Racconti di Fata Morgana


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I pensieri di Amelia
C'era una volta una bambina che si chiamava Amelia. Viveva vicino al mare in un grazioso paesino di pescatori. Amelia amava molto il mare e le piaceva osservarlo in silenzio, seduta sulla spiaggia dove rimaneva tutto il tempo che le era possibile.
Guardava il mare e nella sua mente si affacciava una moltitudine di pensieri con i quali stava volentieri in compagnia perché erano pensieri di pace e serenità.
Un pomeriggio d'estate, mentre i suoi occhi erano puntati verso il cielo, un enorme gabbiano grigio la sorvolò vicino al capo e…zac, le rubò i pensieri.
Amelia lo guardò allontanarsi disperata e iniziò a piangere.
Dopo qualche minuto sentì accanto a lei un soffio di vento e all'improvviso si trovò dinanzi una bellissima fata che le sorrideva.
- Perché piangi bella bambina? - le chiese la fata.
Si può immaginare lo stupore e la meraviglia di Amelia di fronte a quella visione. La fata se ne accorse e la incoraggiò così:
- non spaventarti, io sono la fata del mare e passavo di qui per cercare la mia collana di conchiglie preferita che ho smarrito qualche giorno fa. Dunque non vuoi proprio dirmi qual è la ragione delle tue lacrime? -
Allora Amelia riavutasi dalla sorpresa rispose con la voce rotta dai singhiozzi:
- un grande gabbiano mi ha rubato i pensieri mentre ero intenta ad ammirare il cielo azzurro come il mare -.
- Oh, questo è proprio un brutto guaio - rispose la fata - ma io voglio aiutarti. Conosco il luogo dove si riuniscono i gabbiani per i loro convegni vespertini. Ma come farò a capire qual è, fra i tanti, quello che ti ha rubato i pensieri? Dovresti descrivermelo un po'.
- Ho visto solamente che era più scuro degli altri ed aveva le zampe blu, anziché gialle come quelle di tutti i gabbiani - rispose Amelia.
Allora la fata promise ad Amelia che avrebbe cercato il gabbiano ladro di pensieri e che sarebbe tornata il giorno successivo, nello stesso posto sulla spiaggia, all'ora in cui si erano conosciute.
Amelia si sentì un po' rasserenata da questo stranissimo incontro e ringraziò la fata del mare.
Il giorno dopo Amelia non mancò all'appuntamento con la fatina, la quale si presentò col solito sorriso luminoso e le mani che tenevano stretto uno scrigno a forma di conchiglia.
Amelia la salutò con gioia e speranza. Si sedettero ambedue su uno scoglio che stava li vicino e la fata iniziò il suo racconto.
- Devi sapere - disse - che non ho faticato molto a rintracciare il "tuo" gabbiano in quanto le sue zampe blu spiccavano fra tutte quelle gialle dei suoi compagni. Ma oltre alle zampe blu aveva sul capo una coroncina luccicante di pietre preziose dai colori dell'arcobaleno. Egli se ne stava in disparte e non partecipava alla conversazione con i suoi compagni, allora mi sono avvicinata e, siccome io so parlare la lingua dei gabbiani, gli ho chiesto come mai aveva le zampe blu e la coroncina di perle variopinte sul capo. Notai nei suoi occhi una luce riconoscente ed egli incominciò a raccontarmi la sua storia:
- gentile fata, io sono vittima di un incantesimo in quanto sono un re di un regno lontano ed ero sempre impegnato in guerre e uccisioni finché il mio cuore mano a mano che il tempo passava diventava sempre più insensibile al dolore che provocavo ai miei simili. Ma un giorno toccò a me perdere una guerra e fui imprigionato in un maestoso castello il cui re aveva dei poteri speciali. Lo implorai insistentemente di lasciarmi la vita e la libertà. Questo re mi rispose che avrei avuto la vita e la libertà, ma sarei stato trasformato in un gabbiano. Inoltre mi disse che se volevo ridiventare umano avrei dovuto portargli i più bei pensieri che esistessero al mondo. Così, dopo tanto vagare per i cieli, quando ero ormai sfiduciato e rassegnato al mio destino, un pomeriggio vidi sulla spiaggia in riva al mare una bellissima bambina che guardava estasiata il cielo e sopra la sua testa dentro una piccola nuvola bianca brillavano i pensieri più belli del mondo. Senza esitazione li carpii in fretta e questi si tramutarono subito nella corona che mi vedi sul capo, a conferma che erano proprio i più bei pensieri del mondo che mi avrebbero potuto liberare dall'incantesimo. Mi fermai in questo luogo per riposarmi un po' dal mio vagabondare e assaporare la mia gioia, prima di intraprendere il viaggio verso il regno del re-mago. Ma quando ho cercato di spiccare il volo le mie ali non riuscivano più ad aprirsi e così sono disperato. -
- Le tue ali non si aprono - dissi al gabbiano - perché la bambina alla quale hai rubato i pensieri ora è triste e piange, perciò ti chiedo di darmi la coroncina dei pensieri affinché io possa restituirgliela.-
- Il gabbiano sulle prime si rifiutò, ma poi, consapevole che in ogni caso non avrebbe potuto volare, mi permise di toglierla dal capo ed eccola qui.-
La fata aprì lo scrigno a forma di conchiglia ed apparve la coroncina luccicante di perle dai colori dell'arcobaleno.
