Chiara
Chiara gettò un'ultima occhiata al telefono ostinatamente muto. Erano
le 20.00. Sollevò il ricevitore e lo pose di lato, sopra il letto.
Sua madre, l'avrebbe sentita il giorno dopo. Preferiva non farle
sapere di quell'appuntamento, non doverle raccontare di quella notte.
Il battello stava mollando gli ormeggi e Chiara, nell'uscire dalla
calle che si apriva sulla fondamentina del pontile, improvvisò
un'inutile corsetta.
Il cielo era bellissimo in quel tramonto di fine estate, intenso e
decadente.
Chiara entrò nell'imbarcadero e si sistemò accanto ad un finestrino
senza il vetro, da dove si vedeva il ponte dell'Accademia.
Era sempre stato così: tutte le volte che si stava per allontanare da
Venezia - fosse per un viaggio, o per un'esperienza che avrebbe
cambiato il suo modo di percepire la realtà - tutte le volte che
affrontava un cambiamento, la città la catturava con il suo fascino
intenso e lei non poteva non vederla bellissima. Mentre una parte del
suo precedente Io cominciava a sfaldarsi e a morire, lei viveva in
uno stato di contemplazione e di struggimento estetico verso la sua
città, che per il resto trovava insopportabile. Le era come
necessario un surplus di emozioni per entrare in sintonia con quelle
pietre, quelle luci, quell'acqua.
Il battello arrivò, mentre la città diventava un po' più chiara
nell'attimo di luce fredda e bianca che precede il buio.
Fu fortunata, mentre saliva si liberò un posto a poppa, dove si
sedette con le spalle appoggiate al vetro e con gli occhi fissi
sull'acqua del Canal Grande che vibrava al di sopra delle pale
dell'elica come fosse uno enorme e spesso vetro opaco che trattenga
bolle d'aria.
Chiara si guardava intorno, in preda all'emozione di sentire che si
stava allontanando dalla realtà di quella estate: l'archivio, il
lavoro alla Biennale, il caldo e i lunghi sonni della notte fitta di
sogni.
Avvertiva che, accettando quell'invito, si sarebbe allontanata da
tutto ciò. Si sentiva emozionata e per questo ancora una volta in
sintonia con la città. Ma sarebbe durato?Altri giorni verranno
Anche quel pomeriggio Anna aveva passeggiato lungo i canali di Cannaregio.
Passare i pomeriggi camminando era diventata la sua valvola di sfogo,
l'unica in quello squarcio di fine estate. Quando decideva di uscire,
pranzava in fretta senza prestare attenzione a ciò che mangiava, tenendo
il piatto tra il tavolo e la tastiera del computer, gli occhi fissi sul
video.
Si era laureata da pochi mesi e aveva accettato di tradurre dall'inglese
alcuni racconti per conto di un'amica che li avrebbe pubblicati a proprio
nome, accordandole metà del compenso che in precedenza aveva pattuito con
l'editore: diciottomila lire a cartella. Anna, in un rapido calcolo, si
era resa conto che l'importo le sarebbe a malapena bastato a pagare un
mese di affitto del costoso monolocale nel quale viveva da poco meno di un
anno.
All'ora di pranzo, mentre sotto il rubinetto la pentola si riempiva
d'acqua, accendeva il computer e caricava il programma di videoscrittura,
appoggiando a un traballante leggio di plastica le correzioni che, durante
la mattinata, aveva apportato all'ultima stampa della traduzione. Di rado
usciva a fare qualche spesa al supermercato vicino a casa: ormai alle sue
necessità provvedeva quasi interamente la madre. Le portava l'acqua
minerale, le lavava e le stirava la biancheria e, qualche volta, veniva
anche a ritirarla quando era sporca. Anna non aveva altro pensiero che il
lavoro intellettuale, non doveva pensare alla cena, né a tutte le altre
cose della vita di tutti i giorni che fanno perdere tempo. Doveva pensare
soltanto a tradurre e a lavorare. Così, ogni giorno verso le dodici, con
un gesto quasi simultaneo, accendeva il computer e i fornelli del gas, e
venti minuti dopo masticava un po' di pasta al burro (fare la salsa per
una persona sola le sembrava troppo lungo e complicato) mentre riportava
le correzioni sul video. Nei giorni in cui non pioveva a dirotto, dopo
aver pranzato, tra le tredici e le quindici, usciva sempre a fare due
passi.
