Terrò con me... Terrò con me un sorriso d’un giorno appisolato all’orizzonte Terrò con me il canto dello stormir di fronde nell’Autunno Terrò con me la terra solcata da un vomere crudele Terrò con me il pallido raso sottratto con un bacio al freddo sonno. Terrò per me, solo per me tutto il dolore di quello che di me ancor non muore. Una petunia e un pane Deposi sulla soglia pane fresco e al davanzale della tua finestra una petunia. Poi m’avviai oltre il carminio, sottile nulla tra la pianura e il cielo. Fosti un punto d’istante in una vita, ora distante vita e nulla più. Che quel mio pane sia tuo nutrimento e la petunia tuo sottil tormento. E le parole diventano scaglie di pietra che raccolgo e conservo per leggere una follia. E le parole diventano orgasmi di pianto di rabbia e disprezzo per sanare ferite. E le parole diventano lame affilate con cui taglierò i legacci della tua camicia. E le parole, le mie, saranno alla fine olio santo per la tua unzione. E le parole son lì pronte a librarsi nei fiati estivi di un Agosto tedioso. L'ultimo pezzo Senza alcun peso fluttuò nel vuoto e cadde. All’improvviso cadde scotendo terra e cielo confondendo l’imprescindibile memoria e la caparbia speranza. L’ultimo pezzo cadde con assordante tuono pieno dei suoni di una vita già arrangiati nei crolli precedenti dell’intero. Solo il residuo era sospeso come scandaglio d’un fondale amato come flebile faro su uno scoglio incerto nel mare tempestoso. E quel residuo cadde anch’esso senza lasciare schegge senza lasciare luce. Ora non ci saranno colle o magie o caparbie parole o tristi speranze Ora Non resta Che Attendere. Il tuo viso Già sfuma il ricordo del tuo viso, già si confonde in trecce e meandri in vitrea geometria di tessere eloquenti di storia e di magia. S’incastona il tuo viso o almeno quel ricordo dell’istante colto nel buio della notte disegnato al chiarore dell’amico di sempre, il mio visore. In un istante breve vendemmiai i tuoi frutti e dunque colsi il sorriso, fatto d’avorio e carne porporina, l’ovale regolare da regina, l’arabescato crine che ornava le tua schiena come un trine. e….gli occhi. I tuoi occhi orlati di tua storia, i tuoi occhi nella mia memoria, ancora, anche adesso, il tuo sguardo spesso, profondo come viscere di terra da cui traesti quelle tue ametiste scintillanti di notti e di passato con faville splendenti di futuro. Frammentate tessere d’un volto di madonna che sprizza desiderio di viver come donna. Il borgo Magica sera di essenze e di colori, cantilene armoniose sui pianciti antichi, e gomene di barche coraggiose abbracciate agli arroganti ulivi. I ciottoli, che fan da eco al mare, soverchiano le voci delle donne intente a ricamar tovaglie e raccontar di amori e di nipoti. Tu, nel vestito chiaro come luna, scivoli tra le casette bianche, come fiocco di neve su manto già innevato, col profumo dei gelsi sulla pelle e il sussurro sereno dei tuoi passi. Non avemmo parole quella sera! Solo sguardi discreti per quel borgo, inebriati di un istante eterno, uguale a ieri, gemello del domani, quando le stesse donne e barche e ulivi e stesso mare, saranno sempre lì, per altri amanti, a perpetuar la pace di una vita in quel borgo trovato o inventato, per un semplice caso o pura distrazione. Strada Aveva studiato da medico chirurgo ma la vita lo ha reso un drammaturgo. Decise di partire, con la sua esperienza per ricucire, in tenda, lembi di sofferenza. "Un uomo con le idee non molto chiare" lo definì chi la vita scambiava per affare. Un Uomo, oppure, un Cristo del duemila, lo pensavano, invece, gli storpi della fila. Il suo nome indica la via, la Strada, della sua iniziativa, la sua vita brada, che combatte la guerra e il suo dolore al di la della razza e del colore. Per lui non c’è "Libertà Duratura", ma solo una ferita che suppura, sia essa d’una bomba o d’una mina nelle carni d’un vecchio o una bambina. Mentre altri parlano di pace e di giustizia contro chi scambia forza per nequizia ed altri scrivono parole di condanna, in silenzio e nel sangue, lui si affanna a ricucire le labbra delle piaghe, sotto bombe che cadon a zighezaghe. E il suo esempio ha luce d’acciarino in questo osceno mondo (che ha troppo pochi, Gino.) Litorale Sulla riva grigia del mattino, gabbiani a pascolar il nuovo giorno mentre altri, d’intorno, come dardi scoccati, dall’affamato cielo, forano quell’appannato velo, che confonde le trasparenti onde con gli sparuti scogli rosati dall’aurora. Altri volano quieti, quasi a sfiorare il mare e il loro andar contrasta con le orbite oblique dei compagni e il passeggiar curioso sulla sabbia. E mentre il sole s’affaccia al meridiano, ormai signore di quello più lontano, guardo in silente attesa i miei gabbiani pronti a volar per inseguire navi, lasciando a noi, umani, quella spiaggia dove disegneremo traiettorie pigre comprese dalle sdraie alla battigia, confuse in quei vocii tediosi della gente, per cui rimpiango lo strider dei gabbiani e l’aurora e la riva grigia e l’appannato velo, che confonde le onde e la mia attesa. Senza più piume Strappa le ali al vento, spiuma il suo manto l’uccello della vita che cade in un momento, senza lamento e canto, per l’aria ch’è sparita. S’ abbissa nell’ignoto, senza una sola stilla, ad inseguir quel vuoto mare della tua pupilla. Cielo, schiantato in terra con sudario lucente, steso, a pietosa serra d’un fiore già morente. Tu, senza tuono al lampo seguito a quello schianto, adorni, adesso, il campo come carezza, il pianto. E non ci son più anni a ricamar le rughe dei tuoi compleanni. Ora sei, quella che eri prima ch’io ti vedessi al tuo nascer, ieri! Riposa ora tra sassi di bianchissima graniglia amata mia. Unica figlia. Città Eccoli, fermi come girasoli, volti, allo sferragliar del tram. Alla fermata, uomini soli, in questo campo incolto di città. Fiumi d’asfalto, anonimi lastroni, con le orme confuse d’ egocentrici abbandoni di anime rinchiuse dentro la città. Incogniti saluti, inutili sorrisi liquefatti da un angolo di strada. E pensieri, calpestati e uccisi da quell’ingordo orco, col nome di città. Cieli, ormai spenti al sole da filtri tecnologici senz’anime e parole, filamenti illogici di tutta la città. Cattedrali di vita evanescente, con vapori d’incenso ostentati dall’immenso niente dei fiati, miseri al dissenso, al liturgico spettro di città. E poi, anime sante, noi, col sorriso sul viso, col pianto come vanto, della fede di chi crede, malgrado il suo degrado, alla beltà di questa nostra vita di città. Le bianche dita dell’angoscia Se solo tu... guardassi la tua Angoscia e, per mano, la conducessi in giro, dentro al tuo mondo, mostrandole le strade e tutte le persone, dialogando con essa , per distrarla dal suo, di mondo, opaco, quandoè sopita e tenebroso, quando divien bramosa d’averti per marito e lei , tiranna sposa… Allora sì, potresti, finalmente, vedere la tua angoscia che riposa. E se tu vegliassi questo suo riposo con parole suadenti, quelle stesse che da bimbo t’hanno taciuto tutti i tuoi parenti, e la baciassi, lievemente, sulla fronte o sul ventre, come amante bacia il suo amor dormiente, allora e solo allora, la tua angoscia stillerebbe amore con un silente pianto che renderebbe lei sensibile a quel canto di vita e di speranza. E forse muterebbe sua sembianza nelle fattezze di tua stessa vita, la stessa, per la quale nacque come tua nemica e che ora , solo ora t’allevierebbe dalla sua fatica. Se solo la prendessi per la mano, la tua Angoscia... forse... forse... però t’accorgeresti che non possiede gambe e, tanto meno, braccia, ma solo e solamente... ...la tua faccia. Origini Da dove vieni, figlio mio? Non solo dalla schiena mia, giacché ossa e linfa son troppo brevi come via. E poi… confinano col nulla presente oltre la pelle. Da dove viene il pianto del tuo primo respiro, quel misterioso canto, quel tuo primo zefiro? E dove hai preso quell’ atteggiarti, tuo, al sorriso o al broncio improvviso? Perché ti guardo e mi vedo, finalmente anch’io, come mistero? Dio? Il prestito Ti conosco soltanto per sentito dire, e aspetto di incontrarTi, al mio finire, senza dover fare, tante, troppe file, per vedere, infine, il risultato di quel sentito dire. A volte, disperato, ho trovato nascosta, forse, nella stessa mia, disperazione, un mucchietto di fede e dunque Ti ho parlato, con lembi del mio cuore sulle labbra serrate al mio dolore. Forse il mucchietto era troppo scarso o forse ero troppo disperato per cogliere il pur minimo sussulto che fosse stato un cenno di risposta a quel mio implorare interessato. Una volta ero in cerca di denaro e il banchiere mi chiese garanzie che non avevo, giacché le avessi avute nulla avrei chiesto a quel cassiere. E allora io mi chiedo, sempre più disperato, se Uno cheè salito sul Calvario, per poterti aiutare segua le stesse regole d’un banco finanziario. Intuizioni Ti ho intuito su una busta di pane, tra le righe minute, fragranti come il grano maturo, splendenti, come riflessi virenti di un’anima nuova o in attesa, paziente, di una piccola crepa o d’una ruga inattesa. Ti ho intuito nel tuo pianto silente stillato su quelle parole, briciole, appena, di mente e di cuore, avanzate alle ore sprecate nei troppi silenzi dei tuoi sentimenti ed a tutte le colpe delle mie assenze. Avrei potuto intuirti nel fiato del sonno, nel lamento del sogno, nel risveglio angosciato, nel sorriso forzato, nel dolore latente. Avrei potuto intuirti nel tuo fingere niente. Avrei potuto intuire questo abbandono, ben prima che il forno lievitasse quel pane. Gli orti... nella stanza Al tenue chiaror del mio visore ho scoperto degli orti e dei profumi. I muti altoparlanti irradiavano suoni come soavi versi di campagne e di fiumi nel loro andare quieto dei ricordi. Non solo sguardi alle rosse parole dello schermo nero, ma sensazioni di toni e di colori, e note tintinnanti discrete, eppur virenti, leggere come l’aria e come gli anni acerbi, troppo fulminei, per gustar sapori. Memorie d’altri mondi altre sere e tramonti afferrate per caso ed ora sospirate come cosa di ieri o d’oggi, come allora oppur domani, ancora. Non un poeta calpestò quegli orti, né artista di musica o pittura, anche se Sua lettura le tre Muse accomuna, ma Anima di Uomo a immagine divina, riuscito meglio d’altri a quel Fattor distratto che di tanto in tanto invia, come ritratto di una parte di Sé, a volte un Santo o come questa volta, una Persona colta nell’anima e nel cuore, dove amore e dolore hanno identico colore e stessa, identica, speranza. La stessa ch’ ha portato quegli orti profumati nel buio della stanza. Follia d’un’idea Sottilmente s’insinua, s’accovaccia s’istalla, silente, e sfilaccia il più debole angolo della residua mente. Muta, si muta in idea, quella piccola stilla sottile, come raggio di stella ormai spenta, eppur viva in sua luce tardiva, che inganna il pensiero, inerme al mistero di quell’apparenza di luminescenza. Sembianza leggiadra d’una stella sparita. Ecco, una goccia di idea, che diviene torrente, intermittente pensiero che pian piano s’affaccia, sorride, ti guarda, e ti prende, alla fine, sovente. E poi sempre e poi sempre, per sempre dentro di te, ...inesorabilmente. Fusa Vorrei drizzare la mia coda e strusciarmi intorno al tuo polpaccio così tu sfioreresti la mia testa ed io con un allegro miagolio mi lascerei prendere in braccio. Farei le fusa solo con la gola, sommessamente, racchiuso in quella stola del tuo morbido seno unica culla al mio dormir sereno. Poi me ne andrei saltando sul divano e se me lo impedissi graffierei, leggero, senza farti male, solo per affermare il mio volerti amare alle mie condizioni, che tu potresti, se solo lo volessi, anche rifiutare. Mi leccherei le zampe e con le zampe mi liscerei la testa facendoti pensare l’approssimarsi d’una pioggia