Racconti di Maria Campeggio


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Salve! Sono della provincia di Lecce (esattamente di Parabita, un paese di 10000 abitanti), ho 37 anni e sono single. Pur essendo musicista e avendo conseguito due Lauree al Conservatorio, la mia grande passione è stata sempre scrivere: poesie e, ultimamente anche favole e aforismi. Amo di conseguenza leggere, in modo particolare narrativa e psicologia. Tra gli altri interessi, mi diverto a fare un po' di giardinaggio.
Un caloroso saluto a tutti coloro che scrivono sul sito e, qualora lo vogliate, potete contattarmi: mi farà piacere! Maria Campeggio.
E-mail: campmary@libero.it


Leggi le poesie di Maria

Favole…cattive

Invidia
C'era un tempo una matrigna…."Allora sarà cattiva?", starà pensando qualcuno…No, questa favola è…al contrario!
Lidia era rimasta vedova con la sua unica figlia e quella dell'uomo che aveva sposato in seconde nozze. Le bambine si chiamavano rispettivamente Anna e Lea ed erano quasi coetanee; Lidia le amava entrambe e non c'era regalo fatto ad Anna che non venisse fatto anche a Lea, perché tra le due non esisteva per lei disparità alcuna. Dopotutto aveva cresciuto Lea fin da piccola e le voleva un bene grande pur non avendola partorita. Le bambine andavano d'accordo, tranne qualche piccolo litigio che, si sa, tra sorelle succede.
Quando però diventarono adolescenti, Lea cominciò a provare per la sorellastra una sorta di invidia morbosa. Anna era di statura normale, ma snella e con lunghi capelli neri, invece Lea era piuttosto bassa e proprio non sopportava i suoi capelli rossi. Inoltre si era accorta che Anna era ammirata dagli uomini, mentre lei nessuno la degnava di un solo sguardo. Finalmente tra i tanti corteggiatori Anna ne scelse uno e si fidanzò. "Accidenti a lei", pensò la sorellastra, "quel giovane piace molto anche a me"; e qui si scatenò una gelosia indicibile, che però Lea molto furbescamente riusciva a celare.
Un pomeriggio che il fidanzato di Anna era andato a trovarla, Lea disse alla matrigna che sarebbe uscita a fare una passeggiata; aveva bisogno di allontanarsi per risparmiarsi la rabbia di vederli insieme. Nel parco poco distante dalla loro abitazione, vide una vecchina che era caduta a terra e non riusciva a rialzarsi; prontamente Lea la soccorse e la vecchina si rivolse a lei dicendole:
- Oh che cara ragazza. Per ricambiare la gentilezza, cosa posso fare per te?
Lea ne approfittò per sfogarsi e le confidò ciò che la tormentava. E la vecchina:
- Capiti bene, mia cara. Io sono una strega e mi chiamo Mandù. Sono vecchia come vedi, ma ancora qualche potere ce l'ho. Ecco qui questo grappolo d'uva - e nel dire ciò, tirò fuori dalla tasca della gonna un grappolo d'uva in cristallo - io posso comandargli quello che voglio, staccandone un chicco per ogni ordine che dò, il quale poi però ricresce sempre. Cosa vuoi che gli comandi?
La ragazza non ebbe esitazioni e disse:
- Voglio che il fidanzato di mia sorella muoia.
Ma la vecchia strega scandalizzata, le rispose:
- No cara, non posso chiedere questo. Io posso aiutare te; non chiederò mai il male per un essere umano. Potrei per esempio accontentarti se vuoi che un uomo ti corteggi.
Ma Lea aveva il cuore di ferro e la faccia di bronzo: non gli interessava essere corteggiata, ma voleva che l'uomo che lei desiderava morisse piuttosto che vederlo nelle braccia della sorella. Le venne allora un'idea: invece di chiedere favori a quella vecchia "befana" che non voleva nemmeno fare ciò che lei desiderava, poteva impossessarsi dell'oggetto magico e realizzare in tal modo ogni desiderio. Così le disse:
- Buona strega, va bene. Ma andiamo a sederci su quel muretto e potremo parlare con più calma. Lascia che ti aiuti; appoggiati a me e dammi il bastone, perché finche ci sono io tu non ne hai bisogno.
Ahimè! La strega si fidò, ma Lea appena ebbe il bastone in mano le diede un colpo in testa e la poveretta cadde a terra. Poi le sottrasse il grappolo d'uva e, curandosi di non essere stata vista da nessuno, scappò via. Tornata a casa, strappò un chicco dicendo: "Voglio che accada una disgrazia al fidanzato della mia sorellastra". Non intese risposta, ma qualche giorno dopo qualcuno bussò alla porta della sua casa chiedendo di Anna, alla quale comunicò che il fidanzato purtroppo era morto cadendo da cavallo. Anna si disperò, consolata dalla madre e naturalmente dalla stessa Lea che, ottima attrice, finse un grande dolore.
Passarono alcuni mesi e Anna si deperiva ogni giorno di più, finchè Lidia decise di chiedere aiuto a una cugina che cercava qualche ragazza che tenesse compagnia alla sua unica figlia, quando lei si assentava per lavoro, essendo anch'essa rimasta vedova e dovendo mantenere sé stessa e la figliola. Lidia disse alla parente:
- Forse rendersi utile farà bene ad Anna. Se starà ancora a casa non farà altro che pensare al suo amato, venuto a mancare così improvvisamente e tragicamente.
La cugina non ebbe remore ad accettare; ma quando lo seppe Lea, cominciò a provare una grande rabbia: no, Anna era tristissima e nel dolore doveva rimanere. Così, preso il grappolo d'uva che teneva nascosto nel cassetto del mobile che aveva in camera, lo implorò di far accadere qualcosa che impedisse ad Anna di allontanarsi da casa. E la ragazza si ammalò. Dovendo la cugina partire qualche giorno dopo, non potè aspettare e dovette chiamare un'altra persona che tenesse compagnia alla figlia. Intanto Anna soffriva nel corpo e nell'animo; Lidia e quell'infame della sorellastra le erano sempre accanto, ma nessun medico sapeva dire che cosa avesse. Un giorno però Lidia decise di consultare uno specialista famoso e quegli le disse:
- Signora, io non so dirle cosa abbia sua figlia. Ma la trovò molto depressa e credo che uscire da questa casa e andare un po' in campagna non potrebbe che farle bene.
Lidia decise di ascoltare il suggerimento del medico, il quale però, siccome la ragazza aveva la febbre alta, le disse:
- Prima però le darò qualcosa che le faccia passare la febbre.
E le prescrisse uno sciroppo da prendere mattina e sera. Quando se ne fu andato, Lea che aveva assistito alla visita medica, disse a Lidia:
- Madre non uscire tu, fai compagnia ad Anna; andrò io in farmacia a comprare lo sciroppo.
Povere donne che nutrivano tanta fiducia in lei! Lidia gliene fu grata; ma naturalmente quel demonio di Lea non andò a comprare lo sciroppo che serviva, bensì uno che faceva passare il mal di denti. Tornò a casa e lei stessa volle darne un cucchiaio ad Anna, dicendole amorevolmente:
- Su sorellina, tra qualche giorno starai meglio e andrai a fare un po' di villeggiatura. Là respirerai aria pulita e ti sentirai meglio; io naturalmente verrò a trovarti.
E Anna:
- Grazie Lea, sei molto cara!
Per strani casi che talvolta non si spiegano, la febbre di Anna, nonostante lo sciroppo non avesse alcun effetto antipiretico, passò ugualmente. Lea strinse i denti sputando bile, ma non lo diede a vedere; anzi fingendosi contenta, aiutò Lidia a preparare le valigie. Quando madre e figlia partirono per raggiungere la villa di campagna, Lea promise che la settimana successiva sarebbe andata a vedere come stava Anna e abbracciando forte quest'ultima, le disse affettuosamente:
- Ti porterò le arance del nostro giardino che a te piacciono. Quando starai bene le coglieremo di nuovo insieme.
Anna, spirito buono, ricambiò sinceramente l'abbraccio e partì con la madre. Intanto Lea sapeva bene cosa fare: avrebbe staccato un chicco dal grappolo d'uva e, tenendo in mano un'arancia (la più grossa), avrebbe chiesto che l'agrume diventasse velenoso e quindi letale; poi, una volta andata a trovare Lidia ed Anna, lei stessa lo avrebbe dato da mangiare alla sorella, ma, per non destare sospetti, doveva chiedere che il veleno agisse lentamente in modo che l'odiosa Anna se ne andasse dopo qualche giorno, senza una spiegazione logica.
La sua mente malvagia attuò parte del piano: colse le arance, staccò un chicco dal grappolo d'uva e chiese che il frutto divenisse velenoso; l'arancia divenne di un arancione più vivo e questo fu per Lea il segno che il suo desiderio era stato esaudito. Doveva solo aspettare qualche giorno e poi recarsi in campagna.
Ma intanto…che fine aveva fatto la strega? Questa si era ripresa quel giorno nel parco, ma il colpo in testa le aveva procurato un'amnesia; fortunatamente però un giorno, visto che le giornate erano belle, vi si recò nuovamente per fare una passeggiata. Mentre camminava la sua mente venne come fulminata: ora sì che ricordava! E sapeva anche dove era finito il suo prezioso grappolo che non trovava più. Ma certo lei non sapeva il nome della ragazza che l'aveva colpita e derubata; quindi si informò da gente che era lì anch'essa a godersi il giorno di sole:
- Conoscete una ragazza coi capelli rossi, così e cosà….
Ed ebbe le informazioni che voleva. La strega possedeva nel suo giardino una vasca d'acqua con dei pesci; bastava avvicinarsi e dire il nome della persona di cui si voleva sapere qualcosa e l'acqua limpida mostrava tutto. Figuratevi come rimase la strega quando nello specchio d'acqua vide tutto ciò che aveva combinato Lea. Ora bisognava rimediare, e la vecchia corse subito nel luogo in cui si trovavano Lidia e Lea. Quando Lidia udì il racconto, dapprima non le credette:
- Vecchia megera - la insultò - come osi dire ciò della persona che ho cresciuto come fosse mia figlia?
Ma la strega insisteva e non voleva andarsene. Era una strega buona e voleva aiutare le due sprovvedute donne. Quando Lidia minacciò di metterla alla porta, a lei venne un'idea:
- Sentite signora - le disse - il giorno in cui aspettate la vostra figliastra io verrò qui e mi nasconderò dietro la tenda della camera di vostra figlia. Lea, come vi ho spiegato già, le sta portando delle arance di cui una avvelenata; naturalmente le porgerà quella. Vostra figlia non deve far altro che sbucciarla e invitare Lea a dividerla con lei; ovviamente la meschina rifiuterà, ma Anna dovrà insistere molto dicendo che se non la potrà dividere con la sorella, non metterà in bocca un solo spicchio di quel frutto. Sono sicura che mai e poi mai Lea assaggerà l'agrume; a questo punto io uscirò da dietro la tenda e la smaschererò. Facciamo questa prova: è per il vostro bene e per quello della vostra adorata figliola. E poi anche io voglio vendetta per ciò che quella disgraziata mi ha fatto.
Mandù era stata convincente e madre e figlia accettarono, non senza dubbi.
La sera stessa Lea mandò un biglietto indirizzato a Lidia in cui diceva che sarebbe andata a trovarle la mattina dopo; questa avvertì subito la strega.
Il piano di Lea era chiaro: eliminare definitivamente quella smorfiosa di Anna; in tal modo niente più invidia che non la faceva riposare la notte, e in più alla morte di Lidia tutti i beni del padre sarebbero spettati a lei. Ma non sapeva che un altro piano, altrettanto ben predisposto l'avrebbe incastrata.
Infatti quando fu in camera di Anna, dopo averle chiesto fingendosi mortificata come stava, le disse che le aveva portato delle arance e dalla cesta ne tirò fuori una, porgendola alla sorella. Anna, come convenuto con la madre e Mandù la supplicò di consumarla insieme a lei, ma Lea rifiutò adducendo varie scuse; disse che si sentiva sazia, che aveva bruciori di stomaco, che voleva che il frutto lo mangiasse tutto quanto l'amata sorella…A questo punto, da dietro la tenda venne fuori Mandù e Lea quando la vide, dovette aggrapparsi alla spalliera del letto per non svenire. La strega inferocita disse:
- Quel giorno nel parco venni derubata del mio magico grappolo di cristallo; quante ne hai combinate servendosi di esso, vipera! Ho visto tutto nella mia vasca d'acqua che riflette tutto ciò che ha fatto e fa una persona di cui si sa il nome. Meno male che ho fatto in tempo ad avvertire Lidia ed Anna: povera anima! Volevi ammazzarla, essere spregevole!
Lea cercò di negare, dicendo che Mandù era una strega e come tale cattiva e poi era vecchia e quindi arteriosclerotica. Lidia, cercando di mantenere il controllo, disse alla figliastra:
- Dunque non hai problemi a mangiare l'arancia. Fallo e dimostrerai la tua innocenza.
Negli occhi di Lea si vide il terrore: era in trappola. Proprio non sapeva che dire o che fare. Questo bastò a madre e figlia per capire che Mandù aveva ragione. Allora Lea, senza neanche scomporsi, confessò: l'invidia e la gelosia per la sorellastra che considerava più bella di lei, l'avevano indotta ad agire così. Quale dolore e meraviglia per madre e figlia! Mentre Anna per lo stupore era ammutolita, Lidia si riprese poco dopo e disse:
- Ingrata! Ti ho cresciuta come se fossi stata nel mio ventre e tua sorella ti ha voluto bene come me. Come hai potuto arrivare a tanto?
Le uscivano di bocca le parole, mentre la testa le rimbombava tutta. Dopodiché Anna scoppiò in lacrime, dicendo:
- Madre, mandala via, non la voglio più vedere…per favore…per favore!
E Lidia, rivolgendosi alla strega, con voce severa le disse:
- Strega buona, tu sia benedetta per averci aperto gli occhi! Ora, ti prego, porta con te questo essere schifoso; che essa non compaia più davanti a me o a mia figlia. Fanne tu quello che vuoi e noi cercheremo di fare come se non fosse mai esistita.
Lea non mostrò alcun segno di pentimento, mentre la strega si pronunciava:
- Verrà a casa mia e mi farà da serva, obbedendo perennemente ai miei comandi. E, presa la ragazza per un braccio, la condusse con sé, mentre Lidia ed Anna si abbracciavano.
Morale:
A volte alla cattiveria, bisogna reagire con la cattiveria…D'altra parte così va il mondo da quando è nato.   