La meta delle sue lunghe passeggiate solitarie era Cannaregio. Una sera
degli ultimi giorni di agosto, dopo sei ore di lavoro davanti al video, si
era trovata per caso in una delle fondamente dietro al Ghetto: era rimasta
affascinata dal silenzio e dall'acqua immobile nei canali. Aveva poi
scoperto che, tra l'una e le tre del pomeriggio, quella zona della città
era completamente vuota, come la Venezia di un tempo, la città irreale di
vent'anni prima. A quell'ora meridiana ancor più che di notte. Bastava
oltrepassare il Ghetto e si entrava in una dimensione di solitudine e di
silenzio quasi totali, si era finalmente lontani dalla marea dei turisti
che, accalcati l'uno all'altro e sempre pronti a spingere, le si
stringevano addosso camminando smarriti nelle strette vie del centro,
nell'itinerario che va da Piazzale Roma al Ponte dei Sospiri, itinerario
in mezzo al quale si trovava il suo monolocale. Per concedersi quella
solitudine irreale doveva affrontare per qualche minuto la ressa,
attraversare mezza città e fare un bel po' di strada a piedi.
Alla fine, approdava alle lunghe fondamente tra il Ghetto e la Laguna e
finiva la sua passeggiata seduta sopra uno di quei muretti di mattoni
rossi che circondavano gli alberi del campo della Chiesa di Sant'Alvise.
Tra le due e le tre del pomeriggio la chiesa e il campo si riflettevano
sul canale dov'era ancorata una barca con una vela dipinta a mano, un gran
sole giallo sullo sfondo di un cielo blu. Lei si sedeva sopra i mattoni,
guardava l'acqua ferma del canale e lasciava che i suoi pensieri venissero
a galla, emergendo nel silenzio con il loro rumore, a scomporre lo
specchio d'acqua della sua coscienza. Stava lì e lentamente la
tranquillità di quel luogo aveva il potere di mettere a tacere i suoi
pensieri, rendendoli innocui e silenziosi, in una lenta messa a fuoco.
Anche quel sabato pomeriggio era tornata in Campo Sant'Alvise. Era una
giornata luminosa, con un sole caldo e l'aria trasparente. Giornate rare a
Venezia, giornate senza quel velo opprimente e umido che di solito
stempera i colori e li rende morbidi e un po' tristi.
Lei si sentiva meno infelice del solito, forse non dipendeva dalla luce,
né dall'ennesimo problema di traduzione che le sembrava di aver risolto
prima dell'ultimo boccone di pasta al burro, prima di uscire di casa. Le
pareva di poter guardare agli ultimi mesi della sua vita senza angoscia,
le pareva di averli alle spalle. Cominciava a considerarli parte del suo
passato.
Rimase per un tempo imprecisato, un'oretta o forse due, sul muretto di
mattoni in cotto, seduta al sole. A tratti toglieva gli occhiali da sole,
che ormai erano diventati per lei l'abituale sipario oltre il quale poter
piangere in pace, quando gliene veniva voglia e senza che gli altri se ne
accorgessero. A tratti scorreva qualche verso di Drummond de Andrade da un
libriccino bianco che in quel periodo portava sempre con sé.
Per tornare a casa allungò la strada; voleva prolungare il senso di
benessere che le dava il silenzio del sestiere deserto.
Nessuno l'aveva cercata.
