Napoli - Lazio zero a
zero
Stamattina, mi sono tolto un peso dallo stomaco. Tomo - tomo, sono
entrato nel Duomo e in faccia a San Gennaro ho confessato a bassa voce
il peccato del giorno prima. La violenza c'è stata e toccherebbe al
Santo valutare i fatti. Da protettore di Napoli e della relativa
squadra calcistica, capisce tutto. A lui mi rivolgo per le scommesse
clandestine. Dunque davanti a San Gennaro inginocchiato, nella deserta
e semibuia chiesa, ho esposto i fatti a bassa voce:
"San Gennaro, credetemi e voi lo sapete. Tra noi ed i laziali non c'è
buon sangue. Vanno troppo orgogliosi per la loro squadra, giusto un
punto sopra il Napoli. Ieri pomeriggio dopo lo zero a zero in casa
contro la Lazio, i miei compagni ed io abbiamo inseguito un furgone di
nemici, bloccandolo poco prima dell'imbocco autostradale. In quel
tratto, ci sono sempre lavori in corso ed il furgone dei laziali ha
rallentato. Con le nostre auto la mia Brava grigia, due Mini Cooper
nere e una BMW X3 anche questa nera, abbiamo sbarrato il transito
all'avversa tifoseria dentro un furgone Peugeot, cogli stemmi della
Lazio appiccicati ai lati. Si sanno come vanno queste cose. Con
spranghe, bastoni e catene e con le sciarpe del Napoli al collo li
abbiamo aggrediti. Siamo stati in sette: io e gli altri sei ultrà della
curva B. Sette contro cinque, però due di noi facevano da riserva,
osservando il tafferuglio. Abbiamo fracassato i finestrini del Peugeot
ed arraffato ciò che abbiamo potuto. Uno dei laziali si è messo a
guardarci come un cane a quattro zampe: l'ho steso con un calcio. Un
altro più massiccio lo abbiamo tirato fuori dall'abitacolo e messo a
K.O. con una ginocchiata sul panzone. Un altro, avendo ricevuto una
bastonata tra collo e spalla, si è afflosciato senza dire niente. Don
Vincenzo o' carpecato dei Quartieri Spagnoli, sferragliando in
aria la catena, si è messo a dire che i laziali sono mariuoli, che il
gol di Hamsik era buono. Don Ciro o' frizzicuso della Duchesca
ha marcato la dose: "Laziali di merda, venite a Napoli a rubarci il
risultato."
Don Ciro si è messo a sferrare calci al Peugeot, per l'ammonizione a
Cannavaro al primo tempo."
Ho guardato il santo che è rimasto come muto. Ho continuato, passando
dal voi al tu, tanto per intenderci meglio:
"San Gennaro, tu lo sai come vanno queste cose. Abbiamo portato via i
giubbotti di due di loro con delle chiavi, un telefonino, una carta di
credito ed un biglietto per la partita Parma - Lazio. Abbiamo
sequestrato i loro trofei, gli stemmi della Lazio e una bandierina
arrotolata. Doverosamente, abbiamo trasferito il bottino di guerra
nella sede ultrà della Loggetta, mettendolo sotto chiave in apposita
bacheca. I trofei servono, San Gennaro, voi mi capite? servono da
monito alla tifoseria laziale ed è un vanto per i sostenitori del
Napoli. Con rispetto parlando, San Gennaro, hanno una squadra di merda,
una squadra razzista che in casa vince per mazzo. Ho fatto bene?"
La statua mi ha guardato con la solita malinconia. Ho sentito affianco
una voce:
"Non sono queste le cose importanti. Ci vogliono altri trofei nella
vita."
Mi giro e vedo don Antonio Perrone. Non è stato San Gennaro a
rispondermi, ma il prete avendo ascoltato la supplica, seduto nel
propinquo confessorio. Mi alzo e dico:
"Padre, quando ci vuole, ci vuole. I laziali sono arroganti…"
"Sentite a me, cambiate vita e pentitevi dei vostri peccati."
L'ho salutato appena. Mi sono fatto il segno della croce e sono uscito.
La giornata si rasserena. Domenica, al Napoli tocca una partita fuori
casa e Cannavaro, per colpa della Lazio, è in forse.
DE INSULA REMOTA
Antenato monaco
materno, morto in monastero cistercense, lasciò in eredità al mio
paterno nonno una vetusta pergamena col titolo in gotici caratteri:
DE • INSULA • REMOTA
Alla scadenza esatta del quindicesimo compleanno, il nonno mi regalò
la preziosa pergamena su consiglio di mio padre, entrambi speranzosi
d’invogliarmi nello studio sia pur tardivo, del latino. Di recente, mi
sono ancora cimentato nella traduzione del vetusto testo, sia per
curiosità, sia per rinverdire la classica cultura. Mi sono infine
accorto che vi si narra di una inesplorata isola, visitata nei tempi
andati da Goti fuggitivi. I fatti si riferiscono a poco dopo la caduta
dell’Impero Romano d’Occidente: sanguinosi accadimenti, consequenziali
alla riconquista di Cartagine da parte dei Bizantini. Nel 533 dopo
Cristo, le milizie di Belisario distrussero Cartagine e fecero strage
degli occupanti Goti. Come ordinatogli da Giustiniano, il generale
Belisario non solo distrusse la città, ma sterminò i barbari che vi si
erano insediati, compreso le donne, i vecchi ed i bambini. I pochi
superstiti riuscirono a prendere il mare aperto su una vecchia trireme.
I fuggitivi si portarono via l’ingente tesoro sottratto a Roma da
Alarico, nel 410 dopo Cristo. Come la pergamena dice, questo tesoro fu
nascosto non secondo la tradizione sotto il corso del Basento, ma in
mare nei pressi di una misteriosa isola, o insula remota che
suppongo sia l’ultima delle odierne Azzorre. Nella traduzione, ho
lasciato di proposito alcune brevi frasi in latino. Per pochi nomi
comuni e propri come Gothi e monacho, ho rispettato la
vecchia dicitura Alto-medioevale. Qua e là, ho inserito le congiunzioni
latine et, o atque. Dove non capivo il senso della frase,
ho usato il termine quoniam coi punti sospensivi. Ecco
cosa il vetusto testo dice.
Alone lunare
inargentava l’acquosa et piatta distesa. Mi ricordai di un
vecchio detto latino:
Adspirant aurae in
noctem nec candidua cursus luna negat.
La prua della grande nave tagliò le placide onde diretta ad occidente.
Mari undique et
undique coelum. Lucis egens aer.
Atterriti dalle stragi perpetrate dai legionari di Belisario in
Cartagine arsa, oltrepassammo le Colonne d’Ercole e virammo col vento
amico verso il grande Oceano. Scrutavamo atterriti se mai qualche nave
romana c’inseguisse. Ci ritenevano usurpatori dei territori imperiali
nel nord-Africa, ma eravamo pacifiche tribù provenienti da oltre il
Danubio, scacciate dalla furia degli Unni.
Quoniam…Al mattino del quarto giorno di navigazione,
s’intravide ad oriente ancora la costa piatta ed arsa della Mauritania
e ad occidente, solo la nebbiosa linea dell’orizzonte. Un improvviso
vento diresse la trireme nel grembo del grande Oceano, mai raggiunto
dagli umani. Povero monacho dei Gothi prigioniero,
costretto a seguirli nella rovinosa fuga da Cartagine, messa a ferro e
fuoco, mi feci il signum crucis e cominciai a pregare. La
divinità che tutto regge accolse le mie orationes magna
cum desperatione plenae.
Al crepuscolo dello stesso giorno, mentre la pesante e vecchia
trireme era sballottata delle gigantesche onde senza direzione et
meta, la vedetta gridò: “Le isole, le isole…”
Ringraziai la sant.ma immago dell’Immacolata et statim
ricordai il monitum che l’Arcangelo Gabriele mi aveva
detto in sogno et in aeterna ammonizione:
Chi ad altro tende
che non sia solo Dio e la salute dell’anima, non avrà che tribolazione
e dolore.
Al crepuscolo serale, ci fu calma piatta. Il vento ed il mare
avevano cessato le infernali, ma brevi sfuriate. Propinque alla costa,
spiagge deserte con candida ed immacolata rena. Oltre le vaste radure
sabbiose, palme di datteri e siepai intricati. In alto, volteggiavano
ancora grossi e sconosciuti uccelli. Si vedevano tre scure isole non
distanti tra loro, circondate da placida acqua, luccicante e
trasparente. Colori fini et alieni et cum maximo
pavore, sembravano appartenere più all’Arte che alla natura,
più allo spirito che alla materia. Poteva essere che le silenziose
ombre serali significassero che il sospirato approdo fosse più un fatto
miracoloso atque eccelso che un evento del caso. I
Gothi levarono un grido di gioia che trafisse la sera ed
il silenzio angoscioso. Igor, il capo dei Gothi, decise
di approdare sull’ultima delle tre isole, la più remota dalla
Mauritania da cui cinque giorni prima ci eravamo allontanati. Siccome
era quasi notte, si decise di aspettare il mattino seguente per il
sicuro approdo. Nel frattempo, alcuni dei più validi guerrieri erano
scesi in mare. Per non affogare, si erano aggrappati ad una specie
di trave (ad traben), calata apposta in acqua. Enim,
i guerrieri avevano risalito la spiaggia sabbiosa e legato con una
lunga fune la prua agli alberi di datteri più vicini. Enim,
alcuni dei Gothi avevano dormito in spiaggia con
una sentinella di turno, ma la maggior parte, compreso le donne ed i
bambini avevano dormito sulla nave. A turno anche sulla prua della
nave, una vedetta di guardia restò. Dulcis et clara et serena
fu l’alba rosata et la verde, iridescente boscaglia
dell’isola extrema ebbe la freschezza dell’anima pura, timorata
dal Creatore. All’alba del giorno dopo, Igor fece calare sul
bagnasciuga la passerella. Cominciarono a scendere gli uomini, alcuni
dei quali feriti nell’ultimo et strenuo combattimento
contro i Bizantini. Subito dopo, scesero le donne con in braccio i
bambini. Infine, furono traslati in riva i bagagli e le armi di
riserva. Quando l’intero popolo superstite ebbe lasciato la nave,
contai quasi trecento persone fuggitive. Si cominciò a scaricare altri
bagagli, i viveri, la scarsa acqua da bere et in extremis,
il tesoro di Alarico. Igor ordinò a gruppetti di guerrieri di
perlustrare l’isola e cercare sorgenti di acqua dolce. Orgoglioso di sé
e forse riconoscente al mio Dio, Igor estrasse un coltello e mi liberò
dei lacci che mi legavano i polsi. Non so perché non mi avessero
ucciso. Superstiziosi com’erano, non mi avevano ucciso temendo un
maleficio infernale. In silenzio, ringraziai il Signore:
“Pater noster qui es in coelis, santificetur nomen tuum…”
Le sentinelle spedite in perlustrazione erano discese trionfanti,
indicando che alla base di un’altura nell’interno, c’era una grossa
fonte d’acqua ed un laghetto. Le donne ed alcuni ragazzi si
affrettarono con recipienti di creta ed otri a risalire il corto colle
per raccogliere il prezioso liquido. Il tesoro dei Gothi
accumulato su un telo verso il sottobosco, luccicava sotto i primi
raggi solari che divenivano roventi.
Lumina solis super arbores
iridescentes vinxit absoluta in apio coelo.
Il mare si era chetato e la nave, una vecchia trireme romana che
forse aveva superato il secolo, sonnecchiava immobile davanti a noi.
Udimmo altre grida più concitate. Alcuni dei guerrieri armati di asce e
di coltelli, spediti da Igor in perlustrazione sulle costa occidentale,
tornavano gridando al portento ed indicando un punto dall’altro lato
della spiaggia. Dopo aver parlato con loro, Igor volle andare a vedere
e disse verso di me:
“Vecchio, tu sei segnato dagli dei benigni. Vieni dunque con noi a
vedere di che si tratta.”
Mi tenevano in vita perché ero l’unico a conoscere la scrittura e
capace di tramandare le loro vicissitudini? Con Igor e la maggior parte
dei guerrieri mentre gli altri sostavano in spiaggia, risalimmo un
basso costone roccioso e passammo oltre un tozzo promontorio. Vedemmo
infine il portento. Una scultura marmorea, più grande e massiccia di
qualsiasi tempio pagano, più alta delle piramidi d’Egitto, si levava
sul placido Oceano, ad occidente. L’opera magna distava duecento e più
braccia dalla riva. Rappresentava una gigantesca dea, emergente dalle
acque marine. Non poteva che essere la scultura tentatrice di un essere
demoniaco, nella integrale nudità. Opera di smisurata magnificenza,
simile alla Sfinge d’Egitto. La gigantesca scultura in parte emergeva
dall’Oceano ed in parte ne era sommersa. Di certo, un potente popolo,
con migliaia di schiavi aveva eseguito l’opera eccelsa. Un misterioso
popolo, forse nei secoli scomparso. Ardua, possente fatica toccò alle
schiere di schiavi nello scalpellare, secondo esatti canoni estetici,
il gigantesco et siliceo monumento. La statua raffigurava
una dea pagana del tutto nuda, emergente senza verecondia dalle
profondità oceanine, come Venere dallo Jonio. Enim, si
trattava di un’opera erotica, elevata al cielo per aggraziarsi un
ignoto dio barbarico. Sollevai le tre dita in segno di benedizione,
onde allontanare gl’influssi del maligno. La gigantesca scultura era
come una montagna, o un colle e superava i trecento piedi in altezza.
Pensai che all’origine, un masso emergente dal mare fosse stato
modellato ad arte da un popolo misteriosamente scomparso dall’isola
extrema.
Il volto inespressivo della scultorea opera era di una giovane dea
compiacente, ma lo sguardo era vuoto a perdersi verso il misterioso
orizzonte, là dove il mondo finisce ed incomincia la serie dei sette
cieli. I piedi per intero fino agli stinchi, sprofondavano negli
abissi, a perpendicolo, come le massicce colonne del tempio di
Salomone. La dea pagana era immobile ed osservava come in estasi la
linea remota che segna i limiti oceanici da nessuno superati.
Fu allora che accadde il portento. Nel ricordo, persiste il dubito
di ciò che vidi. Mirabilia et mirabilia. Fummo senza
fiato. La grande scultura si animò, acquistò colorito umano e d’un
tratto si girò verso di noi con sguardo umano. Non credemmo a ciò che
vedevamo. Ci guardavamo l’un l’altro. Il cielo ebbe sia pur per poco,
un cangiante aspetto. Apparve una sottile e lucente trama, come una
vasta rete di pescatore: una rete non di spago, ma di luminescente
filo. Ad alcuni, parve una ragnatela, o una nuvolaglia nel cielo
aleggiante. La lucente trama setosa, diaframma tra questo e l’altro
mondo, avvolse l’enorme e muta statua, vivificandola all’istante.
L’opera magna ebbe davvero esistenza novella e come un colosso di
ciclopica fattezza si mosse e parlò. Verso di noi, con roboante voce,
dunque disse:
“Ave, sono Hypnos, sorella di Thanatos e figlia di
Chronos, il Tempo infinito. Oltre i sette cieli io sono. Vi
aspettavo et nunc vi dico: salverò l’umanità dal baratro
prossimo venturo. Io ingrandirò il pianeta con l’aggiunta di un nuovo
continente che voi umani solo nel 1492 scoprirete. L’umanità avrà a
disposizione nuove terre per espandersi e proliferare. Io manovrerò la
Storia affinché nulla della planetaria trasformazione si abbia
sospetto. Nel nuovo continente, introdurrò antiche tribù che
sembreranno autoctone. Non abbiate timore, ma fiducia.”
Così dicendo, la gigantesca statua tacque e riprese il colore, la
staticità e la fissità della materia amorfa. Utqunque, il
portento non era finito perché sopraggiunse un forte terremoto. Le onde
dell’oceano, poc’anzi chete, presero ad agitarsi frenetiche con
incessanti creste schiumose. La statuaria mole ondeggiò e cominciò ad
inabissarsi, prima lentamente, poi con maggiore rapidità. Le ginocchia,
i fianchi, il prospero seno, il collo, il dolce viso ed infine gli
occhi, la fronte arcuata ed i capelli scomparvero sotto il ceruleo
mare. Fu come se l’abissale gola dell’Oceano l’avesse ingoiata.
Subito dopo, olim coelum deinde il mare si chetò.
Statim, Igor il grande capo dei superstiti Gothi,
ordinò che il tesoro di Alarico fosse gettato in mare, là dove
Hypnos era emersa e poi scomparsa.
Haec rebus in casu aut in quadam
animi pernicone factis perabsurda videntur.
PS. Ho fatto analizzare da più esperti la pergamena,
ingiallita e con piccole chiazze di muffe lungo i bordi. Il responso è
stato negativo. Si tratta di una copia, risalente alla metà del XVII
secolo circa. Secondo gli esperti, è probabile che qualcuno abbia
copiato il testo da una originaria pergamena dell’alto medioevo. Ho
tradotto alcuni nome come per esempio “trave” che nel testo latino è
l’accusativo di trabs-trabis.
A parte tutto, i fatti narrati mi sembrano inverosimili ed assurdi.
Non è credibile che forze aliene abbiano impiantato sulla Terra un
intero continente, le Americhe. Un’operazione di maquillage planetaria
per salvare i destini dell’umanità.
F I N E
Oltre la sbarra
Una voce mi avvisava con autorità, come un annuncio dall'altoparlante
nelle stazioni dei treni:
"Questo è quasi un sogno."
Un improvviso fragore si diffuse ovunque. Non molto distante da sopra
la mia testa disperata per altro, un elicottero da guerra statunitense
(lo si capiva dalle insegne) scese in picchiata, sollevando terriccio e
sassolini che schizzarono dovunque. Mi riparai la bidimensionale faccia
col braccio. Dall'elicottero, partirono dei colpi di mitra qua e là,
senza colpirmi. Già, se uno dei proiettili mi avesse trapassato che
sarebbe accaduto? Ero una semplice figura onirica, trasparente
alquanto. Che poteva accadermi di più? L'elicottero che vidi trattarsi
di un Cobra da combattimento, di quelli usati dagli USA nel conflitto
iracheno degli anni Novanta del Novecento, virò verso una livida
striscia di orizzonte, al di sopra di tozzi e brulli cocuzzoli,
scomparendo alla fine. Il fragore andò via via attenuandosi, fino a che
prevalse l'eterno silenzio di prima. C'era un prima ed un poi?
Un uomo sul metro e novanta, un vero marine compreso la divisa con
elmetto da battaglia, armato di tutto punto, mi avvertiva in inglese
(lingua che da sveglio conosco) di fare attenzione perché a pochi
chilometri c'era un posto di blocco e se non mi trovavano tutto in
regola, non l'avrei passata liscia. Feci cenno di sì e il soldato coi
gradi di caporal maggiore, si ecclissò dentro una delle tante forre che
segnavano dall'alto in basso le desolate alture. Tra me e me dissi:
"Che significa tutto questo?"
Quasi intuendo ciò che mi chiedevo, un omino ben vestito, con giacca e
cravatta, la barba rasata e i capelli a posto anche se radi, spuntò
dall'interno di una delle tante grotte e spiegò:
"Qui, c'è l'eco della terra e dei suoi eterni conflitti. Dicono che
truppe congiunte arabe stiano invadendo la parte sud della Sicilia,
intenzionate a conquistare Roma."
Di rimando: "E gli USA? E gli altri Paesi europei?"
"Se ne fottono."
"Mi fa piacere…prima o poi, toccherà anche a loro."
"Il soldato che poco prima ti ha parlato è del terzo battaglione di
fanteria USA e combatte la guerriglia contro gl'iracheni, fedeli al
vecchio regime, alleatosi, in queste lande desolate con l'ISIS.
Attenzione, che se uno dell'ISIS ti vede, ti annulla all'istante."