Favole…cattive

Giada, la Fata non innamorata
Questa è la storia di Giada
Fata non innamorata
che avendo rifiutato Krifau¹
foglia e scoglio diventò,
ma Candida aiutò la sua protetta
e fu così che venne fatta vendetta.
C'era un tempo e c'è ancora, visto che alcuni esseri sono immortali, una Fata bella da togliere il fiato. Veniva corteggiata da tanti Maghi, però non voleva metter su famiglia. Diceva spesso alla madre:
- Le fate non si sposano. Devono girare il mondo per aiutare gli esseri umani con le loro magie.
Il suo nome era Giada e al collo aveva sempre appesa, come portafortuna, la giada imperiale, pietra di grande valore dal colore verde smeraldo regalatole da sua madre pochi giorni dopo la nascita.
Il Mago Krifau, orgogliosissimo e feroce, si era invaghito di lei ed era disposto a tutto pur di conquistarla. Avvenne dunque che a una festa tra Fate e Maghi, la nostra protagonista aveva persino rifiutato di ballare con lui e quando lui aveva insistito con aria di superiorità, la Fata si era inviperita e gli aveva gettato addosso quel poco di vino rosso che le era rimasto nel bicchiere e che stava gustando. Krifau, ovviamente arrabbiatissimo aveva incassato senza proferir parola, ma la sera stessa si era recato dal vecchio Mago Telet e gli aveva raccontato l'accaduto. L'amico Mago, potentissimo nelle magie, volendo dimostrare che nonostante la vecchiaia ancora era valente, aveva preso una piccola bacchetta tra le migliaia che aveva e dandola a Krifau aveva detto:
- Falle toccare questa e la tua bella si trasformerà in foglia.
Al che Krifau aveva risposto, digrignando i denti giallognoli:
- Oh vendetta, già ti assaporo!
Il giorno dopo si era recato nei pressi della casa di Giada e appena lei era uscita, le aveva detto mieloso:
- Giada, dolcissima creatura, accetta questo mio dono.
Giada pensò che era proprio un gran testardo; in più non si fidava di lui, perciò aveva tirato dritto, senza nemmeno guardarlo. Ma egli le disse mieloso:
- E' solo un dono che ti farà diventare più brava nelle tue magie. Non chiedo nulla, prendilo in segno di riconciliazione; vedi, io non ti porto alcun rancore.
E Giada c'era cascata. Appena toccata la bacchetta, era diventata una foglia di edera e si era ritrovata in un grande giardino pieno di verde. Krifau, con i suoi occhi da demonio, aveva gioito ed era scappato per andare da Telet e sapere da lui dove si trovava Giada e questi, facendogli guardare nel suo grande Libro degli Eventi, glielo aveva fatto vedere. Ora Giada, foglia d'edera, tremava al vento appesa a uno stelo.
Quel giardino circondava una fattoria; il figlio del fattore aveva appena quindici anni e già amoreggiava con una sua coetanea. Il ragazzo ogni pomeriggio prima di incontrarsi con la sua fidanzatina, strappava per lei uno stelo di edera e glielo portava.
Così fece anche quel pomeriggio, ma subito dopo lo strappo, udì una fievole voce femminile che diceva:
- Io so che mi hai strappata per la tua innamorata. E siccome il tuo è un gesto d'amore, appena le darai lo stelo io ti dirò chi sono.
Il ragazzo guardò tutte le foglie e poi ne vide una che sbatteva forte. Pensò: "Possibile che io abbia sentito parlare una foglia? Eppure a tavola non bevo vino". Tuttavia si avviò verso il luogo dell'incontro con la ragazza e quando la vide le diede un bacio e poi l'edera come sempre; ed ecco che quella foglia nelle mani di lei, cadde a terra e si trasformò…in una Fata! Giada raccontò a entrambi la sua vicenda e poi ringraziò il ragazzo e fuggì via per andare a tranquillizzare sua madre.
Ma la cattiveria, si sa, non ha limiti. Nel Libro degli Eventi Telet aveva visto tutto e mandò a chiamare Krifau. Questi inferocito, chiese al vecchio un'altra magia. Telet pensò molto e poi disse:
- La trasformerò in scoglio. Ma devi sempre usare la bacchetta che ti darò.
Krifau replicò:
- Impossibile! Ormai non si fiderà più di me.
E Telet:
- Metti la bacchetta alla finestra della sua casa. Quando si affaccerà la toccherà.
E Giada felice di esser tornata a casa, la mattina dopo aprì la finestra e vide la bacchetta. Essendo una Fata, venne attratta da essa e la prese in mano. Subito si ritrovò scoglio in mezzo al mare. L'acqua si confuse con le sue lacrime. Chi l'avrebbe liberata ora? Ci voleva un altro atto d'amore; ma chi sarebbe passato di là e che cosa avrebbe fatto di amorevole?
Giada per sua fortuna conosceva anche lei una Fata più anziana, di cui era la pupilla. Il suo nome era Candida e anche lei possedeva il Libro degli Eventi. In realtà da molto tempo non lo guardava, perché suo figlio si era ammalato e lei lo aveva assistito senza curarsi di niente altro. Quando però egli si riprese, la madre pensò di andare a guardare il Libro, dimenticato nella libreria e tutto impolverato. Quando vide Giada trasformata in scoglio, pianse assai; poi studiò un modo per liberarla: ci voleva per l'appunto un gesto d'affetto. Candida sapeva che tutti i giorni un pescatore di sua conoscenza si recava con la barca in mare; andò a bussare a casa di costui che viveva con la moglie e il suo bimbo di appena un anno. Candida lo salutò, accolta festosamente dal pescatore, al quale si rivolse così:
- Ti piacerebbe dare a tua moglie un vestito nuovo da far invidia alle sue amiche?
Egli fu molto franco e le rispose:
- Tu Fata Candida metti il dito nella piaga. Sai bene che siamo poveri e mia moglie porta gli stessi vestiti da tre anni. Io non posso comprarle nemmeno una sciarpetta da mettere quando fa freddo.
La Fata gli spiegò il suo piano. Doveva recarsi in mare insieme alla moglie il giorno dopo con vestiti stupendi che lei stessa gli avrebbe fornito. Avrebbe dovuto fermare la barca sullo scoglio in mezzo al mare sfumato di rosa e salire su esso; poi avrebbe regalato alla moglie quei vestiti, segno del suo amore per lei. E lo scoglio alla vista di ciò, sarebbe diventato ciò che era prima: una deliziosa Fata.
Il pescatore accettò e riferì tutto alla moglie, che fu anche lei ben contenta di ricevere dei vestiti nuovi. Giada, una volta liberata dalla terribile magia, corse subito stavolta da Candida e le si buttò quasi in ginocchio per ringraziarla. Candida le disse che doveva assolutamente liberarsi di Krifau; quel meschino avrebbe continuato a perseguitarla altrimenti, ma come fare? Bisogna sapere che anche i Maghi sono immortali, a meno che non vengono anch'essi trasformati in esseri mortali. E Candida, dopo essersi lambiccato il cervello per molto tempo, esultante disse a Giada:
- Bene, bene. Ci sono! Fa' in modo di incontrarlo e digli che accetti finalmente di diventare sua moglie, che quello che hai sofferto ti ha convinta. Dagli questo anello - e la Fata Candida le mostrò un grosso anello in argento - dicendogli che tu per prima glielo metterai al dito, se lui vuole essere il tuo sposo. L'anello trasformerà il caro Krifau in un fagiano e lo porterà nel bosco qui vicino. Mio figlio va sempre a caccia e siccome questo uccello avrà una bianca macchia sulla testa, sarà facile riconoscerlo; appena lo vedrà mio figlio, gli sparerà e tu ti sarai definitivamente liberata di lui.
La nostra Giada non se lo fece ripetere due volte. Accettò, perché convinta che il crudele Mago le avrebbe reso la vita insopportabile. Candida prima di darle l'anello lo immerse in un liquido nero e pronunciò la formula magica.
Giada poi lo prese e se ne tornò a casa. La sera dopo aspettò il Mago nei pressi di casa sua; egli quando la vide sbigottì: che cosa ci faceva là? Non doveva essere in mezzo al mare? La Fata se ne accorse, ma fece finta di nulla, gli disse ciò che Candida le aveva consigliato e gli mostrò l'anello. Krifau sorrise, anche se il suo era più un ghigno di soddisfazione. Porse la mano senza nemmeno rispondere, per dimostrare che accettava l'anello il quale avrebbe dovuto suggellare il fidanzamento. Ma, ahi per lui, quando Giada glielo infilò, Krifau si ritrovò tra i cespugli nel bosco trasformato in fagiano. Quando Giada corse dalla Fata Candida, lei aveva già aperto il suo Libro degli Eventi sul quale visto tutto. Diede dunque disposizioni al figlio, come aveva promesso alla sua pupilla.
Il Mago Telet, che nel frattempo si era ammalato, non aveva visto nulla e non aveva potuto intervenire. Invece il figlio della cara Candida andò a caccia qualche giorno dopo e cercò il fagiano con la macchia bianca sulla testa; lo vide tra i cespugli e lo uccise con un colpo di fucile, mentre Candida e Giada con il Libro degli Eventi aperto, assistevano a tutto. Il ragazzo era stato pregato dalla madre di non prendere il fagiano morto, ma di lasciarlo là; Candida aveva sentenziato:
- Chi ha il cuore velenoso ha anche carni velenose. La trasformazione e la morte non fanno cessare la cattiveria.
Giada, alla morte dell'uccello, si era sentita sollevata. Aveva abbracciato forte la sua protettrice ed era tornata dalla madre tutta contenta.
¹Nota: Krifau, leggi Krifò (alla francese)   

