Il vento
Notte d’inverno, notte fonda: il silenzio era assoluto, intenso,
denso…Poteva rassomigliarlo al latte condensato che da bimba prendeva a
cucchiaiate di soppiatto dalla lattina posta nella credenza, oppure alla
colla densa che di solito versava su grossi fogli preparati per un collage,
nella quale quella notte si stavano invischiando tutti i pensieri per
lasciar posto a qualche fuggevole sensazione… Si rigirò nel letto, tiepido
e morbido come un nido foderato di bambagia e di piume, cercando di prender
sonno, ma l’inquietudine ed il disagio che le stava procurando l’assenza di
rumori, stava aumentando irrazionalmente.
Ad un tratto, al di là della lunga vetrata di una delle due finestre della
stanza, un sospiro, un respiro, uno sbuffo… Finalmente una voce! La voce
del vento… All’inizio, qual dolce zeffiro, accarezzò con le sue invisibili
dita le corde di metallo di un piccolo stendibiancheria traendone suoni
simili a quelli dell’arpa; fece tintinnare come campanelle d’argento alcune
mollette di metallo appese ad una corda. Poi prese forza e ad ondate, a
folate urtò contro i vetri. Lei pensò che era il possente maestrale, visto
che quella finestra era esposta a nord-ovest, pensò che era rotolato dalle
caverne delle montagne che, di alcuni chilometri, sovrastavano l’abitato.
Ora scuoteva con veemenza la lunga vetrata e fischiava, ringhiava, ululava…
A tratti si calmava per riprendere con più vigore. Ad un certo punto anche
l’altra finestra, posta sulla parete nord che faceva angolo con la prima,
cominciò a cigolare. –E’ la tramontana! Ha tardato alquanto
all’appuntamento!- pensò, con le orecchie tese che coglievano ogni
sfumatura di quel variare e di quel crescere di rumori. Si sentiva
sollevata perché non più sola, ma nello stesso tempo in preda ad una certa
eccitazione nell’ascoltare la forza degli elementi della natura che si
erano scatenati all’improvviso. Ora sembrava che i due venti si
accapigliassero, facendo mulinello intorno ai muri e cercando di
sovrastarsi nelle voci e nella forza. Quasi ebbe paura. Sentì cadere alcuni
oggetti posti sui balconi degli appartamenti di altri inquilini ed il
rumore del loro rotolio si mescolò con quello della tramontana e del
maestrale. S’infilò più sotto le coperte cercando di coprirsi con esse le
orecchie.
Così com’ erano venuti, i due venti quasi per un colpo di bacchetta magica,
stavano andando via. La veemenza si era affievolita, le folate erano
diventate più leggere e più rade… Ora si percepivano solamente sbuffi e
sospiri: al loro suono, che sapeva di antiche ninne-nanne, finalmente si
addormentò.
La passeggiata
In quella piovosa sera di fine novembre, era scesa dal suo appartamento da
“single” posto al quinto piano di un immobile dislocato in un’importante
strada di città, per respirare una boccata d’aria in solitudine Si era
diretta verso una strada solitaria, dove il traffico era scarso e dove i
negozi e le luci delle insegne si contavano sulle dita di poche mani. Lungo
il marciapiede delle insegne, erano collocati innumerevoli lampioni che
gettavano prepotentemente la loro cruda luce sull’asfalto bagnato. Si era
diretta sul lato opposto. Sull’ombrello aperto sentiva il tonfo sordo delle
gocce di pioggia che si stava producendo, a guisa di prima donna, in
diversi gradevoli suoni: era una sciacquante fontana nell’ impatto con la
strada, era allegramente argentina nel contatto con le strutture di metallo
della zona, mentre sembrava piangesse nella sua discesa dai tetti delle
costruzioni più basse. –Mi sembra di assistere alla danza della pioggia!-
Pensò la donna, notando anche come essa talvolta rimbalzasse e a volte si
frantumasse in tante minuscole goccioline a contatto delle varie superfici.
Percepiva il piacere fisico che le giungeva delle piante dei piedi nel loro
movimento sulla strada: tacco punta, tacco punta… Le sembrava che il sangue
le fluisse più rapidamente nelle vene, mentre le guance le si erano
piacevolmente imporporate. Stava benedicendo i mocassini che aveva calzato,
preferendoli alle eleganti scarpe con i tacchi che possedeva a iosa.
Indossava un largo, lungo e scuro impermeabile che la infagottava alquanto,
rendendola anonima tra la gente: era l’effetto che desiderava, per ottenere
un rilassamento totale. I rari passanti che percorrevano frettolosi la
strada neanche la notavano, egualmente avveniva per i guidatori delle
autovetture (molto poche) che attraversavano la via sollevando spruzzi di
acqua piovana. La mente le si era sgombrata da ogni pensiero da ogni
preoccupazione derivati dal quotidiano e dal lavoro. Ad un tratto le sembrò
di percepire un lamento, forse era il miagolio di un gattino e le suscitò
un senso di tenerezza… In quegli ultimi tempi stava seriamente pensando di
prenderne uno con sé. Sarebbe stato una compagnia ideale per lei, “single”
convinta. –I gatti- pensava - sono tranquilli, amano la casa e
l’abbandonano malvolentieri, non pretendono, come i cani, di essere portati
a spasso una volta o magari due volte al giorno; un gattino l’avrebbe
attesa al suo ritorno dal lavoro, accogliendola con festosi miagolii…- In
quel momento le vennero in mente dei versi letti chissà dove: -“Vieni, o
mio bel gatto sul mio cuore ed affonda nei miei i tuoi occhi screziati
d’oro e di agata…” - Quel “miagolio” si faceva sempre più vicino man mano
che avanzava, finché non fu più sicura che fosse il lamento di un gatto.
Proveniva da un piccolo spiazzale, coperto da una pensilina, sotto alla
quale si notava una piccola massa scura. Si avvicinò e si accorse che si
trattava di una cesta coperta da un impermeabile. I lamenti, o per dir
meglio, i vagiti, provenivano proprio di là. Già, vagiti, perché di essi si
trattava. Sollevò un lembo dell’impermeabile e ne fu sicura: in quel cesto
c’era un piccolo bimbo che urlava con quanto fiato aveva in gola. A parte
la bocca enormemente spalancata e poco estetica… era davvero un bel
bambino: occhi enormi, color nocciola, già i riccioloni sulla fronte, anche
se sembrava nato da poche ore. La passeggiata rilassante aveva preso tutt’altra
piega… Per fortuna aveva cessato di piovere, così poté chiudere l’ombrello
e prendere tra le braccia quel caldo batuffolo per tentare di
tranquillizzarlo. Poco più in là, sempre sotto la pensilina, c’era una
cabina telefonica. Telefonò alla stazione di polizia più vicina e qualche
minuto più tardi la raggiunsero le guardie che l’invitarono a seguirli per
le dichiarazioni d’obbligo. Ella pensò che a quel bimbo era andata bene due
volte: prima, i genitori (ma si possono chiamare tali?!) avevano deciso di
non ucciderlo (le cronache dei giornali erano pieni di notizie del genere)…
seconda, lo aveva trovato lei giusto in tempo per non fargli buscare una
fatale broncopolmonite…- Siamo tornati all’epoca degli orchi e delle
streghe? - Si chiese pensando alle favole che la maestra leggeva a scuola
quando era bambina…
Storie di altri tempi ed eroine di altri tempi
Presso telamone sulla linea tirrenica tra Orbetello e Grosseto, un’ antica
torre nella campagna deserta attira gli sguardi dei viaggiatori: è la torre
della vaga Marsilia rapita nella rocca nel 1520 dai corsari saraceni. Una
serie di favolose avventure rese popolare la bellissima toscana la quale
diventata favorita nell’harem del sultano dei turchi, rifiutò di tornare in
patria, divenne madre del sultano Dejazet e fu oggetto di una bellissima
ballata di felice Cavallotti. Ma se è vero che questa e qualche altra
rapina perpetrata dai corsari sortì a lieto fine, non è men vero che i
paesi lungo le nostre spiagge vissero fin verso il 1830, sotto l’incubo di
queste scorribande che riempivano di sgomento intere contrade. Sulle
spiagge del Gargano, su quelle di Sicilia e di Sardegna nei punti più
indifesi sorgono ancora avanzi di torri e di rocche erette in difesa delle
incursioni dei mori più furiose e terribili man mano che , risalendo nel
tempo, ci si avvicinava all’età di mezzo. Talvolta le razzie spopolavano
interi paesi. Nel 1798 i corsari fecero un rapido sbarco all’isola di S.
Pietro, a sud-ovest della Sardegna e si impadronirono di circa novecento
persone. Dopo dieci giorni di viaggio pigiati nelle stive di una
flottiglia, la preda umano venne sbarcata a Tunisi, le giovinette finirono
negli harems, gli altri furono venduti schiavi. Il traffico delle schiave
bianche era attivissimo e il prezzo saliva a cifre esorbitanti, a norma
della bellezza e del capriccio. Parecchie di queste disgraziate vennero
riscattate, altre si adattarono alla nuova vita, molte vissero di dolore e
di vergogna. Non sempre la gente nostra rapita dai corsari e fatta schiava,
si adattò alla servitù e alla clausura degli harems, le ribellioni furono
qualche volta tremende. La veneziana Belisandra Maraviglia, mentre stava
per essere trasportata in schiavitù a Costantinopoli, diede fuoco alle
polveri della nave sulla quale si trovava. Un fatto identico è narrato
dall’Aleardi nel suo poemetto “Arnalda da Roca” e dal Cicogna nelle
“Iscrizioni veneziane”. “Arnalda de Roca –narra il Sagredo nei “Monarchi
ottomani”- libera di animo sebben schiava di corpo, vedendosi captiva con
altre, costretta a subire, dopo la crudeltà, anche la libidine ottomana,
accese la monitione che con ardore più vorace dei turchi, la nave con tutto
il bottino incendiò”.