Appena andata a vivere da sola, aveva acquistato una segreteria
telefonica, immaginando per la sua nuova vita fuori dalla famiglia chissà
quale intensa vita di relazione. Da allora non dimenticava mai di inserire
la segreteria telefonica prima di uscire: una specie di malattia. Le
piaceva ripetere che la segreteria telefonica era il suo sostituto
meccanico. E quando tornava a casa la prima cosa che faceva era
precipitarsi a guardare se era accesa anche la luce rossa che segnalava le
chiamate. In quel caso cominciava uno strano rito: Anna cominciava a
contare fino a dieci, facendo scorrere indietro il nastro magnetico.
Quello ero lo spazio occupato da un messaggio. Se l'aveva chiamata più di
una persona, contava ancora fino a dieci, tante volte quante era
neccessario per trovare l'ultimo messaggio che aveva ricevuto e lasciato
inciso nel nastro, prima di uscire. Poi andava in bagno e si lavava le
mani o faceva altro - tenendo la porta aperta per poter sentire i
messaggi, spesso fatti di silenzio o di assurdi saluti lanciati al vuoto,
seguiti dall'insopportabile registrazione della linea occupata che faceva
tu tu per quasi un minuto.
Quel pomeriggio il rito non si rese necessario: la spia non si era accesa,
nessuno l'aveva cercata. La sua angoscia cresceva in misura inversamente
proporzionale alle chiamate che riceveva. Ma quel pomeriggio era, se non
di buon umore, quasi serena e non si angosciò più di tanto.
Per tutto il pomeriggio, mentre alternativamente teneva lo sguardo sul
canale e sulle parole "L'amore non ha importanza" stampate sul bianco
libretto, e si godeva l'aria trasparente e il sole, si era ripetuta che
doveva cominciare a considerare il passato morto e sepolto. E' inutile, si
era detta, tormentarsi e sentirsi in colpa per una realtà che non c'è più,
che ha preferito annullarsi nella negazione. In fondo non ci sono mie
colpe, pensava, se Della Vigna non mi ama, non c'è niente da amare in
Della Vigna.
Aveva rivisitato ogni momento della loro storia, le era passata tutta
davanti agli occhi come i fotogrammi di un film che conosceva bene a
memoria. Un film al cui montaggio e rimontaggio si dedicava spesso. La
mattina della domenica, per esempio, se ne andava tutta così, con Anna
distesa sul letto che cercava affannosamente di cambiare la sceneggiatura
della sua storia con Della Vigna. Pareva tanto facile: sarebbe bastato
togliere una battuta qua, sfumare un particolare là. E così finiva che
ogni domenica Anna si alzava dopo mezzogiorno, sentendosi sempre più in
colpa. E inoltre rimontare la storia con Della Vigna era non solo
un'esercizio inutile, ma oltremodo doloroso. Le battute da cambiare erano
sempre di Anna, mai di Della Vigna.
Quel pomeriggio il film non aveva subito tentativi di rimontaggio: Anna se
lo era proiettato in modo, come dire, filologico.
Aveva deciso che era stata una storia assurda e non c'era niente da amare
in Dalla Vigna: questo pensiero le aveva dato un almeno po' di sollievo.
Ma ora, tornata a casa, Anna avvertì tutto il peso della sua solitudine.
Accese il computer e tentò di scribacchiare qualcosa: un abbozzo di
riflessione sul sentirsi meglio dopo mesi e mesi di angoscia disperata.
Chiuse in fretta lo schermo nero con qualche riga verde: il tentativo di
fare tautologia sul sentirsi meglio la faceva sentire, se necessario,
anche peggio.
Anna prese le chiavi della casa di sua madre e l'agenda. La madre di Anna
chiudeva un occhio quando arrivava la bolletta del telefono, astronomica
per via delle interurbane che Anna andava a fare da lì - dalla "casa
madre" come amava dire sua madre, paragonando a Camaldoli la casa dalla
quale la figlia se ne era andata sbattendo la porta e gridando "che era
grande e sapeva cavarsela da sola". Anna inoltre sottraeva alla "casa
madre" carta igienica, olio, pasta, dentifricio e faceva incetta di molte
altre utili cose che infilava in una capace borsa da viaggio, insieme alla
biancheria che nella "casa madre" veniva accuratamente lavata e stirata.
