli cocuzzoli, scomparendo alla fine. Il fragore andò via via attenuandosi, fino a che prevalse l'eterno silenzio di prima. C'era un prima ed un poi?
Un uomo sul metro e novanta, un vero marine compreso la divisa con elmetto da battaglia, armato di tutto punto, mi avvertiva in inglese (lingua che da sveglio conosco) di fare attenzione perché a pochi chilometri c'era un posto di blocco e se non mi trovavano tutto in regola, non l'avrei passata liscia. Feci cenno di sì e il soldato coi gradi di caporal maggiore, si ecclissò dentro una delle tante forre che segnavano dall'alto in basso le desolate alture. Tra me e me dissi:
"Che significa tutto questo?"
Quasi intuendo ciò che mi chiedevo, un omino ben vestito, con giacca e cravatta, la barba rasata e i capelli a posto anche se radi, spuntò dall'interno di una delle tante grotte e spiegò:
"Qui, c'è l'eco della terra e dei suoi eterni conflitti. Dicono che truppe congiunte arabe stiano invadendo la parte sud della Sicilia, intenzionate a conquistare Roma."
Di rimando: "E gli USA? E gli altri Paesi europei?"
"Se ne fottono."
"Mi fa piacere…prima o poi, toccherà anche a loro."
"Il soldato che poco prima ti ha parlato è del terzo battaglione di fanteria USA e combatte la guerriglia contro gl'iracheni, fedeli al vecchio regime, alleatosi, in queste lande desolate con l'ISIS. Attenzione, che se uno dell'ISIS ti vede, ti annulla all'istante."
"In che senso, scusa?"
"Ti fa a pezzi con la sua arma, ultimo modello."
"Quale arma?"
"Si tratta di strani congegni che generano onde elettro-magnetiche. Pistole speciali che formano intensi campi elettromagnetici e che assorbono per breve raggio, il campo bidimensionale in cui ciascuno di noi si muove e vive questa residuale esistenza. Caro mio, non lo sapevi? Siamo come i pesci in una brocca di vetro. Ci muoviamo all'interno di uno speciale campo bidimensionale. Chiamalo sogno, chiamalo aldilà, il risultato è lo stesso. Se la brocca si rompe, chi ci sta dentro, scompare per sempre."
"Che bella cosa."
Ridendo per il mio sconforto, l'omino che poteva essere stato di mezza età al momento del trapasso in quella specie di aldilà, mi aveva consegnato un fogliettino colorato. Mi aveva detto:
"E' un invito. Stasera, alle venti del nostro orario ultraterreno, c'è in piazza una conferenza sulla sanità in Toscana. Parlerà l'assessore regionale alla sanità."
Mi venne spontanea la domanda, anche se depresso al massimo:
"E io che c'entro? Anzi, che c'entriamo noi con la sanità toscana?"
"Tanto per distrarsi un poco. Tanto, le cose vanno per loro conto. Come sempre."
"E' come quando seguivamo queste cose della politica per tivù da vivi, sulla terra."
"Vedo che hai capito. L'assessore parla, riferisce cose che più non ci riguardano e noi facciamo finta di ascoltarlo con interesse. Comunque, qualcuno ancora in vita sulla terra che c'interessa, per esempio un figlio, la moglie rimasta vedova…più o meno tutti ce l'abbiamo e quindi, un certo interesse ce l'abbiamo. Poi, siamo stati di carne ed ossa e quindi, non del tutto estranei agli eventi terreni. Uno si distrae, ricordandosi del vero mondo, quello tridimensionale."

Avevo riposto nella bidimensionale tasca il bigliettino dell'invito. Gli avevo detto grazie e lui di conseguenza si era ecclissato nella rispettiva grotta, come un mollusco sotto il rispettivo scoglio. Gli gridai, sperando che riemergesse dall'antro e mi fornisse altre spiegazioni. Dovevo capire. Le sorprese anche nell'aldilà problematico non mancavano:
"Il Giudizio Finale di Giotto che sulla Terra ho da poco ammirato dov'è finito?"
Nessuno rispose. Gridai più forte:
"Se uno è stato buono o stronzo, è la stessa cosa? Nessuno è qui preposto per il giudizio estremo, quello che una volta emesso è intangibile?"
Rispose la voce di un grande saggio, tipo Socrate o Platone, o Aristotele, o tutti e tre fusi insieme. Da dietro una rupe, dunque disse:
"Ascolta, sono un saggio e ti dico che l'eternità va ripetuta, le generazioni cambiano, gl'individui sono transeunti e nulla si ferma, persino l'eternità. Non c'è un Giudizio Finale definitivo: qui tutto è opinabile e passeggero, anche se nell'apparenza nulla si muove e muta."
Da un grottino propinquo, una nuova vocina emerse con un'unica, ma assai efficace parola, non so se diretta a me o al saggio:
"Non rompete."
Subito dopo la mia meraviglia, risposi con fermezza, come a sparare nel buio:
"Calma."
Una nuova voce tossicchiando gridò:
"Le cose che tu dici in questo posto non contano più."
Venne avanti un altro omino, alquanto depresso in faccia, sbucato da una delle tante forre in semibuio permanente. Vestiva con pantaloni di lana grigio-chiaro, giacca a due bottoni, aperta sulla pancia debordante e a quanto vidi, scarpe nere e ben lucidate a mano. Mi disse, ragguagliandomi alquanto: "Vedi? non andare da quella parte."
Col dito m'indicò delle basse alture verso est. Disse: "Lì c'è lo sbarramento."
"Che sbarramento. Anche qui ci sono i confini."
L'omino fece un fischio e con la mano pendula come un orologio a muro fece intendere di sì, e come! Disse: Da quelle parti, c'è la sbarra. Può oltrepassarla chi in terra ebbe un reddito medio di un milione di euro all'anno."
"E gli altri?"
"Vanno girovagando come te, o s'infilano in una forra e lì rimangono come me."
"Che c'è oltre lo sbarramento?"
L'omino disse chiaro e tondo: "Il paradiso."
Nel sogno mi sembrò di non aver udito bene: "Che?"
"Oltre lo sbarramento, c'è il paradiso, ma solo per chi superava un dato reddito da vivo. Oltre la sbarra, ci sono belle donne, divertimenti, spiagge deserte, bungalow, yacht, casinò."
Mi misi a ridere: "Donne? E che ci fanno con le donne?"
Risposta pronta: "Ci convivono."
"Come?"
"Lì, ma solo nel paradiso, c'è la tridimensionalità. Qui no."
"Incredibile."
"O.K?"
"Suppongo che questo è l'inferno."
"Logico."
"E il purgatorio?"
"Non c'è una netta linea di demarcazione purgatorio - inferno."
L'omino si scocciava, disse ciao e sparì nella sua forra più sconsolato di prima.

Ci fu il silenzio assoluto, come quando non si muove una foglia. Nessuno più si udiva, né su quella specie di suolo grigiastro, né nel livido cielo. L'elicottero da guerra volato via, oltre la catena quasi regolare di calve colline, appena schiarite da un lucore verdognolo e statico.

La voce di prima mi avvertiva: "Ora svegliati."
Sbadigliando, aprii gli occhi. Mi ricordavo dello strano sogno che a dire il vero, sembrava più una visione, un breve trapasso in una angosciosa nuova dimensione.


F I N E

Fiction
Si faccia finta di giocare una partita di serie A, di B, o di C. Non importa il numero dei gol. Secondo le nuove norme approvate dalla UEFA e sottoscritte dal CONI, non vale se una squadra vinca una partita di football, la pareggi, o la perda. Il risultato è lo stesso. Alla fine, deciderà il comitato di saggi. Idem, al termine del campionato. I saggi decideranno a chi spetti lo scudetto, a chi la retrocessione in B, od in C. Viceversa, gli stessi decideranno per le promozioni in A, in B, o in C. C’era stato chi aveva obiettato - ed a ragione - che si desse troppa importanza ai goal, invece esistevano energie occulte e professionalità inespresse che andavano valutare al di là dell’arido punteggio. Per esempio, gli scatti indietro delle ali tornanti a prevenire le sortite degli avversari, oppure i passaggi smarcanti dal centrocampo, i passaggi brevi a volo, le testate con l’effetto che per puro caso non davano il goal. Guizzi di genialità che meritavano il giusto prezzo. Le interviste sui giornali sportivi, su quelli dei gossip, o sui quotidiani locali esprimevano unanimità di opinione: liberalizziamo il calcio. Non più la vittoria di una squadra in base al numero dei goal, ma si dia spazio al merito individuale, esibito nel gioco di squadra. Viva la solidarietà sportiva. Aboliamo le classifiche fuorvianti dei cannonieri. Viva il merito, aldilà dei goal. Via la spettacolarità e stop alle caviglie fratturate, ai menischi lesionati ed all’agonismo spinto. In base alla nuove regole, cominciarono ad entrare in campo come titolari, vecchi sessantenni, alcuni settantenni e qualche ottantenne di forte fibra. Quasi tutti vantavano parenti nel comitato dei saggi, nel CONI e presso l’Assessorato Sport e Cultura. Il risultato pratico fu che si fingeva di giocare. In campo, si chiacchierava del più e del meno. Sugli spalti, non c’era quasi nessuno. L’assenza degli sportivi negli stadi era stato previsto. Ad ogni partita, lo Stato distanziava tot milioni di euro da spartirsi tra le due squadre, più le spese per l’affitto dello stadio comunale ed il trasporto dei giocatori. Con laute ricompense, provvedeva lo Stato per l’arbitraggio ed i segnalinee, così come per le organizzazioni televisive che fingevano di trasmettere le partite. Allo scadere del novantesimo minuto, il club sei saggi riunitosi ad hoc, assegnava via computer la vittoria, il pareggio, o la sconfitta ad una delle due squadre. Inappellabile era il parere dei saggi. La tivù diffondeva i dati e la classifica, aggiornata al novantesimo minuto. I giocatori trascorrevano i novanta minuti parlottando del più e del meno e lasciando fuori campo il pallone. L’arbitro fingeva di non guardare anche per mancanza di falli ed i segnalinee giocavano a scopone. Per volere perentorio della terna arbitrale, i giocatori dovevano indossare con meticolosità le magliette nuove, i calzoncini ad hoc, i calzini e le scarpette della propria squadra. Un ordine nel vestire come i militari in divisa. I giocatori titolari dovevano avere il fisico asciutto, niente pancia con grasso addominale, o ai fianchi. Chi era in sovrappeso doveva fare dieta, perentoriamente.

A volte, qualcuno dei giocatori non resisteva e per istinto atavico si permetteva di sferrare almeno un calcio al pallone, o azzardare un tiro non pericoloso verso porta. Con speditezza, interveniva l’arbitro che richiamava il giocatore ribelle ed al terzo fischio lo espelleva. Tutto dipendeva dalla valutazione finale da parte della squadra dei saggi ch’elargiva sentenze come la Sibilla dell’antichità. In tivù al Novantesimo Minuto, si discuteva animatamente sul risultato, sui pronostici di classifica, sugli schieramenti in campo e sulle future tattiche in base alle quali il collegio dei saggi avrebbe deciso in senso positivo per una, o l’altra squadra in campo.

I sindacati sportivi proposero di allargare ed allungare la superficie di gioco, aggiungendo nuova erbetta, ridisegnando le linee del campo ed incrementando la distanza tra le porte. Anziché undici giocatori, potevano scenderne in campo tredici ed anche quattordici, tutti con la retribuzione da titolare. Potenziando il numero degli effettivi, di conseguenza bisognava provvedere ad incrementare quello dei riservisti, dei medici sportivi e degli eventuali raccattapalle. Si dovevano arruolare schiere d’architetti per ampliare gli stadi, visto che il numero dei giocatori era stato maggiorato fino a quattordici e di conseguenza, l’area di gioco. Il provvedimento fu esteso all’istruzione pubblica (scolastica ed universitaria), alle assunzioni dei medici negli ospedali, dei giudici nei tribunali e di tutti gli altri settori del pubblico impiego e nel settore privato. In politica, proliferarono i posti d’assessore regionale, provinciale e comunale. Il parlamento ed il senato furono raddoppiati di numero. Qualcuno disse che sarebbe stato logico raddoppiare anche i presidenti della Camera, del Senato e della Repubblica. La democrazia sarebbe andata meglio con più teste pensanti, nei posti apicali. L’esempio di liberalizzazione fu eseguito anche nell’aldilà. Via l’inferno e tanto meno il purgatorio. Si va tutti in paradiso. Si faccia finta di essere buoni. La cattiveria non esiste nel profondo. Tutti saranno felici, purché non diano fastidio alla casta dei beati: gli arcangeli, i troni, i cherubini ed i santi di nuova nomina.

La tigre dai denti a sciabola
La montagna scendeva a picco sul mare. Alla base c'era una soleggiata insenatura sabbiosa. L'acqua marina limpida invitava al bagno ed al nuoto. Per la configurazione orografica, la spiaggia era raggiungibile solo dal mare con barche e motoscafi. Sparuti escursionisti arrivavano in spiaggia, calandosi con funi, lungo le pareti a perpendicolo. I bagnanti si spingevano ad esplorare le grotte circostanti. Gl'innamorati, camminando in equilibrio sugli scogli, andavano ad amoreggiare tra le forre. In una grotta, su una roccia piatta, un bagnante scoprì una pittura impressionante, forse del Neolitico. Radunò dalla spiaggia gli altri e mostrò il portento. Dissero che era uno dei tanti murales, un dipinto su parete. Poteva misurare oltre i cinque metri di lunghezza e quattro di altezza. Ritraeva una gigantesca tigre dai denti a sciabola, nell'atto di saltare in avanti, la bocca spalancata coi canini a sciabola in bella mostra e gli artigli delle zampe anteriori, pronti alla predazione. La belva si materializzò, uscendo da remoti cunicoli spazio - temporali. Con prolungato, terrificante urlo, cui fecero eco i bui recessi della grotta, s'avventò sui malcapitati. Infisse i canini come pugnali nei crani dei bagnanti più vicini. Squarciò la gola a quelli in fuga, spezzò le costole, cosce ed arterie a quanti cercavano di tuffarsi in mare. L'insenatura sabbiosa fu piena delle grida disperate dei bagnanti in fuga, oltre ai latrati della belva. Il bagnasciuga tinto di sangue. Da una barca, un villeggiante, munito di una super - otto prontamente filmò la scena. Sgozzati i bagnanti sulla riva, la grossa tigre s'infilò nella grotta da cui era uscita, scomparendo.
Sbarcata sulla spiaggia dell'eccidio, la squadra speciale dell'esercito non trovò la belva. Il commissario incaricato delle indagini concluse ch'era un caso anomalo. A conferma dell'ipotesi, c'era il filmato del video - amatore. C'era da esaminare il dipinto sulla roccia che ritraeva per davvero una enorme tigre dai denti a sciabola con la bocca insanguinata. La Scientifica dedusse che si trattava di pittura ad olio su pietra, opera di un artista contemporaneo. Però le macchie rosse intorno alle fauci erano vero sangue umano. L'enigma s'addensò. Realtà, visione, illusione ed incantamento, fusi intrichi inestricabili. Verità oltre remoti mondi. Un poeta scrisse:
la realtà vaga volando simile ad un sogno.

Freud

Racconto lungo

Freud scoprì l'inconscio e la sua dinamica, governata da forti ed oscure pulsioni.

Nel maggio del 1914, Sigmund Freud ebbe come paziente la baronessa Margherita von Kerstel, nata a Tharsch, una cittadina ad est di Vienna. La baronessa aveva ventisette anni, portamento regale, viso di una ventenne, molto bella, alta e ben fatta. Pelle chiara, liscia, due stupendi occhi verde smeraldo e pettinatura vaporosa coi capelli corvini, chiusi da una cloche aderente sulla testa ad incorniciarle il volto. Nata a Praga da una famiglia di banchieri internazionali e di mercanti, era stata allevata in un palazzo grande come un intero isolato. Aveva sposato il barone Erwin von Kerstel, facoltoso console generale che prestava servizio al ministero degli Esteri. Il matrimonio era stato celebrato nella Votivkirche, disegnata e costruita dal padre dello sposo, Heinrich von Kerstel, uno dei più eminenti architetti della capitale.

Freud sapeva che tra la baronessa ed il marito non c'erano problemi di coppia. Sposati da sei anni senza prole, continuavano a volersi molto bene. Lo studio medico di Freud era nella parte media della ripida strada di Berggasse, più giù del laboratorio del prof. Brücke, un suo vecchio amico. La baronessa era arrivata in carrozza. Vestiva un abito di velluto in due pezzi. Corpino e gonna in velluto di seta viola. Il busto, come la moda imponeva, le spingeva in fuori il pingue seno, le irrigidiva la schiena, conferendole slancio ed alterigia. Impressione accresciuta dai lunghi colletti steccati che raggiungevano il sotto mento, costringendo a mantenere la testa ben eretta. Tra corpino e gonna, una cintura azzurra assecondava la forma del corpino, abbassandosi sul davanti. Lunghe frange merlettate, bianche e color pastello partivano dalle spalle, scendendo a V sul petto, verso la cintura. Freud la fece accomodare sulla poltrona di fronte alla finestra e di lato alla massiccia scrivania di noce. Era la poltrona in pelle riservata agli ospiti importanti. L'aveva fatta portare apposta dall'appartamento al primo piano dove abitava con la famiglia. Il suo studio era invece al pian terreno dello stesso stabile, lungo la Berggasse.