La principessa perfida
Questa è una favola dove c'è una principessa. "Beh", vi chiederete, "quante favole su principesse e regine sono state scritte!? Qual è la novità?". La novità è che finisce così…
Un re aveva un'unica figlia femmina, avuta dopo ben cinque maschi. La principessa era graziosa, ma così superba da rasentare il disprezzo per chiunque. Aveva sempre rifiutato qualsiasi matrimonio con i regnanti delle zone vicine e da un po' di tempo in qua si era messa in testa che avrebbe sposato chiunque avesse sostenuto e superato alcune prove, inventate da lei stessa. Il padre, a cui lei aveva esposto il suo piano, pur riluttante, avendola comunque sempre accontentata, non aveva esitato neppure un istante ad acconsentire.
A poche centinaia di chilometri dal paese della principessa viveva Biancospino, un giovane sveglio e deciso. Saputo che la sovrana si sarebbe sposata solo a determinate condizioni, decise di partire per andare a trovarla e conoscerla.
Un mattino dunque prese una barca e remò sul lago calmo e gelido. Poco oltre trovò sulla superficie dell'acqua un fiore bianco con un ramo dalle spine aguzze. "Oh", pensò, "un biancospino! Mi porterà fortuna". E lo prese; ma, subito una spina lo punse e dalla sua mano cominciarono ad uscire tre gocce di sangue e dall'acqua una voce flebile che sembrava provenire dall'oltretomba si pronunciò così:
"Tre gocce di sangue:
una per te
una per la principessa
e una per il re".
Biancospino cominciò ad aver paura. Chi aveva parlato? Incerto se tornare indietro o proseguire, notò sul fondo del lago un sacco enorme e la stessa voce che diceva:
"Biancospino pescalo tu
e poi va' avanti: orsù!"
E il ragazzo, abbandonato ogni timore, si gettò nell'acqua e tirò su il sacco, il quale era assai pesante.
Arrivato sull'altra sponda, vide tra i ciottoli nell'acqua una collana di perle. Si disse: "Questa la porterò alla principessa". Ma mentre pensava così, ancora una volta la voce dall'acqua si fece sentire:
"Raccogli il gioiello,
ti sarà utile anche quello".
Biancospino non se lo fece ripetere un'altra volta, prese la collana mentre ancora si chiedeva chi era che parlava.
Camminò per un bel pezzo, dopo aver lasciato la barca a riva, e arrivò in un paese dove c'era il mercato. Si avvicinò a un venditore, chiedendo la strada per il paese del re. L'uomo, anziano e dunque esperto della vita, lo guardò e gli disse:
- Ragazzo, vai per la figlia del re? Attento, è una creatura cattiva; chiede prove incredibili ai suoi pretendenti e se non le superano, muoiono vittime di queste stesse trappole diaboliche".
Biancospino gli rispose impavido:
- Buon vecchio, si vive una volta sola; voglio provare. Io non ho nessuno della famiglia e quindi se morissi, a chi dovrei arrecare dolore?"
Il vecchio non parlò più e si limitò a indicargli la strada.
Il giovane ringraziò e si incamminò verso il castello. Arrivato lì, chiese di farsi ricevere dalla principessa. Quando la vide era insieme a suo padre e gli sembrò bellissima, ma aveva lo sguardo perfido. Il buon vecchio aveva ragione! Lei gli disse subito altezzosa che avrebbe dovuto superare delle prove se voleva sposarla e fissò la prima per l'indomani mattina, alla presenza di tutta la corte del re.
Biancospino venne ospitato in una camera del castello. La notte, non potendo dormire, si ricordò del sacco e della collana di perle che aveva trovato nel lago e della voce che gli aveva suggerito di prenderli. Decise che li avrebbe portati con sé la mattina dopo.
Ed infatti il mattino seguente Biancospino seppe da un paggio che doveva condurlo nell'arena, dove avrebbe dovuto domare il leone più feroce che il re possedesse nel suo giardino zoologico. L'arena era colma di gente; era accorso quasi tutto il paese e naturalmente, vi era la corte tutta al completo. Il ragazzo vi entrò tremante e vide la bestia avvicinarsi piano; subito gli venne in mente il sacco che aveva sulle spalle, ma mentre lo apriva il leone gli aveva già azzannato una mano. Sangue scarlatto cadde a terra e Biancospino si ricordò della voce che aveva udito quando le spine del biancospino lo avevano punto: "Tre gocce: una per te…". Cercò rapidamente di liberarsi e intanto aprì il sacco: conteneva pezzi di carne. Chiaramente il ragazzo li gettò verso la bestia feroce che cominciò a cibarsene e la cosa stupefacente era che più sgravava quel sacco fatato e più carne ne usciva; infine il leone venne completamente sfamato. Biancospino cercò di avvicinarsi ad esso e questo, riconoscente per il lauto pasto, si fece persino accarezzare con grande giubilo della folla e dispetto della principessa che pensò: "Se questo ce la fa un'altra volta, sarò costretta a sposarlo anche se non mi piace. Non è che uno straccione venuto dalla campagna e io, la figlia del re, dovrei sposare un sempliciotto. Ma l'ho promesso a mio padre, purtroppo". Comunque fece buon viso a cattivo gioco e si congratulò con il ragazzo, a cui non sottrasse le sue lodi nemmeno il re.
"Bene, il leone non aveva mangiato Biancospino?", pensava adirata la sovrana, "sarebbe caduto forse nell'olio bollente".
E fu così che il giorno seguente Biancospino fu messo di nuovo alla prova: doveva camminare su una fune e arrivare dall'altra parte senza perdere l'equilibrio; se fosse caduto, giù vi era una grande vasca di olio bollente.
Il ragazzo aveva con sé la collana, che gli sarebbe servita. E infatti sapete che avvenne? Quando egli stava per cadere, la collana gli scivolò dalla tasca e cadde nell'olio, prosciugandolo tutto; e le dieci perle si trasformarono in dieci cuscini su cui cadde qualche secondo dopo Biancospino. La principessa per la rabbia si morse il labbro fortemente, tanto che cominciò a sanguinare e dovette tamponare col fazzoletto bianco che divenne a macche rosse. E Biancospino si ricordò ancora della profezia: "Tre gocce di sangue: una per te, una per la principessa…". Tuttavia essa, con voce alterata che non riuscì a nascondere, ebbe comunque per la seconda volta la forza di parlare, sforzandosi di sorridere; e disse:
- Bravo Biancospino! Sei stato eccezionale, perché nessuno prima d'ora c'era riuscito.
Il re intervenne, dicendo: "Ora mia figlia sarà tua sposa".
Ma…sorpresa! Il ragazzo fiero così parlò al re:
- Sire, vostra figlia è bellissima, ma io non la voglio come moglie. Ho voluto cimentarmi nelle prove per provare il mio coraggio; ma non voglio accanto una donna che chiede ai pretendenti di perdere la vita per lei. Questa è crudeltà e capriccio, l'amore è un'altra cosa.
La principessa stentò a credere alle sue orecchie. Quel sempliciotto osava rifiutarla! Stava per gettarsi su di lui veemente per schiaffeggiarlo, quando il padre la trattenne per un braccio; poi le disse severo:
- Figlia, il ragazzo ha ragione. Devi sposare un uomo che ti ami e che tu stessa ami intensamente. Perché pretendi che si rischi la vita per te? Forse coloro che sono caduti nell'olio bollente non erano degni del tuo amore? No, se qualcuno fosse sopravvissuto e ti avesse avuta in moglie, avresti potuto essere una sposa infelice, perché avresti conosciuto il suo coraggio e la sua fortuna, ma non il suo cuore.
La giovane sovrana si ostinava a dar torto al padre, urlando contro di lui. Perciò il re prese una decisione. Disse:
- Tu mi sei assai preziosa; ma osi mancarmi di rispetto e hai il cuore duro. Dunque ti allontanerò dal castello per un po' e ti manderò nel palazzo di campagna che fu di tua madre dove avrai modo di riflettere. Porterai con te le cose necessarie e vivrai da sola per tre mesi. Nessuno ti servirà, farai tutto da sola; la tua dama di compagnia verrà a trovarti una volta a settimana per portarti i viveri. Luce dei miei occhi, io soffrirò! Ma starai lontana fino a quando non ti sarai ammorbidito.
E dicendo così, il re preso dalla rabbia e dal dolore, si passò l'anello che aveva all'anulare della destra sulla guancia. Esso era di oro lavorato e quindi spigoloso e graffiò il viso del sovrano che cominciò a sanguinare. Ed ecco la goccia di sangue per il re. La voce del lago aveva detto: "Tre gocce di sangue: una per te, una per la principessa e una per il re".
Così fu. E Biancospino, a cui il re diede una sostanziosa ricompensa in denaro per il coraggio dimostrato, fece ritorno a casa sua.   

L'amore evitato
Lilla era sempre alla finestra della sua modesta casa che si affacciava su un vico stretto. Lo vedeva passare quasi tutti i giorni quel giovane uomo a cavallo con i capelli sulle spalle, gli occhi verdi e l'aria baldanzosa. Lilla si rendeva conto che, ammesso che l'avesse notata, tra loro non ci sarebbe mai potuto essere un matrimonio: egli era ricco, suo padre possedeva più della metà delle case di quel piccolo paese. Inoltre Lilla non era bella: aveva il viso largo, era grassoccia, gli occhi erano piccoli e non era più giovanissima.
Eppure un giorno, mentre il giovane il cui nome era Kylan, passeggiava sotto casa sua, Lilla ebbe il coraggio di salutarlo sventolando appena un fazzoletto. Egli le rispose con un sorriso; la stessa cosa accadde nei giorni seguenti, finchè una volta finalmente Lilla ebbe il coraggio di aprire la finestra e di dire:
- Buongiorno! Venite a prendere un infuso fatto da me?
Era infatti bravissima a preparare tali bevande con le erbe.
Kylan vedendola meglio, si rese conto che non gli piaceva affatto quella donna e gentilmente declinò l'invito. A casa si confidò col suo fedelissimo servo, Geo. Pur essendo più giovane di lui, questi lo spronò:
- Signore, non siete stato educato a non accettare. Domani, se vi inviterà, dite di sì.
Kylan pensò che quelle giovane stava cercando un buon partito, come si dice; ma lui non ci sarebbe cascato. Certo che avrebbe accettato l'invito, ma poi la cosa sarebbe finita lì. Così il giorno dopo fu lui stesso a invitare Lilla ad affacciarsi alla finestra con un gesto eloquente della mano e quando lei lo fece, le gridò:
- Se mi aprite accetto volentieri il vostro infuso, sempre se l'invito è ancora valido.
Lilla subito rientrò nelle stanze per aprire il portone: "Mio Dio", pensò quando gli fu davanti "da vicino è ancora più bello".
Così Kylan e Lilla bevvero e chiacchierarono nella cucina di lei; lui si accorse ancor meglio, guardandola da vicino, che era piuttosto brutta e per giunta rozza nei modi. La salutò ringraziandola e le disse che poi sarebbe ripassato un'altra volta.
Passarono alcuni mesi e Lilla non si dava pace. Perché Kylan non passava più da quella strada? Una mattina, andando a prendere l'acqua alla fontana, incontrò delle amiche che stavano chiacchierando e parlando di questo e quello, una di loro annunciò:
- Sapete che il figlio del nostro padrone si sposa?
Ci fu un gran vociare intorno e poi una signora più anziana disse:
- Dicono che lei venga da un paese vicino, il padre è anche lui proprietario terriero e la ragazza, molto più giovane del futuro marito, è bella, ma bella veramente.
A Lilla vennero le lacrime agli occhi. Tornò a casa e si mise a piangere: lei quel giovane lo desiderava davvero! Ma ormai che cosa poteva fare?
Passarono alcune settimane e Lilla piangeva e non mangiava quasi nulla. Il suo viso era diventato molto pallido. Una mattina si guardò allo specchio e pensò al suo Angelo custode a cui non aveva mai saputo dare un nome; eppure, fin da piccola, sua madre le aveva sempre detto che ognuno di noi ha il suo Angelo. Quasi interrogandolo o forse parlando a sé stessa, Lilla cominciò:
"Io l'amo, ma perché?
Eppure non è un re.
M' ha presa in un giorno
ma non fece ritorno;
e adesso che farò?
Lo lascerò andare o lo inseguirò?"
La sua stessa immagine sfocata le rispose:
"Aveva gli occhi verdi,
e principe non fu,
ma l'ami Lilla tu;
perciò cercarlo dovrai
chè forse tuo sarà
o l'altra sposerà".
Lilla allora si vestì e uscì di casa, non senza prima aver messo gran parte del suo corredo in una grande cesta. In città suonò alla porta di un grande palazzo e una signora riccamente vestita si affacciò alla finestra. La giovane donna le disse che era una conoscente del figlio Kylan e che voleva venderle delle lenzuola o delle tovaglie ricamate di buona manifattura, nell'imminenza del matrimonio. Ma la madre di Kylan intuì l'inganno; d'altra parte aveva saputo che il figlio si era recato da Lilla una volta e che questa non aveva occhi che per lui. Naturalmente non la voleva come nuora, poiché era povera e per giunta brutta; allora cerimoniosa, le disse che poteva entrare, ma le chiese di attendere solo qualche minuto perché la scalinata che la serva aveva appena lavato, era bagnata. In realtà, quella donna chiese alla serva di ungere la scala con una grande quantità di sapone, cosicché quando Lilla entrò un buon quarto d'ora dopo, scivolò già sui primi gradini.
Sconfitta se ne tornò a casa, ma testarda com'era ci riprovò il giorno dopo. Questa volta la madre di Kylan fece ungere la scala con olio d'oliva e la povera Lilla scivolò ancora.
Decise così di cambiare tattica. Una sera aspettò Kylan che rientrava a casa col fido Geo; sentì che ridevano e poi il servo diceva:
- Certo che se capitiamo ancora a casa di quella ricca vedova, stavolta le porteremo via anche la sottana.
E subito Kylan gli fece eco:
- Peccato che non abbia una figlia. Potrei fidanzarmi con lei, farmi dare la mia parte di dote e poi lasciarla la prima notte di nozze…ah, ah!
E qui non potè trattenere più le risa.
Lilla si chiese chi fosse veramente quell'uomo. Sicuramente un essere meschino! Dalla sua casa non mancava nulla dopo la visita, ma che cosa c'era da prendere? Lilla era povera e questo probabilmente era anche il motivo per cui Kylan non era più tornato.
Era un uomo senza scrupoli e senza cuore. Forse non amava nemmeno la fidanzata; amava solo sé stesso!
Quella sera la giovane fuggì via e non cercò più Kylan. Non si sa se trovò mai l'amore, ma credo proprio che con Kylan non sarebbe stata felice.   