"In che senso, scusa?"
"Ti fa a pezzi con la sua arma, ultimo modello."
"Quale arma?"
"Si tratta di strani congegni che generano onde elettro-magnetiche.
Pistole speciali che formano intensi campi elettromagnetici e che
assorbono per breve raggio, il campo bidimensionale in cui ciascuno di
noi si muove e vive questa residuale esistenza. Caro mio, non lo
sapevi? Siamo come i pesci in una brocca di vetro. Ci muoviamo
all'interno di uno speciale campo bidimensionale. Chiamalo sogno,
chiamalo aldilà, il risultato è lo stesso. Se la brocca si rompe, chi
ci sta dentro, scompare per sempre."
"Che bella cosa."
Ridendo per il mio sconforto, l'omino che poteva essere stato di mezza
età al momento del trapasso in quella specie di aldilà, mi aveva
consegnato un fogliettino colorato. Mi aveva detto:
"E' un invito. Stasera, alle venti del nostro orario ultraterreno, c'è
in piazza una conferenza sulla sanità in Toscana. Parlerà l'assessore
regionale alla sanità."
Mi venne spontanea la domanda, anche se depresso al massimo:
"E io che c'entro? Anzi, che c'entriamo noi con la sanità toscana?"
"Tanto per distrarsi un poco. Tanto, le cose vanno per loro conto. Come
sempre."
"E' come quando seguivamo queste cose della politica per tivù da vivi,
sulla terra."
"Vedo che hai capito. L'assessore parla, riferisce cose che più non ci
riguardano e noi facciamo finta di ascoltarlo con interesse. Comunque,
qualcuno ancora in vita sulla terra che c'interessa, per esempio un
figlio, la moglie rimasta vedova…più o meno tutti ce l'abbiamo e
quindi, un certo interesse ce l'abbiamo. Poi, siamo stati di carne ed
ossa e quindi, non del tutto estranei agli eventi terreni. Uno si
distrae, ricordandosi del vero mondo, quello tridimensionale."
Avevo riposto nella bidimensionale tasca il bigliettino dell'invito.
Gli avevo detto grazie e lui di conseguenza si era ecclissato nella
rispettiva grotta, come un mollusco sotto il rispettivo scoglio. Gli
gridai, sperando che riemergesse dall'antro e mi fornisse altre
spiegazioni. Dovevo capire. Le sorprese anche nell'aldilà problematico
non mancavano:
"Il Giudizio Finale di Giotto che sulla Terra ho da poco ammirato dov'è
finito?"
Nessuno rispose. Gridai più forte:
"Se uno è stato buono o stronzo, è la stessa cosa? Nessuno è qui
preposto per il giudizio estremo, quello che una volta emesso è
intangibile?"
Rispose la voce di un grande saggio, tipo Socrate o Platone, o
Aristotele, o tutti e tre fusi insieme. Da dietro una rupe, dunque
disse:
"Ascolta, sono un saggio e ti dico che l'eternità va ripetuta, le
generazioni cambiano, gl'individui sono transeunti e nulla si ferma,
persino l'eternità. Non c'è un Giudizio Finale definitivo: qui tutto è
opinabile e passeggero, anche se nell'apparenza nulla si muove e muta."
Da un grottino propinquo, una nuova vocina emerse con un'unica, ma
assai efficace parola, non so se diretta a me o al saggio:
"Non rompete."
Subito dopo la mia meraviglia, risposi con fermezza, come a sparare nel
buio:
"Calma."
Una nuova voce tossicchiando gridò:
"Le cose che tu dici in questo posto non contano più."
Venne avanti un altro omino, alquanto depresso in faccia, sbucato da
una delle tante forre in semibuio permanente. Vestiva con pantaloni di
lana grigio-chiaro, giacca a due bottoni, aperta sulla pancia
debordante e a quanto vidi, scarpe nere e ben lucidate a mano. Mi
disse, ragguagliandomi alquanto: "Vedi? non andare da quella parte."
Col dito m'indicò delle basse alture verso est. Disse: "Lì c'è lo
sbarramento."
"Che sbarramento. Anche qui ci sono i confini."
L'omino fece un fischio e con la mano pendula come un orologio a muro
fece intendere di sì, e come! Disse: Da quelle parti, c'è la sbarra.
Può oltrepassarla chi in terra ebbe un reddito medio di un milione di
euro all'anno."
"E gli altri?"
"Vanno girovagando come te, o s'infilano in una forra e lì rimangono
come me."
"Che c'è oltre lo sbarramento?"
L'omino disse chiaro e tondo: "Il paradiso."
Nel sogno mi sembrò di non aver udito bene: "Che?"
"Oltre lo sbarramento, c'è il paradiso, ma solo per chi superava un
dato reddito da vivo. Oltre la sbarra, ci sono belle donne,
divertimenti, spiagge deserte, bungalow, yacht, casinò."
Mi misi a ridere: "Donne? E che ci fanno con le donne?"
Risposta pronta: "Ci convivono."
"Come?"
"Lì, ma solo nel paradiso, c'è la tridimensionalità. Qui no."
"Incredibile."
"O.K?"
"Suppongo che questo è l'inferno."
"Logico."
"E il purgatorio?"
"Non c'è una netta linea di demarcazione purgatorio - inferno."
L'omino si scocciava, disse ciao e sparì nella sua forra più sconsolato
di prima.
Ci fu il silenzio assoluto, come quando non si muove una foglia.
Nessuno più si udiva, né su quella specie di suolo grigiastro, né nel
livido cielo. L'elicottero da guerra volato via, oltre la catena quasi
regolare di calve colline, appena schiarite da un lucore verdognolo e
statico.
La voce di prima mi avvertiva: "Ora svegliati."
Sbadigliando, aprii gli occhi. Mi ricordavo dello strano sogno che a
dire il vero, sembrava più una visione, un breve trapasso in una
angosciosa nuova dimensione.
F I N E Fiction
Si faccia finta di giocare una partita di serie A, di B, o di C. Non
importa il numero dei gol. Secondo le nuove norme approvate dalla UEFA e
sottoscritte dal CONI, non vale se una squadra vinca una partita di
football, la pareggi, o la perda. Il risultato è lo stesso. Alla fine,
deciderà il comitato di saggi. Idem, al termine del campionato. I saggi
decideranno a chi spetti lo scudetto, a chi la retrocessione in B, od in
C. Viceversa, gli stessi decideranno per le promozioni in A, in B, o in C.
C’era stato chi aveva obiettato - ed a ragione - che si desse troppa
importanza ai goal, invece esistevano energie occulte e professionalità
inespresse che andavano valutare al di là dell’arido punteggio. Per
esempio, gli scatti indietro delle ali tornanti a prevenire le sortite
degli avversari, oppure i passaggi smarcanti dal centrocampo, i passaggi
brevi a volo, le testate con l’effetto che per puro caso non davano il
goal. Guizzi di genialità che meritavano il giusto prezzo. Le interviste
sui giornali sportivi, su quelli dei gossip, o sui quotidiani locali
esprimevano unanimità di opinione: liberalizziamo il calcio. Non più la
vittoria di una squadra in base al numero dei goal, ma si dia spazio al
merito individuale, esibito nel gioco di squadra. Viva la solidarietà
sportiva. Aboliamo le classifiche fuorvianti dei cannonieri. Viva il
merito, aldilà dei goal. Via la spettacolarità e stop alle caviglie
fratturate, ai menischi lesionati ed all’agonismo spinto. In base alla
nuove regole, cominciarono ad entrare in campo come titolari, vecchi
sessantenni, alcuni settantenni e qualche ottantenne di forte fibra. Quasi
tutti vantavano parenti nel comitato dei saggi, nel CONI e presso
l’Assessorato Sport e Cultura. Il risultato pratico fu che si fingeva di
giocare. In campo, si chiacchierava del più e del meno. Sugli spalti, non
c’era quasi nessuno. L’assenza degli sportivi negli stadi era stato
previsto. Ad ogni partita, lo Stato distanziava tot milioni di euro da
spartirsi tra le due squadre, più le spese per l’affitto dello stadio
comunale ed il trasporto dei giocatori. Con laute ricompense, provvedeva
lo Stato per l’arbitraggio ed i segnalinee, così come per le
organizzazioni televisive che fingevano di trasmettere le partite. Allo
scadere del novantesimo minuto, il club sei saggi riunitosi ad hoc,
assegnava via computer la vittoria, il pareggio, o la sconfitta ad una
delle due squadre. Inappellabile era il parere dei saggi. La tivù
diffondeva i dati e la classifica, aggiornata al novantesimo minuto. I
giocatori trascorrevano i novanta minuti parlottando del più e del meno e
lasciando fuori campo il pallone. L’arbitro fingeva di non guardare anche
per mancanza di falli ed i segnalinee giocavano a scopone. Per volere
perentorio della terna arbitrale, i giocatori dovevano indossare con
meticolosità le magliette nuove, i calzoncini ad hoc, i calzini e le
scarpette della propria squadra. Un ordine nel vestire come i militari in
divisa. I giocatori titolari dovevano avere il fisico asciutto, niente
pancia con grasso addominale, o ai fianchi. Chi era in sovrappeso doveva
fare dieta, perentoriamente.
A volte, qualcuno dei giocatori non resisteva e per istinto atavico si
permetteva di sferrare almeno un calcio al pallone, o azzardare un tiro
non pericoloso verso porta. Con speditezza, interveniva l’arbitro che
richiamava il giocatore ribelle ed al terzo fischio lo espelleva. Tutto
dipendeva dalla valutazione finale da parte della squadra dei saggi
ch’elargiva sentenze come la Sibilla dell’antichità. In tivù al
Novantesimo Minuto, si discuteva animatamente sul risultato, sui
pronostici di classifica, sugli schieramenti in campo e sulle future
tattiche in base alle quali il collegio dei saggi avrebbe deciso in senso
positivo per una, o l’altra squadra in campo.
I sindacati sportivi proposero di allargare ed allungare la superficie di
gioco, aggiungendo nuova erbetta, ridisegnando le linee del campo ed
incrementando la distanza tra le porte. Anziché undici giocatori, potevano
scenderne in campo tredici ed anche quattordici, tutti con la retribuzione
da titolare. Potenziando il numero degli effettivi, di conseguenza
bisognava provvedere ad incrementare quello dei riservisti, dei medici
sportivi e degli eventuali raccattapalle. Si dovevano arruolare schiere
d’architetti per ampliare gli stadi, visto che il numero dei giocatori era
stato maggiorato fino a quattordici e di conseguenza, l’area di gioco. Il
provvedimento fu esteso all’istruzione pubblica (scolastica ed
universitaria), alle assunzioni dei medici negli ospedali, dei giudici nei
tribunali e di tutti gli altri settori del pubblico impiego e nel settore
privato. In politica, proliferarono i posti d’assessore regionale,
provinciale e comunale. Il parlamento ed il senato furono raddoppiati di
numero. Qualcuno disse che sarebbe stato logico raddoppiare anche i
presidenti della Camera, del Senato e della Repubblica. La democrazia
sarebbe andata meglio con più teste pensanti, nei posti apicali. L’esempio
di liberalizzazione fu eseguito anche nell’aldilà. Via l’inferno e tanto
meno il purgatorio. Si va tutti in paradiso. Si faccia finta di essere
buoni. La cattiveria non esiste nel profondo. Tutti saranno felici, purché
non diano fastidio alla casta dei beati: gli arcangeli, i troni, i
cherubini ed i santi di nuova nomina.
La tigre dai denti a sciabola
La montagna scendeva a picco sul mare. Alla base c'era una soleggiata
insenatura sabbiosa. L'acqua marina limpida invitava al bagno ed al nuoto.
Per la configurazione orografica, la spiaggia era raggiungibile solo dal
mare con barche e motoscafi. Sparuti escursionisti arrivavano in spiaggia,
calandosi con funi, lungo le pareti a perpendicolo. I bagnanti si
spingevano ad esplorare le grotte circostanti. Gl'innamorati, camminando
in equilibrio sugli scogli, andavano ad amoreggiare tra le forre. In una
grotta, su una roccia piatta, un bagnante scoprì una pittura
impressionante, forse del Neolitico. Radunò dalla spiaggia gli altri e
mostrò il portento. Dissero che era uno dei tanti murales, un dipinto su
parete. Poteva misurare oltre i cinque metri di lunghezza e quattro di
altezza. Ritraeva una gigantesca tigre dai denti a sciabola, nell'atto di
saltare in avanti, la bocca spalancata coi canini a sciabola in bella
mostra e gli artigli delle zampe anteriori, pronti alla predazione. La
belva si materializzò, uscendo da remoti cunicoli spazio - temporali. Con
prolungato, terrificante urlo, cui fecero eco i bui recessi della grotta,
s'avventò sui malcapitati. Infisse i canini come pugnali nei crani dei
bagnanti più vicini. Squarciò la gola a quelli in fuga, spezzò le costole,
cosce ed arterie a quanti cercavano di tuffarsi in mare. L'insenatura
sabbiosa fu piena delle grida disperate dei bagnanti in fuga, oltre ai
latrati della belva. Il bagnasciuga tinto di sangue. Da una barca, un
villeggiante, munito di una super - otto prontamente filmò la scena.
Sgozzati i bagnanti sulla riva, la grossa tigre s'infilò nella grotta da
cui era uscita, scomparendo.
Sbarcata sulla spiaggia dell'eccidio, la squadra speciale dell'esercito
non trovò la belva. Il commissario incaricato delle indagini concluse
ch'era un caso anomalo. A conferma dell'ipotesi, c'era il filmato del
video - amatore. C'era da esaminare il dipinto sulla roccia che ritraeva
per davvero una enorme tigre dai denti a sciabola con la bocca
insanguinata. La Scientifica dedusse che si trattava di pittura ad olio su
pietra, opera di un artista contemporaneo. Però le macchie rosse intorno
alle fauci erano vero sangue umano. L'enigma s'addensò. Realtà, visione,
illusione ed incantamento, fusi intrichi inestricabili. Verità oltre
remoti mondi. Un poeta scrisse:
la realtà vaga volando simile ad un sogno.
Freud
Racconto lungo
Freud scoprì l'inconscio e la sua dinamica, governata da forti ed oscure
pulsioni.
Nel maggio del 1914, Sigmund Freud ebbe come paziente la baronessa
Margherita von Kerstel, nata a Tharsch, una cittadina ad est di Vienna. La
baronessa aveva ventisette anni, portamento regale, viso di una ventenne,
molto bella, alta e ben fatta. Pelle chiara, liscia, due stupendi occhi
verde smeraldo e pettinatura vaporosa coi capelli corvini, chiusi da una
cloche aderente sulla testa ad incorniciarle il volto. Nata a Praga da una
famiglia di banchieri internazionali e di mercanti, era stata allevata in
un palazzo grande come un intero isolato. Aveva sposato il barone Erwin
von Kerstel, facoltoso console generale che prestava servizio al ministero
degli Esteri. Il matrimonio era stato celebrato nella Votivkirche,
disegnata e costruita dal padre dello sposo, Heinrich von Kerstel, uno dei
più eminenti architetti della capitale.
Freud sapeva che tra la baronessa ed il marito non c'erano problemi di
coppia. Sposati da sei anni senza prole, continuavano a volersi molto
bene. Lo studio medico di Freud era nella parte media della ripida strada
di Berggasse, più giù del laboratorio del prof. Brücke, un suo vecchio
amico. La baronessa era arrivata in carrozza. Vestiva un abito di velluto
in due pezzi. Corpino e gonna in velluto di seta viola. Il busto, come la
moda imponeva, le spingeva in fuori il pingue seno, le irrigidiva la
schiena, conferendole slancio ed alterigia. Impressione accresciuta dai
lunghi colletti steccati che raggiungevano il sotto mento, costringendo a
mantenere la testa ben eretta. Tra corpino e gonna, una cintura azzurra
assecondava la forma del corpino, abbassandosi sul davanti. Lunghe frange
merlettate, bianche e color pastello partivano dalle spalle, scendendo a V
sul petto, verso la cintura. Freud la fece accomodare sulla poltrona di
fronte alla finestra e di lato alla massiccia scrivania di noce. Era la
poltrona in pelle riservata agli ospiti importanti. L'aveva fatta portare
apposta dall'appartamento al primo piano dove abitava con la famiglia. Il
suo studio era invece al pian terreno dello stesso stabile, lungo la
Berggasse.
Le si sedette di fronte con un taccuino ed una penna, pronto a prendere
appunti. La donna disse d'essere molto agitata. La notte prima non aveva
dormito: "Dottore, mi aiuti. Non so cosa mi stia accadendo. E' tutto così
assurdo."
"Si calmi. Forse lei ha allargato troppo la sfera dei suoi impegni e
dovrebbe riposare con la mente, per un breve periodo di tempo. Distrarsi.
Un bel viaggio con suo marito…"
"Le mie giornate si fanno sempre più complesse. E' vero. Ho troppi
impegni."
"Possiamo affermare che lei ha una necessità irresistibile ad essere in
azione."
La baronessa chinò la testa, poi lo guardò con espressione piena di
candore. Infine si decise a svelargli tutto. Era lì per questo. Liberarsi
dei suoi demoni. Divenne di nuovo molto seria. Adesso, era davvero una
donna disperata. Disse:
"Dottore, sento dentro di me una forza che mi trascina. Ho paura di
restare sola. Se resto sola ho paura che questa forza irrazionale, questo
spirito malefico, mi costringa a fare cose che non voglio. Per questo devo
stare con la gente, con le persone importanti, devo avere un'occupazione.
Devo fuggire da me stessa. Ho paura di restare sola. Se resto sola per un
po'…mi confido adesso solo con lei, neanche mio marito lo sa…"
"Dica, dica tutto."
"A volte, sento una voce…dentro di me c'è qualcuno che a volte si mette a
gridare ed a giudare la mia volontà. A volte, ne sono assoggettata nel
corpo, nella mente e nell'anima."
Freud non si aspettava che la donna soffrisse di uno sdoppiamento della
personalità:
"Baronessa, non esiti a raccontare tutto. Si confidi. Siamo qui per
risolvere il suo male."
"Le cose si sono aggravate nell'ultima settimana, ecco tutto. Mio marito
ignora queste cose. Oppure fa finta. Forse sospetta qualcosa del mio
carattere che traballa, la mia personalità che non è più stabile come una
volta….Dottore, io non sono più certa della mia identità."
"Dica cosa le accade. Lei è giovane e c'è la possibilità di guarire da
qualche ossessione. Ognuno di noi ha una nevrosi."
"Domenica…sei giorni fa è iniziato il mio calvario. Domenica scorsa, di
pomeriggio avevo chiamato il giovane stalliere che accudiva il mio cavallo
preferito."
"Lei ama i cavalli?"
"Oh, da morire! Fin da ragazza sapevo cavalcare ed andavamo nei boschi,
fuori città. La casa ha una grossa proprietà verso sud, piena di boschi,
di ruscelli e di prati."
"Perché dice andavamo nei boschi. Con chi ci andava?"
"Ho fatto un errore di linguaggio. Di solito, ci andavo da sola. Forse
intendevo dire col mio cavallo…"
Freud annotò il lapsus. Scrisse sul taccuino: la baronessa ha usato il
verbo al plurale. Ha detto ci andavamo, senza una precisa causa. La
baronessa continuò a raccontare:
"Dottore, è terribile cosa ho fatto."
Aveva prelevato un fazzolettino bianco da sotto la manica e si asciugava
la fronte, anche se non era sudata. Si passò il fazzolettino alle labbra,
riponendolo nel taschino della manica merlettata. Disse alla fine:
"Dottore, domenica scorsa di pomeriggio, avevo chiamato il giovane
stalliere che accudiva il mio cavallo preferito. Lo avevo fatto accomodare
nella sala degli ospiti. Il ragazzo era impacciato e non si era neanche
seduto. Aveva i lunghi stivali di pelle ed il pantalone da stalliere
appunto, quello elastico ed aderente. Si era piazzato al centro della
sala. La voce dentro di me comandava di fare ciò che feci. Ero schiava di
quella voce che diceva: "Lo stalliere è bello. Mostrati a lui. Anche tu lo
sei."
