PROVE PER
ATTO UNICO
prefazione
PROVE PER ATTO UNICO
prefazione di Tommaso Di Brango
Macabor
2023 – MACABOR
Prima Edizione
Francavilla Marittima (CS)
macaboreditore@libero.it
www.macaboreditore.it
In copertina: Elmerindo Fiore, Una giornata in fumo,
1994
Elaborazione grafica di Giorgio Ferrarini
Prefazione
Nel baccello dell’alleanza
si parla al singolare
pur essendo in tanti.
M.B. Cerro
A volte alta / o con un sussurro?
I versi con cui Maria Benedetta Cerro apre le sue Prove per
atto unico parlano di una «città poetica» in cui l’io si trova «er-rante e
solo». Si tratta, chiaramente, di una metafora che allude all’interiorità,
centrale già nello Sguardo inverso («[nella città poetica] si accede ad
occhi chiusi / e il versante è al buio»1). Il fatto che
ora la Cerro impieghi una metafora urbana segna, però, ad avviso di chi
scrive, un passo in avanti, ovvero un’ul-teriore evoluzione nel suo cammino di
poetessa. Accostando l’interiorità allo spazio cittadino, infatti, l’autrice
di Regalità della luce afferma che il «muto abisso»2
interrogato negli anni precedenti – il territorio «meditativo e intimo»3
da
1 L’impossibilità (metaforica) di vedere,
dovuta a cecità o alla chiusura delle palpebre, impone al poeta di guardare
in un’altra direzione (in modo, ap-punto, inverso) rispetto a quel
che accade di consueto, ovvero nelle profon-dità dell’io. In proposito, mi
permetto di rimandare a T. Di Brango, Il «mi-racolo crudele» della parola –
Lo sguardo inverso di Maria Benedetta Cerro, in Id., Scritture
dell’incompiuto – Saggi e recensioni, Cassino (FR), Mondostudio Edizioni,
2022, pp. 97-102.
2 M. B. Cerro, Tu mi dici "terrifica e
infelice", in Id., Lo sguardo inverso, Faloppio (CS), LietoColle,
2018, p. 24.
3 M. B. Cerro, Purché sia la gioia: la
profondità della gioia, op. cit., p. 49. ~6~
cui nasce la poesia – è, in realtà, il luogo di una unità
articolata o, se si preferisce, di una molteplicità che cerca di assemblarsi
attorno a un più o meno stabile ubi consistam. L’io, insomma, non è
solo la sede del sé, ma è anche il luogo in cui trova spazio l’altro
da sé: dentro ognuno di noi c’è quel che siamo ma anche ciò che vi è stato
collocato dalle nostre esperienze, relazioni, interazioni col prossimo.
Se così stanno le cose, però, è anche evidente che i recessi
dell’io, lungi dal fornire soluzione alle inquietudini esistenziali del poeta
– e, in ultima istanza, di ognuno di noi –, costitui-scono un problema
o, forse, una serie di problemi o, meglio, un mistero4.
In che misura, infatti, l’altro che mi abita è occasione per farmi accedere
alla luce, ovvero alla pienezza di senso e alla compiuta felicità cui pure,
costantemente, aspiro? Quando, invece, la sua presenza non costituisce altro
che il persistere di vecchie maschere, rottami di un passato di cui
sbarazzarsi?5 Di fronte a queste e a molte altre
domande, la poesia di Maria Benedetta Cerro riconosce con franchezza che la
«città poetica» ha «i suoi labirinti» e che, non di rado, attraversarli
significa perdersi, ovvero, letteralmente, perdere sé stessi:
4 Sulla differenza tra problema e
mistero vedi G. Marcel, Essere e avere, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane, 1999. In questa sede, possiamo sintetica-mente dire
che, mentre il problema, nei suoi termini essenziali, può essere definito
dall’io, il mistero è una questione non pienamente definibile perché
inglobante l’io stesso.
5 «In due / nella stessa carne / eravamo in
troppi. / Di chi il dire / di chi l’ascolto / e chi di noi era il diverso? /
In questa moltitudine / la parola era sola», M. B. Cerro, La soglia e
l’incontro, Venafro (IS), EVA, p. 18. Qui, come si vede, la molteplicità
interna dell’io resta legata alla dimensione della dualità. Non siamo ancora
alla «città poetica», ma siamo già all’imma-gine di un’interiorità intesa come
unità articolata. Sull’importanza dei versi della Soglia nella recente
produzione di Maria Benedetta Cerro vedi oltre. ~7~
Mi sono assentata.
Sono stata – anche per me stessa –
introvabile.
E non chiedermi dove sono stata.