Favola per bambini…e soprattutto per adulti

Il re superbo
In una città lontanissima e sconosciuta, viveva un tempo un giovane monarca. Il suo palazzo era immenso come il giardino che lo circondava e possedeva tanto di quell'oro che egli stesso non sapeva stimarne il valore preciso. Si chiamava Teofasto ed era molto molto superbo; anche per questo dominava da tiranno, disprezzando il popolo a cui aveva imposto tasse gravose e persino altri sovrani che si era inimicati col suo atteggiamento.
Una notte si scatenò un temporale e il re non riusciva a dormire; tuoni, lampi e vento lo infastidivano. Pensò dunque di uscire a fare una passeggiata nel suo giardino. Vi chiederete: una passeggiata con quel tempo? Ebbene, il re Teofasto era convinto di essere invincibile e onnipotente: qualche lampo e qualche tuono non l'avrebbero certo spaventato. Prese dunque una grande cappa, se la avvolse intorno al corpo per proteggersi dalla pioggia e uscì. Era buio e camminando nell'oscurità, il re non si accorse che aveva superato i confini del suo giardino, per ritrovarsi in un posto che non conosceva. Intanto la pioggia continuava a scrosciare e il temporale non cessava. Teofasto si guardò intorno smarrito. Poi vide per terra una grossa macchia lucente e si avvicinò, sembrava olio e per accertarsene ci mise dentro l'indice; ma, appena la toccò la macchia si estese e ne venne fuori una vecchina rugosa, curva e vestita di stracci, la quale disse: "Sire, vi stavo aspettando. Avete perso la strada, vero? Seguite le mie indicazioni e la ritroverete." Il re la guardò minaccioso e poi scoppiò a ridere: "Io non mi farò mai indicare la strada da una miserabile stracciona. Io sono il re di questa città, sono onnipotente. Aspetterò che cessi la pioggia e all'alba sono sicuro che saprò tornarmene da solo al castello." La vecchia rispose: "Va bene Maestà, come volete". E scomparve. Intanto la pioggia stava cessando e il re pensò di sdraiarsi a dormire sotto un albero, usando come coperta la sua cappa. Si svegliò quando il sole stava per sorgere e si diresse dalla parte doveva gli sembrava che fosse venuto la sera prima. Dopo qualche ora di cammino, arrivò ai cancelli del suo giardino, ma li trovò sbarrati e…il castello era scomparso. Impietrito per lo stupore, pensò almeno di chiamare qualche guardiano, ma il posto sembrava abbandonato da secoli. A questo punto sentì dietro di sé la voce rauca della vecchia che lo chiamava, si girò, e quando la vide dietro di sé, disse ferocemente: "Ma chi sei tu? Una strega? Hai fatto un incantesimo perché il castello sparisse?". La vecchia, senza scomporsi rispose: "Sire, io ero una donna bella e dotata di poteri magici, ma con un incantesimo malvagio fattomi da un'altra donna che aveva i miei stessi poteri ed era invidiosa della mia bellezza, fui ridotta così. Consultai allora una strega e lei mi disse che avrei potuto ritornare ad essere come prima, dando un aiuto a qualcuno che ne aveva bisogno. Ho avuto quest'occasione ieri sera, anche se voi avete rifiutato". Ma il re continuava ad essere altero e ostinato: "Brutta megera, io non ho bisogno di te; che cos'è mai questa fandonia dell'incantesimo? Siete brutta come la peste e per giunta bugiarda". Non aveva nemmeno terminato di parlar così che una nube di fumo avvolse la vecchia e sparì qualche minuto dopo, lasciando al suo posto una magnifica donna. Il re sbigottì, ma la donna si pronunciò così: "Vi avevo detto sire, che solo aiutando qualcuno sarei tornata ad essere quella di prima. Io vi ho proposto di indicarvi la strada per tornarvene a casa, dunque ho fatto ciò che dovevo; anche se voi con la vostra alterigia non avete accettato, io comunque sono stata liberata dall'incantesimo".
Teofasto allora, di fronte a questa dimostrazione, le credette. Poi cominciò a supplicarla di far riapparire il suo castello: "Perdonatemi, ma se mi accontenterete, io vi darò tutto l'oro che volete".
La donna disse: " Sire, dovevate accettare prima il mioaiuto . Ora, se volete far riapparire il vostro castello, dovrete dare prova di umiltà e pazienza". Teofasto, messo alle strette, decise di dare ascolto alla donna; dopotutto sull'incantesimo aveva detto la verità; dunque chiese: "Cosa dovrei fare?". La risposta fu: "Voi conoscete il re della città vicina. Andate da lui e chiedetegli delle stoffe". Il re sbalordito esclamò: "Perché? A cosa servirebbero? E poi io ho nelle mie sartorie i migliori tessuti che si siano mai visti; perché chiederli a lui, che per giunta è da anni il mio più acerrimo nemico?". La donna, mostrando un sorriso ironico, gli rispose: "Maestà, il castello non c'è più; ricordate? Voi non possedete più nulla. E non esistono nemmeno le scuderie per usare il cavallo. Dovrete raggiungere le città a piedi". Il re ebbe l'impressione di vivere un brutto sogno da cui si sarebbe prima o poi svegliato; invece ciò che gli stava accadendo, purtroppo per lui, era tutto vero. Non gli rimaneva che acconsentire a ciò che la donna gli proponeva. Sapeva la città da raggiungere era ad est e si diresse in quella direzione. Attraversò una sterpaglia, poi si trovò di fronte ad un arco piuttosto basso che appariva come un ingresso; sopra ad esso era scritto questo monito: "Piega la testa, tu che hai alta la cresta". Teofasto si piegò e passò attraverso l'arco che portava in un tunnel sempre basso, per cui egli fu costretto a percorrerlo sempre con le spalle curve. Dopo un'ora di cammino, si trovò nella città del re nemico. Si diresse verso il suo castello e si fece ricevere. Il re, il cui nome era Alceo, si meravigliò molto vedendolo, ma nascose la sua meraviglia; dunque, dopo i convenevoli, gli chiese incuriosito: "A che debbo la tua visita, Teofasto?". Questi rispose: "Avrei bisogno di tessuti di ogni genere: cotone, lino, lana, seta e quant'altro". Alceo scoppiò a ridere: "Sei venuto per prendermi in giro, Teofasto? Sei dunque partito dalla tua città per venire fin qui a chiedermi questo? Non è per caso un tranello per nuocermi? Guarda che le mie guardie sono sempre all'erta. Se nascondi un pugnale sotto il mantello, ti conviene non usarlo, altrimenti verresti subito catturato e ucciso". Teofasto raccontò ciò che gli era successo. Alceo sorrise ed esclamò: "Questa è una bugia. Vattene Teofasto! Non avrai ciò che vuoi; tu sei coperto d'oro fino alla punta dei capelli e vuoi farmi credere che non ci sono stoffe nel tuo maniero?". Teofasto insistette, dicendo che il suo maniero era scomparso; e allora Alceo, a cui non mancava la cattiveria, disse: "Se vuoi ciò che chiedi, passerai sei giorni nelle mie cucine tra gli sguatteri; farai tutto ciò che fanno loro. Dopotutto ogni cosa va guadagnata". Teofasto non si ribellò; quasi piangendo si piegò alla volontà del rivale e per un giorno intero lavò i piatti nelle cucine del re Alceo, mentre gli altri servi lo deridevano: "Un re che fa il servo a un altro re! Quando mai s'è visto? Dovete essere impazzito Maestà". Teofasto non rispondeva e piegava il capo, mentre non vedeva l'ora che quei giorni terminassero. Alla fine, ebbe finalmente da Alceo ciò che aveva chiesto.
Uscì dal castello del re nemico sotto il peso delle stoffe che portava sulle spalle e gli venne subito voglia di dormire; pensò che fosse perché non era abituato a lavorare tanto, quindi decise di deporre il carico e di stendersi sotto un albero. Ma al risveglio si trovò nella sua città, laddove aveva lasciato la donna. Ella vedendolo, esclamò: "Bene Maestà. Ora fate il giro della vostra città e distribuite i tessuti alle famiglie più povere, perché li usino per farne lenzuoli e coperte per il loro letto e vestiti per proteggersi dal freddo e per uscire decentemente vestiti nei giorni di festa". Il re Teofasto ormai era pronto a tutto; umiliarsi bussando alle porte dei suoi sudditi poveri, forse era l'ultimo scoglio da superare e poi finalmente avrebbe riavuto il suo palazzo reale. Ma, come indovinando il suo pensiero, la donna gli disse: "Sire, non prendete questo gesto come un'umiliazione, ma come un atto di carità verso chi per anni non avete considerato, perché la vostra prepotenza e presunzione vi rendevano egoista impedendovi di pensare alle difficoltà dei poveri del vostro regno". Teofasto allora andò in città, bussò alle porte di poveri disgraziati, vide la loro miseria e capì.
Tornato presso la sua dimora, non vi trovò più la donna, ma il castello era riapparso. Entrò e subito chiamò i suoi ministri per prendere i provvedimenti di ridurre le tasse e di distribuire ai più poveri della città il grano dei suoi granai. E così il re Teofasto, a partire da quel giorno, si sentì anche più sereno.
Morale: Chi è troppo superbo, prima o poi è costretto a piegare il capo.    