La donna aveva vergogna a continuare. Era tutta rossa in viso. Freud la
incoraggiò:
"Parli, dica tutto. Solo così, ha la speranza di guarire."
"Ho detto allo stalliere: guardami e poi vai via per sempre."
La donna esitava a proseguire nel racconto. Freud la incoraggiò: "Poi cosa
accadde?"
"Mi sono girata di spalle…"
La donne esitava. Una lacrima le scendeva da una guancia. Freud la
incoraggiò di nuovo:
"Si liberi del Male, baronessa. Dica cosa le sta accadendo."
"Ecco, Her doctor…Mi sono tirata su la gonna, mostrando le natiche nude e
piegandomi col busto in modo che lo stalliere mi vedesse meglio. Avevo
solo delle calze colorate e nient'altro sotto."
La donna si era messa a singhiozzare.
"Poi cosa è accaduto?"
"Sotto non mi ero messa nulla. Non avevo neanche le mutande. La voce che
guidava la mia coscienza mi diceva di avere un amplesso amoroso col
ragazzo. Ho obbedito. Gli ho detto di non andare via, di buttarmi con
forza sul letto. Ho detto: divaricami con forza le cosce, osserva bene i
miei genitali, guardami bene come sono sotto. Guarda. Infime, mi ha
posseduta come io volevo e lui voleva. Durante il coito, mi accadeva di
vivere un evento straordinario. Godevo come mai avevo goduto, ma ero
conscia di vivere in un mondo che non era questo. Mi capisce?"
"Sì, anche se è molto difficile, ma comprendo ciò che le è accaduto."
"Giacevo sul letto ed ho avuto la netta sensazione che il mio io, la mia
identità eterea fosse volata in alto verso il soffitto della camera e
potevo osservare me stessa giacere sotto il giovane. Ero sul letto ed ero
altrove, sospesa sotto il soffitto. Fatto l'amore, ho detto allo stalliere
di andare via. Fatto l'amore, mi sono rimessa diritta, aggiustata la gonna
ed ho dato dei soldi allo stalliere perché andasse per sempre via da lì e
non si facesse mai più vedere. Il giovane ha accettato i soldi. Incredulo
di quanto accadeva, mi ha fissato negli occhi dicendo solo: "Ma perché?"
"Gli ho detto: sono molti soldi. Vai via per sempre da qui. Il giorno
dopo, il ragazzo è sparito, almeno fino ad adesso. Ho paura che racconti a
qualcuno ciò che gli è capitato e che torni in compagnia d'altre persone
per ricattarmi. Non so cosa mi accada, dottore."
La donna stava per piangere ed aveva in mano di nuovo il fazzoletto,
passandoselo sotto gli occhi. Freud le fece coraggio: "Signora, non si
abbandoni allo sconforto…Continui, la prego. Come si spiega ciò che le
accade?"
"Una voce…le ho detto che una voce mi ha imposto di fare così. Una voce ed
una forte pulsione….una forza irrazionale padroneggiare il mio corpo…"
"Una voce di donna, o di uomo?"
"Una donna…A volte la vedo pure. Prima…prima di una settimana fa la vedevo
solo nei sogni, nei miei incubi. Mi svegliavo di botto, sentivo il mio
cuore palpitare forte e mettevo mio marito in agitazione perché prima di
svegliarmi gridavo, o emettevo dei gemiti prolungati."
"La donna che vede nei sogni e che a quanto ho capito, adesso comincia a
vedere coi suoi occhi da sveglia, è giovane, è bella?"
"E' identica a me."
Freud non si scompose. Continuava a sedersi di fronte a lei, a poca
distanza. Una bella donna, giovane, ricca e nobile. Una che
inesorabilmente si avviava per le buie vie del delirio. Osservò il suo
sguardo. Tutto sembrava normale in lei. Lo sguardo non era stranito. Non
c'era isteria, una delle tante forme descritte da Charcot. Oppure,
l'isteria appariva con improvvisi attacchi e poi spariva del tutto. Un
caso da studiare con interesse. Nel campo della psiche, i cambiamenti sono
sempre lenti. Freud sapeva che l'ossessione andava curata presto. A volte
però gli occorrevano settimane, o mesi per portare il paziente a rivelare
le cause vere dei malesseri. Era ossessione, isteria, nevrosi generica la
causa? Le disse:
"Baronessa, lei ha detto che vede questa donna, questa sua sosia."
"Non l'ho vista solo io. Anche due donne che erano con me, due mie amiche
l'hanno vista. E' stato l'altro ieri. Ero con delle amiche a casa mia,
nella stanza di soggiorno. Quindi, io penso: se ciò che vedo io lo vedono
anche gli altri, allora non sono pazza. Però, l'ho vista anche da sola. E'
accaduto ieri pomeriggio. Ero nella mia camera da letto e mi pettinavo da
sola davanti allo specchio."
"Può entrare nei particolari? Può esporre i fatti nei particolari?"
Forse ci voleva un prete, o un esorcista anche se non credeva agli
esorcisti-stregoni. Freud pensava che tutto dipendesse dai fantasmi della
mente. Per principio, era contrario agli esorcisti. La scienza medica era
un'altra cosa. La baronessa descrisse i fatti nei particolari:
"L'altro ieri pomeriggio ero con due amiche. Stavamo sedute sui divani,
intorno al tavolino e sorbivamo del tè. Le tende della stanza erano aperte
e dalla vetrata del terrazzo filtrava la forte luce del giorno. Sebbene
primavera inoltrata, fuori c'era vento freddo. Per questo, non facemmo
colazione sul terrazzo. Una delle mie amiche era un po' raffreddata.
Parlavamo di varie cose. All'improvviso mi sono alzata senza un motivo e
sono andata nei pressi della veranda a guardare fuori, in giardino.
Ammiravo le rose vermiglie cresciute nei vasi, intorno alla grande vasca.
D'un tratto, Iolanda, la più giovane delle due si era messa a gridare a
noi altre: "Guardate. Oddio!"
"Mi sono girata verso l'interno della sala ed ho notato i loro sguardi
terrorizzati. Erano impietrite e mi fissavano. Iolanda indicava un punto
della camera, non distante da me. Ha detto: "Ma siete due."
Anch'io ho constatato il portento. Dottore, è incredibile. Di lato a me,
c'era una mia sosia che stava ferma, diritta nella sala e che mi
osservava. Sembrava in carne ed ossa. Non era una immagine eterea come un
vero fantasma, capisce? Se tenevo le mani sul grembo, lei sollevava le
sue. Se mi muovevo, lei stava immobile e viceversa. E' difficile da
capire. E' tutto così assurdo."
"Baronessa, ci provo a capire…"
"Sembrava indifferente alle mie amiche. L'altra amica, Franca era corsa ad
aprire la porta, ma inutilmente perché qualcuno l'aveva serrata. Anche lei
era rimasta impietrita come una statua tra il camino di marmo e la
consolle che fa angolo, verso la vetrata. Tutte e tre a fissare la mia
sosia. Nella sala, c'era una che vestiva come me, una identica a me."
"Com'era vestita?"
"Indossava un marezzato bianco perla."
"Se non sbaglio, è un tessuto che grazie ad una lavorazione particolare
dopo la tessitura, acquista il tipico aspetto ad onde."
"Sì. E ciò era molto impressionante. Quel tessuto le dava un aspetto
ancora più sinistro, qualcosa di transeunte…qualcosa d'ultraterreno…"
"Capisco…"
"Sembrava che mi specchiassi in lei, ma se mi muovevo, lei era ferma e se
accennava ad un passo in direzione della veranda, passando davanti a
Franca rimasta incollata alla parete… quando camminava, si muoveva in modo
indipendente da me. Ho anche cercato di toccarla. Ero in uno stato di
catalessi: non provavo paura, terrore, gioia, dolore…Mi sono accorta che
c'era resistenza al tocco. Non so…una specie di muro invisibile. Però, la
resistenza non era forte ed il mio braccio poteva alla fine penetrare in
quell'immagine eterea. Dopo il tentativo di afferrare la sosia per un
braccio, da vera incosciente, Jolanda si è fatta coraggio, cercando di
abbracciarla. Invece, le è passata da parte a parte, attraversandola come
si attraversa un'ombra eterea, o un vero fantasma."
"Suppongo che tutta Vienna ne parli."
"Ho chiesto a Iolanda ed a Franca di mantenere il segreto, di non dire
niente in giro. Almeno, di azzittire per un po' di tempo."
"Molti non ci crederanno. Lei smentisca tutto. Lei dica che non è vero.
Dica che le sue amiche hanno troppa fantasia. Dica che era tutto uno
scherzo."
"Sì, ma sono accadute altre cose prima che questa mia sosia sparisse."
"Cosa è accaduto?"
"Ha cominciato a parlare. Si è piazzata al centro della sala ed ha detto
delle frasi tremende. Ho ancora i brividi addosso. Ha detto: ascoltatemi.
Vedo sollevarsi un gran fuoco, nelle cu fiamme sprofonderanno i
continenti. La Storia umana sarà inghiottita nella grande brace. La fossa
comune seppellirà in abbondanza donne, uomini, vecchi e bambini. Il Male,
lo stesso Male che uccise me ed il mio bambino avvolgerà il pianeta,
nebulosa nefasta. "
"Una profezia. Una terribile profezia. Non si preoccupi per questo. Ci
sarà una soluzione. Un appiglio da cui partire per illuminare il Chaos che
avvolge la sua mente. Baronessa, la sua mente è integra, ma assediata da
oscure pulsioni."
"Dottore, temo che le cose andranno sempre peggio per me. Gl'incubi
notturni…la voce aliena che mi costringe ad atti assurdi…questa mia sosia
che appare anche in presenza delle amiche…"
"Torni nel mio studio domani. Domani nel primo pomeriggio. Vedremo se si
può fare qualcosa con l'ipnosi. In ogni modo, consiglierei di mettere suo
marito al corrente di tutto, o quasi. Quella cosa che ha fatto davanti
allo stalliere, per adesso può anche tacerla a suo marito. Per il resto,
dica tutto. Vedrà che suo marito capirà e cercherà di aiutarla."
La donna era andata via. Freud aveva udito le ruote ferrate della carrozza
allontanarsi lungo la discesa di Berggasse con forte stridio di freni. Non
era salito subito su dalla moglie ed i figli. La giornata era soleggiata.
Aveva chiuso il taccuino degli appunti e si era messo a passeggiare da
solo. Sapeva che molti disturbi di cui le giovani donne sposate soffrivano
erano causati dai segreti d'alcova. Raramente gli riusciva di avere
qualche indizio preliminare. In conseguenza della pudibonda educazione,
queste donne avevano una forte ripugnanza a parlare di cose sessuali anche
col loro medico. Però a volte, arrossendo e balbettando, nascondendosi il
viso, finivano con l'ammettere la verità che era quasi sempre la stessa:
un marito maldestro, frettoloso, noncurante, che non dava alla compagna il
tempo di partecipare al godimento. Il marito le saltava addosso, si
sfogava e si ritirava come un animale.
Il caso della baronessa era diverso. L'apparizione del sosia era stata
notata anche dalle due amiche. Difficile pensare che si trattasse
d'isteria collettiva. Freud, smise di pensare alla psicanalisi ed ai suoi
pazienti e continuando a passeggiare, respirando profondamente osservò il
mondo circostante. Si trovava lungo il canale del Danubio, camminando
all'ombra dei salici piangenti e contemplando la prospettiva dei ponti che
si susseguivano sullo sfondo verde cupo di Wienerwald. La riva opposta era
tutta una fioritura di rose vermiglie, gerani, calendule, e lupinaie.
L'acqua correva rapida tra gli argini in muratura. Giovani madri
spingevano nelle carrozzelle i loro bambini, approfittando che non c'era
vento. Sulle panchine e sui parapetti, c'erano persone sedute con la
faccia esposta al sole calante, gli occhi socchiusi a godersi il dolce
tepore. Si era alzato un po' di vento scompigliando i petali dei fiori. I
colori si erano mescolati cadendo sulle aiuole. Osservò il grigio di un
sasso ai bordi della via, il guscio di una lumaca attaccata sulla foglia
di un eucalipto. Per un attimo la vita segreta della natura si era quasi
svelata. Di nuovo, avvenne che nell'aria ci fosse un soffio di vento. I
colori presero ad abbagliare nell'aria tersa e lucente: solo foglie verdi,
iridescenti e fiori multiformi. Tornò verso casa e riprese a pensare: ogni
elemento della psiche ha una sua traccia. Ogni atto, ogni parola, ogni
visione ha un significato. C'è un contenuto latente nelle cose, in tutte
le cose, animate ed inanimate. Ci doveva essere un terribile segreto sotto
la felice e placida esistenza della baronessa.
La notte, Freud ebbe un incubo. Aveva addosso un camice bianco e si
trovava in un manicomio. Adesso, gli stava di fronte la baronessa von
Kerstel con una lunga gonna bianca, tutto d'un pezzo, una specie di
tunica. Lui la stava visitando. Lei aveva aperto la bocca e lui ne
osservava la dentizione e la lingua. Nella parte interna delle labbra e
delle guance, c'erano placche bianchicce. Lui pensava che la baronessa
fosse malata. Aveva chiamato il dottor Breuer che ripeteva l'esame e
confermava le constatazioni di Freud. Il dottor Breuer aveva un aspetto
molto diverso dal solito: pallido come un cadavere, zoppicava ed era ben
rasato. Breuer disse che la donna era malata, ma anche morta. A quel
punto, la donna che indossava adesso un camice bianco come quello di un
medico, levitando a circa un metro da terra, malediceva tutti, diceva per
tre volte: morte, morte, morte e spariva da una finestra, volando come un
uccello con le braccia aperte. Davanti a loro appariva la vera baronessa
von Kerstel che sorrideva verso di lui e verso il dottor Breuer. La vera
baronessa von Kerstel indossava il vestito raso di velluto come lo portava
la volta che lui l'aveva psicanalizzata. La donna se ne usciva da una
porticina, salutandolo e sorridendogli. Si erano spalancate le ante del
reparto dove stava Freud ed il dottor Breuer. Era entrata una folla di
pazzi furiosi che li assalivano e li massacravano. A quel punto Freud si
era svegliato. Ansimava nel letto ed aveva la fronte sudaticcia. Il cuore
gli martellava dentro. Si guardò intorno. Il crepuscolo mattutino
attraversava le vetrate e penetrava dalle imposte socchiuse delle
finestre. Sua moglie Martha dormiva beata al suo fianco. Le due figlie
stavano di là nelle rispettive camerette. Si portò le dita della mano
sinistra alla fronte e nel silenzio profondo della casa, cominciò a
riflettere. Disse tra sé e sé: quale collegamento esiste tra tutti gli
elementi del mio sogno, apparentemente irrilevanti e scombinati? Quale può
essere il comune denominatore? Qual'era il significato del sogno? Perché
vedevo tutto come se fossi io al centro della scena? Il mio io era dunque
lì? Il mio io era trasmigrato in una regione al di fuori del mio corpo? E
se lo scopo dei sogni fosse quello di liberare dalle profondità
dell'inconscio ciò che l'individuo realmente desidera? Non le maschere,
non i travestimenti, non i sentimenti occulti, non le aspirazioni fallite,
ma ciò che l'individuo nel punto più intimo e più vivo del suo cervello
desidera ardentemente che accada, o che fosse accaduto. Che sorprendente
meccanismo. Com'è possibile che tutti, me compreso, abbiano visto nei
sogni soltanto la materia di cui è fatta la follia? Nel sogno volevo che
avvenisse una scissione tra la vera baronessa von Kerstel e la sua
immagine malata. Volevo salvare la baronessa, liberandola dal suo alter
ego annidatosi nelle profondità della sua mente?
Il dottor Freud era stato il primo a far luce d negli abissi della mente
umana. Al successo, contribuiva l'assoluto isolamento del gabinetto in cui
riceveva i clienti, senza la presenza di cameriere, o di membri della
famiglia. Predisponeva gli appuntamenti in modo tale che i pazienti non
s'incontrassero mai tra loro. La quasi maniacale austerità dell'ambiente
creava un'atmosfera di raccoglimento che aiutava il paziente a scavare in
se stesso, cercando i ricordi sepolti nell'inconscio. Grave, serio,
studioso, capace d'un profondo interesse, ma con un tocco d'impersonalità,
calmo uomo di famiglia, dignitoso borghese, esemplarmente morale, tutto
riserbo e discrezione, abituato a ricevere le più scottanti rivelazioni
con impassibilità di scienziato, Sigmund Freud aveva davvero quel tipo di
temperamento necessario per il suo delicato confessionale. Seduto di
fronte al paziente, nel suo corretto abito nero, con camicia bianca,
colletto duro, catena dell'orologio di traverso sul panciotto, barba e
capelli brizzolati, ispirava piena fiducia nei suoi metodi e nei suoi
moventi.
La baronessa arrivò nel primo pomeriggio. Era sola. Disse che aveva
parlato col marito dei suoi disturbi. Non gli aveva rivelato tutto,
naturalmente. Il barone Erwin von Kerstel aveva subito acconsentito che si
curasse da un dottore famoso e serio come Sigmund Freud. Di solito, i
pazienti erano fatti accomodare su un comodo divano. Invece, volle che la
baronessa si stendesse su un apposito lettino con lo schienale leggermente
sollevato. La donna aveva fatto come lui chiedeva: s'era distesa tutta
rossa in viso. Dopo averla ipnotizzata, Freud chiese:
"Margherita, io non credo che i suoi disturbi dipendano dalla sua mente
malata. Lei non è malata, ma nasconde di certo un segreto terribile. C'è
stato nella sua vita un avvenimento di grave importanza per la sua salute
fisica e mentale. Finché non me l'avrà raccontato, non potrò aiutarla."
La donna addormentata tacque per alcuni istanti. Poi, con un filo di voce
mormorò una lunga frase in cui egli riuscì a distinguere poche parole:
veleno…aborto…delitto…mia sorella germana…aiuto.
Freud pensò di svegliarla. La donna era troppo agitata. Si vedeva che il
cuore soffriva. Dopo qualche minuto la baronessa pronunciò altre parole
sconnesse: Ada…il bambino…non posso, non posso salvarti…aiuto. La donna
dimenava la testa da un lato e dall'altro. Lui la svegliò. Aveva annotato
quelle parole sconclusionate. Impossibile barare con l'inconscio,
impossibile ingannarlo. L'associazione libera, libera non era in realtà.
Frasi sconclusionate, non erano tali: ogni pensiero, ogni idea, immagine o
reminiscenza era legata ad altre che la precedevano, o la seguivano.
Quando vide che la donna si era calmata, le diede da bere un po' d'acqua.
Lei si era sollevata col dorso sul lettino ed aveva bevuto avidamente. Le
chiese: "Ne vuole ancora?"
"Grazie, no."
Senza esitare, come con una vecchia amica, Freud disse:
"Baronessa lei custodisce un terribile segreto. E' questa la fonte del suo
male. Dica cosa le è accaduto. In trance, ripeteva spesso queste parole:
veleno…aborto…delitto….mia sorella germana…"
"E' questo che dicevo?"
"Sì."
La donna si era messa a sedere sulla poltrona:
"Allora le racconto del mio passato che non è tutte rose e fiori. Però, mi
raccomando. Quanto le dico è un segreto. Lei è un uomo di parola. Non dica
a nessuno quanto le rivelo."
"Solo se si confida potrò aiutarla. Il suo inconscio lotta contro una
specie di mostro. Questo mostro può distruggerla."