–Non lo so –
Neppure adesso che cerco di capire
come fa l’anima a smarrirsi.
È il castigo dei labirinti
il contrappasso
dell’amore smisurato per la vita
–il confino negli abissi –
Cionondimeno, l’io lirico, in questi versi, non abbandona
l’impulso a «discernere / nel nulla un cammino possibile». È anzi vero che
«[l’] Anima ha passi pesanti / - porta in salvo un bambino tra le braccia -»:
la fatica del vivere è data dall’impor-tanza della sua posta in gioco, ovvero
dalla possibilità di la-sciare traccia sulla linea di una temporalità che, pur
potendo serenamente fare a meno di noi («(…) neppure laverà col pianto / la
soglia che avremo appena attraversato»), rimarrà in qualche modo modificata
dai segni del nostro passaggio («Il tempo si ricorderà dell’inciso / di
ciascuna delle nostre vite»). D’altronde, se è vero che «[è] un bosco
intricato l’esistere», è anche vero che «sempre uno spazio / apre nell’ombra
il sole / sempre negli uguali giorni ve n’è uno diverso»6.
L’ingresso nella «città poetica», da parte di Maria Benedetta Cerro, però,
porta anche a maturazione quanto rimaneva solo intuito e al-luso in un libro –
La soglia e l’incontro – denso ma, forse, troppo
6 La metafora eliaca appena riportata
mostra che, benché messa a dura prova, la tensione luministica tipica di Maria
Benedetta Cerro non è venuta meno. Queste Prove, aggiungono, ad avviso
di chi scrive, un tassello alla «trilogia della luce» formata da Regalità
della luce, La congiura degli opposti e il più volte menzionato
Sguardo inverso. ~8~
poco considerato nella ricezione critica. In quelle pagine,
in-fatti, tematizzando la necessaria complementarità tra ciò che ci separa
dall’altro – la soglia – e ciò che a esso ci unisce – l’incontro
–, la Cerro apriva la sua poesia a una possibile com-posizione armonica degli
«opposti» che, pochi anni prima, avevano occupato un posto centrale nella sua
scrittura7. Par-lando, ora, dell’interiorità come
«città», ovvero luogo di inte-razione tra i molteplici, l’autrice di
Lettera a una pietra mostra che tra l’io e l’altro non c’è solo
complementarità, ma necessità reciproca: si dà il primo in quanto
distinto dal secondo – la soglia è soglia solo se c’è qualcosa
da cui occorre differenziarsi –, ma già questa distinzione comporta una forma
di relazione – ov-vero: un incontro.
7 Alludo a M. B. Cerro, La congiura
degli opposti, Faloppio (CS), LietoColle, 2012.
***
La relazione con l’altro può assumere varie configurazioni. Può
darsi nel momento in cui l’io si raccoglie, come in pre-ghiera, nel tentativo
di trovare le parole adatte a dire l’«indici-bile» della «città poetica»
(«Rendimi esperta del sentire più profondamente. / Forzare la lama / perdere
gli occhi / fino alla visione. / Dare un nome a tutto questo»); può essere un
proprio simile che offre un anche minimo segno di cordialità («(…) agli umani
/ basta uno sguardo luminoso / un sorriso / a fugare il sapere doloroso /
d’essere sospesi al caso»); pos-sono essere i trapassati che,
inaspettatamente, sembrano par-lare attraverso gli occhi dei vivi («orli di un
pozzo che è l’abisso umano») quasi fossero semi nascosti nella loro
inte-riorità («Da quel punto parlano i morti / - dalla carne dove hanno scelto
di dormire - / Dove a volte germogliano»). ~9~
Ma può darsi un’eventualità in cui l’altro diventi,
semplice-mente, tutto quel che resta? Ovvero: può darsi uno scenario in
cui l’io scompaia? La risposta, nella sua tremenda immediatezza, è
affermativa: è la possibilità della morte, ovvero della mani-festazione
dell’altro nella sua piena e compiuta radicalità. Non è un caso, dunque, se le
Prove per atto unico di Maria Benedetta Cerro, nella loro esplorazione
dell’altro e della sua relazione con l’io, si confrontano insistentemente col
morire, con l’an-goscia che produce ma anche con la sua intima necessità. Solo
sapendo che verrà il momento decisivo – quello dell’«"atto unico" risolutivo»,
come scrive la Cerro nelle Note ai testi –, infatti, si ha la
possibilità di dare senso e direzione ai momenti che lo precedono e che, in
ultima istanza, a esso tendono.
È grazie alla morte, insomma, che l’io può diventare dav-vero
io, ovvero dare consistenza e direzione a un’esistenza che, altrimenti,
rimarrebbe pura incompiutezza:
Non pensare alla morte / mentre la morte impera.