(Bibliografia: Biagio Greco: “Storia di Mondragone” 1927)
Una tragica vicenda storica
Un gentiluomo milanese Giovanni Alberto Maraviglia, insieme ad altri suoi
compatrioti, si era stabilito in Francia sin dal regno di Luigi XII e vi si
era arricchito servendo quel monarca ed il suo successore Francesco I. Egli
era zio del Gran Cancelliere Taverna. Taverna andò per commissione in
Francia e trovandosi a Fontainebleu col re si concertò che questi mandasse
in missione a Milano presso il duca Francesco II Sforza, un suo ministro
(meglio milanese che francese per non insospettire l’imperatore Carlo V)
dotato di doppie lettere e che le credenziali le avrebbe conservate segrete
mostrabili all’occasione e che le lettere da palesarsi sarebbero state di
semplice raccomandazione al duca da parte del re. Fu scelto per tale
missione il Maraviglia, tipica figura di agente segreto. Lo scopo era
quello di proporre al duca Francesco di sposare Elisabetta d’Albret sorella
del re di Navarra Enrico II e cercare così di legarlo alla politica
francese. Giovanni Alberto Maraviglia venne così in Milano, ma qui si
produsse con inusitata pompa: vedevasi usare alla familiare col duca,
sempre alla sua corte, sempre in sua compagnia sia alle feste sacre che ai
pubblici divertimenti. Per questa ragione da una parte fece insospettire
l’imperatore che ne chiese conto al duca il quale dovette immediatamente
deporre l’idea di un suo matrimonio con Elisabetta d’Albret (a questo punto
già la missione era fallita ed il Maraviglia si preparava a tornarsene in
Francia), d’altra parte suscitò le invidie di alcuni suoi nemici. Un
gentiluomo di camera del duca della famiglia dei Castiglioni vedendo il
Maraviglia con sommo fasto e corredo passare in compagnia del duca, voltosi
ad un domestico del Maraviglia lo investì con isconce parole,
villaneggiando il suo padrone. Nacque perciò un alterco per modo che appena
passato il duca, stavasi per venire alle mani tra i domestici di entrambe
le famiglie. Interpostisi alcuni cavalieri ad accomodare il dissidio,
furono separati per allora. Castiglione negò di aver pronunciato alcuna
ingiuria e Maraviglia ne parve soddisfatto. Ma il Castiglione
niquitosamente affettò di passare più volte davanti al palazzo del rivale,
accompagnato da un branco dei suoi bravi, coll’opera dei quali attaccò una
sera e pose in fuga cinque domestici del Maraviglia. Questi fece ricorso al
giudice che gli promise di farne pronta giustizia. Ma non ne fece nulla.
Castiglioni cominciò allora daccapo ad ingiuriare i domestici del rivale i
quali prevenutisi ed armatisi, in una notturna mischia lo fecero cader
morto in sulla pubblica via. La mattina seguente, venerdì 4 luglio 1533, lo
stesso giudice che non aveva voluto prevenire il male, condusse in prigione
il Maraviglia con i suoi domestici che furono torturati non risparmiando
neanche un povero vecchio sordo di ottant’anni. La domenica notte va il
giudice dal Maraviglia e gli fa troncare la testa nel carcere. Con la sua
morte il Maraviglia rendeva il massimo servigio al suo padrone il re di
Francia Francesco I il quale protestò violentemente a Milano, presso tutte
le corti, a Roma come a Venezia e presso Carlo V contro quello che lui
affermava assassinio di un suo rappresentante diplomatico. Tale tragico
episodio fu la causa ed il pretesto per la terza guerra che il re di
Francia intraprese per conquistare la stato milanese a favore del suo
secondogenito Enrico d’Orleans. Tale guerra non fu dichiarata subito a
causa della morte del papa Clemente VII. Intanto a Cesare parve
opportunissimo il matrimonio del duca Francesco II con la nipote Cristina o
Cristierna figlia di Elisabetta sorella di Carlo V E DEL RE DI Danimarca
CristiernoII. E Milano iniziò a prepararsi per queste nozze, dimenticando
pian piano quel tragico episodio. Chi avrebbe poi detto che il duca sarebbe
perito nel novembre del 1535?
(bibliografia: Pietro Verri- Federico Chabod)
Senza titolo
Era immobilizzato, legato ad un albero da una fune che, comprimendogli
addome e torace, passava intorno ai polsi che percepiva dolenti e forse
sanguinanti. Si sentiva fuori luogo così com’era vestito, non certo
sportivamente ma elegantemente nel suo gessato grigio scuro nella sua
camicia di seta cruda stretta alla gola da uno sfarfallante papillon. I
capelli lavati di fresco erano ariosi e profumati ed il dopobarba gli aveva
dato fino allora un senso di frescura. Ora però il sole cominciava a farsi
sentire: dardeggiava con i suoi raggi che arrivavano cocenti nonostante
fossero filtrati dai rami dell’eucalipto al quale suo malgrado era
abbarbicato. Gocce di sudore stavano iniziando ad imperlargli la fronte e
sentiva che tra non molto avrebbero rigato tutto il suo corpo. Si guardò
intorno per l’ennesima volta, non c’erano dubbi: il paesaggio che lo
circondava era frutto di un tipo di clima oceanico sub-tropicale con
temperature abbastanza miti tutto l’anno e con precipitazioni concentrate
nel periodo invernale. Facevano bella mostra di sé svettanti palme da
dattero e palme da cocco i cui frutti erano riuniti in grappoli di dieci
venti noci, lussureggianti dracene e cactus enormi che raggiungevano per lo
meno un metro di altezza e che inalberavano fiori carnosi e variamente
colorati in giallo in verde in rosso in arancio. L’immane silenzio era di
tanto in tanto rotto da gorgheggi di uccelli, probabilmente fringuelli. E
dire che poche ore addietro si trovava a camminare per le strade di una
città, la “sua “ città. Stava attraversando diligentemente le strisce
pedonali che dovevano portarlo al suo posto di lavoro; nel farlo, stava
dando come al solito uno sguardo al traffico: ai due lati della strada
erano fermi gli ultimi modelli di autovetture con orgogliosi guidatori a
bordo, qualche moto, qualche autobus di linea, tutti aspettavano il via
libera dei semafori. Aveva dato un fugace sguardo alle vetrine dei negozi
ricolme di ogni ben di Dio dai capi di abbigliamento più attuali e costosi,
ai gioielli croce e delizia di ogni giovane coppia, agli invitanti
pasticcini, ai generi alimentari… Il suo posto di lavoro: lo soddisfaceva
in pieno. Operava nel campo della pubblicità che faceva capo ad una catena
di fast food. Lo aspettavano in ufficio vari cartelloni pubblicitari da
esaminare, approvare o bocciare o migliorare con i propri suggerimenti (poi
avrebbe avuto “un pranzo di lavoro”con i suoi collaboratori). Alla base
della pubblicità c’erano quei grossi ed alti panini ripieni di ogni ben di
Dio, chissà come glieli avrebbero presentati nei vari spot: si doveva
aggiungere quel giorno un nuovo elemento alimentare, una squisitezza… Ed
ecco che sul più bello, mentre stava per varcare la porta sul marciapiede…
alcuni bambini lo avevano… ritagliato! Eh sì, lui, il manager, era stampato
su una grossa pagina di libro, insieme ai negozi alla strada alle insegne,
ai semafori… E quelle birbe dove lo avevano trasportato? Proprio in quella
specie di paradiso terrestre, ambiente forse fascinoso ed invitante, ma che
a lui non diceva proprio nulla. A quel collage da presentare con orgoglio
alla maestra avevano apposto due titoli: “Il fantastico giardino” e
“Abbasso la civiltà”.
-Bambini, liberatemi!- Incominciò ad urlare. – Vi prometto che verificherò
ogni singolo alimento dei miei fast food, non vi farò comparire né
coloranti né conservanti né alcun “o g m”. Aiutooo…..
Nel giardino, il sole
-Chi è quella bella bimba dagli occhi blu?- Stava chiedendo la direttrice,
durante un’ispezione scolastica alle Scuole Elementari, al maestro della
classe seconda. –E’ mia figlia!- Rispose questi con legittimo orgoglio. Il
cuoricino della bimba si era gonfiato come un palloncino per la
contentezza. Andava a scuola con piacere: adorava scrivere sul quaderno. Le
piacevano i compiti assegnati dall’insegnante e soprattutto le piaceva
stendere sul diario tutti i suoi pensieri, le sue osservazioni, le sue
emozioni. Poi andava dal maestro per la correzione e alla fine di questa
chiedeva: perché non mi metti i segni con la matita rosso-blu? –Perché non
ci sono errori -. Rispondeva l’interpellato. Ma lei non si convinceva, le
piacevano tanto quei segni colorati, le sembrava che le abbellissero la
paginetta, la rallegravano: la linea rossa la faceva pensare al sole… Aveva
scritto nel diario: “La mia scuola è esposta a nord, ma davanti alla scuola
c’è il giardino e dentro al giardino c’è il sole e ci siamo noi bambini che
giochiamo felici… “
Mondo di bimba
- Fiorella vuol salire sul davanzale per affacciarsi alla finestra ! - Dice
la bimba rivolta ai genitori. Si riferisce alla bambola alla quale in un
processo di transfert ha attribuito volontà e desideri propri. Il
giocattolo è degli anni quaranta, fatto abbastanza bene. E’ alta circa
sessanta centimetri, ha il tronco imbottito di stoffa; mentre le gambe, le
braccia e la testa sono di cartapesta. I capelli sono talmente incollati al
capo che non è possibile pettinarla. La bimba se la tiene seduta in
braccia, la fa camminare o per lo meno pensa di farla camminare , le lava
le mani ed il viso al punto che le ha spugnato la fronte per eccessiva
pulizia… le avvicina alla bocca il pane ed i biscotti. Il suo più ardente
desiderio è quello di possedere una cucina di metallo, con i fornelli dove
potrebbe mettere un po’ di carbone acceso, poggiarvi la pentolina ricolma
di acqua e preparare magari della pastina. Espone questo suo desiderio in
una letterina che scrive alla Befana. La mattina del sei gennaio si alza
ben presto e con i genitori va davanti al camino. Vi trova un pacco
incartato, abbastanza grande: il cuore le batte forte. Scartoccia e… oh,
amara sorpresa: la cucina che le si presenta dinanzi agli occhi non è di
metallo, ma di legno. E’ incollata ad un pannello di compensato con il suo
bravo foro, pronta per essere appesa al muro… Si volge verso il babbo e la
mamma, legge sui loro volti la contentezza per la certezza di averla resa
felice. Non vuol deluderli, poiché ha da tempo intuito che sono loro “la
Befana”. Dissimula prontamente il disappunto e la delusione e simula
contentezza con esclamazioni gioiose.