Massimamente
Quante massime e aforismi sono stati scritti e ancora se ne scrivono!
La mia forse è un'idea bizzarra: vorrei permettermi, anche di fronte ai "grandi", di commentare o, cosa più ardita, di appoggiare o dissentire, ovviamente traendo spunto dalla mia esperienza di vita. Spero che per i lettori, ciò possa fornire uno sprone per ulteriori riflessioni.
- Non esiste una chiave per la felicità. La porta è sempre aperta (Anonimo).
Siamo troppo ripiegati sui nostri problemi per comprenderlo. Oppure pensiamo che essere felici vuol dire avere denaro, prestigio e quant'altro? La felicità è sentirsi in sintonia col mondo.
- Nessuno può vincere senza che un altro perda (Seneca).
Mi collego a quanto detto prima. Possiamo vincere le nostre battaglie di ogni giorno, senza "pestare i piedi" a nessuno e spesso vincere vuol dire superare l'egoismo e la paura coltivando i rapporti interpersonali con fiducia.
- La mancanza di qualcosa che si desidera è una parte indispensabile della felicità (Bertrand Russell).
La mia "filosofia" contraddice quella del filosofo britannico. La felicità è la realizzazione dei desideri, che avvenga per caso o per nostro intervento non ha alcuna rilevanza. Qualcosa nella vita ci manca sempre, ma la mancanza è frustrazione, è tormento, è il non sentirsi realizzati, non può essere parte della felicità. Dunque mancanza e felicità sono due concetti antinomici.
- Le persone diventano veramente eccezionali quando cominciano a pensare di poter fare le cose. Credere in sé stessi è il primo segreto del successo (Norman Vincet Peale).
E pensare che sono le paure e la mancanza di autostima che spesso ci bloccano! Ma senza la fiducia in sé stessi non ce la faremo mai, accumuleremo solo fallimenti e questi porteranno delusioni che a loro volta sboccheranno in altri fallimenti: si chiama "circolo vizioso!"
- Il dovere ci fa fare le cose bene, l'amore in modo straordinario (Zig Ziglar).
Non può essere diversamente: l'amore è la spinta che muove il mondo…difficile trovarlo però!   

"Ultimo canto di Saffo"- G. Leopardi
Pregiudizi e ristrettezze economiche della famiglia, rigida e gretta, fecero di Giacomo un uomo infelice con una concezione della vita tragica e disperata e della Natura come indifferente alla sorte degli uomini destinati all'infelicità. Oggi l'avremmo definito un depresso, poiché secondo il pensiero leopardiano, il mondo tutto è infelicità e l'esistenza è vana e soccombente a una forza più grande che è la Natura nemica. Di fronte ad essa, egli ora si ribella e ora invece sublima il suo lamento in alte forme liriche, lui, caratterialmente introverso e fisicamente non bello, in definitiva un "escluso dalla vita".
Il destino di Giacomo sembra essere quello della poetessa Saffo, la quale secondo la leggenda sarebbe stata bruttissima e sentimentalmente infelice, anche se il filosofo Platone la definisce "Saffo la bella", e per un amore non ricambiato si sarebbe uccisa gettandosi da una rupe. Non è comune invece col poeta di Recanati, il sentimento nei confronti della Natura, poiché Saffo, cresciuta nel tiaso di Mitilene, centro di educazione riservato alle giovani nobili e consacrato ad Afrodite dea dell'Amore, vive in armonia con gli elementi naturali, attraverso cui si giunge a contemplare il divino. E Saffo scrive anche dei "notturni" in cui celebra la bellezza della Natura.
Tuttavia il Leopardi è l'interprete più famoso della leggenda di Saffo con la quale si identifica per la bruttezza e l'infelicità; e l'ultimo" grido" di Saffo prima di gettarsi dalla rupe è la disperazione del poeta stesso, la sua critica alla Natura che ha voluto imprigionare un'anima nobile e sensibile in un corpo repellente, incapace di suscitare desiderio.
Vi invito a leggere alcuni versi dell'"Ultimo canto di Saffo" del poeta di Recanati:
………
"Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l'empia
sorte non fenno…."
………

"Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
il ciel mi fosse e di fortuna il volto?"
………

" …..Incaute voci
spande il labbro: i destinati eventi
move arcano consiglio. Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor. Negletta prole
nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
de' celesti si posa. Oh cure, oh speme
de' più verd'anni!….."
………
"…..Ogni più lieto
giorno di nostra età primo s'invola".

Saffo si sente esclusa dalla divina bellezza del cielo stellato e della terra rorida, poiché a tale sorte feroce è destinata. La Natura la vuole amante disprezzata e quindi ferita.
Ma di che colpa si è macchiata prima di nascere? Questa è una sua domanda, che però rimane senza risposta.
E come potrebbe spiegarsi Saffo la ragione della sua sofferta esistenza, quando il destino umano è mistero, è voluto da "arcano consiglio", ossia da una mente impenetrabile? Solo gli dei lo sanno. Ovviamente qui dietro alla figura della protagonista, si nasconde il Leopardi stesso.
E così ogni giorno lieto è il primo ad andarsene, perché viviamo perennemente nel dolore.

"L'amore mi sconvolse
l'anima
come il vento dal monte
si getta sulle querce"
(Saffo)
L'amore che sconvolge l'animo umano sconvolse a tal punto la poetessa da gettarsi da una rupe (come vuole la leggenda), come il vento sulle querce; questi suoi versi sembrano quasi il presagio della sua fine.   

Favola
La cattiva fortuna
Un bravo giovane, alto e di aspetto gradevole, faceva il pescatore e abitava in un tugurio insieme con la sua famiglia; purtroppo per lui essendo molto povero, si era invaghito di una ragazza ricca, figlia di un mercante che aveva fatto fortuna fuori. Il suo nome era Caio, mentre lei si chiamava Diletta. Caio passava spesso davanti alla casa del mercante e un giorno trovò la ragazza che usciva di casa per fare la spesa; la fermò chiedendole se poteva accompagnarla e lei, guardandolo con i suoi occhi tristi, acconsentì. Parlarono a lungo, lui della sua miseria e quindi delle reti che a volte riportava a casa vuote, lei della solitudine in cui viveva poiché il padre non le permetteva di uscire quasi mai. Trovandosi in sintonia uno con l'altro, decisero di incontrarsi ancora fino a quando il giovane pensò di chiedere la ragazza come sposa.
"Mio padre non vorrà" rispose lei "egli per me vuole un marito che abbia soldi e terreni".
"Io ti voglio bene"incalzò lui "perciò tenterò".
La sera stessa si recò dal mercante che udita la richiesta, si arrabbiò moltissimo.
"Se fino ad ora è uscita per la spesa da sola" gridò "adesso la manderò fuori solo con la mia fedele serva. E tu fuori di qui! Come potrei accettare che mia figlia sposi un miserabile come te?"
Con la testa bassa e pieno d'ira repressa, il giovane andò via. Aveva sempre pensato che l'amore facesse miracoli e invece ora capiva che bisognava anche avere fortuna. Siccome era orgogliosissimo però, non voleva demordere. Tornò a casa e si confidò con la sorella, dicendole che doveva assolutamente raggiungere lo scopo. La sorella gli disse: "Domani andrò da una Maga di cui mi fido. Vedremo cosa può fare".
Quando la mattina dopo la donna si recò dalla Maga, questa prese un vaso di bronzo e un vaso di oro e poi le disse:
"Stasera chiedi a tuo fratello di cercare i vasi per il giardinetto che avete, dopo averli nascosti bene naturalmente. Se troverà prima quello di bronzo, rinuncerà al matrimonio; se invece troverà prima quello d'oro la fortuna continuerà ad aiutarlo".
Tornata a casa la donna, ancora prima di entrarvi, nascose bene i vasi nel giardinetto che dava sulla strada; poi, una volta entrata, raccontò tutto al fratello.
Caio rispose baldanzoso: "Va bene, andrò fuori a cercare i vasi".
Dopo qualche minuto rientrò mesto, avendo ritrovato per primo quello di bronzo. La sorella esclamò:
"Ahi, fratello mio! Sei stato sfortunato".
Ma Caio si riprese quasi subito. "Io debbo sposare Diletta, lei mi ama e non rinuncerò al mio sogno solo perché il vecchio si oppone".
"Ma come farai a trovare il denaro? Suo padre non accetta che la figlia sposi un uomo che vive di pesca e guadagna appena per poter sopravvivere".
"Andrò io stesso dalla Maga e le racconterò tutto. Stai tranquilla. Dimmi solo dove la posso trovare" rispose Caio.
La mattina dopo, avute le indicazioni giuste dalla sorella, il giovane si avviò verso la casa della Maga. Arrivato là, le raccontò l'accaduto e lei rispose dispiaciuta: "Eh, mio caro ragazzo! La fortuna o è cieca o aiuta chi vuole. Fa' un altro tentativo: alle spalle della mia abitazione vi sono due strade, una a destra e una a sinistra. Io non so dirti qual è quella giusta per te; quando uscirai, prendi la direzione che vuoi e speriamo che tu imbocchi la strada che potrebbe condurti alla soluzione del tuo problema".
Quando Caio si trovò dietro alla casa della buona Maga, non ci pensò nemmeno per un attimo; quasi come guidato da un istinto ignoto si diresse verso sinistra. Camminò per circa un chilometro e poi si trovò in un deserto sterminato: "Ahimè" pensò "devo aver sbagliato, la strada giusta era l'altra". Ma mentre pensava così, gli venne incontro un cammello che gli disse:
"Sali su di me e fidati". Il giovane lo accontentò, ma lungo il tragitto si scatenò una tremenda tempesta di sabbia ed egli venne scaraventato a terra e perse il cammello. Scoraggiatissimo, gridò:
"Ahi! La malasorte proprio mi perseguita!". E subito dopo cadde in un sonno profondo.
Era notte quando si svegliò e alcuni deserti, come si sa, di notte sono molto freddi. Caio si raggomitolò su sé stesso e stava per riaddormentarsi, pensando che forse quelle sarebbero state le ultime ore della sua vita, quando vide poco lontano delle luci. Si alzò e tremando si diresse da quella parte; avvicinandosi abbastanza perché era buio, si accorse che si trattava del palazzo di un sultano. Entrò furtivo nel suo giardino, ma venne scoperto dalle guardie che lo catturarono e lo portarono alla presenza del sovrano, accusandolo di essere penetrato nottetempo nel suo giardino per rubarvi i frutti. Caio ebbe paura, ma trovò il coraggio di difendersi:
"Io mi trovavo nel deserto e avevo un gran freddo gran sultano, quando ho visto da lontano una luce e mi sono avvicinato; ho capito che si trattava del vostro palazzo e volevo entrarvi per avere un aiuto perché mi sono perso. Vi giuro che non volevo approfittare dei vostri beni".
Il sultano, vedendolo tanto risoluto e sincero, gli si rivolse con aria paterna e gli parlò così:
"Ti credo buon giovane; e ora tranquillizzati, siedi qui e raccontami un po' di te".
Caio si sistemò su dei morbidi cuscini ai piedi del sovrano e gli raccontò la sua storia; intanto il suo ascoltatore aveva preso una mela e la mordeva ogni tanto mandando giù un boccone. Improvvisamente però un pezzetto gli andò di traverso e cominciò a soffocare; alcuni dignitari di corte si mossero verso il loro imperatore per aiutarlo, ma non sapevano come. Caio allora ebbe l'idea di aprirgli la bocca e con la mano tirargli via il pezzo di mela rimasto in gola; quando videro che ce l'aveva fatta, tutti tirarono un sospiro di sollievo e ancor più naturalmente il sultano, il quale una volta ripresosi, rivolgendosi con gratitudine al giovane Caio, gli disse:
"Tu sei stato il mio salvatore e perciò ti ringrazio molto. Non solo, ma voglio anche dimostrarti la mia gratitudine, dandoti accesso al mio harem, dove potrai scegliere una moglie per te".
Caio rifiutò prontamente:
"No, gran sultano. Io dopotutto ho fatto solo il mio dovere, quello di salvare la vita a un essere umano in pericolo e poi vi ho già detto della mia fidanzata; aspetto solo che la fortuna mi aiuti ad accumulare un po' di denaro e poi tornerò a chiedere la sua mano al padre".
Il sultano insistette, ma non convinse Caio; dunque, lievemente alterato, gli si rivolse dicendogli:
"Hai rifiutato un mio dono e su questo io non transigo. Perciò ti farò sostenere una prova: entrerai in un labirinto con questa pietra;" e così dicendo gli mostrò un citrino, gemma di eccezionale valore ricavata dal quarzo, "cerca di venirne fuori e se non ce la fai, chiedi aiuto a questa preziosa pietra. Nessuno in verità è mai uscito dal labirinto senza servirsi di essa e comunque sappi che quando ne verrai fuori col suo aiuto, sarai costretto ad accettare la mia proposta".
Caio non aveva scelta. Le guardie, dopo aver egli ricevuto il citrino, lo portarono fuori e lo calarono in una fossa del giardino del sultano; così egli si trovò in un labirinto. Vi girò per ore ed ore, ma per quanti sforzi facesse non riusciva a trovarvi l'uscita; era stanco veramente e quindi si arrese, fissò la grossa pietra sperando di essere soccorso. Essa cominciò a diventare sotto i suoi occhi sempre più lucida, fino a quando ne uscì una voce che diceva:
"Diletta pensava che l'avessi dimenticata
e da un altro uomo è stata corteggiata,
ora lo ama immensamente
e lui ricambia teneramente,
suo padre le nozze ha benedetto
perché il futuro genero è un mercante provetto
che come lui è stato fortunato
e tanti beni ha accumulato".
La rabbia e la tristezza di Caio ve le lascio immaginare. Egli disse debolmente al citrino, dato che la stanchezza e lo sdegno lo avevano prostrato:
"Almeno da qui fammi uscire,
perché finisca il mio patire".
Dopo aver detto ciò, si ritrovò nel giardino del sultano, dove le guardie lo aspettavano. Al cospetto del sultano, Caio fece "buon viso a cattivo gioco" e gli disse che, avendo vinto lui, accettava di prendersi in moglie una delle sue donne.
Entrato nell'harem, nessuna donna lo colpì subito. Poi una di esse, forse la meno bella ma dal viso gentile, gli porse una coppa di vino e Caio l'accettò sorridendole. Non si sa come né perché (ma c'è una ragione spesso per certe scelte della vita?) chiese al sultano di poterla avere in moglie e quest'ultimo lo accontentò felice.
Il matrimonio avvenne a corte, dove vennero chiamati anche i genitori e la sorella di Caio. Egli visse accanto a quella donna tanto paziente, pur non amandola appassionatamente come era stato per Diletta; ma in fin dei conti non si lamentò mai, accettando la sua condizione.
Morale: Nella vita non può mancare l'iniziativa, ma se la fortuna ci è sfavorevole, allo scopo non si arriva mai ugualmente.   