Dopo attimi d'esitazione, la baronessa raccontò trattenendo le lacrime:
"La tragedia, perché di tragedia si tratta, avvenne quando avevo diciotto
anni. Avevo una gemella ed io e lei eravamo quasi identiche. Eravamo
germane. Lei si chiamava Ada, ma per scherzo diceva di essere Ade, la dea
della morte. Forse lo diceva perchè presaga del tragico destino. Ada
rimase incinta in seguito all'amore segreto con un giovane stalliere.
Aveva spesso pensato di fuggire con lui in America. I miei genitori
seppero della gravidanza. Per caso, udii una volta mia madre dire a mio
padre: Calmati. Fai finta di niente. Al momento del parto ci libereremo di
entrambi. La nostra casa non sarà distrutta dallo scandalo.
Mia sorella morì di parto ed il bambino morì subito dopo. Nessuno sospettò
di nulla ed il medico non fece la diagnosi di parto, ma di febbre
tifoidea. La famiglia era salva e con essa il buon nome. Lo stalliere era
sparito, senza lasciare tracce. Di certo avevano pagato con l'oro il suo
silenzio e la fuga. Forse lo avevano ucciso. Io mi ritengo complice di mia
madre e di mio padre dell'orribile, duplice assassinio. Avrei dovuto fare
qualcosa per salvare mia sorella ed il bambino. Avvertirli, farli fuggire.
Tacqui. Forse, m'illudevo che mia madre non arrivasse a tanto: uccidere
una figlia ed un innocente neonato."
"Lei non ne ha colpa. Deve convincersi che lei amava sua sorella. Così era
infatti. Nessuno sospetta che i propri genitori possano trasformarsi in
feroci assassini."
"Però, perché la vedo? Perché mia sorella mi appare?"
"Sono un uomo di Scienza. Mi è difficile credere che l'anima di un
defunto, se esiste, ci possa apparire. Il mio amico Jung è di diverso
parere, lui pensa che la mente abbia poteri paranormali. Io penso che
l'inconscio umano è come un labirinto interminabile ed inestricabile che
forse solo la Scienza saprà esplorare. Baronessa, le consiglio di dire
ogni cosa a suo marito. Il fatto che lei si è denudata davanti a quello
stalliere è dovuto ad una immedesimazione con sua sorella defunta. In quel
momento lei pensava d'essere come sua sorella germana. Deve allontanarsi
dal ricordo di lei e dal rimorso di non averla potuta aiutare e salvare.
Lei è innocente. Lei è vittima come sua sorella Ada."
"Devo proprio dirgli tutto?"
"Non può tenere all'oscuro suo marito da fatti così terribili."
"Anche ciò che lo spirito maligno mi ha costretta a fare con lo
stalliere?"
"Beh, qualche segreto non guasta. Ma deve raccontare a suo marito di sua
sorella germana. Deve dire tutto a lui. Questa confessione a me, ma anche
a suo marito che l'ama è molto importante. Si liberi dei suoi terribili
segreti."
Nei giorni seguenti, la baronessa cominciò ad essere più calma. Dormiva la
notte e non ebbe altri incubi. L'immagine della germana defunta non era
mai più apparsa, né in pubblico, né davanti a lei da sola. Dopo una
diecina di giorni, il barone Erwin von Kerstel e sua moglie andarono a
casa sua a ringraziarlo di persona. La donna era commossa: "Her doctor, mi
sento molto bene. Non ho parole che possano esprimere tutta la mia
gratitudine verso di lei. E' un vero miracolo."
Il barone era un uomo alto, con spalle robuste, la fronte ampia e una
capigliatura rossiccia alquanto diradata. Non portava baffi, ma aveva
lunghe basette e manteneva un corpo elastico anche se si avviava alla
quarantina. Lo sguardo era di un uomo provato dalla vita, si poteva dire
che avesse una continua sofferenza in qualche parte del massiccio corpo.
La moglie, anche lei alta, gli arrivava alle tempie e si vedeva che era
molto più giovane di lui. Indossava un abito di cotone stampato a piccoli
motivi e la solita cloche che le incorniciava il volto e metteva in
risalto lo sguardo, oltre alle lunghe e nere sopracciglia arcuate. Avevano
portato un dono: una statua bronzea alta più di sessanta centimetri di
Nettuno col tridente, la divinità degli abissi, allusione alle cavità
impenetrabili dell'animo umano. Il barone aveva chiesto: "Her doctor, le
piace? È un'opera del Rodin, Auguste Rodin, anno 1898. Spero non abbia
nulla contro gli artisti Francesi."
"Barone von von Kerstel, ma è bellissima. L'arte è arte e basta. La
ringrazio."
Oltre alla statuetta, il barone Erwin von Kerstel conservò per lui una
grande amicizia e stima, dicendo di essere disposto ad aiutarlo in
qualsiasi evenienza.
Gli eventi storici precipitarono all'improvviso e sull'Europa calarono
tenebre e sangue. La tragedia più volte evitata, ebbe inizio con
l'attentato dell'arciduca d'Austria - Ungheria, Francesco Ferdinando il 28
giugno del 1914. Giorni dopo, la bara dell'arciduca attraversò le vie
deserte di Vienna nelle ore ancora buie del mattino. La moglie Martha
aveva detto a Freud:
"Sigi, ho paura. Se scoppiasse una guerra, abbiamo tre figli maschi."
La Prima Guerra mondiale sconvolse tutti i popoli europei con infiniti
lutti e morte. La Prima Guerra mondiale fu il preludio di una ancora più
atroce.
L'11 marzo 1938 le truppe germaniche invasero l'Austria. Vienna brulicava
di carri armati. La direzione della società psicanalitica fondata da Freud
si sciolse. Qualche mese dopo, i nazisti avevano confiscato tutti i beni
dei Freud e s'erano impadroniti dei loro depositi bancari. Freud e la sua
famiglia erano prigionieri dei nazisti. Perché fossero liberati, gli Stati
Uniti pagarono ai nazisti la cifra di 4.824 dollari. Il 4 giugno 1938 la
famiglia Freud ebbe il visto d'espatrio e prese l'Orient Express.
Attraverso l'Austria e la Germania, giunsero a Kehl, sulla riva destra del
Reno. Col treno, tutti giunsero a Parigi, finalmente al sicuro. La sera
stessa i Freud s'imbarcarono per la traversata della Manica e la mattina
successiva sbarcarono a Dover. Con loro c'erano altri esuli. Sigmund
lasciò che gli altri della comitiva andassero avanti. Guardava le bianche
scogliere. Pensò:
"Qui morirò in libertà."
I suoi ricordi, i ricordi di una vita riattraversavano irruenti la
Francia, la Germania, l'Austria ed infine approdavano a casa sua, a
Vienna. La mente fece un lungo balzo indietro nel tempo. Ricordò di quanto
la baronessa von Kerstel aveva raccontato. La sosia della baronessa aveva
detto: La Storia umana sarà inghiottita nella grande brace. La fossa
comune seppellirà in abbondanza donne, uomini, vecchi e bambini.
Si chiese con angoscia: quale sarebbe stato l'ultimo atto della tragedia
che sconvolgeva le nazioni? Quando sarebbe stata eliminata la permanente
causa di conflagrazione mondiale? Per quali vie la voce della civiltà
avrebbe imposto una condizione di cose in base alla quale alcuna razza
umana, alcun sistema economico o politico avrebbe potuto definirsi
vittorioso, o vinto? I popoli europei avrebbero trovato le condizioni
solide di sviluppo reciproco? Di là dalla Manica, l'Europa avrebbe trovato
una nuova e più valida garanzia di pace e di progresso civile?
Gli parve che una giovane dai lunghi capelli neri, sorgesse nuda come una
sirena dalle livide acque davanti a lui. Come una sirena emettesse un
sinistro canto. Disse in una flebile cantilena: Nuvola di tenebra, nuvola
senza nome, con fuoco di tempesta, rovinerà sul mondo. L'apparizione aveva
l'aspetto della baronessa Margherita von Kerstel. Non era lei, era la sua
sosia, di certo era la sua sosia che parlava da un mondo altrettanto
assurdo. Vide la donna - sirena nuotare a lunghe bracciate ed allontanarsi
nel mare piatto, senza girarsi indietro. Freud aveva ascoltato il suo
canto di morte.
Freud capì che il Mistero si annida ovunque nel lucente mondo, come il
Male e la Morte. Ombre nere originatesi dalla mente umana s'andavano
espandendo sulla Terra come livida marea. Aveva cercato di illuminare le
ombre nere, ma c'era un nucleo buio ed inestricabile all'interno
dell'identità umana.
Fiction
Si faccia finta di giocare una partita di serie A, di B, o di C. Non
importa il numero dei gol. Secondo le nuove norme approvate dalla UEFA e
sottoscritte dal CONI, non vale se una squadra vinca una partita di
pallone, la pareggi, o la perda. Il risultato è lo stesso. Alla fine,
deciderà il comitato di saggi. Così al termine del campionato. I saggi
decideranno a chi spetti lo scudetto, a ci la retrocessione in B, od in C.
Viceversa, gli stessi saggi decideranno per le promozioni in A, in B, o in
C. C'era che aveva obiettato - ed a ragione - che si dava troppa
importanza ai goal, invece c'erano energie occulte e professionalità
inespresse che andavano valutare al di là dell'arido punteggio. Per
esempio gli scatti indietro delle ali tornanti a bloccare le sortite degli
avversari, oppure i passaggi smarcanti dal centrocampo, i passaggi brevi,
le testate con l'effetto che per puro caso non davano il goal. Guizzi di
genialità che meritavano il giusto prezzo. Le interviste sui giornali
sportivi, su quelli dei gossip, o sui quotidiani locali esprimevano
unanimità di opinione: liberalizziamo il calcio. Non più la vittoria di
una squadra in base al numero dei goal, ma diamo spazio al merito
individuale, esibito nel gioco di squadra. Viva la solidarietà sportiva.
Aboliamo le classifiche fuorvianti dei cannonieri. Viva il merito aldilà
dei goal. Via la spettacolarità, le fratture alle caviglie, i traumi ai
menischi e l'agonismo spinto. In base alla nuove regole, cominciarono ad
entrare in campo come titolari, vecchi sessantenni, alcuni settantenni e
qualche ottantenne di forte fibra. Quasi tutti avevano parenti nel
comitato dei saggi, nel CONI e tra i politici influenti. Si fingeva di
giocare. In campo, si chiacchierava del più e del meno. Sugli spalti, non
c'era nessuno. L'assenza degli sportivi negli stadi era stato previsto. Ad
ogni partita, lo Stato distanziava tot milioni di euro da spartirsi tra le
due squadre, più le spese per l'affitto dello stadio comunale e per il
trasporto dei giocatori. Provvedeva lo Stato con laute ricompense per
l'arbitraggio ed i segnalinee, così come per le organizzazioni televisive
che fingevano di trasmettere partite. Allo scadere del novantesimo minuto,
il club sei saggi riunitosi ad hoc, assegnava via computer la vittoria, il
pareggio o la sconfitta ad una delle squadre. Il parere dei saggi era
inappellabile. La tivù diffondeva i dati e la classifica aggiornata al
novantesimo minuto. I giocatori in campo trascorrevano i novanta minuti
parlottando del più e del meno e lasciando fuori campo il pallone.
L'arbitro fingeva di non guardare anche per mancanza di falli ed i
segnalinee giocavano a scopone. Per volere perentorio delle terna
arbitrale, i giocatori dovevano indossare con meticolosità le magliette, i
calzoncini, i calzini e le scarpette della propria squadra. Un ordine nel
vestire come i militari in divisa. Se qualcuno dei giocatori non resisteva
e voleva sferrare almeno un calcio al pallone, un tiro non pericoloso
verso porta, l'arbitro lo richiamava ed al terzo fischio lo espelleva.
Tutto dipendeva dalla valutazione finale da parte della squadra dei saggi
che dava le sentenze come la Sibilla dell'antichità. I sindacati sportivi
proposero di allargare ed allungare la superficie di gioco, aggiungendo
nuova erbetta, ridisegnando le linee del campo ed incrementando la
distanza tra le porte. Anziché undici giocatori, potevano scenderne in
campo tredici ed anche quattordici, tutti con la retribuzione da titolare.
Potenziando il numero degli effettivi in campo, di conseguenza bisognava
provvedere ad aumentare quello dei riservisti, dei medici sportivi e degli
eventuali raccattapalle. Si dovevano arruolare schiere d'architetti per
ampliare gli stadi, visto che il numero dei giocatori era maggiorato fino
a quattordici e con essi che l'area del campo. Il provvedimento fu esteso
all'istruzione pubblica (scolastica ed universitaria), alle assunzioni dei
medici negli ospedali, dei giudici nei tribunali e di tutti gli altri
settori del pubblico impiego e nel privato. In politica, proliferarono i
posti di assessore regionale, provinciale, comunale. Il parlamento ed il
senato furono raddoppiati di numero. Qualcuno disse che sarebbe stato
logico raddoppiare anche i presidenti della Camera, del Senato e della
Repubblica. La democrazia sarebbe andata meglio con più teste pensanti,
nei posti apicali. L'esempio di liberalizzazione fu eseguito anche
nell'aldilà. Via l'inferno e tanto meno il purgatorio. Si va tutti in
paradiso. Si faccia finta di essere buoni. La cattiveria non esiste nel
profondo. Tutti saranno felici, purché non diano fastidio alla casta dei
beati: gli arcangeli, i troni, i cherubini ed i santi di nuova nomina.
Lido Rex
Il lido Rex è sul litorale di Portici, una delle poche zone ritenute
balneabili negli anni Cinquanta e Sessanta. Avevo sui dodici anni, mio
fratello nove e mia sorella sette. Ci accompagnava mia madre e una sua
amica del palazzo. Tutti al lido Rex, d'estate a luglio. Ricordo che sul
mare galleggiavano chiazze di nafta oleosa. Al largo, c'erano le
petroliere che nel ripulire le stive scaricavano in mare benzene, nafta
ed altre sostanze. Sul bagnasciuga, si vedevano ampie macchie catramose.
Ricordo una grossa petroliera sostare al largo. Sguazzavamo in acqua
facendo attenzione alle macchie oleose e fetide. Per raggiungere il lido
Rex, dovevamo aspettare il pullman col numero 159 che dalla periferia di
Napoli est passava per Portici e faceva capolinea nella piazza di
Ercolano. A volte il 159 era pieno di bagnanti e bisognava sostare in
piedi sullo staffone, l'estremo posteriore del mezzo pubblico. Mia madre
teneva in braccio mia sorella. Mi sorreggevo con una mano all'apposito
sostegno che era una sbarra di latta in orizzontale tra biglietteria ed
entrata. Una sbarra in verticale, tra i finestrini posteriori e lo
staffane forniva un altro sostegno per quelli in piedi. Nell'altra mano
avevo l'ombrellone chiuso col laccio. Mio fratello teneva in mano la
borsa con varie cose tra cui cibo e la bottiglia piena di acqua. C'era
chi fumava e gente che puzzava di sudore e di scarpame, nonostante i
finestrini aperti. Il 159 attraversava San Giorgio a Cremano e sostava a
poche centinaia di metri dal lido Rex. Per raggiungere la spiaggia, si
doveva attraversare una breve via lastricata di basalto. In fondo si
vedeva la striscia azzurra del mare estivo. C'era un ponte di ferro sotto
il quale si allungava la ferrovia Napoli - Salerno. Oltrepassato il
pontile, scendevamo per una stretta scalinata a chiocciola, anch'essa
metallica. Alla fine, toccavamo col piede la scura e calda rena del lido
Rex. Dicevano che la sabbia aveva quel colore perché di origine
vulcanica. Nel passaggio lungo il ponte, osservavo la linea ferrata
scavata tra i palazzi, i cartelli col teschio e la scritta pericolo di
morte. Lido Rex era un tratto di spiaggia delimitato dalla linea ferrata
e verso il mare da una breve scogliera. Tra scogliera e spiaggia c'era
una lingua di mare larga una trentina di metri. Un ininterrotto muro di
cemento sosteneva la linea ferrata. Sul muro dalla parte del mare c'era
una balaustra di recinzione e sotto la scogliera del litorale, degradante
verso il mare. Il paesaggio era fatto così: il Golfo di Napoli con
qualche petroliera in sosta. Seguiva la breve scogliera di fronte al
lido, il braccio di mare dove ci si faceva il bagno, la spiaggia con la
rena scura, la scogliera lungo la costa, il muraglione di cemento armato,
la balaustra di recinzione, la linea ferrata, l'altro muro tra binari e
la marea dei palazzi di Portici. Oltre, svettava il cono carnicino del
Vesuvio e dall'altro lato, tra i vapori della calura c'era la punta di
Sorrento, l'isola di Capri e di qua il porto di Napoli, Ischia e
Pozzuoli. Sul Golfo gravitava la galassia di case, palazzi, fabbriche e
raffinerie. In spiaggia, scavavamo con le mani la buca per piantarci la
mazza dell'ombrellone che serviva da supporto alla metà superiore, aperta
a parasole col telone a strisce verdi e bianche. Noi ragazzi giocavamo
con la paletta ed il secchiello, scavando buche, facendo torri e castelli
di sabbia. A fine settimana, ci accompagnava mio padre che prestava
servizio come tecnico presso il Policlinico di Napoli. Mio padre era
esperto nuotatore. Si arrampicava per la scogliera, sotto il muraglione
di cemento e col coltello da cucina staccava dalla roccia le ostriche,
riempiendo dei sacchetti. A casa, i miei genitori ripulivano le ostriche,
le rosolavano e le mischiavano negli spaghetti al ragù. Sotto il
solleone, osservavo il dorso di mio padre con le cicatrici a ragno
causate da una scheggia durante un bombardamento nemico. Nell'ultima
guerra, faceva l'aviere all'aeroporto di Cagliari-Helmas. Le cicatrici
riportavano ad una tragedia incomprensibile per noi ragazzi che cercavamo
in spiaggia la spensieratezza. Nella tarda mattinata transitava
l'accelerato Napoli - Salerno, torreggiante e sbuffando come se
arrancasse. Era visibile attraverso la balaustra di recinzione. La
gigantesca locomotiva elettrica giallo oro ed i vagoni grigio ferro. Per
arrivare a Salerno faceva tredici fermate: Napoli Centrale, San Giovanni
a Teduccio, Portici-Bellavista, Torre del Greco, Torre Annunziata,
Pompei, Scafati, Castellammare, Nocera Inferiore e Superiore. Dopo Nocera
il convoglio attraversava la lunga galleria sotto le montagne della
penisola sorrentina sbucando a Cava de' Tirreni (undicesima stazione).
Seguiva Vietri sul Mare ed infine Salerno. Nel primo pomeriggio,
transitava sferragliando il direttissimo che portava i lavoratori della
Fiat in ferie verso le province dell'estremo Sud. Alcuni (forse ragazzi e
bambini come me) ci salutavano dai finestrini del treno agitando
fazzoletti.
Verso San Giovanni, in prossimità di una fogna a cielo aperto c'era Lido
Mappatella, detto in senso ironico Mappatella Beach. Al lido Rex
affluivano per lo più famiglie della piccola borghesia impiegatizia ed al
Mappatella Beach il sottoproletariato che non si poteva permettere il
prezzo di un biglietto sull'autobus 159, fino a Portici. Al Mappatella
Beach, arrivavano ragazzi con scarpe scalcagnate, o addirittura scalzi,
figli di sfollati dell'ultima guerra, disoccupati dei bassi della
Duchessa, o del Pendino e del Lavinajo. Al Mappatella Beach, ci si lavava
gratis e si esponeva lo scheletro ai benefici raggi solari. Alcuni
organizzavano le due squadre per giocare a pallone in spiaggia. A
mezzogiorno, divoravano il tozzo di pane e friarielli e nel pomeriggio
tornavano nei vicoli. Tra Portici ed Ercolano, a più di un chilometro di
distanza c'erano altri due lidi: lido Dorato ed Aurora. Nomi paradisiaci
a parte, erano una copia del lido Rex. Assicuravano che lì le spiagge
erano ampie e meno inquinato il mare. Col boom economico e gli aumenti
salariali, mio padre poté prendere in affitto un paio di stanze arredate
ad Agropoli (SA) e non andammo più al lido Rex.