Le si sedette di fronte con un taccuino ed una penna, pronto a prendere appunti. La donna disse d'essere molto agitata. La notte prima non aveva dormito: "Dottore, mi aiuti. Non so cosa mi stia accadendo. E' tutto così assurdo."
"Si calmi. Forse lei ha allargato troppo la sfera dei suoi impegni e dovrebbe riposare con la mente, per un breve periodo di tempo. Distrarsi. Un bel viaggio con suo marito…"
"Le mie giornate si fanno sempre più complesse. E' vero. Ho troppi impegni."
"Possiamo affermare che lei ha una necessità irresistibile ad essere in azione."
La baronessa chinò la testa, poi lo guardò con espressione piena di candore. Infine si decise a svelargli tutto. Era lì per questo. Liberarsi dei suoi demoni. Divenne di nuovo molto seria. Adesso, era davvero una donna disperata. Disse:
"Dottore, sento dentro di me una forza che mi trascina. Ho paura di restare sola. Se resto sola ho paura che questa forza irrazionale, questo spirito malefico, mi costringa a fare cose che non voglio. Per questo devo stare con la gente, con le persone importanti, devo avere un'occupazione. Devo fuggire da me stessa. Ho paura di restare sola. Se resto sola per un po'…mi confido adesso solo con lei, neanche mio marito lo sa…"
"Dica, dica tutto."
"A volte, sento una voce…dentro di me c'è qualcuno che a volte si mette a gridare ed a giudare la mia volontà. A volte, ne sono assoggettata nel corpo, nella mente e nell'anima."
Freud non si aspettava che la donna soffrisse di uno sdoppiamento della personalità:
"Baronessa, non esiti a raccontare tutto. Si confidi. Siamo qui per risolvere il suo male."
"Le cose si sono aggravate nell'ultima settimana, ecco tutto. Mio marito ignora queste cose. Oppure fa finta. Forse sospetta qualcosa del mio carattere che traballa, la mia personalità che non è più stabile come una volta….Dottore, io non sono più certa della mia identità."
"Dica cosa le accade. Lei è giovane e c'è la possibilità di guarire da qualche ossessione. Ognuno di noi ha una nevrosi."
"Domenica…sei giorni fa è iniziato il mio calvario. Domenica scorsa, di pomeriggio avevo chiamato il giovane stalliere che accudiva il mio cavallo preferito."
"Lei ama i cavalli?"
"Oh, da morire! Fin da ragazza sapevo cavalcare ed andavamo nei boschi, fuori città. La casa ha una grossa proprietà verso sud, piena di boschi, di ruscelli e di prati."
"Perché dice andavamo nei boschi. Con chi ci andava?"
"Ho fatto un errore di linguaggio. Di solito, ci andavo da sola. Forse intendevo dire col mio cavallo…"
Freud annotò il lapsus. Scrisse sul taccuino: la baronessa ha usato il verbo al plurale. Ha detto ci andavamo, senza una precisa causa. La baronessa continuò a raccontare:
"Dottore, è terribile cosa ho fatto."
Aveva prelevato un fazzolettino bianco da sotto la manica e si asciugava la fronte, anche se non era sudata. Si passò il fazzolettino alle labbra, riponendolo nel taschino della manica merlettata. Disse alla fine:
"Dottore, domenica scorsa di pomeriggio, avevo chiamato il giovane stalliere che accudiva il mio cavallo preferito. Lo avevo fatto accomodare nella sala degli ospiti. Il ragazzo era impacciato e non si era neanche seduto. Aveva i lunghi stivali di pelle ed il pantalone da stalliere appunto, quello elastico ed aderente. Si era piazzato al centro della sala. La voce dentro di me comandava di fare ciò che feci. Ero schiava di quella voce che diceva: "Lo stalliere è bello. Mostrati a lui. Anche tu lo sei."
La donna aveva vergogna a continuare. Era tutta rossa in viso. Freud la incoraggiò:
"Parli, dica tutto. Solo così, ha la speranza di guarire."
"Ho detto allo stalliere: guardami e poi vai via per sempre."
La donna esitava a proseguire nel racconto. Freud la incoraggiò: "Poi cosa accadde?"
"Mi sono girata di spalle…"
La donne esitava. Una lacrima le scendeva da una guancia. Freud la incoraggiò di nuovo:
"Si liberi del Male, baronessa. Dica cosa le sta accadendo."
"Ecco, Her doctor…Mi sono tirata su la gonna, mostrando le natiche nude e piegandomi col busto in modo che lo stalliere mi vedesse meglio. Avevo solo delle calze colorate e nient'altro sotto."
La donna si era messa a singhiozzare.
"Poi cosa è accaduto?"
"Sotto non mi ero messa nulla. Non avevo neanche le mutande. La voce che guidava la mia coscienza mi diceva di avere un amplesso amoroso col ragazzo. Ho obbedito. Gli ho detto di non andare via, di buttarmi con forza sul letto. Ho detto: divaricami con forza le cosce, osserva bene i miei genitali, guardami bene come sono sotto. Guarda. Infime, mi ha posseduta come io volevo e lui voleva. Durante il coito, mi accadeva di vivere un evento straordinario. Godevo come mai avevo goduto, ma ero conscia di vivere in un mondo che non era questo. Mi capisce?"
"Sì, anche se è molto difficile, ma comprendo ciò che le è accaduto."
"Giacevo sul letto ed ho avuto la netta sensazione che il mio io, la mia identità eterea fosse volata in alto verso il soffitto della camera e potevo osservare me stessa giacere sotto il giovane. Ero sul letto ed ero altrove, sospesa sotto il soffitto. Fatto l'amore, ho detto allo stalliere di andare via. Fatto l'amore, mi sono rimessa diritta, aggiustata la gonna ed ho dato dei soldi allo stalliere perché andasse per sempre via da lì e non si facesse mai più vedere. Il giovane ha accettato i soldi. Incredulo di quanto accadeva, mi ha fissato negli occhi dicendo solo: "Ma perché?"
"Gli ho detto: sono molti soldi. Vai via per sempre da qui. Il giorno dopo, il ragazzo è sparito, almeno fino ad adesso. Ho paura che racconti a qualcuno ciò che gli è capitato e che torni in compagnia d'altre persone per ricattarmi. Non so cosa mi accada, dottore."
La donna stava per piangere ed aveva in mano di nuovo il fazzoletto, passandoselo sotto gli occhi. Freud le fece coraggio: "Signora, non si abbandoni allo sconforto…Continui, la prego. Come si spiega ciò che le accade?"
"Una voce…le ho detto che una voce mi ha imposto di fare così. Una voce ed una forte pulsione….una forza irrazionale padroneggiare il mio corpo…"
"Una voce di donna, o di uomo?"
"Una donna…A volte la vedo pure. Prima…prima di una settimana fa la vedevo solo nei sogni, nei miei incubi. Mi svegliavo di botto, sentivo il mio cuore palpitare forte e mettevo mio marito in agitazione perché prima di svegliarmi gridavo, o emettevo dei gemiti prolungati."
"La donna che vede nei sogni e che a quanto ho capito, adesso comincia a vedere coi suoi occhi da sveglia, è giovane, è bella?"
"E' identica a me."
Freud non si scompose. Continuava a sedersi di fronte a lei, a poca distanza. Una bella donna, giovane, ricca e nobile. Una che inesorabilmente si avviava per le buie vie del delirio. Osservò il suo sguardo. Tutto sembrava normale in lei. Lo sguardo non era stranito. Non c'era isteria, una delle tante forme descritte da Charcot. Oppure, l'isteria appariva con improvvisi attacchi e poi spariva del tutto. Un caso da studiare con interesse. Nel campo della psiche, i cambiamenti sono sempre lenti. Freud sapeva che l'ossessione andava curata presto. A volte però gli occorrevano settimane, o mesi per portare il paziente a rivelare le cause vere dei malesseri. Era ossessione, isteria, nevrosi generica la causa? Le disse:
"Baronessa, lei ha detto che vede questa donna, questa sua sosia."
"Non l'ho vista solo io. Anche due donne che erano con me, due mie amiche l'hanno vista. E' stato l'altro ieri. Ero con delle amiche a casa mia, nella stanza di soggiorno. Quindi, io penso: se ciò che vedo io lo vedono anche gli altri, allora non sono pazza. Però, l'ho vista anche da sola. E' accaduto ieri pomeriggio. Ero nella mia camera da letto e mi pettinavo da sola davanti allo specchio."
"Può entrare nei particolari? Può esporre i fatti nei particolari?"
Forse ci voleva un prete, o un esorcista anche se non credeva agli esorcisti-stregoni. Freud pensava che tutto dipendesse dai fantasmi della mente. Per principio, era contrario agli esorcisti. La scienza medica era un'altra cosa. La baronessa descrisse i fatti nei particolari:
"L'altro ieri pomeriggio ero con due amiche. Stavamo sedute sui divani, intorno al tavolino e sorbivamo del tè. Le tende della stanza erano aperte e dalla vetrata del terrazzo filtrava la forte luce del giorno. Sebbene primavera inoltrata, fuori c'era vento freddo. Per questo, non facemmo colazione sul terrazzo. Una delle mie amiche era un po' raffreddata. Parlavamo di varie cose. All'improvviso mi sono alzata senza un motivo e sono andata nei pressi della veranda a guardare fuori, in giardino. Ammiravo le rose vermiglie cresciute nei vasi, intorno alla grande vasca. D'un tratto, Iolanda, la più giovane delle due si era messa a gridare a noi altre: "Guardate. Oddio!"
"Mi sono girata verso l'interno della sala ed ho notato i loro sguardi terrorizzati. Erano impietrite e mi fissavano. Iolanda indicava un punto della camera, non distante da me. Ha detto: "Ma siete due."
Anch'io ho constatato il portento. Dottore, è incredibile. Di lato a me, c'era una mia sosia che stava ferma, diritta nella sala e che mi osservava. Sembrava in carne ed ossa. Non era una immagine eterea come un vero fantasma, capisce? Se tenevo le mani sul grembo, lei sollevava le sue. Se mi muovevo, lei stava immobile e viceversa. E' difficile da capire. E' tutto così assurdo."
"Baronessa, ci provo a capire…"
"Sembrava indifferente alle mie amiche. L'altra amica, Franca era corsa ad aprire la porta, ma inutilmente perché qualcuno l'aveva serrata. Anche lei era rimasta impietrita come una statua tra il camino di marmo e la consolle che fa angolo, verso la vetrata. Tutte e tre a fissare la mia sosia. Nella sala, c'era una che vestiva come me, una identica a me."
"Com'era vestita?"
"Indossava un marezzato bianco perla."
"Se non sbaglio, è un tessuto che grazie ad una lavorazione particolare dopo la tessitura, acquista il tipico aspetto ad onde."
"Sì. E ciò era molto impressionante. Quel tessuto le dava un aspetto ancora più sinistro, qualcosa di transeunte…qualcosa d'ultraterreno…"
"Capisco…"
"Sembrava che mi specchiassi in lei, ma se mi muovevo, lei era ferma e se accennava ad un passo in direzione della veranda, passando davanti a Franca rimasta incollata alla parete… quando camminava, si muoveva in modo indipendente da me. Ho anche cercato di toccarla. Ero in uno stato di catalessi: non provavo paura, terrore, gioia, dolore…Mi sono accorta che c'era resistenza al tocco. Non so…una specie di muro invisibile. Però, la resistenza non era forte ed il mio braccio poteva alla fine penetrare in quell'immagine eterea. Dopo il tentativo di afferrare la sosia per un braccio, da vera incosciente, Jolanda si è fatta coraggio, cercando di abbracciarla. Invece, le è passata da parte a parte, attraversandola come si attraversa un'ombra eterea, o un vero fantasma."
"Suppongo che tutta Vienna ne parli."
"Ho chiesto a Iolanda ed a Franca di mantenere il segreto, di non dire niente in giro. Almeno, di azzittire per un po' di tempo."
"Molti non ci crederanno. Lei smentisca tutto. Lei dica che non è vero. Dica che le sue amiche hanno troppa fantasia. Dica che era tutto uno scherzo."
"Sì, ma sono accadute altre cose prima che questa mia sosia sparisse."
"Cosa è accaduto?"
"Ha cominciato a parlare. Si è piazzata al centro della sala ed ha detto delle frasi tremende. Ho ancora i brividi addosso. Ha detto: ascoltatemi. Vedo sollevarsi un gran fuoco, nelle cu fiamme sprofonderanno i continenti. La Storia umana sarà inghiottita nella grande brace. La fossa comune seppellirà in abbondanza donne, uomini, vecchi e bambini. Il Male, lo stesso Male che uccise me ed il mio bambino avvolgerà il pianeta, nebulosa nefasta. "
"Una profezia. Una terribile profezia. Non si preoccupi per questo. Ci sarà una soluzione. Un appiglio da cui partire per illuminare il Chaos che avvolge la sua mente. Baronessa, la sua mente è integra, ma assediata da oscure pulsioni."
"Dottore, temo che le cose andranno sempre peggio per me. Gl'incubi notturni…la voce aliena che mi costringe ad atti assurdi…questa mia sosia che appare anche in presenza delle amiche…"
"Torni nel mio studio domani. Domani nel primo pomeriggio. Vedremo se si può fare qualcosa con l'ipnosi. In ogni modo, consiglierei di mettere suo marito al corrente di tutto, o quasi. Quella cosa che ha fatto davanti allo stalliere, per adesso può anche tacerla a suo marito. Per il resto, dica tutto. Vedrà che suo marito capirà e cercherà di aiutarla."
La donna era andata via. Freud aveva udito le ruote ferrate della carrozza allontanarsi lungo la discesa di Berggasse con forte stridio di freni. Non era salito subito su dalla moglie ed i figli. La giornata era soleggiata. Aveva chiuso il taccuino degli appunti e si era messo a passeggiare da solo. Sapeva che molti disturbi di cui le giovani donne sposate soffrivano erano causati dai segreti d'alcova. Raramente gli riusciva di avere qualche indizio preliminare. In conseguenza della pudibonda educazione, queste donne avevano una forte ripugnanza a parlare di cose sessuali anche col loro medico. Però a volte, arrossendo e balbettando, nascondendosi il viso, finivano con l'ammettere la verità che era quasi sempre la stessa: un marito maldestro, frettoloso, noncurante, che non dava alla compagna il tempo di partecipare al godimento. Il marito le saltava addosso, si sfogava e si ritirava come un animale.

Il caso della baronessa era diverso. L'apparizione del sosia era stata notata anche dalle due amiche. Difficile pensare che si trattasse d'isteria collettiva. Freud, smise di pensare alla psicanalisi ed ai suoi pazienti e continuando a passeggiare, respirando profondamente osservò il mondo circostante. Si trovava lungo il canale del Danubio, camminando all'ombra dei salici piangenti e contemplando la prospettiva dei ponti che si susseguivano sullo sfondo verde cupo di Wienerwald. La riva opposta era tutta una fioritura di rose vermiglie, gerani, calendule, e lupinaie. L'acqua correva rapida tra gli argini in muratura. Giovani madri spingevano nelle carrozzelle i loro bambini, approfittando che non c'era vento. Sulle panchine e sui parapetti, c'erano persone sedute con la faccia esposta al sole calante, gli occhi socchiusi a godersi il dolce tepore. Si era alzato un po' di vento scompigliando i petali dei fiori. I colori si erano mescolati cadendo sulle aiuole. Osservò il grigio di un sasso ai bordi della via, il guscio di una lumaca attaccata sulla foglia di un eucalipto. Per un attimo la vita segreta della natura si era quasi svelata. Di nuovo, avvenne che nell'aria ci fosse un soffio di vento. I colori presero ad abbagliare nell'aria tersa e lucente: solo foglie verdi, iridescenti e fiori multiformi. Tornò verso casa e riprese a pensare: ogni elemento della psiche ha una sua traccia. Ogni atto, ogni parola, ogni visione ha un significato. C'è un contenuto latente nelle cose, in tutte le cose, animate ed inanimate. Ci doveva essere un terribile segreto sotto la felice e placida esistenza della baronessa.