La finestra. La bambina vi si affaccia spesso con Fiorella. Osserva in
particolare il sentiero che sta giusto di fronte, iniziando dalla strada
principale quasi a perpendicolo. Dopo una ripida iniziale discesa si snoda
dolcemente tra i campi coltivati a viti, olivi ed orti. Appare e scompare
nascosto a tratti da alberi fronzuti e si perde lontano. Nelle curve che
strappano terreno ai campi, forma degli angoli che per la bimba sono
magici. Tra erba, teneri arbusti e fiori campestri rossi bianchi e viola,
ella sa che si nascondono gnomi ed elfi. Ci sono, ne ha la certezza perché
ne sente la presenza ed è sicura che un giorno li vedrà con i loro vestiti
rossi, con le teste coperte da morbidi cappucci… Oh, ma sa che ci sono
anche le fate! Abitano negli abbaini che sormontano alcuni fabbricati. Sono
troppo indaffarate per uscire: devono rassettare la loro casina e forse,
chissà, preparano il brodino a qualche bimbo malato e solo, o cucinano per
chi non ha cibo a sufficienza…
Giunta la sera, la bambina mette a letto la bambola e a sua volta è messa a
letto dalla mamma che le fa recitare le preghiere e sprofonda
immediatamente in un sonno beato. Sogna campi verdeggianti, papaveri,
fiordalisi, primule, viole e gnomi sorridenti ed elfi guizzanti e le buone
fate che le accarezzano il viso…
Quando diventerà ragazzina, popolerà quel magico sentiero non più di
creature fiabesche, ma di coppie di innamorati che vi passeggiano
guardandosi negli occhi e tenendosi per mano.
La principessa Sissi
Eravamo come ogni pomeriggio a passeggiare per l’ampio viale della città
chiamata non a torto “la perla delle Dolomiti”. Pensavo d’essere fortunata
a trovarmi lì in quell’ora, in quel mese, in quell’anno. Il viale era
elegante, molto ampio e costeggiato da numerosi alberi fronzuti che
stormivano alla più lieve carezza del vento. Dall’altro lato numerose
aiuole attiravano lo sguardo: l’erba ed i fiori multicolori formavano
deliziosi disegni insieme a parole e frasi gentili. Ad osservare le coppie
un po’attempate che lo frequentavano, sembrava di fare un passo indietro di
almeno mezzo secolo. I cavalieri, con baffetti alla Radetzky o alla
Francesco Giuseppe conducevano al braccio con orgoglio le rispettive dame
che apparivano deliziose con i loro abiti ornati da pizzi e merletti, con
gli ondulati capelli argentei, con gli ombrellini di seta colorata che le
riparavano dal sole. Ormai ci si conosceva e, nell’incrociarci, ci
scambiavamo cenni di saluto con il capo e educati sorrisi. Io mi sentivo
parte integrante di questo quadro alla Renoir con il mio tailleur di seta
dai bottoni gioiello, con i miei vestiti ornati di pizzo, con la
pettinatura alta che lasciava cadere morbidi boccoli evidenziando il collo
lungo e sottile ( ma non della sottigliezza esasperata dei dipinti di
Modigliani). Mi sentivo dama tra le dame e, (perché no?) anche un po’
principessa. Quando poi si andava in carrozza per un giro panoramico, e,
giunti a destinazione, il cocchiere scendeva da cassetta e con un inchino
porgeva la mano per aiutarmi a scendere gli scalini, tale sensazione
aumentava. Respiravo la medesima atmosfera all’Hotel, dove i camerieri al
nostro passaggio si piegavano in due in deferenti inchini… Al mattino si
camminava lungo il fiume Passirio , proseguendo nella Passeggiata
d’Inverno, o si attraversava il sentiero della Passeggiata d’Estate
sull’altra riva del Passirio; molto piacevole era anche la Passeggiata
Tappeiner costeggiata da stupendi giardini e rigogliosi vigneti: era
lievemente in salita e portava verso il monte S. Benedetto. Le immaginavo
attraversate dall’imperatrice Elisabetta d’Austria, che amava passeggiare e
cavalcare solitaria immersa nei suoi pensieri: la sua memoria era più che
viva. Ogni sera si tenevano concerti all’aperto e si ascoltava la musica
sorseggiando qualche bibita al bar: mai una sera che mancassero i valzer,
le polke e le mazurche degli Strauss.
Poco prima della nostra partenza, ci fu la serata di gala al Kursaal.
Entrammo in un salone illuminato a giorno da innumerevoli lampadari di
cristallo. Ci attendevano tante poltroncine rivestite di velluto rosso ove
trovammo posto in tantissimi. L’orchestra per ottoni ed archi iniziò il suo
programma. Fummo tutti presi dalle note tratte dal pianoforte tanto
malinconiche di Chopin e di Listz, subimmo il fascino della maestosità dei
brani di Beethoven, i nostri cuori sanguinarono sotto gli archetti che
suonavano una struggente czarda ungherese, cavalcammo con le valchirie nel
pezzo musicale di Wagner. Alla fine ci fu lo scoppiettio gioioso della
musica degli Strauss: “Il bel Danubio blu”, “Vino, donne e canto”, “Vita
d’artista”, “Storielle del bosco viennese”, “Accelerazione”, “Là dove il
limon fiorisce”, “La marcia di Radetzky”… I brani erano finiti e ci alzammo
tutti in piedi ad applaudire, fu un vera ovazione. Attraversammo la sala
per il ritorno e mi parve in quel momento più che mai di incarnare la
mitica figura della principessa “Sissi” (non mi sentivo imperatrice… e né
allora sapevo che l’augusta sovrana fosse alta almeno dodici centimetri più
di me…). Mi sembrò che tutti guardassero me e che quegli applausi, quei
sorrisi, fossero per me…
Serenità
- Signorina, lei è bella ma il suo cappello è alquanto antiquato!- Chi mi
stava dicendo queste parole era un ragazzetto su per giù della mia età,
dodici tredici anni, o qualcuno in più. Rosso in volto, si dondolava
davanti a me seduta al sole su un telo da spiaggia, alzando con ritmicità i
piedi nudi a contatto della sabbia rovente. Ero rimasta interdetta e lui
con un rapido dietro-front era scappato raggiungendo un gruppo di ragazzi,
più o meno della stessa età, che lo attendeva ridendo all’ombra di una
pensilina. All’improvviso capii: aveva pagato un pegno con quelle parole…
Anche i miei genitori ridevano dall’ombrellone: -Perché non gli hai
risposto?- Tacqui, intenta com’ero a pensare al mio copricapo che era di
paglia bianca pregiatissima intrecciato finemente con fibre di una palma
dell’America centrale: era il classico cappello di Panama. Sì, era alquanto
datato, ma credevo che non si notasse… Mi era comodo soprattutto quando il
sole dardeggiava di più. Invece, quando si andava in spiaggia, di mattina
presto, non ne sentivo la necessità: aleggiava una fresca brezza che
accarezzava la pelle e che portava alle nari l’inconfondibile profumo del
mare. La spiaggia era deserta e la sabbia ancora un poco umida, per cui ci
si sedeva sulla sdraio o su qualche barca lasciata al sicuro a riva. Con le
palpebre abbassate, filtravo i raggi solari attraverso le ciglia e guardavo
il mare calmo e lucente, mentre il suono ritmico della risacca mi cullava
rendendomi immemore di tutto. A mattinata inoltrata la scena si animava. Si
aprivano gli ombrelloni a spicchi multicolori, i papà si sedevano alla loro
ombra spiegavano il giornale e s’immergevano nella lettura. Le mamme
tenendo per mano bimbi un po’ recalcitranti, si dirigevano verso il mare
per il quotidiano bagno. Pensavo che l’anno precedente mi ero immersa nel
mare innumerevoli volte. Si era accompagnata a noi una cara amica di
famiglia che era solita dirmi: piccinina, qui bisogna divertirsi un po’!
Così andavamo ad affittare le ciambelle di gomma gonfiabili; con esse
potevamo inoltrarci, noi che non sapevamo nuotare, per un bel pezzo
muovendo le braccia: sentivo allora il mare come un mio elemento naturale e
via a fare delle piroette anche azzardate, tanto c’era il salvagente a
proteggermi… Uscite a riva, ci si stendeva al sole ci si asciugava ben bene
e poi via al chiosco a bere un bicchiere di orzata dissetante e
rinfrescante. Il vicino d’ombrellone era un panciuto dentista che aveva
lasciato la moglie presso la suocera ammalata e, si sa, delle ferie
bisognava far tesoro: perciò era venuto solo al mare. Corteggiava
discretamente la nostra amica che era vedova, snella ed ancora giovane. Lei
gli teneva il filo senza né promettere e né concedere: alla fine andò via
addolorato, ci mancò un amico. L’anno successivo all’episodio del cappello,
andando a bere la mia quotidiana orzata, mi imbattei in un ragazzetto,
forse della mia età, che mi si affiancò: ci sedemmo su di un muretto e
chiacchierammo, era pacato e mi ispirò simpatia. Mi chiese come mi
chiamassi ed anche lui mi disse il suo nome. Poi il papà lo chiamò. Quando
ci incontrammo la volta successiva volle sapere di dove io fossi. Non
ricordo se eravamo sull’Adriatico o sul Tirreno, ma di certo lui giudicò
che io abitavo troppo lontano dalla sua zona. Non lo incontrai più.