oppure di tempesta. Poi guarderei nel nulla immobile come statua, inanimata e tu penseresti che nella stanza é presente un’anima passata, invisibile a te, che sei umana, ma non a me razza felina. Poi dormirei nel mio solito cantuccio, senza curarmi del tuo pesante cruccio o dell’ infinita pena d’ essere donna sola e nonè amata, se non da me, e solo a patto che mi faccia trovare la cena nel mio piatto. Magari, fossi davvero, un gatto! Io farò... Farò delle mie mani un’urna, per conservare il pianto, prezioso mare del dolore tuo. Farò degli occhi miei la rete, che filtrerà lucente, i raggi del tuo irto sentiero. Farò dei passi miei tamburo, per allertarti i sensi, offesi dagli oltraggi subiti. Farò le mie ferite candide, come mappe amiche, al salpar di tue lacere vele. Farò del mio sorriso suadente, sostegno a tua tristezza antica ad alleviar ricordi. Farò dei tuoi ricordi favole, di spaventosa trama, sciogliendo al fine la memoria. Farò di me e di te Favola, antica come vita, vissuta da sempre e mai finita. Una voce Se solo la tua voce fosse viva nell’aria circostante alla mia vita tale da udire il respiro d’essa, mentre bisbiglia "Amore", allor potrei donare, al suono, il mio respiro, corto d’emozione. Se solo la tua voce avesse labbra, dolci, come il ricordo di quel bacio, io bacerei, di nuovo, quella bocca e quella voce canterebbe amore, senza paura alcuna, senza timore di non poter amar, chi, invece, adora. Se solo la tua voce avesse fiato che accarezzasse il volto mio, come brezza di mare il marinaio, allora salperei per quel richiamo, spiegando le mie vele alla marea anche se figlia di marosi, più paurosi. Se solo la tua voce sussurrasse il nome mio, come preghiera, quella stessa che, ogni sera, il mio cuore bisbiglia in nome tuo, allora scenderebbe un angelo dal cielo per donarci, nel sonno, stesso sogno. E nel sogno saremmo più vicini di quanto già non siamo, Amore mio. Passeggeremo sulla ghiaia bianca con la tua mano fredda nella mia, con un lago lucente nella mente che rispecchia l’abbraccio di noi due. Se solo la tua voce non tacesse mai... Amore amato quanto e come, ancora... tu non sai. Solo notte Potessi solo avere delle stille che dagli occhi cantassero il dolore alla notte scintillante di faville sul manto nero dell’immane orrore. Potessi avere cento, mille braccia per raccoglier l’intera sofferenza di chi muore con la stessa faccia volta a scontare uguale penitenza per un boato o per baglior di lama con il sangue che colora il suo lamento, frutto d’altrui livore oppure brama, stranieri, entrambi, a umano pentimento. Cielo, spiegato in terra come sudario d’umana razza segnata da una sorte, che per storia ha le schegge d’un rosario composto da collane troppo corte per potere invocare un salvamento o la pietà divina d’una croce, la cui ombra s’intravede a stento, tra i fumi delle guerre senza foce. Cielo risorgi, infine, dalla terra illumina di nuovo il firmamento alterna ancora il giorno con la sera e fa che la notte sia un momento dove quiete ristori nella pace il disperato grido che non tace. Passo dopo passo Come un sacco di iuta sfilacciato compresso dal cocciame della vita si lacera nel passo dopo passo su una strada iniziata e mai finita, così il nostro amore sfilacciato ha sparso in tutti gli anni i filamenti di quella tela intessuta da noi amanti. E passo dopo passo e giorno dopo giorno ci gravava la schiena la sua falla per quel sentiero senza più ritorno percorso uniti spalla contro spalla. Cadde un sorriso e noi non ci accorgemmo, perdemmo una carezza in un cespuglio, una frase ondeggiò come una paglia nel vento vespertino dell’autunno, senza rumore, quasi senza suono. Un buongiorno si perse, senza buonanotte ci addormentammo sui lati del giaciglio. E passo dopo passo e giorno dopo giorno, con l’andare più mesto e distanziato non percepimmo più stessi profumi ne vedemmo mai più stessi colori. Stanchi, senza fatica di noi stessi e ciechi alla porta dell’inferno finimmo quel sentiero ormai sfiorito all’ impietoso gelo del tuo inverno, Senza riparo e senza più speranza varcammo quel confine disegnato dalla sorte d’un amore trascurato. E passo dopo passo e giorno dopo giorno le nostre vite non fecero ritorno avvolte dall’infamia dell’incuria di quell’amore dentro a quella iuta. Senza più occhi Mi son rimasti solo gli occhi tuoi nel cesto della mia malinconia, lo sguardo di quel tempo immaginato col rimpianto di chi non ha vissuto. Screziati cristallini di tramonto, faville calde d’isole deserte, grani di lapis ridondanti il cielo, ciotole di frescura per la sete. Sapessi cosa ho visto nei tuoi occhi. Sapessi quante linee d’orizzonti. Sapessi quante vele e quanti fiocchi. Sapessi quanti laghi e quante fonti. Quanti approdi insperati alla tempesta. Quanti fiori sbocciati su pietraie. Quante pagine lette in quel biancore. Quante gocce di pioggia dentro al mare. Il vigore accaldato dell’estate. Il turgido cristallo dell’inverno. La molle ala della Primavera. E poi …l’Autunno di quel nostro amore. Con lo sguardo buttato sui miei piedi, mi trascino il cesto di quegli anni e mi dispero nel mio andare in tondo rivedendo i tuoi occhi nelle fedi. Anelli d’oro a circondare il vuoto, promesse disattese d’una vita, Occhi fissati nello sguardo immoto di chi non sa accettare …ch’è finita. Anatomia Si vede che c’è fuori! Ma quello che sta dentro? Dunque... ho il cuore al centro (spostato un po’ a sinistra) che a tutto il corpo il sangue somministra. A destra c’è qualch’etto di fegato, sempre più costretto, a filtrare fiele, anche se ingurgito ettolitri di miele. A sinistra, certamente, alloggia la mia milza che come le tonsille (e a volte la mia mente) non serve poi a molto, anzi, non serve a niente. Ho due spugne ingabbiate Tra ossa un po’ arcuate (che spesso son crinate) che servono ad assorbire la poca aria che non mi fa morire. Dalla mia bocca al mio foro anale, corre tutto l’apparato gastrointestinale. Poi... organi aritmetici come la colecisti o come i reni, sempre pronti a far calcoli di cui, quando son pieni, ti strazian di dolori al punto... che tu svieni. E poi... c’è la capoccia, questa dura coccia del mistero mentale, confine che separa l’uomo dall’ animale. Ma infine… sarà vero quest’ultimo pensiero? Il mio gatto ci ha tutto di quello che ci ho io e dunque io mi chiedo perché il mio felino amore non ha trovato un Dio (magari un dio minore) che gli abbia dato mente in grado di pensare, insomma un intelletto come i tanti umani che in più del mio micetto vantano solamente... mani! Spiccioli d'amore Bianca, come schiuma d' onda, ti spargi nel letto, di questa mia voglia, che, umida, affonda, nel respiro affannoso del tuo soffice petto. Lieve carezza, bacio sfiorato, mi prendon la mano e la bocca, all'idea del tuo corpo stuprato, estraneo ad amor, che mai lo rintocca. La lama del sole, taglia i tuoi occhi, ormai ciechi, ai tuoi sordidi amanti e lasci la mente che fiocchi pensieri di bimba, troppo distanti. Col mio ventre ormai esangue, ti lascio in quel triste giaciglio il mio falso ritegno che langue, tra i petali vizzi d'un giglio. Poi, guardo il poco denaro pagato per quella illusione, e mi chiedo, se sia meno amaro il tuo corpo senza emozione o il mio desiderio, impotente, che questua un falso piacere, elargito, senza dar niente d'amore, ma solo mestiere. Come schiuma di onda adorni il tuo triste giaciglio e tutta la stanza ridonda della stilla appesa al tuo ciglio. Un lavoro come un altro Eh dai, spala il carbone, non fermarti mai, ché il fuoco aspetta un altro tocco di boccone da bruciare in fretta, alla prima o all'ultima occasione. Lo so, fa caldo di fronte alla caldaia, ma quando il cane ha caldo, non abbaia, respira con la lingua in fuori e tu, lo stesso, spala il carbone o muori. Che te ne frega cosa fa il motore, dove spinge le ruote il propulsore, devi spalare, tu, solo spalare, e non ti venisse in mente di parlare, diresti solo cose senza senso, a cui nessun darebbe, mai, l'assenso. Non girare la testa sul paesaggio, per te è Febbraio e non è certo Maggio, vedresti solo grigio e tutto uguale, come l'uccello al nido, senza l'ale. Invece guarda quanto è bello il fuoco, che non sta mai fermo, brilla e t'ipnotizza, in quella danza eterna senza stizza, sempre allegra, giocosa ed affamata di carbone o meglio di legna stagionata. Senti le voci e le parole della gente? Concentrati sul fuoco, non fa niente, intanto pure gli altri stan spalando, convinti come son di star cantando e invece spalano, solo, non lo sanno, e così è meglio, non posson far danno. Le ruote intanto vanno, sempre vanno, e stai certo che prima o poi arriveranno, dove, non ha importanza, per te almeno, che non sei pagato per manovrare il freno, e non sperare poi di far carriera, per spingere un pulsante o far girar una ghiera, tu vai bene così, e poi ti fa un gran bene, sudare tutto il giorno e senza pene, di tossine assai gravose pel cervello che invece tu non sai d'aver come fardello. Eh dai, spala, tu fortunato sei nel tuo lavoro, conquisti, lo stesso, ogni mese il tuo decoro, senza bisogno di rischiare bancarotta, hai cibo tutti i giorni, la tua mollica cotta. Poveraccio invece quello che ha pagato il treno, la notte non può starsene sereno, perché di treni non ha soltanto quello, che tu , invece, vedi come tuo flagello, di treni, lui, ne ha una carrettata e ogni mese le banche gli presentano la rata, e come, poi, se non bastasse, oltre ai salari deve pagar pure le tasse. Ma intanto tu devi spalar veloce se no quello può divenir feroce, e se non crede più a tua ubbidienza, prende un altro spalatore e ti licenzia. Questo è l'andar del mondo odierno tutto racchiuso nel tuo caldo inferno, il fuoco arde e non si spegne mai e per quanto tu spali mai saprai, dove arriverà il treno in questo mondo osceno. Coraggio andiamo avanti Coraggio andiamo avanti! corriamo in cerchio intorno a questo mondo. senza sapere chi è il primo della fila e chi il secondo. e in questo andar di corsa c’è un fatto positivo. che io per esempio ultimo non so quando sarà il mio arrivo. e dunque anche se arrivato vedendo gli altri correre. continuo inconsapevole ad andar sempre più celere. invano perché non avrò da quel percorso altro compenso. di quello che già ho avuto senza capirne il senso! Coraggio andiamo avanti corriamo ancora in cerchio verso la meta. in questa pista larga col nome di pianeta. siamo tante squadre bene organizzate. da chi invece passeggia con gambe atrofizzate. dal peso delle tasche piene d’oro. che fan ruotare la pista, questo pianeta loro. psichedeliche menti feconde nel delirio. nel partorir per noi un ultimo martirio. col nome di salario guadagnato. ce lo vendono come fosse il nostro fato. Coraggio andiamo avanti corriamo a soddisfar nuovi bisogni. in maniera che nessuno si vergogni. di non avere quello che altri hanno. e di non fare quello c’altri fanno. siamo in gara e dunque gareggiamo . e anche se a volte ci fermiamo. per dire “t’amo” o “mi dispiace amico”. non veniamo certo fuori dall’intrico. di questa corsa coatta che calpesta. tutto quel po' di buono che ci resta. in attesa di qualcosa che ci desti. dai nostri sogni umili e modesti. di uomini da niente. solo gente riempita con la gente! Coraggio andiamo avanti corriamo senza guardar la vera fame. quella che spezza tutte quelle trame. di vita partorite nella malattia. con la stessa sorte del premio d’una lotteria. eppure in TV ogni tanto li vediamo . e magari a volte ci piangiamo . e vorremo vegliar quel capezzale. e tristi poi cambiamo di canale. e se vediamo una merenda nuova. ci domandiam se è fatta con le uova. o con polvere di frutto di gallina. e pensiamo di comprar la merendina. con tutte quelle calorie infarcita. che potrebbero allungar d’un giorno una vita. a chi ha lo stomaco mezzo metro