- Ecco i tuoi pensieri, Amelia - disse la fata - il gabbiano te li restituisce e ti chiede scusa per averteli rubati.-
- Ma lui sarà sempre vittima dell'incantesimo - rispose Amelia - non voglio che la sua vita sia così triste a causa mia.-
A queste parole la coroncina cominciò a brillare di una luce accecante e lentamente nello scrigno ne apparve un'altra uguale identica.
La fata capì immediatamente cosa era successo e, presa la seconda coroncina, si avviò in cerca del gabbiano dalle zampe blu. Lo ritrovò dove l'aveva lasciato e gli posò la coroncina luminosa sul capo.
- Ora noi due voleremo insieme da Amelia - gli disse.
In poco tempo la raggiunsero. Quando Amelia vide che il gabbiano aveva sul capo la coroncina uguale alla sua ne fu molto felice. Il gabbiano dalle zampe blu sostò per qualche attimo sullo scoglio vicino e poi, emettendo un forte strillo e sbattendo le ali, si levò nel cielo seguito dagli sguardi della fata e di Amelia finché divenne un piccolo puntino nell'azzurro infinito.
Amelia si augurò che il gabbiano dalle zampe blu arrivasse sano e salvo dal re-mago con la coroncina dei pensieri, al fine di poter spezzare l'incantesimo e ritornare un essere umano.
In pochi giorni le erano accadute cose straordinarie. Si guardò attorno. La fata era scomparsa come era venuta, allora Amelia cercò la coroncina, ma anche questa era sparita. Però sentiva che nella testa i suoi bei pensieri erano tornati al loro posto felici e contenti.
Passarono gli anni. Amelia era diventata una bella ragazza e tutti in paese le volevano bene. Non aveva perso l'abitudine, però, di andare alla spiaggia per farsi incantare dal mare.
Fu così che, durante uno di quei momenti, scorse sulla rena una grossa bottiglia. Incuriosita, si affrettò a raccoglierla e, vedendo che conteneva un biglietto, tolse il tappo e lo estrasse. Era un foglio bianco sul quale erano scritte con lettere d'oro queste parole:
- Grazie Amelia, i tuoi bei pensieri mi hanno salvato la vita. Li sto portando in giro per il mondo perché voglio donarli a tutti i re, affinché nei loro regni torni la pace, l'amore e la felicità, come è successo nel mio, dopo averti incontrata .-
Amelia alzò lo sguardo e vide una grande nave bianca che si muoveva lentamente in alto mare.
Rimise il biglietto nella bottiglia e, colma di gioia, s'incamminò verso casa, mentre i gabbiani l'accompagnavano, alti, danzando.


La gioia di vivere
…"La madre, oltre che una donna pia e buona, era una convinta vegetariana e, per togliere al figlio il desiderio della carne, lo condusse a vedere l'interno di un mattatoio, come ricorda Alphonse de Lamartine nelle "Confidenze":
" Una profonda pietà mista d'orrore mi prese e domandai d'andarmene via. L'idea di quelle scene orribili e disgustose, preliminari obbligati dei piatti di carne che vedevo serviti a tavola, mi fece prendere l'alimentazione animale in orrore... Io non vissi fino a dodici anni che di pane, di latticini, d'erbaggi e di frutta. La mia salute non ne fu meno forte, né il mio sviluppo meno rapido, e forse dovetti a questo regime la purezza dei lineamenti, la sensibilità squisita d'impressioni e la dolcezza serena di umore e di carattere che io conservai sino a quell'epoca. "
                                                                                        .-.-.

C'è un'immagine, fra le innumerevoli che percorrono la mia mente, che mi sorprende talvolta, inaspettatamente, nei momenti più imprevedibili.
E' la visione che ebbi un pomeriggio di prima estate durante una passeggiata su un altipiano dove m'imbattei in una malga dal tipico aspetto rustico, ma ordinata e pulita.
Non ero avvezza, fin da piccola, a vedere da vicino gli animali da allevamento e quando mi capitava l'occasione di trovarmeli davanti è sempre stato per me un momento epifanico.
Le mucche, ad esempio, con i loro tondi corpi paciosi, macchiati di quei colori caldi e contrastanti, con quei musi dagli occhi buoni e innocenti mi ispiravano sempre un misto di gioia e tristezza assieme.
La prima volta che vidi un gregge ero già in là con gli anni e non so descrivere l'emozione, la meraviglia alla vista di quelle bestiole che si muovevano fianco a fianco in un cammino di reciproca innata solidarietà; e come dimenticare lo struggente belato delle madri che richiamavano a sé gli agnellini? Un presepio vivente che mi riportava all'infanzia lontana.
Quel pomeriggio, dunque, capitai a quella malga accanto alla quale stava una bassa costruzione.
