Il pescatore e la
sirenetta
L'atmosfera è surreale, il cielo morbido e luminoso, solcato a tratti da
brevi nuvole bianche e soffici come piccole bambagie, l'azzurro intenso
del mare gli fa da specchio.
Sulla spiaggia deserta solo qualche gabbiano infreddolito fa la spola tra
il bagnasciuga e gli scogli.
Un pescatore assorto nei propri pensieri, a passi lenti e regolari si
avvicina verso un punto della spiaggia che ben conosce e che
irresistibilmente lo attira da molto tempo.
Il paesaggio intorno è quello dei paesi del Nord, misterioso e come
incantato.
Lontano, lungo la spiaggia, corre una via stretta, attraversata da qualche
pedone, da poche auto e qualche ciclista; è fiancheggiata da piccoli
rododendri, sistemati in apposite aiuole a distanze regolari tra loro.
Dalla parte opposta alla strada, sono strette le une alle altre tante
piccole e graziose abitazioni, sulle cui facciate rivolte verso il mare si
notano file di finestre con le vetrate a vista, in serie interminabili.
Il pescatore osserva tutto ciò senza guardare: l'ha impresso nel cuore e
nella mente perché fa ormai parte di sé.
Quasi ogni giorno, infatti, ritorna in questo luogo per lui meraviglioso,
da quando alcuni anni prima ha visto emergere da dietro un piccolo scoglio
vicino alla riva una sirenetta.
Quando ciò era accaduto, il pescatore, in quel momento, aveva pensato di
aver forse sognato, di essersi per un attimo assopito e che in sogno gli
fosse apparsa quella graziosa figura: era quasi certo che fosse stata una
visione determinata da un momento di stanchezza e di dormiveglia: il
silenzio e la calma del posto invitavano a lasciarsi andare……! E anche ora
è lo stesso!
Quella volta, mentre cercava di capire se fosse stato o no un sogno, la
sirenetta era riemersa di nuovo e gli aveva sorriso, ed era rimasta a
lungo a fissarlo, finché si era di nuovo allontanata, scivolando
dolcemente tra le onde.
Il pescatore aveva provato una grande emozione e non era più riuscito, per
quel giorno, a dedicarsi alla sua attività di pesca per la quale di solito
passava ore ed ore ad attendere gli abboccamenti di qualche pesce, che
immancabilmente, non appena tirava su con la sua lenza, lasciava ricadere
nell'acqua.
Egli, infatti, non voleva portarsi a casa i pesci pescati, ma voleva solo
provare a vedere se tanta paziente attesa fosse ricompensata ogni tanto
dall'arrivo di qualche pesce curioso e disattento. E ogni giorno contava
le sue "conquiste". Teneva il conto dei records! E non si stancava mai di
aspettare, contare e rilanciare in mare le sue piccole vittime. Ogni
giorno, da anni.
Dopo quell'apparizione fugace, però, la pesca come passatempo aveva perso
un po' della sua attrazione per lui, che non riusciva a staccare il
pensiero dall'esile e dolce figura che aveva visto. Ben due volte in pochi
minuti: ne era sicuro!
Quel giorno aveva sistemato in fretta tutti i suoi attrezzi di pesca, li
aveva avvolti nelle loro custodie e, tutti insieme, li aveva messi nella
sua sacca. Aveva chiuso bene la sacca, l'aveva depositata in un cantuccio,
vicino al muretto che divideva la strada dalla spiaggia, ed era tornato
nei pressi del piccolo scoglio dove aveva visto la sirenetta spuntare
dall'acqua.
Attendeva di rivederla. Intanto aveva osservato bene lo scoglio, notando
che aveva la forma di una piramide arrotondata, era come un grosso masso
di pietra dura, color marrone, sembrava levigato e scivoloso, con un
leggero solco lungo un fianco, sul quale si era come appoggiata la
sirenetta, la seconda volta che era apparsa, quando era stata a lungo ad
osservarlo e gli aveva anche sorriso.
Aveva atteso tanto quel pomeriggio, fino al tramonto, quando lunghe scie
luminose, rosa, gialle e qualcuna anche color porpora, si erano quasi
allineate nella direzione in cui il sole avrebbe dovuto essere "sceso" per
nascondersi ai suoi occhi.
In realtà, per tutto il tempo che il pescatore era stato sulla spiaggia,
quel giorno, il sole non aveva mai fatto capolino, ma la sua luminosità si
intravedeva nel cielo punteggiato dalle bianche nuvole che sembravano a
tratti inseguirsi tra loro.
Ma quel giorno la sirenetta non era tornata a farsi viva.
Da allora, il pescatore era tornato tutti i giorni, fin quando, un'altra
volta, finalmente anche la sirenetta era ritornata a farsi vedere e a
guardare lui a sua volta, con quei suoi grandi occhi luminosi e vivi e con
una certa titubanza, ma con grande curiosità.
Ed era rimasta molto più a lungo della prima volta.
Il pescatore era rimasto affascinato da tanta naturalezza e dalla
spontaneità con cui la sirenetta gli si era presentata, ma continuava ad
essere incredulo e non riusciva ad immaginare cosa fosse possibile fare
per intrattenerla e come avrebbe potuto iniziare una qualche breve
conversazione con lei.
La sirenetta era tornata altre volte a farsi vedere, e una volta si era
persino seduta per un attimo sullo scoglio, tanto che il pescatore aveva
potuto osservare bene la parte finale del suo corpo, che era come una
bella coda di pesce! Ed anche questo particolare l'aveva affascinato,
anche perché era la prova che tutto fosse reale.
Finalmente, un pomeriggio, dopo aver tanto atteso questo momento, alla
vista della sirenetta che gli sorride, il pescatore, sorridendo a sua
volta, si fa coraggio e le chiede con voce pacata, per non spaventarla:
Chi sei? Come ti chiami?