Al presente, i politici locali intendono bonificare il litorale tra
Portici e Napoli, sistemando il collettore fognario. Dicono che sarà
possibile la passeggiata a mare ad esclusivo uso pedonale, offrendo ai
giovani opportunità per nuove aggregazioni sociali. Hanno promesso la
sistemazione del Porto Borbonico del Granatello, cambiando il volto al
litorale. Con enfasi, affermano: "Abbiamo più spiagge ora che
nell'immediato dopo guerra. Sono spiagge di sabbia nera, vulcaniche, come
il lido Dorato, Aurora ed il Rex."
Si sta lavorando ad un piano degli arenili, in previsione dell'entrata in
funzione del collettore che porterà le acque reflue e gli scarichi civili
nel depuratore di Napoli Est. Si sta eseguendo la completa bonifica del
fiume Sarno, il più inquinato d'Italia. Entro due anni, il mare di
Portici sarebbe di nuovo balneabile. Così dicono, camorra a parte.
Mike Buongiorno docet.
In una reclame di questi giorni, c'è Fiorello con l'imberbe figlio del
defunto Mike Buongiorno che discorrono del più e del meno. Alla fine dello
sketch si vede Mike seduto su una sedia di regista cinematografico che
dice delle frasi accomodanti e rassicuranti, facendo intendere di essere
ancora vivo. Lo spettatore accorto potrebbe fare tre tipi di riflessioni:
una positiva, una negativa ed una fuzzy. La prima dice che Fiorello mosso
da pietà per l'amico estinto, voglia lanciare nelle scene televisive il
primogenito del presentatore. Il quindicenne somiglia vagamente al padre
con gli occhi chiari e la zazzera grondante sulla fronte di un biondo oro.
Buon sangue non mente, anche se il ragazzo che è bello ed anche molto
ricco mostra che se ne fotte della tivù e non s'impegnerebbe mai a fondo
nell'arte della recita. La seconda considerazione, quella negativa è che i
nostri figli anche se belli, ma nati da comuni genitori resteranno sempre
in ombra. Inutile è sbraitare, o cercare di ribellarsi contro la cattiva
sorte. La partita è chiusa in precedenza: si va avanti col giusto DNA.
Tutto è predisposto prima si nasca: la vita brillante, o la giornaliera
sopravvivenza.
La terza considerazione riguarda Mike e il figlio, ma in senso lato. È una
riflessione di carattere generale riferita a certi ambienti ultraricchi,
ultramondani ed ultrasnob dove si vuole per forza ignorare che esistano
eventi negativi. Tutto avviene in un ambiente ovattato, pieno di goduria,
di sesso, soldi e sogni. Un mondo che nuota nel gossip giornaliero. Un
mondo con gente straricca che s'illude d'essere sempre giovane con la
plastica facciale.
Mostrando Mike Buongiorno sullo schermo come ancora vivo a pochi giorni
dalla morte corporale, si vuole intendere che la sua presenza è qui tra
noi. Il Mike sorridente e bonaccione appare sullo schermo come nella
diretta televisiva. Il ragazzo e Fiorello lo ascoltano e gli rispondono.
L'uno come figlio e l'altro come amico. In certi ambienti la Morte ha
vergogna d'arrivare. Secondo la nota equazione di Scrödinger, modificata
da un matematico italiano, se A è il padre di C e B è raccomandato da A,
allora B proteggerà C dopo l'azzeramento corporale di A. Questa equazione
è detta anche teorema del giusto DNA. Su di essa si regge l'intera
società, in particolare quella italiana. Badare bene: non sono i valori ad
essere tramandati di padre in figlio, ma la raccomandazione usata da
testamento.
Università e ricerca
Dimmi di chi sei figlio e ti dirò chi sarai tra trent’anni.
Anonimo fiorentino del XIII sec.
C’è gente che supera esami e concorsi universitari pro-forma. I designati
dalla sorte vincono il posto di ricercatore ed arrivano all’ordinariato,
superando prove ad hoc. Se si vede bene, questo tipo di professore
universitario ordinario ha buoni titoli scientifici. Lo hanno aiutato gli
altri (the others). Gli è bastato essere presente in un laboratorio
scientifico. Solo la presenza vale, come quando superò gli esami
universitari presentandosi davanti alla commissione per ultimo, essendo
andati via tutti gli studenti. In rapida successione come da scienziati
veri, ha vinto la serie di concorsi che lo ha portato in cattedra, da
ordinario.
Il 16 di luglio (2009) sono stato presso la segreteria del rettore Univ.
Fed. II. Erano circa le undici del mattino ed ero sudato dalla testa ai
piedi. Come un pulcino infradiciato dalla pioggia diceva mia madre quando
vedeva me e mio fratello bambini, sudati perché giocavamo a pallone. Mi
sono fermato a prendere una bibita fredda nel bar dell’università, visto
la calura.
Il segretario del rettore come ha sentito il mio nome dal bidello che mi
annunciava nella stanza attigua avrà fatto il segnale riservato a quelli
da non ricevere. Dopo un po’ si era affacciata alla porta una signora
trenta - quarantenne che ha detto di riferire a lei, essendo il
segretario impegnato. Oltre a lei, ci sono un impiegato seduto dietro un
tavolo ed un orango della security che mi sta di lato e che ha un perenne
sogghigno.
Dico: “Sono un professore universitario che insegna da ventidue anni a
Palermo. Non riesco a trasferirmi in sede idonea, neanche con la Legge
104. Ho molti titoli accademici e pubblicazioni scientifiche, ma non
contano.”
Ha risposto: “Deve andare presso l’ufficio personale docente.”
Dico: “Non mi risulta esista un ufficio che riceva le domande di
trasferimento dei professori.”
Si è meravigliata ed ha detto che c’è, anche se è come non ci fosse. Mi
ha squadrato dalla testa ai piedi. Dico: “Lei mi osserva dai piedi alla
testa come un UFO.”
Ha detto di no, sollevando in aria il mento con un pizzico di
strafottenza. Prima di andare via dico mostrando la mia camicia inzuppata
di sudore: “Ecco com’è un professore universitario.”
Vado all’ufficio personale docente, un edificio mastodontico di fronte
alla strada che costeggia la zona portuale. Penso: ecco come mi trattano.
A 59 anni, non sono degno neanche di parlare col rettore della Federico
II. Avere un appuntamento con lui, magari tra due mesi. Not possible. Ci
sono due laghi. In uno nuotano i pesciolini come me e nell’altro i
pescecani. I due laghi non comunicano. Nella realtà, i pescecani mangiano
i pesciolini, superano ogni tipo di barriera con la loro voracità. Per il
Corso Umberto I, pochi studenti, gruppuscoli di turisti svogliati ed i
negozi coi saldi estivi. Mi dicono alla reception dell’edificio
Personale-Docente-Università: “Vada al 4° piano.”
In ascensore un tizio preme per il primo. C’è anche un uomo ed una donna,
in coppia. Quello che ha premuto per il primo piano è più corto di me ed
azzardo la battuta:
“Lei si accontenta di poco, solo del primo.”
Risposta pronta, senza girarsi: “Sì, ma si arriva prima degli altri.”
L’ascensore si apre al 4° e m’immette direttamente nel Dipartimento –
Personale – Docente. Mi ricordo della stanza del vice-capo ufficio. C’è
aria condizionata e tutte le porte aperte. Numerosi gl’impiegati per un
mese come luglio: effetto Brunetta.
Chiedo di entrare dal vice – capo – ufficio che lo indicherò con la sigla
CUV (capo-ufficio-vice), per brevità. Con lui c’era un’altra persona,
andata via subito. Con gentilezza, CUV mi fa accomodare di fronte a lui
dall’altro capo della scrivania, piena di scartoffie. La persiana
abbassata ombreggia l’ambiente come nel sottobosco. Dico chi sono e lui
si ricorda:
“Lei ha una lunga ed inutile pratica qui.”
Si alza e va a prendere il malloppo. Sono tutte le lettere e le domande
di trasferimento che ho presentato all’ufficio personale dicente. Tutte
sistematicamente respinte in un arco di tempo di ventidue anni. E’ da
ventidue anni che insegno a Palermo chiedendo ogni anno il trasferimento
in sede idonea, nella mia regione, o in regioni attigue (Basilicata,
Lazio…). Dice a monito:
“Professore, ma lei lo sa che i trasferimenti dei prof. universitari sono
registrati sulla Gazzetta Ufficiale? Sono atti importanti. Non è facile
essere trasferiti. Ci vuole la richiesta esplicita di una facoltà. Dev’essere
il Consiglio di Facoltà a chiedere che un posto del suo raggruppamento
sia messo a trasferimento.”
CUV voleva farmi intendere che ci vogliono forti pressioni politiche, o
di parentela perchè si ottenga quel tipo di favori? Dico: “Ma ho
eccellenti titoli scientifici e didattici…”
CUV mi guarda come se fossi duro di comprendonio. Come se dicesse: il
merito è meglio che uno se lo ficchi in quel posto.
CUV dice: “Lei le ha tentato tutto. Si è rivolto anche alla studio di un
avvocato milanese. Questo avvocato ha scritto una serie di lettere: al
rettore della Federico II, ai vari presidi delle facoltà di Napoli, al
Presidente della regione, ai rettori delle università di Salerno,
Benevento, Avellino, Caserta. Questo suo avvocato ha scritto al rettore
dell’università di Potenza dove lei ebbe un incarico d’insegnamento.
L’avvocato milanese ha scritto anche a Viterbo dove lei, professore, ebbe
un incarico d’insegnamento triennale. Tutti le hanno risposto con un
diniego.”
“Ho fatto anche appello alla Legge 104, essendo all’epoca mio padre
malato di Alzheimer.”
“La Legge 104 dà un vantaggio tra due concorrenti, a pari merito. Però
nessun Preside di facoltà chiese un posto per lei e quindi non c’è stato
mai un concorso per trasferimento cui lei avesse potuto partecipare,
insieme con altri candidati.”
Provo ad obiettare: “Nel 1998, fu bandito un concorso nazionale per
professore associato nel mio raggruppamento che è VET 01. C’era un posto
libero presso la Facoltà di Veterinaria qui a Napoli. Feci domanda di
partecipazione, presentando tutti i titoli scientifici e didattici. Mi
feci aiutare da una segretaria comunale nell’allestimento della domanda e
dei titoli come il bando richiedeva. Non fui ammesso e non ho saputo mai
perché, sebbene avessi fatto esplicite richieste in questo senso.”
CUV si alza e dice: “Vediamo se le cose stanno così”.
Lo seguo nell’altra stanza. Estrae un tiretto da uno scaffale. Il tiretto
contiene delle schede impilate in un asse di ferro. Ogni scheda è scritta
a mano con inchiostro rosso. Dice:
“ Il professore che vinse il concorso alla Facoltà di Veterinaria si
chiama P.D., vero?”
“Sì, proprio lui.”
“E’ il figlio dell’ex preside di quella facoltà. Vero?”
“Sì.”
Il padre di P.D. era un grosso barone. Aveva una dozzina d’incarichi tra
cui alcuni presso la II Facoltà di Medicina (Napoli); negli ultimi anni,
era stato direttore del dipartimento di Citologia, Facoltà di Medicina
(Napoli). P.D. padre aveva all’attivo oltre cinquecento ricerche
scientifiche (dono dell’ubiquità) ed aveva piazzato uomini di sua fiducia
in molte facoltà come ordinari. Dico a CUV: “Scusi, ma perché fui escluso
da quel concorso?”
“Perché lei non si poteva presentare ad un concorso di professore
associato nel raggruppamento VET – 01. Lei risultava già vincitore di un
omologo concorso.”
Dico: “Io ho superato un concorso nazionale a Roma per prof. associati e
l’ho vinto. Ciò invece di avvantaggiarmi nella carriera, mi limita.
Infatti il dott. P.D. come ricercatore ha potuto presentarsi a questo
concorso – adesso sono concorsi locali - e vincerlo senza altri
concorrenti.”
Esatto: “Lei come prof. associato non può ripresentarsi in un medesimo
concorso per prof. di II fascia (associati). Concorso, ricordi, bandito
nel suo stesso raggruppamento VET 01.”
Continuo a non capire. Due sono le cose. O mi prende per fesso la Legge
dello Stato, o mi prende in giro CUV che dice:
“Professore, è inutile che lei presenti altre domande. Le facoltà non
richiedono posti per trasferimento. Capisce?”
Obietto: “Ma il Ministero dell’Università dà un contributo
d’incentivazione per i professori che chiedono l’avvicinamento in una
zona più idonea. Si chiama incentivazione alla mobilità dei docenti
universitari.”
“E’ stato calcolato che questo contributo non è ottimale e che in un
anno, la facoltà ci perde circa mille euro.”
“Sì, ma se il docente trasferito è di valore, la Facoltà ci guadagna e di
molto.”
CUV se la ride e dice: “Non interessano queste cose.”
Lo saluto con una stretta di mano. Dice:
“Professore, ma perché non chiede un anno di congedo sabbatico? Prende lo
stipendio mensile compresa la tredicesima e non ci va per un anno a
Palermo.”
Dico: “Non è nel mio stile.”
Mi avvio all’ascensore. Con la coda dell’occhio vedo CUV che fa segno ad
uno della security di seguirmi fino all’uscita dello stabile. Penso che
sono un ingenuo. A cinquantanove anni ancora non l’ho capita. Nel 1993
avevo denunciato una – unica denuncia nella mia vita – che con laurea in
Lettere e filosofia aveva vinto la Cattedra in Veterinaria. Il giudice
archiviò la denuncia. Andai dal giudice a chiedere perché lo avesse
fatto. Disse: “Perché ho altro da pensare.”
Dopo quella denuncia, fui escluso da tutti i tipi di commissione,
comprese quelle di laurea. I miei incarichi d’insegnamento a Potenza ed a
Viterbo risalgono a prima di quella data.
In Italia, si fa carriera col DNA di CASTA, non con quello grezzo
ereditato dalle scimmie. Chiedo: se ci fossero controlli sugl’intrallazzi
di alcuni ci sarebbero tanti dipartimenti universitari con professori
dallo stesso cognome e DNA? Chi dovrebbe effettuare i controlli seri: i
presidi, i rettori, i giudici? Totò diceva: ma mi faccia il piacere….
POST SCRIPTUM. In ambiente universitario, invece di dire: il direttore
del dipartimento di Biologia e sperimentazione molecolare si dice: il
direttore della Biologia. Come se la biologia fosse una nazione, un mondo
a sé. Alcuni dipendenti intendono l’intera facoltà come un mondo a sé.
Idem, per i dipartimenti: il direttore dell’Anatomia umana per indicare
il direttore del Dipartimento di Anatomia e fisiologia della facoltà di
Medicina. Per quelli con alto grado di frustrazione, il mondo è la
Facoltà. Un’altra espressione ricorrente nei dipartimenti universitari è:
quelli della Neurologia….quelli dell’Anatomia…per indicare il personale
di un dato dipartimento: il personale del dipartimento di Anatomia =
quelli dell’Anatomia…il personale del dipartimento di Neurologia = quelli
della Neurologia. I dipendenti come un’associazione coesa di soggetti,
raggruppati intorno ad un capo che sarebbe il direttore. Quelli
dell’Anatomia Patologica ce l’hanno a morte con quelli dell’Istologia.
Quelli della Clinica Chirurgica si sono alleati con quelli della
Patologia Medica per attaccare quelli della Clinica Medica.
A volte ci sono vere guerre. Alla base delle guerre interdipartimentali,
c’è la spartizione di fondi di ricerca, di posti di ricercatori, o di
cattedre. Ci sono alleanze che nascono in un giorno e si dissolvono con
altrettanta facilità. All’interno di ogni dipartimento, l’ambiente è
all’apparenza liberale, in realtà retto da ferrea disciplina. Se
t’inimichi il direttore, o il vice, o un ordinario di rilievo – nel senso
di una persona inserita in un contesto di conoscenze politiche o di
parentela – allora il malcapitato è espulso, oppure se di ruolo, messo in
condizione di trasferirsi altrove, oppure gli si rende la vita
(lavorativa) impossibile con le armi del mobbing.
Virus mutandis
Il gruppetto di virus al centro di Piazza Epatica, di fronte al BAR - HIV,
se la rideva con aria di superiorità. Uno di loro sfogliando il giornale
della domenica leggeva la notizia in prima pagina e commentava:
"Questi nostri colleghi N5H1 sono scemi: attaccare gli umani senza prima
aver espletato il corso specialistico in virologia umana."
"Andranno incontro a sicura sconfitta. Saranno decimati e relegati in
qualche acquitrino ad infettare oche malnutrite."
Risata generale.
"Sono vittime della loro superbia. Hanno sottovalutato gli umani.
Pensavano di trovarli sguarniti come nel "18 quando ci fu "la spagnola"
che spopolò mezzo mondo. Quello sì che fu un successo. Adesso le cose sono
cambiate. Sono più ostiche per noi virus. Vincere una battaglia con gli
umani mandandone all'altro mondo una ben nutrita quantità, è sempre più
laborioso."
" Ma è fattibile."
"Sì ma non è come una volta. I batteri sono stati vinti dagli antibiotici
e molti virus attaccati coi vaccini sempre più sofisticati e specifici. E'
di vitale importanza fare come facciamo noi: trasformarsi con celerità e
attaccare direttamente il loro sistema immunitario. Noi solo li fottiamo."
"Almeno per adesso."
"Nel terzo mondo anche i batteri, i protozoi, le sighelle, i vibrioni, le
muffe per non parlare di noi virus, fanno scempio di umani ammazzando
senza sosta uomini, donne, vecchi e bambini. Lì il quadro bellico è ancora
a nostro favore, è vincente senza grossi pericoli."
"Il problema è il primo mondo, dove ci sono le persone più pingui ed in
perfetta salute. Sguazzare nel primo mondo per noi virus è come
raggiungere il paradiso."
"Però è difficile attaccarli."
" Quelli del primo mondo hanno il sangue ricco di aminoacidi, un giusto pH
del sangue, glucosio entro parametri prestabiliti, giusta quantità di
grassi o leggermente al di sopra della norma (il che non guasta), sali a
quantità e batteri relegati nel tubo digerente. Quelli del terzo mondo
invece fanno schifo: denutriti, sporchi e puzzolenti, con sterminate
popolazioni batteriche addosso, pronte a competere con noi. Il loro sangue
è povero di tutto spesso invaso da protoplasmi ed amebe. Che schifo!"
"Per entrare nel primo mondo bisogna fare come noi. Attaccare quelli del
primo mondo partendo dagli strati più deboli ed esposti: i drogati e le
puttane. Ma non basta. Noi abbiamo un ottimo generale che ha usato la
strategia vincente, forse l'unica. Il nostro generale è come Napoleone per
gli umani. Un vero genio. Ha capito che per entrare in un corpo umano per
proliferare a sbafo ed infettarne altri, occorre iniziare l'attracco a
partire dalla sfera genitale oppure dal sangue dei drogati.
L'Occidente evoluto di due cose non può fare a meno: il sesso e la droga.
Ed è lì che li fottiamo attaccando direttamente le loro difese.
Distruggiamo per prima i loro linfociti. Privi di anticorpi, la
proliferazione nel loro sangue è cosa facile."
"E' così. Li fottiamo mentre fottono."
Nuova risata generale.
"Veramente l'Occidente non può fare a meno in primis dei soldi."
"Il nostro generale sa bene che non si possono infettare i soldi per
entrare in un organismo umano. Nessuno si mette in bocca i soldi o li usa
come aghi per inocularsi la droga."