Mi accostai incuriosita allo steccato che la circondava e fui accolta da un piccolo maialino che mi venne a salutare sfregando sul recinto il suo musetto rosa dagli occhietti gonfi, a mandorla, nella speranza, io supposi, di ricevere qualcosa da mangiare; ma, sfortunatamente, non avevo niente con me e mi limitai a guardarlo con un misto di compassione e stupore.
Nell'angolo del cortile notai inoltre tre o quattro maiali accovacciati l'uno accanto all'altro quasi abbracciati, che sembravano dormire, come vinti da una grande spossatezza e indifferenti al mondo.
Non potei non pensare alla loro sorte. E fui pervasa da una subitanea malinconia.
Voi dite che sono patetica? Può essere, ma dirò di più: improvvisamente dall'oscurità di un'apertura della casetta sbucò fuori un maialone roseo e rubicondo che si mise a saltellare come in preda ad una gioia frenetica. Cominciò ad urtare col muso i maiali addormentati come volesse svegliarli per farli partecipi della sua dirompente allegrezza. Ma i suoi tentativi di comunicare la sua letizia cadevano nel rifiuto totale da parte di questi ultimi, ché proprio non volevano saperne delle sue avances. Lo guardavo ballonzolare imperterrito, mentre i dormienti sembravano ammonirlo con la loro immobilità. Il messaggio mi sembrò chiaro: "non capisci, ingenuo, che per noi c'è poco da stare allegri?"
Ma lui, testardo, continuava a "ballare" emettendo gioiosi grugniti.
Mi discostai per entrare nella malga al cui soffitto stavano appesi dei salumi di varia grossezza e, alla loro vista, sentii dentro di me un lamento che saliva strisciando da non so dove.
Bevvi un caffè e me ne tornai a casa con una pezza di formaggio.
Forse vi farò sorridere ancora, ma mi capita ogni tanto, magari quando sono al supermercato o sto preparando il pranzo, di rivedere quel giocondo maiale saltellare goffamente con quel suo corpo buffo, roseo e pesante, voglioso di partecipare ai suoi compagni la sua gioia di vivere, ignaro del perché, la sua gioia, veniva così snobbata e incompresa dai suoi simili.

La strega
Le urla si confondevano con il crepitio del fuoco e il rumore della folla,  finché il fumo soffocò il respiro e la vittima reclinò il capo.
Le fiamme si levavano alte nel cielo come se volessero penetrarne il mistero, ma la sofferenza era finita;  la tortura era stata quasi peggiore del rogo.  Ed ora lei vedeva dall’alto quel mucchietto di ceneri fumanti.  Le guardò furtivamente perché un vento tiepido la stava portando via, chissà dove. Forse nel paese delle streghe. Perché, lei, era una strega.
Gliel’avevano detto e urlato in mille modi.  Lei non capiva.  Aveva solo portato al castello un infuso d’erbe per calmare la febbre del figlio del conte. Anche suo figlio ne aveva avuto beneficio ed ora l’accusavano di essere una strega e di avere intrallazzi col diavolo. 
Non capiva e cercava di svincolarsi dai lacci che le facevano sanguinare le membra. Il dolore era insopportabile. Avrebbe fatto e detto qualsiasi cosa, per farlo cessare.
 “Confessi?”  – urlava quell’uomo vestito di nero.
 “Sì”  – rispondeva lei, stremata, con un soffio di voce.
 “Sentite?” – urlava l’uomo vestito di nero – “Ha confessato. Deve morire!”.
 Dopo il rogo della strega, quella sera, il giudice e la corte cenarono come al solito nella stanza riccamente addobbata,  ma il giudice inquisitore, stranamente, non aveva molto appetito. Sentiva un peso sul cuore.
 “Anche per oggi, il nostro dovere è compiuto!”  – disse un membro della corte. – “Il diavolo è stato sconfitto!”.
 Il giudice Inquisitore  sentiva un cerchio alla testa e riuscì solo ad annuire leggermente, poi si spostò tutto in avanti e il suo corpo pesante si accasciò con un tonfo sul piatto facendo schizzare il contenuto sui visi circostanti.
 Si alzarono tutti inorriditi, e fu chiamato immediatamente il medico di corte che ne accertò il decesso per arresto cardiaco.  Lo spirito del giudice inquisitore si stava allontanando dalla stanza volgendo lo sguardo incredulo al suo corpo riverso, e, quando fu all’esterno del castello, sentì un vento caldo che lo sospingeva senza che potesse opporre resistenza, finché scorse una processione di  anime che procedeva lentamente.  L’ultima della fila, gli parve di riconoscerla. Certo. Era lei, la strega. 
 Non poté fare a meno di incrociare il suo sguardo evanescente nel quale fluttuava un lago di serenità.  Lui, invece, sentiva sempre quel peso sul cuore e, nei suoi occhi velati, lei poté intravvedere un lampo di terrore.
 Poi la processione si divise in due diverse direzioni.
 L’anima del giudice inquisitore e quella della strega non si rividero mai più.

I fiori della felicità
C'era una volta un bosco che non era un bosco qualsiasi, ma un bosco nel quale gli alberi, i sassi e gli animali parlavano come gli esseri umani. C'è anche da dire, però, che questo avveniva solamente di notte. Di giorno era un bosco come tanti altri.