E, con sua grande sorpresa, la sirenetta aveva risposto.
Da quel momento, era iniziato un dialogo dolce e sereno che permetteva ad
entrambi di raccontarsi reciprocamente le proprie gioie, le emozioni,
fatti della propria vita, anche i propri dispiaceri, i malumori, le
promesse mancate, le amicizie vere e quelle finite perché interessate, non
autentiche; finché le loro storie si erano intrecciate e ogni giorno i
loro racconti si arricchivano di fantasie, di immagini di speranza per i
giorni a venire; ed entrambi si erano scambiati, senza mai dirselo, la
promessa di continuare a vedersi per trovare ristoro nell'accoglienza e
nella tenerezza reciproca.
Il pescatore era diventato sempre più audace, ma non osava avvicinarsi
troppo alla sirenetta, anche se desiderava inconsciamente toccare almeno
le sue mani, i suoi capelli, per verificare che fossero proprio come
quelli delle donne che conosceva.
La sirenetta, a sua volta, timida e riservata com'era sempre stata, temeva
di offendere il suo amico pescatore se gli avesse apertamente partecipato
le sue emozioni, le gioie che provava nel rivederlo e anche nei momenti in
cui, al riparo dai raggi del sole, se ne stava tranquillamente immersa
nell'acqua, tutta sola o, al più, in compagnia di alcuni piccoli e grandi
pesci con i quali però non poteva scambiare parola!
Erano stati momenti molto belli per entrambi, finché un giorno, la
sirenetta quasi sicura di essere diventata l'amica più cara del pescatore,
aveva provato ad aprire il suo cuore, testimoniandogli con parole calde e
gentili tutta la felicità che le era derivata dall'averlo incontrato.
Il pescatore l'aveva ascoltata come sempre con attenzione, ma da allora
con crescente interesse, ed anch'egli le aveva confessato di essere
affascinato e incuriosito dalla storia che insieme stavano intessendo.
Ogni sera la sirenetta, tornando dalla sua passeggiata in superficie,
scivolava felice sotto le onde del mare e si lasciava cullare, specie
nelle lunghe notti fredde, dal loro dolce e lento dondolio, riuscendo a
scaldarsi nell'animo al solo pensiero che anche il giorno dopo avrebbe
avuto modo di parlare con il pescatore.
La sirenetta era molto contenta della sua nuova esperienza, soprattutto
perché aveva sempre avuto bisogno di aria, di luce, di calore e, nelle
profondità del mare, non aveva trovato mai la possibilità di respirare a
pieni polmoni, non vedeva molto bene quello che accadeva attorno a lei e
poi, il silenzio era quasi pauroso in quel cantuccio in cui era o si
sentiva come segregata, e le giornate le sembravano interminabili.
Tuttavia, la sua contentezza per la nuova amicizia con il pescatore, dopo
un po' di tempo l'aveva fatta sentire a disagio: rifletteva sulla sua
situazione, era la sua una condizione un po' particolare, perché lei era
solo una sirenetta e poteva venir fuori dall'acqua soltanto per metà del
suo corpo e non avrebbe mai potuto lasciare il mare, perché quella era la
sua dimora da sempre. Del cantuccio in cui da sempre aveva vissuto,
seppure a volte con monotonia, a volte annoiata, a volte triste, conosceva
ogni anfratto, ogni filo di alga, ogni sasso e pure tutti i suoi amici
pesci, anche se con loro non poteva mai parlare: li riconosceva dai
movimenti o dal colore, dal modo di avvicinarsi a lei, dalla vivacità o
dalla pigrizia. E non avrebbe mai potuto abbandonare quel suo piccolo
mondo, che amava oltre ogni limite.
Il pescatore, dal canto suo, non si annoiava mai quando stava in compagnia
della sua tenera e speciale amica, ma era come se avesse letto i suoi
pensieri e ogni giorno anche i suoi stessi pensieri lo rendevano un po'
preoccupato, anche lui capiva che non avrebbe mai potuto strappare alla
sua nicchia la sirenetta e che, anche se fosse stato possibile, non
sarebbe stato giusto.
Ma con pazienza, cercando di non pensarci, continuava a dialogare con lei,
poiché sentiva che gli trasmetteva serenità, stupore, ammirazione.
Aveva anche escogitato delle modalità di intrattenimento gioioso della
sirenetta: ogni tanto le recitava a memoria delle belle poesie che
parlavano della natura, del mare, degli alberi, degli uccelli, degli
amici, della solitudine, dell'anima, della luna e di altro ancora; e la
sirenetta lo ascoltava ora commossa, ora emozionata, ora pensierosa, ora
curiosa, ora perplessa, ma sempre attenta, interessata e felice. Altre
volte le faceva ascoltare della musica: veri e propri concerti, melodie
per le orecchie e per la mente della sirenetta: la prima volta che aveva
ascoltato delle note musicali era rimasta un po' confusa, non capiva da
dove provenissero e guardava quel piccolo oggetto tondo che il pescatore
teneva fra le mani, finché osò chiedergli cosa fosse: il pescatore bloccò
un tasto e la musica finì, poi premette di nuovo un altro tasto e la
sirenetta poté capire che era proprio da quell'oggetto che le note si
diffondevano nell'aria e il suono le giungeva pulito e soave; il pescatore
le spiegò che quel piccolo oggetto era un lettore CD, che la sirenetta non
aveva mai visto prima. E benché non capisse chiaramente di cosa si
trattava, le era comunque bastato sapere che poteva ascoltare dolci
melodie, quando il pescatore lo estraeva dalla sua sacca.