È il suo tempo – e se lo abbia intero –
Pensa secondo l’infanzia / che sa la morte come un gioco
una parola fra le altre
– che significano il nulla che sono –
Pensa alla vita come un rotolo chiuso
– aprilo ogni giorno per la prima volta –
Credi alla sua lunghezza / e non t’illuda il peso
– secondo lo spessore è la lunghezza
secondo l’immaginazione è la bellezza –
Pensa alla morte come a te stesso
– al suo diritto d’esserti ombra –
Perché chi non ha ombra / non è vivo.
Come questi versi lasciano chiaramente trasparire, però, la morte
di cui parla la Cerro ha una dimensione metafisica che ~10~
non fa a meno di confrontarsi con le asperità della storia
con-temporanea. «[La] morte [che] impera», che è bene «abbia in-tero» quello
che, agli occhi del poeta, appare essere «il suo tempo», corrisponde infatti
al tragico spettacolo di devasta-zione offerto dalla pandemia da Covid-19 che,
negli ultimi anni, ha violentemente flagellato le nostre esistenze. Molti dei
versi presenti nelle Prove – di fatto, le sezioni Versi della
mala-pena e La mala hora nella loro interezza – sono stati infatti
con-cepiti durante il lockdown del 2020, quando un’umanità smar-rita
seguiva quotidianamente, sui teleschermi, l’algido rito della conta dei
deceduti («Le morti sono numeri in una sfera opaca») e la primavera italiana
faticava a mostrarsi nelle forme di un’effettiva rinascita alla vita («Il
quasi aprile è un assedio di neve»).
Questo tremendo triumphus mortis postmoderno, però, non
occupa l’intero giro d’orizzonte, nello sguardo della Cerro. Nel riscoprire,
dopo averle a lungo negate celebrando i miti del progresso e del benessere, le
proprie impotenze e fragilità («Mi credevo esperta / ed ero impreparata»),
infatti, l’umanità provata dalla pandemia ha avuto l’opportunità – invero: non
troppo sfruttata – di accorgersi di essere parte di una natura dotata di
vitalità ed energia propria, refrattaria a essere consi-derata un semplice
deposito di materiali indefinitamente sfrut-tabili e manipolabili e, anzi,
pronta a far valere le sue istanze contro l’avidità della civiltà
tecno-capitalistica. Si tratta, in-somma, di un’«Ampia Madre»8
che, con una sensibilità panica rara nel panorama della letteratura
contemporanea, la Cerro
8 Sulla figura della madre nella poesia di
Maria Benedetta Cerro si potrebbe scrivere e, verosimilmente, si scriverà
molto. Nelle Prove, essa assume i già evocati caratteri della natura ma
anche quelli dell’origine vagheggiata e per-duta: «Ed io vorrei a volte
essermi madre / darmi una carezza / smettere il rifiuto / di un’attenzione /
un gesto / e persino di una bella parola / sentire sul capo come un peso».
~11~
rappresenta come una totalità di fronte a cui l’uomo non
do-vrebbe sentirsi un privilegiato e in cui dovrebbe, piuttosto, tornare a
immergersi:
Il male ci riconosce / lui sa / e contamina le nostre ore.
Ci chiama con diritto – anima mia – ci precipita nella sua
notte.
Eppure dice al mandorlo – fiorisci –
e i passeri accorrono / alla messa cantata dell’albero
maggiore.
Ora la parola è fatta scorza.
Potremo stormire – forse – quando avremo foglie.
Tommaso Di Brango
C’è una vita involontaria
parallela all’azione e alla ragione.
Vi si accede ad occhi chiusi
e il versante è al buio.
È la città poetica
con i suoi labirinti e l’io errante e solo.
Non vi risiede l’invisibile ma l’indicibile.
Nessuna differenza
tra il sembrare e il morire
Versi della malapena
Il nero totale è nel fissare
una luce alla sorgente.
Poiché ti amo vita / più dei miei occhi
ora sono cieca / e null’altro vedo
che il retro delle cose.
Un vetro accecato dalla brina
la guida allo sbando
i cari vivi e i cari morti
che si affidano a me
figlia di tutte le tempeste.
credevo esperta / ed ero impreparata.
Imbiancata e storta
sotto il peso della cenere
il solito bambino per mano
–inconsapevoli entrambi
l’uno di portare l’altro nel buio della vita –
Compravamo pacchi di sale
scontati / in gran numero
perché le lacrime dovevano essere tante.
Nel giorno della cenere
anche il cielo è polvere e ferro.