In quel bosco nessuno ci aveva mai messo piede in quanto i suoi confini erano segnati da spessi rovi spinosi che scoraggiavano chiunque ad avvicinarsi.
Nel paese, in fondo alla valle, si diceva che in quel bosco crescesse il fiore della felicità e che chiunque fosse riuscito a toccare tale fiore sarebbe stato felice per tutta la vita. Come si potrà immaginare tantissime persone si erano messe in cammino per entrare in quel bosco in cerca di quel fiore speciale. Le persone arrivavano piene di entusiasmo e portavano con sé anche delle falci e delle accette per abbattere i rovi poichè sapevano quanto erano spessi, intricati e pungenti.
Il fatto è che nessuno riuscì mai ad aprirsi un varco per entrare in quel bosco poichè nel medesimo istante in cui il rovo veniva violentemente reciso, un altro più forte ed irto di spine si ergeva davanti a colui che tentava di passare.
Un giorno arrivò da quelle parti un giovane che amava molto passeggiare in mezzo ai boschi ed era di temperamento mite e molto curioso. Notò quei rovi spessi ed intricati e cercò fra di loro un passaggio costeggiando quel luogo selvatico lungo il sentiero che lo circondava. Cammina e cammina, il tempo passava, ma il giovane non trovò proprio nessun varco per poter entrare in quel luogo che stava diventando per lui assai misterioso. Si accorse che il sole stava tramontando e la notte cominciava a stendere il suo scuro mantello sopra ogni cosa. Pensò che doveva tornare sui suoi passi e correre velocemente verso il paese. Per fortuna era una notte limpida e serena illuminata dalla luna piena che, come una regina, troneggiava nel cielo stellato.
Mentre stava accelerando il passo girò il capo nuovamente verso quel bosco inaccessibile e gli parve di udire delle voci. Si fermò di botto e rimase in ascolto.
- Felicità, ora canteremo per te - proferì una vocina lieve lieve.
- C'è la luna, possiamo starcene all'aperto - dissero altre voci.
Il nostro amico, che si chiamava Otto, non credeva alle proprie orecchie e si alzò sulle punte dei piedi allungando anche il collo per vedere da dove provenivano quelle voci. In quel momento perse leggermente l'equilibrio e, nel ricomporsi, provocò un piccolo rumore sul sentiero sassoso.
- C'è qualcuno là fuori - sentì dire dall'interno dei rovi.
Siccome Otto era anche un giovane coraggioso, disse:
- Chi si nasconde fra i rovi? Non fatemi del male perché ho con me il fucile e sarà peggio per voi -
- Oh, non temere - rispose una vocina squillante - noi non facciamo male a nessuno, caso mai sono gli umani che spesso fanno del male a noi -.
- Gli umani? - chiese Otto.
- Si, gli umani, vogliono entrare nel nostro bosco e ci fanno tanto male con le loro falci ed accette. -
- Ma voi chi siete? - chiese il nostro amico.
- Noi siamo quello che vedi davanti ai tuoi occhi - risposero. Allora Otto sgranò i suoi occhioni scuri e vide fra i rovi un'infinità di occhietti vispi puntati su di lui.
- Io non capisco chi voi siate - disse - posso entrare per vedere meglio? - chiese.
- Solo se poggi il fucile per terra e liberi le mani da ogni cosa - risposero.
Allora Otto poggiò il fucile per terra e cominciò a spostare delicatamente i rami spinosi, facendosi largo, finchè giunse davanti ad una piccola radura. Si guardò intorno, ma non vide anima viva, solo quegli occhietti vispi che spuntavano da ogni tronco, ramo e sasso là intorno.
All'improvviso si levò nell'aria un coro che intonò una dolcissima canzone mentre una brezza leggera muoveva i fili d'erba e le fronde degli alberi come in una danza.
In quel momento il prato fu illuminato da una miriade di fiori bianchi che luccicavano ai raggi della luna.
Le voci del coro si smorzarono lentamente e intorno si levò un leggero brusio.
Allora, una vecchia quercia che stava di fronte al nostro amico, così parlò:
- Caro giovane Otto, questa notte hai visto dove vivono i fiori della felicità. Sono gelosamente custoditi in questo bosco perché non vogliamo che vengano sciupati nel mondo, là fuori. Ora, se tu ne coglierai uno, potrai essere felice per tutta la vita e così pure i tuoi figli e i figli dei tuoi figli, ma ad una condizione: dovrai sempre seguire la via del bene e fuggire dai sentieri del male. La via del bene è quella che ti indicherà il tuo cuore, quella del male quella che ti indicherà il tuo egoismo. Potrai permettere di toccare il fiore della felicità a tutte le persone che lo desiderano - continuò la vecchia quercia - ma dovrai precisare che l'effetto della felicità svanirà se non osservano ciò che ti ho appena detto -.
Il giovane Otto allora si chinò e raccolse uno di quei fiori bianchi:
- Farò come dici tu, lo prometto, grazie - disse.
Nel frattempo stava ormai albeggiando e Otto sentì il desiderio di tornare alla sua casa; si girò per vedere se c'era ancora il piccolo varco fra i rovi e, riconosciutolo, si avviò con passo deciso. Gli occhietti erano spariti e una brezza leggera lo accompagnava fin sull'orlo della stradina.