Racconto di Natale
Come nacque la rondine maschio
La strada era in salita e pietrosa e l'asino faticava a camminare; il cielo era stellato, ma faceva molto freddo. L'uomo stentava a tirarsi dietro l'animale sul quale era seduta la sua sposa in attesa di un bimbo, che sarebbe nato presto.
Nell'oscurità, mentre camminavano, l'uomo vide qualcosa di scuro che si dibatteva in un rovo; si avvicinò e vide che era un uccello che era rimasto impigliato tra le spine; era una rondine, nera come non se non s'erano mai viste, che forse, proprio a causa di questo incidente, non aveva fatto in tempo a migrare con le altre verso le zone calde. L'uomo disse a sua moglie: "Guarda, poverina! Bisogna liberarla o morirà". La donna cominciava già a sentire i primi dolori del parto, ma solerte aggiunse: "Sì Giuseppe, ma stai attento a non romperle le zampine". Con la massima delicatezza, l'uomo liberò l'uccello senza fargli male ed esso subito cominciò a svolazzare intorno alla coppia, quasi volesse ringraziarli. Ma la donna disse: "Proseguiamo Giuseppe; io comincio ad avere le doglie". L'uomo premuroso le rispose: "Bisogna allora trovare subito un alloggio e una donna esperta che ti aiuti a partorire. Non aver paura Maria; ci sono io con te".
Ma la città era gremita di gente, venuta da ogni parte per un censimento, e gli sposi si dovettero accontentare di ricoverarsi in una stalla e qui, venne alla luce il bimbo. E mentre Maria era distesa col bambino tra le braccia, Giuseppe vide arrivare alcuni pastori che chiesero di entrare nel misero rifugio e poi si inchinarono ad adorare la creatura appena nata. Mentre i pastori erano ancora lì, si udì un battito d'ali vicino alla porta semiaperta della stalla, e poco dopo entrò la rondine che cominciò a volare qua e là, attirando lo sguardo dei presenti; anche la puerpera alzò la testa a guardarla, e i suoi occhi nero azzurri fissarono il volatile che si avvicinò a lei, quasi attratto da essi. E qui avvenne il primo "miracolo": le penne della rondine da nerissime che erano, divennero blu, quasi come gli occhi dolci di Maria. Poi il volatile vide quel bimbo seminudo e volle poggiare il suo cuoricino sul suo per scaldarlo; ed ecco che il petto le divenne bianco, come l'anima candida che era appena venuta al mondo. Infine l'uccello si avvicinò all'uomo che l'aveva strappato con le sue mani alla morte e gli toccò col petto la barba color ruggine; e sul piumaggio bianco si formò una macchia anch'essa rossastra. Era nata la rondine maschio che ha il dorso di un blu lucente e il ventre chiaro sfumato di bruno ruggine.
Dopo tutte queste cose, essa uscì da quell'umile rifugio così come era venuta e volò in alto…molto in alto in quella notte magica, tanto che si pensa che arrivò a sfiorare con le sue ali quelle degli Angeli  

Racconto di Natale
Nacque così l'albero di Natale
Anche le Fate festeggiano il Natale. Accadde infatti moltissimo tempo fa, che le Fate Noemi e Selena, che vivevano da secoli sulle montagne, stavano per andare la sera della vigilia di Natale, a casa di una loro amica per il gran cenone. Purtroppo durante il cammino, vennero sorprese da una bufera di neve e dovettero fermarsi, anche perché avevano smarrito la strada. Non sapevano però come ripararsi da quella brutta tempesta che le sballottava di qua e di là, ma subito sentirono un voce che diceva: "Incantevoli creature, venite sotto di me e io vi proteggerò". Voltatesi, videro un abete altissimo: era lui che aveva parlato. Le fate si ripararono sotto il grande albero, e Noemi disse: "Siete molto gentile signor Abete". Selena chiese all'amica: "Chissà quando smetterà di nevicare così. Forse non faremo in tempo ad arrivare per il cenone. Pazienza!". Ma Noemi che aveva un carattere generoso, ignorò le lamentele di Selena e chiese all'abete: "Perché non ci parli un po' di te?". Il grande albero rispose: "Io sono qui da tantissimi anni; i miei simili sono stati divelti e io sono rimasto solo, esposto alle tempeste di neve, al gelo, al vento e a ogni sorta di intemperie. La mia vita è davvero triste". Noemi non gli rispose, ma sottovoce disse all'amica: "Perché non lo facciamo contento? Lui si è offerto spontaneamente di ospitarci sotto le sue fitte foglie aghiformi". E prima ancora che l'altra rispondesse continuò: "Facciamolo brillare e rendiamolo stupendo, tanto che pure da lontano si possa ammirare". Selena acconsentì dicendo: " Sono stata chiamata Selena dalla Regina delle Fate, perché spandessi la mia luminosità, come la luna che la sera illumina il cielo. Ora invocherò la nostra Regina e l'abete ricorderà per sempre questa notte di Natale". Poi pronunciò queste parole:
O Regina tenebrosa
Di un sovrano fosti sposa
Fa che splendan le comete
Per il nostro amico abete
In questa notte, la più bella
Fa'che in cima abbia una stella
La più grande che c'è
Quella che rifulse per il Re dei re.
Attesero qualche istante e poi la Regina, invisibile ai loro occhi, fece sentire la sua voce:
Selenia, buona fata
Sarai accontentata.
E appena ebbe finito di parlare, subito tante stelle comete si posarono sui rami dell'albero, mentre una di esse, la più grande e luminosa, si poggiava sulla sua cima.
Noemi, rivolgendosi all'amica, le parlò dicendo: "Ora tocca a me. Il nome che la Regina mi volle dare vuol dire 'gioia, delizia'". E si rivolse alla Regina guardando in alto:
O Regina delle Fate
Grazie a te noi siam nate
All'amico abete dà colore
E allontana da lui il dolore
Perché in questa notte santa
La sua gioia sia proprio tanta.
Ancora una volta si sentì una voce che diceva:
Noemi, buona fata
Sarai accontentata.
Ed ecco che centinaia di fiorellini di ogni colore vennero giù dal cielo a posarsi sui rami dell'abete, il cui stupore era tanto da non saper proferir parola.
Selena continuò:
E le sue foglie diventino alcune dorate.
Noemi le fece eco:
Ed altre ancora inargentate.
L'albero ora risplendeva di oro e argento, mentre le Fate continuavano insieme:
E ogni anno in suo onore
I genitori addobbino col loro grande cuore
In tutto il mondo abeti e pini
E sotto ci mettano i regali per i loro bambini.
L'albero stupito, taceva; poi, quando si riprese, ringraziò così le Fate: "Grazie anime gentili, mi avete reso felicissimo. D'ora in poi sarà meraviglioso guardarmi e questo Natale lo ricorderò come il più felice di tutta la mia vita". Intanto aveva cessato di nevicare, ma Noemi e Selena non si mossero; passarono quella notte di Natale a tenere compagnia all'abete e a godere del suo splendore.
Nacque così l'albero di Natale.   

Racconto di Natale  
La notte di Capodanno del giovane Evandro
Nella biblioteca del suo palazzo il giovane Evandro ballava con una dama immaginaria, mentre il Mago Lucoz, colui che l'aveva guidato e consigliato fin da quando era bambino, suonava per lui le Mazurke di Chopin e i Valzer di Strass, seduto al grande pianoforte a coda.
Era il pomeriggio del 31 dicembre; Evandro ballava per scacciare la malinconia e per non pensare che quella notte tutti avrebbero festeggiato l'inizio del nuovo anno, mentre lui sarebbe rimasto solo a casa. Evandro infatti non aveva amici, aveva passato tutta la sua vita a studiare, ed era cresciuto timido e scostante; per questo viveva isolato nella sua grande casa.
D'un tratto cadde su una poltrona esausto e disse al Mago: "Lucoz, puoi smettere di suonare; sono stanchissimo e penso che tra poco andrò a letto. Almeno a mezzanotte starò dormendo e non penserò a coloro che si staranno divertendo". Il Mago si alzò dal pianoforte e gli si avvicinò, poi gli disse: "Mio caro Evandro, vuoi passare anche tu un bel fine d'anno? Ebbene, io ho un' idea; ma ciò richiede uno sforzo da parte tua". Evandro lo guardò interrogativo. Lucoz continuò: "Comincia uscendo fuori dalla tua abitazione; il resto verrà da sé". A questa proposta Evandro replicò: "Io non sono mai uscito da qui e non ho mai visto gente. Come pretendi che lo faccia ora?". E Lucoz: "Ora o poi non ha importanza, perché tu non puoi continuare a vivere così. Esci ora Evandro e poi, come ti ho già detto, il resto verrà". Il giovane fece un'espressione del volto ostile; fu in quel momento che Lucoz, intuendo che non sarebbe mai riuscito a convincerlo, prese una decisione. Fece ruotare i palmi aperti delle mani davanti agli occhi di Evandro e quest'ultimo scomparse per ritrovarsi in un posto della sua città che non conosceva.
In quel momento maledisse Lucoz, ma poi la sua attenzione si concentrò sul mercato che si stava svolgendo per le vie. Evandro osservò che le baracche erano gremite di gente che faceva gli ultimi acquisti prima del cenone, e pensò che non aveva mai visto tante persone insieme in vita sua
Gli balenò così nella mente un'idea, ma aveva troppa paura per metterla in pratica; poi pensò: "Ormai sono fuori da casa mia; io non conosco nessuno qua fuori; ma perché non provare? Tutt'al più riceverò un rifiuto, e certo non morirò per questo". Si avvicinò timidamente a una donna che vendeva bottiglie di vino; quando fu il suo turno lei gli chiese quanti litri ne voleva, ma Evandro, ignorando la domanda, chiese a sua volta: "Cosa fai dopo aver venduto tutto il vino che hai?". La donna quasi lo aggredì, dicendo: "Che vuoi che faccia? Certamente non festeggio il Capodanno, come farai tu che hai l'aria da "signorino". Andrò a casa stanca e mi addormenterò con mio marito e i miei figli". Evandro le propose: "Io a casa sono solo; vieni da me con la tua famiglia e festeggeremo insieme". La donna lo guardò dalla testa ai piedi, poi capì che il giovane era sincero quando lo guardò dritto negli occhi; perciò acconsentì, ringraziandolo anche. Poco oltre un vecchietto chiedeva l'elemosina; Evandro, incoraggiato dalla risposta affermativa della venditrice di vino, si fermò e gli disse: "Buon vecchio, io non ti darò neanche un soldo, ma vieni da me stasera e festeggeremo insieme la fine dell'anno". Egli non credette alle sue orecchie: un tale, vestito da signore, proponeva a un miserabile come lui di cenare quella sera a casa sua! Poi, decise di cogliere quell'occasione, e rispose: "Tu sei un giovane di buon cuore; verrò, verrò sicuramente, grazie, mille grazie!". Il giovane Evandro cominciò ad aver sete e si fermò a bere a una fontana, ma mentre bevevo sentì qualcosa che lo colpiva alla testa; si girò e vide un gruppo di monelli che giocava a tirarsi sassolini, mentre il ragazzino che l'aveva colpito si avvicinava a lui, dicendo: "Signore, scusatemi; non l'ho fatto apposta". Evandro gli sorrise e poi fece la sua proposta: "Venite da me stasera, ho una bella casa e mi piacerebbe avere come ospiti dei ragazzini allegri come voi per festeggiare l'ultimo dell'anno; anzi portateci anche le vostre famiglie, il cibo non mancherà". I ragazzi mostrarono, gridando in coro, tutta la loro contentezza.
Stanco, ma felice, Evandro fece ritorno a casa. Entrò nel salone e vide una enorme tavola imbandita per i suoi ospiti; capì chi gli aveva fatto la sorpresa ed esclamò: "Oh, caro il mio Lucoz, se non ci fossi tu!". Il Mago apparve subito e gli disse: "Caro Evandro, se stasera fossi rimasto a casa, avresti passato la notte di San Silvestro da solo. Uscendo hai incontrato persone e le hai invitate col cuore, senza pretendere nulla. Hai fatto bene: tu li farai mangiare e bere , ma ricordati che il favore più grande lo stanno facendo loro a te offrendoti la loro compagnia in questa notte di festa!"
Morale:" Non aspettiamo sempre che siano gli altri a venirci incontro. Muoviamoci noi per primi superando le nostre barriere di isolamento e parliamo loro col cuore".   