La notte, Freud ebbe un incubo. Aveva addosso un camice bianco e si trovava in un manicomio. Adesso, gli stava di fronte la baronessa von Kerstel con una lunga gonna bianca, tutto d'un pezzo, una specie di tunica. Lui la stava visitando. Lei aveva aperto la bocca e lui ne osservava la dentizione e la lingua. Nella parte interna delle labbra e delle guance, c'erano placche bianchicce. Lui pensava che la baronessa fosse malata. Aveva chiamato il dottor Breuer che ripeteva l'esame e confermava le constatazioni di Freud. Il dottor Breuer aveva un aspetto molto diverso dal solito: pallido come un cadavere, zoppicava ed era ben rasato. Breuer disse che la donna era malata, ma anche morta. A quel punto, la donna che indossava adesso un camice bianco come quello di un medico, levitando a circa un metro da terra, malediceva tutti, diceva per tre volte: morte, morte, morte e spariva da una finestra, volando come un uccello con le braccia aperte. Davanti a loro appariva la vera baronessa von Kerstel che sorrideva verso di lui e verso il dottor Breuer. La vera baronessa von Kerstel indossava il vestito raso di velluto come lo portava la volta che lui l'aveva psicanalizzata. La donna se ne usciva da una porticina, salutandolo e sorridendogli. Si erano spalancate le ante del reparto dove stava Freud ed il dottor Breuer. Era entrata una folla di pazzi furiosi che li assalivano e li massacravano. A quel punto Freud si era svegliato. Ansimava nel letto ed aveva la fronte sudaticcia. Il cuore gli martellava dentro. Si guardò intorno. Il crepuscolo mattutino attraversava le vetrate e penetrava dalle imposte socchiuse delle finestre. Sua moglie Martha dormiva beata al suo fianco. Le due figlie stavano di là nelle rispettive camerette. Si portò le dita della mano sinistra alla fronte e nel silenzio profondo della casa, cominciò a riflettere. Disse tra sé e sé: quale collegamento esiste tra tutti gli elementi del mio sogno, apparentemente irrilevanti e scombinati? Quale può essere il comune denominatore? Qual'era il significato del sogno? Perché vedevo tutto come se fossi io al centro della scena? Il mio io era dunque lì? Il mio io era trasmigrato in una regione al di fuori del mio corpo? E se lo scopo dei sogni fosse quello di liberare dalle profondità dell'inconscio ciò che l'individuo realmente desidera? Non le maschere, non i travestimenti, non i sentimenti occulti, non le aspirazioni fallite, ma ciò che l'individuo nel punto più intimo e più vivo del suo cervello desidera ardentemente che accada, o che fosse accaduto. Che sorprendente meccanismo. Com'è possibile che tutti, me compreso, abbiano visto nei sogni soltanto la materia di cui è fatta la follia? Nel sogno volevo che avvenisse una scissione tra la vera baronessa von Kerstel e la sua immagine malata. Volevo salvare la baronessa, liberandola dal suo alter ego annidatosi nelle profondità della sua mente?

Il dottor Freud era stato il primo a far luce d negli abissi della mente umana. Al successo, contribuiva l'assoluto isolamento del gabinetto in cui riceveva i clienti, senza la presenza di cameriere, o di membri della famiglia. Predisponeva gli appuntamenti in modo tale che i pazienti non s'incontrassero mai tra loro. La quasi maniacale austerità dell'ambiente creava un'atmosfera di raccoglimento che aiutava il paziente a scavare in se stesso, cercando i ricordi sepolti nell'inconscio. Grave, serio, studioso, capace d'un profondo interesse, ma con un tocco d'impersonalità, calmo uomo di famiglia, dignitoso borghese, esemplarmente morale, tutto riserbo e discrezione, abituato a ricevere le più scottanti rivelazioni con impassibilità di scienziato, Sigmund Freud aveva davvero quel tipo di temperamento necessario per il suo delicato confessionale. Seduto di fronte al paziente, nel suo corretto abito nero, con camicia bianca, colletto duro, catena dell'orologio di traverso sul panciotto, barba e capelli brizzolati, ispirava piena fiducia nei suoi metodi e nei suoi moventi.

La baronessa arrivò nel primo pomeriggio. Era sola. Disse che aveva parlato col marito dei suoi disturbi. Non gli aveva rivelato tutto, naturalmente. Il barone Erwin von Kerstel aveva subito acconsentito che si curasse da un dottore famoso e serio come Sigmund Freud. Di solito, i pazienti erano fatti accomodare su un comodo divano. Invece, volle che la baronessa si stendesse su un apposito lettino con lo schienale leggermente sollevato. La donna aveva fatto come lui chiedeva: s'era distesa tutta rossa in viso. Dopo averla ipnotizzata, Freud chiese:
"Margherita, io non credo che i suoi disturbi dipendano dalla sua mente malata. Lei non è malata, ma nasconde di certo un segreto terribile. C'è stato nella sua vita un avvenimento di grave importanza per la sua salute fisica e mentale. Finché non me l'avrà raccontato, non potrò aiutarla."
La donna addormentata tacque per alcuni istanti. Poi, con un filo di voce mormorò una lunga frase in cui egli riuscì a distinguere poche parole: veleno…aborto…delitto…mia sorella germana…aiuto.
Freud pensò di svegliarla. La donna era troppo agitata. Si vedeva che il cuore soffriva. Dopo qualche minuto la baronessa pronunciò altre parole sconnesse: Ada…il bambino…non posso, non posso salvarti…aiuto. La donna dimenava la testa da un lato e dall'altro. Lui la svegliò. Aveva annotato quelle parole sconclusionate. Impossibile barare con l'inconscio, impossibile ingannarlo. L'associazione libera, libera non era in realtà. Frasi sconclusionate, non erano tali: ogni pensiero, ogni idea, immagine o reminiscenza era legata ad altre che la precedevano, o la seguivano. Quando vide che la donna si era calmata, le diede da bere un po' d'acqua. Lei si era sollevata col dorso sul lettino ed aveva bevuto avidamente. Le chiese: "Ne vuole ancora?"
"Grazie, no."
Senza esitare, come con una vecchia amica, Freud disse:
"Baronessa lei custodisce un terribile segreto. E' questa la fonte del suo male. Dica cosa le è accaduto. In trance, ripeteva spesso queste parole: veleno…aborto…delitto….mia sorella germana…"
"E' questo che dicevo?"
"Sì."
La donna si era messa a sedere sulla poltrona:
"Allora le racconto del mio passato che non è tutte rose e fiori. Però, mi raccomando. Quanto le dico è un segreto. Lei è un uomo di parola. Non dica a nessuno quanto le rivelo."
"Solo se si confida potrò aiutarla. Il suo inconscio lotta contro una specie di mostro. Questo mostro può distruggerla."

Dopo attimi d'esitazione, la baronessa raccontò trattenendo le lacrime:
"La tragedia, perché di tragedia si tratta, avvenne quando avevo diciotto anni. Avevo una gemella ed io e lei eravamo quasi identiche. Eravamo germane. Lei si chiamava Ada, ma per scherzo diceva di essere Ade, la dea della morte. Forse lo diceva perchè presaga del tragico destino. Ada rimase incinta in seguito all'amore segreto con un giovane stalliere. Aveva spesso pensato di fuggire con lui in America. I miei genitori seppero della gravidanza. Per caso, udii una volta mia madre dire a mio padre: Calmati. Fai finta di niente. Al momento del parto ci libereremo di entrambi. La nostra casa non sarà distrutta dallo scandalo.
Mia sorella morì di parto ed il bambino morì subito dopo. Nessuno sospettò di nulla ed il medico non fece la diagnosi di parto, ma di febbre tifoidea. La famiglia era salva e con essa il buon nome. Lo stalliere era sparito, senza lasciare tracce. Di certo avevano pagato con l'oro il suo silenzio e la fuga. Forse lo avevano ucciso. Io mi ritengo complice di mia madre e di mio padre dell'orribile, duplice assassinio. Avrei dovuto fare qualcosa per salvare mia sorella ed il bambino. Avvertirli, farli fuggire. Tacqui. Forse, m'illudevo che mia madre non arrivasse a tanto: uccidere una figlia ed un innocente neonato."
"Lei non ne ha colpa. Deve convincersi che lei amava sua sorella. Così era infatti. Nessuno sospetta che i propri genitori possano trasformarsi in feroci assassini."
"Però, perché la vedo? Perché mia sorella mi appare?"
"Sono un uomo di Scienza. Mi è difficile credere che l'anima di un defunto, se esiste, ci possa apparire. Il mio amico Jung è di diverso parere, lui pensa che la mente abbia poteri paranormali. Io penso che l'inconscio umano è come un labirinto interminabile ed inestricabile che forse solo la Scienza saprà esplorare. Baronessa, le consiglio di dire ogni cosa a suo marito. Il fatto che lei si è denudata davanti a quello stalliere è dovuto ad una immedesimazione con sua sorella defunta. In quel momento lei pensava d'essere come sua sorella germana. Deve allontanarsi dal ricordo di lei e dal rimorso di non averla potuta aiutare e salvare. Lei è innocente. Lei è vittima come sua sorella Ada."
"Devo proprio dirgli tutto?"
"Non può tenere all'oscuro suo marito da fatti così terribili."
"Anche ciò che lo spirito maligno mi ha costretta a fare con lo stalliere?"
"Beh, qualche segreto non guasta. Ma deve raccontare a suo marito di sua sorella germana. Deve dire tutto a lui. Questa confessione a me, ma anche a suo marito che l'ama è molto importante. Si liberi dei suoi terribili segreti."

Nei giorni seguenti, la baronessa cominciò ad essere più calma. Dormiva la notte e non ebbe altri incubi. L'immagine della germana defunta non era mai più apparsa, né in pubblico, né davanti a lei da sola. Dopo una diecina di giorni, il barone Erwin von Kerstel e sua moglie andarono a casa sua a ringraziarlo di persona. La donna era commossa: "Her doctor, mi sento molto bene. Non ho parole che possano esprimere tutta la mia gratitudine verso di lei. E' un vero miracolo."

Il barone era un uomo alto, con spalle robuste, la fronte ampia e una capigliatura rossiccia alquanto diradata. Non portava baffi, ma aveva lunghe basette e manteneva un corpo elastico anche se si avviava alla quarantina. Lo sguardo era di un uomo provato dalla vita, si poteva dire che avesse una continua sofferenza in qualche parte del massiccio corpo. La moglie, anche lei alta, gli arrivava alle tempie e si vedeva che era molto più giovane di lui. Indossava un abito di cotone stampato a piccoli motivi e la solita cloche che le incorniciava il volto e metteva in risalto lo sguardo, oltre alle lunghe e nere sopracciglia arcuate. Avevano portato un dono: una statua bronzea alta più di sessanta centimetri di Nettuno col tridente, la divinità degli abissi, allusione alle cavità impenetrabili dell'animo umano. Il barone aveva chiesto: "Her doctor, le piace? È un'opera del Rodin, Auguste Rodin, anno 1898. Spero non abbia nulla contro gli artisti Francesi."
"Barone von von Kerstel, ma è bellissima. L'arte è arte e basta. La ringrazio."
Oltre alla statuetta, il barone Erwin von Kerstel conservò per lui una grande amicizia e stima, dicendo di essere disposto ad aiutarlo in qualsiasi evenienza.

Gli eventi storici precipitarono all'improvviso e sull'Europa calarono tenebre e sangue. La tragedia più volte evitata, ebbe inizio con l'attentato dell'arciduca d'Austria - Ungheria, Francesco Ferdinando il 28 giugno del 1914. Giorni dopo, la bara dell'arciduca attraversò le vie deserte di Vienna nelle ore ancora buie del mattino. La moglie Martha aveva detto a Freud:
"Sigi, ho paura. Se scoppiasse una guerra, abbiamo tre figli maschi."
La Prima Guerra mondiale sconvolse tutti i popoli europei con infiniti lutti e morte. La Prima Guerra mondiale fu il preludio di una ancora più atroce.

L'11 marzo 1938 le truppe germaniche invasero l'Austria. Vienna brulicava di carri armati. La direzione della società psicanalitica fondata da Freud si sciolse. Qualche mese dopo, i nazisti avevano confiscato tutti i beni dei Freud e s'erano impadroniti dei loro depositi bancari. Freud e la sua famiglia erano prigionieri dei nazisti. Perché fossero liberati, gli Stati Uniti pagarono ai nazisti la cifra di 4.824 dollari. Il 4 giugno 1938 la famiglia Freud ebbe il visto d'espatrio e prese l'Orient Express. Attraverso l'Austria e la Germania, giunsero a Kehl, sulla riva destra del Reno. Col treno, tutti giunsero a Parigi, finalmente al sicuro. La sera stessa i Freud s'imbarcarono per la traversata della Manica e la mattina successiva sbarcarono a Dover. Con loro c'erano altri esuli. Sigmund lasciò che gli altri della comitiva andassero avanti. Guardava le bianche scogliere. Pensò:
"Qui morirò in libertà."

I suoi ricordi, i ricordi di una vita riattraversavano irruenti la Francia, la Germania, l'Austria ed infine approdavano a casa sua, a Vienna. La mente fece un lungo balzo indietro nel tempo. Ricordò di quanto la baronessa von Kerstel aveva raccontato. La sosia della baronessa aveva detto: La Storia umana sarà inghiottita nella grande brace. La fossa comune seppellirà in abbondanza donne, uomini, vecchi e bambini.

Si chiese con angoscia: quale sarebbe stato l'ultimo atto della tragedia che sconvolgeva le nazioni? Quando sarebbe stata eliminata la permanente causa di conflagrazione mondiale? Per quali vie la voce della civiltà avrebbe imposto una condizione di cose in base alla quale alcuna razza umana, alcun sistema economico o politico avrebbe potuto definirsi vittorioso, o vinto? I popoli europei avrebbero trovato le condizioni solide di sviluppo reciproco? Di là dalla Manica, l'Europa avrebbe trovato una nuova e più valida garanzia di pace e di progresso civile?

Gli parve che una giovane dai lunghi capelli neri, sorgesse nuda come una sirena dalle livide acque davanti a lui. Come una sirena emettesse un sinistro canto. Disse in una flebile cantilena: Nuvola di tenebra, nuvola senza nome, con fuoco di tempesta, rovinerà sul mondo. L'apparizione aveva l'aspetto della baronessa Margherita von Kerstel. Non era lei, era la sua sosia, di certo era la sua sosia che parlava da un mondo altrettanto assurdo. Vide la donna - sirena nuotare a lunghe bracciate ed allontanarsi nel mare piatto, senza girarsi indietro. Freud aveva ascoltato il suo canto di morte.

Freud capì che il Mistero si annida ovunque nel lucente mondo, come il Male e la Morte. Ombre nere originatesi dalla mente umana s'andavano espandendo sulla Terra come livida marea. Aveva cercato di illuminare le ombre nere, ma c'era un nucleo buio ed inestricabile all'interno dell'identità umana.

Fiction
Si faccia finta di giocare una partita di serie A, di B, o di C. Non importa il numero dei gol. Secondo le nuove norme approvate dalla UEFA e sottoscritte dal CONI, non vale se una squadra vinca una partita di pallone, la pareggi, o la perda. Il risultato è lo stesso. Alla fine, deciderà il comitato di saggi. Così al termine del campionato. I saggi decideranno a chi spetti lo scudetto, a ci la retrocessione in B, od in C. Viceversa, gli stessi saggi decideranno per le promozioni in A, in B, o in C. C'era che aveva obiettato - ed a ragione - che si dava troppa importanza ai goal, invece c'erano energie occulte e professionalità inespresse che andavano valutare al di là dell'arido punteggio. Per esempio gli scatti indietro delle ali tornanti a bloccare le sortite degli avversari, oppure i passaggi smarcanti dal centrocampo, i passaggi brevi, le testate con l'effetto che per puro caso non davano il goal. Guizzi di genialità che meritavano il giusto prezzo. Le interviste sui giornali sportivi, su quelli dei gossip, o sui quotidiani locali esprimevano unanimità di opinione: liberalizziamo il calcio. Non più la vittoria di una squadra in base al numero dei goal, ma diamo spazio al merito individuale, esibito nel gioco di squadra. Viva la solidarietà sportiva. Aboliamo le classifiche fuorvianti dei cannonieri. Viva il merito aldilà dei goal. Via la spettacolarità, le fratture alle caviglie, i traumi ai menischi e l'agonismo spinto. In base alla nuove regole, cominciarono ad entrare in campo come titolari, vecchi sessantenni, alcuni settantenni e qualche ottantenne di forte fibra. Quasi tutti avevano parenti nel comitato dei saggi, nel CONI e tra i politici influenti. Si fingeva di giocare. In campo, si chiacchierava del più e del meno. Sugli spalti, non c'era nessuno. L'assenza degli sportivi negli stadi era stato previsto. Ad ogni partita, lo Stato distanziava tot milioni di euro da spartirsi tra le due squadre, più le spese per l'affitto dello stadio comunale e per il trasporto dei giocatori. Provvedeva lo Stato con laute ricompense per l'arbitraggio ed i segnalinee, così come per le organizzazioni televisive che fingevano di trasmettere partite. Allo scadere del novantesimo minuto, il club sei saggi riunitosi ad hoc, assegnava via computer la vittoria, il pareggio o la sconfitta ad una delle squadre. Il parere dei saggi era inappellabile. La tivù diffondeva i dati e la classifica aggiornata al novantesimo minuto. I giocatori in campo trascorrevano i novanta minuti parlottando del più e del meno e lasciando fuori campo il pallone. L'arbitro fingeva di non guardare anche per mancanza di falli ed i segnalinee giocavano a scopone. Per volere perentorio delle terna arbitrale, i giocatori dovevano indossare con meticolosità le magliette, i calzoncini, i calzini e le scarpette della propria squadra. Un ordine nel vestire come i militari in divisa. Se qualcuno dei giocatori non resisteva e voleva sferrare almeno un calcio al pallone, un tiro non pericoloso verso porta, l'arbitro lo richiamava ed al terzo fischio lo espelleva. Tutto dipendeva dalla valutazione finale da parte della squadra dei saggi che dava le sentenze come la Sibilla dell'antichità. I sindacati sportivi proposero di allargare ed allungare la superficie di gioco, aggiungendo nuova erbetta, ridisegnando le linee del campo ed incrementando la distanza tra le porte. Anziché undici giocatori, potevano scenderne in campo tredici ed anche quattordici, tutti con la retribuzione da titolare. Potenziando il numero degli effettivi in campo, di conseguenza bisognava provvedere ad aumentare quello dei riservisti, dei medici sportivi e degli eventuali raccattapalle. Si dovevano arruolare schiere d'architetti per ampliare gli stadi, visto che il numero dei giocatori era maggiorato fino a quattordici e con essi che l'area del campo. Il provvedimento fu esteso all'istruzione pubblica (scolastica ed universitaria), alle assunzioni dei medici negli ospedali, dei giudici nei tribunali e di tutti gli altri settori del pubblico impiego e nel privato. In politica, proliferarono i posti di assessore regionale, provinciale, comunale. Il parlamento ed il senato furono raddoppiati di numero. Qualcuno disse che sarebbe stato logico raddoppiare anche i presidenti della Camera, del Senato e della Repubblica. La democrazia sarebbe andata meglio con più teste pensanti, nei posti apicali. L'esempio di liberalizzazione fu eseguito anche nell'aldilà. Via l'inferno e tanto meno il purgatorio. Si va tutti in paradiso. Si faccia finta di essere buoni. La cattiveria non esiste nel profondo. Tutti saranno felici, purché non diano fastidio alla casta dei beati: gli arcangeli, i troni, i cherubini ed i santi di nuova nomina.