"Il bello è che sono stati gli stessi umani ad averci facilitato la
diffusione coi loro esperimenti transgenici. Ci hanno costretto ad
evolvere all'interno di organismi geneticamente modificati. Trasformato il
nostro genoma, è stato solo una questione di tempo per elaborare la
strategia vincente."
"Senza il nostro generale, vero stratega, avremmo fatto la fine dei virus
aviari."
"E' vero. Il nostro generale è il vero salvatore del popolo. Ha avuto
l'intuito vincente: usare come cavallo di Troia il sesso e la droga per
poi attaccare direttamente il sistema immunitario, una volta penetrati
nell'organismo umano."
"Altre popolazioni virali hanno chiesto la nostra alleanza per attaccare
in massa gli umani: quelli dell'epatite C e i papillomavirus genitali
umani. "
" Sentite, sentite! Gli esperti riuniti nel 1 st European Consensus
Conference on the treatment of Chronic Hepatitis B and C in HIV
Co-infected Patients, hanno emanato raccomandazioni per i pazienti con
infezione da HIV co-infettati con virus dell'epatite C."
"Queste raccomandazioni ci fanno un baffo. Potranno ridurre solo
temporaneamente l'incidenza della nostra espansione. Gli umani non hanno
una strategia vincente. Per adesso siamo noi i vincitori."
"Evviva il Virus mutante 184, l'unico grande vero generale nella storia
universale di noi virus."
HIV, HIV, HURRAH!
"Eterna vita al nostro grande stratega, il Virus mutante 184."
HIV, HIV, HURRAH!
"Morte agli umani, morte agli umani del primo mondo."
HIV, HIV, HURRAH!
F I N E
The body's election
Elezione corporale
Si sentì strano. Alla finestra osservò il paesaggio. Tra quasi un mese
sarebbe stato Natale. L'età verso la sessantina e una mattiniera abulia lo
rattristavano senza preciso perchè. Disse: "Cominciamo bene la giornata."
Nell'antistante parco della periferia est di Napoli, ventate polverose con
carte svolazzanti e cielo denso di vaporosa nuvolaglia. Si sarebbe fatto
la barba come al solito, la doccia che rinsalda i nervi; avrebbe preparato
il caffé con aggiunta di latte scremato e sarebbe uscito nella suburra per
comprare frutta, il giornale e altro al discount di quartiere. Il corpo
rovinava verso la vecchiaia. Però qualcosa si poteva fare per arginare
sfacelo e decadenza fisica concretizzati nelle avvisaglie dell'artrosi,
obesità e stanchezza generale. La psiche troppo spesso andava in
depressione e che dire della ipertensione, diagnosticata appena sette
giorni prima dal medico curante? E gli acciacchi subdoli, quelli
senz'avvisaglia immediata? Per esempio, adesso aveva l'istmo delle fauci
asciutto e la lingua amara. Si doveva reagire per arrivare agli ottanta e
oltre. Ottantenni pimpanti avevano l'amante giovane grazie al viagra. Con
la fiacchezza che si sentiva addosso, agli ottanta non ci arrivava e
neanche ai settanta. Dopo doccia e caffé allungato, si decise. Più
democrazia. Ecco cosa ci vuole. La democrazia panacea a tutti i mali. Così
dicevano in piazza in periodo elettorale. E lo stesso è per il corpo fatto
di varie parti che democraticamente devono collaborare tra loro: lo
stomaco con l'intestino, la bocca col naso, le mani coi piedi, il fegato
con la milza….Niente colpi di testa, ma ascoltare il parlamento corporale.
Uscì di casa convinto: domani al massimo ci saranno le nuove elezioni per
il rinnovamento del parlamento interno. La democrazia è la linfa vitale
del popolo e dunque anche del mio corpo, parte ristretta della nazione.
Comprando il quotidiano aveva detto al giornalaio: "Non bisogna
dimenticarsi che il corpo invecchia."
Il consiglio ad hoc del giornalaio:
"Don Gennaro, proprio ieri si è aperta una palestra nello scantinato
affianco. Perché non ci andate così dimagrite?"
"Ci vuole altro."
"Don Ciro, lo sapete, quello incarcerato per camorra - il giornalaio aveva
abbassato la voce nel dire camorra - adesso è in licenza premio ed ha
aperto una palestra. E' qui affianco a pochi passi. Perchè non ci andate
adesso a darci uno sguardo? Un po' di attività ginnica giornaliera è
quello che fa per voi. Ginnastica e dieta."
"Ci vuole ben altro. Un po' di ginnastica la faccio quando vado in giro
per il mercato e spesso mi metto a dieta."
"Sentite a me. Andate da don Ciro, lui risolve i casi disperati."
"Ci vuole altro. Buongiorno."
Uscendo aveva detto come vate:
"Ascoltare le voci corporali, le intime pulsioni, le tensioni interiori….
Ecco che ci vuole."
Uno entrando in quel momento ed accennando ad un saluto, quasi gli aveva
dato ragione. Strada facendo aveva letto sul giornale la notizia che lo
intrigò:
Abbraccia un albero e lo stress svanisce. Abbraccia un albero ed il copro
ringiovanisce.
Scorrendo l'articolo erano uscite fuori altre cose: che la psicoterapeuta
Alberta Avvero direttrice di un noto Centro-Disturbi-Depressivi (CDD),
recatasi a Sydney per un congresso, aveva letto dei cartelli all'interno
del Royal Botanic Garden. Su uno dei cartelli la frase liberatrice: To hug
a tree. Cioè, abbracciare un albero. Altro che abbracciare una bella
donna; meglio un albero. Il giornale riportava altro: scrittori ed attori
di successo da anni abbracciano alberi come terapia anti stress. Capito?
Le piante trasmettono forza magnetica, vera forza rigeneratrice.
Abbracciate gli alberi ed amateli anima e corpo. Un esperto aveva
affermato nella stessa pagina di cronaca:
L'ulivo mi consola, la betulla è maliziosa.
Senza andare a casa aveva estratto le chiavi della macchina, diretto ad
abbracciare un qualsivoglia albero. Però quelli fuligginosi vicino casa
gli fecero schifo. Poi, lo avrebbero preso per pazzo nel vederlo per
strada abbracciato ad un albero. Si sedette in macchina, aggiustò lo
specchietto retrovisore e aprì il cancello con elettronica chiave. Si
avviò verso gli anfratti del Vesuvio pieni di stradine secondarie e
spazzatura.. Nessuno lo avrebbe visto mentre abbracciava un pino resinoso,
abbandonandosi con tenerezza sull'aspra scorza come l'amante che ascolta
il cuore dell'amata. Avrebbe assorbito l'energia vitale del pino,
rinverdendo contro le intemperie della vita. In alto sul Vesuvio, l'aria
fu più fredda del solito, ma non aveva piovuto e c'era poco vento. Si
vedeva il Golfo con Napoli sotto, la penisola sorrentina e Capri a
sinistra; a destra il Vomero con dietro Ischia. Aveva adocchiato il pino
che faceva al caso. Sostato in uno slargo era corso ad appiccicarsi al
tronco. Tese le braccia ed avvolse la scorza fredda. Ci rimase appiccicato
per un po' col risultato di un rigurgito di gas e sonora eruttazione. Le
aspettative deluse. Sconsolato, urinò contro le radici del pino traditore:
lunga pisciata liberatoria. Mentre chiudeva le brache sospirando, gli
cadde in testa una grossa pigna che lo fece gridare. Toccatosi sul cranio,
vide che c'era sangue. Col fazzoletto pressato sulla ferita se ne tornò in
macchina imprecando. Con la marcia in folle per la discesa, disse tra sé e
sé: ho fatto sempre di testa mia, ora si cambia. Non ho badato alle
esigenze che venivano dal corpo ed ecco i risultati: appesantimento
generale, depressione, pancia, affanno, gas intestinale da evacuare,
doppio mento sulla gorgia, canizie precoce. Uno schifo. E poi gli attacchi
subdoli: colesterolo, trigliceridi, azotemia…
Parcheggiato nel giardino davanti casa, sotto l'architrave della porta
aveva detto con autorità:
"Domani alle quattro inizia la campagna elettorale. Tutti gli organi ed
apparati ne prendano atto."
Un volvolo intestinale dovuto al passaggio di aria tra intestino cieco e
grosso colon fece eco acconsentendo. A notte, mente e psiche di don
Gennaro riposarono, ma gli organi interni ed apparati parlottavano con
euforia. Dissero i polmoni:
"Democrazia, democrazia. Non più soggetti all'apparato digerente che ci
manda solo sangue nero da depurare."
Dissero di rimando quelli del tubo digerente:
"Staremo a vedere. Comunque la maggioranza è nostra. Vogliamo vedere che
succede se chiudiamo i rubinetti dell'energia di provenienza alimentare."
S'intromise il cuore che aveva anche lui qualcosa da dire contro i
polmoni:
"Con l'aria che respirano, piena di CO2 e povera di ossigeno, protestano
pure."
Rispose il polmone destro, spalleggiato dal sinistro:
"E che è? È colpa nostra se don Gennaro vive nel Bronx?"
"Calma - disse il timo che spiegò - aspettiamo le disposizioni di don
Gennaro. Le elezioni si tengono col rispetto delle regole. Vediamo don
Gennaro cosa deciderà in proposito: se vuole un governo monocamerale a
maggioranza assoluta, oppure il bicamerale con maggioranza relativa e
sbarramento o meno del 3%."
Disse il rene sinistro:
"A me andrebbe bene la maggioranza relativa senza sbarramenti, questo per
dare spazio alle minoranze."
Uno dei testicoli udite le superiori rimostranze essendo in declivio
all'interno dello scroto, disse:
"Non facciamo supposizioni. Aspettiamo domani quando don Gennaro emanerà
le disposizioni generali. Solo allora potremo formare i nostri partiti e
decidere gli accorpamenti."
Gli altri organi tacquero rimuginando nei precordi e preparandosi alla
lotta. Il fegato già presagiva la rivalsa: se non funziono io tutto va in
tilt. Come minimo devo avere la carica di ministro nel nuovo parlamento. I
testicoli di rimando: se non fanno quello che diciamo noi, non si fotte
più.
Cervello, cervelletto, bulbo e restante contingente del sistema nervoso
centrale temevano la secessione: il sistema nervoso vegetativo avrebbe
reclamato più autonomia con federalismo carnale e sganciamento totale
dalla volontà. Il Sistema Immunitario voleva leggi più severe: cacciamo
senza mezzi termini tutti i microbi rom che s'intromettono nel corpo da
clandestini. C'era fermento e grande eccitazione con sconquasso generale.
Il povero don Gennaro si era svegliato tutto gonfio: occhi, faccia, pancia
come palloni. Allo specchio non si riconobbe più: e che è?
Aveva brufoli in fronte e sulle braccia. Si lavò e corse all'ASL. Adesso
muoio, si ripeteva. L'addetto che dava i numeri per le prenotazioni dal
dottore lo aveva squadrato:
"Don Gennaro, ma che avete fatto?"
"Niente. Avevo solo pensato di ringiovanire con qualche cura."
"Siete gonfio. Qualche allergia."
"Non lo so. Per questo sto qui."
"Solo questo dottore dà la cura esatta."
"Forse ho mangiato troppo ieri."
"Fidatevi del dottore. Solo lui conosce il vostro corpo."
Al medico aveva mostrato le piaghe sviluppatesi nella notte. Il dottore
aveva detto:
"Non è allergia. Non di questi tempi. So cosa è. Avete deciso di dare più
libertà ed autonomia agli organi interni ed essi sono in fermento. Ognuno
vuole prevalere sull'altro. Ognuno pensa di essere il più importante.
Dovete riprendere il controllo della situazione e mettere a tacere
l'anarchia."
"Dottore, ma qualche medicina da prendere alla sera ed al mattino…"
"Niente medicine. Dovete parlare con voi stesso. In interiiore homine
habitat veritas."
La frase latina aveva messo paura a don Gennaro che disse:
"Dottore, ma è grave?"
"Si sta sviluppando nel vostro corpo una malattia psicosomatica. C'è
ribellione perfino tra la vostra mente ed il sistema nervoso autonomo. Mi
spiego. Se uno si scoccia, ma deve stare seduto in una sala con altri ad
ascoltare per ore un relatore, allora si sviluppa in lui la ribellione. La
mente comanda ai visceri di soprassedere. Però se a lungo andare
l'individuo inibisce le pulsioni interne sopraggiungono le malattie
psico-somatiche che comportano la guerra tra la volontà e le interiori
esigenze. Un altro esempio. Se uno non scopa, reprimendo le pulsioni
sessuali, gli organi interni si ribellano e sopraggiunge la malattia
psicosomatica con eruzioni cutanee, bruciori di stomaco, gonfiori delle
viscere, sudorazioni, bocca secca, tic, balbuzie, lapsus freudiani…uno
schifo."
"Un guaio. E c'è una cura?"
"Ve l'ho detto. Parlate chiaramente con voi stesso. Parlate con le
interiora. Dialogate. In interiore homine habitat veritas."
Quella frase latina lo rifece rabbrividire. Disse: "Dottore, allora niente
ricetta?"
"La ricetta ve la dovete fare voi ascoltando il corpo."
Don Gennaro se ne tornò a casa. Non pensò alla monnezza da scansare, alle
turbolenze del quartiere contro i Rom. Lo affliggeva questa improvvisa
guerra intestina.
Dopo doccia, nudo come una scimmia davanti allo specchio, fece il discorso
diretto ai suoi organi, apparati, tessuti e cellule in anarchico
subbuglio:
"Sentite…."
A questa parola l'interno di quel corpo pieno di pustole, tremori e
flattulenze sembrò placarsi come la platea che ascolti l'oratore:
"Sentitemi tutti, organi, apparati, cellule e tessuti. Ascoltate. Non più
assolutismo. Da oggi, farò quello che volete. I desideri, quelli dettati
dalla mente cosciente non esisteranno più. Se il cazzo - faccio un esempio
- è tosto e vuole fotttere, farò in modo da esaudirlo subito e nel
migliore dei modi. Va bene? Se mi viene fame, mangerò. Se sto per strada e
mi viene fame, entrerò in un fast food, in un ristorante, o in una
salumeria per munirmi di cibaria. Idem se devo pisciare: vado subito in un
cesso pubblico, o a casa. Idem per defecare. Se voi polmoni volete
respirare aria pura andrò in montagna per qualche giorno. Però…."
Don Gennaro puntò il medio in alto come un santo. Vatalejò:
"Organi e interiora, però dovete rispettare i patti. Prima dovete cessare
di farvi guerra. In ogni istante, dovete decidere a quale pulsione dare la
precedenza: mangiare, scopare, passeggiare, defecare, urinare, assaggiare
aromi, annusare profumi…Mi manderete un messaggio alla volta ed io
esaudirò le vostre esigenze nel migliore dei modi e nel più breve tempo
possibile. Se non ci state e continuate a litigare, in alternativa mi vado
a curare da uno specialista e farò tutto di testa mia. Per dispetto, se
devo scopare andrò a mangiare. Se devo urinare andrò prima a farmi una
bella passeggiata."
Un gorgoglio generale sorto dall'intimo dei precordi gli salì in gola
emettendo una grande eruttazione che lo fece sobbalzare. Vide eruzioni
cutanee, pustole e arrossamenti dermici scomparsi per incanto: il segno
che il corpo si era rappacificato e acconsentendo alla proposta di don
Gennaro che disse a interiora e pudende: "Mi avete dato ragione. Siete
sagge."
Da allora Don Gennara era diventato sbarazzino come un bebé. Lo aveva
notato Alfonsina Guadagno, la sua compagna. Una volta, mentre facevano
shopping per Corso Umberto I, di sana pianta don Gennaro le aveva detto:
"Andiamo a scopare."
Ad Alfonsina Guadagno era parso di non capire: "Che?"
"Dobbiamo scopare adesso."
"Ma veramente fai? Adesso è ora di pranzo. Troviamoci un ristorante,
piuttosto."
"Scopiamo prima."
"Ma che è sta' frenesia!"
"Devi fare come dico io. Scopiamo."
"E dove?"
"Andiamo in albergo. Quello di fronte. Pago io."
Alfonsina Guadagno l'aveva presa con allegria ed aveva detto:
"Però dopo mangiamo."
Alfonsina Guadagno diceva che don Gennaro era diventato come un bambino di
cinque anni. Non sapeva resistere ai desideri immediati. Se doveva andare
in bagno mentre erano in macchina, sostava alla meglio ed andava a
trovarsi il più vicino cesso oppure, se in aperta campagna, faceva i
bisogni dietro un cespuglio. Alfonsina Guadagno con pazienza accettò i
cambiamenti di don Gennaro, rinnovato nel fisico. A pianificare il futuro
ci avrebbe pensato lei per lui.
Minosse minotauro
Minosse re di Creta dominò sulle isole egee e sulle città della Grecia
antica, compresa Atene. Ebbe sontuosa reggia da Icaro edificata. La
costruzione - di cui si ammirano i resti - era su un'altura dominante
città e porto. Nessuno seppe quante stanze avesse tanto era immensa e
molti ritennero che la parte in sottosuolo fosse illimitata, rapportandosi
con le tenebre degli inferi. C'erano corridoi, stanze, sale ed ammezzati.
Un labirinto crepuscolare in cui la luce penetrava da piccole aperture
circolari per l'aerazione. Entrarvi era facile, ma l'uscita tanto più
ardua quanto più vi si addentrava, divenendo impossibile dopo un certo
tratto.
Icaro che ebbe costruito il labirinto vi fu chiuso col figlio perché vi
perisse e non riferisse ad altri il segreto dell'uscita. Icaro fu furbo e
con la cera d'api, costruì ali con cui volare per sé e per il figlio
Dedalo. Volarono via salvandosi. Dedalo si elevò tanto che la cera si
sciolse al Sole e precipitò nell'Egeo.
Dissero che Minosse avesse fatto costruire il labirinto per rinchiudervi
il mostro concepito dalla moglie Pasifae, accoppiatasi con un toro sacro a
Giove. Altri dissero che fosse stato ADE l'invisibile, signore
d'Oltretomba ad accoppiarsi con Pasifae la bella. Ade adirato e crudele
contro gli uomini. Ade che tiranneggia sui morti. Ade che di notte usciva
dal labirinto e si accoppiava con Pasifae. Infatti il labirinto confinava
con il l'Oltretomba, il regno delle tenebre. Altri dissero che il mostro
fosse l'altra faccia di Ade. Dissero che il dio dei morti di tanto in
tanto rendesse visibile l'orrido aspetto. Il popolo di Creta terrorizzato.
Chiamarono Minotauro il mostro in labirinto. Dissero che il Minotauro
dominasse le forze brute della natura; generasse terremoti e maremoti.
Negli urli del forte vento, il popolo di Creta giurò di aver udito i
cavernosi gemiti del mostro, mezzo uomo e mezzo toro. Il Minotauro ebbe
corpo umano, ma oblunga testa, corna affilate e muso bovino. La smisurata
forza dei muscoli non era umana. Qualcuno della corte diceva di averlo
intravisto nei paraggi sotto la luna piena. Qualcuno negl'incubi notturni
giurò di averlo visto dilaniare membra. Dicevano che si cibasse di carne
umana. Il popolo ebbe terrore della reggia, di Minosse e del Minotauro.
Una nave salpò da Creta per caricare nove giovani e altrettanti fanciulle
incatenate, tributo di Atene ai conquistatori. I giovanetti furono
condotti in reggia e da lì erano spariti. Dissero che fossero stati
portati incatenati in labirinto e dati al Minotauro: sesso e carne di cui
cibarsi. Solo così il mostro si calmava. Colpa di Passifae e della sua
lussuria. Non soddisfatta del marito aveva calmato la bramosia
accoppiandosi con un toro sacro. Oppure si era data ad ADE. Il Minotauro
non sopprimibile perché sacro. Lo si poteva calmare dandogli giovane carne
umana.