Era fuori. E aveva in mano il fiore della felicità.
Giunto al paese raccontò la sua avventura, ma non tutti gli credettero.
Taluni però vollero toccare quel fiore e promisero di osservare le raccomandazioni che il giovane aveva ricevuto dalla vecchia quercia.
E si sa che furono loro, poi, ad assaporare il raro e squisito sapore della felicità.

Milù
Il suo nome è Milù. Gliel'ha appioppato mia figlia ed è stato subito approvato all'unanimità. Naturalmente poi ci sbizzariamo con i soprannomi che ci vengono al momento, a seconda della situazione. Perciò è facile che si senta dare della befana, della mucimuci, della diavolaccia, della despota, della streghetta e via dicendo.
Lei è praticamente l'eredità che ci ha lasciato una vecchietta che abitava nella casa accanto alla nostra.
Ce la siamo trovata nel cortile e, sembrandoci un po' spaesata e affamata, eccoci pronti a mettere i piattini di cibo accanto alla porta d'entrata. Non si lasciava però avvicinare. Il piatto veniva svuotato solo durante la nostra assenza. Ma ci accorgemmo che non era solo Milù a beneficiare delle prelibatezze! Si era creato un viavai di animaletti vari che non disdegnavano i bocconcini colà serviti.
Ed allora non restava altro da fare che cercare di convincere quell'esserino dal pelo scuro striato di grigio e dal musetto accattivante a gustare i suoi pranzetti nel nostro appartamento.
- Solo per mangiare - fu detto al capofamiglia che era leggermente contrariato dalla cosa.
E così mia figlia sfoderò tutte le sue arti magiche e convinse Milù a salire.
La gattina era molto sospettosa e titubante, in verità. Ma tanto facemmo e tanto dicemmo (parlo delle donne della famiglia, naturalmente) che alla fine si convinse che poteva proprio fidarsi ad entrare.
E, passato il primo momento di titubanza, si premurò di mostrarci tutte le sue doti di felino verace.
Il nostro divano ne sa qualcosa delle sue unghie, infatti! GRRRRRRR!
Ma ormai era fatta. Ora comanda lei. Se la mandiamo fuori a fare i suoi bisognini, passati dieci minuti, si mette sotto la finestra ad innalzare i suoi canti come un menestrello innamorato finchè non scendiamo puntualmente a farla rientrare.
E tutto l'inverno così. Tutte le sedie sono sue, in particolare quelle con i cuscini.
Entrare nelle camere da letto era il primo divieto insegnatole fin dall'arrivo. Finchè un giorno è stata dimenticata aperta la porta della stanza di mia figlia la quale si è trovata Milù comodamente distesa, felice e beata, sul suo letto. Al suo "cooooosa?!" Milù, senza punto scomodarsi, ha risposto con un "MIAO" molto eloquente che tradotto significava "finalmente ho trovato il posto che fa al caso mio e dovresti lasciarmi in pace".
Speravamo nella bella stagione. Al primo sole sicuramente Milù avrebbe sentito l'esigenza di tornarsene all'aria aperta.
Le belle giornate sono arrivate, gli uccellini cinguettano felici e la natura sbadiglia dolcemente prima di svegliarsi completamente, ma lei, la nostra gatta, ormai non vuol più saperne del mondo selvaggio. Le piacciono il nostro divano, le nostre sedie, fa la corte al letto di mia figlia e, soprattutto, ama le nostre carezze. Ed anche adesso, mentre sto scrivendo, lei si è tranquillamente sistemata sulle mie ginocchia e, dopo avermi estasiata con le sue fusa, sbircia sorniona il movimento della penna.
Forse sta sognando di diventare una scrittrice!

Il castello incantato
(Racconto breve ispirato da una visita ai castelli Linderhof e Neuschwanstein di Ludwig II di Baviera)

Il momento era propizio.
Il grande cigno di porcellana addormentato sul tavolo dorato iniziò lentamente a rialzare il capo e, con un balzo leggero, fu sul pavimento della stanza del Re. Guardò la sua immagine riflessa nel grande specchio e sospirò.
In quel momento il Re uscì dal quadro che si trovava sulla parete a lato del suo ricco letto monumentale.
Si avvicinò raggiante al cigno e lo baciò sul capo accarezzandone il lungo collo bianco.
In quell'istante il cigno iniziò a brillare di una luce accecante che lentamente lo catturò lasciando il posto ad una bellissima figura di giovane uomo che teneva un violino appoggiato sulla spalla.
- Grazie - sussurrò il Re.
Un crescendo di voci iniziò ad espandersi per la stanza.
- Ora possiamo uscire, venite anche voi - disse il Re.
Si incamminarono, il Re e il musicista, verso l'uscita del castello. La scia di quelle voci li seguiva.
La magia della notte li accolse. Una splendida luna piena illuminava il silvestre paesaggio notturno dove spiccava il turrito castello addormentato.
Non c'erano mai stati soldati in quel castello e nemmeno prigioni.