più vicino all’orizzonte. della sua testa ornata da quell’enorme fronte. ma intanto quello sta troppo lontano. e dunque come si fa a tendergli la mano? Coraggio andiamo avanti corriamo dappertutto addirittura in guerra. c’ogni tanto ci vuole in questa stanca terra. non guerricciole circoscritte a oriente. di quelle tanto non ci importa niente. né guerre striminzite o un po' straccione . a cui qualcuno ha dato potenza di cannone. contro l’oro che riempie gli spazi in cassaforte. ma non certo quelli lasciati dalla morte. quella signora unica padrona, della guerra giusta e buona, esaltata dallo sventolio d’una bandiera. e dagli eroi caduti e stesi a cremagliera. ma non siamo vigliacchi. rispondiamo agli attacchi. e nel pieno delirio della corsa. consumiamo la nostra ultima risorsa. che la pubblicità non mette in evidenza. perché nessuno ha tanto soldi da comprarsi l’ esistenza! Annunciazione Perdonami Bimba, Se ti reco il fardello Che molti ameranno Come loro fratello. Perdonami Bimba, se non capirai il perché del dolore che Tu proverai. Perdonami Bimba, se respiro con te questa brezza di vita ch’io porto con me. Perdonami Bimba, Se ti rendo già madre D’un figlio inatteso che sarà anche Tuo Padre. Perdonami Bimba, Se nelle mie ali Racchiudo quel seme Che allevierà tutti i mali. Perdonami Bimba, Se ti dono il mio Amore Senza darti il piacere Nel concepire il Signore. Perdonami Bimba E nel sonno Tu sogna Quel tuo Figlio celeste Che metteranno alla gogna. Perdonami Bimba Se non puoi essere donna Ma solo una madre Che chiameranno Madonna. Perdonami Bimba Per questo destino Che non ha niente d’umano Perché è solo Divino. Il party Forse… chissà… può darsi… se… s’ammassano festosi dentro me come ad un party ben organizzato dentro al mio corpo ormai troppo stressato. Non so dove mi trovo, se qua oppure là, Non so nemmeno la vera identità E per saper il mio nome ogni momento… A sinistra una foto e a destra un documento. C’è ancora chi mi chiede Se so quello che voglio, Se ho un’idea o una fede Con cui riempire un foglio. Io dico, io balbetto, Rispondo senza senso Che voglio andare a letto Dove, tra le coperte, penso. Poi guardo nello specchio Che mi rimanda un vecchio Con i capelli bianchi E con gli occhietti stanchi E allora mi faccio una risata E penso: “La vita… che cazzata!” Allo specchio E’ scritto tutto lì ma non lo leggo, nascosto tra le pieghe d’espressione d’un volto che riflette depressione per quello che vorrei ma non posseggo. Scruto lo sguardo acquoso del mio Io E cerco un segno d’incoraggiamento Che dia una traccia al mio ragionamento Sulla mia brulla piana o sul lago mio. Viaggio nel mare aperto all’avventura O stabile soggiorno nel mio lido Al suon della risacca in cui confido Che oblia, come sirena, mia natura. Piroclastica voglia di cambiare E di tornar me stesso come sempre Ritrovandomi contro mille tempre Per quell’antica idea di nome “Amare” Od ingannar me stesso ancora e ancora Sulla battigia chiara di mia vita Ove l’impronta mia è ormai sbiadita E la parola non ha eco sonora. E’ tutto scritto li , sopra lo specchio, ma per quanti sforzi faccia, io non lo leggo.. Orme Il tuo lieve sospiro sullo specchio, il mio viso riflesso, cornice di sguardi sui ricordi ormai spenti d’un rigido Aprile, nelle sementi bruciate, dei tuoi raggi dorati eppure violenti. Gli stessi, implacabili raggi lucenti, che stanno sciogliendo questo lieve vapore di ricordo struggente e mendicante ancora la tua presenza, in questo riflesso grevemente fisso nella memoria della tua assenza di te, per la demenza di me per la scienza di noi, senza coscienza ormai. Desiderio blasfemo Se avessi occhi acuti come il mio dolore, potrei espandere lo spazio intorno a me e vedere, senza avanzare, gli orizzonti celati dietro al mio. Se non avessi pieghe e meandri egoisti, nella tessitura della mente mia, potrei allevare, questo mio dolore e farlo divenire conforto disperante per tutti quelli che non hanno pieghe e meandri, ma solo stomaci prossimi agli orizzonti, più degli sguardi spenti dalla vita. Sol che potessi stare su una croce, con diadema spinoso, a gocciolar me stesso intero …….. …….. …….. Terra promessa Terra promessa, terra contesa, rammenta il pianto di quella madre, ancora vivo per quell’offesa fatta a quel figlio ch’è nostro Padre. Striscia di terra, cuore del mondo, uccidi ancora quel moribondo figlio di tutti , nostro figliolo, non più sulla croce ma in mezzo al tritolo. E non c’è pane e non c’è vino per perdonare questo assassinio. Donna Tu sei…. (dedicata ad un’anima Cortese, anima Amorosa) Donna, Tu sei, nelle parole e nel tuo dolore, l’anima più bella d’una donna, o d’una madre, che non so, se madre sia, certo, sei madre e figlia della mia. Come sei madre della tua stessa vita e d’altre vite, sparse per il mondo, che non sanno nemmeno che tu esisti, ma, lo stesso, ti cercan nel profondo. Come vorrei potermi illuminare sol d’una parte delle tue parole, una piccola parte, una vocale, una nota che abbia medesimo Tuo spiro, quello che non posseggo e che rimpiango facendomi sognare il tuo profilo che mi sorride, triste, mentre piango. Donna tu sei la voce e il sentimento e il cuore di come vorrei cantare il mio dolore o sentire rinascer la speranza allo sbocciare del Tuo stesso fiore, pietoso lenimento d’ogni rimembranza. Potresti esser l’unica donna amata, o la madre d’un ragazzo crocifisso, o Poetessa divina degli Achei, la goccia più brillante d’un abisso o soltanto… la Donna che Tu sei. Ma non donna soltanto. Vita! Ecco, la vita che, da sempre, dura nell’infinito, senza tempo e storia, vaga dovunque come sua natura partorendo se stessa, nell’altrui memoria. Non solo carne e linfa e ossa perpetuano la specie miseranda che trova albergo sempre in una fossa, ma l’Amore e lo Spirto son vivanda eterna e universale, prisma di Dio. Donna, Tu sei Amore doloroso, eppure hai gaia sorte, perché con Te, nulla potrà, la morte. Angoscia L’angoscia mia, s’ammanta di dolore nell’ore solitarie della vita sospesa nell’inconscio, fardello misterioso dell’anima gentile. Non oso, pensare di fuggire, non spero in un respiro piano, ne un battito di core regolare, ne pancia salda e membra lievi. Non spero di vedermi nello specchio come riflesso di immagine corporea, ne voglio, punto, placar questo tormento che m’accompagna, come guida oscura, nel mio cammino incerto. Giro a destra o a sinistra? Vado dritto, incontro a quella luce, col fantasma di me che preme dentro ed io, meschino, non lo lascio uscire. Vorrei poterlo prendere per mano, vederlo in volto, maligno o sofferente, e condurlo, accanto, per la strada e mostrargli gli uomini, la gente. Conosce solo me! Il mio fantasma, respira coi miei bronchi, usa il mio cuore, per scandire il tempo della sua sofferenza, del suo dolore. E scalcia nella pancia, vuole uscire da li, il poveretto, aggrappandosi alle membra per risalir la via che io son per lui, senza che io lo sappia. A volte penso che, se io sto male Lui, certo, starà peggio, e allora, non che stia meglio, mi concentro su lui e, a gran voce, lo chiamo. Colpa, seè donna Timore seè uomo Terrore seè fiera. Ma ancora non risponde, il maledetto! Abbandono Come eco di mare in valva sterile di perla, mi ritorna il ricordo di quei giorni miei. Foglie accartocciate già da fine estate, ricci spinosi di castagni troppo farinosi, legna verde, ignifuga al camino, notte di cielo senza lacrime lucenti e senza luna. Soffitto sempre uguale col peso delle braccia sulla fronte, ogni giorno più greve. E d’un tratto, Dicembre, argentato, sfavillante di rosso, col pungitopo ornato al suo finire e, finalmente, l’immagine di te che, caparbia al mio dolore, m’indicavi gioiosa, il mio avvenire. Il vecchio e il giardino Stanco, riposa il vecchio nel giardino, s’una panca sbilenca e logorata, unico ristoro del mite suo cammino, c’ogni volta, teme, sia di sola andata. Vecchioè il giardino, al pari dei suoi anni, uno spiazzo giallastro, tra il grigio del cemento, senza arbusti, ne ombre a riparar gli affanni di vite che appaiono vissute in un momento. Quanti ricordi sparsi su quell’erba, emozioni antiche, parole appena udite, chimere disegnate nella mente acerba e subito la vita, uguale all’altre vite. Forse una guerra, in quegli sterpi adunchi O un figlio morto, sul sasso polveroso, brandelli di memoria come scissi giunchi, una volta annodati nel silenzio orgoglioso di chi tutto sopporta e tace con se stesso, tanto preso com’è d’andar pel suo cammino a costruir ogni giorno, il proprio adesso, ignaro che alla fine c’è …il giardino. La fuga Il vento sulle braccia, il capo chino, le ginocchia serrate sul motore e l’ansia di volare sull’asfalto, senza tema di fare il grande salto. Il profumo dei campi tutt’intorno, una lama di cielo come giorno la mia vita che scorre nelle tempie, e nel garage il mondo che mi attende. E conto i giri di questo mio vagare con le note ossessive del grido del motore, che al mio fuggire, senza un sol lamento, docile oppone l’eco dello scappamento. La mente vuota e tutti i nervi tesi s’iniettano nel sangue delle vene come un cerino odiosamente acceso sotto il metallo d’un liso cucchiaino E con le dita serrate contraggo l’orizzonte nel breve tratto d’un solco della fronte che come effigie ha una sola ruga, l’esile mappa della codarda fuga. Il vento sulle braccia, il capo chino, le ginocchia serrate sul motore e l’ansia di volare sull’asfalto, sperando, forse, di fare il grande salto. Frammento Un vigore accaldato riempiva la sua voce, a giorni alterni, nei meriggi estivi, quando, bambino, con un soldo in mano, correvo verso lui, tendendo la mia mano al suo fardello, che scintillava al sole con bagliori azzurrini. Altri, con me, s'affrottavano a lui, a chiedere un pezzo di quel lucente peso. Lo avvoltolavo nel panno dedicato e correvo su a casa, tutto emozionato. Ogni volta, come fosse la prima, a stringere quel sole sgocciolato. Quanti baffi ha il mio gatto! Quanti baffi ha il mio gatto? Quante stelle dalla mia finestra? Quante mattonelle nel mio anfratto? Quante lenticchie nella mia minestra? Non conosco niente dei miei giorni, tanto preso io son che il conto torni a pareggiare quel bilancio incerto dei granelli di vita,il mio deserto. Però so tutto quanto del mio ufficio, anche se ignoro i baffi del mio micio. So che il dirigente vota per la destra e ha centodue lenticchie nella sua minestra. Il capoufficio,invece, é uomo di sinistra e a lui solo tre lenticchie la mensa somministra. Conosco tutti i nomi dei clienti e memorizzo quei ragionamenti da fare a quello nuovo o a quello affezionato, per far crescere sempre il nostro fatturato. A domanda sempre risponde il mio cervello e poi... varco sempre per primo quel tornello e zelante mi rapporto ai superiori, anche perché non ho altri inferiori! Insomma una vituncola senza fantasia. E invece... quante stelle dalla finestra mia! Il viaggio Senza biglietto, come un clandestino ho viaggiato in un solo sguardo tuo. Ho traslocato il cuore in un vagone merci sigillato e ho visto onde cerebrali rimbalzare, con elettrici bagliori, in quel vagone. Il tempo di salire e ho stramazzato il mio futuro in un capolinea ferroviario senza orologi e scambi e tabellini. - Da "Riflesso di bambina"- Il dolore degli altri Tu, fortunato sei a rimembrar la luce, mentre il destino mio, cotanto truce m'ha dato il buio dal giorno che son nato e quindi non annodo immagini al passato." "Tu, fortunato sei ad esser nato cieco ché se truceè il tuo fato, il mioè bieco, per sua malignità che m'ha privato della luce che m'ha sempre illuminato" "Tu bestemmi fratello, tu non sai cosa vuol dire non aver visto mai e non poter ricordare un viso o un fiore, non immaginar il sole, sentendone il calore. Lo sai che non posso mai sognare? Non ho niente da potere immaginare