Gli Etruschi da noi?
-Signor maestro, la vostra signora zia non vi fa proprio un favore a
regalarvi una terra così sassosa e poco fertile qual è quella dei “Monticelli”!-
Così si esprimeva un contadino che conosceva la zona, negli anni cinquanta
del ventesimo secolo, apostrofando mio padre al quale la zia paterna,
padrona di quella terra, aveva espresso il desiderio di donarla.
Infatti, sulla montagna di cui la nostra collina è una propaggine, nella
zona Monticelli si evidenziavano, alti ed innumerevoli, cumuli di pietrisco
cosparsi da ciuffi di erba, che rendevano la zona non adatta alla
coltivazione. Per tale motivo gli appezzamenti di terreno che li
contenevano erano invendibili ed “indonabili” se così mi è permesso dire.
Di quella donazione, poi non se ne fece più niente (tanto per inciso).
Passarono gli anni finché…
…Negli anni Ottanta la zona incominciò ad essere battuta da numerosi
archeologi che fecero una sorprendente scoperta: quei monticelli di
pietrisco erano tombe etrusche! Infatti, alcune subito esplorate perché
danneggiate da mezzi pubblici, avevano rivelato agli sbigottiti presenti,
corredi tombali nell’inconfondibile stile e materiale etrusco: monili
lavorati in ambra, armi di bronzo smaltato, oggetti d’argento, specchi,
statuette… Era giunto sino a noi un popolo che aveva caratterizzato la
civiltà di regioni ben precise come la Toscana, il Lazio settentrionale ed
alcune zone del nord? Quella necropoli serviva una popolazione etrusca
insediata certo più a valle, nel VII o VI secolo a.C. poiché a tale epoca
era stata datata?
Furono continuati gli scavi in zone diverse del paese, anche se
saltuariamente ed in là nel tempo, per poi giungere ad una scoperta che ha
offerto di quella epoca un quadro esplicativo, anche se non del tutto
completo ed esauriente. Essenziale per tale comprensione è stato il
ritrovamento per escavazione di un Tempio italico (sannita), risalente
proprio al VII o VI secolo a.C. Non era ubicato nella necropoli che si
trova a 800 metri di altezza, ma a 200 metri più a valle, spostata dal
centro storico medioevale verso nord –ovest. La zona è conosciuta col nome
di “macchia Porcara” (ora di macchia non c’è neanche l’ombra), e si trova
nelle vicinanze della “Fontana dei casali”, così anticamente denominata (lo
si capì con questa scoperta) perché serviva più di un “casale”, ovvero più
di un agglomerato rurale, com’era in uso presso i Sanniti. Essi infatti nei
loro insediamenti sceglievano luoghi montuosi perché meglio difesi dai
nemici, abitavano in casali isolati sparsi tra i boschi presso pascoli o
lungo torrenti ed in luoghi ricchi di acqua. Erano dediti all’agricoltura
ed alla pastorizia e si nutrivano come gli etruschi di arrosto di carne, di
zuppe di cereali, di frutta fresca e secca, forse bevevano anche il vino.
Le tombe qualificate come etrusche erano quindi sannite, in stile etrusco.
E’ stato facile trovare la spiegazione una volta scoperto che a Capua e a
Paestum zone abbastanza vicine a noi, c’erano all’epoca colonie etrusche. I
“nostri” Sanniti ne vennero in continuo contatto per scopo commerciale e
così da loro avevano appreso l’arte della tumulazione dei morti e da loro
importavano oggetti funerari o materiale per lavorarli. Un’altra conquista
notevole è stata la scoperta del nome collettivo dei “nostri” agglomerati
sannitici: era Vescellum. I suoi abitanti, i vescellari, spostandosi verso
nord –nord –ovest, cioè salendo verso la necropoli avevano costruito delle
fornaci venute alla luce da poco, laddove attualmente si trova il Convento.
Vi lavoravano l’argilla (per poi cuocerla) dando ad essa forme di svariati
oggetti che servivano per la vita di tutti i giorni ed anche per ornamento:
certo ne facevano oggetto di scambio con gli Etruschi. Di argilla a forma
di fico, di melograno… sono gli ex –voto trovati nel Tempio italico,
propiziatori di fertilità dedicati alla dea Mefite. La si propiziava per
tutti i punti di interesse vitale delle singole famiglie e per l’intero
popolo, come la porta della casa, il focolare, la dispensa, i campi, i
boschi, le acque… Essa era la personificazione dell’ esalazione sulfurea
(da noi, come in altri luoghi della zona, esistono sorgenti sulfuree) che
esce dal ventre della terra. Il Mommsen riporta un’iscrizione che trovò ad
alcuni chilometri da Vescellum, in una zona che presenta tuttora il
fenomeno vulcanico del fango che bolle: - PACCIA QUINTILLA MEFITI VOTUM
SOLVIT- (Paccia Quintilla scioglie il voto a Mefite).
Vari segni di incendio trovati nel tempio italico ci dicono che Vescellum
fu distrutta dalle fiamme probabilmente durante le guerre annibaliche: si
azzarda l’anno 217 a.C.
Quante scoperte ci hanno fatto fare i “Monticelli”!
Il treno
Avevo saputo che la nonna già da giovinetta, in compagnia, aveva usufruito
del treno per recarsi a Napoli e che anche da sposata se n'era servita per
eseguirvi spese e piccole commissioni. Ero bambina quando nelle riunioni
tra parenti stretti, della generazione precedente alla mia, fra i tanti
episodi umoristici tratti dalla vita di tutti i giorni, se n'estrapolava
uno che le concerneva (così si divertivano i nostri nonni o i nostri
bisnonni, secondo l'età di chi legge: si pensi che quest'episodio risale
all'ultimo decennio del secolo XIX). Nel camminare per le strade di tale
città in cerca di un negozio che vendesse semi aromatici e piccanti con cui
impastare una specialità di taralli, assillata da una questuante, era
entrata difilato in un negozio senza badare all'insegna, chiedendo tutto
d'un fiato al divertito barbiere: -"Avete il finocchietto?"- Si era sentita
rispondere, chissà con quale rossore da parte sua: -"Signò, ccà se fanno'e
barbe ! "- (Signora, qui si fanno le barbe !).
Si mostrarono coraggiose le nostre antenate nel servirsi senza esitare di
un'invenzione tanto rivoluzionaria ed utile quale fu quella della macchina
a vapore.
I lavori per la ferrovia locale erano iniziati nel 1862, subito dopo
l'unità d'Italia, con i Savoia. Si era scavato giù, nella valle del Miscano,
parallelamente al letto del torrente omonimo che a quei tempi scorreva ora
limpido e quieto ristretto nel tortuoso cammino, ora torbido ed impetuoso
trascinante con sé alberi sradicati (e dire che ora al suo posto c'è solo
qualche pozzanghera, sorte comune a vari corsi d'acqua italiani a carattere
torrentizio e non: parecchi sono mal adoperati per le industrie). Tale
ferrovia, lo si legge in alcuni giornali dell'epoca, cominciò a portare un
po'di ben di Dio in quella valle che se molti secoli addietro era ricca di
"pampinosi" vigneti di verdeggianti olivi di querce secolari ed olmi e
pioppi e aceri e abeti, si era poi ridotta a "valle della noia", perché
diventata brulla e silenziosa. Ora il silenzio era rotto "dallo scroscio
delle ruote del vapore sui raggi di ferro", dal sibilo acuto di avviso e di
arrivo da parte delle guardie che stavano alla vedetta; ora facevano il
loro bell'effetto i casotti dei "guardiavie" e le due stazioni che
servivano tre paesi per una. Era un bel vedere quando passavano " i
carrozzoni dei vapori ove se ne stavano seduti in molti con le gambe a
cavaliere".
Il primo tronco ferroviario italiano ad essere inaugurato era stato proprio
nel Regno delle Due Sicilie, poco più di un ventennio addietro: la Napoli
-Portici (Km. 7,250).
Lo aveva collaudato nel 1839 Ferdinando II di Bordone. Dal libro di Mario
Francini si legge: -"L'emozione fu tanta, che nel vedere la straordinaria
macchina mossa dal vapore camminar sola e trarsi un seguito lungo di
carrozze e di carri, la figlia di un alto funzionario ministeriale fu colta
da prematuri dolori di parto durante il viaggio inaugurale e la dovettero
portare in fretta a mettere al mondo un marmocchio".- Nel ventennio
successivo, la rete ferroviaria nel Regno di Napoli raggiunse i 200 Km.