Ma la vita arbitraria si insinua dove vuole
coi fermenti del suolo interagisce.
Resta l’impressione di un contagio di linfe
e una gara d’erbe in forma di colore.
Una mano sospesa nello spargimento
uno stupore di cenere pietosa
a mezz’aria sulle incolpevoli vite.
Il me stesso spaventato – ti parla –
con il contatto riconsiderato
dalla distanza imposta.
Da lontano / con-tatto / ti esplorano i sensi.
Chiedono alla luce / la lingua
intraducibile e a tutti comprensibile
della bellezza rivelata
alla lentezza / la perfetta immobilità della perfetta pace.
Io – cosa pensante –
all’altro me stesso spaventato
dico che la morte / il male / lo spavento
sono invenzioni dei viventi.
Dimmelo tu che devo fare.
Mi lascerò condurre
–corpo mimetico nel gregge
dei poveri smarriti –
Vita convenientemente soggiogata
che fissa l’occhio velato
al passo ammansito e alla lentezza.
Tutto è ridotto
a questo andare multiplo
verso inquietudini spianate.
Una forza crescente / smisurata
nel non sentire propria soltanto
la vita nulla e senza pace.
Il tempo cronologico divenne oscillante
prolungandosi a volte – o contraendosi –
come a noi sembrava opportuno che fosse.
Mutarono le cose – che erano le stesse –
La ripetizione dell’umore
volgendo all’imprevisto
vide gli oggetti farsi umani
–sembrare che una pena li turbasse
o una gioia repentina –
Fu che un mattino il viale parve abbandonato
l’aia più deserta.
Per la prima volta si destarono inversi l’anima e le cose.
L’una pietrificò
lastrico e muri ricordarono
e nelle crepe fiorirono violette.
Ci è imposto di stare – ora siamo alberi –
Ci tocca l’imprevisto / l’impotenza / la trasformazione.
Il male / in marcia col suo grido
con la sua coda di devastazione
ha piantato radici nella nostra carne.
Ci è impedito l’abbraccio
–ora sappiamo il valore dell’abbraccio –
La morte ci minaccia di morte
–ora la vita è bellissima –
Il tutto che pareva importante / è insignificante.
Il male ci riconosce / lui sa / e contamina le nostre ore.
Ci chiama con diritto – anima mia –
ci precipita nella sua notte.
Eppure dice al mandorlo – fiorisci –
e i passeri accorrono
alla messa cantata dell’albero maggiore.
Ora la parola è fatta scorza.
Potremo stormire – forse – quando avremo foglie.
Non pensare alla morte / mentre la morte impera.
È il suo tempo – e
se lo abbia intero –
Pensa secondo l’infanzia / che sa la morte come un gioco
una parola fra le altre
–che significano il nulla che sono –
Pensa alla vita come un rotolo chiuso
–aprilo ogni giorno per la prima volta –
Credi alla sua lunghezza / e non t’illuda il peso
–secondo lo spessore è la lunghezza
secondo l’immaginazione è la bellezza –
Pensa alla morte come a te stesso
–al suo diritto d’esserti ombra –
Perché chi non ha ombra / non è vivo.
L’anima cieca se ne va lungo i muri.
Nessun risveglio vale
questa pagina.
Nessuna parola si fa istruzione.
Il quasi aprile è un assedio di neve.
Gli aranci in fiore
la quasi morte dei bianchi angeli.
E il furto del sole.
La mala hora
Le tragedie ci sovrastano
perché non siamo abbastanza in alto.
Considerami – per favore –
tra quelli che non hanno il dono della lingua.
Il mondo ha fatto strage nei miei occhi.
Vita – vita delle mie viscere – l’umano se ne va senz’anima!
Se dovessi mancare / a chi griderò?
Persino il mio cane alza la zampa
scuote la terra e se ne va senza voltarsi.
Che ne sarà del mio giardino primitivo?
Il tempo. Il tempo si ricorderà dell’inciso
di ciascuna delle nostre vite.
Non se ne andrà
senza fare un nodo al filo che si tira dietro.
Ma neppure laverà col pianto
la soglia che avremo appena attraversato.
Rendimi esperta del sentire più profondamente.
Forzare la lama
perdere gli occhi / fino alla visione.
Dare un nome a tutto questo
perché solo ciò che ha nome / esiste e vale.
Ha diritto alla nascita
ciò che è battezzato dalla lingua.
Vengo dallo scarto / sono il penultimo.
La morte incarnata
che ricorda la morte a chi l’ha dimenticata.
Non vedo uguaglianze
né differenze.
Le morti sono numeri in una sfera opaca.