Lido Rex
Il lido Rex è sul litorale di Portici, una delle poche zone ritenute balneabili negli anni Cinquanta e Sessanta. Avevo sui dodici anni, mio fratello nove e mia sorella sette. Ci accompagnava mia madre e una sua amica del palazzo. Tutti al lido Rex, d'estate a luglio. Ricordo che sul mare galleggiavano chiazze di nafta oleosa. Al largo, c'erano le petroliere che nel ripulire le stive scaricavano in mare benzene, nafta ed altre sostanze. Sul bagnasciuga, si vedevano ampie macchie catramose. Ricordo una grossa petroliera sostare al largo. Sguazzavamo in acqua facendo attenzione alle macchie oleose e fetide. Per raggiungere il lido Rex, dovevamo aspettare il pullman col numero 159 che dalla periferia di Napoli est passava per Portici e faceva capolinea nella piazza di Ercolano. A volte il 159 era pieno di bagnanti e bisognava sostare in piedi sullo staffone, l'estremo posteriore del mezzo pubblico. Mia madre teneva in braccio mia sorella. Mi sorreggevo con una mano all'apposito sostegno che era una sbarra di latta in orizzontale tra biglietteria ed entrata. Una sbarra in verticale, tra i finestrini posteriori e lo staffane forniva un altro sostegno per quelli in piedi. Nell'altra mano avevo l'ombrellone chiuso col laccio. Mio fratello teneva in mano la borsa con varie cose tra cui cibo e la bottiglia piena di acqua. C'era chi fumava e gente che puzzava di sudore e di scarpame, nonostante i finestrini aperti. Il 159 attraversava San Giorgio a Cremano e sostava a poche centinaia di metri dal lido Rex. Per raggiungere la spiaggia, si doveva attraversare una breve via lastricata di basalto. In fondo si vedeva la striscia azzurra del mare estivo. C'era un ponte di ferro sotto il quale si allungava la ferrovia Napoli - Salerno. Oltrepassato il pontile, scendevamo per una stretta scalinata a chiocciola, anch'essa metallica. Alla fine, toccavamo col piede la scura e calda rena del lido Rex. Dicevano che la sabbia aveva quel colore perché di origine vulcanica. Nel passaggio lungo il ponte, osservavo la linea ferrata scavata tra i palazzi, i cartelli col teschio e la scritta pericolo di morte. Lido Rex era un tratto di spiaggia delimitato dalla linea ferrata e verso il mare da una breve scogliera. Tra scogliera e spiaggia c'era una lingua di mare larga una trentina di metri. Un ininterrotto muro di cemento sosteneva la linea ferrata. Sul muro dalla parte del mare c'era una balaustra di recinzione e sotto la scogliera del litorale, degradante verso il mare. Il paesaggio era fatto così: il Golfo di Napoli con qualche petroliera in sosta. Seguiva la breve scogliera di fronte al lido, il braccio di mare dove ci si faceva il bagno, la spiaggia con la rena scura, la scogliera lungo la costa, il muraglione di cemento armato, la balaustra di recinzione, la linea ferrata, l'altro muro tra binari e la marea dei palazzi di Portici. Oltre, svettava il cono carnicino del Vesuvio e dall'altro lato, tra i vapori della calura c'era la punta di Sorrento, l'isola di Capri e di qua il porto di Napoli, Ischia e Pozzuoli. Sul Golfo gravitava la galassia di case, palazzi, fabbriche e raffinerie. In spiaggia, scavavamo con le mani la buca per piantarci la mazza dell'ombrellone che serviva da supporto alla metà superiore, aperta a parasole col telone a strisce verdi e bianche. Noi ragazzi giocavamo con la paletta ed il secchiello, scavando buche, facendo torri e castelli di sabbia. A fine settimana, ci accompagnava mio padre che prestava servizio come tecnico presso il Policlinico di Napoli. Mio padre era esperto nuotatore. Si arrampicava per la scogliera, sotto il muraglione di cemento e col coltello da cucina staccava dalla roccia le ostriche, riempiendo dei sacchetti. A casa, i miei genitori ripulivano le ostriche, le rosolavano e le mischiavano negli spaghetti al ragù. Sotto il solleone, osservavo il dorso di mio padre con le cicatrici a ragno causate da una scheggia durante un bombardamento nemico. Nell'ultima guerra, faceva l'aviere all'aeroporto di Cagliari-Helmas. Le cicatrici riportavano ad una tragedia incomprensibile per noi ragazzi che cercavamo in spiaggia la spensieratezza. Nella tarda mattinata transitava l'accelerato Napoli - Salerno, torreggiante e sbuffando come se arrancasse. Era visibile attraverso la balaustra di recinzione. La gigantesca locomotiva elettrica giallo oro ed i vagoni grigio ferro. Per arrivare a Salerno faceva tredici fermate: Napoli Centrale, San Giovanni a Teduccio, Portici-Bellavista, Torre del Greco, Torre Annunziata, Pompei, Scafati, Castellammare, Nocera Inferiore e Superiore. Dopo Nocera il convoglio attraversava la lunga galleria sotto le montagne della penisola sorrentina sbucando a Cava de' Tirreni (undicesima stazione). Seguiva Vietri sul Mare ed infine Salerno. Nel primo pomeriggio, transitava sferragliando il direttissimo che portava i lavoratori della Fiat in ferie verso le province dell'estremo Sud. Alcuni (forse ragazzi e bambini come me) ci salutavano dai finestrini del treno agitando fazzoletti.

Verso San Giovanni, in prossimità di una fogna a cielo aperto c'era Lido Mappatella, detto in senso ironico Mappatella Beach. Al lido Rex affluivano per lo più famiglie della piccola borghesia impiegatizia ed al Mappatella Beach il sottoproletariato che non si poteva permettere il prezzo di un biglietto sull'autobus 159, fino a Portici. Al Mappatella Beach, arrivavano ragazzi con scarpe scalcagnate, o addirittura scalzi, figli di sfollati dell'ultima guerra, disoccupati dei bassi della Duchessa, o del Pendino e del Lavinajo. Al Mappatella Beach, ci si lavava gratis e si esponeva lo scheletro ai benefici raggi solari. Alcuni organizzavano le due squadre per giocare a pallone in spiaggia. A mezzogiorno, divoravano il tozzo di pane e friarielli e nel pomeriggio tornavano nei vicoli. Tra Portici ed Ercolano, a più di un chilometro di distanza c'erano altri due lidi: lido Dorato ed Aurora. Nomi paradisiaci a parte, erano una copia del lido Rex. Assicuravano che lì le spiagge erano ampie e meno inquinato il mare. Col boom economico e gli aumenti salariali, mio padre poté prendere in affitto un paio di stanze arredate ad Agropoli (SA) e non andammo più al lido Rex.
Al presente, i politici locali intendono bonificare il litorale tra Portici e Napoli, sistemando il collettore fognario. Dicono che sarà possibile la passeggiata a mare ad esclusivo uso pedonale, offrendo ai giovani opportunità per nuove aggregazioni sociali. Hanno promesso la sistemazione del Porto Borbonico del Granatello, cambiando il volto al litorale. Con enfasi, affermano: "Abbiamo più spiagge ora che nell'immediato dopo guerra. Sono spiagge di sabbia nera, vulcaniche, come il lido Dorato, Aurora ed il Rex."

Si sta lavorando ad un piano degli arenili, in previsione dell'entrata in funzione del collettore che porterà le acque reflue e gli scarichi civili nel depuratore di Napoli Est. Si sta eseguendo la completa bonifica del fiume Sarno, il più inquinato d'Italia. Entro due anni, il mare di Portici sarebbe di nuovo balneabile. Così dicono, camorra a parte.

Mike Buongiorno docet.
In una reclame di questi giorni, c'è Fiorello con l'imberbe figlio del defunto Mike Buongiorno che discorrono del più e del meno. Alla fine dello sketch si vede Mike seduto su una sedia di regista cinematografico che dice delle frasi accomodanti e rassicuranti, facendo intendere di essere ancora vivo. Lo spettatore accorto potrebbe fare tre tipi di riflessioni: una positiva, una negativa ed una fuzzy. La prima dice che Fiorello mosso da pietà per l'amico estinto, voglia lanciare nelle scene televisive il primogenito del presentatore. Il quindicenne somiglia vagamente al padre con gli occhi chiari e la zazzera grondante sulla fronte di un biondo oro. Buon sangue non mente, anche se il ragazzo che è bello ed anche molto ricco mostra che se ne fotte della tivù e non s'impegnerebbe mai a fondo nell'arte della recita. La seconda considerazione, quella negativa è che i nostri figli anche se belli, ma nati da comuni genitori resteranno sempre in ombra. Inutile è sbraitare, o cercare di ribellarsi contro la cattiva sorte. La partita è chiusa in precedenza: si va avanti col giusto DNA. Tutto è predisposto prima si nasca: la vita brillante, o la giornaliera sopravvivenza.
La terza considerazione riguarda Mike e il figlio, ma in senso lato. È una riflessione di carattere generale riferita a certi ambienti ultraricchi, ultramondani ed ultrasnob dove si vuole per forza ignorare che esistano eventi negativi. Tutto avviene in un ambiente ovattato, pieno di goduria, di sesso, soldi e sogni. Un mondo che nuota nel gossip giornaliero. Un mondo con gente straricca che s'illude d'essere sempre giovane con la plastica facciale.
Mostrando Mike Buongiorno sullo schermo come ancora vivo a pochi giorni dalla morte corporale, si vuole intendere che la sua presenza è qui tra noi. Il Mike sorridente e bonaccione appare sullo schermo come nella diretta televisiva. Il ragazzo e Fiorello lo ascoltano e gli rispondono. L'uno come figlio e l'altro come amico. In certi ambienti la Morte ha vergogna d'arrivare. Secondo la nota equazione di Scrödinger, modificata da un matematico italiano, se A è il padre di C e B è raccomandato da A, allora B proteggerà C dopo l'azzeramento corporale di A. Questa equazione è detta anche teorema del giusto DNA. Su di essa si regge l'intera società, in particolare quella italiana. Badare bene: non sono i valori ad essere tramandati di padre in figlio, ma la raccomandazione usata da testamento.


Università e ricerca

Dimmi di chi sei figlio e ti dirò chi sarai tra trent’anni.
Anonimo fiorentino del XIII sec.

C’è gente che supera esami e concorsi universitari pro-forma. I designati dalla sorte vincono il posto di ricercatore ed arrivano all’ordinariato, superando prove ad hoc. Se si vede bene, questo tipo di professore universitario ordinario ha buoni titoli scientifici. Lo hanno aiutato gli altri (the others). Gli è bastato essere presente in un laboratorio scientifico. Solo la presenza vale, come quando superò gli esami universitari presentandosi davanti alla commissione per ultimo, essendo andati via tutti gli studenti. In rapida successione come da scienziati veri, ha vinto la serie di concorsi che lo ha portato in cattedra, da ordinario.

Il 16 di luglio (2009) sono stato presso la segreteria del rettore Univ. Fed. II. Erano circa le undici del mattino ed ero sudato dalla testa ai piedi. Come un pulcino infradiciato dalla pioggia diceva mia madre quando vedeva me e mio fratello bambini, sudati perché giocavamo a pallone. Mi sono fermato a prendere una bibita fredda nel bar dell’università, visto la calura.
Il segretario del rettore come ha sentito il mio nome dal bidello che mi annunciava nella stanza attigua avrà fatto il segnale riservato a quelli da non ricevere. Dopo un po’ si era affacciata alla porta una signora trenta - quarantenne che ha detto di riferire a lei, essendo il segretario impegnato. Oltre a lei, ci sono un impiegato seduto dietro un tavolo ed un orango della security che mi sta di lato e che ha un perenne sogghigno.
Dico: “Sono un professore universitario che insegna da ventidue anni a Palermo. Non riesco a trasferirmi in sede idonea, neanche con la Legge 104. Ho molti titoli accademici e pubblicazioni scientifiche, ma non contano.”
Ha risposto: “Deve andare presso l’ufficio personale docente.”
Dico: “Non mi risulta esista un ufficio che riceva le domande di trasferimento dei professori.”
Si è meravigliata ed ha detto che c’è, anche se è come non ci fosse. Mi ha squadrato dalla testa ai piedi. Dico: “Lei mi osserva dai piedi alla testa come un UFO.”
Ha detto di no, sollevando in aria il mento con un pizzico di strafottenza. Prima di andare via dico mostrando la mia camicia inzuppata di sudore: “Ecco com’è un professore universitario.”

Vado all’ufficio personale docente, un edificio mastodontico di fronte alla strada che costeggia la zona portuale. Penso: ecco come mi trattano. A 59 anni, non sono degno neanche di parlare col rettore della Federico II. Avere un appuntamento con lui, magari tra due mesi. Not possible. Ci sono due laghi. In uno nuotano i pesciolini come me e nell’altro i pescecani. I due laghi non comunicano. Nella realtà, i pescecani mangiano i pesciolini, superano ogni tipo di barriera con la loro voracità. Per il Corso Umberto I, pochi studenti, gruppuscoli di turisti svogliati ed i negozi coi saldi estivi. Mi dicono alla reception dell’edificio Personale-Docente-Università: “Vada al 4° piano.”
In ascensore un tizio preme per il primo. C’è anche un uomo ed una donna, in coppia. Quello che ha premuto per il primo piano è più corto di me ed azzardo la battuta:
“Lei si accontenta di poco, solo del primo.”
Risposta pronta, senza girarsi: “Sì, ma si arriva prima degli altri.”