La sirenetta era contenta, il pescatore pure, ma spesso nei loro occhi
passavano come dei fili sottili o delle ombre che li velavano un po'.
Quanto più spesso ciò accadeva, tanto più la sirenetta diventava cupa,
mostrava quasi di avere paura; al pescatore accadeva lo stesso.
Un giorno, finalmente, entrambi si trovarono pronti a dirsi quello che
passava loro per la mente quando diventavano silenziosi e tristi, ora
l'uno, ora l'altra.
Avevano entrambi un brutto pensiero: temevano che la condizione della
sirenetta potesse prima o poi compromettere la loro amicizia; la sirenetta
temeva che il pescatore si sarebbe stancato di venirla a trovare e di
stare a sentire le sue preoccupazioni, i suoi sospiri, ma anche le sue
allegre trovate. Una volta, per esempio, gli aveva chiesto se sapesse
nuotare e lo aveva invitato a fare una gara fino a raggiungere lo scoglio
più distante da quello presso il quale si davano i loro appuntamenti
quotidiani. Il pescatore aveva accettato la sfida, ma una volta in acqua
non se l'era sentito di gareggiare e, con uno stratagemma, l'aveva
convinta ad andare piano, stando vicini, sulla stessa linea, muovendosi in
sintonia e per il solo gusto di lasciarsi trasportare dalle onde del mare:
era come fare una passeggiata e, al ritorno verso la spiaggia, entrambi
erano rilassati e sereni. Ma la sirenetta aveva pensato che al pescatore
non avesse fatto piacere quel gioco e che l'avesse accettato solo per non
sembrare scortese.
Il pescatore, a sua volta, temeva che la sirenetta si ammalasse fuori dal
suo ambiente e si sentiva un po' in colpa: ogni volta che la vedeva
emergere piano piano dall'acqua, la sua attesa era un po' insidiata dal
timore che la sirenetta prendesse freddo e che non potesse star fuori a
lungo o che non potesse magari ritornare nei giorni seguenti.
Ma non avrebbe voluto rinunciare a quei brevi momenti pieni di calore,
densi di significato per lui e per entrambi.
Dopo quel dialogo appassionato, in cui ognuno dei due aveva espresso i
propri timori, le proprie paure, ma anche i propri desideri, le proprie
speranze, il reciproco legame, era come se il cuore di entrambi si fosse
allargato a dismisura per contenere tutto dell'altro e dell'altra: i
sentimenti, le emozioni, i pensieri, le paure, le gioie, le tristezze, i
malumori, la stanchezza, la noia, l'allegria, la meraviglia, la felicità,
l'entusiasmo, la vita.
La loro amicizia da quel momento fu come suggellata per sempre e ancora
ogni giorno il pescatore torna a trovare la sirenetta e la sirenetta ogni
giorno lo aspetta e, a volte, emerge dall'acqua nello stesso istante in
cui il pescatore si ferma vicino al piccolo scoglio a forma di piramide:
c'è tra loro come una sorta di telepatia, l'uno sa leggere i pensieri
dell'altra e viceversa. La loro storia ogni giorno si arricchisce e si
ravviva.
La sirenetta respira l'aria che le era spesso mancata prima, vede la luce
e prova stupore e meraviglia per tutto quello che osserva e che ascolta
fuori dal suo cantuccio nascosto in fondo al mare, sente il calore dentro
di sé, anche se fuori è freddo, perché il pescatore riesce ad attirarla
con le sue storie, con i suoi racconti, con le sue ironie, con le sue
divertenti trovate. E quando parlano di cose serie, la sirenetta si sente
"grande", è come se il pescatore fosse il suo maestro e la sua mente
vivesse la sua piena estate.
Anche il pescatore assapora con serenità, con gioia e con sua stessa
meraviglia, le piccole banalità che la sirenetta ogni tanto gli propina,
per distrarlo, per non fargli sentire il peso dei giorni che passano e dei
suoi anni. Sì, perché il pescatore è un saggio che vive la sua vita come
se fosse nato quasi un secolo prima, ma in realtà non è molto più vecchio
della sirenetta che ha appena trentaquattro anni.
Anzi, da quando hanno cominciato a parlarsi, entrambi sono cambiati, sono
come ringiovaniti: la gioia illumina i loro occhi, e il loro cuore e la
loro mente ricevono calore e vivacità dai loro sguardi, dalle loro voci,
dai loro stessi pensieri.
E anche oggi la sirenetta ha sentito e riconosciuto i passi lenti e
cadenzati del pescatore e non lo ha fatto attendere!