L'amore di Aurora e Lucio
Sotto le feste natalizie, esattamente cinque giorni prima di Natale, in una casa di campagna, una giovane donna, Aurora, stava dipingendo una tela che rappresentava il tramonto su un lago. Non aveva alcuna voglia di andare in città, dove avrebbe visto vetrine appariscenti, gente trafelata carica di regali, luci e addobbi dappertutto, mentre invece in lei dominava una grande tristezza perché da pochi mesi aveva perso il suo compagno, che amava immensamente. Da allora si sentiva stanca della vita e nulla più l'aveva potuta rendere felice.
Stava per terminare il quadro, quando sulla riva del lago le sembrò di scorgere una figura, che tendendole le mani la invitava ad appropinquarsi; Aurora istintivamente obbedì e così la potè vedere da vicino. Si trattava di un bel giovane dai capelli lunghi e mossi, che indossava una lunga tunica bianca e …aveva le ali. La donna pensò subito che si trattava di un angelo, ma prima ancora che glielo chiedesse, il giovane le parlò così: "So che il tuo cuore sanguina; ma è giunto il momento di mettere fine alla tua infelicità"; e mentre diceva così puntò il dito indice verso il lago. Nel mezzo di esso un'altra figura apparve indistinta nella luce crepuscolare e fece cenno ad Aurora di avvicinarsi. Essa si immerse nell'acqua non curandosi di essere vestita e raggiunse Lucio, l'amato. Fu come se sapesse che prima o poi lo avrebbe incontrato ancora; infatti, senza alcun stupore gli chiese: "Mi aspettavi, vero?". Lui le prese la mano e le rispose: "Hai dipinto questo lago pensando a me, perché al tramonto presso di esso noi eravamo soliti sederci per veder scomparire il sole. Ora seguimi Aurora, immergiamoci nell'acqua". Mano nella mano si tuffarono e si ritrovarono a parecchi metri sotto la superficie del lago; Aurora vide che Lucio spingeva il portone di un grande palazzo dove entrarono insieme e subito si ritrovarono in una grande sala da ballo con un albero di Natale che arrivava fino al soffitto. Lucio e Aurora cominciarono a ballare anch'essi e lo fecero fino a stancarsi tanto e a decidere di uscire sulla terrazza a guardare il cielo. Si era fatta notte ormai. Entrambi si guardarono negli occhi; poi si parlarono. Lucio disse ad Aurora: "Mia amata, il tuo nome significa "brillare, far luce". Lei rispose: "Mio amato, il tuo nome significa "luminoso, splendente". Guardarono in alto: da allora in poi sarebbero vissuti insieme nell'azzurro del cielo e lo avrebbero fatto splendere con le loro anime buone. Intanto una stella cometa era comparsa nel cielo, quasi come un richiamo; ed infatti Aurora e Lucio si presero per mano e volarono verso di essa nell'immensità.
La vigilia di Natale un vicino bussò alla porta di Aurora, ma non ricevette risposta. Essa era ancora davanti alla tela, con gli occhi fissi che sembravano guardare il tramonto.
- Da Racconti di Natale -   

Nacque così la stella di Natale
Era la notte di Natale. Un bambino aveva perso la sua mamma da poco tempo. E alla finestra, guardava in cielo, perché il suo papà gli aveva detto che lei ora era lassù su una stella. Il bambino, poiché il cielo era nuvoloso, non vedeva nessun astro brillare; improvvisamente però apparve una piccola stella. Egli pensò che se avesse avuto le ali, avrebbe potuto raggiungerla; forse avrebbe rivisto la mamma. Ma poi accadde una cosa inattesa: la stellina si staccò dal cielo e venne giù, sempre più giù fino ad arrivare alla finestra del bambino. Egli aprì la finestra e la vide da vicino: era grande quasi quanto lui e al centro delle cinque punte era luminosissima. In questa luce, vide la sua mamma che gli diceva: "Sono felice e sarò sempre vicino a te!" Istintivamente il bambino afferrò la stella e se la portò sul cuore, stringendosela forte forte. Immediatamente essa assunse il colore rosso del sangue e al posto delle cinque punte spuntarono dei petali rossi. L'astro si era trasformato in un fiore.
Nacque così la stella di Natale.
- Da Racconti di Natale -   

Lo scoiattolo gentile
In un bosco viveva una famiglia di scoiattoli, padre, madre e tre figli. Per l'inverno che stava per arrivare i genitori avevano costruito un nido in un tronco cavo d'albero; esso serviva a ripararsi dal freddo, in attesa della primavera.
Un giorno la simpatica famigliola era andata a procurarsi il cibo sugli alberi sui cui rami tutti quanti si erano divertiti a saltare e a rimanere sospesi per la coda, facendo l'altalena. Al ritorno però trovarono una sgradita sorpresa: una volpe si era insinuata nei pressi del loro nido e se ne stava beatamente seduta guardandovi dentro. Il padre, appena la vide, avvertì moglie e figli di tenersi lontani e poi cautamente si avvicinò. Dopodiché prendendo il coraggio a due mani, esclamò forte: "Via di là, quello è il nostro nido!". La volpe abbozzò un sorriso ironico e poi rispose: "Perché? Qualcuno mi vieta di stare vicino a un albero? Mi sembra che il bosco sia di tutti". Lo scoiattolo inviperito, disse ancora: "Ma quello è il nostro nido. Te l'ho già detto, volpe malvagia, vattene! E che il diavolo ti porti con sè all'inferno". La volpe, che si divertiva a tenerlo sulle spine, per tutta risposta, stavolta non lo guardò neppure e anzi cominciò a lisciarsi con la lingua la sua bella coda in segno di dispetto e indifferenza, non accennando affatto ad andarsene. La moglie dello scoiattolo si avvicinò al marito e gli disse: "Lascia fare a me". Si rivolse alla volpe, dicendole stizzita: "Ma chi pensi di essere? Non riuscirai a impadronirti della nostra casa; va' piuttosto a cibarti di topi di campagna, sono quelli i roditori che devi cercare. Lasciaci in pace, brutta strega!". La volpe allora si volse elegantemente verso la mamma scoiattolo e poi esclamò: "Mi è appena venuta un'idea. Prenderò questo vostro nido come tana per il mio letargo invernale". Dunque una cosa era chiara: la volpe proprio non voleva saperne di abbandonare la zona. Avesse fatto o no del nido la sua tana, certamente non avrebbe permesso alla famiglia degli scoiattoli di entrarci.
A questo punto gli scoiattoli più piccoli cominciarono a tirarle sassolini, ma essa si divertiva semplicemente a schivarli. Allora si fece avanti il figlio maggiore della famigliola e, rivolto alla volpe, le parlò così: "Signora volpe, noi siamo scoiattoli e lei sa che siamo abituati a passare l'inverno negli alberi, dove ci costruiamo la casetta. Sia buona e ce la lasci, altrimenti non sapremmo proprio dove andare. Lei potrà trovare una tana più in là. Io le auguro di vivere a lungo e che nessun cacciatore mai le spari. Anzi, venga a trovarci con l'arrivo della bella stagione e noi le offriremo frutta e noccioline, per ringraziarla di aver ascoltato le nostre preghiere". La volpe prima lo guardò imperiosa, poi mite disse: "Tu sei stato gentile e questo atteggiamento merita considerazione. Me ne vado per te, giovane scoiattolo. In primavera passerò a trovarti, perché tutti ci considerano avide e astute e ci aggrediscono, come ha fatto la tua famiglia; ma tu sei stato buono e hai dimostrato una grande sensibilità. Arrivederci e buon inverno!". E così dicendo, corse via.
Morale:" A volte se usassimo una parola gentile, riusciremmo ad ottenere di più dagli altri".
- Da Favole per bambini…e soprattutto per adulti -   

La pallina presuntuosa
Il Mago Ascanio era tanto vecchio quanto saggio e girava continuamente il mondo col suo maestoso carro volante, alla cui guida vi erano due grandi aquile. Un giorno passò da una vecchia villa disabitata; si fermò e volle visitarla. La polvere e le ragnatele erano dappertutto e i mobili erano consumati dai tarli. Il Mago pensò di ridarle vita e, pronunciata la formula magica, subito i mobili cominciarono a splendere, la polvere e le ragnatele sparirono, alle uscite dei balconi comparvero tende pregiate di broccato, sui tavoli negli ampi saloni apparvero tovaglie ricamate e servizi di piatti e posate in cristallo e argento. Il Mago Ascanio, molto soddisfatto della sua opera, pensò anche di porre nel salone principale un grande albero di Natale, visto che mancava solo una settimana a questa grande ricorrenza. L'albero grandissimo contava decine e decine di palline colorate e luccicanti. Ascanio pensò così di metterle alla prova; ebbe un'idea e quindi disse loro: "Sta per avvicinarsi il Natale e ho pensato di farvi un regalo; la notte di Natale passerò di qui e con la mia bacchetta magica metterò dentro a ciascuna di voi una pietra preziosa che io stesso sceglierò". Ascanio se ne andò, lasciando le palle dell'albero incuriosite. Quasi al vertice vi era un'enorme palla di un bel rosa vivo, lucente più delle altre, la quale conscia della sua bellezza, cominciò a pavoneggiarsi e a dire alle sue vicine: "Sicuramente il Mago mi assegnerà la pietra più bella; io la merito perché sono posta più in alto rispetto a tutte voi e poi basta guardarmi per vedere che sono anche la più bella". Le altre palline si guardavano tra loro infastidite e tacevano.
Venne dunque la notte di Natale e ogni pallina colorata ebbe la sua gemma, come Ascanio aveva promesso. La mattina dopo tutti gli addobbi dell'albero si svegliarono e con essi anche le palline; ebbene, la loro gioia fu immensa quando ciascuna si trovò dentro una gemma: alcune avevano avuto un rubino, altre uno zaffiro, altre ancora una ametista o una giada o un'acquamarina. Ma ancora più grande fu la meraviglia della grande palla posta in alto, la quale si ritrovò vuota. Stava per urlare di rabbia quando arrivò il Mago, che parlò a tutte dicendo: "Ho voluto mettervi alla prova; sapevo che qualcuna di voi, trovandosi più in alto e vedendosi più grande di tutte le altre, avrebbe ostentato la sua bellezza pretendendo di essere premiata. Questo purtroppo succede spesso anche tra gli esseri umani, che non hanno il dono dell'umiltà; essi sanno solo vantare pregi che a volte non hanno nemmeno, ma dentro sono molto molto poveri".
Morale: "Generalmente chi è presuntuoso è vuoto dentro".
- Da Favole per bambini…e soprattutto per adulti -   