Anche da lì
con tutti i segni matematici
compiono operazioni elementari.
I conti tornano sempre.
Gli occhi giustiziati / il corpo spianato
ma il sole che mi acceca amo nei tuoi occhi.
E tu sei vita povera e imparziale.
Tu ordini – vivi – e questa briciola ti basti.
Ad altri che pure non ti adorano l’eccesso riconosci.
Di alcuni ti scordi.
Poi dici – essi c’erano – Chi li ha uccisi?
Guarda – mi disse – è stampato a lettere cubitali.
E se non basta / evidenziato a sangue.
È tutto qui quel che devi fare.
Istruisciti. E-segui.
Io vedevo una scrittura minuta
in mezzo alle righe un corsivo manoscritto.
Un lillà fiorito appena
e all’opposto il glicine fastoso.
Colori uguali con diversa lingua.
Mi parlava l’aprile
sciagurato
e non la pagina piovuta sulle nostre vite analfabete.
Uno ad uno /
all’appello.
Ciò che non dissi
ogni giorno scrissi.
Parole come filo spinato.
Chi restò impigliato
e nel fuggire si strappò il sorriso?
Chi da me diviso per sempre
annullò tutte le distanze?
Al di qua dei nuvoli
signori dalla luce negata / improvvisati fratelli
–Non morire
ti tengo stretta la mano –
già un altro cercando cui aggrapparsi.
Perché la salvezza
passa sempre da uno che non si accorge di morire.
A colpi di versi / come una contesa
arriverai in
ritardo
o forse mai.
Un sole maligno fulmina il limbo
dove cogli frutti
addormentati.
Una lente è la penombra
del giorno appena
tramontato.
Una foto antica
una carta ingiallita.
Ma il rosso / il sangue / la vita.
Ancora viva ► ►► Andata.
Muerte querida – compañera muerte
non starmi dietro – passami accanto.
Voglio alle tue appoggiare le mie ossa stanche.
Le mani bianche appiglio non trovano
e barcolla il capo che ha in fronte un invisibile pugnale.
Tu il sole mi mostri che dilaga nel giovane verde.
I primi fiori muoiono
le primizie muoiono dei versi
che non immaginavo di scrivere nel vento.
Quanti pungiglioni per un frutto!
Quante api addosso!
E tu sprechi il mantello per te stessa sola.
A voce alta / o con un sussurro?
Nel baccello dell’alleanza
si parla al singolare
pur essendo in tanti.
Una casa dalle porte strette
inadatta alle fughe
ma spalancata all’ingresso della morte.
Una condizione in cui
non la perdita si geme del respiro
ma del non poter mai più parlare.
Abbi cura del nome che deve attraversare l’aldilà.
La vita usurpata se ne va col corpo
–in tasca la lista ripiegata
di ciò che hai creduto di possedere –
Il secolo perenne saliscende le sue destinazioni.
L’acqua che genera
muove e non estingue la ruota della nostra sete.
I luoghi dei labirinti
I labirinti sono affollatissime vie.
Sono luoghi d’incontri e prigionie.
I labirinti sono nodi insolubili
allegorie dei più profondi affetti.
Chi mi venne in sogno stanotte
sapendo che ero sul punto di morire?
Cercò di salvarmi
ma le mani ricadevano
e il corpo riprendeva la postura
della vita nel grembo.
Gemeva il gomitolo
– come per nascere – gemeva.
Il filo nascosto
che mi avrebbe tirato via da quell’inferno
non fu mai trovato.
Mi sono assentata.
Sono stata – anche per me stessa –
introvabile.
E non chiedermi dove sono stata.
– Non lo so –
Neppure adesso che cerco di capire
come fa l’anima a smarrirsi.
È il castigo dei labirinti
il contrappasso
dell’amore smisurato per la vita
– il confino negli abissi –
Tutto è cominciato
col dover andare nel buio.
Un ammaestramento a discernere
nel nulla un cammino possibile.
L’Anima ha passi pesanti
– porta in salvo un bambino tra le braccia –
L’Anima è femmina e conosce il parto.
L’Anima è piena di pesi
perciò sprofonda – pur avendo ali –
Ti avrò percorso come una pianura
dalla paura inseguita
o appena da lei scampata.
Non avrò dolore del ritorno
non avrò pensiero.
Il tragico è la follia
che non vede il suo principio.
Destarsi nello
stupore
che altra vita è il sonno
– più dolorosa e senza pace –
Non riposa nel buio la stanchezza
ma per una strana bizzarria
a quella aggiunge altra fatica.
Ed è come avere il doppio degli anni
costringere il cuore al saliscendi
di muri a picco sul mondo
allenarsi a immaginare
che cadere oltre
può essere infine una fine migliore.