L’ascensore si apre al 4° e m’immette direttamente nel Dipartimento – Personale – Docente. Mi ricordo della stanza del vice-capo ufficio. C’è aria condizionata e tutte le porte aperte. Numerosi gl’impiegati per un mese come luglio: effetto Brunetta.
Chiedo di entrare dal vice – capo – ufficio che lo indicherò con la sigla CUV (capo-ufficio-vice), per brevità. Con lui c’era un’altra persona, andata via subito. Con gentilezza, CUV mi fa accomodare di fronte a lui dall’altro capo della scrivania, piena di scartoffie. La persiana abbassata ombreggia l’ambiente come nel sottobosco. Dico chi sono e lui si ricorda:
“Lei ha una lunga ed inutile pratica qui.”
Si alza e va a prendere il malloppo. Sono tutte le lettere e le domande di trasferimento che ho presentato all’ufficio personale dicente. Tutte sistematicamente respinte in un arco di tempo di ventidue anni. E’ da ventidue anni che insegno a Palermo chiedendo ogni anno il trasferimento in sede idonea, nella mia regione, o in regioni attigue (Basilicata, Lazio…). Dice a monito:
“Professore, ma lei lo sa che i trasferimenti dei prof. universitari sono registrati sulla Gazzetta Ufficiale? Sono atti importanti. Non è facile essere trasferiti. Ci vuole la richiesta esplicita di una facoltà. Dev’essere il Consiglio di Facoltà a chiedere che un posto del suo raggruppamento sia messo a trasferimento.”
CUV voleva farmi intendere che ci vogliono forti pressioni politiche, o di parentela perchè si ottenga quel tipo di favori? Dico: “Ma ho eccellenti titoli scientifici e didattici…”
CUV mi guarda come se fossi duro di comprendonio. Come se dicesse: il merito è meglio che uno se lo ficchi in quel posto.
CUV dice: “Lei le ha tentato tutto. Si è rivolto anche alla studio di un avvocato milanese. Questo avvocato ha scritto una serie di lettere: al rettore della Federico II, ai vari presidi delle facoltà di Napoli, al Presidente della regione, ai rettori delle università di Salerno, Benevento, Avellino, Caserta. Questo suo avvocato ha scritto al rettore dell’università di Potenza dove lei ebbe un incarico d’insegnamento. L’avvocato milanese ha scritto anche a Viterbo dove lei, professore, ebbe un incarico d’insegnamento triennale. Tutti le hanno risposto con un diniego.”
“Ho fatto anche appello alla Legge 104, essendo all’epoca mio padre malato di Alzheimer.”
“La Legge 104 dà un vantaggio tra due concorrenti, a pari merito. Però nessun Preside di facoltà chiese un posto per lei e quindi non c’è stato mai un concorso per trasferimento cui lei avesse potuto partecipare, insieme con altri candidati.”
Provo ad obiettare: “Nel 1998, fu bandito un concorso nazionale per professore associato nel mio raggruppamento che è VET 01. C’era un posto libero presso la Facoltà di Veterinaria qui a Napoli. Feci domanda di partecipazione, presentando tutti i titoli scientifici e didattici. Mi feci aiutare da una segretaria comunale nell’allestimento della domanda e dei titoli come il bando richiedeva. Non fui ammesso e non ho saputo mai perché, sebbene avessi fatto esplicite richieste in questo senso.”
CUV si alza e dice: “Vediamo se le cose stanno così”.
Lo seguo nell’altra stanza. Estrae un tiretto da uno scaffale. Il tiretto contiene delle schede impilate in un asse di ferro. Ogni scheda è scritta a mano con inchiostro rosso. Dice:
“ Il professore che vinse il concorso alla Facoltà di Veterinaria si chiama P.D., vero?”
“Sì, proprio lui.”
“E’ il figlio dell’ex preside di quella facoltà. Vero?”
“Sì.”
Il padre di P.D. era un grosso barone. Aveva una dozzina d’incarichi tra cui alcuni presso la II Facoltà di Medicina (Napoli); negli ultimi anni, era stato direttore del dipartimento di Citologia, Facoltà di Medicina (Napoli). P.D. padre aveva all’attivo oltre cinquecento ricerche scientifiche (dono dell’ubiquità) ed aveva piazzato uomini di sua fiducia in molte facoltà come ordinari. Dico a CUV: “Scusi, ma perché fui escluso da quel concorso?”
“Perché lei non si poteva presentare ad un concorso di professore associato nel raggruppamento VET – 01. Lei risultava già vincitore di un omologo concorso.”
Dico: “Io ho superato un concorso nazionale a Roma per prof. associati e l’ho vinto. Ciò invece di avvantaggiarmi nella carriera, mi limita. Infatti il dott. P.D. come ricercatore ha potuto presentarsi a questo concorso – adesso sono concorsi locali - e vincerlo senza altri concorrenti.”
Esatto: “Lei come prof. associato non può ripresentarsi in un medesimo concorso per prof. di II fascia (associati). Concorso, ricordi, bandito nel suo stesso raggruppamento VET 01.”
Continuo a non capire. Due sono le cose. O mi prende per fesso la Legge dello Stato, o mi prende in giro CUV che dice:
“Professore, è inutile che lei presenti altre domande. Le facoltà non richiedono posti per trasferimento. Capisce?”
Obietto: “Ma il Ministero dell’Università dà un contributo d’incentivazione per i professori che chiedono l’avvicinamento in una zona più idonea. Si chiama incentivazione alla mobilità dei docenti universitari.”
“E’ stato calcolato che questo contributo non è ottimale e che in un anno, la facoltà ci perde circa mille euro.”
“Sì, ma se il docente trasferito è di valore, la Facoltà ci guadagna e di molto.”
CUV se la ride e dice: “Non interessano queste cose.”
Lo saluto con una stretta di mano. Dice:
“Professore, ma perché non chiede un anno di congedo sabbatico? Prende lo stipendio mensile compresa la tredicesima e non ci va per un anno a Palermo.”
Dico: “Non è nel mio stile.”
Mi avvio all’ascensore. Con la coda dell’occhio vedo CUV che fa segno ad uno della security di seguirmi fino all’uscita dello stabile. Penso che sono un ingenuo. A cinquantanove anni ancora non l’ho capita. Nel 1993 avevo denunciato una – unica denuncia nella mia vita – che con laurea in Lettere e filosofia aveva vinto la Cattedra in Veterinaria. Il giudice archiviò la denuncia. Andai dal giudice a chiedere perché lo avesse fatto. Disse: “Perché ho altro da pensare.”
Dopo quella denuncia, fui escluso da tutti i tipi di commissione, comprese quelle di laurea. I miei incarichi d’insegnamento a Potenza ed a Viterbo risalgono a prima di quella data.
In Italia, si fa carriera col DNA di CASTA, non con quello grezzo ereditato dalle scimmie. Chiedo: se ci fossero controlli sugl’intrallazzi di alcuni ci sarebbero tanti dipartimenti universitari con professori dallo stesso cognome e DNA? Chi dovrebbe effettuare i controlli seri: i presidi, i rettori, i giudici? Totò diceva: ma mi faccia il piacere….

POST SCRIPTUM. In ambiente universitario, invece di dire: il direttore del dipartimento di Biologia e sperimentazione molecolare si dice: il direttore della Biologia. Come se la biologia fosse una nazione, un mondo a sé. Alcuni dipendenti intendono l’intera facoltà come un mondo a sé. Idem, per i dipartimenti: il direttore dell’Anatomia umana per indicare il direttore del Dipartimento di Anatomia e fisiologia della facoltà di Medicina. Per quelli con alto grado di frustrazione, il mondo è la Facoltà. Un’altra espressione ricorrente nei dipartimenti universitari è: quelli della Neurologia….quelli dell’Anatomia…per indicare il personale di un dato dipartimento: il personale del dipartimento di Anatomia = quelli dell’Anatomia…il personale del dipartimento di Neurologia = quelli della Neurologia. I dipendenti come un’associazione coesa di soggetti, raggruppati intorno ad un capo che sarebbe il direttore. Quelli dell’Anatomia Patologica ce l’hanno a morte con quelli dell’Istologia. Quelli della Clinica Chirurgica si sono alleati con quelli della Patologia Medica per attaccare quelli della Clinica Medica.

A volte ci sono vere guerre. Alla base delle guerre interdipartimentali, c’è la spartizione di fondi di ricerca, di posti di ricercatori, o di cattedre. Ci sono alleanze che nascono in un giorno e si dissolvono con altrettanta facilità. All’interno di ogni dipartimento, l’ambiente è all’apparenza liberale, in realtà retto da ferrea disciplina. Se t’inimichi il direttore, o il vice, o un ordinario di rilievo – nel senso di una persona inserita in un contesto di conoscenze politiche o di parentela – allora il malcapitato è espulso, oppure se di ruolo, messo in condizione di trasferirsi altrove, oppure gli si rende la vita (lavorativa) impossibile con le armi del mobbing.

Virus mutandis
Il gruppetto di virus al centro di Piazza Epatica, di fronte al BAR - HIV, se la rideva con aria di superiorità. Uno di loro sfogliando il giornale della domenica leggeva la notizia in prima pagina e commentava:
"Questi nostri colleghi N5H1 sono scemi: attaccare gli umani senza prima aver espletato il corso specialistico in virologia umana."
"Andranno incontro a sicura sconfitta. Saranno decimati e relegati in qualche acquitrino ad infettare oche malnutrite."
Risata generale.
"Sono vittime della loro superbia. Hanno sottovalutato gli umani. Pensavano di trovarli sguarniti come nel "18 quando ci fu "la spagnola" che spopolò mezzo mondo. Quello sì che fu un successo. Adesso le cose sono cambiate. Sono più ostiche per noi virus. Vincere una battaglia con gli umani mandandone all'altro mondo una ben nutrita quantità, è sempre più laborioso."
" Ma è fattibile."
"Sì ma non è come una volta. I batteri sono stati vinti dagli antibiotici e molti virus attaccati coi vaccini sempre più sofisticati e specifici. E' di vitale importanza fare come facciamo noi: trasformarsi con celerità e attaccare direttamente il loro sistema immunitario. Noi solo li fottiamo."
"Almeno per adesso."
"Nel terzo mondo anche i batteri, i protozoi, le sighelle, i vibrioni, le muffe per non parlare di noi virus, fanno scempio di umani ammazzando senza sosta uomini, donne, vecchi e bambini. Lì il quadro bellico è ancora a nostro favore, è vincente senza grossi pericoli."
"Il problema è il primo mondo, dove ci sono le persone più pingui ed in perfetta salute. Sguazzare nel primo mondo per noi virus è come raggiungere il paradiso."
"Però è difficile attaccarli."
" Quelli del primo mondo hanno il sangue ricco di aminoacidi, un giusto pH del sangue, glucosio entro parametri prestabiliti, giusta quantità di grassi o leggermente al di sopra della norma (il che non guasta), sali a quantità e batteri relegati nel tubo digerente. Quelli del terzo mondo invece fanno schifo: denutriti, sporchi e puzzolenti, con sterminate popolazioni batteriche addosso, pronte a competere con noi. Il loro sangue è povero di tutto spesso invaso da protoplasmi ed amebe. Che schifo!"
"Per entrare nel primo mondo bisogna fare come noi. Attaccare quelli del primo mondo partendo dagli strati più deboli ed esposti: i drogati e le puttane. Ma non basta. Noi abbiamo un ottimo generale che ha usato la strategia vincente, forse l'unica. Il nostro generale è come Napoleone per gli umani. Un vero genio. Ha capito che per entrare in un corpo umano per proliferare a sbafo ed infettarne altri, occorre iniziare l'attracco a partire dalla sfera genitale oppure dal sangue dei drogati.
L'Occidente evoluto di due cose non può fare a meno: il sesso e la droga. Ed è lì che li fottiamo attaccando direttamente le loro difese. Distruggiamo per prima i loro linfociti. Privi di anticorpi, la proliferazione nel loro sangue è cosa facile."
"E' così. Li fottiamo mentre fottono."
Nuova risata generale.
"Veramente l'Occidente non può fare a meno in primis dei soldi."
"Il nostro generale sa bene che non si possono infettare i soldi per entrare in un organismo umano. Nessuno si mette in bocca i soldi o li usa come aghi per inocularsi la droga."
"Il bello è che sono stati gli stessi umani ad averci facilitato la diffusione coi loro esperimenti transgenici. Ci hanno costretto ad evolvere all'interno di organismi geneticamente modificati. Trasformato il nostro genoma, è stato solo una questione di tempo per elaborare la strategia vincente."
"Senza il nostro generale, vero stratega, avremmo fatto la fine dei virus aviari."
"E' vero. Il nostro generale è il vero salvatore del popolo. Ha avuto l'intuito vincente: usare come cavallo di Troia il sesso e la droga per poi attaccare direttamente il sistema immunitario, una volta penetrati nell'organismo umano."
"Altre popolazioni virali hanno chiesto la nostra alleanza per attaccare in massa gli umani: quelli dell'epatite C e i papillomavirus genitali umani. "
" Sentite, sentite! Gli esperti riuniti nel 1 st European Consensus Conference on the treatment of Chronic Hepatitis B and C in HIV Co-infected Patients, hanno emanato raccomandazioni per i pazienti con infezione da HIV co-infettati con virus dell'epatite C."
"Queste raccomandazioni ci fanno un baffo. Potranno ridurre solo temporaneamente l'incidenza della nostra espansione. Gli umani non hanno una strategia vincente. Per adesso siamo noi i vincitori."
"Evviva il Virus mutante 184, l'unico grande vero generale nella storia universale di noi virus."

HIV, HIV, HURRAH!

"Eterna vita al nostro grande stratega, il Virus mutante 184."

HIV, HIV, HURRAH!

"Morte agli umani, morte agli umani del primo mondo."

HIV, HIV, HURRAH!
F I N E

The body's election
Elezione corporale


Si sentì strano. Alla finestra osservò il paesaggio. Tra quasi un mese sarebbe stato Natale. L'età verso la sessantina e una mattiniera abulia lo rattristavano senza preciso perchè. Disse: "Cominciamo bene la giornata."
Nell'antistante parco della periferia est di Napoli, ventate polverose con carte svolazzanti e cielo denso di vaporosa nuvolaglia. Si sarebbe fatto la barba come al solito, la doccia che rinsalda i nervi; avrebbe preparato il caffé con aggiunta di latte scremato e sarebbe uscito nella suburra per comprare frutta, il giornale e altro al discount di quartiere. Il corpo rovinava verso la vecchiaia. Però qualcosa si poteva fare per arginare sfacelo e decadenza fisica concretizzati nelle avvisaglie dell'artrosi, obesità e stanchezza generale. La psiche troppo spesso andava in depressione e che dire della ipertensione, diagnosticata appena sette giorni prima dal medico curante? E gli acciacchi subdoli, quelli senz'avvisaglia immediata? Per esempio, adesso aveva l'istmo delle fauci asciutto e la lingua amara. Si doveva reagire per arrivare agli ottanta e oltre. Ottantenni pimpanti avevano l'amante giovane grazie al viagra. Con la fiacchezza che si sentiva addosso, agli ottanta non ci arrivava e neanche ai settanta. Dopo doccia e caffé allungato, si decise. Più democrazia. Ecco cosa ci vuole. La democrazia panacea a tutti i mali. Così dicevano in piazza in periodo elettorale. E lo stesso è per il corpo fatto di varie parti che democraticamente devono collaborare tra loro: lo stomaco con l'intestino, la bocca col naso, le mani coi piedi, il fegato con la milza….Niente colpi di testa, ma ascoltare il parlamento corporale. Uscì di casa convinto: domani al massimo ci saranno le nuove elezioni per il rinnovamento del parlamento interno. La democrazia è la linfa vitale del popolo e dunque anche del mio corpo, parte ristretta della nazione. Comprando il quotidiano aveva detto al giornalaio: "Non bisogna dimenticarsi che il corpo invecchia."
Il consiglio ad hoc del giornalaio:
"Don Gennaro, proprio ieri si è aperta una palestra nello scantinato affianco. Perché non ci andate così dimagrite?"
"Ci vuole altro."
"Don Ciro, lo sapete, quello incarcerato per camorra - il giornalaio aveva abbassato la voce nel dire camorra - adesso è in licenza premio ed ha aperto una palestra. E' qui affianco a pochi passi. Perchè non ci andate adesso a darci uno sguardo? Un po' di attività ginnica giornaliera è quello che fa per voi. Ginnastica e dieta."
"Ci vuole ben altro. Un po' di ginnastica la faccio quando vado in giro per il mercato e spesso mi metto a dieta."
"Sentite a me. Andate da don Ciro, lui risolve i casi disperati."
"Ci vuole altro. Buongiorno."
Uscendo aveva detto come vate:
"Ascoltare le voci corporali, le intime pulsioni, le tensioni interiori…. Ecco che ci vuole."
Uno entrando in quel momento ed accennando ad un saluto, quasi gli aveva dato ragione. Strada facendo aveva letto sul giornale la notizia che lo intrigò:

Abbraccia un albero e lo stress svanisce. Abbraccia un albero ed il copro ringiovanisce.

