Poesie di Emiliano D'Angelo


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Comparsa conclusionale
In subordine,
si dica che ho vissuto.
Agitato foglie di platano nel vento.
Intrecciato epigrammi, relazioni.
Portato a spasso un lungo collo
e molti documenti,
che certificano
la prossimità del baratro.

E impersonato, soprattutto, mille ruoli:
causidico,
comparsa,
comprimario,
litisconsorte necessario,
procuratore antistatario;

attore, convenuto,
testimone,
c.t.u.

Ma l’istanza principale, Vostro Onore
-il punto supremo di domanda,
la scaturigine del Tutto-,
a questo punto della causa
e dopo molti sforzi
non la ricordo più.

Salvis juribus

(La cruna)
Sei ritornata dunque,
ad urgere, a bruciare,
dalla cruna dei vent’anni
in cui ti ho ardito frequentare.

Ma deve essere per questo
che ti ho scelto fra le tante:
per la tua natura
di recidivante.

Posologia del dolore
Posologia del dolore
è dirsi mille volte addio per un nonnulla
dopo i pasti, consumati
tra la burrasca e il nulla
per poi riconciliarsi.

Posologia
commemorare ogni anno la Shoah
mentre altri stermini urgono,
negarsi
dispettosocompiaciuti all’aldilà
e ridere di se stessi,
per la boria di dirsi già perduti
e non assolti.

Ma la piena fluviale del dolore
-la dose massima
a rischio esondazione-
è rievocare la perduta intimità della tua stanza
nel centro antico, l’ònfalo
di una città mai stata nostra.

Posologia fu anche questo
soccorrerci animale.
Effetto collaterale
è stato tutto il resto.

Ombre cilentane
Sei una Grecia più greca e più remota,
terra di paesi issati in cielo come lance.

Le tue falesie sono un chiostro di titani
che argina insieme il Tempo e l’urto argenteo
delle onde.

La luce tua –aspide in agguato-
frange il calcare in vapori di vertigine.

E penso alle tue donne
di bistro, argilla viva, di fuliggine.
La brace antica che crepita in quegli occhi
modula ancora un canto muto di janare.

A piedi nudi
attraversano il mio sogno.
 

Meditazione su un tema di Grünewald
Paragonarono il mio sangue a vino,
ma io non fui aspro né fermo:
fui mosto dunque,
fui mosto dolce selvaggio,
tempesta arcana nel tino
che fermentava il fuoco delle parole.

Mi si disse anche pastore,
ma non governai alcun gregge.
Io non ebbi fratelli
che non fossero piaghe del mio corpo,
fibre di un unico nervo
straziato.

Un dio mi scaraventò
nudo e asciutto nel mondo,
come si scaccia l’infermo
che non può guarire.
Per trent’anni fui vuoto di parole:
un ceppo arido e muto,
solitario, imbelle,
conficcato nel nero della terra.

Poi, all’improvviso, l’edera mi avvolse.
All’improvviso, il mosto
fermentò parole.

Per le città fatue, brulicanti,
mi aggiro ancora
circospetto e alieno.
Instillo fame nella vostra inappetenza.
Fertilizzo di lacrime
il deserto che calpesto.

Ma se oggi un naufrago
ti tenderà la mano,
non reclamare un “grazie” che non spetta.
Sono io, lo sai, quel nudo palmo teso.
E sarai tu
che ti starai aggrappando.

Vertigine
La luna di corallo si è levata
sopra il mare del tuo bianco stupore.

Io mi chino per ghermirla
come un fiore
dentro il gorgo del cielo.

L'ospite
Sei bella, e tutto
ti sembra bello
di quello che faccio, scrivo, dico.
Ma io sono solo il dito
che pizzica le corde,
mentre sei tu a vibrare.

Ho visto invece il mio molosso
schiumare rabbia contro la sua ombra,
intimare il chi va là alle stelle:
è il suo destino di mortale quello
di trascinarsi dentro il suo nemico.


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