A chi hai
dato ragione
che non sa nulla delle nostre pene?
Quale notte contiene
tutte le albe promesse?
Anch’esse furono recluse
ed è passato il tempo di nascere.
L’orrore narrato / più di chi lo vive
ferisce fino all’osso.
Ciò che sfinisce è lo sfioramento
del dubbio che sia la barbarie
a cessare prima della vita.
Così profondamente / o più lieve
come una foglia erosa
la cui filigrana in trasparenza
d’un gioiello costoso evoca la foggia.
Come una pioggia leggera
o certi veli di sposa
tale e impalpabile cala la tristezza.
Ed io vorrei a volte essermi madre
darmi una carezza / smettere il rifiuto
di un’attenzione / un gesto
e persino di una bella parola
sentire sul capo come un peso.
Di una gentilezza
quasi colpevole del suo sembrare
sentire su le antenne di chiocciola
come una carezza
e ridursi nel guscio
ché un gesto amorevole
può a volte anche spaventare
– o semplicemente –
deve farsi avvezzo il cuore
a un altro modo di amare.
Dei gerani ridotti a scheletri piegati
alcuni restano vivi
e stretti alla lanterna forata
che manda dal fregio luce arabescata.
Una ciocca di fiori quasi schiusi
un verde illuminato
un’isola estiva il crudo inverno sfoggia
come non avesse le altre piante ucciso
e fosse gloria sua quel piccolo miraggio.
Così agli umani
basta uno sguardo luminoso
un sorriso
a fugare il sapere doloroso
d’essere sospesi al caso.
Che nessuno si ricordi / di questa porta.
Una cosa / anche / vuole star sola
non cigolare più
non vedersi attraversata
lasciare imbrunire la maniglia
restituire passaggi
lavare impronte con la polvere
che ha bendato il respiro
accecato in bocca le parole
che avremmo potuto ancora dire.
Tentativi di riconoscimento
Io ti prego / con tutta l’anima
con la promessa del nulla che ti posso dare
con il bisbiglio della voce che muore.
Riconoscimi – fammi esistere –
Fogli strappati malamente.
Vanno a pezzi parole senza invenzioni
e indecisioni
nell’atto di fissare un vuoto
o uno smarrimento.
Potrebbe chiunque attraversare
il crocevia di sfiorati incontri
Ma tu – fermati adesso –
riconoscimi (o fingi).
Con un nome chiamami – qualunque –
Sarò chi vuoi ch’io sia
e ne sarò convinta.
Come dire – essenza –
Ciò che è l’anima / è il corpo.
Se ne vanno insieme nella vita
se ne vanno insieme nella morte.
Una finzione d’accompagnamento
se torna / e resta quell’aroma
come un profumo di donna
che passando ti sfiora.
Non v’è pagina bianca
più nuda dell’anima sola.
Eppure condizione transitoria è quella dell’attesa.
Non più al concetto di tempo essa appartiene.
Dice – ti aspetto – Si fa luogo.
Ed io ti troverò / dovunque aspetti
– essenza sine-cera del sempre assente incontro –
È la nostra condizione
essere separate da uno specchio.
Per naturale opposizione
una vede se stessa e l’altra il nulla.
Cos’è l’autentico
se non il ritrovamento del se stesso ignoto?
Comprendere che il tempo è mutamento
e chi eravamo non
siamo.
Tentare un ritorno alla ferita
che si crede guarita
trovare il punto infetto
e
senza esitazione andare a fondo.
Il sangue / il vivo grido del sangue
il vero sangue
il vero grido. – Il vero –
Che venga furtiva nei pensieri
o traverso
più concrete forme
e spazi veri
sempre m’aspetto che mai più sia ieri
e le varie officine della vita
siano d’arte e parole illuminate.
Perché non so altri disegni seguitare
dare titoli e nomi
a ciò che non conosco.
È un bosco intricato l’esistere
ma
sempre uno spazio
apre nell’ombra il sole
sempre negli uguali giorni ve n’è uno diverso.
È quest’ora un uovo trasparente
– un nido persino vi si legge
sui rami più alti in lontananza –
In realtà il colore non esiste.
Niente si muove nell’aria oppressa e bianca.
Così è l’anima
stanca
che di notte ha spento un uragano
ed ora se ne sta nel corpo
come un tuorlo in attesa della piuma.
Tu sei vita che mi parli dentro
e degli occhi omerici leggi la visione.
Vado avanti /e alla via ti rifaccio il manto.
Ti metto in bocca la favella
che riveli in ritardo – o forse mai – la stagione che aspetti.