22 dicembre 2004
(Da "La mente e il cuore: riflessioni e ricordi, a margine di esperienze
reali")Mefistofele si svela
Da: "L'altipiano dei mastini - Distonie e disvelamenti"
Breve trasformazione di un'idea, da La collina dei conigli, (titolo
originale "Watership Down"), di Richard Adams, 1972 - ed. BUR
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Erano tempi in cui non si andava troppo per il sottile, qualsiasi cosa o
situazione o occasione capitasse si prendeva per quel tanto o poco che
poteva dare o rappresentare. Si viveva un po' "alla giornata". Un motto
che implicitamente circolava, valido per tutti gli esseri viventi, era
"vivi e lascia vivere". E non era certo diverso per i mastini. Questi
vivevano in gruppi distinti, la differenziazione era data dalle
appartenenze geografiche tradizionali: ogni gruppo che aveva abitato un
certo territorio da molto tempo ne acquisiva implicitamente il diritto di
possesso e questo bastava a tenerlo insieme come gruppo e a distinguerlo
da altri gruppi. La famiglia più chiacchierata di un territorio tra i più
vasti, l'altipiano Than Miniato, apparteneva al gruppo dei Mastini Neri ed
era detta "del Mefistofele" a motivo di un componente nato male, di cui lo
stesso padre dubitava segretamente sulla propria paternità. Tutto questo
aveva in sé qualcosa di sinistro. Ma dopo diverso tempo tutti ci avevano
fatto un po' l'abitudine e nessuno ne guaiva mai apertamente. Questa
famiglia abitava in un piccolo pianoro, dentro una specie di catapecchia
abbandonata, (occupata abusivamente, si direbbe oggi…) in cui ogni membro
della famiglia s'era ritagliato e riservato un proprio angolo, che
riteneva in qualche modo inaccessibile a chiunque altro. Tranne piccole e
opportune eccezioni. La vita monotona scorreva ogni giorno allo stesso
modo. Il padre si svegliava di buon'ora e annusava la giornata: cercava
prima di tutto di capire se ci fosse stata un'aria buona per muoversi alla
ricerca del cibo per la famiglia, poi tendeva l'orecchio destro verso
l'angolo in cui ancora sonnecchiava la sua compagna e cercava di capire
dai respiri se ci si potesse aspettare un minimo di buonumore per quel
giorno, poi volgeva l'altro orecchio alternativamente verso i due angoli
in cui dormivano il primogenito e l'altro, il cui nome il padre taceva
anche a se stesso, come se ne avesse vergogna. Spesso intuiva il come del
risveglio di "quellaltro"… (noi lo chiameremo d'ora in poi così, e non
occorre la maiuscola, né l'apostrofo, trattandosi di semplice
"indicazione" di mastino). Non era difficile, infatti, capire, dai
movimenti inconsulti, rapidi e improvvisi come piccole scosse che gli
possedevano il corpo e lo scuotevano anche nel sonno, che quellaltro
avrebbe dato filo da torcere ancora, come tutti i santi giorni dalla sua
sventurata nascita e come tutti i giorni che sarebbero seguiti.
Involontariamente il padre sospirava, come per estrarre dall'interno del
suo corpo una forza nuova, una maggiore pazienza, che l'aiutasse a gestire
o almeno a sopportare le situazioni che già immaginava scompigliate e
ansiogene, determinate - ne era certo - anche nella giornata che stava per
iniziare, dalle convulsioni assurde di quellaltro. Ma tutto, per lui, era
rinviato alla sera, unico momento in cui la famiglia si sarebbe ritrovata
insieme al completo…
Fortunatamente, faceva in tempo ad alzarsi dal suo giaciglio senza che i
tre familiari si fossero ancora svegliati. Usciva cautamente, una zampa
dietro l'altra, cercando di trattenere perfino il respiro e di non urtare
nessuno degli oggetti che erano disseminati in disordine un po'
dappertutto. Appena fuori, respirava a pieni polmoni e spalancava gli
occhi come per prendersi d'un colpo solo tutto quello che la natura gli
offriva; immaginava, forse, che così facendo potesse diventare più forte,
più ricco e, chissà, permettersi il lusso di abbandonare l'improvvisata
dimora e allontanarsene tanto da non essere più rintracciato da nessuno
dei suoi conoscenti e trovare infine un ristoro nuovo in un ambiente che
non fosse saturo di veleni come quello da cui era appena uscito. Poi,
lentamente ma un po' rasserenato dai pensieri che gli si erano affacciati
alla mente, s'incamminava per iniziare il suo lavoro quotidiano, nel quale
cercava di attardarsi il più possibile perché ciò gli consentiva di stare
fuori fino a che l'orizzonte s'offuscava. Solo allora, d'umore incerto,
riprendeva la via di casa. La sua compagna, invece, appena sveglia,
cominciava ad agitarsi. Controllava come sempre che il capo branco avesse
già lasciato libero il giaciglio e così lo sistemava alla bell'e meglio
per non pensarci più fino a sera. Poi andava a rovistare in una specie di
sottoscala, dove teneva le riserve di cibo che il suo compagno ogni sera
le portava, e si dava da fare per sistemare fuori dagli angoli in cui
dormivano ancora i figli, i primi bocconi che avrebbero ingoiato appena
svegli. Il rumore che faceva nei suoi spostamenti da un angolo all'altro,
immancabilmente svegliava i due piccoli.
Il primo non se ne lamentava mai, anzi gli sembrava di vedere in quella
madre tuttofare una sorta di protezione, che da solo non sarebbe riuscito
a darsi, contro le malefatte di quellaltro che avrebbero avuto inizio
subito, non appena avesse avuto gli occhi semiaperti.
E dunque non s'affrettava ad uscire dal suo giaciglio e, quando si
decideva a farlo, imitava in qualche modo il padre, utilizzando tutte le
cautele possibili per non farsi sentire. Era come se volesse diventare
trasparente, invisibile, per non farsi neppure sfiorare da sguardi o voci
di quellaltro che gli riuscivano sempre inopportuni e funesti, anche
quando non erano particolarmente malvagi. Il solo pensiero di dover
affrontare un nuovo giorno con le stesse caratteristiche del precedente lo
opprimeva, oppure gli dava ai nervi, oppure lo faceva sentire già
sfiancato di primo mattino. Fatto sta che prendeva alla svelta il suo
boccone, lasciava un veloce saluto silenzioso alla madre (una sorta di
"toccata e fuga") e a sua volta usciva. Panetto, questo il suo nome, aveva
fatto amicizia con una famiglia del vicinato, composta anch'essa da
quattro mastini, che tutti nel circondario rispettavano perché non davano
mai fastidio a nessuno e anzi, quando se ne presentava l'occasione,
aiutavano i loro simili che fossero in difficoltà.
Ogni mattina il suo itinerario lo portava da loro.