Non era la prima volta che Anna cercava Giovanni al giornale, quando sua
madre era fuori Venezia per il fine settimana. Quella sera Giovanni
rispose al primo squillo e Anna non ebbe il tempo per riflettere se fosse
giusto cercarlo, oppure no.
Anna aveva conosciuto Giovanni a Perugia due anni prima, a un concerto
jazz. Per un errore degli organizzatori, Anna e Giovanni avevano lo stesso
posto e lei era seduta sulla sua poltrona, quando lui era arrivato in
teatro dalla sala stampa. Lui aveva cominciato subito a farle la corte ed
era anche riuscito a trascinarla a cena con due colleghi, subito dopo il
concerto. Anna però se l'era squagliata poco prima del dessert. Erano
seguite molte telefonate di Giovanni e, dopo un intermezzo erotico, molte
telefonate di Anna.
Un anno dopo c'era stata la storia con Della Vigna. Ma lei non aveva
completamente perduto i contatti con Giovanni, perché Della Vigna le
faceva paura e perché amava rifugiarsi nel passato. Faceva quindi a
Giovanni lunghe telefonate nelle quali si teneva aggiornata sul progresso
delle sue evoluzioni erotiche con le altre, nella possibilità tutta
teorica di riprendere un giorno il rapporto con lui. Anna e Giovanni
usavano inoltre consolarsi a vicenda delle dure difficoltà della loro vita
amorosa, calibrando l'irriducibile ambiguità normale in questo tipo di
rapporti.
Ciao Giovanni, sono Anna -
Anna - disse Giovanni, facendone vibrare leggermente la nasale, come
accadeva nei rari momenti in cui la tenacia di Anna nel mantenere in piedi
il loro rapporto telefonico finiva per commuoverlo.
Giovanni, ti ho telefonato per chiederti se vuoi che non ti chiami più.
Adesso potrei sopportare questa cosa - disse Anna con voce mesta.
Ma no. Ma no, Anna... Lo sai che io vorrei che tu venissi a Firenze e
stessi con me: sono mesi che te lo dico -
Dici sul serio? -
Io, dico... Non dico che ti voglio sposare. Vorrei provare: e tu, Anna,
cosa dici? -
Lo sai che è quello che ho sempre desiderato... -
Allora ci sentiamo, adesso ti devo lasciare: devo scendere in tipografia.
A presto. -
Anna si trovò seduta sul divano del soggiorno di sua madre con la cornetta
in mano. Le tremava la mano e la cornetta le sbatteva impercettibilmente
contro il mento. Riagganciò e rimase qualche minuto con gli occhi chiusi.
Pensò che c'era qualcosa che non andava: quale film era mai questo?
Qualche mese prima, Della Vigna una notte che aveva bevuto le aveva
chiesto di sposarlo, ma il giorno dopo non se lo ricordava più. Che
battute avrebbe dovuto dire se voleva vivere anche lei la famosa
sceneggiatura con happy end?
Meccanicamente si alzò e andò in bagno. Sullo specchio la sua faccia la
guardava con un sorriso.
Spense la luce e scese le scale per uscire.
Il lunedì dopo l'aria del pomeriggio era già fresca, nonostante fosse
ancora estate.
Anna aspettava al binario uno. L'eurocity Vienna-Roma Termini stava
comparendo all'orrizzonte della stazione di Padova.
Mezz'ora prima Giovanni al telefono aveva tentato inutilmente di
dissuaderla, proponendole di partire a metà settimana.
Anna era sedotta dal pensiero di cambiare binario e di raggiungere il
locale per Venezia, al cinque. Intanto il treno stava arrivando e, mentre
ancora fantasticava sul locale e sul binario cinque, Anna era già seduta
accanto a un finestrino nell'eurocity e il treno passava veloce accanto
alla sagoma rotonda dei Colli Euganei.