se non la macchia scura della mente, sovrana del mio immenso niente." Parimente, in altro tempo e altro luogo, ragionavan d'amore e di quel fuoco che uno avea bruciato e uno risparmiato. Due anime diverse nell'amoroso fato! "Tu fortunato sei a rimembrar l'amore, mentre l'anima mia non ebbe mai colore, se non quello grigiastro e disperato di chi, in vita sua, non ha mai amato." "Tu, fortunato ad aver, sempre, schivato lusinga generosa che nulla ha poi lasciato, se non sottil affanno, d'un vuoto divorante il corpo tuo, lasciandoti la mente latitante." "Ma tu hai avuto, almen, baci e carezze, migliore rimembranza di dolci e lievi brezze ch'io non sogno, in quanto mai provate e, per mia misera sorte, solo immaginate" "Per questo, infatti, sei meno sofferente di me, che avendo avuto tutto, non posseggo niente, soltanto la condanna a ricordar l'amore che una volta nato, mille volte muore" E tant'altra gente parlava in quel momento, lamentando il fardello suo, come più greve, perché sol di quello possiede sentimento, e non intende che altri lo vedano più lieve. L'angolo Quell’angolo gelato della strada Segna il confine del destino eletto Che carcerato in tua vita brada, preconizzavi in un muto detto, racchiuso nelle labbra screpolate troppo tese per liberar parole serrate ai denti, tanto avvelenate. Ora, disteso sul lucido piancito, con la pioggia che batte sul tuo viso e l’anima lisa come il tuo vestito, rievochi quel tempo nella mente inciso, quando il sole della terra nera bruciava la tua ansia di riscatto, umiliata al ricordo della razza fiera, che strinse nei secoli quel patto con la foresta , il monte e la savana, dove regnava libera e sovrana. Sradicato come bocciolo di fiore, in un tempo straniero al viver tuo, hai negli occhi il vuoto di chi muore già morto prima del destino suo. Non i profumi della terra erbosa, né colori tremolanti di calura veglieranno il tuo corpo che riposa con falso nome, dentro quelle mura, omaggio di lusinga maledetta, che t’ha imbarcato come un animale, verso una vita che va troppo in fretta e che non sei riuscito a viver come tale. I gatti dappertutto nel mio borgo. (dedicata a Michelle, micia mia adorata) I gatti dappertutto, i gatti sopra i tetti, sui pianciti delle antiche calli, sopra i davanzali delle finestrelle, sulle piastrelle antistanti gli usci , tra i gusci di tegole arancioni, tra i vasi di fiori sui balconi, sulle pietre dei ruderi marmorei, tra le tepide lapidi di vecchi cimiteri, nei chiostri di conventi secolari, sui sagrati di chiesette senza storia, sui gradini sconnessi dell’antico borgo, sdraiati tra l’erbe sparute sui muretti, negli orti marzolini al primo sole, dietro i vetri rigati dalla pioggia, sotto le gronde a graffiar le gocce, sotto i lampioni ad inseguir falene, nell’ombra d’uno speco di cantina, tra le travi marcite d’una stalla vuota, tra i raggi di legno d’una vecchia ruota. I gatti dappertutto, nel mio borgo A miagolar di notte, a fare a botte per la coda d’una micia calda che si consente d’essere spavalda perché sa d’essere causa del raduno di quei gatti che conosce ad uno ad uno. E nella notte del mio borgo antico s’ode, stridulo, un suono ch’è un intrico di soffi, di lamenti, lotte di felini che porteranno a breve…………. ……………………….. altri gattini. Risveglio Due impiccati ciondolano da un traliccio della corrente. Ma la corrente corre lo stesso sui cavi, fin dentro le case. Io accendo la luce apro il frigo e controllo quello che scarseggia. Uova, prosciutto carne, formaggio birra, soprattutto la birra e il vino. Accendo la tele per sapere quanti morti stamattina in Iraq quanti Palestinesi quanti Israeliani. Medio Oriente! Rifletto che ormai non ha più niente di medio. E’ tutto eccessivo. Scorrono immagini desuete. Due corpi di neri addosso a un traliccio di corrente. Una madre ed una ragazza. Senegalesi, forse. Squilla il telefono. è mia moglie. Stasera farà tardi dal parrucchiere. Pazienza! Andrò io da solo a fare la spesa. Veniva a miagolare alla sua porta quel micio grigio con la coda storta, lui gli dava gli avanzi del suo pranzo quattro fili di pasta e un po' di manzo. Allora il piccolo felino si strusciava e una gamba dell’uomo si piegava sullo zerbino dell’accogliente uscio per mostrar di gradire quello struscio. Il gatto lo guardava dritto agli occhi e poi correva verso quei rintocchi che il campanaro della chiesa accanto, spargeva nell’aria, a mezzogiorno in punto. L’uomo seguiva col suo sguardo quel correre sinuoso da leopardo certo che appena all’imbrunire lo avrebbe risentito miagolare. Un Italiano muore Starsene lì, a lasciare quattro decenni, ancora, da campare, racchiusi, tutti, in un cappuccio nero, in un istante prima d’uno sparo. Starsene lì, per caso, con la testa bassa ad aspettare d’ esser sacrificato tra i fumi d’uno spalto di una ingiusta guerra fatta per un appalto e dove distruzione rima con ricostruzione. Starsene lì, senz’esser militare di carriera, ma solo volontario d’un suo miglior futuro. “Nessuno t’ha costretto” qualcuno potrà dire, ma certo il tuo diritto di vivere e morire lo stavi ad esercitare dove si sta a sparare. Ma intanto…… la coscienza tace perché la nostra è missione di pace. i nostri militari son lì, solo, a curar ferite sotto il comando (e a fianco) di chi le ha impartite. E se per caso un Italiano muore su una terra, dove la pace è scusa d’una guerra…. Orrore Orrore Orrore Un Italiano muore! (Una cosaè parlar di morte altraè viverne la sorte) Il silenzio Io sento l’ansimar del suo silenzio, lo stesso ch’io invocavo e pretendevo e che, ora, mi logora, momento per momento. Mi germina nel cuore il mio tormento, come fiore spinoso senza chioma, come spina tagliente di corona. Neè lieve il ricordo di quei giorni, privo ormai dell’illusoria attesa che lei torni. Altri sospiri, con effluvi d’oblio, respirerò nell’inganno mio. Altri sguardi doneranno luce ai giorni miei, codardi. Altro tormento quell’ansimare lento. Altre ore senza più parole. Le tue labbra sono le rive rosse del mio amore. Riposerò su esse l’affanno di un mare senza sponde. Doni Sparsi ghirlande dove tu passasti, scegliendo, ad uno ad uno, i petali dei fiori più selvaggi. Ora che il vomere è passato solo spinosi steli mi son rimasti da stendere ai tuoi piedi. Dialogo “Mettiamo un punto” Andavi ripetendo parlando del rapporto che chiamavi “Il nostro Amor scontento”. Mettiamo un altro punto sul segmento che io ancora tento d’individuare sulla nostra retta che corre all’infinito. E a forza di disegnare punti a non finire ci si ritrova a dialogare sempre di quelle cose misteriose che tengono sospese galassie e buchi neri brandelli di pensieri e teoremi di vita estremi come il nostro amor bucato da quei punti coi quali lo abbiamo sviscerato. Mettiamo un altro punto. E’ Sabato mattina. E a proposito di punti… Ci ritroviamo ancor al punto di prima…. di mettere quel punto. Mi dici che ci sei (o ci fai?) Amore mio, sei acqua che sfugge tra le dita per chi non ha una coppa per placar la sua sete. Amore mio sei un turbine di vento su un banco di mercato che espone collezioni dell’arte di Ikebana. Amore mio sei un sale profumato a forma di sapone in un mare d’acqua costretto in un vascone. Amore mio stai dentro una boccetta di liquido rosato di dimensione magnum con etichetta Valium. Amore mio tu sei la sfera che gira all’incontrario nella ruota rossa e nera in perenne gara con la casualità. Amore mio amato e poi riamato e riamato per la terza volta, ti amo con pazienza… credimi….molta. Uguaglianza M’ero lavato tutto e ben vestito avevo anche comprato un profumo muschiato non arrogante ma discreto che potesse far pensare che ci tenevo ad odorare e comunque non puzzare. M’ero guardato e ciò ch’era specchiato mi dava sicurezza non molta in verità ma quella sufficiente ad essere presente (almeno presentabile) in mezzo all’altra gente abbigliata con la stessa nazionalità. Mi sorrise l’impiegata mentre mi porgeva il modulo prestampato. Mi sentivo eccitato all’idea che essermi sbarbato mi stava conducendo ad un buon risultato. Ma fu questione d’un momento vidi il suo sorriso spento mentre leggeva il nome sul mio documento. Il chiavistello Ho messo il chiavistello al mio cervello, ho sepolto la chiave nel terreno e finalmente mi sento più sereno. Il vecchio e il giardino Stanco, riposa il vecchio nel giardino, s’una panca sbilenca e logorata, unico ristoro del mite suo cammino, c’ogni volta, teme, sia di sola andata. Vecchioè il giardino, al pari dei suoi anni, uno spiazzo giallastro, tra il grigio del cemento, senza arbusti, ne ombre a riparar gli affanni di vite che appaiono vissute in un momento. Quanti ricordi sparsi su quell’erba, emozioni antiche, parole appena udite, chimere disegnate nella mente acerba e subito la vita, uguale all’altre vite. Forse una guerra, in quegli sterpi adunchi O un figlio morto, sul sasso polveroso, brandelli di memoria come scissi giunchi, una volta annodati nel silenzio orgoglioso di chi tutto sopporta e tace con se stesso, tanto preso com’è d’andar pel suo cammino a costruir ogni giorno, il proprio adesso, ignaro che alla fine c’è …il giardino. Il rogo Un ciocco, una castagna ed un cerino Due occhi per guardare E briciole di tempo per sognare. Una favilla sale all’improvviso Nel buio della canna scura Scavata in un anfratto delle mura.. Un attimo di luce e poi più niente Se non il ricordo d’un momento Regalato dal rogo alla mia mente. La fuga Il vento sulle braccia, il capo chino, le ginocchia serrate sul motore e l’ansia di volare sull’asfalto, senza tema di fare il grande salto. Il profumo dei campi tutt’intorno, una lama di cielo come giorno la mia vita che scorre nelle tempie, e nel garage il mondo che mi attende. E conto i giri di questo mio vagare con le note ossessive del grido del motore, che al mio fuggire, senza un sol lamento, docile oppone l’eco dello scappamento. La mente vuota e tutti i nervi tesi s’iniettano nel sangue delle vene come un cerino odiosamente acceso sotto il metallo d’un liso cucchiaino E con le dita serrate contraggo l’orizzonte nel breve tratto d’un solco della fronte che come effigie ha una sola ruga, l’esile mappa della codarda fuga. Il vento sulle braccia, il capo chino, le ginocchia serrate sul motore e l’ansia di volare sull’asfalto, sperando, forse, di fare il grande salto. Mausoleo d'amore Ecco il giaciglio ove riposai nell'ore precedenti quell'addio. Scomposto ancora già ricordi profondeva al rumore dei suoi passi, che vigorosi battevano gli istanti d'abbandono. Serrerò la stanza al mondo che verrà e il giaciglio rimarrà col suo profumo a rinverdir parole senza più eco alcuna se non nella follia d'una speranza vuota. Ecco che si disegna all'ombra del tramonto quella più arcigna della mia compagna dei giorni che verranno senza lui. 10 Agosto Solo grilli e ranocchie in questo stagno di notte e il tuo fiato a rincorrere il mio a raccontarsi tra loro d’ altre notti di Agosto. E cadon le luci, lievi e arroganti, a graffiare leggere quel buio infinito, dove altri occhi e ranocchi e altri grilli a cantare, solitari, alle stelle. La magia di una Volta a rinchiudere mondi e pensieri assonnati, dove occhi sbarrati son stelle lucenti essi stessi, a mirar altre stelle, altri occhi, lontani, distanti l’eterno o accostati all’istante. E l’umida brezza a toccarci la pelle, a donarci mantelle di infanzie sopite, calzari di guazza per rincorrere, immoti, desideri remoti nell’anime illuse. Anime stanche, contuse e ferite, da stagni di notte senza grilli ne stelle, senza fiati mischiati tra i baci e i sussurri di illuse bugie, donate all’argento di magiche scie. Ma questaè la notte e questoè il momento di fingere niente di fingere tutto sapendo che altri non hanno più voglia di guardare le stelle di fingere ancora e ancora una volta di