Dicevano che il Minotauro come vedeva i giovani aggirarsi timorosi in
labirinto li assaliva. Ci faceva sesso dilaniando col taurino pene vagine
ed ani, squartando infine i corpi che trangugiava. Si addormentava ebbro
di sangue e sesso. I popoli del Mediterraneo temevano Minosse e la reggia
che custodiva in grembo l'orribile, famelica creatura.
Inorriditi per la sorte dei figli finiti in pasto al mostro, gli Ateniesi
pregarono Teseo l'invincibile perché approdasse a Creda ed uccidesse il
Minotauro.
Teseo s'imbarcò per Creta. Venere lo protesse e lo accompagnò da Minosse e
da Pasifae. Rispettoso della dea, Minosse trattò Teseo come ospite. Dietro
il trono tempestato di zaffiri e oro, c'era davvero una gigantesca statua
di pietra raffigurante un mostro con la testa taurina e il corpo umano. In
determinati giorni dell'anno in coro, Minosse e Pasifae questa preghiera
alla statua di Minotauro rivolgevano, al cospetto della corte intera e dei
dignitari del vasto regno.
"Ade - Minotauro
re delle tenebre
e delle Chere
inesorabili
chiuso in labirinto
ci rivolgiamo a te
tesi nell'ansia,
pieni di sgomento.
Nuvola di tempesta
nuvola senza nome
e fuoco di castigo
rovinerà su Cipro.
Invisibile e nero
uomo e toro
cavaliere della notte
uccidi i nemici
del regno cretese.
Teseo volle entrare nel labirinto per sfidare il Minotauro e il re non si
oppose. Dal labirinto non si usciva. Teseo andava incontro alla morte e
per libera scelta. La morte di Teseo in monito a chi osasse penetrare
negli abissi della reggia. La morte di Teseo come trofeo. Impossibile
sfidare le occulte forze sotterranee. La morte di Teseo come limite
invalicabile contro cui si frange l'umana presunzione. La morte di Teseo
tesa a rafforzare il potere reale perché nell'invincibilità del Minotauro
si specchiava quella di Minosse.
Primavera inoltrata con l'isola coperta di fiori variopinti. Aria
resinosa, salmastra e profumosa di ginestre. Lungo i sentieri verso la
reggia ed a ridosso di banchine portuali, filari di oleandri bianchi e
rosa. Sui muraglioni della reggia i rampicanti con foglie iridescenti,
smosse dalla brezza. Cinguettio di uccelli con rondini taglianti
l'azzurrità, squittendo.
Davanti al labirinto stava Arianna, secondogenita figlia di Minosse, dolce
e bella. Ebbe capelli neri, sciolti sulle spalle e sguardo intenso, con
arcuate ciglia e pelle bruna. Alta più del normale, almeno quanto Teseo e
labbra carnose, come la regina egizia. Quanto il Minotauro fu deforme
tanto Arianna fu bella, con corpo come Venere. Stava nell'androne del
labirinto per sorvegliarne l'entrata. Attrazione reciproca. I due come si
videro si piacquero e fecero all'amore. Teseo giacendole accanto, ebbe
incubi notturni. Arianna lo svegliò ed al lume di una torcia, disse:
"Teseo, ti ho svegliato perché parlavi in sonno. Facevi il nome del mostro
in labirinto. Dicevi: il Minotauro è la morte…Dicevi: Minosse - Minotauro…poi
dicevi altre cose che non capivo."
"Un incubo."
"Ti dimenavi e rantolavi. Mi sono spaventata."
Teseo confessò:
"Sono qui perché devo uccidere il Minotauro e liberare la mia gente dal
terribile tributo dei nove fanciulli e fanciulle in pasto al mostro."
"Potresti ucciderlo, ammesso che esista. Però non usciresti mai dal
labirinto."
"Perché pensi che il Minotauro non esiste?"
"Non l'ho mai visto. Ignoro cosa veramente il labirinto celi."
"Devo comunque andare. Domani all'alba entrerò nel labirinto armato di
spada."
"Nessuno è mai uscito vivo da lì."
"Gli dei mi proteggeranno."
"Voglio aiutarti. Ti do un lungo filo da sbrogliare mentre ti addentri
nella rete di cunicoli, anfratti e sale. Compiuta la missione, potrai
tornare indietro, seguendo il filo. Come la mente segue i lacci della
ragione, così non ti smarrirai connesso a questo filo, il filo
dell'amore."
L'alba aprì ali con rosee piume. Teseo entrò con circospezione nel
labirinto. Aveva dato un ultimo bacio alla sposa e legato alla cintura
l'estremità del filo. Era entrato nella rete di cunicoli armato di spada.
Per quanto vagasse non trovò il mostro. In una vasta sala circolare con
volta a cupola, illuminata da feritoie poste in alto, per davvero c'era
dietro ad una specie di ara una creatura mostruosa con testa di bue e
corpo umano, ma era una statua, sia pur enorme. La scultura in pietra
misurava oltre i dieci metri in altezza. Un idolo da temere ed adorare. Un
simbolo segreto che Minosse custodiva nei sottosuoli della reggia. La
stessa statua oggetto di preghiere che Pasifae e Minosse tenevano dietro i
troni della reggia. Tornò a sera seguendo il filo. Trovò Arianna in
apprensione ad aspettarlo. Teseo disse:
"Arianna, mia dolce sposa, lì dentro non c'è nessuno. Per quanto abbia
girovagato non ho incontrato il mostro."
"Lo sospettavo."
"C'era una grande statua con corpo umano e testa di toro. Una statua, non
un mostro in carne ed ossa. E' una statua identica a quella che tiene
Minosse e Pasifae alle spalle del trono e alla quale rivolgono preghiere."
"Una duplice statua. Una alla luce del sole ed una interrata in scuro
labirinto. Quella che si trova nel labirinto sta dietro un'ara. Sospetto
che sull'ara siano stati immolati i fanciulli e le fanciulle ateniesi. Tuo
padre Minosse e tua madre Pasifae compiono sacrifici umani."
"Sospettavo anche questo. Un anno fa circa vidi delle guardie con il
seguito di sacerdoti e cortigiani accompagnare per davvero nove fanciulli
ed altrettante fanciulle nel labirinto. Poi fui allontanata e non capii
bene cosa stesse accadendo. Dopo un po' vidi che si avviava nel labirinto
anche mio padre Minosse e mia madre Pasifae."
"Forse il vero mostro non è il Minotauro, ma Minosse tuo padre."
"Perché dici questo?"
"Perché sull'ara davanti alla statua nel labirinto c'erano quelle macchie
di sangue. Sacrifici umani. Capisci?"
"Mostri sanguinari. Mio padre a mia madre sarebbero mostri sanguinari?"
"Lo fanno per il potere."
"Per essere temuti?"
"La religione è mista a fantasia. Usata a fini politici, la religione è
potere."
"Se è così, provo orrore nel vederli. Portami via con te, ti prego."
"Voglio vederci chiaro. Domani mattina voglio parlare con tuo padre e tua
madre."
"Ti uccideranno e forse uccideranno anche me."
"Non credo mi uccidano. Venere mi protegge e tutti sanno che sono
invincibile."
Teseo non disse ad Arianna del piano che stava attuando teso a rovesciare
la monarchia cretese.
La notte Teseo ed Arianna si amarono. Fecero l'amore con la furia dei
verdi anni. Al crepuscolo dell'alba Teseo accese una fiaccola e l'agitò in
alto. Era il segnale convenuto per mettere in allerta i suoi. Subito dopo
Teseo accompagnò Arianna al porto e la fece salire sulla nave dicendole di
aspettarlo. Si avviò di nuovo alla reggia. Monosse e Pasifae lo attesero
nella sala del trono, seduti sugli aurei scranni. Teseo disse loro:
"Re e regina di Creta, ho visto la statua….la statua nel labirinto. Ero
venuto qui per liberare i nove fanciulli e fanciulle dati in tributo dagli
Ateniesi, miei concittadini. Sospetto per loro una fine atroce."
Minosse era impassibile e muto, seduto sul trono di oro e diamanti. Parlò
Pasifae:
"Sei uscito vivo del labirinto. Di certo Venere continua a proteggerti."
"Ho visto il Minotauro, ma è una statua."
"Hai scoperto la verità."
Teseo la interruppe e disse:
"Non tutta la verità."
"Quale sarebbe il resto di questa verità'?"
"Perché fate sacrifici umani? Quale crudele dio venerate?"
"Dunque tu pretendi di conoscere tutta la verità?"
Pasifae guardò l'impassibile volto di Minosse al suo fianco, poi disse:
"Teseo, tu devi morire."
"Prima di morire voglio conoscere la verità."
"La verità non si nega a chi è stato condannato a morte."
"Cosa c'è di mostruoso qui nella reggia."
"I nove fanciulli e fanciulle sono stati cresciuti fino all'avvento della
pubertà. Li tenevamo nascosti sotto continua sorveglianza nei giardini
della reggia. All'avvento della pubertà ce li siamo divisi. I ragazzi
hanno fatto orgia con me e le ragazze con mio marito Minosse. Alla fine li
abbiamo condotti in catene nel labirinto ed al cospetto di nobili e
sacerdoti li abbiamo sacrificati al Minotauro, il dio di questo regno. Il
Minotauro è l'altra faccia di Ade, la Morte."
"Il vostro potere si basa sul sangue. Orge e sangue. Sangue e Morte."
"Tu adesso sai ed adesso muori."
"Il simbolo del vostro potere è un mostro famelico e crudele, ma è solo un
simbolo."
La regina aveva fatto segno agli astanti nascosti dietro le colonne di
trafiggere Teseo con frecce e lance. Grande fu la sorpresa quando Pasifae
vide che era circondata da nemici, tutti Ateniesi. Le guardie del re
trucidate giacevano nelle sale attigue. C'era stato un blitz ben riuscito.
Teseo era arrivato con due navi. Una delle quali aveva circumnavigato
l'isola, sbarcando nella notte schiere di Ateniesi armati. Al segnale di
Teseo gli Ateniesi avevano trucidato i soldati della reggia. Alcuni di
loro avevano indossato armature cretesi per ingannare re e regina. Pasifae
terrorizzata tremava. Si era aggrappata a Minosse che al tocco era
precipitato con un tonfo sul pavimento pugnalato alle spalle. Teseo
afferrò Pasifae per i capelli, la trascinò per terra e davanti alla statua
del Minotauro la decapitò mostrando la testa recisa al popolo
nell'antistante piazza. I Cretesi fuggirono inorriditi. Trionfanti, Teseo
e i suoi si avviarono alle navi. Arianna seguì Teseo in Grecia.
La porta
Tornava da pensionato a visitare il luogo avito. Aveva scelto di proposito
un orario fuori mano, quando la struttura era semideserta. Fuori dal
gioco, voleva evitare il dialogo con chi era rimasto in servizio ed
esercitava a pieno titolo quel potere accademico sua esclusiva prerogativa
pochi mesi prima. Era stato il direttore del dipartimento al culmine di
una carriera universitaria folgorante. Un temuto barone della medicina con
appoggi in politica e in magistratura. Aveva mandato in cattedra chi
voleva ed aveva piazzato i suoi nei posti chiave dell'università
partenopea e altrove. Dietro di lui una fitta ragnatela di oscure
connivenze. Un puzzle stravagante dove alla fine ogni tessera se ne andava
ad occupare il posto esatto assegnatole dal grande mosaicista. Gioco
cinico e baro. Ma era un gioco? Sì lo era a condizione di considerare la
vita intera un gioco dove o si fotte o si è sfottuti.
Logico che con l'andata in pensione avesse avuto un crollo psicologico.
Era scontroso e chiuso. Nessuno lo cercava più se non di rado. Non era più
il centro delle accademiche aspirazioni, il punto di riferimento per
vincere un concorso universitario, il faro per una carriera sicura in
ateneo. Per scrupolo, qualcuno dei discepoli piazzati in cattedra gli
telefonava. Parole di rito:
"Professore, come sta? Come va la vita da pensionato?"
Sapeva che gli ex non contano un ix. Non aveva più agganci. Dopo il suo
ritiro era scoppiata la guerra baronale di successione: riunioni segrete,
combutte, tentativi di agganci coi politici.
Con incontenibile trepidazione rivisitava i luoghi frequentati in modo
continuativo dal secondo anno di medicina. Da ragazzo imberbe ci veniva
già col padre, professore di anatomia. L'aria chiusa del lungo corridoio e
quella acre dei laboratori era nel suo sangue.
L'ultimo giorno come da tradizione, c'era stata la gran festa di commiato
con mezza università invitata: rettore, pro- rettore, presidi, direttori,
oltre al personale del dipartimento. Biblioteca e aula magna trasformate
l'una a deposito di bibite e pasticcini e l'altra a sala di ricevimento
invitati con le guantiere colme di dolciumi, rustici, confetti; bottiglie
di aranciata, coca cola e spumante poggiate alla rinfusa sulla grande
cattedra. Gli invitati sedevano negli scranni riservarti agli studenti per
ascoltare il discorso di rito. Al termine dell'orazione - definita dai
maligni, orazione funebre - tutti si sarebbero avvicinati per salutarlo ed
augurargli una lunga vita da pensionato. L'ambiente stravolto e le cataste
di vecchi volumi negli scaffali laterali a muti spettatori.
Il prof. Carlo Celano fece il breve discorso di encomio e di commiato in
onore del barone uscente.
"Domani il prof. Andrea Nelli ci lascia per aver raggiunto l'età
pensionabile. Mancherà a tutti noi che lo amiamo e lo stimiamo anche se ci
auguriamo che venga spesso ad onorarci della sua presenza e ci continui a
dare i suoi indispensabili consigli…
Il risultato della sua incessante e fervida attività lavorativa è
sbalorditiva: oltre cinquecento pubblicazioni scientifiche, dieci suoi
allievi che hanno raggiunto la Cattedra universitaria come ordinari, ed
altri sedici quella di associato. Le sue ricerche scientifiche spaziano in
tutto il campo della morfologia, dall'anatomia macroscopica all'anatomia
microscopica, all'istologia, all'istochimica, all'immunoistochimica,
all'endocrinologia, all'embriologia ed alla ultrastruttura. Il prof.
Andrea Nelli ha sempre considerato l'insegnamento una missione da compiere
con impegno, serietà, zelo, passione ed umiltà. Alla sua attività
didattica ed alla sua intensa attività di ricerca ha dato il meglio di
sé…."
Il prof. Giordana accovacciato nel suo scranno, ritenuto dagli altri un
dissidente moderato, disse a bassa voce ad un collega:
"Lodi auto referenziali. Si lodano tra loro."
"Chi prenderà il suo posto ed il suo potere?"
" Non si sa ancora. Dicono che aspettano le decisioni del Presidente della
regione."
"Io non li sopporto. Vado via. Questi qui non esistono come individui,
esistono come branco."
"Un branco di iene."
"Ciao, ci vediamo dopo."
"Non capisco perché ci sei venuto."
"Mi hanno invitato. Ci sono venuto come te, per farmi vedere che sono
presente…per evitare che si pensi che sono fuori dal…branco."
"Come faccio io, per quieto vivere. Ciao. Anch'io tra poco vado via."
Da pensionato adesso, vedeva il dipartimento con distacco e nella vera
luce: un lungo corridoio con in fondo la biblioteca e il suo ex ufficio
con la porta chiusa. Nel versante sinistro i laboratori. Poteva essere un
corridoio d'albergo o la corsia di un ospedale. Tutto era silenzioso,
anonimo e in penombra. Una volta l'edificio era stato un convento e in
alcuni punti era rimasta la vecchia struttura come il chiostro interno
delimitato da un massiccio colonnato e i lunghi corridoi in semioscurità.
Il dipartimento dove l'ex barone era stato il direttore occupava tutto il
terzo piano dello stabile. Sul lato occidentale c'era la fila delle camere
per il personale docente e non docente. Una grossa finestra per ogni
stanza catturava il sole declinante nello zenit e allungava smagliature di
luce sulle scrivanie, sulle mensole piene di estratti e sugli armadietti.
Nella prima stanza a sinistra dell'entrata, c'era il tavolo nel cui
tiretto era conservato il registro per le prenotazioni agli esami degli
studenti del quinto anno. C'era una mensola di marmo, un becco bunsen per
il caffè del mattino, le sedie su cui sedersi e fare quattro chiacchiere
sorbendo caffè prima di iniziare la giornata lavorativa per modo di dire.
Secondo la diceria degli studenti, l'unica a lavorare in quel dipartimento
era la macchinetta del caffè.
Lo assalirono i ricordi in quello scialbo declino della vita. La sua
camera di barone della medicina era in fondo, prima della libreria, la più
capiente con due finestre anziché una. Al centro una grossa scrivania e
verso la finestra di fronte all'ingresso, un tavolino con tre divani
riservati agli ospiti di riguardo. Due telefoni sulla massiccia scrivania
di noce e nel lato opposto alle finestre, le scansie per i libri e gli
estratti delle ricerche pubblicati su riviste nazionali ed internazionali.
Prima del pensionamento coi fondi strutturali, aveva fatto cambiare la
vecchia porta con maniglie sghembe ed installare una corazzata con
rifiniture in laminato ciliegio, maniglia dorata "Gardena" (design di
Klaus Hartman).
Entrato in dipartimento il bidello Giovanni anche lui prossimo alla
pensione, lo aveva salutato calorosamente e con il dovuto rispetto:
"Direttore. Che sorpresa! Prego."
Gli aveva porto la mano moscia e aveva risposto sforzandosi di sorridere:
"Come andiamo?"
"Bene. E voi?"
"Abbastanza bene."
Era stato lui a farlo assumere una trentina di anni prima. Avevano
trascorso in quelle stanze quasi una vita. Il bidello era davvero
contento. Sembrava il vecchio cane Argo alla vista di Ulisse ritornato
alla sua Itaca. Gli mancava solo la coda da scodinzolare. Subito gli aveva
confidato:
"Direttore, quando c'eravate voi, era un'altra cosa. Dopo che siete andato
via, qui non si capisce più niente."
"In che senso?"
"E' una continua guerra."
"Capisco."
"Tutti contro tutti. Solo lei li metteva a tacere e manteneva l'ordine."
"Capisco."
"Direttore, ma lei capita in un orario fuori mano. C'è solo qualche
assistente che fa ricerche in laboratorio. Verso le sedici anch'io vado
via."
"Lo so. Volete che non lo sappia? Ci ho passato una vita qui dentro."
"Come mai siete venuto? Avevate appuntamento? Scusate se ve lo chiedo."
"Passavo di qui per caso e sono salito su in dipartimento. Sono stato come
da una calamita."
"Vi preparo il caffè."
"Bravo. Io mi avvio verso la biblioteca. Voglio dare uno sguardo alle
riviste."
Non sapeva neanche lui perché voleva andare in biblioteca. Una scusa per
attraversare da solo il lungo corridoio. In fondo vide la porta chiusa del
suo ufficio. Una volta un via vai di gente attraversava il vano di quella
porta e lui dietro la scrivania ad impartire direttive.
Rivide eventi del passato. Era stato all'apice di una cupola di potere
pazientemente eretta. Aveva manovrato tutti i concorsi universitari del
suo raggruppamento decidendo chi doveva vincerli. La sua volontà era stata
legge.
Sessantacinquenne, s'era fatta una nuova amante. Era venuta da lui dietro
appuntamento. Era una bella donna, fresca sposata. L'aveva ricevuta nel
suo studio e fatta accomodare sulla poltroncina riservata agli ospiti di
riguardo. Aveva belle cosce, slanciata e zizze toste come piacevano a lui.
Nel vedersela parata davanti, gli era salita una melliflua fiamma partita
da sotto le pudende. Ciò accadeva con le donne che davvero lo attraevano.