Panetto si trovava bene con questa famiglia e specialmente con i due
piccoli, perché nessuno gli faceva mai domande dirette sui suoi familiari,
e invece tutti e quattro, in modi diversi, lo aiutavano a capire tante
cose della vita che gli tornavano utili per la sua crescita, sia dal punto
di vista affettivo, sia per stimolare l'intelligenza che gli permettesse
di saper valutare con attenzione e con anticipo le varie situazioni per
saperle adeguatamente affrontare, sia anche per un suo interiore benessere
che gli proveniva dal sentirsi a sua volta utile. La sua vita infatti
trascorreva in modo del tutto autentico, aveva libertà di muoversi, di
esprimersi, di fare, giocava con i figli di questi amici (Tono e Tona
rispettivamente) e insieme spesso escogitavano giochi nuovi e divertenti,
ai quali non era improbabile che proprio Panetto apportasse talvolta delle
modifiche che entusiasmavano i due amichetti. Seguivano insieme anche
delle specie di congreghe, tenute da un anziano del posto, durante le
quali venivano a conoscenza di tattiche particolari del vivere bene che
assimilavano con gusto e di cui poi facevano sfoggio con altri compagni
della loro età o più piccoli con cui a volte si incontravano. C'era una
specie di angolo protetto del pianoro, abbastanza isolato e nascosto da
arbusti rigogliosi e folti, che casualmente avevano scoperto Panetto e
Tono, da un po' di tempo, e qui si davano a volte appuntamento o, se si
trovavano a passare, si fermavano se c'erano già altri del loro "giro".
Quellaltro, invece, quando si svegliava aveva sempre il broncio e
cominciava la sua giornata lamentandosi di tutto e in particolare d'essere
solo con la madre. Questa cercava di stimolarlo ad uscire per fare
amicizia con qualche mastino del vicinato e con cui potesse iniziare a far
pratica di caccia senza incorrere in pericoli. Ma lui si mostrava spesso
restìo, diceva che gli altri piccoli che conosceva sapeva bene come
fossero tutti degli inetti, a volte esasperava la madre con le invettive
che mandava ad ognuno di loro e in definitiva si arenava nel suo angolo da
cui si staccava solo quando la madre, per poterglielo sistemare un
pochino, lo prendeva a forza e lo allontanava. In quei momenti diventava
insopportabile, scalciava, gridava, diceva sempre no, no, no, diceva che
doveva pensare. La madre lo strattonava, ripetendogli: "Pensare! A cosa
devi pensare che ti manca il pensiero! Tu sei "un senza pensiero"! Esci,
vai, ti dico…". Colpito a morte dalla dure parole della madre, scappava,
finalmente. E da solo raggiungeva prati incolti, dove trovava lupi
solitari con cui cercava di attaccare una qualche forma di comunicazione:
partiva dalle solite forme canine: pancia in su, rotolamenti, per far
capire che non aveva intenzioni cattive, finché trovava lo stesso
trattamento dall'altra parte. Quando l'intesa era raggiunta, iniziavano le
loro corse sfrenate in su e in giù per i boschi e per le alture che erano
il terreno di vita di quei lupi. Si sentiva abbastanza a suo agio, almeno
fino a quando non c'era da spartirsi i ruoli per cominciare un vero e
proprio gioco con le sue regole e con i suoi precisi momenti. Allora
s'intestardiva a pretendere per sé il ruolo più in vista, poi quando a
forza di insistere glielo concedevano iniziava la vera disavventura.
Sbagliava continuamente ogni azione, pur semplice, finché il gioco
diventava incomprensibile a tutti e la combriccola si scioglieva. A due a
due se ne andavano via senza nemmeno avvisare gli altri, fin quando
quellaltro che era stato tutto preso da se stesso e non s'era accorto di
nulla, si ritrovava "solo come un cane", vien giusto da dire. Allora
s'infuriava. Cominciava ad ululare imitando gli amici lupi, ma poiché non
gli riusciva troppo bene, destava sospetti in chi ne sentiva l'eco, anche
da lontano, e mentre se ne tornava alla sua tana, ancora una volta di
pessimo umore, non incontrava anima viva. Tutti quelli che avevano
ascoltato gli urli sguaiati si erano precipitati ad accucciarsi presso le
loro madri e non uscivano fin quando non fossero certi che l'aria intorno
si fosse acquietata. Quellaltro rientrava a sua volta presso la propria
madre, ma non aveva certo l'aria di voler ascoltare alcunché. Cominciava
invece a sbraitare anche da solo, a mettere a soqquadro il suo angolo che
trovava ben sistemato, dicendo che doveva trovare qualche oggetto
misterioso. Poiché in realtà non cercava nessun oggetto, ma il mistero
stava solo nella sua testa, continuava poi a distruggere tutto quello che
gli capitava fra le zampe, finché la madre non era costretta a fermarlo a
colpi di muso e qualche volta anche di morsi. Era l'ideale per peggiorare
la situazione! Al momento otteneva l'effetto desiderato, lo fermava, ma