più. Stelle cadenti Stelle cadenti a impolverare il cielo di gemme colorate mai gemmate, di luci spente ancora risplendenti nella visione di chi troppo distante ancora prova calda emozione per quella ch’è un’ ottica illusione. Polvere di fata Mille puntini Fili argentati Canti di bambini Fiocchi neve Fiori profumati Sere d’estate Fiabe raccontate Deserto polveroso Mille miraggi Fili spinati Sordi lamenti Fiotti di sangue Petali d’acciaio Notti d’allarmi Crepitar di armi. Altre stelle cadenti Nello stesso cielo. Paestum Tramonto maculato di ali nere e vento pieno del gracchiar di corvi, tessere luccicanti tra l’erba ancor virente e salso aere a carezzar le pietre. Seduto sopra il resto d’un mercato vicino a un crocevia pietroso di silenzi avverto ombre Vestali e tuniche ritorte, eco di voci, vite di guerrieri ed avidi mercanti. Vite risorte storie rivissute stesse ali nere e stesso sole, canto di mare all’antico lido e l’ombre che annunciano la sera. Nella mia mano chiusa la sua croce nei ruderi di Paestum la sua voce. S’aggiunge a Storia un’altra storia e i corvi non distinguono più le loro prede, il cielo sé nettato d’ali nere e sulle spalle stanche ho nidi di paura. Enunciato contratto Hai consegnato il tuo enunciato “E’ finita!” Hai sottinteso il soggetto e il complemento oggetto. Ma io non capisco questa frase contratta dove manca il soggetto e il complemento oggetto. Ti aspetterò lo stesso questa sera e se tu non verrai allora saprò qual era il soggetto e il complemento oggetto. Vana l’attesa in questa stanza piena di noi dei tuoi figli di mia moglie del ricordo di tuo marito. Tutti mi hanno parlato mentre attendevo che apparissi dalla porta, un po' assorta, come sempre e maggiormente le ultime sere. Anche io ho parlato con loro. Ho spiegato,almeno ho tentato. Ma loro non hanno compreso come un cuore possa essere così separato, diviso. Ho un cuore che basta per tutti ma a quei tutti non basta un pezzo di cuore. Lo vogliono tutto il mio cuore, ciascuno per proprio conto ogni battito, ogni scompenso. Ma il mio cuore nonè un oggetto. Néè un complemento. E nemmeno un soggetto. Il mio cuore è un uscio che non siè aperto. Ecco la sera Ecco la sera, che scivola e scolora, che non profila più il giorno né la notte, che non afferra mai istante uguale, in quel suo sguardo, attento e riverente al mutar dei riflessi, senza mnemonico confine per un colore acceso o più sfumato. E’ la sera, che avanza sulla terra e sul mare, pei campi già sognanti e per le cime attente ai tenui filamenti degli ultimi bagliori, migrati dalla valle, che si ristora, ormai, dalla feconda serra, dei raggi mattutini e meridiani. Preziosa sera , madrina d’altri mondi e soli iridescenti, ancor dormienti sotto il dorato manto dell’arrogante giorno del pianeta, in attesa che tu, provvida ancella, destandoli, li agghindi come corte amorosa della più oscura stella. Languida sera, che sussurri lieve: "ecco, son qui per voi, uomini stanchi, mondi nei mondi, luci spente del giorno, tenui fiammelle nel mio dolce seno. Son qui anime sante , anche per voi." Io… sera, finalmente." Getzemani In mezzo all’ombre ricurve degli ulivi S’affacciava silente il mio destino, Mentr’io, ancor desto, Sfioravo il mio bambino, Che piangeva spavento Che ancor non intendevo. Venne il ragazzo col suo sorriso mesto A giocare quel gioco della vita Mentr’io ancor desto, Puntavo la mia posta Per giocare da uomo, Con lui, quella partita. Già scolorano le chiome degli ulivi Tra i richiami lucenti delle stelle Mentr’io ancor desto, sereno, ormai, m’appresso a sostener quell’uomo che ha gli occhi di me stesso. Volge, la notte, le braccia alla sua aurora, S’inargentan gli ulivi al nuovo giorno, Mentr’io già dormo, Inerme dalla vita Col sorriso sereno. L’attesaè già finita! Cala di mare Troverai una riva con i gigli bianchi e adornerai le membra con la sabbia d’oro di quella spiaggia tua, piccola Cala, riparata dai venti della vita. E quando il cielo oscurerà le stelle e vento e mare diverran tua pelle, domerai la Furia d’un momento col tuo giovane canto più suadente. Vedrai crescere steli colorati e verbene screziate dalla luna, nastri di stelle per i tuoi capelli e avrai petali di gelso sui sentieri. La tua vita sarà come una spora, che lieve ondeggia nella primavera e si posa soltanto a germogliare altri fiori ed altri sentimenti. Piccola Cala, rilucente il sole, lambita dal quel turchese mare, lasciati andare e ascolta la risacca che lieve ti sospira gentilmente : ……………………………….. "Piccola Cala, cantami ancora ma soprattutto… lasciati ascoltare" Dopo l’amore, tu Le velette che celano i tuoi occhi. Il trine delicato del tuo pube. Il roseo ricamo dei tuoi seni. Le sfere disegnate dai ginocchi. Il soffice respiro, bianca nube che avvolge tutti i sogni tuoi sereni. T’ammiro nel ristoro del dormire, ora, che paga sei del nostro amplesso, ora, che hai volato sulla fantasia d’una passione che ci fa stordire nel goder dell’amor, fine a se stesso. Ora, che quiete culla bramosia. Riposa, amata dolce, amata mia. Sciogli la brina sul petalo setoso, sfiamma il rubino dalle accese gote, distendi il ventre e fa che esso sia capezzale accogliente al mio riposo, che donerà a te, mia nuova dote. Ora l’aurora la tua chioma indora, l’eburneo corpo si tinge d’albicocca, il primo raggio bacia la tua bocca e, con esso, il labbro mio ti sfiora. Destati amata, il nuovo dì s’ avanza E il mondo si sveglia, in lontananza. Goccia di mare Al sole incerto della Primavera, la prima della breve sua stagione, stavo mirando il lido solitario, giaciglio amato d’ogni mia emozione. Nuvole bianche giocavano nel vento, spume d’onde danzavano nel mare dialogando tra loro nell’istante che scandiva il ritrarsi e l’avanzare. Sulla riva sabbiosa… alcuna impronta, se non quella lasciata da un ricordo d’un bimbo solitario al suo iniziare quell’avventura che lo vedeva, ora, ancora solo con la sua emozione, perennemente in lotta alla ragione. Assorto da quell’ombra abbacinante, che su quel lido sempre era presente, fui riscosso dal richiamo prepotente d’una stilla salata del mio mare. "Mi hai voluto destare, finalmente, da quel sogno assopito nella mente, hai viaggiato nel mare e poi nel vento goccia di mare, per baciarmi il mento" Il mento, che del visoè il solo punto che tradisce col tremore il mio lamento, mascherato negli occhi e nella bocca, a celare intimità che non si tocca. E tu, goccia di mare l’hai capito e lieve e allegramente m’hai baciato, abbandonando la tua spuma d’onda per ristorar mia mente vagabonda. Grazie mia dolce stilla, grazie scintilla, grazie mio mare, mio compagno e amico, antico confidente di mia vita, che hai reso adesso amica, mia nemica. Guardo la riva ancora senza impronte col solo luccichio del sole d’un momento, che a tratti sfiora il lido e la mia fronte, dissolvendo la stilla dal mio mento. L’Ampolla Vorrei conservare tutte l’emozioni, in un’ampolla, sottile come la memoria, immersa in acqua di gocce di rugiada per raffrescarle, alla bisogna, tutte. Ora ch’ esse m’hanno abbandonato, data l’età, che non dà spazio al cuore, ma solo alla ragione, mia cinica padrona, mi piacerebbe rimirare quelle, c’hanno avuto sapore di divino lievitandomi l’alma, come bolla, verso il cuore. Non posso ricordarne molte e poche, dunque, ne conserverei in quell’ampolla, custodita nei ricordi miei. Gocce d’ansia sparse sulla bocca mia al contatto inatteso della sua, per quel bacio estirpato alla mia celata voglia svelata, con malizia, dalla sua. O lacrime di vita per quella vita nuova con le stesse fattezze del mio viso. Cristalli trasparenti come prismi rifrangenti raggi colorati, nel giorno che ci siamo maritati. Stille d’orgoglio per esser stato il primo a raggiunger una meta, piccola o grande, nella sua esistenziale nullità immortale. E poi. Qualche sorriso. Qualche viso. Qualche sofferenza. Qualche dissolvenza. E poi più nulla Nemmeno più l’ampolla! La bianca vita Il tuo sguardo ansioso al flebile guizzar dell’accendino, sotto a quel mondo odioso, sparso nel cucchiaino. Il tuo volto tirato nel pallore, indifferente alla vita circostante, attratto solo dal diafano colore d’una vita racchiusa in un istante. E poi diventi, tu, tutto il tuo mondo con il corpo accasciato nel delirio in quel tormento estatico e profondo che al tuo risveglioè il solito martirio. Non t’importa d’amore oppur di morte né rammenti quella tua promessa a chi teneva tanto alla tua sorte e, con pietà, ingannò tutti e se stessa. Ora giaci convulsa nella schiuma, tremante, come foglia alla tempesta e cedi, infine, al vizio, l’ultima piuma, che s’invola nel sogno da cui non ci si desta. Come muore l’amore Amore mio, da sempre amato e poi, senza apparente avviso, converso in quell’amore odiato, che pure dava vita al nostro amor, così mutato. E poi, nonè rimasto niente! Niente nel cuore, niente nella mente ritornata a specchiarsi con un’anima sola, quella mia. Perché la tua se n’era andata via. Come muore l’amore e come quel livore, pur sempre amore, che vola però per altre traiettorie piene di volti senza storie o, solitario, si ripiega nel suo cuore? Forse una carezza attesa e non goduta, forse uno sguardo comprensivo negato e compensato da un distratto cenno, ormai tardivo. Forse malinconia non condivisa e oppressa da intempestive risa da chi non vive quella malattia. Oppure, improvvisa, un’ allegria, che offende la malinconia di chi ha esaurito la sua dose d’allegria. Sensazioni mutate poi in parole, che questuano l’amore di una volta senza capire che la richiesta è stolta perché l’amore appare e poi scompare ad un unico comando: il suo stesso amare. Il corridoio Mi si aggrappano agli occhi e, se li chiudo, mi battono l’udito come vento furioso lascia tramortito. Avanzo per la strada e guaiti silenti e mani prepotenti e spade fiammeggianti e grida sovrastanti mi ricacciano indietro Fuggo nel corridoio buio e silenzioso, ma la fuga affanna il mio respiro, bagna la pelle e rimbomba il tamburo nelle vene tremanti del mio corpo ammassato sopra la mia mente. Non c’è più vita né morte, ancora. in quel momento impastato di tutto il mio passato e d’un presente, labile un istante, che come suo estuario non ha niente. Solo quel corridoio buio e silenzioso in quel lembo di mente ribelle alla realtà presente. Come potresti andar...... Come potresti andar per i sentieri senza calzari atti a camminare senza pane sufficiente per sfamare il corpo stanco da quel lungo andare. Come potresti navigare il mare con un legno d’ulivo senza vela che non dia, al tuo sguardo, prora e salda poppa, dietro la tua schiena. Come potresti rimirare il cielo con gli assopiti occhi dell’oscurità se non avessi le rosate aurore ed i tramonti teneri o arroganti. Come potresti vivere il tuo sogno senza il mistero della tua paura pavido Atlante d’ogni desiderio converso nelle spire del dormire. E dunque come puoi, solo, pensare di partire impavido dal mondo per raggiungere il nastro d’orizzonte alla ricerca dell’arcobaleno. Apri il tuo sguardo sopra il tuo terreno, tocca la terra ed alza braccia al cielo, ascolta il vento delle tue emozioni e scopri, con la gioia, il tuo vangelo. Dopo, potrai seguire il tuo sentiero nell’avventura tua di quel cercare un altro mondo, o te stesso intero, che potresti, alla fine, non trovare. Sogno di vita Stammi vicino e respira piano, per non svegliare il sogno del bambino, quello che dorme, appena, nei pensieri e piange ed urla nei nostri desideri. Stammi vicino e tendimi la mano, per coltivare insieme il nostro grano che, tenero, s’affaccia dal terreno senza spigare, mai, verso il suo cielo. Stammi vicino e parlami di noi, sussurra piano tutto ciò che vuoi purché nel tuo parlare ci sia lui, non comeè adesso, ma come sarà poi. Stammi vicino e dimmi del domani, che sorgerà su occhi