Scorrendo l'articolo erano uscite fuori altre cose: che la psicoterapeuta Alberta Avvero direttrice di un noto Centro-Disturbi-Depressivi (CDD), recatasi a Sydney per un congresso, aveva letto dei cartelli all'interno del Royal Botanic Garden. Su uno dei cartelli la frase liberatrice: To hug a tree. Cioè, abbracciare un albero. Altro che abbracciare una bella donna; meglio un albero. Il giornale riportava altro: scrittori ed attori di successo da anni abbracciano alberi come terapia anti stress. Capito? Le piante trasmettono forza magnetica, vera forza rigeneratrice. Abbracciate gli alberi ed amateli anima e corpo. Un esperto aveva affermato nella stessa pagina di cronaca:
L'ulivo mi consola, la betulla è maliziosa.
Senza andare a casa aveva estratto le chiavi della macchina, diretto ad abbracciare un qualsivoglia albero. Però quelli fuligginosi vicino casa gli fecero schifo. Poi, lo avrebbero preso per pazzo nel vederlo per strada abbracciato ad un albero. Si sedette in macchina, aggiustò lo specchietto retrovisore e aprì il cancello con elettronica chiave. Si avviò verso gli anfratti del Vesuvio pieni di stradine secondarie e spazzatura.. Nessuno lo avrebbe visto mentre abbracciava un pino resinoso, abbandonandosi con tenerezza sull'aspra scorza come l'amante che ascolta il cuore dell'amata. Avrebbe assorbito l'energia vitale del pino, rinverdendo contro le intemperie della vita. In alto sul Vesuvio, l'aria fu più fredda del solito, ma non aveva piovuto e c'era poco vento. Si vedeva il Golfo con Napoli sotto, la penisola sorrentina e Capri a sinistra; a destra il Vomero con dietro Ischia. Aveva adocchiato il pino che faceva al caso. Sostato in uno slargo era corso ad appiccicarsi al tronco. Tese le braccia ed avvolse la scorza fredda. Ci rimase appiccicato per un po' col risultato di un rigurgito di gas e sonora eruttazione. Le aspettative deluse. Sconsolato, urinò contro le radici del pino traditore: lunga pisciata liberatoria. Mentre chiudeva le brache sospirando, gli cadde in testa una grossa pigna che lo fece gridare. Toccatosi sul cranio, vide che c'era sangue. Col fazzoletto pressato sulla ferita se ne tornò in macchina imprecando. Con la marcia in folle per la discesa, disse tra sé e sé: ho fatto sempre di testa mia, ora si cambia. Non ho badato alle esigenze che venivano dal corpo ed ecco i risultati: appesantimento generale, depressione, pancia, affanno, gas intestinale da evacuare, doppio mento sulla gorgia, canizie precoce. Uno schifo. E poi gli attacchi subdoli: colesterolo, trigliceridi, azotemia…
Parcheggiato nel giardino davanti casa, sotto l'architrave della porta aveva detto con autorità:
"Domani alle quattro inizia la campagna elettorale. Tutti gli organi ed apparati ne prendano atto."
Un volvolo intestinale dovuto al passaggio di aria tra intestino cieco e grosso colon fece eco acconsentendo. A notte, mente e psiche di don Gennaro riposarono, ma gli organi interni ed apparati parlottavano con euforia. Dissero i polmoni:
"Democrazia, democrazia. Non più soggetti all'apparato digerente che ci manda solo sangue nero da depurare."
Dissero di rimando quelli del tubo digerente:
"Staremo a vedere. Comunque la maggioranza è nostra. Vogliamo vedere che succede se chiudiamo i rubinetti dell'energia di provenienza alimentare."
S'intromise il cuore che aveva anche lui qualcosa da dire contro i polmoni:
"Con l'aria che respirano, piena di CO2 e povera di ossigeno, protestano pure."
Rispose il polmone destro, spalleggiato dal sinistro:
"E che è? È colpa nostra se don Gennaro vive nel Bronx?"
"Calma - disse il timo che spiegò - aspettiamo le disposizioni di don Gennaro. Le elezioni si tengono col rispetto delle regole. Vediamo don Gennaro cosa deciderà in proposito: se vuole un governo monocamerale a maggioranza assoluta, oppure il bicamerale con maggioranza relativa e sbarramento o meno del 3%."
Disse il rene sinistro:
"A me andrebbe bene la maggioranza relativa senza sbarramenti, questo per dare spazio alle minoranze."
Uno dei testicoli udite le superiori rimostranze essendo in declivio all'interno dello scroto, disse:
"Non facciamo supposizioni. Aspettiamo domani quando don Gennaro emanerà le disposizioni generali. Solo allora potremo formare i nostri partiti e decidere gli accorpamenti."
Gli altri organi tacquero rimuginando nei precordi e preparandosi alla lotta. Il fegato già presagiva la rivalsa: se non funziono io tutto va in tilt. Come minimo devo avere la carica di ministro nel nuovo parlamento. I testicoli di rimando: se non fanno quello che diciamo noi, non si fotte più.
Cervello, cervelletto, bulbo e restante contingente del sistema nervoso centrale temevano la secessione: il sistema nervoso vegetativo avrebbe reclamato più autonomia con federalismo carnale e sganciamento totale dalla volontà. Il Sistema Immunitario voleva leggi più severe: cacciamo senza mezzi termini tutti i microbi rom che s'intromettono nel corpo da clandestini. C'era fermento e grande eccitazione con sconquasso generale. Il povero don Gennaro si era svegliato tutto gonfio: occhi, faccia, pancia come palloni. Allo specchio non si riconobbe più: e che è?
Aveva brufoli in fronte e sulle braccia. Si lavò e corse all'ASL. Adesso muoio, si ripeteva. L'addetto che dava i numeri per le prenotazioni dal dottore lo aveva squadrato:
"Don Gennaro, ma che avete fatto?"
"Niente. Avevo solo pensato di ringiovanire con qualche cura."
"Siete gonfio. Qualche allergia."
"Non lo so. Per questo sto qui."
"Solo questo dottore dà la cura esatta."
"Forse ho mangiato troppo ieri."
"Fidatevi del dottore. Solo lui conosce il vostro corpo."
Al medico aveva mostrato le piaghe sviluppatesi nella notte. Il dottore aveva detto:
"Non è allergia. Non di questi tempi. So cosa è. Avete deciso di dare più libertà ed autonomia agli organi interni ed essi sono in fermento. Ognuno vuole prevalere sull'altro. Ognuno pensa di essere il più importante. Dovete riprendere il controllo della situazione e mettere a tacere l'anarchia."
"Dottore, ma qualche medicina da prendere alla sera ed al mattino…"
"Niente medicine. Dovete parlare con voi stesso. In interiiore homine habitat veritas."
La frase latina aveva messo paura a don Gennaro che disse:
"Dottore, ma è grave?"
"Si sta sviluppando nel vostro corpo una malattia psicosomatica. C'è ribellione perfino tra la vostra mente ed il sistema nervoso autonomo. Mi spiego. Se uno si scoccia, ma deve stare seduto in una sala con altri ad ascoltare per ore un relatore, allora si sviluppa in lui la ribellione. La mente comanda ai visceri di soprassedere. Però se a lungo andare l'individuo inibisce le pulsioni interne sopraggiungono le malattie psico-somatiche che comportano la guerra tra la volontà e le interiori esigenze. Un altro esempio. Se uno non scopa, reprimendo le pulsioni sessuali, gli organi interni si ribellano e sopraggiunge la malattia psicosomatica con eruzioni cutanee, bruciori di stomaco, gonfiori delle viscere, sudorazioni, bocca secca, tic, balbuzie, lapsus freudiani…uno schifo."
"Un guaio. E c'è una cura?"
"Ve l'ho detto. Parlate chiaramente con voi stesso. Parlate con le interiora. Dialogate. In interiore homine habitat veritas."
Quella frase latina lo rifece rabbrividire. Disse: "Dottore, allora niente ricetta?"
"La ricetta ve la dovete fare voi ascoltando il corpo."
Don Gennaro se ne tornò a casa. Non pensò alla monnezza da scansare, alle turbolenze del quartiere contro i Rom. Lo affliggeva questa improvvisa guerra intestina.
Dopo doccia, nudo come una scimmia davanti allo specchio, fece il discorso diretto ai suoi organi, apparati, tessuti e cellule in anarchico subbuglio:
"Sentite…."
A questa parola l'interno di quel corpo pieno di pustole, tremori e flattulenze sembrò placarsi come la platea che ascolti l'oratore:
"Sentitemi tutti, organi, apparati, cellule e tessuti. Ascoltate. Non più assolutismo. Da oggi, farò quello che volete. I desideri, quelli dettati dalla mente cosciente non esisteranno più. Se il cazzo - faccio un esempio - è tosto e vuole fotttere, farò in modo da esaudirlo subito e nel migliore dei modi. Va bene? Se mi viene fame, mangerò. Se sto per strada e mi viene fame, entrerò in un fast food, in un ristorante, o in una salumeria per munirmi di cibaria. Idem se devo pisciare: vado subito in un cesso pubblico, o a casa. Idem per defecare. Se voi polmoni volete respirare aria pura andrò in montagna per qualche giorno. Però…."
Don Gennaro puntò il medio in alto come un santo. Vatalejò:
"Organi e interiora, però dovete rispettare i patti. Prima dovete cessare di farvi guerra. In ogni istante, dovete decidere a quale pulsione dare la precedenza: mangiare, scopare, passeggiare, defecare, urinare, assaggiare aromi, annusare profumi…Mi manderete un messaggio alla volta ed io esaudirò le vostre esigenze nel migliore dei modi e nel più breve tempo possibile. Se non ci state e continuate a litigare, in alternativa mi vado a curare da uno specialista e farò tutto di testa mia. Per dispetto, se devo scopare andrò a mangiare. Se devo urinare andrò prima a farmi una bella passeggiata."
Un gorgoglio generale sorto dall'intimo dei precordi gli salì in gola emettendo una grande eruttazione che lo fece sobbalzare. Vide eruzioni cutanee, pustole e arrossamenti dermici scomparsi per incanto: il segno che il corpo si era rappacificato e acconsentendo alla proposta di don Gennaro che disse a interiora e pudende: "Mi avete dato ragione. Siete sagge."

Da allora Don Gennara era diventato sbarazzino come un bebé. Lo aveva notato Alfonsina Guadagno, la sua compagna. Una volta, mentre facevano shopping per Corso Umberto I, di sana pianta don Gennaro le aveva detto:
"Andiamo a scopare."
Ad Alfonsina Guadagno era parso di non capire: "Che?"
"Dobbiamo scopare adesso."
"Ma veramente fai? Adesso è ora di pranzo. Troviamoci un ristorante, piuttosto."
"Scopiamo prima."
"Ma che è sta' frenesia!"
"Devi fare come dico io. Scopiamo."
"E dove?"
"Andiamo in albergo. Quello di fronte. Pago io."
Alfonsina Guadagno l'aveva presa con allegria ed aveva detto:
"Però dopo mangiamo."

Alfonsina Guadagno diceva che don Gennaro era diventato come un bambino di cinque anni. Non sapeva resistere ai desideri immediati. Se doveva andare in bagno mentre erano in macchina, sostava alla meglio ed andava a trovarsi il più vicino cesso oppure, se in aperta campagna, faceva i bisogni dietro un cespuglio. Alfonsina Guadagno con pazienza accettò i cambiamenti di don Gennaro, rinnovato nel fisico. A pianificare il futuro ci avrebbe pensato lei per lui.

Minosse minotauro
Minosse re di Creta dominò sulle isole egee e sulle città della Grecia antica, compresa Atene. Ebbe sontuosa reggia da Icaro edificata. La costruzione - di cui si ammirano i resti - era su un'altura dominante città e porto. Nessuno seppe quante stanze avesse tanto era immensa e molti ritennero che la parte in sottosuolo fosse illimitata, rapportandosi con le tenebre degli inferi. C'erano corridoi, stanze, sale ed ammezzati. Un labirinto crepuscolare in cui la luce penetrava da piccole aperture circolari per l'aerazione. Entrarvi era facile, ma l'uscita tanto più ardua quanto più vi si addentrava, divenendo impossibile dopo un certo tratto.
Icaro che ebbe costruito il labirinto vi fu chiuso col figlio perché vi perisse e non riferisse ad altri il segreto dell'uscita. Icaro fu furbo e con la cera d'api, costruì ali con cui volare per sé e per il figlio Dedalo. Volarono via salvandosi. Dedalo si elevò tanto che la cera si sciolse al Sole e precipitò nell'Egeo.
Dissero che Minosse avesse fatto costruire il labirinto per rinchiudervi il mostro concepito dalla moglie Pasifae, accoppiatasi con un toro sacro a Giove. Altri dissero che fosse stato ADE l'invisibile, signore d'Oltretomba ad accoppiarsi con Pasifae la bella. Ade adirato e crudele contro gli uomini. Ade che tiranneggia sui morti. Ade che di notte usciva dal labirinto e si accoppiava con Pasifae. Infatti il labirinto confinava con il l'Oltretomba, il regno delle tenebre. Altri dissero che il mostro fosse l'altra faccia di Ade. Dissero che il dio dei morti di tanto in tanto rendesse visibile l'orrido aspetto. Il popolo di Creta terrorizzato. Chiamarono Minotauro il mostro in labirinto. Dissero che il Minotauro dominasse le forze brute della natura; generasse terremoti e maremoti. Negli urli del forte vento, il popolo di Creta giurò di aver udito i cavernosi gemiti del mostro, mezzo uomo e mezzo toro. Il Minotauro ebbe corpo umano, ma oblunga testa, corna affilate e muso bovino. La smisurata forza dei muscoli non era umana. Qualcuno della corte diceva di averlo intravisto nei paraggi sotto la luna piena. Qualcuno negl'incubi notturni giurò di averlo visto dilaniare membra. Dicevano che si cibasse di carne umana. Il popolo ebbe terrore della reggia, di Minosse e del Minotauro.
Una nave salpò da Creta per caricare nove giovani e altrettanti fanciulle incatenate, tributo di Atene ai conquistatori. I giovanetti furono condotti in reggia e da lì erano spariti. Dissero che fossero stati portati incatenati in labirinto e dati al Minotauro: sesso e carne di cui cibarsi. Solo così il mostro si calmava. Colpa di Passifae e della sua lussuria. Non soddisfatta del marito aveva calmato la bramosia accoppiandosi con un toro sacro. Oppure si era data ad ADE. Il Minotauro non sopprimibile perché sacro. Lo si poteva calmare dandogli giovane carne umana.
Dicevano che il Minotauro come vedeva i giovani aggirarsi timorosi in labirinto li assaliva. Ci faceva sesso dilaniando col taurino pene vagine ed ani, squartando infine i corpi che trangugiava. Si addormentava ebbro di sangue e sesso. I popoli del Mediterraneo temevano Minosse e la reggia che custodiva in grembo l'orribile, famelica creatura.
Inorriditi per la sorte dei figli finiti in pasto al mostro, gli Ateniesi pregarono Teseo l'invincibile perché approdasse a Creda ed uccidesse il Minotauro.
Teseo s'imbarcò per Creta. Venere lo protesse e lo accompagnò da Minosse e da Pasifae. Rispettoso della dea, Minosse trattò Teseo come ospite. Dietro il trono tempestato di zaffiri e oro, c'era davvero una gigantesca statua di pietra raffigurante un mostro con la testa taurina e il corpo umano. In determinati giorni dell'anno in coro, Minosse e Pasifae questa preghiera alla statua di Minotauro rivolgevano, al cospetto della corte intera e dei dignitari del vasto regno.

"Ade - Minotauro
re delle tenebre
e delle Chere
inesorabili
chiuso in labirinto
ci rivolgiamo a te
tesi nell'ansia,
pieni di sgomento.
Nuvola di tempesta
nuvola senza nome
e fuoco di castigo
rovinerà su Cipro.
Invisibile e nero
uomo e toro
cavaliere della notte
uccidi i nemici
del regno cretese.

Teseo volle entrare nel labirinto per sfidare il Minotauro e il re non si oppose. Dal labirinto non si usciva. Teseo andava incontro alla morte e per libera scelta. La morte di Teseo in monito a chi osasse penetrare negli abissi della reggia. La morte di Teseo come trofeo. Impossibile sfidare le occulte forze sotterranee. La morte di Teseo come limite invalicabile contro cui si frange l'umana presunzione. La morte di Teseo tesa a rafforzare il potere reale perché nell'invincibilità del Minotauro si specchiava quella di Minosse.

Primavera inoltrata con l'isola coperta di fiori variopinti. Aria resinosa, salmastra e profumosa di ginestre. Lungo i sentieri verso la reggia ed a ridosso di banchine portuali, filari di oleandri bianchi e rosa. Sui muraglioni della reggia i rampicanti con foglie iridescenti, smosse dalla brezza. Cinguettio di uccelli con rondini taglianti l'azzurrità, squittendo.
Davanti al labirinto stava Arianna, secondogenita figlia di Minosse, dolce e bella. Ebbe capelli neri, sciolti sulle spalle e sguardo intenso, con arcuate ciglia e pelle bruna. Alta più del normale, almeno quanto Teseo e labbra carnose, come la regina egizia. Quanto il Minotauro fu deforme tanto Arianna fu bella, con corpo come Venere. Stava nell'androne del labirinto per sorvegliarne l'entrata. Attrazione reciproca. I due come si videro si piacquero e fecero all'amore. Teseo giacendole accanto, ebbe incubi notturni. Arianna lo svegliò ed al lume di una torcia, disse:
"Teseo, ti ho svegliato perché parlavi in sonno. Facevi il nome del mostro in labirinto. Dicevi: il Minotauro è la morte…Dicevi: Minosse - Minotauro…poi dicevi altre cose che non capivo."
"Un incubo."
"Ti dimenavi e rantolavi. Mi sono spaventata."
Teseo confessò:
"Sono qui perché devo uccidere il Minotauro e liberare la mia gente dal terribile tributo dei nove fanciulli e fanciulle in pasto al mostro."
"Potresti ucciderlo, ammesso che esista. Però non usciresti mai dal labirinto."
"Perché pensi che il Minotauro non esiste?"
"Non l'ho mai visto. Ignoro cosa veramente il labirinto celi."
"Devo comunque andare. Domani all'alba entrerò nel labirinto armato di spada."
"Nessuno è mai uscito vivo da lì."
"Gli dei mi proteggeranno."
"Voglio aiutarti. Ti do un lungo filo da sbrogliare mentre ti addentri nella rete di cunicoli, anfratti e sale. Compiuta la missione, potrai tornare indietro, seguendo il filo. Come la mente segue i lacci della ragione, così non ti smarrirai connesso a questo filo, il filo dell'amore."