Allora forse – come estremi infine ricongiunti –
andremo in tondo nella perfezione.
Nessuna cosa si dà che non ritorni
se tu l’accogli il tempo non ti manca
ché la pace è cosa da nulla se tu vivi in pace.
Una voce dalla bocca bianca
come dire “pura” e senza segni
che intenda ciascuno a modo suo perfetto.
Occhi come labbra
orli di un pozzo che è l’abisso umano.
Da quel punto parlano i morti
– dalla carne dove hanno scelto di dormire –
Dove a volte germogliano.
Viene d’assalto la mitezza
a farsi elemento di passione.
L’ampiezza dell’aria
la finzione che al gioco piega la lingua dell’amore.
Dove vai presente? Fermati ora.
La simil-vita si strugge per un’ora di ebbrezza.
Dille che non v’è dilazione
che la sola certezza è l’invenzione
la cantilena sonora della lingua
che risana la vita lacerata.
Negli anni le ferite s’inventano
inversa guarigione.
Ora son quelle della carne che risanano
lente / o affatto guariscono.
Un tempo i tagli / le abrasioni / le fratture
tornavano in fretta alla salute
sprezzante / avventurosa.
Ma le ferite invisibili che ora son lievi
e lasciano graffi come di sabbia
troppe volte incisa e ricomposta
al tempo dell’infanzia
erano ustioni.
Marchiavano l’anima a ghiaccio e brace.
La casa dell’armonia
Io vedo una stagione a misura della vita.
Un abito per l’anima / che si renda visibile
con la sua forma buia e luminosa.
Che sia una –comunque si mostri – in una veste
con mano di sarta rifinita / sul suo corpo di donna.
Considera la grammatica dell’armonia
la declinazione del verbo dire
l’essere un fotogramma rubato
alla naturalezza di bambini al gioco
–il corrusco / il solidale / l’estatico –
il fermare la corsa e la lentezza con uno spillo
che non fa sanguinare che l’anima dell’occhio
l’esemplificazione della scena
in una recita senza testimoni.
Scegliere un tempo per il dire
–l’infinito / la possibilità / la certezza –
e dare all’armonia un altro nome.
La gazza accecata dallo specchio
il maggio dilaniato
da una granata di rose
il gelsomino soffocato dal suo aroma.
Sogno – o sono –
una di queste incuranti apparizioni
che illusione è credere proprie.
Ridurre alla visione il merito
di quanto per sé esiste
e di mostrarsi non cura.
Resti dov’è ogni cosa
sul ramo pieghi il capo la rosa.
Non fissare un pensiero come fosse l’unico.
Unico è solo chi lo pensa.
Cosa direbbe – cosa dice – una qualunque cosa?
Un uccello – se potesse –
o un te stesso diverso
che pensa lo spazio come la sua casa
la libertà il respiro del mare
e il petto un’onda.
Se uno spillo ha fissato al cuore un dolore
non esitare – togli lo spillo –
Sanguinerà la sua lacrima rossa
prima di sanare il profondo e la mente
che vanno in pace solo in parallelo.
Il vaso / con le sue rotondità
di giovane ben fatta
sui bordi le impronte del vasaio
e un rossore pudico nell’ampiezza
come di una guancia sfiorata da uno sguardo.
Come mai l’avessi guardato
mi appare oggi che è vuoto
e non i fiori vedo ma le sue fattezze da ragazza
gli orecchini a cerchio e la vita snella sotto il seno.
Così pieno d’immagini è l’occhio
nell’espansione del tatto.
E sempre la mano plasma un sogno.
Ampia Madre / ora fune e nodo
dell’anima al guinzaglio
–dolce aurora –
con dita di gelo mi stringi il cuore.
Così si ferma il respiro
quando sorprendi la bellezza
che prende la mira
per accecarti fino al cuore.
Alimento il fumo domestico
che porta in alto i nostri voti
le cere al candelabro dalle proliferanti braccia.
Non resta vuota sulla mensa alcuna brocca
e ogni piatto si colma per gli occhi primamente.
E vetri senza tende / porte senza chiavi
e un andare leggero da una stanza all’altra
dove prismi di luce sorprendono i soffitti
di piccoli tondi colorati.
Apriti adesso mia spinosa corte
lascia che oltre vada
la vita immaginaria
dove armonia aquila-colomba
sui vivi senz’ali dolce e fiera scenda.
Perché la speranza spesso immotivata
sa trovare spiragli nel più fitto buio.
come il salice che ieri nella vasca
è risalito con le sue radici.
I giuramenti del vento
La reciprocità è spesso unilaterale.
Non c’è testimonianza cui faccia seguito
attuazione o conferma.