L'airone pauroso
C'era in un tempo non molto lontano, un airone di un bel colore azzurro, sempre molto solo. Era così pauroso che aveva paura di spiccare il volo come facevano i suoi simili e quindi spesso rimaneva a digiuno perché non era in grado di procacciarsi la preda. A volte qualche amico pietoso divideva il cibo con lui, ma l'airone rimaneva sempre emarginato e mesto.
Un giorno, mentre era presso la palude, vide in mezzo ad essa una stupenda stella alpina, che sopraffatta dal vento e dalle intemperie, era precipitata giù nel fango della palude. Essa gridava: "Aiutatemi, vi prego! Lo stagno mi inghiotte!". Istintivamente, quasi senza rendersene conto, colpito dal candore della stella, l'airone si alzò in volo e quando fu sull'acqua paludosa, col suo lungo becco prese delicatamente il fiore e lo sollevò; dopo lo adagiò con delicatezza a terra. La stella alpina, dapprima stordita, si accorse poi del suo salvatore e lo ringraziò dicendo: "Grazie airone buono. A te io dovrò sempre la mia vita". L'airone rimase doppiamente contento: aveva salvato la vita di un altro essere vivente, grazie al suo coraggio.
Morale: " Dalle necessità spesso scaturisce il coraggio".
- Da Favole per bambini…e soprattutto per adulti -  

I tre doni della vita
Il principe Giuserfab era sempre molto molto triste, pur vivendo in un incantevole castello con i suoi genitori e avendo sempre a sua completa disposizione un gran numero di servitù.
Un giorno il principe, ormai stanco della penosa situazione, decise di varcare i cancelli dei giardini reali. Si trovò così di fronte un melograno gigantesco, i cui frutti grandi e rossi, erano quanto mai invitanti; ecco perché Giuserfab decise di coglierne uno. Una volta presa la melagrana tra le mani, per poterla aprire la sbatté contro un grosso sasso che era là vicino e da essa ne uscirono succosi chicchi che si sparsero per terra. Ma appena egli ne prese in mano uno per portarselo alla bocca, questo magicamente si ingrandì assumendo le dimensioni di un'arancia e da dentro uscì una voce decisa e gradevole, che così si pronunciò: "Maestà, se volete essere felice, fate ciò che vi dico! Prendete il sentiero che si snoda alla vostra destra e non ve ne pentirete! Buona fortuna!". Giuserfab non se lo fece ripetere due volte e imboccò la strada indicatagli, pur con qualche sospetto e paura. Camminò ore e ore senza incontrare niente e nessuno e stava quasi per tornare indietro, quando si trovò di fronte una donna dai vestiti logori e dai capelli disordinati; essa, vedendolo, lo supplicò: "O giovane principe, vi aspettavo! Mio figlio giace malato da mesi in un letto e nessun medico riesce a guarirlo, ma una maga mi ha detto che solo voi potete fare qualcosa per lui". Il principe perplesso chiese: "Donna, cosa mai dovrei fare?" La donna rispose: "Nulla di particolare, Maestà; dovete solo visitarlo e ascoltare ciò che vi dice". Il principe dunque accettò di seguire la donna; entrò nella sua casa, parlò a lungo col figlio e gli accarezzò la fronte. Il giovane lo ringraziò e gli regalò una sfera d'oro dicendogli: "Maestà, vogliate gradire il mio dono e quando ritornerete da questo viaggio, rompetelo e fatene buon uso". Il principe pensò a cosa mai potesse servirgli una palla d'oro, dato che il suo castello era colmo di preziosissimi oggetti in oro e argento. Tuttavia, per non essere scortese, accettò il regalo e poi riprese la sua strada.
E ancora ci vollero ore e ore di cammino prima di incontrare un uomo che appena lo vide lo riconobbe, gli corse incontro e lo supplicò: "O giovane principe, sono vittima di un incantesimo maledetto: di giorno non ho tregua perché un fastidioso prurito mi invade tutto il corpo e la notte non dormo mai, perché anche se mi stendo sul mio letto sono destinato a non chiudere occhio. La maga che mi costrinse a questa miserrima esistenza mi disse che solo il coraggio di un'anima pura mi avrebbe salvato". Giuserfab, dapprima stupito e poi impietosito, chiese all'uomo: "Che debbo fare per voi?". Egli rispose lesto: "Maestà, poco oltre nella foresta, vivono tigri e leoni ferocissimi. Dovete avvicinarli e accarezzarli, poi chiedete loro che cosa vogliono che tu faccia". Il principe ebbe un attimo di esitazione, poi ordinò: "Conducetemi da loro!". Si inoltrò così, guidato dallo sconosciuto, nella foresta fino a quando si trovò di fronte a un branco di leoni e tigri, che appena lo videro spalancarono rabbiosi le loro fauci. Giuserfab si spaventò assai, poi cautamente si avvicinò alle bestie con movimenti lenti e quando fu a pochissimi passi da loro, esclamò: "Voi, che appartenete al regno animale, sappiate che non sono qui per farvi del male; piuttosto voglio salvare quest'uomo dal maleficio di cui è vittima, perciò ditemi cosa debbo fare per riuscire nel mio intento". Il leone più imponente dal proprio branco gli fece cenno di avvicinarsi e quando lo ebbe vicino gli disse: "Maestà, già siete stato temerario ad avvicinarvi a noi, che siamo tra le bestie più feroci; ma sappiate che dovrete superare una prova ben più ardua. Poco oltre nella foresta si è sviluppato un grande incendio, fra le foglie di quegli alberi che bruciano però è nascosta una piccola palla d'oro che vi servirà". Il principe non senza qualche timore, tuttavia decise di tentare. Incamminatosi nella foresta più fitta, cominciò a sentire un forte odore di bruciato, poi il fumo lo avvolse tutto ed infine scorse poco lontano fiamme altissime. Camminò ancora e si ritrovò circondato dal fuoco; ciononostante si arrampicò sugli alberi, cercando di evitare le fiamme, e finalmente su una palma trovò la sfera che mise subito in tasca per poi ridiscendere.
Nero di fumo e un po' bruciacchiato Giusefab riprese a camminare. Gli venne incontro un re con il suo seguito di dame e cavalieri a cavallo; egli aveva una lunga barba e l'aspetto altero. Appena lo vide gli disse minaccioso: "Ehi tu, straccione, inchinati a me che sono il re!". Ma Giuserfab rispose sicuro: "Perdonate sire, ma anch'io sono di stirpe reale come voi; perché dunque mi imponete di inchinarmi?". Alquanto irritato per l'insolenza del giovane, il re ordinò alle guardie che lo scortavano di incatenarlo e metterlo in prigione, dicendo: "Una buona lezione per questo presuntuoso ci vuole proprio!". E fu così che il principe passò giorni e giorni nelle prigioni del re, finché una mattina svegliandosi, si trovò accanto una pallina d'oro come quelle che aveva avuto precedentemente e con sua grande sorpresa, vide che la porta della sua cella era aperta. Raccolse la pallina e uscì fuori, quando all'improvviso nei giardini del re che l'aveva fatto prigioniero vide un albero di melograno e si ricordò di quello che aveva visto all'inizio delle sue avventure. Avendo fame perché non mangiava da tempo, il principe staccò dai rami uno di quegli squisiti frutti, lo spaccò e stavolta ne uscì un solo chicco, che ingrandendosi cominciò a parlare, esprimendosi così: "Maestà, vi chiesi di seguire il sentiero e voi l'avete fatto. Avete avuto le tre sfere d'oro prezioso che ora vi invito a rompere. Il sentiero, giovane principe, rappresenta la vostra vita e ciò che contengono le palline ciò per cui dovete vivere se volete essere felice". Il principe, assai curioso, scaraventò a terra la prima sfera e subito ne uscì la donna dimessa che aveva incontrato per prima, la quale disse: "Maestà, andate e vivete usando sempre compassione verso gli altri. E la felicità non vi mancherà!". Essa poi scomparve com'era apparsa. Dalla seconda sfera rotta, uscì l'uomo vittima del maleficio che gli disse: "Maestà andate e vivete con coraggio, affrontando ogni difficoltà della vita. E la felicità non vi mancherà!". Infine, scaraventata a terra la terza sfera di metallo prezioso, ne venne fuori il re borioso, che stavolta con atteggiamento mite, così si espresse: "Maestà, non piegate mai il capo di fronte a nessuno: siate fiero e orgoglioso. E la felicità non vi mancherà!".
Il giovane principe, che era anche intelligente, capì. Tornò alla reggia e… si crede che da quel giorno in poi sia vissuto felice.

Vi piace scherzare? Eccovi un bando che sicuramente vi farà sorridere, se avrete la compiacenza di leggerlo, altrimenti pazienza!

Città di suicidata
Assessorato alla cultura e alle politiche sociali


Gran cenone di Capodanno
Si porta a conoscenza della cittadinanza che l'Assessorato alla cultura e alle Politiche sociali della Città di Suicidata organizza per la Notte di San Silvestro un Cenone per festeggiare l'arrivo del nuovo anno.
Esso si svolgerà nei locali adiacenti al Cimitero Comunale, in Via degli Agonizzanti, n. 17.
Per l'occasione saranno allestite delle camere ardenti a cura della Ditta di Onoranze Funebri: "Prima o poi tocca a tutti".
Allieteranno la serata le Confraternita dell'"Agonia" e del"Trapasso", che si esibiranno in danze macabre con mantella e cappuccio e la Compagnia Teatrale "Ultimo respiro" con la commedia brillante in due atti: "Ante mortem" e "Post mortem".
La consumazione avverrà nelle sale mortuarie del Cimitero, dove troverete i becchini, addetti a "servirvi". Durante la consumazione, ascolterete il Trio musicale composto dai Priori Caronte L'avvelenato e Cerbero L'Impiccato, delle suddette Confraternite e dal Priore Deceduto Nonsisacome, della Confraternita "Rigor mortis", venuto apposta per l'occasione dallo Stato di Algidità. Essi si esibiranno nelle Marce Funebri e nei Requiem dei più famosi autori della musica classica.
Sarà effettuata anche una vendita di biglietti, e successivamente ci sarà l'estrazione di due premi messi in palio:
Primo premio: una bara in mogano, rivestita internamente in raso
Secondo premio: un catafalco in bronzo
Prenotandosi almeno tre giorni prima, coloro che lo vorranno potranno passare la notte, negli appartamenti superiori delle sale mortuarie, dove vi sono camere con vista sulle Cappelle del Cimitero.
Alla fine della serata i partecipanti saranno omaggiati di simpatiche coroncine di crisantemi offerti dalla Ditta di Onoranze Funebri: "Oggi a te, domani a un altro…(possibilmente). Inoltre una Guida Turistica sarà a vostra disposizione per la visita guidata del Cimitero, durante la quale sarà possibile provare personalmente ed eventualmente prenotare loculi sia monoposto che biposto (per le coppie), usufruendo dello sconto del 30%, data l'occasione.
Interverranno il Sindaco Giacinto Lo Spettro e l'Assessore alle Politiche Sociali Fermo Lo Morto.
Vi aspettiamo in gran numero….e vi auguriamo che lo stesso numero possa trascorrere un Nuovo Anno.    


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