Sul cielo sopra la stazione di Santa Maria Novella c'era una falce di luna
nuova. Anna sospirò, osservando la stazione da sotto in su, salendo sulla
Linea tredici. Quel film le pareva di averlo già visto. Stessa città,
stesso autobus: amore romantico o minestra riscaldata? In quale telenovela
si era cacciata?
Quel pomeriggio la nebbia riduceva a meno di tre metri la visibilità.
Seduta sui mattoni rossi in Campo Sant'Alvise, Anna aveva freddo come al
solito. In lontananza ululò una sirena e poi si sentirono i lenti
rintocchi di una campana a martello che, da qualche parte in Laguna,
segnalava un'isola ai battelli. I fanali si accesero: erano solo le
quattro, ma la luce del giorno,, inghiottita dalla nebbia, stava
rapidamente morendo.
Era il penultimo giorno dell'anno. La mattina del giorno prima, l'ultima
domenica dell'anno, Anna aveva provato a telefonare a Giovanni. Voleva
salutarlo ancora una volta.
Mi hai pescato nel sonno, sono solo le undici - aveva detto Giovanni senza
essere scortese.
Ci sono novità? -
Nessuna - aveva risposto Anna mentendo. Perché fargli sapere le novità,
tutte negative, degli ultimi mesi? Perché fargli sapere che non riusciva a
trovare lavoro? Perché fargli sapere del contratto di un milione lordo per
tre mesi di lavoro che le aveva offerto la Curia? Perché fargli sapere che
due giorni prima, per la famosa traduzione, quello squalo della sua amica
si era tenuta due terzi del compenso e le aveva mollato soltanto un
milione?
Volevo solo salutarti, sapere se stai meglio...- disse Anna.
Sì, sto meglio. Grazie. -
Anna, ora ti devo lasciare - Giovanni fece una pausa - ho visite. - Ci si
sente.-
Anna si alzò dal muretto, guardò il canale ancora una volta e fece il
ponte.
Raggiunse l'albergo e chiese al portiere la chiave della sua camera. Salì
le scale fino al quinto piano, dove c'era la stanza che guardava sulla
Laguna. Chiuse la porta, si tolse il cappotto. In una scatola bianca
aperta sul letto c'era un abito da sera di lamè nero. Anna l'aveva
comperato il sabato prima con i soldi della traduzione, dicendo alla
commessa che le serviva per il veglione . Si spogliò e se lo infilò.
Poi tirò fuori una trousse e cominciò lentamente a truccarsi. Rimase a
lungo davanti allo specchio.
Poi prese una polaroid dalla borsa e si fece due scatti. Infilò le due
istantanee nelle buste che erano sul ripiano sotto lo specchio. Si passò
ancora il rossetto scarlatto sulle labbra e fece un sorriso. Quel vestito
le stava proprio bene, sembrava proprio una donna di rango, proprio come
diceva sempre Della Vigna.
Aprì la finestra e sulla Laguna c'era una notte nera di nebbia.
In piedi sul balcone si girò verso lo specchio e salutò con la mano la
giovane donna elegante che da lì la guardava riflessa: "L'ultimo giorno
dell'anno non è l'ultimo giorno del tempo..." le disse piano e fu tutto.
la lira
Venti lire luccicavano dorate sull'asfalto grigio e lucido di pioggia.
Fermò un attimo lo sguardo e fece quasi per chinarsi a raccoglierle -
quando avvertì d'un tratto il rumore che produceva nei suoi pensieri
l'idea dello schianto che, arrivando, avrebbe fatto l'automobile urtando
contro il suo corpo e impercettibilmente si diede il giusto contegno, e -
senza cambiare ritmo al suo passo - attraversò rapida la strada, in modo
che nessuno, oltre a lei, sapesse niente di quell'ennesimo suicidio
meditato, coltivato, mimato e mai raggiunto. |