aveva innescato una bomba ad orologeria che sarebbe comunque scoppiata di
lì a poco e ritmicamente, ogni volta con un crescendo inimmaginabile. Poi
arrivava finalmente la sera, tornavano il padre e Panetto. Apparentemente
tutto era calmo, ma la rabbia canina che covava dentro il corpo di
quellaltro era come un fuoco sotto la cenere. Panetto diffidava sempre di
queste calme. Per evitare di immischiarsi in cose che riteneva non lo
riguardassero, si abbandonava ai suoi giochi solitari o ai suoi pensieri,
nel suo angolino che era quasi sempre costretto a risistemarsi da solo e
capiva anche il perché. Finché non arrivava l'ora di mettere ancora sotto
i denti il boccone della sera. Il rito di tutte le famiglie voleva che
almeno in questo momento serale si stesse tutti insieme, per sentirsi più
vicini, per scambiarsi sguardi o guaiti che significassero per loro
l'essere una famiglia di mastini affiatati. In questo rito ognuno si
sforzava di fare la sua parte e quasi sempre si iniziava bene, anche dai
mastini neri. Ma qui, dopo il primo assaggio del cibo da parte di
quellaltro, cominciava a sfaldarsi il filo delle confidenze e delle buone
intenzioni. Tutti guaivano insieme e non si capiva niente, non si sapeva
se stessero lamentandosi del cibo scarso o cattivo, se ce l'avessero con
qualche conoscente o se fossero semplicemente stanchi o irritati. Panetto
osservava e taceva. In qualche modo s'impauriva, ma non osava fare nulla
che potesse infastidire. In realtà il suo silenzio infastidiva quellaltro
che, con una certa indolenza e affettazione, cominciava a stuzzicarlo,
finché apertamente lo provocava. Panetto il più delle volte si ritirava in
se stesso e lasciava che il padre lo difendesse dagli attacchi irosi del
piccolo o semplicemente che lo proteggesse iniziando un discorsetto a due
che escludeva inesorabilmente il piccolo e la madre. A volte, invece,
senza che nemmeno se ne accorgesse, dava seguito alle insensatezze del
piccolo finché si trovava invischiato in situazioni da cui non sapeva più
come uscire. Per sua fortuna, interveniva sempre il padre che per lui
aveva una certa predilezione, e la serata finiva a coppie: Panetto e il
padre, quellaltro e la madre. Questi ultimi però, non avevano mai
iniziative, si abbandonavano nei pressi del proprio giaciglio e stavano in
silenzio, guardando fuori, scrutando con attenzione l'esterno del loro
rifugio, finché s'addormentavano. Panetto, invece, ascoltava con
attenzione i racconti del padre, delle sue avventure quotidiane e
assimilava tutto. Nel suo cuore nutriva rispetto per questo padre che si
dava da fare per tutti e in cambio non trovava che angustie, al suo
rientro. Aveva un po' soggezione, ma stava pian piano maturando l'idea che
appena fosse stato in grado di seguirlo nei suoi spostamenti alla ricerca
del cibo, gli avrebbe chiesto di poterlo accompagnare. Sarebbe stato un
modo per capire meglio anche i suoi momenti di stizza, che quando erano
tutti insieme a volte era costretto a mostrare, con urli un po' fuori dal
comune che spaventavano tutti quanti, persino certi vicini guardinghi che
captavano anche a distanza l'umore che si respirava dai "mastini neri" e
di cui puntualmente raccontavano in giro il giorno seguente agli altri
loro conoscenti. Panetto però cercava di capire il motivo di quegli
occasionali scatti di nervi del padre e aveva modo di rendersi conto
chiaramente che la causa erano sempre le stranezze di quellaltro, che il
padre a volte non riusciva ad ignorare. Passato molto tempo, quando
Panetto si sentiva abbastanza grande da potersi rendere utile, una mattina
che il padre tardava ad uscire, svegliatosi a sua volta per tempo, si
mosse dal suo giaciglio cautamente come sempre e, senza farsi sentire né
vedere, s'incamminò sulle orme del padre. Questi s'accorse della sua
presenza soltanto dopo aver respirato a pieni polmoni e aver fatto le sue
quotidiane riflessioni che non lo portavano mai troppo lontano dai suoi,
soprattutto in considerazione di Panetto, a cui voleva molto bene. Perciò,
quando lo vide, fu quasi contento d'averlo con sé perché s'immaginava
finalmente una giornata diversa, più piena e anche più serena. E fu
infatti così. Panetto gli si affiancò subito stretto stretto, si capiva
che aveva bisogno di calore, ma che voleva anche darne. Subito si
accordarono su come muoversi e dove andare e andarono insieme. Spesso si
fermavano e si riposavano, anche se non erano affatto stanchi, solo per
dimostrarsi il reciproco attaccamento. Poi proseguivano. La caccia quel
giorno non fu favorevole e Panetto era un po' sconfortato; il padre lo
incoraggiava, ma sapeva bene che dipendeva tutto da lui che non voleva far
correre al figlio alcun pericolo e scartava ogni occasione propizia.