Nella promessa si è sempre soli.
Io ti prometto
ciò che non mantengo
–paesaggi spergiuri delle mie stagioni
nodi d’intese e di contrasti
aperture di abbracci e ritrosie –
Tu vedi un corpo
dall’armonia perduta
il verso mortificato dalle sue cadute.
È questione di lingua anche la vita
Va dove vuole
e come vuole canta
–a se stessa fedele l’anima distante –
Ho creduto di vivere
per via del corpo
nelle cui giunture nidifica la febbre.
Ho contato – con la vita –
tutte le cadute possibili.
La previsione del nulla
–anche adesso –
mi calza a pennello.
Il pensare e il tacere non si guardano in faccia.
Fianco a fianco edificano
viaggiano / sognano.
Se parlano
qualcosa rovinosamente cade
Qualcuno dice – io lo sapevo –
Invece non sa.
Uno solo è cieco e veggente.
Qui non abita che il suono – della tristezza –
il respiro del corpo
il canto – solo –
Non più rivolta ma sogno addomesticato
fiato che era pronuncia / e parola battente.
Hai ferito?
quanto?
e veramente lo desideravi?
Parola – ti ho cesellata – Sei stata lancia e scudo.
Il tuo posto non è – accanto –
Eri in me
ti
dominavo. Quando?
Ti chiamo a mente / a mente ti dimentico.
Tra Ora e Mai
tutti gli avverbi di tempo che non imparai.
Quelli che sai / che hai saputo rafforzare
con un raddoppiamento.
Il Mai-Più del tuo tardivo accento.
A te / senza mediazione
da un’opposta riva
da un’asserzione e dal suo contrario
queste formule affido
di cui non conosco il senso.
–Risolvimi –
mi sono aggrovigliata nei miei numeri.
Cupamente
nel respiro dei morti mi son precipitata.
Sono troppe le pietre che mi stanno addosso.
A te / senza mediazione
dico – salvami adesso –
Ti scriverò una lettera – lunga e senza nome –
che ti arrivi in fronte come un tuono.
Un cuore di spine
con la fiamma al centro
ti bruci le mani con la sua scrittura.
Sì – ti chiamai –
e non mi rispondesti.
Nulla volevo
solo che leggessi
e la tua trovassi scarna parola.
Ossi spolpati sono questi versi
uncini senz’esca
per ospiti senza benvenuto.
È l’assenza d’ogni meraviglia.
La mia immobilità ha chiuso i sensi
si castiga al buio
e non reclama la stupefazione.
Vattene giorno.
Pesi esagerati e vuoto se li porti il sonno.
Sonno delle rimembranze
ti bruci il fuoco dell’inferno
ché solo morti mi porti
e perdizione in luoghi sconosciuti.
Mi abbandoni me stessa.
La mia follia non mi sia compagna.
Non parlai quel giorno
che in forma di sospiri.
Mi abbandonò la lingua.
Se ne andò
con - lamenti - disarticolati.
Poi fu silenzio.
Adeguai il gesto alla posa dei morti.
Amai la compostezza
Fui occhio / bocca
mano di mio padre.
Perdemmo insieme tutte le rughe.
Note ai testi
Atto unico è la storia individuale, che a tutti è dato di vivere e
rappresentare.
Estremi, il nascere e il morire, atti unici anch’essi, poiché non v’è che una
nascita, non v’è che una vita, non v’è che una morte.
Vita come essenza e apparenza, realtà e finzione. Che a volte coincidono, come
tutti gli opposti.
I Versi della malapena e della mala hora rappresentano le prove, più o
meno impegnative, che la vita ci impone di af-frontare. Quasi un esercitarsi
all’“atto unico” risolutivo.
I labirinti sono i luoghi interiori, le stanze del Minotauro (l’Io
profondo) che li abita, con il richiamo al mistero insondabile e insidioso degli
abissi, accessibili al sogno, al dolore, alla me-moria. (Concetto già espresso
in: Antonio Vanni, “Un amore all’ennesima potenza”, Recensione a Iridio,
L’Erudita, 2019, Ver-nice, Anno XXVII, n° 59, Genesi Editrice, Torino.
I Tentativi di riconoscimento indicano la ricerca della pro-pria essenza.
Conoscersi, per riconoscersi nell’altro.
La casa dell’armonia è il proprio luogo etico, la casa dell’anima.
Abitare la vita nella consapevolezza del bene, come accesso all’armonia
universale.
I giuramenti del vento dicono che non esiste immobilità nel vivere.
Nulla è certo. Ogni promessa è vento, poiché nessuno ha po-tere sugli eventi.
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