Il Re procedeva lentamente, seguito dall'elegante giovane, dirigendosi verso un lago argentato nel quale la luna si specchiava civettuola.
Vicino alla riva era ad attenderli una splendida barca a forma di conchiglia sulla quale presero posto il Re e il giovane musicista. Quando si furono accomodati, la barca iniziò a muoversi lentamente scivolando sulle acque chete del lago.
- Ora, puoi iniziare - disse il Re, rivolgendosi al suo vicino.
Questi si alzò in piedi e, poggiato nuovamente il violino sulla spalla, iniziò a suonare una musica dolcissima. Il Re chiuse gli occhi ascoltando estasiato.
Quella musica irresistibile svegliò le fate e i folletti dei boschi circostanti che accorsero sul luogo incuriositi.
Lo spettacolo che si presentò ai loro occhi li turbò piacevolmente.
Dalla barca a forma di conchiglia giungeva loro quella musica melodiosa al suono della quale delle figure umane evanescenti danzavano, tenendosi per mano, cingendo la superficie del lago e digradando nei prati.
- Ogni estate, nelle limpide notti di luna piena, il Re organizza per loro questa festa - disse il Principe degli Elfi.
- E' grazie alla loro arte e al loro lavoro che esiste il magnifico castello con le sue meravigliose fontane e i variopinti giardini - asserì la Regina delle Fate.
Fate e folletti si unirono quindi alle danze in un baluginante luccichio che si confondeva con quello delle stelle.
Sazia di tale spettacolo, la notte si strinse nel suo scuro mantello e scivolò dietro i monti dove l' alba l'attendeva. Questa fece appena in tempo a udire le ultime note di quella musica divina mentre ogni figura dileguava veloce verso il castello. Il Re tornò nel quadro, il cigno sul tavolo dorato ed ogni altra figura si nascose rimpicciolendosi dietro i riccioli d'oro delle cornici, dietro gli specchi, le finissime porcellane, le cristallerie, gli arazzi, i dipinti, i legni finemente lavorati e tutto ciò che impreziosiva ogni angolo di quel luogo incantato.
Il sole era ritornato sorridente sul suo scranno dorato a inondare il mondo di luce e di vita.
I primi visitatori cominciarono a giungere, ansiosi di vedere...
Ogni giorno arrivava tantissima gente da tutto il mondo perché quel castello era opera di rara bellezza in cui solo l'arte regnava sovrana.
E le fate e gli elfi sapevano chi stava nascosto fra le sue meraviglie.

Libertà
Anche quel giorno estivo stava giungendo al termine.
La brezza pomeridiana si stava trasformando gradatamente in un vento sempre più insistente che si divertiva a giocare con tutto ciò che gli capitava a tiro.
Il pino marittimo, alquanto inclinato, come la schiena di un vecchio acciaccato, era l'unico a dare il benvenuto a quel ventaccio che non preannunciava niente di buono.
Egli accoglieva il vento sempre con favore perché, il suo arrivo, ravvivava in lui una segreta speranza, un suo grande antico sogno, fin da quando era nato, lì sul viale in riva al mare.
Ormai conosceva a memoria tutti i discorsi dei passanti e la solita domanda che i bambini rivolgevano ai genitori: - come mai quel pino ha il tronco così inclinato, così storto? -
- E' a causa del vento - rispondevano gli adulti.
E il pino li guardava mentre correvano verso la spiaggia, seguiva l'andirivieni delle persone e spesso era contento di poter essere utile a qualcuno che cercava momentaneo ristoro accanto alla sua ombra.
Quella sera sembrava che il vento facesse proprio sul serio. Aveva rovesciato gli ombrelloni e tutti erano impegnati nel mettersi al sicuro. Nubi minacciose avanzavano scure e gonfie di pioggia dalla linea plumbea del mare le cui onde erano sempre più alte e fragorose.
Il pino, anche questa volta, si lasciò sbeffeggiare piegandosi sempre di più verso il basso. Tutti correvano, come al solito, correvano e lui…avrebbe voluto anche lui…. Un bagliore attraversò il cielo seguito dall'enorme fragore di un tuono e grossi goccioloni cominciarono a cadere con sempre maggiore insistenza e intensità. Il vento sembrava sfogare una arcana rabbia repressa e si abbatteva impietoso su ogni cosa. Il pino marittimo si contorceva, piegandosi sempre di più e, quasi inginocchiato, sfiorando l'asfalto, cominciò a pregare così':
- vieni ventaccio, vieni, forza, forza, insisti, più forte, dai, sradica, sradica queste radici, ti prego…aiutami…-
Il vento sembrava aver capito e cominciò a ululare come non aveva fatto mai, avventandosi con tutta la sua energia su quel pino marittimo la cui maestosa e folta chioma era ormai tutta scomposta e spettinata. Le raffiche erano una più forte dell'altra finchè ebbero la meglio sulle radici che, non riuscendo più a resistere, cominciarono ad allentare la loro presa nella terra.
L'albero ebbe la certezza che qualcosa di importante stava accadendo in lui. Era una strana sensazione di leggerezza…. Si sentì all'improvviso librare nell'aria.