Finché intravide da lontano una cuccia abbandonata dove c'era un
recipiente pieno di piccoli ossi da spolpare: lì non si correva alcun
pericolo, così si fermarono, ma solo per prendere poco per volta il cibo e
portarlo a turno in un luogo tranquillo, dove poi con calma lo
assaporarono con un gusto tutto nuovo: non avevano fatto alcuno sforzo, il
cibo era abbondante e saporito. Per tutto il giorno, dopo il lauto pasto,
avrebbero potuto starsene tranquilli e fare quello che più piaceva ad
entrambi: giocare, oppure guardare cosa accadeva intorno, oppure anche
dormire per pochi minuti. E poi ricominciare daccapo finché non fosse
arrivata la sera e l'ora del rientro. Quel giorno fu anche più fortunato
del previsto. Passarono diversi altri mastini che li conoscevano e,
vedendoli insieme, li salutarono con una certa cordialità; entrambi
ricambiarono gentilmente il saluto e anzi, li invitarono a condividere una
parte del cibo che conservavano sotto alcune grandi foglie d'acacia
melanoxylon, lasciandone però due piccole porzioni da portare al loro
rifugio, a sera. I loro conoscenti furono molto lieti di questo incontro,
soprattutto perché riservava loro la sorpresa di scoprire che due
componenti dei mastini neri avevano un buon carattere. Anzi, osservandoli
da vicino, s'accorsero che non erano neppure neri, ma di un colore bruno
che in qualche modo li differenziava anche nell'aspetto dal resto della
loro famiglia. Di questa scoperta si fecero poi portavoce nei dintorni e
nei giorni seguenti non si guaiva d'altro tra i mastini del circondario,
tanto che quasi tutti, un po' per volta cominciarono a prendere confidenza
con Panetto e suo padre e spesso poi facevano insieme le uscite di caccia,
con maggiore sicurezza per tutti. Anche perché i grandi di ogni famiglia
facevano di tutto per tenere al riparo da pericoli i rispettivi cuccioli;
questi spesso si facevano compagnia tra loro e giocavano a fare la caccia,
tra di loro, così che il gioco serviva ad ognuno come esercitazione e
intanto imparavano divertendosi il lavoro dei rispettivi genitori. Panetto
era molto contento, finché cresciuto abbastanza, dichiarò al padre che si
sentiva pronto per affrontare da solo la vita, seguendo tutti i suoi
insegnamenti ed escogitando anche alcune strategie vincenti che aveva
appreso osservando altri mastini più esperti e meno indulgenti del suo
stesso babbo. Questi acconsentì a lasciarlo provare e, nello stesso tempo,
volle provare a sua volta ad essere un po' più burbero nel suo lavoro di
caccia, pensando di apparire anche più forte agli occhi di Panetto. Ma fu
subito sfortunato: mentre attraversava un sentiero per la prima volta, non
s'accorse di un laccio che era stato sistemato là da un cacciatore di
conigli e vi rimase strangolato. Quando a sera Panetto tornò a casa dalla
sua prima uscita da grande, non trovò il padre e cominciò ad
impensierirsi, voleva tornare indietro a cercarlo, ma quellaltro che si
sentiva già più libero di fare quello che voleva glielo impedì
inventandogli una storia. Disse che Panetto si stava preoccupando per
nulla, che lui aveva visto il padre in compagnia di un altro vecchio
mastino zoppo e forse per aspettare il compagno che si muoveva con
difficoltà, stava ritardando. La madre si sentì rassicurata e continuò a
preparare in ordine i bocconi per tutti, ognuno al proprio posto.
Nell'attesa, quellaltro cominciò a mettere a soqquadro il proprio
giaciglio, come per gioco, questa volta. Ma mentre cercava di divertirsi
così alla rinfusa, sentì guaire cinque mastini che si avvicinavano. Tese
l'orecchio e si fermò. Panetto corse incontro a quei mastini che si
avvicinavano, ne conosceva tre. Subito capì che doveva seguirli. Lo
portarono dove giaceva il corpo del padre strangolato dalla trappola per
conigli. Non sapendo cosa fare, corse dalla madre e l'avvisò. Ma anche lei
non aveva altro da fare che capire che non doveva più aspettarlo, né
aspettare il cibo cacciato da lui. L'indomani mattina, il corpo del padre
non si trovò più da nessuna parte, qualche cacciatore doveva averlo
buttato via, non essendo il coniglio che s'aspettava.
Quel giorno funesto diede inizio ad una sequela di altri giorni sempre più
bui. La madre dovette imparare ad uscire di buon mattino per procurarsi il
cibo per lei e per quellaltro. Panetto era già capace da solo. Poco per
volta istruì anche quellaltro che divenne abbastanza autonomo, ma sempre
cercava di stare insieme ai suoi vecchi amici lupi, così che spesso gli
capitava di mangiare approfittando dell'abbondante caccia dei lupi. Lui
cercava solo di mostrarsi riconoscente con qualche servizio che i lupi
trovavano utile fargli svolgere perché lo ritenevano incapace d'altro: lo
lasciavano a volte a far la guardia ai loro cuccioli, anche se questi
erano abilissimi a scansare da soli tutte le situazioni di eventuale
pericolo. I giorni passavano tutti uguali. Quellaltro cresceva in
stupidità, indolenza, arroganza. Panetto, invece, sfruttava a suo
vantaggio tutte le occasioni propizie che gli permettessero di fare buona
caccia. Ma ora pensava non solo a trovare il cibo, bensì anche una buona
compagna con cui condividere il resto della sua vita e con cui pensare a
formarsi una sua famiglia e ad avere la sua prole. Non gli era facile
quest'altro tipo di caccia, perché era un po' chiuso di carattere, per
tutte le volte che s'era ritrovato solo con se stesso da piccolo,
specialmente la sera. Aveva confidenze soprattutto con i suoi due amici
mastini Tono e Tona, ma con loro si guaiva d'altro. Anzi, negli ultimi
tempi, si erano anche un po' allontanati, volendosi rendere tutti
indipendenti dai loro genitori e non restava molto tempo per stare insieme
come prima. Ma Panetto ci pensava spesso a farsi una sua famiglia, come
aveva visto fare ad altri suoi conoscenti. Così decise un giorno di
parlarne con Tono. E fu un bene per lui, perché Tono, che era un po' più
intraprendente, aveva già fatto amicizia, fuori dal suo territorio con
delle belle cagnoline di famiglie rispettabili. Il consiglio che gli diede
fu di girovagare insieme a lui, lontano dal proprio territorio, così tutto
sarebbe diventato più semplice per entrambi. Dedicavano insieme una parte
delle giornate alla caccia di cibo, un'altra parte a mangiare ciò che
avevano cacciato, un'altra parte ad andare a caccia di cagnoline. A volte
stavano insieme anche parte della notte. Ma Panetto non trovava mai il
modo di avvicinare con giochi particolari alcuna cagnetta. Finché un
giorno si trovò a passare davanti a un cascinale ben ordinato e vide una
piccola mastina di pelo chiaro, tutta pensierosa, come se stesse
aspettando qualcuno o qualcosa. Panetto si avvicinò senza spaventarla e la
osservava in silenzio. Talibè, così si chiamava la cagnetta, non se n'era
neppure accorta. Allora Panetto aspettò che si "disincantasse" e quando
s'accorse che lo guardava quasi con timore, le si rivolse con un guaito
gentile. Lei capì che non le avrebbe fatto paura, e cominciarono a giocare
insieme. Il suo nome era una contrazione di natalibera, tolte le due
sillabe iniziale e finale. E questa era la sua caratteristica più vistosa
che le fu utile più avanti, nella sua vita.