come i tuoi illuminando sorrisi come i miei, unendo i nostri sguardi su altre mani. Stammi vicino e dimmi che sarà, mentimi pure, io, intanto fingerò di credere d’averlo già vicino quel sogno col nome di bambino. Stelle Lucente raggio nella mia pupilla deformata da un laser, che ancor sfavilla nel buio del mio sonno senza sogni, ne visioni di me o desideri, che ancora non conosco ne tali, come sono, ne conversi in dolori devastanti o lievi, a seconda come sono i desideri. Solo quel raggio lucente nella mente che sempre mi rammenta la mia pupilla monca, gli spazi vuoti della mia visione. Piccoli fori, dettagli incongruenti d’un insieme spesso assente. Piccole stelle, solo mie, che brillano nel cielo della mia cieca mente. Passeggiata Li vedo, inquieti in manti di velluto nero, li vedo tesi a strappare ogni mio pensiero. Hanno viso di cera e brumoso corpo evanescente come nebbiosa sera che ti tende le braccia del suo niente. Immoto di terrore e privo di memoria li scruto seguendo la loro traiettoria. Volano bassi sopra la mia testa o quel che d’essa resta. Mi scavano le ossa parietali cogli affilati artigli d’animali. Mi suggono la mente con l’osceno becco, curvo e tagliente. Un ricordo. Un’ idea. Una speme. Un amore. Un brandello. Il futuro. Tutto me stesso nelle mie volute divorate da quelle brume grigie e vellutate. Uno schianto. Un ragazzo. Un motorino sull’asfalto nero. La mente mia che torna al suo pensiero. E di nuovo me stesso tutto intero. Sogno e ...son io Cinque lettere e ...S O G N O! E nel sognar son io quello vero, quello nascosto il giorno nel pensiero e che, di notte, tramuta in sogno il proprio desiderio, pur censurato dal solito tiranno che ha nome Super Io, quello che rende oscuro il più bel sogno mio. L’ho sempre combattuto come un mostro Il Super Ego, immane Onda nera come inchiostro, che silente, eppur, sempre presente, incombe sul mio Io, che a lei soccombe. Misero Io, piccola vela bianca nello stagno della mia mente stanca, schiacciata tra l’Inconscio e quella Cappa. Piccola vela , che a volte insegue e troppe volte scappa. Ma nel sogno si muta in un veliero Che, fiero, dirige la sua prora a squarciare gli abissi della sua natura. Senza legacci e senza impedimenti al fine solca il mare dei propri sentimenti. Ed il mio sognoè: "sognar senza dormire, sognare nella veglia senza sapere di sognare" Giacché se sognoè: "reale essenza del mio Io," vittorioso sarebbe il giorno mio, privo di gesti e di pensieri artati, che ritengo spontanei e invece sono sempre comandati. Canzone per un’ amica Dammi la mano, amica mia lontana, che leggerò le righe dei tuoi anni, respirerò fragranze di pudore nei solchi delicati delle dita, carezzerò le foglie dei ricordi e brucerò radici senza fumo. Prolungherò i confini della pelle con linee d’albe a riempir quel nulla che ti tormenta nel tuo nuovo andare oltre i ricordi, oltre il tuo dolore, oltre l’ugual confine della vita, ch’io stesso ebbi, nel mio peregrinare. Dammi la mano, amica mia lontana, ti narrerò di come diverrai, di come saprai amar senza timore un altro uomo che non sia più Signore, di come ti porrai con l’altra gente a cui saprai di non dovere niente, di come saprai esser, Tu, unica donna non più figlia , ne madre e non più sposa, ma solo donna, libera e pensante che può sbagliare, senza chieder scusa, ed esser figlia ,madre, sposa e amante e rimanere donna in ogni istante. Dammi la mano, amica mia lontana, che ti trasmetta questo mio coraggio pieno dei bianchi segni di ferite che mi legano a te, mia dolce amica, come un legno, ad un Cristo sofferente, come l’aria, ad un suono ancor vibrante, come il pensiero, alla vita intelligente, come l’amore, a fame dell’amore, come carezza lieve, a tenerezza come lacrima, al sale del dolore come sorriso, a raggio di speranza come visore, al buio di tua stanza. Dammi dunque la mano amica mia che scioglierò quel mare che ti annega, quell’onda lunga di malinconia, il nodo doloroso che ci lega. La bianca ala Vola perlata ala, naufraga nel cielo, vola sul tuo pensiero antico di trasmigrar tua vita, in ospitale lido. Volteggia su correnti, inabissati in terra e riprendi i venti che ascendono in aria più serena. Scruta in lucente meta un altro addio del giorno e vola, vola nel cinereo manto, della più quieta sera. Librati argentea ad inseguire stelle, oblia la scia del tuo lungo andare e non volger la testa sulla scia faticosa della tua avventura. Coraggio solitario muove le ali stanche al nuovo dì che avanza in altra terra o mare. Vola perlata ala verso tua nuova sorte, verso acque più chiare, verso un’altra ala amica Sarò per te... Intesserò i nodi più serrati Per farne manto alle minute spalle Per coprire il groviglio dei dolori Per raccoglier la brina dei tuoi sogni. Stenderò sul tuo corpo da bambina Una seta preziosa tutta d’oro Come sabbia del Teide veglia il vulcano Io veglierò le membra del mio amore. Sfiorerò le tue labbra mentre dormi Per afferrar il respiro della quiete O per sopire le residue angosce Del tuo tempo che fu senza di noi. Parlerò con la voce del mio amore E sentirai parole come note D’una musica dolce, ninna nanna Al tuo nascer con me la nuova vita. Ti prenderò per mano amore mio E andremo nei sentieri più lucenti Senza tracce di orme dolorose Senza più rami a lacerar le vesti. Sarò per te il pianto della gioia Il profumo d’incenso nel tuo tempio La fiamma più lucente della sera Linea sottile tra la veglia e il sonno. Sarò per te amore mio, il sogno, Il tuo riposo lieve da stanchezza Il tuo amore sperato e mai trovato La mano dolce che spande tenerezza. Sarò me stesso, sempre, come sono, Innamorato di noi, lontani amori, Di noi, vicini cuori in abbandono, Di te e di me come saremo, noi. Vani tentativi Io, poeta dello scontato, del tutto quanto scritto o appena raccontato o cantato da aedi con animo ritmato. Io, analista d'emozioni, in rima, del 'dopo' che intravedo, cercando di intuire il 'prima', nascosto e mascherato in un Io monco o castrato. Io, consapevole qualunquista, perché il silenzio è la vera conquista d'una verità abbigliata da stilisti carpentieri con mano emancipata dai dogmi manifatturieri e descritta con la fantasia delle astute pieghe, ognuna con la solita bugia. Io lettore d'incenso e di letame con gli occhi appannati dal liquame degli avanzi di cinismo di scrittori privi d'olfatto ai loro stessi afrori. Io, illuso da me stesso e deluso dal riflesso di me stesso in uno specchio denso di opinioni e troppo vecchio per illuder le illusioni. Io, patetico pastore del gregge dei miei anni e cane maremmano di tutti i disinganni inanellati in un'intera vita e impressi, come impronte, nelle mie dieci dita che calcano sempre più sovente, la mia fronte. Io, con la testa china sul mio pensier che duole per le troppe parole sussurrate o gridate per sorregger la mente da quel maestoso niente che le ha sempre umiliate con parole declinate spesso in verbi o in aggettivi per render fatiscente, sempre, me stesso. Io, somma di vani tentativi. Creazione Avea finito appena di creare In uno spazio vuoto tra le stelle Un sistema più nuovo del solare Abitato da un lembo di Sua pelle. Non voleva abitarlo quel pianeta Ma si distrasse un attimo infinito E combinò un guaio, il Grande Esteta. A Terra già finita si sbucciò il Suo dito! Così un lembo di Sua pelle sacra Cadde nel mare azzurro ancora caldo Dando inizio a quella vita magra Dell'uomo, Suo involontario araldo. Se ne stava tanto bene solo solo A creare universi paralleli Senza distribuir anime a nolo E ritrovarsi una turba di fedeli. Ma tant'è! Ormai, a guaio combinato, Pensò che sarebbe stato divertente Avere compagnia nel Suo creato Da parte di qualche piccolo vivente. Riprese il Suo lavoro di Creatore Disegnando galassie sconfinate Mettendo tanto impegno e tanto amore In tutte quelle cose ben create. Ma un giorno buttò un occhio sulla terra E vide la creatura involontaria Che faceva una cosa detta guerra In terra in cielo e perfino in aria. "Poca puttana, cosa ho combinato" esclamò inquieto il Signor Divino vedendo il sangue a fiumi riversato dall'uomo, nato da quel suo ditino. Le strade senza nome Non si snodano mai le strade senza nome, che tu sai. Non hanno mura dipinte di murales, le strade senza nome dei rurales. Non hanno storia, gli asfalti calpestati da chi non ha memoria per i perseguitati. Le strade senza nome echeggiano dolore col pianto dentro al cuore e rabbia nell'addome. Non hanno crocevia, quelle strade blasfeme che non leniscon pene con solo un "Così sia" Son strade solitarie, e qualche volta ingiuste, ma sempre son piagate dai segni delle fruste. Non han patria e colore le strade innominate, come fosse scavate per chi, ignoto, muore. Eppure sono tante, con diverse stazioni, dove anime sante imprimono emozioni. Sono tanti calvari di uomini indifesi che non si sono arresi al tuono degli spari. Sono storie vissute in epoche diverse ma tutte son converse in strade ormai scomparse. E resta solo il nome ….chiamato…….. "Le strade senza nome" Ti ricordi... Ti ricordi... quella riva di quel mare, che fu giaciglio al nostro amore estivo, mentre tu sussurravi già il futuro adornato di foglie accartocciate e brina mattutina, delicato mare, di cui noi saremmo stati sponda a scambiarci regali di natale. Ti ricordi... quella notte amica che rischiarava i nostri corpi nudi e gli scogli scolpiti da altri amori e il rumore dei ciottoli addossati al mare, come fiato affannoso d'un orgasmo antico. Ti ricordi... quella stella all'orizzonte, grande come quelle stelle vere, ma che stella non era, ma lampara, e tu dicesti che nemmen le stelle son tali, ma lucenti fori, che sprigionan la luce d'un mondo, grande come l'infinito e misterioso nel suo baglior divino. E ti ricordi Dio, sdraiato accanto a noi che ci vegliava senza alcun pudore, sorridendo al tuo convincimento del nostro eterno amore e al mio sentimento più lieve dell'istante, fissato in quella riva del presente. E mi ricordo che in quella notte chiara fummo noi soli a respirar quell'aria, ad ascoltar il mare sulla riva, a consumar il nostro primo amore che ancora m'accompagna solitario, senza alcun viso e nome, seppur scolpito, come marmo, nella testa e, come fuoco, nel mio addome. Al mercato dei sogni e dei ricordi Vado al mercato dei ricordi una volta al giorno e con la memoria scruto tutto intorno per ritrovare qualche viso o qualche avvenimento che possa illuminarmi un giorno spento. Sdraiato sul divano di ciniglia a volte mi si chiudono le ciglia e svaniscono ad un tratto tutti i miei bisogni e mi ritrovo in un altro mercato, quello dei sogni. Posso comprare quello che mi pare e a poco prezzo senza contrattare, posso comprarmi un giorno illuminato, senza bisogno d’un viso ricordato, posso anche sconfigger la paura, consegnando il mio inconscio alla censura, posso dire alla persona amata, che l’amo non solo quando l’ho sognata, ma l’amo anche quando sto di veglia, a seguire le lancette della sveglia. Posso avere lo stretto necessario e partire per fare il missionario, aiutare i bambini a spegnersi contenti ed afferrargli, poi, l’anima tra i denti e conservarla in un antica ceramica orientale per consegnarle tutte insieme, al mondo occidentale. A volte per paura dell’inferno sento un peso gravarmi sullo sterno, saranno i miei peccati di mortale a trafiggermi il petto con lo strale e allora invento d’esser come cardinale, sicuro di difendermi dal Male. Ma mentre sogno, così abbigliato in rosso, comincio a sentirmi , tutto addosso, una smania estranea, mai provata prima, come se fossi posto, proprio in cima a una montagna, dove sto a sedere su un trono tutto d’oro: il mio potere. Guardo le persone da lassù e non intendo più tornare giù. Effetto strano quest’abito talare che non m’ha fatto passare, nemmeno, la voglia