Ottocento
Stavo rientrando in casa, di ritorno da un breve viaggio. Nel salire le
scale ebbi un tuffo al cuore: avevo notato sottocchio in cima alla rampa,
sul pianerottolo, una figura femminile vestita di lungo con un cappello in
testa. In una frazione di secondo, la mia mente fu attraversata da due
pensieri egualmente emozionanti: -Chi e come si era permesso durante la mia
assenza, di introdursi nella mia dimora?- - Chi mi stava aspettando per
accogliermi affettuosamente, se da un pezzo la casa era malinconicamente
vuota?- Alzai lo sguardo e misi a fuoco la sagoma e… Mi diedi un colpo
sulla fronte con il palmo della mano. Avevo dimenticato di aver messo in
quel posto un manichino pochi giorni prima e di averlo vestito con l'abito
elegante della nonna. Ed ora quel manichino mi guardava, con uno sguardo
ammiccante ed un po' canzonatorio…
Il vestito dell'Ottocento. Per lunghi anni era rimasto custodito in
soffitta, chiuso nel baule, avvolto in un candido telo di lino. Da ragazza,
mi si dava il permesso di indossarlo in occasione del Carnevale. Lo tenevo
con sussiego per poche ore, perché quello era un vestito estivo, non adatto
al clima di febbraio; poi veniva riposto con cura. Beh, macchie di antico
ne aveva, presentava anche delle sgranature, era stato impoverito di varie
passamanerie e rifiniture nel corso dei decenni… ma era da me molto ambito,
mi faceva un "vitino" di vespa…Poi un bel giorno, anzi un brutto giorno non
potetti più indossarlo,le maniche ed il corpetto non lo permettevano più…
Lo aveva cucito una modista a Napoli nel 1890 per una giovane signorina di
paese, che viveva con la famiglia e la due zie nubili in un'ala dell'antico
castello normanno. Per misurarlo aveva dovuto raggiungere più volte la
città servendosi delle carrozze e del treno. L'avevano accompagnata le zie
che l'amavano come una figlia ( ah, le belle numerose famiglie di una
volta, formate da genitori, nonni, zii scapoli, zie nubili…con quanti
affetti crescevano le generazioni…). Quanta emozione nel viaggiare verso
una città importante com'era Napoli in quei tempi! Quanta emozione nel
misurare quel vestito di seta avorio e di broccato blu ! Era formato da un
corpino e da una gonna. Il corpino era internamente foderato e balenato e
si abbottonava sul lato sinistro con un "empiècement"in broccato. Adorava
il polsino alto ben dodici centimetri in seta avorio che si abbottonava
all'interno del braccio con sei minuscoli bottoni in metallo e madreperla:
nessuna sua parente lo aveva così. E quei meravigliosi sbuffi che partivano
dal polsino? Erano deliziosi, frenati da un cordoncino di seta bianca e "chou"
di broccato. La gonna ampia in seta avorio era piatta sul davanti e si
impreziosiva in tutta la sua ricchezza sul retro in un "godet" sostenuto da
"pouf". Una applicazione di broccato blu cobalto orlava il fondo della
gonna al di sopra della quale era montato un ricco volant anch'esso di
broccato: era un vestito fin troppo elegante per un paese. La modista
glielo aveva "pittato addosso" come si diceva a Napoli, tanto più che aveva
notato negli occhi della giovinetta uno sguardo particolarmente sognante.
Sì, aveva indovinato: quel vestito l'avrebbe indossato per la sua festa di
fidanzamento con un giovane del paese, anch'egli di buona famiglia. Aveva
avuto molti corteggiatori, ma il prescelto era stato lui. Chissà quante
volte le sue guance si erano imporporate per la gioia e la timidezza
quando, incontrandolo per via, le aveva rivolto uno sguardo che non era più
tanto formale. L'aveva cercata anche nelle feste casalinghe che si tenevano
presso i parenti, ed il sentimento che le era sbocciato dentro diveniva di
giorno in giorno più saldo e sicuro. Chissà quante palpitazioni fino a
quando il padre, viste le serie intenzioni del pretendente e vista anche la
sua posizione, non si decise a dare il suo consenso. Era contento per la
figlia, per la sua colombella che spiccava il volo per andare a vivere in
un palazzo anche più bello del castello in cui era nata e vissuta. Si
andava delineando il suo destino di seria signorina dell'epoca: il
matrimonio e tanti figli, quanti ne avrebbe mandati il Signore. Il giorno
agognato del fidanzamento era giunto: la sala più grande del castello era
stata preparata a puntino: il pavimento lustrato, i vetri gli specchi ed i
lampadari lucidati, il velluto delle poltrone spazzolato. Sulle tavole
coperte da fini tovagliati ricamati con i relativi tovaglioli, facevano
bella mostra di sé vassoi d'argento pieni di bicchierini di cristallo e di
bottiglie di liquore, piatti ovali di porcellana traboccanti di pasticcini
fatti in casa di varia foggia e sapore. Non sarebbe mancato alla fine una
tazza di buon caffè servito nelle larghe tazze ottocentesche. Gli sguardi
di parenti ed amici intimi avrebbero seguito benevolmente la coppia danzare
divertenti quadriglie al suono del grammofono a tromba. E lei, la
festeggiata, avrebbe roteato ridente nel suo meraviglioso abito. Lo avrebbe
poi gelosamente conservato per mostrarlo ai figli ed ai nipoti.
Ed era stato conservato per tanti decenni…per un secolo, chiuso nella
cassapanca. Poi fece di nuovo la sua comparsa in pubblico nella mostra
dell'abito antico nel Museo provinciale di Avellino dall'ottobre al
dicembre del 1987. Ed ora è di nuovo sul manichino a farmi pensare ad
un'epoca che non è più.
Una finestra lassù
L'aereo: una finestra lassù. Mi sembrava di esserne diventata una
"habitué", quando per tre anni consecutivi, alla fine del secolo, ne ero
salita a bordo diretta a Parigi, alle Baleari, alle Canarie. Sei decolli e
sei atterraggi, anzi otto decolli ed otto atterraggi se si tiene presente
che per Gran Canaria si faceva scalo all'isola di Lanzarote, sia
all'andata che al ritorno. Per me un gran traguardo, visto che ho sempre
temuto di salire su di un aereo. Mi ero lanciata!... Con il biglietto tra
le mani mi recavo all'imbarco, l'assistente di volo mi assegnava il posto
vicino al finestrino e a metà fusoliera. Io mi sedevo, allacciavo la
cintura ed osservavo l'abitacolo riempirsi di passeggeri. Quindi il pilota
raggiungeva la pista e la percorreva a velocità "pazzesca" per poi
librarsi in volo accompagnato dallo scroscio degli applausi dei più
giovani. "-Segnorita, prenda queste noccioline-" Mi stava apostrofando
gentilmente una hostess simile ad una gazzella al mio primo volo sull' "Iberia"
diretto a Palma de Majorca. Al suo sguardo da professionista attenta ad
ogni esigenza dei passeggeri, non era sfuggito che ero preda di una forte
emozione. Sì, stavo piangendo; ma non per paura. Era un sentimento che non
pensavo di possederlo così radicato: l'amor di patria. Piangevo per il
distacco dal suolo italico. Sentimento anacronistico finché si vuole,
visto che ora si spazia nell'amore per l' Europa e per tutto il mondo, ma
pur sempre un autentico sentimento. Mi venivano alla mente i versi di una
poesia imparata in terza elementare che iniziava con "O cari monti del mio
Paese, valli ridenti pianure estese..." e terminava con "Io vi saluto con
tutto il cuore e della Patria sento l'amore". "-Segnorita-" mi stava
sollecitando la gazzella "-mangi queste noccioline, la masticazione
libererà endorfine nel cervello e si sentirà più tranquilla e serena-" Ho
sempre avuto presente tale consiglio. E quando, di ritorno dalle Canarie,
in un formidabile Boeing 747 l'aereo "ballò" per una buona mezzora, con
una imperturbabilità degna delle lodi di Epicuro che faceva
dell'"atarassia" un elemento di felicità, io mi concentrai sul vassoio
carico di cibo. Consumai il tutto masticando lentamente, finii
contemporaneamente agli scossoni dell'aereo. "-Sono turbolenze causate
dagli aerei che non raggiungono la velocità del suono, ossia i 1224 km/h-"
Così mi spiegarono alcuni passeggeri. Ma ebbi modo di sperimentare anche i
vuoti d'aria: l'aereo perdeva quota di colpo e precipitava per qualche
secondo. "-I vuoti d'aria sono causati da variazioni di intensità e dalla
cessazione improvvisa delle correnti ascensionali-" Mi informò premuroso
uno stuart. E meno male che nella fascia atmosferica percorsa dagli aerei,
la stratosfera, non avvengono fenomeni atmosferici e neanche vi si formano
le nubi! Vi si scorreva lisci come l'olio e da lassù si godeva una veduta
straordinaria. Affacciata al finestrino mi sentivo a metà tra un uccello
che fa capolino tra i rami ed un angioletto che guarda dal cielo. Sotto di
me vedevo scorrere lentamente il blù cobalto del Mar Mediterraneo, la
penisola Iberica che si stagliava nitida, meglio di qualsiasi carta
geografica; interessanti mi apparvero le antiche Colonne d'Ercole e
l'Africa settentrionale. Emozionante fu per me scorgere il nastro argenteo
della Senna e la torre Eiffell e, man mano che si scendeva verso la pista
d'atterraggio, le luci calde dell'aeroporte Charles De Gaulle con le sue
innumerevoli aerostazioni satelliti che smaltiscono centinaia e centinaia
di arrivi e di partenze. Quando si decollava, spesso attraversavamo cumuli
di nuvole: quelle più basse erano di solito dense di color grigio scuro o
violacee. Man mano che si saliva, diventavano sempre più eteree e sottili:
erano i cirri. Sottili e trasparenti come veli biancastri, soffici come
piumini per cipria, a forma di piume, di merletti, di ventagli, argentei e
serici e talvolta lievemente rosati, rappresentarono per me l'incontro più
gradevole lassù. Ho sempre amato le nuvole: da bambina, da ragazza stavo
per ore a fissare con il naso all'insù la mutevolezza delle loro forme nel
loro andare nel cielo. Tanto che alla fine fissai sulla carta dei versi
(ma sono poi tali?) :
-Un roseo cirro sospinto dal vento/ corre nel cielo striato d'argento.