Nello stesso tempo quellaltro continuava la sua vita inutile di sempre.
Ogni giorno di più si inacidiva, diventava sempre più irrequieto. La madre
non gli badava quasi più. Si ritrovavano solo a sera, lui con le scenate
sguaiate di sempre, la madre insofferente al solo vederlo, Panetto
rassegnato e silenzioso, ma in cuor suo contento d'essersi finalmente
trovato una mastina buona e con lei una scappatoia alle cattive relazioni
familiari. A dire il vero, con la madre Panetto si trovava abbastanza a
suo agio, anche se non avevano alcun interesse in comune e non sapevano
mai su cosa comunicare. Il più delle volte la madre balbettava qualcosa di
certe sue nuove conoscenze, che però erano sempre superficiali e sempre
mutevoli, perché non riusciva a legare con nessuno in particolare. Di lei
le altre mastine del vicinato non si fidavano. Tra loro avevano un segreto
che si tramandavano di madre in figlia: la consideravano la madre sbandata
dei mastini neri. E poiché erano venuti a conoscenza di certe sue passate
ricerche segrete, in certi giorni in cui non aveva nessuna voglia di
curarsi di Panetto (quando questi era piccolo), dicevano che era quella
che "cerchia cerchia finché trovja" , intendendo così che cercava
distrazioni familiari perché il suo compagno stava fuori giornate intere.
Da questa dicerìa, al dire che quellaltro era nato male, ma non dal
compagno che viveva con lei, il passo era breve. E così la chiamavano la
trovja.., con un significato che era in assonanza con quanto una mastina
giovane e intelligente, Cania, aveva sentito dire in casa di una coppia di
persone con cui aveva abitato pochi mesi. Era stata lei ad attribuirle
quel nome in ricordo dei suoi padroni, che l'avevano scelta per il suo bel
pelo morbido e che la trattavano bene all'inizio, ma che se ne erano
sbarazzati in una giornata molto calda, lasciandola ai bordi di una
strada, mentre loro proseguivano sopra una scatola nera che andava molto
forte. Si trattava certo di un abbandono estivo e di un proseguimento in
auto di quella coppia. Ma Cania non sapeva evocare altro che le sue
sensazioni. Le mastine del vicinato di trovja avevano trovato molto adatto
questo nome e gliel'avevano attribuito senza ripensamenti. E quando
parlavano tra loro della madre dei mastini neri la chiamavano così: la
trovja. E tutti sapevano il perché.
Col tempo, avevano avuto nuove informazioni delle nuove galanterie di
Panetto per Talibè e per rispetto a lui, quando parlavano della trovja,
dicevano soltanto la madre di Panetto.
Sono ben intelligenti i mastini, in generale. Nessuno tra quelli del
vicinato di Panetto riusciva a farsi una ragione dell'origine di
quellaltro. Infine, stando a quanto sapevano della vita sbandata della
madre, avevano decretato che il padre di quellaltro fosse un vecchio
mastino, a sua volta "senza pensiero", che viveva isolato da tutti, nei
pressi di un cimitero. Lì, nel suo nascondiglio l'aveva trovato un giorno
la trovja, vi si era fermata e ci tornava spesso, finché non fu nato male
il suo quellaltro. Poi le cose erano proseguite come si è già narrato,
fino al tempo della conoscenza di Talibè e di Panetto.
A questo punto della storia si sa soltanto che Panetto col tempo si formò
una sua nuova famiglia, la madre ha continuato a curarsi di quellaltro che
a sua volta ha sempre continuato a farla disperare, ma lei col tempo ha
imparato a tacere e soprattutto ad ignorarlo. Quellaltro ha continuato a
persistere nelle sue malefatte giornaliere e la sua vita è sempre stata
inutile e disordinata. A volte ha tentato di riprendere un contatto con
Panetto, ma Talibè glielo ha impedito, lo ha sempre tenuto lontano
soltanto con lo sguardo, così rivelando sempre tutta la sua
disapprovazione e la sua forza e determinazione nel non volere intrusioni
indebite nella sua nuova famiglia.
Finché un giorno non è apparso chiaro anche a Panetto che in quellaltro si
nasconde da sempre il corpo di Mefistofele che "lo possiede". Da quel
giorno Panetto vive in una sorta di timore inesprimibile, mentre Talibè si
sforza di rassicurarlo che Mefistofele avrà a breve una fine malvagia,
così come il suo essere maledetto merita: tornerà dritto all'inferno, da
dove è venuto.
E così, entrambi continuano la loro vita prendendosi amorosa cura delle
loro allegre cucciolate e dimenticandosi quasi dell'esistenza di
quellaltro, che considerano solo come un brutto accidente di percorso
destinato a sfumare inesorabilmente col tempo sia dalla loro memoria, sia
anche in senso concreto. Perché il destino di Mefistofele è di venire
sconfitto, irrimediabilmente e presto, dalla morte mefistofelica, sua
grande nemica, che a niente e a nessuno lascia scampo, tanto più quando si
tratta di mastini ribelli, senza pensiero e nati male. E grazie
all'indifferenza totale di tutti i mastini dell'altipiano Than Miniato, si
può già affermare senza timore di essere smentiti, che quellaltro è oramai
diventato davvero inesistente. |