di scopare: anzi da quando me lo sento addosso, vorrei scopare sempre, a più non posso. E poi vorrei mangiare anatra all’arancia, pagando il conto , ma senza dar la mancia, perché i talenti non vanno regalati, ma vanno con sudore guadagnati. Assaggio pure lo champagne con le bollicine e dopo il ruttino recito ispirato preghierine, però mentre lo sto facendo poi m’accorgo che non mi sto affatto redimendo. Allora, visto che l’abito vermiglio mi dà un ritratto di me stesso al quale non somiglio, decido per un sogno proletario e muto quel rosso mio sudario, in una tuta da metalmeccanico, ma non quello anni settanta, un po' fanatico, ch’era sempre pronto a scioperare, disposto, magari, a farsi anche sparare, no, non quello d’allora, ignorante e rozzo, ma quello d’oggi, che invece di sentirsi pane, si sente maritozzo. Non più quello che in tasca tiene la tessera del partito, ma quello ormai troppo spaesato per ricordarsi dopo un paio di giorni chi ha votato. Ma tutto ‘sto sociale m’ha stancato e mi metto a sognare l’amore mio amato e la vedo candida fanciulla e tutt’attorno non c’è nulla, solo lei, tutto il mio mondo, col suo culetto tutto tondo. Sogno d’amarla come fossi Platone e le parlo di spirito, sentendomi un coglione, allora provo a metterle una mano tra le cosce e, allora sì, che lei mi riconosce! Sospira innamorata più che mai, mentre sussurra piano “ma che fai?” “Tranquilla cara mia, non t’agitare, che adesso cominciamo, tutt’e due, a scopare. Ma il sogno cambia all’improvviso e, da sotto la mia pancia, scompare il suo bel viso, rimango come dardo ritto e l’occhio mi cade su uno scritto. “Tanto gentile e tanto onesta pare...” Il nostro padre Dante mi compare. “Cosa sogni tu uomo moderno?” Mi chiede, mentre sceglie un girone dell’inferno. “Sogno un po' tutto quello che sovviene, sommo poeta dell’eterne pene! A volte mi sento un po' poeta anche se oggiè cosa desueta, a volte invece mi sento un po' pirata e allora mi sogno una scopata.” “Male figliolo questo non si fa” Mi risponde severo e se ne va. Sento, bramoso, voglia di candore e, allora, mi sovviene, bianca, l’immagine d’un fiore. Voglio seguire quell’onirico consiglio e mi metto a sognare quanto sarebbe bello un giglio. Ma la mente mia malata per tutte le ingiustizie siè politicizzata e la purezza di quel fiore, m’evidenzia, maligna, l’eccezione di quel simbolo visto all’elezione del partito più ladro che c’è stato e che adessoè stato degnamente rimpiazzato. M’accorgo che il mio sogno non mi porta a niente, allora mi rigiro e scuoto la mia mente, e vado alla ricerca d’un mercato che offra tutto ciò che ho desiderato. Lo vedo in lontananza, in fondo alla mia stanza, quel mercato. M’avvicino tutto speranzoso per trovare qualcosa che non appaia troppo dispendioso e vedo sopra ad un vecchio banco liso, un uomo che dorme con le labbra disegnate in un sorriso. Sento salirmi dentro una emozione e osservo meglio quello che sta sopra al bancone. C’è un comodo divano di ciniglia, vedo i miei occhi chiusi dalle ciglia e vedo la mia gatta accoccolata in grembo e solo allora riconosco il mio inconscio sghembo. Sogno nel sogno la mia stessa vita e questo mi dà pena infinita, perché se non riesco nemmeno più a sognare, mi dite come posso ancor sperare? Voi, che avete ancora il cuore Mi torse il cuore e lo strappò via una sera d’estate che non ebbe notte. Fu il rosso del tramonto a tingere il mio tempo che defluì improvviso proprio da quello squarcio. Non chiedetemi come né se potevo io evitar quello strappo che fermò il mio tempo. Non chiedetemi ancora! Se l’amo, nonostante. Se l’amo ,senza cuore. Se l’amo, ingiustamente. Una cosa vi chiedo, a voi che avete ancora il cuore, se l’incontraste nella via guardate la sua mano. Sarei felice di sapere che ella stringe ancora quello che fu il mio cuore. Solo questo, nient’altro. Il ritardo M’avvicino, incurante del ritardo. Il tuo viso abbrunato mi allieta nel vederlo sostare nel solito posto, quello nostro. Mi vedi e ti volti, tendi la mano ad un altro. Non ti chiamo nemmeno. Ho già capito. E lo stesso, mi ritrovo stupito. Salgo sul treno senza il mio biglietto. Ciao, Alberto (ROMA - 25 Febbraio 2003) Che se ne fa del sole, Oggi, Roma nostra, se tutti van dicendo che sei scomparso, Alberto, amico nostro, che ci hai fatto ‘sto scherzo a Carnevale, che però ci ha fatto tanto male. Che se ne fa dei monumenti, Oggi, Roma nostra, se stasera alle 5 al Campidoglio tutti saran da te con grande orgoglio, a darti quel saluto e quell’abbraccio che si da all’amico più caro, per quel famoso viaggio. Che se ne fa dell’allegria, Oggi, Roma nostra, se negli occhi di tutti c’è il pensiero d’avere certamente in meno un pezzetto di se, lo stesso che tu porti dentro te, Alberto, Amico vicino al nostro cuore e solo in fondo, fondo grande Attore. Insomma…. t’eri già stufato de sta qui co noi a piagne ‘n greco sui dolori der monno e quelli tua che nell’urtimi mesi te dava la tua bua, e allora avrai pensato certamente: “Ammazza er dumilaettrè che bell’acquisto! Lo sai che te dico….? Mo me ne vado E chi s’e visto s’e visto” Ma intanto caro Alberto Che t’o dico a fa, “Va, va…si… va ! Ma statte puro certo, che ‘ntanto dentro noi nun te ne potrai mai annà ! ” Astralità Si era giunti alla Stella più lontana, dopo galassie senza interruzioni e come guida l’accecante luce degli anni luce di quel nostro Amore. Bruciammo l’Universo in un istante. Brillammo come Rigel dentro Orionis. Sfidammo Regulus dentro il suo Leonis. In quella nostra scia mirabolante. Confondemmo il Momento con l’Eterno, unimmo gli equinozi coi solstizi, fummo lo Zenit del sidereo inverno, dai più sommi confini, ai più profondi abissi. Fummo che giunti dentro a un buco nero, la materia scompose gli elettroni della nostra memoria e del pensiero, rifratti in un Universo parallelo. Fummo un Istante, eppoi… non fummo più! Se non nella galassia più distante come riflesso di quel viaggio amante che brillerà per sempre di lassù. E quando il cielo sarà più scintillante, nelle notti in cui Luna è già chimera, volgendo gli occhi alla celeste sfera, risentiremo, nostro, quell’Istante. Se potessi essere, sarei… Se potessi essere, sarei…. Un fiume quieto tra le verdi sponde Un’eco saggia che ascolta e non risponde Un amore sincero, che non muore mai Il tuo futuro certo, quello che non sai Un sorriso che scoraggia il pianto Una carezza sul tuo cuore stanco Un’isola felice nelle Antille Un dieci agosto con le sue scintille Un nettare che inebria chi lo beve Un trentuno dicembre con la neve Se potessi essere, sarei… Un operaio con il dottorato in legge Un reggicalze scucito che non regge Un cavallo satollo sul suo strame Un salame norcino per chi ha fame Un bel fiasco di vino con la paglia Un latte sempre fresco, che non caglia Uno yogurt alla frutta tropicale La medicina dolce del tuo male Un orsacchiotto di pezza per bambini Un prospero in un mucchio di cerini Se potessi essere, sarei… Un’onda gaia, orfana di mare Un mare senza riva ove approdare Un vecchio che orgoglioso non si lagna Un bicchiere di vino e una castagna Un giovanotto pieno di se stesso Uno scienziato che si crede un fesso Un principe pirata con la benda Un palo d’acero per reggere una tenda Un’ala d’angelo o uccello migratore Uno snack per lenire il tuo languore Una bugia detta a fin di bene Il cestino per buttare le tue pene Se potessi essere, sarei… Un correttore di bozze di poesie Un abbozzo di poeta con manie Un maniaco saggio e senza tic Un tizio senza nome e senza nick Un ricco mecenate o un povero accattone Un cardinale ateo senza religione Un bombarolo che fa saltate i treni Un pescatore con la barca a remi Un medico chirurgo che ricuce Un interprete che ascolta e non traduce …………………………………… ……………………………………. E tante cose ancora, io sarei Se… Vivessi da solo e non ci fosse Lei. Canzone di Pentecoste Camminando con passi distratti sulla riva, in un grigio mattino, vai a snidare domande, da anfratti inquietanti, del tuo “Io” di bambino. Vorrei avere risposte esaurienti, ma non sempre posseggo risposte per misteri che ardon latenti, come lingue di Pentecoste. Se mi chiedi… perché brilla il sole o il giorno avvicenda la notte, ho risposte che son solo parole di concetti che si spargono a frotte. Ma quando il tuo sguardo di figlio, muto, indica un gattino schiacciato, con l’ansia che strozza un bisbiglio, non so dirti nulla di più… del selciato. E quel nulla ci unisce nel tempo, come io fossi ancora bambino e tu, come me ,nel contempo, avessi percorso il mio stesso cammino. E in questa riva segnata da orme la mia mano di padre ti stringe e ti parla di un mondo deforme dove il nulla con fede dipinge spiegazioni, che non hanno parole, ma solo speranze o ,forse ,emozioni, cui può credere solo chi vuole accettare le sue religioni. Non volermene, dolcissimo bimbo, se ti lascio grevemente pensare a risposte sospese in un limbo che tu solo, da uomo, potrai colorare. Destino Divino (in occasione della scomparsa di Fabrizio de Andrè) Giovani mani a stringer quel pane e labbra tremanti baciate dal vino, nell’ora serale del Suo nuovo Destino. Dolci parole, come lieve canzone, mormorò ai compagni, in comunione. Era chiara la sera e, nel cielo, le stelle intonavano in terra, le Sue Buone Novelle, schiarendo la mente, con fede pura, A Chi, in quel momento, aveva paura. In fondo,era un uomo in carne ed ossa e, come tutti, temeva la fossa, anche sapendo che dopo morto, dopo tre giorni, sarebbe risorto. Accettò dunque che la Sua guancia giustificasse l’infame mancia, pagata in cambio della Sua morte a chi destinata avea già propria sorte. Con gli occhi tristi di un ultimo sguardo, lasciò i compagni e andò incontro a quel dardo che avrebbe spento la Sua ultima voce facendolo, infine, schiodar dalla croce. Così donò a tutti, tutto il Suo Amore, quel giovane uomo, quasi un ragazzo, che fu battezzato, per quello strazio, col nome eterno di Nostro Signore. Grandezze Eterno vagolar di mondi spenti, astri dal grande nulla sorti e incandescenti, nelle cineree volte delle menti. Umani lembi artificiali di laceri infiniti e spazi siderali. Ogni voluta, un mondo cerebrale che straripa il suo magma di cuore e d’emozione, sulla fallace riva, della sua ragione. Ogni pensiero, che s’accende e brilla in un’ alba gioiosa, che, troppo presto, sbianca il suo rosa nell’accecante luce d’un giorno abbacinante, che conduce sempre alla stesa foce, sempre in un solo istante. Stessa vita e bagliore opalescente in questa terra virente di illusioni, ove il tempoè segnato da stagioni e lo spazio da ludiche attrazioni. Estesi mari, che sono solo gocce e terre vaste, come infanti rocce. Storie impresse in umili memorie senza esperienza e storia di se stesse. Creati provvisori per umane genti o per galassie dilatanti momenti che sono, anch’essi, solamente, istanti. Ali Dall’amica terra, timido scruta e poi, lieve, s’alza, s’invola volteggiando sempre mirando il cielo nelle traiettorie disegnate su quel velo che ancora sta graffiando, convinto vanamente ch’egli stia arrivando. D’un trattoè stanco, si riposa e ristora lo sguardo volgendolo da basso, verso l’annosa terra, da cui s’è appena alzato. Volge la testa al cielo e non capisce ancora quale cielo sia quello, sempre azzurro che per quanto s’innalzi non raggiunge ancora. Di nuovo, libra il suo volo nell’aria rarefatta che ancor non ha colore intorno. Solo il silenzio di quel viaggio designato da un tremulo miraggio. L’aria diventa scura, improvvisa la notte e sorge la paura e sbianca l’ala nel ricordo turchese d’un cielo senza arrivo e senza più pretese. Senza mai approdare Col tuo corpo forgiato nel mio addome e la mente alla prora dei tuoi anni, bisbigliavo, come mantra, il tuo bel nome, inciso nei ricami, dei tuoi minuti panni. E quel velo, ch’era