Aveva accavallato le cosce comodamente seduta di fronte a lui e aveva
detto:
"Professore, sono l'assistente del prof. Giardino che è mio zio da parte
di mia madre. Avete parlato di me per telefono…stamattina, così mi ha
detto mio zio…"
"Sì, ho detto a vostro zio che potevate venire da me questo pomeriggio
alle 16, cosa che avete fatto con puntualità."
"Ecco, vengo a proposito del prossimo concorso ad associato…"
La donna lo sguardo ammiccante, si era sporta verso di lui che le ammirava
le cosce. Aveva una gonna coi bordi quattro dita sopra le ginocchia. Le
calze nere velate, irresistibili.
"Professore, che ne pensa? Posso presentarmi al prossimo concorso? Avrei
pochi titoli in verità."
"Lei è giovane perciò ha pochi titoli".
Questa frase del barone poteva significare: signora, aspetti ancora alcuni
anni. Maturi altri titoli e poi si faccia avanti. Poteva però essere un
semplice complimento per la sua bellezza e giovinezza. La donna si chinò
ancora di più verso di lui azzardandosi ad appoggiare il braccio sui
calzoni con la mano in prossimità delle brache.
"Professore, la ringrazio del complimento. Ho in cantiere numerose
ricerche che potrò meglio espletare quando avrò la tranquillità che solo
un posto di professore di ruolo può dare…Lei lo sa…mi capisce…"
Non aveva ritirato il braccio da sopra la sua coscia. Con calma le aveva
detto:
"Signora, facciamo così. Venga domani alla stessa ora e mi porti il suo
curriculum con gli estratti delle sue pubblicazioni scientifiche."
Aveva tatticamente rinviato gli amplessi. La giovane donna era bella e gli
piaceva da morire. Aveva fatto breccia nel suo cuore, ma preferiva
aspettare. Meglio rinviare di un giorno gli approcci sessuali. Non era più
giovane e con la verga a comando. Verso le 15,30 avrebbe preso una
compressa di Viagra aspettando l'arrivo della donna per le 16,00. Col
Viagra non c'erano problemi.
Quel pomeriggio, la donna aveva giustapposto sul tavolino il curriculum e
gli altri titoli. Lui era corso a chiudere a doppio mandato la porta e si
era slacciato le brache. Gli aveva fatto un immediato pompino.
Il secondo giorno, il barone aveva preso un afrodisiaco più potente con
l'integrazione di steroidi e vitamine. Si sentiva il formicolio ai
testicoli e i muscoli col tono di un ventenne o quasi.
Appena arrivata, era stata lei a chiudere a chiave la porta lanciandogli
uno sguardo da complice. Lui che aveva già perso la testa, si era subito
messo a frugarla sotto il vestito, passando la mano tra le cosce.
Abbassando lo sguardo le aveva visto lo slip nero merlettato e la
sottoveste…Le aveva aperto la camicia di seta e slacciato il reggiseno…
Lei gemeva e gli baciava il lembo dell'orecchio. Le agguantò una tetta.
Era turgida. Ci si attaccò come un neonato avido di latte. Prese a
baciarla e a leccarla sul collo sbavando come un cane. Le succhiò il
labbro come si gusta una prugna matura. Soffocò i gemiti di lei con un
bacio. Le strappò via il vestito e le sfilò giù le calze. Cosce nude,
pallide ginocchia, carne calda. La tirò su dalla poltrona, le tirò via le
mutande e glielo ficcò dentro con la furia di un mandrillo.
" Andrea" disse "Oh, Andrea!"
Gli piacque che lo chiamava per nome. In mezzo alle cosce aveva una
matassa intricata di peli. Le grandi labbra vulvari inumidite e
lubrificate alla meglio.
Se la fece in piedi, ma mica stando fermi. Scopavano per tutta la stanza.
Glielo ficcava e rificcava in corpo. Ribaltavano le sedie e avevano fatto
cadere la lampada. L'aveva stesa sulla scrivania mentre masse di libri
rovinavano sul pavimento. Grugnì come una scrofa in calore.
"Oh, Andrea!"
Fu percorsa da un brivido da capo a piedi, poi da un altro, come una
bestia sull'altare del sacrificio. Vedendola sfibrata, come fuori di sé,
come smarrita - o forse fingeva - glielo spinse più su che potette: una
furia. La donna tramortita, al colmo della goduria. Lui rinculò
leggermente e glielo spinse di nuovo dentro con rinnovata forza. Dava
colpi d'ariete e a lei ballava la testa come un burattino pazzo. Proruppe
l'ondata di sperma. Da anni non se ne faceva una così. A momenti moriva.
Il povero cuore a martellargli dentro. Quella donna meritava senz'altro di
vincere il concorso. Sarebbe stata la sua amante per alcuni anni. Per lui
bastavano. Alla sua età era già troppo. Coito ergo sum. Quella lì faceva
ciò che la donna fa da milioni di anni: la puttana. Avrebbero dovuto per
davvero liberalizzare il mercato per le donne spregiudicate che non si
vergognano a vendersi. Coito ergo sum, appunto.
Ricacciò l'onda dei ricordi. Stava per poggiare la mano sulla maniglia di
quella che era stata per anni la porta del suo studio privato. Un atto
involontario. Come se si fosse scordato che era pensionato. Dal fondo del
corridoio Giovanni il bidello lo chiamò riportandolo alla realtà:
"Professore, la porta è chiusa a chiave. Quando il nuovo direttore è via
chiude sempre quella porta a chiave. Venite, il caffè, sta salendo."
L'ex barone lasciò scivolare la mano dalla maniglia e tornò sui suoi
passi. Se avesse superato la soglia dei novant'anni, come un suo amico gli
avrebbe dato noia persino il cuore a batteria. A letto appoggiato
l'orecchio al cuscino non avrebbe sentito più tic toc, ma solo il soffio
del pacemaker: sciuf sciuf.
Una voce misteriosa come se gli dicesse in un orecchio:
"Su, coraggio, la vita inizia ora. Solo ora inizia la vera vita."
Gladiatori
Maledetto sia colui che uccise mio marito. Era alto e forte e tutti i
duelli nell'arena vinse, tranne l'ultimo fasullo. Vedova e con tre figli
impuberi devo sopravvivere.
(anonimo del III° secolo dopo Cristo).
L'affresco mostrava un gladiatore ai tempi dell'antica Roma, con maschera
di ferro, elmo, corazza e il gladio stretto nella destra. Dietro
l'armatura un'esistenza anonima.
La notte ebbi un incubo. L'anfiteatro pieno di gente urlante. Il
convergere degli occhi su di me nell'arena. Sugli spalti non c'erano
persone, ma un soggetto nuovo: la massa che levò un urlo atroce acclamante
l'inizio delle ostilità. Ero io a lottare in un duello all'ultimo sangue.
L'imperatore si levò sul palco e fece cadere nell'arena il fazzoletto
bianco.
AVE CAESAR MORITURI TE SALUTANT.
Ci fu un nuovo orrendo urlo animalesco e noi due gladiatori stringemmo i
ferri pronti alla lotta estrema. Grazie alla possanza fisica avevo vinto
sempre uccidendo i miei rivali. Però in quel duello, mi sentii fiacco.
Forse il caldo, forse gli avversi dei. I primi colpi furono possenti, sia
i miei che i suoi. Schivò il mio fendente. Il silenzio panico
dell'anfiteatro riempito dai metallici fragori delle armi cozzate contro
gli scudi. Lottava con un tridente in una mano e nell'altra una piccola
ascia. Avevo solo la daga, l'unica arma di cui mi fidassi e di cui ero
insuperabile.
Era un barbaro del nord e avrei dovuto aspettarmelo. In un attimo di
distrazione, mentre il sudore mi colava sugli occhi, lanciò con un rapido
guizzo l'ascia colpendomi alla fronte. Caddi in un tonfo. Non era ferita
mortale perché il colpo era stato attutito dall'elmo, ma stavo a terra
tramortito e con la faccia insanguinata. Con un balzo ferino mi si avventò
contro e mi puntò al collo il tridente. Sotto la forca del vincitore udii
di nuovo la massa. Un unico urlo acclamò la sua vittoria e la mia morte.
L'urlo feroce fu assordante e sentii il tridente penetrarmi in petto.
Gridai forte per la fitta lacerante e vomitai sangue. Il mio grido
disperato assorbito dal clamore della folla. Negli estremi rantoli pensai
a mia moglie ed ai tre figli lasciati soli ed inermi. Poi il silenzio ed
il buio della morte.
Nel Limbo un'ombra disse: per sempre ci saranno spettatori sugli spalti e
i gladiatori nella rena.
La chiesa gotica
Sopra il promontorio di Sperlonga a sud di Roma si trova la mia villa
circondata da un vasto giardino che dalla strada sovrastante si prolunga
giù verso il litorale. La costruzione è nascosta da alti pini, alberelli
di limoni e siepi di rose e magnolie. Una lunga scalinata di oltre un
centinaio di scalini porta all'ingresso. Questa scalinata in mattoni
rossi, scende serpeggiando tra alberi e fiori, fiancheggiata da un
muretto, sul quale si alternano lampioncini stile Liberty e vecchie statue
di dei pagani l'ultima della quale, quella di fronte al portone,
rappresenta ADE, il dio dell'oltretomba..
La statua ha un forte impeto, uno slancio a muoversi nel momento in cui
vibra in giù un pugnale stretto in mano. Il dorso e le gambe protese
obliquamente in avanti. L'altra mano è portata sulle labbra come a
nascondere la propria identità. Mia moglie vi lasciava spesso la sua
borsetta appesa sul braccio che stringeva il pugnale in segno di
noncuranza e passando davanti alla statua faceva sberleffi. Nella pittura
vascolare ADE è rappresentato, quando lo è, con la testa girata dall'altra
parte, come se non fosse avesse una precisa fisionomia. Tutte queste prove
in negativo concorrono a formare un'immagine precisa di ADE: l'immagine di
un vuoto, di un'interiorità o profondità che è sconosciuta. Ade non è
un'assenza, è una presenza nascosta, una pienezza invisibile
Fredda e limpida giornata di fine febbraio. Passeggiavo con un libro in
mano e proprio ai piedi della statua che rappresentava ADE raccolsi
qualcosa che sembrava una foto. Di certo l'aveva persa mia moglie dalla
borsa che spesso appendeva all'avambraccio della statua. La foto a colori
era grande come metà foglio A4 e quando vidi di che si trattava, dovetti
appoggiarmi alla scultura quasi a chiedere coraggio per non svenire. C'era
mia moglie in quella foro abbracciata ad un uomo. Dietro lo sfondo di una
chiesa gotica in restauro. Mia moglie aveva un amante. Il cuore a
martellarmi e il respiro affannoso. La costruzione alle loro spalle doveva
essere per forza la chiesa della Sant.ma Annunziata, a Castel Volturno, in
provincia di Caserta. Proprio la mia ditta aveva vinto la gara per curarne
restauro. L'uomo mi sembrava di conoscerlo. Mi sforzai di ricordare: era
il giovane sindaco di quel paese. Con chi si ama non si hanno segreti. Una
parte della sua vita dunque mi era oscura, come la luna che nasconde alla
terra il lato buio.
Con la mano tremante composi il suo numero di telefonino. Era partita per
un viaggio la sera prima. Non c'era linea. Non so come, ma svenni. Mi
raccolse il cameriere che mi adagiò sul letto di casa dove rinvenni. Il
dottore disse che dovevo riposare e mi fece una siringa di calmante. Disse
di richiamarlo per il pomeriggio. Se era il caso mi avrebbero dovuto
ricoverare. Dormii. Ebbi un incubo. Ero in una nebbia infuocata da cui
emerse un essere che mi sovrastava e di cui non riuscivo a vederne il
volto. Ci fu un urlo disperato di chi sta per soccombere. La nebbia
ardente si diradava e vidi l'uomo privo di volto che vibrava una pugnalata
nel petto di lei. Marina, mia moglie, cadeva trafitta dalla lama lucente
che l'essere senza volto brandiva. Mi svegliai sconvolto. Ero tutto
sudato.
Il guerriero del sogno era Ade il dio della morte. Non persi tempo e
contro le raccomandazioni dei miei inservienti mi vestii e corsi con la
macchina in provincia di Caserta, dove c'è la chiesa gotica della Sant.ma
Annunziata.
Lasciai l'autostrada all'altezza di Caserta Nord e raggiunsi la Domiziana,
uno stradone che si prolunga a nord in direzione di Roma e a sud, verso
Napoli e Pozzuoli.
Dopo una mezz'ora ero sulla Domiziana. Ai bordi della carreggiata
nonostante il freddo, gruppetti di ragazze di colore, extracomunitarie a
offrire sesso a pagamento. Seguii le indicazioni stradali. Ci vollero
ancora dieci minuti prima di arrivare. Si levava forte vento polveroso.
Presi alla fine per un viottolo di campagna e fermai la macchina in una
radura. In lontananza vidi la massa grigia della cattedrale costruita
dagli Angioini. Taglienti lame di sole tra nubi.
Mi avviai a piedi per un viottolo scosceso. Dopo una ventina di metri fui
nei pressi della cattedrale con le mura circondate da folti siepai e
rampicanti. Da qualche parte scorreva un rumoroso corso d'acqua.
La chiesa gotica costruita con pietre di taglio, sorgeva nel mezzo della
radura e si elevava verso il cielo nuvoloso con la sua mole spettrale. Le
due torri e il campanile avevano le sommità dirute. I frantumi delle
antiche torri e del campanile erano caduti torno torno al muraglione
perimetrale coprendo di calcinacci folti siepai. I rampicanti
s'allungavano da dentro le siepi come dita lungo le fiancate
dell'edificio. Alcuni rottami delle torri erano stati ammucchiati in un
lato, non lontano dalla vegetazione che nascondeva il corso d'acqua
nell'attesa forse, dei restauri della Sovrintendenza. Altissime cuspidi,
torrette, guglie slanciate, frontoni ad ogiva e pinnacoli triangolari
adornavano le fiancate. Il portone di legno era scardinato ed infradiciato
verso la base. Ai lati, il portale era adorno di sculture di santi. Al di
sopra dell'arcata del portale il rosone anch'esso in disfacimento. Entrai
scostando i battenti del portone. La chiesa era stata abbandonata al suo
destino. Non c'erano guardiani, né sigilli. Del resto non c'era più niente
da rubare.
La chiesa era stata risparmiata dai bombardamenti dell'ultima guerra e fu
utilizzata come deposito di viveri per l'esercito americano dopo lo sbarco
di Anzio. Dopo la guerra, la costruzione in stato di grave abbandono,
passò al demanio dello Stato che avviò lentissime procedure di restauro.
In sostanza non si fece alcun restauro tranne una rete metallica di
recinzione, in più parti tagliata ed arrugginita. Sarebbe toccato alla mia
ditta ristrutturare l'intero edificio. Sarebbero passati anni prima che il
restauro fosse completato. Quel posto solitario, non sorvegliato dai
vigili e dalla polizia, era di notte uno dei punti in cui le puttane si
davano appuntamento coi clienti. C'erano vecchi materassi per terra
serviti per fare sesso a pagamento. Debole luce penetrava dai lunghi
finestroni privi di vetrata. Il pavimento era stato quasi interamente
distrutto e ai piedi delle colonne della navata centrale erano cresciuti
cespi di erbacce. Lì mia moglie si era baciata con quell'uomo.
Al sommo delle ardite ogive e sotto le volte a crociera c'erano nidi di
rondini. La chiesa, a tre navate, lunghissima. La profondità poteva
superare i cento metri. L'altezza poteva raggiungerne cinquanta. La navata
centrale era delimitata da una filiera di altissime colonne terminanti in
capitelli decorati a fiori e fogliami.
Le navate laterali contenevano cripte con antichi sarcofagi frantumati.
C'erano nicchie vuote. Mi avviai in fondo alla chiesa dov'era rimasto un
simulacro di altare circondato da una pila di colonnine ancora in piedi,
che formavano la balaustra. Osservavo ogni particolare nella ricerca
d'indizi. Che ci faceva mia moglie lì dentro?
La giornata volgeva a termine: ombre sotto le arcate, tra le colonne,
negli angoli bui, dietro l'altare e sarcofagi. Le ombre salivano in alto
in densa nebbia brumosa. Verso l'altare oscurità densa. Su una delle
colonne striscia di sangue aggrumato. Poteva averla lasciata una puttana
aggredita. Per terra una siringa di un drogato.
Qualcosa mi tratteneva. Vento ululante apriva e chiudeva con forza il
portone infradiciato. Dalle altissime finestre entravano foglie e polvere.
Su una colonna contigua, nuova striscia di sangue aggrumato. C'era un
tanfo come di carne morta. Annusai come un segugio. Accesi l'accendino e
osservai per terra. Su mattonelle del pavimento residuale nei pressi della
balausta dell'altare, macchie di sangue. L'istinto mi disse di controllare
dietro l'altare. Le ombre ormai dense m'impedivano la vista dei
particolari. Proprio lì puzza di carne marcia. Vidi delle tavole
accatastate per terra. Vecchie tavole di legno tarlate frammiste a
calcinacci. Accesi l'accendino e con l'altra mano ne sollevai una.
Sbucarono le dita di una mano pendula su un pezzo di braccio obliquo.
Mi appoggiai con le spalle all'altare. Ansia devastante. Il cuore mi
martellava, mi mancò il respiro. Tra le ombre sconvolgenti il pericolo.
Manti neri, enormi, piovuti dall'alto si posavano a terra in funesti
vapori.
Qualcosa ondeggiò che il vento urlava incessante. Qualcosa tra cupe crepe.
E la mano pendula appena visibile nell'oscurità. Silenzio. Ombre
inquietanti avvolgenti l'arto privo di vita. Fuori da qualche parte, il
vento fluttuava furioso. Oscurità pressante.
Tra brume la sagoma enorme di un essere demoniaco starmi di fronte. Il
fantasma di un uomo gigantesco vestito di nero, modellato da cupi
mantelli.
Il fantasma stringeva in una mano un pugnale. Ero terrificato e non avevo
la forza di muovermi, né di gridare. Mi accorsi della presenza di sagome
nere che annusavano e frugavano col muso per terra. Ero privo di forze e
di volontà, ma mi sforzai di guardare nella fitta penombra. Erano tre
cani. Mi stavano vicino e rovistavano il pavimento, grattando con le zampe
la terra. Gli animali si agitarono e guairono intorno alla mano pendula.
Uno dei cani mi annusò. Ringhiò contro di me, mostrando i denti canini.
Con un guizzo mi azzannò ad un braccio e mi trascinò a terra senza
lasciare la presa. Non ebbi la minima forza di reagire. Udii infine una
voce nella semi oscurità e vidi avvicinarsi fasci di luce. Una delle pile
fu fatta convergere sulla mia faccia. La sagoma di un uomo si avvicinò, mi
fissò per un poco. Era l'ispettore di polizia accorso sul posto.
Il pastore tedesco lasciò la presa dietro il comando di qualcuno.
L'ispettore mi chiese:
"Lei chi è, che ci fai qui?"
Finalmente capii anche se non vedevo: la polizia. Alcuni mi sollevarono.
L'attacco di panico stava scomparendo e con esso le minacciose ombre.
Dissi:
"Lì sotto dove fiutano i cani, c'è un cadavere."
Alla luce di potenti torce fotoelettriche estrassero da quel buco il
cadavere di lei: Marina. Era stata uccisa poche ore prima dal pugnale del
suo amante che aveva confessato il delitto e si era costituito alla
polizia. Mia moglie voleva troncare la relazione. Per questo lui l'aveva
uccisa. Quello doveva essere il loro ultimo incontro. Invece lui non aveva
accettato che lei lo lasciasse.
La polizia dopo i dovuti accertamenti mi mise in libertà.
Ritornato in villa, fissai a lungo la statua di ADE. Il pugnale che
brandiva era macchiato di sangue. Fui certo: era stato ADE, il dio
invisibile, il dio della Morte che in un modo o nell'altro aveva diretto
la volontà dell'assassino a pugnalare mia moglie. |