/Rallenta, si ferma, riprende veloca/ come un fiume va verso la foce./ Il
mio sguardo lo segue rapito/ ad ogni altra visione sopito./ S'allarga, si
stringe e si modella/ nell'ampio castello di Sirenella./ Adesso è una rosa
grande, stupenda/ con colori da leggenda./ Case, fiori principesse/
ghirigori e tante orchesse/ il bel cirro variopinto/ con poco tempo in
cielo ha pinto./ Ora stanco ed imbronciato/ non è più rosa si è oscurato./
Ha dato vita insoddisfatto/ a più di mille ed un ritratto./ Grosso, grave
e denso/ par che dica: adesso penso./ Lentamente, grevemente, ecco vedo
che si scioglie/ bagna terra, fiori e foglie./ Sprazzi di luce
iridescente/ il sole trae dall'acqua lucente./ Quella luce par che dica:/
grazie nuvoletta amica./ Ma quel cirro delicato/ non c'è più, dov'è
andato?/ Nè più vede, nù più sente/ si è sciolto completamente.-
Chi avrebbe mai potuto dirmi allora che un giorno sarei andata nel loro
regno, avendo con esse un (per così dire) dolce "rendez-vous"? E se, per
magia, il vetro del finestrino si fosse aperto? Avrei potuto toccarle,
accarezzarle... E, magia nella magia, sarei potuta diventare anch'io un
cirro rosato ed andare a spasso con esse nel firmamento...
Ricorderò sempre l'aereo come una meravigliosa finestra che si apre nel
cielo, lassù...
Il pane di Pasqua
Nella madia (“fazzatora” in dialetto locale) la domestica-tata sta
mescolando il lievito (pochissimo) con acqua bollente salata (anch’essa
pochissima ) ed alcuni chili di farina di grano tenero. –Perché questa
volta tanto poco lievito e tanta poca acqua?- Chiedo io bimbetta di dieci
o undici anni. – Perché per Pasqua così è usanza fare il pane nel nostro
paese.- Risponde lei laconica. Io, paga di tale risposta, guardo
affascinata le mani sapienti che lavorano i tre ingredienti. A poco a poco
si forma una pasta omogenea, liscia, levigata e dura. Su tale ammasso ora
opera con i pugni chiusi, affondandoveli con movimenti ritmici. Poi lo
rivolta dalla parte opposta e continua questo trattamento. Dopo circa
un’ora, dice: -La pasta è “arrivata”-. La copre con un candido canovaccio
e con una coperta di lana. Intanto prepara tre cestelli intrecciati di
giunco, li fodera con altrettanti canovacci cosparsi di farina e va via.
Ritorna dopo qualche ora, dà uno sguardo alla pasta e dice: -E’ pronta.-
La divide in tre parti uguali, dà ad esse una forma a ciambella e le
intacca all’esterno con il coltello a guisa di foglie. Le depone nei
cestelli e via all’unico forno ( a legna ) del paese.
Io mi sentivo piena di allegria: era la settimana Santa e si preparavano
taralli dolci, biscotti, torte con la ricotta e con il grano, per
festeggiare la resurrezione di Gesù. Ma poi mi chiedevo: -Che c’entra con
la Pasqua questo pane poco lievitato, che pur “faceva” tanto settimana
Santa?- Non era mica un pane dolce, mi dicevo con la logica che è proprio
dei bambini. Quando, poi, uscito dal forno, lo si tagliava, le fette
fragranti risultavano con la mollica compatta, non spugnosa come quella
delle pagnotte che eravamo abituati a consumare.
La spiegazione mi venne per “folgorazione”, quando, divenuta più grande,
la mia mente si era arricchita di varie conoscenze. Il pane non lievitato
era consuetudine ebraica. Quando nel XIII secolo a.C. Mosè condusse gli
ebrei fuori dall’Egitto, prima della partenza che era quasi una fuga, la
sua gente, cinti i fianchi, con i sandali ai piedi ed il bastone tra le
mani, consumò in fretta carne di agnello arrostito e profumato con erbe,
insieme a pane non lievitato. Col sangue dell’agnello tinse gli stipiti
delle proprie porte; così, quando di notte il Signore passò per portare la
morte ai primogeniti degli egiziani, “passò oltre “ le loro porte. “Il
Signore passò oltre” in ebraico si traduce “Pasqua”.
E non c’era nel paese una stradina disabitata, detta “Il vicolo degli
ebrei”?
Quindi, una colonia ebraica aveva dovuto abitarvi, tramandando alcuni dei
propri usi e costumi, almeno nel campo culinario, come era già avvenuto
per i saraceni con “La zuppa di baccalà”.
Ma perché abitavano solamente in quel vicolo specifico e non mescolati
agli altri abitanti del posto? Ed ecco la scoperta della bolla “Cum nimis
absurdum” del 1555 ad opera del papa Paolo IV. Fu lui ad istituire il
ghetto con il divieto della mescolanza tra gli ebrei ed i cristiani.
Dovevano abitare in vicoli chiusi da porte e non avere alcun contatto con
questi ultimi. Tale onta durò fino alla seconda metà del secolo XIX,
quando Pio IX abolì parecchie restrizioni. Molti ebrei si erano distinti
nelle lotte patriottiche del Risorgimento e tutti i patrioti erano dalla
loro parte: Gioberti, Mazzini… Gli ebrei del nostro paese, con la bolla di
Paolo IV dovettero abbandonare le case fino ad allora abitate per
rinchiudersi nel vicolo di cui è rimasto il toponimo. Erano venuti nel
villaggio da qualche secolo, nel periodo delle crociate, quindi, già alla
fine dell’anno mille. Seguivano il percorso Gerusalemme-Brindisi,
continuando poi per la Via Traiana che unisce Brindisi con Benevento. Il
villaggio di allora era attraversato in pieno dalla Via Traiana, così come
altri villaggi, per cui alcuni gruppi di ebrei incominciarono a
fermarvisi. A Benevento esiste ancora il “Rione Maccabei”.
Si pensa che subito dopo la “liberazione” ad opera di Poi IX, gli ebrei
del paese incominciarono ad essere assimilati agli abitanti del posto, che
impararono da loro la consuetudine del pane non lievitato in occasione
della Pasqua cristiana (che coincide come periodo con la Pasqua ebraica:
marzo-aprile). Insegnarono anche dei dolcetti non lievitati, da noi
chiamati “pagnottelle”. Accadde per gli ebrei ciò che a suo tempo era
accaduto per i saraceni; quando il Casale di monte Saraceno fu distrutto
nel 1268 dagli stessi saraceni, questi vennero ospitati prima ed
assimilati poi, dagli abitanti di Casalis Albulus.
Le nuove generazioni non conoscono più “i picciolatielli” (pane non
lievitato), e neanche più il toponimo ebraico, così come non conoscono più
“ La zuppa di baccalà” e tanto meno il toponimo (che ora è in lingua osca)
di Monte Saraceno Un vero peccato perché il passato ci arricchisce e nel
cuore e nell’intelletto.
Un viaggio movimentato
Il mare era forza nove. La nave, destreggiandosi tra i marosi, si
inclinava pericolosamente ora su un lato ora sull'altro. Stava solcando il
mare Ionio e si accingeva ad attraversare lo stretto di Messina. -Ahi !-
dissi tra di me -Stiamo proprio tra Scilla e Cariddi !- E pensavo a quei
perigliosi gorghi che terrorizzavano gli antichi i quali vedevano in essi
dei terribili mostri marini da cui molto raramente ci si salvava. Era una
nave da crociera di ritorno dalle isole greche. La traversata era stata
ottimale sia all'andata che al ritorno: avevamo solcato un mare liscio
come l'olio, sotto un cielo di giugno d'una limpidezza cristallina. Ci
eravamo intrufolati tra le numerosissime isolette, tutte montuose,
caratterizzate da strette stradine che si inerpicavano sulle alture
sassose, percorse a piedi o a dorso di mulo. Io non ne avevo voluto
visitare neanche una: avevo scelto per me una vacanza riposante e
rilassante, ovattata o, se così si può dire, vellutata... E a questi
requisiti, così com'era pianeggiante e con le strade asfaltate, rispondeva
l'isola di Rhodos (rosa), per cui era là che avevo deciso di fermarmi per
due settimane
Nel momento in cui era iniziata la tempesta, mi trovavo a cenare nella
sala "Sinfonia"; non volli neanche terminare il pasto. Barcollando e
cercando di non perdere l'equilibrio, avevo guadagnato lentamente
l'uscita, dirigendomi verso l'ascensore che mi portò sul ponte della mia
cabina. Vi giunsi con un sospiro di sollievo con lo stomaco in tumulto; mi
avvicinai all'oblò e, gettandovi uno sguardo fugace, lo vidi sfiorato da
spumeggianti onde ( e dire che ero all'ottavo ponte!). Ed in quella
atmosfera rarefatta ed un po' surreale, mi parve di scorgere i grandi
occhi tristi, la lunga chioma e la coda di Sirenetta alla continua ricerca
del suo "umano "principe. Finalmente sul letto riposata e rilassata, lo
stomaco si acquietò ed iniziai a pensare alla crociera che si stava
concludendo.
La nave, una Costa Victoria, mi aveva davvero coccolata... Era stato
stupendo andare su e giù con l'ampio ascensore cilindrico di cristallo che
permetteva di abbracciare con un solo sguardo i vari ponti, i croceristi
che li attraversavano, la distesa immensa del mare che si fondeva con il
celeste del cielo, ed i gabbiani. Mi sembrava di salire con l'ascensore
verso di esso e verso quegli stupendi uccelli marini... I vari ponti, con
i loro piano/bar erano deliziosi, pronti in qualsiasi momento ad offrire
musica e bibite. Da uno di questi di sera, provenivano le frasi
pronunciate con tono altisonante dal croupier: -Rien ne va plus!- Il
Casinò, pur non avendoci mai giocato, era per me un altro motivo di
allegria con la sua mouquette blu elettrico e le numerose luci al neon...