L'alba aprì ali con rosee piume. Teseo entrò con circospezione nel labirinto. Aveva dato un ultimo bacio alla sposa e legato alla cintura l'estremità del filo. Era entrato nella rete di cunicoli armato di spada. Per quanto vagasse non trovò il mostro. In una vasta sala circolare con volta a cupola, illuminata da feritoie poste in alto, per davvero c'era dietro ad una specie di ara una creatura mostruosa con testa di bue e corpo umano, ma era una statua, sia pur enorme. La scultura in pietra misurava oltre i dieci metri in altezza. Un idolo da temere ed adorare. Un simbolo segreto che Minosse custodiva nei sottosuoli della reggia. La stessa statua oggetto di preghiere che Pasifae e Minosse tenevano dietro i troni della reggia. Tornò a sera seguendo il filo. Trovò Arianna in apprensione ad aspettarlo. Teseo disse:
"Arianna, mia dolce sposa, lì dentro non c'è nessuno. Per quanto abbia girovagato non ho incontrato il mostro."
"Lo sospettavo."
"C'era una grande statua con corpo umano e testa di toro. Una statua, non un mostro in carne ed ossa. E' una statua identica a quella che tiene Minosse e Pasifae alle spalle del trono e alla quale rivolgono preghiere."
"Una duplice statua. Una alla luce del sole ed una interrata in scuro labirinto. Quella che si trova nel labirinto sta dietro un'ara. Sospetto che sull'ara siano stati immolati i fanciulli e le fanciulle ateniesi. Tuo padre Minosse e tua madre Pasifae compiono sacrifici umani."
"Sospettavo anche questo. Un anno fa circa vidi delle guardie con il seguito di sacerdoti e cortigiani accompagnare per davvero nove fanciulli ed altrettante fanciulle nel labirinto. Poi fui allontanata e non capii bene cosa stesse accadendo. Dopo un po' vidi che si avviava nel labirinto anche mio padre Minosse e mia madre Pasifae."
"Forse il vero mostro non è il Minotauro, ma Minosse tuo padre."
"Perché dici questo?"
"Perché sull'ara davanti alla statua nel labirinto c'erano quelle macchie di sangue. Sacrifici umani. Capisci?"
"Mostri sanguinari. Mio padre a mia madre sarebbero mostri sanguinari?"
"Lo fanno per il potere."
"Per essere temuti?"
"La religione è mista a fantasia. Usata a fini politici, la religione è potere."
"Se è così, provo orrore nel vederli. Portami via con te, ti prego."
"Voglio vederci chiaro. Domani mattina voglio parlare con tuo padre e tua madre."
"Ti uccideranno e forse uccideranno anche me."
"Non credo mi uccidano. Venere mi protegge e tutti sanno che sono invincibile."
Teseo non disse ad Arianna del piano che stava attuando teso a rovesciare la monarchia cretese.

La notte Teseo ed Arianna si amarono. Fecero l'amore con la furia dei verdi anni. Al crepuscolo dell'alba Teseo accese una fiaccola e l'agitò in alto. Era il segnale convenuto per mettere in allerta i suoi. Subito dopo Teseo accompagnò Arianna al porto e la fece salire sulla nave dicendole di aspettarlo. Si avviò di nuovo alla reggia. Monosse e Pasifae lo attesero nella sala del trono, seduti sugli aurei scranni. Teseo disse loro:
"Re e regina di Creta, ho visto la statua….la statua nel labirinto. Ero venuto qui per liberare i nove fanciulli e fanciulle dati in tributo dagli Ateniesi, miei concittadini. Sospetto per loro una fine atroce."
Minosse era impassibile e muto, seduto sul trono di oro e diamanti. Parlò Pasifae:
"Sei uscito vivo del labirinto. Di certo Venere continua a proteggerti."
"Ho visto il Minotauro, ma è una statua."
"Hai scoperto la verità."
Teseo la interruppe e disse:
"Non tutta la verità."
"Quale sarebbe il resto di questa verità'?"
"Perché fate sacrifici umani? Quale crudele dio venerate?"
"Dunque tu pretendi di conoscere tutta la verità?"
Pasifae guardò l'impassibile volto di Minosse al suo fianco, poi disse:
"Teseo, tu devi morire."
"Prima di morire voglio conoscere la verità."
"La verità non si nega a chi è stato condannato a morte."
"Cosa c'è di mostruoso qui nella reggia."
"I nove fanciulli e fanciulle sono stati cresciuti fino all'avvento della pubertà. Li tenevamo nascosti sotto continua sorveglianza nei giardini della reggia. All'avvento della pubertà ce li siamo divisi. I ragazzi hanno fatto orgia con me e le ragazze con mio marito Minosse. Alla fine li abbiamo condotti in catene nel labirinto ed al cospetto di nobili e sacerdoti li abbiamo sacrificati al Minotauro, il dio di questo regno. Il Minotauro è l'altra faccia di Ade, la Morte."
"Il vostro potere si basa sul sangue. Orge e sangue. Sangue e Morte."
"Tu adesso sai ed adesso muori."
"Il simbolo del vostro potere è un mostro famelico e crudele, ma è solo un simbolo."
La regina aveva fatto segno agli astanti nascosti dietro le colonne di trafiggere Teseo con frecce e lance. Grande fu la sorpresa quando Pasifae vide che era circondata da nemici, tutti Ateniesi. Le guardie del re trucidate giacevano nelle sale attigue. C'era stato un blitz ben riuscito. Teseo era arrivato con due navi. Una delle quali aveva circumnavigato l'isola, sbarcando nella notte schiere di Ateniesi armati. Al segnale di Teseo gli Ateniesi avevano trucidato i soldati della reggia. Alcuni di loro avevano indossato armature cretesi per ingannare re e regina. Pasifae terrorizzata tremava. Si era aggrappata a Minosse che al tocco era precipitato con un tonfo sul pavimento pugnalato alle spalle. Teseo afferrò Pasifae per i capelli, la trascinò per terra e davanti alla statua del Minotauro la decapitò mostrando la testa recisa al popolo nell'antistante piazza. I Cretesi fuggirono inorriditi. Trionfanti, Teseo e i suoi si avviarono alle navi. Arianna seguì Teseo in Grecia.

La porta
Tornava da pensionato a visitare il luogo avito. Aveva scelto di proposito un orario fuori mano, quando la struttura era semideserta. Fuori dal gioco, voleva evitare il dialogo con chi era rimasto in servizio ed esercitava a pieno titolo quel potere accademico sua esclusiva prerogativa pochi mesi prima. Era stato il direttore del dipartimento al culmine di una carriera universitaria folgorante. Un temuto barone della medicina con appoggi in politica e in magistratura. Aveva mandato in cattedra chi voleva ed aveva piazzato i suoi nei posti chiave dell'università partenopea e altrove. Dietro di lui una fitta ragnatela di oscure connivenze. Un puzzle stravagante dove alla fine ogni tessera se ne andava ad occupare il posto esatto assegnatole dal grande mosaicista. Gioco cinico e baro. Ma era un gioco? Sì lo era a condizione di considerare la vita intera un gioco dove o si fotte o si è sfottuti.
Logico che con l'andata in pensione avesse avuto un crollo psicologico. Era scontroso e chiuso. Nessuno lo cercava più se non di rado. Non era più il centro delle accademiche aspirazioni, il punto di riferimento per vincere un concorso universitario, il faro per una carriera sicura in ateneo. Per scrupolo, qualcuno dei discepoli piazzati in cattedra gli telefonava. Parole di rito:
"Professore, come sta? Come va la vita da pensionato?"
Sapeva che gli ex non contano un ix. Non aveva più agganci. Dopo il suo ritiro era scoppiata la guerra baronale di successione: riunioni segrete, combutte, tentativi di agganci coi politici.
Con incontenibile trepidazione rivisitava i luoghi frequentati in modo continuativo dal secondo anno di medicina. Da ragazzo imberbe ci veniva già col padre, professore di anatomia. L'aria chiusa del lungo corridoio e quella acre dei laboratori era nel suo sangue.
L'ultimo giorno come da tradizione, c'era stata la gran festa di commiato con mezza università invitata: rettore, pro- rettore, presidi, direttori, oltre al personale del dipartimento. Biblioteca e aula magna trasformate l'una a deposito di bibite e pasticcini e l'altra a sala di ricevimento invitati con le guantiere colme di dolciumi, rustici, confetti; bottiglie di aranciata, coca cola e spumante poggiate alla rinfusa sulla grande cattedra. Gli invitati sedevano negli scranni riservarti agli studenti per ascoltare il discorso di rito. Al termine dell'orazione - definita dai maligni, orazione funebre - tutti si sarebbero avvicinati per salutarlo ed augurargli una lunga vita da pensionato. L'ambiente stravolto e le cataste di vecchi volumi negli scaffali laterali a muti spettatori.
Il prof. Carlo Celano fece il breve discorso di encomio e di commiato in onore del barone uscente.

"Domani il prof. Andrea Nelli ci lascia per aver raggiunto l'età pensionabile. Mancherà a tutti noi che lo amiamo e lo stimiamo anche se ci auguriamo che venga spesso ad onorarci della sua presenza e ci continui a dare i suoi indispensabili consigli…
Il risultato della sua incessante e fervida attività lavorativa è sbalorditiva: oltre cinquecento pubblicazioni scientifiche, dieci suoi allievi che hanno raggiunto la Cattedra universitaria come ordinari, ed altri sedici quella di associato. Le sue ricerche scientifiche spaziano in tutto il campo della morfologia, dall'anatomia macroscopica all'anatomia microscopica, all'istologia, all'istochimica, all'immunoistochimica, all'endocrinologia, all'embriologia ed alla ultrastruttura. Il prof. Andrea Nelli ha sempre considerato l'insegnamento una missione da compiere con impegno, serietà, zelo, passione ed umiltà. Alla sua attività didattica ed alla sua intensa attività di ricerca ha dato il meglio di sé…."

Il prof. Giordana accovacciato nel suo scranno, ritenuto dagli altri un dissidente moderato, disse a bassa voce ad un collega:
"Lodi auto referenziali. Si lodano tra loro."
"Chi prenderà il suo posto ed il suo potere?"
" Non si sa ancora. Dicono che aspettano le decisioni del Presidente della regione."
"Io non li sopporto. Vado via. Questi qui non esistono come individui, esistono come branco."
"Un branco di iene."
"Ciao, ci vediamo dopo."
"Non capisco perché ci sei venuto."
"Mi hanno invitato. Ci sono venuto come te, per farmi vedere che sono presente…per evitare che si pensi che sono fuori dal…branco."
"Come faccio io, per quieto vivere. Ciao. Anch'io tra poco vado via."

Da pensionato adesso, vedeva il dipartimento con distacco e nella vera luce: un lungo corridoio con in fondo la biblioteca e il suo ex ufficio con la porta chiusa. Nel versante sinistro i laboratori. Poteva essere un corridoio d'albergo o la corsia di un ospedale. Tutto era silenzioso, anonimo e in penombra. Una volta l'edificio era stato un convento e in alcuni punti era rimasta la vecchia struttura come il chiostro interno delimitato da un massiccio colonnato e i lunghi corridoi in semioscurità. Il dipartimento dove l'ex barone era stato il direttore occupava tutto il terzo piano dello stabile. Sul lato occidentale c'era la fila delle camere per il personale docente e non docente. Una grossa finestra per ogni stanza catturava il sole declinante nello zenit e allungava smagliature di luce sulle scrivanie, sulle mensole piene di estratti e sugli armadietti. Nella prima stanza a sinistra dell'entrata, c'era il tavolo nel cui tiretto era conservato il registro per le prenotazioni agli esami degli studenti del quinto anno. C'era una mensola di marmo, un becco bunsen per il caffè del mattino, le sedie su cui sedersi e fare quattro chiacchiere sorbendo caffè prima di iniziare la giornata lavorativa per modo di dire. Secondo la diceria degli studenti, l'unica a lavorare in quel dipartimento era la macchinetta del caffè.
Lo assalirono i ricordi in quello scialbo declino della vita. La sua camera di barone della medicina era in fondo, prima della libreria, la più capiente con due finestre anziché una. Al centro una grossa scrivania e verso la finestra di fronte all'ingresso, un tavolino con tre divani riservati agli ospiti di riguardo. Due telefoni sulla massiccia scrivania di noce e nel lato opposto alle finestre, le scansie per i libri e gli estratti delle ricerche pubblicati su riviste nazionali ed internazionali. Prima del pensionamento coi fondi strutturali, aveva fatto cambiare la vecchia porta con maniglie sghembe ed installare una corazzata con rifiniture in laminato ciliegio, maniglia dorata "Gardena" (design di Klaus Hartman).

Entrato in dipartimento il bidello Giovanni anche lui prossimo alla pensione, lo aveva salutato calorosamente e con il dovuto rispetto:
"Direttore. Che sorpresa! Prego."
Gli aveva porto la mano moscia e aveva risposto sforzandosi di sorridere:
"Come andiamo?"
"Bene. E voi?"
"Abbastanza bene."
Era stato lui a farlo assumere una trentina di anni prima. Avevano trascorso in quelle stanze quasi una vita. Il bidello era davvero contento. Sembrava il vecchio cane Argo alla vista di Ulisse ritornato alla sua Itaca. Gli mancava solo la coda da scodinzolare. Subito gli aveva confidato:
"Direttore, quando c'eravate voi, era un'altra cosa. Dopo che siete andato via, qui non si capisce più niente."
"In che senso?"
"E' una continua guerra."
"Capisco."
"Tutti contro tutti. Solo lei li metteva a tacere e manteneva l'ordine."
"Capisco."
"Direttore, ma lei capita in un orario fuori mano. C'è solo qualche assistente che fa ricerche in laboratorio. Verso le sedici anch'io vado via."
"Lo so. Volete che non lo sappia? Ci ho passato una vita qui dentro."
"Come mai siete venuto? Avevate appuntamento? Scusate se ve lo chiedo."
"Passavo di qui per caso e sono salito su in dipartimento. Sono stato come da una calamita."
"Vi preparo il caffè."
"Bravo. Io mi avvio verso la biblioteca. Voglio dare uno sguardo alle riviste."
Non sapeva neanche lui perché voleva andare in biblioteca. Una scusa per attraversare da solo il lungo corridoio. In fondo vide la porta chiusa del suo ufficio. Una volta un via vai di gente attraversava il vano di quella porta e lui dietro la scrivania ad impartire direttive.
Rivide eventi del passato. Era stato all'apice di una cupola di potere pazientemente eretta. Aveva manovrato tutti i concorsi universitari del suo raggruppamento decidendo chi doveva vincerli. La sua volontà era stata legge.
Sessantacinquenne, s'era fatta una nuova amante. Era venuta da lui dietro appuntamento. Era una bella donna, fresca sposata. L'aveva ricevuta nel suo studio e fatta accomodare sulla poltroncina riservata agli ospiti di riguardo. Aveva belle cosce, slanciata e zizze toste come piacevano a lui. Nel vedersela parata davanti, gli era salita una melliflua fiamma partita da sotto le pudende. Ciò accadeva con le donne che davvero lo attraevano. Aveva accavallato le cosce comodamente seduta di fronte a lui e aveva detto:
"Professore, sono l'assistente del prof. Giardino che è mio zio da parte di mia madre. Avete parlato di me per telefono…stamattina, così mi ha detto mio zio…"
"Sì, ho detto a vostro zio che potevate venire da me questo pomeriggio alle 16, cosa che avete fatto con puntualità."
"Ecco, vengo a proposito del prossimo concorso ad associato…"
La donna lo sguardo ammiccante, si era sporta verso di lui che le ammirava le cosce. Aveva una gonna coi bordi quattro dita sopra le ginocchia. Le calze nere velate, irresistibili.
"Professore, che ne pensa? Posso presentarmi al prossimo concorso? Avrei pochi titoli in verità."
"Lei è giovane perciò ha pochi titoli".
Questa frase del barone poteva significare: signora, aspetti ancora alcuni anni. Maturi altri titoli e poi si faccia avanti. Poteva però essere un semplice complimento per la sua bellezza e giovinezza. La donna si chinò ancora di più verso di lui azzardandosi ad appoggiare il braccio sui calzoni con la mano in prossimità delle brache.
"Professore, la ringrazio del complimento. Ho in cantiere numerose ricerche che potrò meglio espletare quando avrò la tranquillità che solo un posto di professore di ruolo può dare…Lei lo sa…mi capisce…"
Non aveva ritirato il braccio da sopra la sua coscia. Con calma le aveva detto:
"Signora, facciamo così. Venga domani alla stessa ora e mi porti il suo curriculum con gli estratti delle sue pubblicazioni scientifiche."
Aveva tatticamente rinviato gli amplessi. La giovane donna era bella e gli piaceva da morire. Aveva fatto breccia nel suo cuore, ma preferiva aspettare. Meglio rinviare di un giorno gli approcci sessuali. Non era più giovane e con la verga a comando. Verso le 15,30 avrebbe preso una compressa di Viagra aspettando l'arrivo della donna per le 16,00. Col Viagra non c'erano problemi.
Quel pomeriggio, la donna aveva giustapposto sul tavolino il curriculum e gli altri titoli. Lui era corso a chiudere a doppio mandato la porta e si era slacciato le brache. Gli aveva fatto un immediato pompino.
Il secondo giorno, il barone aveva preso un afrodisiaco più potente con l'integrazione di steroidi e vitamine. Si sentiva il formicolio ai testicoli e i muscoli col tono di un ventenne o quasi.
Appena arrivata, era stata lei a chiudere a chiave la porta lanciandogli uno sguardo da complice. Lui che aveva già perso la testa, si era subito messo a frugarla sotto il vestito, passando la mano tra le cosce. Abbassando lo sguardo le aveva visto lo slip nero merlettato e la sottoveste…Le aveva aperto la camicia di seta e slacciato il reggiseno… Lei gemeva e gli baciava il lembo dell'orecchio. Le agguantò una tetta. Era turgida. Ci si attaccò come un neonato avido di latte. Prese a baciarla e a leccarla sul collo sbavando come un cane. Le succhiò il labbro come si gusta una prugna matura. Soffocò i gemiti di lei con un bacio. Le strappò via il vestito e le sfilò giù le calze. Cosce nude, pallide ginocchia, carne calda. La tirò su dalla poltrona, le tirò via le mutande e glielo ficcò dentro con la furia di un mandrillo.
" Andrea" disse "Oh, Andrea!"
Gli piacque che lo chiamava per nome. In mezzo alle cosce aveva una matassa intricata di peli. Le grandi labbra vulvari inumidite e lubrificate alla meglio.
Se la fece in piedi, ma mica stando fermi. Scopavano per tutta la stanza. Glielo ficcava e rificcava in corpo. Ribaltavano le sedie e avevano fatto cadere la lampada. L'aveva stesa sulla scrivania mentre masse di libri rovinavano sul pavimento. Grugnì come una scrofa in calore.
"Oh, Andrea!"
Fu percorsa da un brivido da capo a piedi, poi da un altro, come una bestia sull'altare del sacrificio. Vedendola sfibrata, come fuori di sé, come smarrita - o forse fingeva - glielo spinse più su che potette: una furia. La donna tramortita, al colmo della goduria. Lui rinculò leggermente e glielo spinse di nuovo dentro con rinnovata forza. Dava colpi d'ariete e a lei ballava la testa come un burattino pazzo. Proruppe l'ondata di sperma. Da anni non se ne faceva una così. A momenti moriva. Il povero cuore a martellargli dentro. Quella donna meritava senz'altro di vincere il concorso. Sarebbe stata la sua amante per alcuni anni. Per lui bastavano. Alla sua età era già troppo. Coito ergo sum. Quella lì faceva ciò che la donna fa da milioni di anni: la puttana. Avrebbero dovuto per davvero liberalizzare il mercato per le donne spregiudicate che non si vergognano a vendersi. Coito ergo sum, appunto.