- Ecco fatto - brontolò il vento. - Ora sei libero -
- Portami lontano - lo supplicò il pino marittimo. Allora il vento radunò tutte le forze rimastigli e lo sollevò spingendolo in alto, lungo la spiaggia. Il pino vide le sue radici danzare nell'aria e si sentì pervadere da una felicità mai provata - E' meraviglioso - si disse - sono libero, sto volando, grazie, vento -.
Questi si stava chetando e rispose: - ora devo lasciarti, per oggi la mia parte è finita, non posso far altro che augurarti buona fortuna -.
Il pino cadde con un tonfo sulla sabbia e guardò le sue radici rivolte verso il cielo.
Il mattino seguente accorsero in tanti a vedere il grande pino divelto. - Ma quante gambe ha! - disse un bimbo alla mamma.
- Si, ma purtroppo non può camminare - lei rispose.
All'udire queste parole il pino tornò a rivolgere lo sguardo alle sue radici. Esse si tendevano verso l'alto, inondate dal sole.
- Non angustiatevi mie radici - sussurrò il pino - non potrete camminare, ma voi sole sapete la gioia immensa che provaste nel volare, libere, sopra il mare e la felicità che provate nell'assaporare il calore dei baci del sole - .
Poi, socchiuse i suoi grandi occhi verdi e i passanti non poterono mai vedere il suo sorriso, mentre la brezza mattutina lo accarezzava, indugiando a sussurrare incomprensibili parole fra la la sua folta chioma adagiata sulla sabbia del mare.


"A volte penso che il paradiso debba essere un continuo infinito leggere"
(Virginia Woolf)

Il cugino
Il cugino, quel giorno, si sentiva soddisfatto di aver preso finalmente la decisione.
Sarebbe partito per nuovi mondi in cerca di quel qualcosa da scoprire di cui sentiva profondamente l'esigenza.
- Questo mondo mi sta stretto - diceva spesso a mia zia.
Lui era un eterno studente. Faceva lavori saltuari per non gravare troppo finanziariamente sulla famiglia.
- Più leggo e più studio, più capisco quanto ho da imparare - diceva.
Tempo addietro aveva voluto che gli insegnassi la stenografia per poter prendere appunti veloci alle lezioni. Mi sentivo orgogliosa di sapere qualcosa che lui non conoscesse.
Lui aveva qualche anno più di me e ci vedevamo comunque raramente in quanto viveva nella città in cui frequentava l'università.
Era alto, snello, biondo con folta barba e con due occhi azzurri incorniciati da un paio di occhiali dalla montatura nera che accentuavano l'aspetto da intellettuale.
Aveva modi pacati che trasmettevano serenità.
Era anche un bravo sportivo. Le mie amiche dicevano che nuotava con l'eleganza di un delfino.
Anche quel sabato era venuto a trovare i miei zii che aveva fatto partecipi della sua decisione di lasciare l'Italia.
Era una calda giornata d'agosto.
La bicicletta posteggiata sotto la scala di casa era un invito irrinunciabile.
Lui non aveva mai voluto fare la patente e viaggiava sempre con i mezzi pubblici; quando veniva in paese lo vedevamo spesso aggirarsi elegantemente per le stradine sulla sua affezionata bici.
Salutò la mamma con un "a dopo" e si avviò per lo stradone asfaltato che, attraverso le campagne, congiungeva il paese più vicino.
Era bello pedalare sentendosi immersi in quel paesaggio che profumava di orgoglio per la sua matura e luminosa bellezza.
L'estate è la stagione della pienezza. Tutto è chiaro, tutto è sbocciato, tutto risplende, tutto vive all'unisono.
Quel sabato pomeriggio mi sentivo un po' strana e non capivo perché. Vivevo in una specie di sospensione, come se fossi in attesa di qualcosa che doveva succedere. E successe.
La notizia ci raggiunse a pomeriggio inoltrato. Il cugino era stato investito da un'automobile mentre pedalava tranquillo sullo stradone. Aveva sbattuto la testa sul cofano. Era grave.
Iniziò il viavai dall'ospedale alla casa degli zii.
Nella cucina di questi, sotto l'immagine della Madonna, un lume rimaneva costantemente acceso.
"Chiedete e vi sarà dato". La richiesta era pressante. Non potevano, lassù, lasciarlo morire, a 30 anni.
Il cugino morì dopo 15 giorni di coma. L'immagine e il lume sparirono per sempre dalla casa dei miei zii.
Io adoro l'estate, ma è forse da allora che mi pare di sentire in essa il serpeggiare di un occulto, imperscrutabile inganno


"La foresta è uno stato d'animo. I poeti sanno tutto ciò."
(Gaston Bachelard)

La preda
- Nessuno mi crederebbe, mio caro Fulmine - disse il cacciatore guardando il suo cane che, scodinzolando, ricambiava lo sguardo con occhi umidi di devozione.
Caricò in spalla il fucile e s'incamminò verso casa. La musicalità dell'acqua del ruscello faceva da sottofondo ai consueti rumori del bosco e accompagnava il suo passo appesantito dall'equipaggiamento di caccia.
Quello che aveva visto quel mattino occupava interamente la sua mente.
Non poteva pensare ad altro.