C'era, inoltre, il ponte dei negozi: sembrava di camminare nelle strada di
una città di tutto rispetto per la quantità, la varietà e la qualità di
ciò che vi era esposto: calzature, vestiti, pelletteria, gioielli e
soprattutto tante tante icone bizantine. Il ristorante "Sinfonia" aveva
ogni sera una sorpresa in serbo per noi: si vestiva a festa,
trasportandoci in luoghi e tempi sempre diversi. Ricordo una sera in cui
tutte le pareti opportunamente ricoperte, ci avevano fatto vivere in una
languida Venezia: persino i camerieri vi avevano contribuito vestendo il
costume dei gondolieri. Altro delizioso vivissimo ricordo, l'isola di Rodi
da poco lasciata. Serbava sorprese ad ogni angolo: questa fu la mia
elettrizzante scoperta nelle brevi passeggiate che intraprendevo dopo che
il taxi mi aveva portata verso il centro. E così, senza nessuna
indicazione e nè guida turistica, un giorno vidi materializzarsi
all'improvviso davanti ai miei occhi (girato un angolo) la fantastica
moschea di Solimano. Un altro giorno, ecco vedo di colpo dei ruderi: il
tempio di Afrodite; ne salii i gradini e così com'ero, con un lungo
vestito, mi feci fotografare in atteggiamento da antica sacerdotessa, con
le braccia alzate verso il cielo... Ed un giorno, che meravigliosa
sorpresa... Girando un angolo di strada, un meraviglioso palazzo dalle
mura turrite provvisto di torri cilindriche e a forma di parallelepipedo;
vi si intravedevano anche alcune guglie. Aveva l'aspetto di un castello,
ma era chiaro, non scuro o lugubre e per accedervi non si saliva, ma si
scendeva per una strada abbastanza ampia, dopo aver attraversato un
mastodontico portone gotico. Davvero una perla in quell'ostrica preziosa
che per me rappresentava Rodi. Era il Palazzo del Gran Maestro e
guardandolo, ci si sentiva trasportati nel tempo antico dei Cavalieri di
San Giovanni di Gerusalemme che lo avevano costruito all'inizio del XIV
secolo: Sembrava di vederli attraversare quella strada con le loro tuniche
rosse crociate di bianco. Ma sembrava di veder camminare anche i turchi di
Solimano con i loro grossi turbanti e con la scimitarra pendente dalla
vita: avevano strappato Rodi ai Cavalieri nel 1522.
Più che confortevole era anche l'albergo che mi ospitava in Rodi, un
cinque stelle: avevo così messo a frutto una parte della buonuscita che mi
era stata corrisposta un mesetto prima del viaggio. Al mattino mi
svegliavo già euforica, pensando alla colazione che mi attendeva. Il
salone era pieno di tavoli traboccanti di ogni ben di Dio, per gusti
multietnici. Io scendevo i gradini che mi separavano da tutto ciò e,
riempivo il mio piatto con la classica colazione a base di cappuccino e
cornetto; poi scendevo di nuovo per rifornirmi, questa volta con dolcetti
e frutta; e poi di nuovo con prosciutto, feta ed uova al tegamino... A chi
mi guardava stupefatto, dicevo: - Se così non facessi, un giorno il
Signore mi rimproverebbe per non aver goduto dei beni che mi erano stati
offerti sulla terra ed in questa specifica occasione...- E, così dicendo
ridevo alzando la testa verso il soffitto ricoperto di specchi, per cui mi
vedevo a rovescio ed anche i tavoli, le posate, le persone erano
capovolte... Che strana risibile sensazione! Un giorno, in comitiva,
eravamo usciti in Rodi per assistere all'esibizione di un gruppo
folkloristico locale che si era esibito, vestendo gli antichi costumi
locali, in coinvolgenti sirtaki. Usciti dal locale, percorrendo strette
viuzze antiche, via in un localino per una cenetta greca. C'era una siepe
di tavolinetti, tutti gremiti di gente allegra. Dopo un mezzoretta, fecero
la loro comparsa cinque camerieri che reggevano tra le mani enormi vassoi
di acciaio, traboccanti di pesce di ogni specie e di crostacei: vi
troneggiavano enormi, rosse aragoste. I pesci più grandi reggevano "le
stelline", ossia quelle asticine di metallo cosparse di una materia che
una volta accesa, sprigiona tante scintille. Contemporaneamente, i
camerieri accesero le "stelline" percuotendo con delicatezza tanti
campanellini che pendevano da un filo sotto al soffitto. E così tra suoni,
luci e colori consumammo la più bella cena della gita in Grecia.
E, così pensando, piano piano mi ero addormentata, nonostante
continuassero i rollii ed i beccheggi della nave. Quando mi svegliai al
mattino, sana e salva, con la nave ancora integra, eravamo già nei pressi
del porto di Genova. Stemmo fermi lì tutta la giornata, il giorno
successivo avremmo fatto ritorno al porto di Napoli dal quale eravamo
partiti tre settimane prima. E così, davanti ad un piatto di gnocchetti al
pesto, una delizia per il palato tutta genovese, mi sciolsi in lacrime. Il
viaggio era praticamente finito... Come tutto passa nella vita... E con
Eraclito, uno dei miei filosofi preferiti, dissi: "Panta rei", tutto
scorre...
Riflessioni
Perché io scrivo? Mi sento sola e non ho un interlocutore con il quale
discutere? Ho il desiderio di esprimermi in un linguaggio che non sia solo
quello domestico fatto di termini riguardanti la pulizia della casa, la
spesa o di qualche pettegolezzo? Mi frullano nuove idee nel cervello? O
nuovi sentimenti agitano il mio cuore? E' forse un po' di tutto questo
messo insieme. E penso che sia davvero bello potersi esprimere così in una
pagina affidata ad un sito, i cui componenti ti accettano senza neanche
sapere chi sei. E' un po' come il vecchio diario, quello che scrivevano le
adolescenti di un'epoca perduta. Ora, appunto, i diari li affidiamo al
vento... ossia ad internet che li accoglie chiamandoli "blog". Che poi i
nostri sentimenti così espressi abbiano qualche contenuto poetico o
filosofico e non annoino chi ha la pazienza di leggerli, ancora meglio. Si
inizia a scrivere e poi, come una ciliegia tira l'altra, così una
composizione tira l'altra... E magari ci cimentiamo con noi stessi
cercando di superarci e di scrivere qualcosa di maggiormente valido nelle
volte successive; che poi questo avvenga o no è tutto un altro discorso.
Mi viene in mente il filosofo Hegel con il suo Idealismo. Il mio spirito,
la mia mente, si pone come tesi, si crea un ostacolo ( l'antitesi) e lo
supera dando luogo alla sintesi che a sua volta si pone come tesi... e
così via. Non è proprio così, altrimenti diventeremmo tutti degli eccelsi
poeti o degli insuperabili scrittori, ma in fondo qualcosa di ciò che
affermò nel XIX secolo corrisponde a realtà. La sua teoria ebbe anche dei
proseliti nel XX secolo con Gentile che elaborò il neo idealismo
hegeliano, con la sua arte, religione, filosofia...
Una ricetta saracena
-Ehi, Coca, ti sei appartata e non hai partecipato al nostro gioco di
gruppo: ognuno di noi a turno ha scritto una ricetta caratteristica della
località da cui proviene; manca solamente la tua!- Così mi apostrofano
alcune compagne del corso di aggiornamento che si tiene già da quindici
giorni.
-Non ho alcun problema a scriverla ora!- Rispondo di rimando e mi accingo
a mia volta alla stesura di questa “goccia” di sapere culinario. –Sapete,
si tratta di una ricetta povera, ma gustosa; si cucinano insieme pezzi di
baccalà non moto dissalato, piuttosto grandi, con pezzi di mela, pinoli,
pezzetti di noci, di fichi secchi, di prugne secche. -E’ insomma, una
ricetta amaro/dolce- Osserva un’amica. –Da quale popolo ha origine?- Mi
chiede un’altra. –Si tramanda- rispondo io- che sia di origine saracena,
ma ha certamente subito delle variazioni nel corso dei secoli, secondo i
vari popoli che hanno dominato la mia zona.-
-I saraceni?- salta su a dire un convegnista –Ma sapete che sarebbe
interessante intesserci su una recita da rappresentare il giorno
antecedente alla nostra partenza?- La proposta è accettata all’unanimità e
ci si mette tutti all’opera per rappresentarla degnamente. Ci si documenta
sulle particolarità dell’epoca da sceneggiare, si prepara lo sfondo, si
comprano delle stoffe per improvvisare qualche costume, ci si procurano
delle parrucche un po’ particolari, si procede alla stesura di un semplice
copione… Il giorno antecedente alla partenza, siamo tutti pronti nella
sala delle rappresentazioni. Io indosso un abito lungo, pieghettato dalla
vita in giù, coperto da un mantello completo di cappuccio, fatto di lana
grezza, indispensabile per quella mattina di primavera del 1245, alquanto
fresca per un luogo che si trova a m. 491 s.l.m. Ed ha inizio la
fantastica avventura. Mi trovo su di una strada di campagna, la cui
ossatura è ricoperta da tanto pietrisco bianco: nel camminare, vi si
affonda leggermente. Stringo tra le mani un plico molto importante e lo
premo sul cuore che batte un po’ più del dovuto. Quella strada è in
salita, porta in cima alla collina che è chiamata Monte Saraceno. Un
villaggio si stende su di essa, fatto di tante casette e capanne: i muri
sono stati costruiti con pietre e fango o pietre e argilla. Vedo razzolare
vari animali da cortile, sento grugnire dei piccoli maiali e belare varie
pecorelle. Cammino e cammino ed ecco, finalmente, scorgo un castelletto,
dominato da una torre non molto alta: è la torre di Casal Saraceno,
annesso all’altro villaggio più importante della zona che è Casalis
Albulus. Due guardie mi si parano dinanzi: hanno una lancia in mano e la
testa rasata con un ciuffetto di capelli sulla sommità. -Dove vai?- Mi
chiedono in una lingua mista di arabo e latino. – Vengo a portare una
missiva molto importante al vostro signore- rispondo io. Il portone mi si
spalanca dinanzi ed entro in un ambiente alquanto disadorno, non molto
grande. Mentre mi guardo intorno, sento un tramestio di passi: è lui, il
signore di Casal Saraceno, lui stesso saraceno e dedito pertanto alle
razzie nelle località circostanti. Mi si avvicina, mi guarda e dice: -O
fanciulla dagli occhi blu, come mai sei venuta fin quassù?- Gli porgo il
rotolo, mentre lo osservo: ha un aspetto gentile, nonostante quella
caratteristica pettinatura, che è comune a tutti i suoi sudditi. –Ah- lui
dice –è del grande imperatore Federico II!- Mentre legge, commenta. –Dallo
scorso anno ha iniziato a trasportare la mia gente dalla Sicilia al
continente; moltissimi ne ha condotti a Lucera, dove ha fatto costruire
per noi un bellissimo castello. Ora mi scrive che altri ne vuol
trasportare qui a Casal Saraceno: io ne sono contento poiché questa zona
diventerà più importante, però ora dovrò far costruire altre case e per
farlo, dovrò far strappare altra terra al bosco che ci circonda, e farla
dissodare.-
Poi, rivolgendosi a me, dice: -Sei stata coraggiosa a venire sin quassù,
ma ora ti farò accompagnare da un’ancella affinché tu non faccia cattivi
incontri- Ed abbozza un inchino mentre i suoi occhi lampeggiano nel viso
scuro caratteristico della sua razza. Io vado via insieme all’ancella e…
mi trovo a scendere i gradini del palco ove è avvenuta la recita. Ho un
aspetto stranito… forse un po’ stravolto… Una compagna di corso mi fa:
-Non ti senti bene?- Io annuisco e vado nella mia stanza per meditare
ancora su Casal Saraceno… E’ stato sogno o realtà?