Ricacciò l'onda dei ricordi. Stava per poggiare la mano sulla maniglia di quella che era stata per anni la porta del suo studio privato. Un atto involontario. Come se si fosse scordato che era pensionato. Dal fondo del corridoio Giovanni il bidello lo chiamò riportandolo alla realtà:
"Professore, la porta è chiusa a chiave. Quando il nuovo direttore è via chiude sempre quella porta a chiave. Venite, il caffè, sta salendo."
L'ex barone lasciò scivolare la mano dalla maniglia e tornò sui suoi passi. Se avesse superato la soglia dei novant'anni, come un suo amico gli avrebbe dato noia persino il cuore a batteria. A letto appoggiato l'orecchio al cuscino non avrebbe sentito più tic toc, ma solo il soffio del pacemaker: sciuf sciuf.

Una voce misteriosa come se gli dicesse in un orecchio:
"Su, coraggio, la vita inizia ora. Solo ora inizia la vera vita."

Gladiatori
Maledetto sia colui che uccise mio marito. Era alto e forte e tutti i duelli nell'arena vinse, tranne l'ultimo fasullo. Vedova e con tre figli impuberi devo sopravvivere.
(anonimo del III° secolo dopo Cristo).

L'affresco mostrava un gladiatore ai tempi dell'antica Roma, con maschera di ferro, elmo, corazza e il gladio stretto nella destra. Dietro l'armatura un'esistenza anonima.
La notte ebbi un incubo. L'anfiteatro pieno di gente urlante. Il convergere degli occhi su di me nell'arena. Sugli spalti non c'erano persone, ma un soggetto nuovo: la massa che levò un urlo atroce acclamante l'inizio delle ostilità. Ero io a lottare in un duello all'ultimo sangue.
L'imperatore si levò sul palco e fece cadere nell'arena il fazzoletto bianco.

AVE CAESAR MORITURI TE SALUTANT.

Ci fu un nuovo orrendo urlo animalesco e noi due gladiatori stringemmo i ferri pronti alla lotta estrema. Grazie alla possanza fisica avevo vinto sempre uccidendo i miei rivali. Però in quel duello, mi sentii fiacco. Forse il caldo, forse gli avversi dei. I primi colpi furono possenti, sia i miei che i suoi. Schivò il mio fendente. Il silenzio panico dell'anfiteatro riempito dai metallici fragori delle armi cozzate contro gli scudi. Lottava con un tridente in una mano e nell'altra una piccola ascia. Avevo solo la daga, l'unica arma di cui mi fidassi e di cui ero insuperabile.
Era un barbaro del nord e avrei dovuto aspettarmelo. In un attimo di distrazione, mentre il sudore mi colava sugli occhi, lanciò con un rapido guizzo l'ascia colpendomi alla fronte. Caddi in un tonfo. Non era ferita mortale perché il colpo era stato attutito dall'elmo, ma stavo a terra tramortito e con la faccia insanguinata. Con un balzo ferino mi si avventò contro e mi puntò al collo il tridente. Sotto la forca del vincitore udii di nuovo la massa. Un unico urlo acclamò la sua vittoria e la mia morte. L'urlo feroce fu assordante e sentii il tridente penetrarmi in petto. Gridai forte per la fitta lacerante e vomitai sangue. Il mio grido disperato assorbito dal clamore della folla. Negli estremi rantoli pensai a mia moglie ed ai tre figli lasciati soli ed inermi. Poi il silenzio ed il buio della morte.

Nel Limbo un'ombra disse: per sempre ci saranno spettatori sugli spalti e i gladiatori nella rena.

La chiesa gotica
Sopra il promontorio di Sperlonga a sud di Roma si trova la mia villa circondata da un vasto giardino che dalla strada sovrastante si prolunga giù verso il litorale. La costruzione è nascosta da alti pini, alberelli di limoni e siepi di rose e magnolie. Una lunga scalinata di oltre un centinaio di scalini porta all'ingresso. Questa scalinata in mattoni rossi, scende serpeggiando tra alberi e fiori, fiancheggiata da un muretto, sul quale si alternano lampioncini stile Liberty e vecchie statue di dei pagani l'ultima della quale, quella di fronte al portone, rappresenta ADE, il dio dell'oltretomba..
La statua ha un forte impeto, uno slancio a muoversi nel momento in cui vibra in giù un pugnale stretto in mano. Il dorso e le gambe protese obliquamente in avanti. L'altra mano è portata sulle labbra come a nascondere la propria identità. Mia moglie vi lasciava spesso la sua borsetta appesa sul braccio che stringeva il pugnale in segno di noncuranza e passando davanti alla statua faceva sberleffi. Nella pittura vascolare ADE è rappresentato, quando lo è, con la testa girata dall'altra parte, come se non fosse avesse una precisa fisionomia. Tutte queste prove in negativo concorrono a formare un'immagine precisa di ADE: l'immagine di un vuoto, di un'interiorità o profondità che è sconosciuta. Ade non è un'assenza, è una presenza nascosta, una pienezza invisibile

Fredda e limpida giornata di fine febbraio. Passeggiavo con un libro in mano e proprio ai piedi della statua che rappresentava ADE raccolsi qualcosa che sembrava una foto. Di certo l'aveva persa mia moglie dalla borsa che spesso appendeva all'avambraccio della statua. La foto a colori era grande come metà foglio A4 e quando vidi di che si trattava, dovetti appoggiarmi alla scultura quasi a chiedere coraggio per non svenire. C'era mia moglie in quella foro abbracciata ad un uomo. Dietro lo sfondo di una chiesa gotica in restauro. Mia moglie aveva un amante. Il cuore a martellarmi e il respiro affannoso. La costruzione alle loro spalle doveva essere per forza la chiesa della Sant.ma Annunziata, a Castel Volturno, in provincia di Caserta. Proprio la mia ditta aveva vinto la gara per curarne restauro. L'uomo mi sembrava di conoscerlo. Mi sforzai di ricordare: era il giovane sindaco di quel paese. Con chi si ama non si hanno segreti. Una parte della sua vita dunque mi era oscura, come la luna che nasconde alla terra il lato buio.
Con la mano tremante composi il suo numero di telefonino. Era partita per un viaggio la sera prima. Non c'era linea. Non so come, ma svenni. Mi raccolse il cameriere che mi adagiò sul letto di casa dove rinvenni. Il dottore disse che dovevo riposare e mi fece una siringa di calmante. Disse di richiamarlo per il pomeriggio. Se era il caso mi avrebbero dovuto ricoverare. Dormii. Ebbi un incubo. Ero in una nebbia infuocata da cui emerse un essere che mi sovrastava e di cui non riuscivo a vederne il volto. Ci fu un urlo disperato di chi sta per soccombere. La nebbia ardente si diradava e vidi l'uomo privo di volto che vibrava una pugnalata nel petto di lei. Marina, mia moglie, cadeva trafitta dalla lama lucente che l'essere senza volto brandiva. Mi svegliai sconvolto. Ero tutto sudato.
Il guerriero del sogno era Ade il dio della morte. Non persi tempo e contro le raccomandazioni dei miei inservienti mi vestii e corsi con la macchina in provincia di Caserta, dove c'è la chiesa gotica della Sant.ma Annunziata.

Lasciai l'autostrada all'altezza di Caserta Nord e raggiunsi la Domiziana, uno stradone che si prolunga a nord in direzione di Roma e a sud, verso Napoli e Pozzuoli.
Dopo una mezz'ora ero sulla Domiziana. Ai bordi della carreggiata nonostante il freddo, gruppetti di ragazze di colore, extracomunitarie a offrire sesso a pagamento. Seguii le indicazioni stradali. Ci vollero ancora dieci minuti prima di arrivare. Si levava forte vento polveroso. Presi alla fine per un viottolo di campagna e fermai la macchina in una radura. In lontananza vidi la massa grigia della cattedrale costruita dagli Angioini. Taglienti lame di sole tra nubi.
Mi avviai a piedi per un viottolo scosceso. Dopo una ventina di metri fui nei pressi della cattedrale con le mura circondate da folti siepai e rampicanti. Da qualche parte scorreva un rumoroso corso d'acqua.
La chiesa gotica costruita con pietre di taglio, sorgeva nel mezzo della radura e si elevava verso il cielo nuvoloso con la sua mole spettrale. Le due torri e il campanile avevano le sommità dirute. I frantumi delle antiche torri e del campanile erano caduti torno torno al muraglione perimetrale coprendo di calcinacci folti siepai. I rampicanti s'allungavano da dentro le siepi come dita lungo le fiancate dell'edificio. Alcuni rottami delle torri erano stati ammucchiati in un lato, non lontano dalla vegetazione che nascondeva il corso d'acqua nell'attesa forse, dei restauri della Sovrintendenza. Altissime cuspidi, torrette, guglie slanciate, frontoni ad ogiva e pinnacoli triangolari adornavano le fiancate. Il portone di legno era scardinato ed infradiciato verso la base. Ai lati, il portale era adorno di sculture di santi. Al di sopra dell'arcata del portale il rosone anch'esso in disfacimento. Entrai scostando i battenti del portone. La chiesa era stata abbandonata al suo destino. Non c'erano guardiani, né sigilli. Del resto non c'era più niente da rubare.
La chiesa era stata risparmiata dai bombardamenti dell'ultima guerra e fu utilizzata come deposito di viveri per l'esercito americano dopo lo sbarco di Anzio. Dopo la guerra, la costruzione in stato di grave abbandono, passò al demanio dello Stato che avviò lentissime procedure di restauro. In sostanza non si fece alcun restauro tranne una rete metallica di recinzione, in più parti tagliata ed arrugginita. Sarebbe toccato alla mia ditta ristrutturare l'intero edificio. Sarebbero passati anni prima che il restauro fosse completato. Quel posto solitario, non sorvegliato dai vigili e dalla polizia, era di notte uno dei punti in cui le puttane si davano appuntamento coi clienti. C'erano vecchi materassi per terra serviti per fare sesso a pagamento. Debole luce penetrava dai lunghi finestroni privi di vetrata. Il pavimento era stato quasi interamente distrutto e ai piedi delle colonne della navata centrale erano cresciuti cespi di erbacce. Lì mia moglie si era baciata con quell'uomo.

Al sommo delle ardite ogive e sotto le volte a crociera c'erano nidi di rondini. La chiesa, a tre navate, lunghissima. La profondità poteva superare i cento metri. L'altezza poteva raggiungerne cinquanta. La navata centrale era delimitata da una filiera di altissime colonne terminanti in capitelli decorati a fiori e fogliami.
Le navate laterali contenevano cripte con antichi sarcofagi frantumati. C'erano nicchie vuote. Mi avviai in fondo alla chiesa dov'era rimasto un simulacro di altare circondato da una pila di colonnine ancora in piedi, che formavano la balaustra. Osservavo ogni particolare nella ricerca d'indizi. Che ci faceva mia moglie lì dentro?

La giornata volgeva a termine: ombre sotto le arcate, tra le colonne, negli angoli bui, dietro l'altare e sarcofagi. Le ombre salivano in alto in densa nebbia brumosa. Verso l'altare oscurità densa. Su una delle colonne striscia di sangue aggrumato. Poteva averla lasciata una puttana aggredita. Per terra una siringa di un drogato.
Qualcosa mi tratteneva. Vento ululante apriva e chiudeva con forza il portone infradiciato. Dalle altissime finestre entravano foglie e polvere. Su una colonna contigua, nuova striscia di sangue aggrumato. C'era un tanfo come di carne morta. Annusai come un segugio. Accesi l'accendino e osservai per terra. Su mattonelle del pavimento residuale nei pressi della balausta dell'altare, macchie di sangue. L'istinto mi disse di controllare dietro l'altare. Le ombre ormai dense m'impedivano la vista dei particolari. Proprio lì puzza di carne marcia. Vidi delle tavole accatastate per terra. Vecchie tavole di legno tarlate frammiste a calcinacci. Accesi l'accendino e con l'altra mano ne sollevai una. Sbucarono le dita di una mano pendula su un pezzo di braccio obliquo.
Mi appoggiai con le spalle all'altare. Ansia devastante. Il cuore mi martellava, mi mancò il respiro. Tra le ombre sconvolgenti il pericolo. Manti neri, enormi, piovuti dall'alto si posavano a terra in funesti vapori.


Qualcosa ondeggiò che il vento urlava incessante. Qualcosa tra cupe crepe. E la mano pendula appena visibile nell'oscurità. Silenzio. Ombre inquietanti avvolgenti l'arto privo di vita. Fuori da qualche parte, il vento fluttuava furioso. Oscurità pressante.
Tra brume la sagoma enorme di un essere demoniaco starmi di fronte. Il fantasma di un uomo gigantesco vestito di nero, modellato da cupi mantelli.
Il fantasma stringeva in una mano un pugnale. Ero terrificato e non avevo la forza di muovermi, né di gridare. Mi accorsi della presenza di sagome nere che annusavano e frugavano col muso per terra. Ero privo di forze e di volontà, ma mi sforzai di guardare nella fitta penombra. Erano tre cani. Mi stavano vicino e rovistavano il pavimento, grattando con le zampe la terra. Gli animali si agitarono e guairono intorno alla mano pendula. Uno dei cani mi annusò. Ringhiò contro di me, mostrando i denti canini. Con un guizzo mi azzannò ad un braccio e mi trascinò a terra senza lasciare la presa. Non ebbi la minima forza di reagire. Udii infine una voce nella semi oscurità e vidi avvicinarsi fasci di luce. Una delle pile fu fatta convergere sulla mia faccia. La sagoma di un uomo si avvicinò, mi fissò per un poco. Era l'ispettore di polizia accorso sul posto.
Il pastore tedesco lasciò la presa dietro il comando di qualcuno. L'ispettore mi chiese:
"Lei chi è, che ci fai qui?"
Finalmente capii anche se non vedevo: la polizia. Alcuni mi sollevarono. L'attacco di panico stava scomparendo e con esso le minacciose ombre. Dissi:
"Lì sotto dove fiutano i cani, c'è un cadavere."
Alla luce di potenti torce fotoelettriche estrassero da quel buco il cadavere di lei: Marina. Era stata uccisa poche ore prima dal pugnale del suo amante che aveva confessato il delitto e si era costituito alla polizia. Mia moglie voleva troncare la relazione. Per questo lui l'aveva uccisa. Quello doveva essere il loro ultimo incontro. Invece lui non aveva accettato che lei lo lasciasse.
La polizia dopo i dovuti accertamenti mi mise in libertà.

Ritornato in villa, fissai a lungo la statua di ADE. Il pugnale che brandiva era macchiato di sangue. Fui certo: era stato ADE, il dio invisibile, il dio della Morte che in un modo o nell'altro aveva diretto la volontà dell'assassino a pugnalare mia moglie.


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