stato acciaio puro, nel sostener l’anelato tuo salpare, divenne,poi, metallo meno duro, quando fosti padrone del tuo mare. Con l’approdo, previsto nel mattino, s’era mutato in trasparente imene pronto a sciogliersi allo sguardo tuo,bambino, oblio gioioso di tutte quelle pene. Ma giungesti sfinito da quel viaggio, senza pianto a rompere il respiro, senza luce di vita, non un solo raggio per sperare che un ultimo zefiro ti donasse un altro po' di mare poche gocce, non più, per quel tragitto fatto (senza mai approdare.) Andiamo Gente… Andiamo gente, vi voglio ammazzare, così mi distraggo da questa mia noia che tutte le notti mi lascia a latrare nel fondo del vetro, dov’è la mia voglia. Dovete capirmi se adesso vi sparo, ormai lo stadio non mi dice più niente e trent’anni son tanti, senza un riparo, e uno straccio di lavoro fetente. Volevo vivere in modo diverso, non dico felice, ma almeno contento, in un mondo che non stia di traverso dove il vero sia uno. E non cento. Ho pure una donna che m’ama e per lei non volevo cambiare, non volevo rincorrer la fama di quello che ha osato sparare. Ma adesso non voglio parlare c’è la televisione che aspetta per questo vi voglio ammazzare. E’ lo share dell’ascolto che detta un’impresa di un uomo qualunque senza lavoro, né casa e futuro che potrebbe vivere ovunque, perfino, sepolto in un muro. Quando giungerai Non so dirti quando giungerai né se il percorso avrà mai fine e nemmeno se quel tuo andare solcherà terra oppure mare. Non so nemmeno dirti le ferite, né le assenze e le incertezze o quanti amori illuderanno la solitudine del tuo affanno. Non conosco le miglia o il tempo del tuo universo, ma so che tuoè l’istante, insignificante od esuberante. Non so se giungerai le mani sotto un legno marcito dal dolore o tenderai le braccia al cielo Per cercare, nell’azzurro, il tuo vangelo. Non so dirti la tua disperazione quanto coraggio infonderà quando, senza più pianto al ciglio saldo, afferrerai l’ultimo tuo appiglio. Non conosco i profumi ed i colori né l’alito carezzevole del vento né il chiarore delle sere d’estate, ne altre sere, sognate o sperate. Tutto ciò e tant’altro, ancora non so, ma lo stesso, ti inizio al tuo tragitto col mio seme di padre impaurito, sparso nel mio irto percorso (non ancora finito) L’incontro E se una sera d’estate t’incontrassi di nuovo, come mai t’ho incontrato. E se tu mi guardassi con gli stessi miei occhi, solo più innocenti E se mi riconoscessi tu, senza che io potessi disconoscerti, per la tua età passata, celata in quella mia, presente, come coltre gravosa ai miei ricordi. Se questo incontro potesse essere, …solo allora riconoscerei le mie radici e l’amerei. Il rogo Un ciocco, una castagna ed un cerino Due occhi per guardare E briciole di tempo per sognare. Una favilla sale all’improvviso Nel buio della canna scura Scavata in un anfratto delle mura.. Un attimo di luce e poi più niente Se non il ricordo d’un momento Regalato dal rogo alla mia mente. Il porto perduto Mi porto dentro al petto un cuore come il mare sul quale navigare con solo un fazzoletto spiegato come vela su un albero maestro che sia esso candela, che sia esso capestro. Ciurme Lamiere che solcano asfalti ingrigiti o lucenti di sterile pioggia. Timonieri distratti, nocchieri senz'occhi per orizzonti graffiati da intermittenti bagliori meccanici. Rotte ancorate in rituali senza memoria, perché sempre uguali. Ciurme di mozzi che lustrano vite avvilite, con giacche e cravatte o con tute gualcite. E poi le rotte deserte. Ancoraggi in anfratti tutti uguali come le rotte percorse. Notti di mostri che affiorano e divorano menti e se stessi, in unico pasto. Abissi dispersi nell'alba, mostri acchetati pei prossimi agguati, in quegli antri, rade indifese di anime tese. Partenze Dopo esser partito sempre riarrivo. Senza bagaglio mai e con sottobraccio il niente che tu sai. E non tiene speranza la mia lontananza, ma guai se restassi, semmai rinunciassi a viaggiare lontano seduto, magari, al divano. La mia vicinanza non darebbe speranza! All'improvviso sparisco e ancora non capisco dove l'andar mi porta. La mia memoria corta non mi consente niente, non riconosco posti e gente, solo qualche rumore mi smuove l'umore ma poco, quasi nulla, e il mio IO si trastulla con domande irrisolte, su paure non colte che han sedimentato un inconscio smodato. E allora ,ogni tanto ,io parto! In verità m'apparto, maè come se partissi diretto in una eclissi. Col corpo son presente ...ma valla a ricercare la mia mente. Parole Son portato a scriver senza posa, eredità d'un Io, che tenta di cercare emozioni rimosse e colpe mai commesse. E dunque, passo l'ore, a metter su parole che, in fila, una per una, son come umani solitari, ma tutte insieme, nella mia lettura, si rivelano quasi umanità ancestrale. E dopo averle scritte, le vado a ricercare e le conto e le scruto. Una parola tonda e una spigolosa, una scarna e un'altra più corposa, un verso silenzioso un altro rumoroso, un avverbio sanguigno un aggettivo maligno, una frase sentita un'altra costruita, un concetto piano un altro un po' più arcano. Le leggo e le rileggo e loro stanno li, su quell'unico foglio che per loroè il Creato, convinte di pesare, ciascuna, per suo conto a seconda di sillabe e vocali, ognuna nel suo mondo. Alcune, con l'accento, si credono migliori e si cercano, lo sento, e scambiano parole. Parole che figliano parole! E a me va bene, perché l'amo tutte, le parole, purché poi non cambino il concetto che aveva partorito il mio intelletto. E loro son contente, le parole, di stare li, sopra a quel foglio anche se sanno che rimarranno li, finché io voglio. Un amore da lontano Da lontano ella giunge, a piedi scalzi, nudo il suo petto, triste il suo sorriso. Si trascina nel cuore e sulle spalle, una storia di madre e di compagna, più spinosa e crudele d’un calvario. Parla con voce bassa, alita il fiato verso il suo passato, racconta la sua storia sgranando, ad una ad una, le pietre aguzze della sua memoria. E par che non avverta mia presenza, mentre flagella ancor la sua coscienza. Fragile e minuta la figura, molto simile a quella di bambina, si muove lentamente, come foglia cullata dalla brezza delicata, in quella traiettoria di memoria. L’effigie d’un bambino mai amato mi rimandava il suo volto sconsolato, e lo stesso timore d’abbandono nelle parole dette senza suono. Alitava con tremore la sua voce a raccontarmi la mia stessa croce. Un’onda sovrastante s’inarcò nel cielo. Morì in quell’istante la ragione ed io fui goccia d’un mare d’emozione. Mancanza di ispirazione E’ inutile che insisto, non riesco a scrivere poesie, meglio che esco potrò incontrare un paio di persone che mi daranno un po' di ispirazione. Il sole sta cambiando la sua luce un arancione caldo, che conduce all’azzurrina cenere serale che fa sembrare ogni cosa uguale. Avverto nella brezza del tramonto un refolo diverso cheè un acconto della dolce stagione, Primavera, una carezza su un’anima leggera. Vedrò i prati ingemmarsi di colori Pettirossi divenire rubacuori Giovani donne in abiti fruscianti Boschi radi divenir virenti. Sono arrivato al corso del paese Dove la gente fa l’ultime spese Un po' di pane o forse solo latte Con la fretta di mettersi in ciabatte. Capisco al volo che nonè il momento Per cercar la trama d’un componimento Nonè l’ora che la gente ti da retta Almeno a giudicare dalla fretta. Rassegnato ritorno sui miei passi Cercando ispirazione in mezzo ai sassi Che nel frattempo son divenuti scuri Perché il buio l’ha confusi con i muri. Alla fine rinuncio nel mio intento Ma son tranquillo, anzi son contento D’essere uscito a sentir la sera Che m’ha donato un po' di Primavera. L’unico cruccio é che ancor non so Se dopo tutto… qualcosa scriverò! Anche alla lontana Se solo qualche volta si potesse trovare tra la gente un pensiero parente della mente! Il davanzale Un dì prendesti il tuo sottile male e lo adagiasti sopra un davanzale, e all’aria dolce della Primavera, affidasti il sussurro d’un ultima preghiera. Poi raccogliesti gli aghi della tua matassa, ricordi arroventati del tuo inferno, e li gettasti, tutti quanti in massa, sul piancito del tuo cortile interno. Punsero ancora durante il tuo volare, strappando l’ale d’un angelo ribelle, senza più piume, ma solamente pelle. E nella tua memoria e sul tuo viso, non avevi la gloria del santo Paradiso, ma solo le macerie d’un tempio di miserie. E l’ultima maceria di te stesso fu avvolta in un lenzuolo bianco che presto si macchiò del rosso dello schianto. E quel tuo corpo sghembo venne poi sigillato coi denti di una lampo in uno scuro grembo, su gelide piastrelle le stesse che scegliesti per viver tra le stelle. ……………………………………. ……………………………………. E ieri son tornato in quel cortile insieme ai miei pensieri sul vivere e morire, ma non ho visto stelle oltre quelle piastrelle ed ho pensato, allora, se durante il tuo volare, lungo quei sette piani, desiderasti invece di star sul davanzale aggrappato, magari, con l’unghie delle mani. Assenza La sua assenza mi ingombra come, in un prato, una possente quercia che limita lo sguardo all’orizzonte. Eppur trovo riparo dall’accecante luce del mio giorno, proprio li intorno, Intorno a quella quercia Intorno alla sua assenza. Inferno (Sfogo di un povero diavolo) I mostri più crudeli degli abissi son teneri folletti al paragone di ciò che fu creato a immagine divina su questa terra verde una mattina, agli albori del tempo per capriccio d’un Fattore vanesio che stanco del Creato alitò sul fango per essere adorato. Non pago di pesci ed animali mise in cantiere il re di tutti i mali e dopo un po' di tempo, forse pentito, inviò Suo Figlio sul verde Suo pianeta per rimediar all’abbaglio preso dal grande Esteta. Ma intanto non cambiò quello scenario neanche col martirio sul Calvario e allora con la lancia nel suo sterno trasferì sulla terra tutto l’ inferno E per mostrare a tutti la visione fece inventare la televisione che ogni sera alle otto in punto ci fa vedere dove l’uomoè giunto. S’inizia con la guerra del momento, tanto per darci un poco di sgomento, e poi, per mantenerci spaventati, ecco i bimbi stuprati e poi ammazzati. E per chi non va in guerra e non ha prole e di queste notizie non si duole si tenta di scardinarne l’egoismo ricorrendo al noto terrorismo. Cavolo, quello deve impressionare perché a tutti quanti può toccare di star su un treno o un cinema affollato e di trovarsi all’improvviso spappolato. Poi tanto per finire, a voce roca ci si racconta dei cuccioli di foca che con gli occhioni pieni d’innocenza subiscono l’ignobile mattanza. E infine per addolcir l’inferno mandatoci da Dio su questo mondo ecco apparire il bel faccione tondo del nostro illustre capo di Governo. Stretta la foglia larga la via Se c’è l’inferno e ovunque sia Non c’è alcun rischio che lo si perda Vivendo noi in questa merda. Quando giungerai Non so dirti quando giungerai né se il percorso avrà mai fine e nemmeno se quel tuo andare solcherà terra oppure mare. Non so nemmeno dirti le ferite, né le assenze e le incertezze o quanti amori illuderanno la solitudine del tuo affanno. Non conosco le miglia o il tempo del tuo universo, ma so che tuoè l’istante, insignificante od esuberante. Non so se giungerai le mani sotto un legno marcito dal dolore o tenderai le braccia al cielo per cercare, nell’azzurro, il tuo vangelo. Non so dirti la tua disperazione quanto coraggio infonderà quando, senza più pianto al ciglio saldo, afferrerai l’ultimo tuo appiglio. Non conosco i profumi ed i colori né l’alito carezzevole del vento né il chiarore delle sere d’estate, né altre sere, sognate o sperate. Tutto ciò e tant’altro, ancora non so, ma lo stesso, ti inizio al tuo tragitto col mio seme di padre impaurito, sparso nel mio irto percorso (non ancora finito) |