Le lucciole
-Dove sono finite le lucciole?- Mi chiedo in questa sera di prima estate
mentre a bordo della mia autovettura percorro un antico sentiero
campestre. Il suo mantello stradale è abbastanza liscio e scorrevole,
mentre fino ad alcuni decenni addietro, era ricoperto da sassi aguzzi e
pietrisco. E’ il tracciato del vecchio Tratturo dove avveniva la
transumanza due volte all’anno. Accarezzo con la mente il ricordo
dell’allegro passaggio nel paese delle greggi, scortate da cani e guidate
da pastori, in autunno ed in primavera. Vendevano a poco prezzo a chi ne
faceva richiesta, il latte munto in quel momento, la ricotta ed il
formaggio fresco. Quando poi ritornavano in aprile o maggio dopo che le
pecore avevano abbondantemente brucato l’erba nel regio Tratturo, avveniva
la tosatura. Parecchi dei soffici velli erano venduti seduta stante. Dopo
tale flash, mi riconcentro sulle lucciole.
Aguzzo lo sguardo cercando di intravederne i lumicini. Abbasso totalmente
i vetri dei finestrini e le mie nari sono colpite dalle zaffate dell’acuto
profumo delle ginestre che numerose, ai lati della strada, ornano le siepi
mescolate ai rovi delle more e a quelli di altre bacche selvatiche. Ma
delle lucciole nessuna traccia. Mi sorge un dubbio: non potrebbe essere
che il loro tenue chiarore sia vanificato dalla luce abbastanza forte dei
lampioni posti da poco ad illuminare il sentiero? Intanto proseguo
lentamente con spensieratezza vacanziera. Il sentiero ora presenta una
brusca salita e la percorro fino alla cima ove si biforca in due direzioni
opposte. E’ davvero spettacolare la visione di quel panorama: una stupenda
luna piena lo inargenta. Guardando verso la biforcazione di destra, scorgo
un monte che richiama alla mente tanti ricordi di storia. E’ il monte
Chiodo sulle cui pendici sorgeva l’antica città di Cluvia. A questo punto
mi pare di avere delle allucinazioni: in quella direzione vedo i bagliori
degli innumerevoli falò accesi, sento forti i fragori delle armi, vedo
baluginare le lame delle lance e delle spade, mentre spaventose urla
guerriere s’innalzano dalle bocche di inferociti guerrieri che lottano con
forza immane… Mi rendo conto di aver evocato con la mente una delle
battaglie avvenuta circa 2300 anni tra romani e sanniti…
Lottavano per il possesso di quella terra che avrebbe loro permesso lo
sbocco verso Lucera e verso il mare… Mi stropiccio gli occhi e quella
visione scompare. Però qualcosa continuo a vedere: sono i falò, diventati
molto più piccoli… Ma sono davvero dei falò ora, o piuttosto non sono le
lucciole alla cui ricerca mi sono dedicata durante tutta quella
passeggiata? Sono proprio loro: mi vengono incontro con volo danzante in
gruppi di due o di tre, mi si avvicinano e poi si allontanano e poi di
nuovo sono vicine a me che sono scesa dall’autovettura per andare, a mia
volta, loro incontro. Mi sovviene una strofa che si cantava da bimbe:
-“Lucciola, lucciola, vieni da me, chè ti dò il pan del re, il pan del re
e della regina, lucciola lucciola, vieni vicina…”- E mentre tendo le mani
per toccarle, si innalzano verso il cielo e si confondono con le stelle…
Considerazioni
Sì, io amo il pensiero filosofico. Mi piacciono le menti di quei pensatori
che , greci o italici o dell'Asia Minore, dal VI secolo a.C. cominciarono
a porsi la domanda su quale fosse l'essenza delle cose. Insegnavano le
verità scoperte senza compenso, poiché consideravano obbligo morale la
comunicazione del sapere. Ed i discepoli, i migliori, mettevano a punto
teorie sempre più complete partendo da ciò che avevano appreso dal
maestro. Finché Platone non elabora un grandioso sistema, nel quale mette
insieme l'essere ed il divenire, integra il problema umanistico con quello
naturalistico (fino ad allora tali temi avevano diviso le scuole). Con la
sua concezione delle Idee e del mondo iperuranio dà una spiegazione
unitaria a tutta la realtà; affronta, in tale prospettiva, anche il
problema educativo e la dottrina politica.
Ma, i pensatori greci che trovo maggiormente moderni ed attuali, sono i
Sofisti.
A pagamento, insegnavano l'arte del confutare gli altri e di primeggiare
su di essi, grazie alla retorica ed alla dialettica; potevano anche essere
dei falsi ragionamenti, così come essi erano chiamati falsi sapienti, ma
alla fine nulla importava se ciò permetteva di adire alle cariche
pubbliche: in Atene vigeva una moderna democrazia con una larga
partecipazione dei cittadini al governo. Inseriti nella nostra epoca, io
li vedrei intenti a creare "huppy" e "vip", ad addottrinare manager,
politici ed in genere tutti quelli che vogliono emergere senza nessuna
eccezione.
Moderna è anche la loro affermazione: -La verità varia da persona a
persona e varia nella stessa persona, secondo i momenti della vita-. Tanti
uomini politici negli ultimi decenni hanno cambiato orientamento, taluni
si sono collocati in schieramenti diametralmente opposti a quelli in cui
avevano militato fino ad allora.
Ed ancora: se ci sono tante verità, non esiste una verità assoluta, cioè
non può esistere una credenza religiosa, degna di tale nome. E così via…
Per non parlare dei tanti "tabù" che sono caduti e che forse non dovevano
essere considerati tutti tali…
Sono una "profonda scrittrice moderna"? Forse sì, ma forse lo siamo in
parecchi perché viviamo la nostra epoca con qualche lacerazione…
Divagazioni
Vivere una vita… Sognare un sogno…
-Accusativo dell'oggetto interno- Ci dicevano a scuola.
Miscelo, per gioco, questi due pensieri. Così ottengo: "Vivere un sogno" e
"Sognare una vita". Sognare una vita è lo stesso che dire "La vita è un
sogno".
"La vida es suegno" s'intitola l'opera migliore di Calderon de la Barca e
lì
ci parla di un fantomatico principe erede al trono di Polonia per il quale
i
pronostici degli àuguri alla sua nascita erano stati funesti. Ed allora il
provvido
padre lo aveva isolato in carcere e, quando divenuto adulto, lo aveva
reintegrato
nelle sue funzioni regali, aveva avuto modo di constatare che le
previsioni funeste
erano state veritiere. Ed allora… di nuovo in carcere… - Ma, come, io ieri
ero un
re!-. - E' stato un sogno!...- E così tra sogno e realtà e non discernendo
più tra l'uno
e l'altra, divenne un bravo re, perché non c'è niente di più bello che
svegliarsi con
un senso di leggera serenità per aver operato bene.
Per Platone, il sogno non è la vita, il sogno è stato in una vita pre
terrena:
il mondo iperuranio. Lì la nostra anima ha visto, o sognato, tutto ciò che
poi le si presenterà
sulla terra, per cui conoscere è riconoscere…
Ed ora fermo la mia attenzione su "Vivere un sogno". Ma il sogno lo si
recepisce, lo si
subisce, senza possibilità di potervi intervenire per cambiarne il corso…
Ed allora mi pare più appropriato dire: "Vivere un'avventura". Ossia, la
vita è un'avventura,
anzi, è un insieme di avventure, intendendo come avventura l'andare alla
scoperta del mondo
che ci circonda: terra, mare e cielo… E tutto ciò mi sembra di per sé
meraviglioso…
Solcare i mari, solcare il cielo, esplorare la terra…
E che dire poi di quell'altra esplorazione che riguarda l'animo dei nostri
simili?
E' una vera avventura volerci accingere alla loro conoscenza… Conoscerli
uno per uno,
scoprendone ricchezza umana, sfumature di sentimenti o anche la sola
cultura. E possiamo farlo senza neanche dover intraprendere lunghi e
stancanti viaggi…
La vita è davvero, in tutti i suoi aspetti, una lunga (si spera…)
meravigliosa avventura… |