Si voltò ancora una volta a guardare il ciglio di quel burrone. Cercò di dare un ordine cronologico agli eventi accaduti in così poco tempo.
- Tu non hai colpa Fulmine - disse. - Tu non potevi sapere. Hai fatto solo il tuo dovere: stanare la preda affinchè io la potessi colpire -.
Si ricordò del cane che correva e si fermava ad intermittenza. Poi aveva sentito un frullo d'ali sopra la testa ed immediatamente aveva fatto fuoco. Era seguito un silenzio di ghiaccio. Sembrava che il bosco avesse smesso di respirare.
Il cane si era portato festosamente sul ciglio del burrone.
- Ahi, laggiù non la potrai recuperare la tua preda - gli aveva gridato. Poi lo aveva raggiunto e si era sporto pure lui a guardare. Ciò che si presentò ai suoi occhi gli aveva procurato una sensazione di stupore e di angoscia insieme. Il cuore gli batteva all'impazzata e un sudore freddo lo aveva pervaso per tutto il corpo. Era rimasto così, impietrito, per un tempo indefinito. Mai avrebbe dimenticato quella visione.
Una figura femminile giaceva, inerte, fra i rovi in fondo al burrone.
Con le mani tremanti aveva estratto dallo zaino il canocchiale per vedere meglio.
Il colore delle vesti si confondeva con quello delle foglie degli arbusti, ma quello che lui poteva vedere chiaramente era il viso. Diafano. Occhi chiusi. La bocca semiaperta in una smorfia di dolore. Immobile. Sulla fronte il segno dello sparo e un sangue rosato che scendeva in rigagnoli sul viso andando a disperdersi dietro il collo.
Tutto questo non riusciva, tuttavia, a deturpare la bellezza che quell'immagine sprigionava.
Mai aveva visto nulla di così bello e doloroso assieme.
La fissava, ipnotizzato, mentre sentiva nella sua mente qualcosa che si apriva, qualcosa che risaliva in superficie da profondità mai sospettate. Era un ricordo…una strana sensazione…un fastidio incontrollabile…un ancestrale disagio da soffocare, da rimuovere…Barcollava. Un appiglio…cercava disperatamente un appiglio…
Si era inginocchiato per calmare il tremore delle gambe e, dopo aver riposto il canocchiale, aveva serrato il capo fra le mani.
All'improvviso si era levato un forte vento facendo vibrare il bosco e trascinando con se tutto ciò che non si poteva opporre alla sua forza.
Il cane gli si era accucciato accanto, impaurito, mentre egli si riparava il viso con il bavero della giacca, rimanendo immobile, in attesa che tornasse la quiete.
Poi, finalmente, il vento si era calmato e il bosco aveva ritrovato la sua pace.
- Devo denunciare l'accaduto - aveva pensato. - E' colpa mia. O forse no. Io ho sparato, è vero, ma ho sparato in aria, ad un volatile. Può averla colpita qualcun altro prima di me. Ma io non posso lasciarla laggiù. Devono portarla via. Dio mio! -.
Alzato il capo, di nuovo aveva guardato giù.
La visione era sparita.
Sui rovi, dove era caduta la figura femminile ferita a morte, erano rimasti impigliati dei petali di fiori abbandonati da quella folata di vento.
Aveva sentito il suo cuore gonfiarsi e restringersi come un mantice e, attonito, cercava di capire. Ma nella sua mente tutto era fermo ed immobile come la visione di quel viso che non lo abbandonava.
- E' stato un brutto sogno - si disse. - Un sogno ad occhi aperti -.
Presto sarebbe arrivato a casa. Gli avrebbero chiesto come mai così in anticipo. Ma lui non avrebbe mai potuto spiegare a nessuno il perché.
- Capisci, Fulmine - diceva - se io raccontassi ciò che ho visto perderei senz'altro la mia buona reputazione, mi prenderebbero per un pazzo visionario, la mia credibilità sarebbe compromessa per sempre. Mi sembra già di sentire le loro risate di scherno.
Io non potrò, non dovrò dirlo a nessuno. Questo sarà per sempre il mio tremendo segreto. Solo mio.
Credo, inoltre, che smetterò di andare a caccia, troverò qualche scusa, dirò che l'umidità del bosco mi procura i reumatismi. E' una scusa credibile.
Stammi vicino, Fulmine, perché oggi, io e te…abbiamo ucciso… una fata -.

L'eredità
La zia è l'unica sorella della mamma. Non si è mai sposata. E' vissuta, prima con la nonna e poi, da sola, in un piccolo appartamento non molto distante dal nostro. La sua famiglia, praticamente, siamo sempre stati noi. Ha un carattere molto diverso da quello della mamma. Meno paziente, piuttosto impulsiva, oserei dire, a volte, un po' bisbetica, ma sappiamo che il suo animo contiene ampie tracce di bontà, generosità e romanticismo. Ora la mamma non c'è più. Era la più giovane e se ne è andata per prima. La zia non può più stare in casa da sola. Le abbiamo offerto di venire a vivere con noi. Ha preferito la casa di riposo. - C'è l'assistenza medica continua - ha detto. Ma lei sa che lì vicino abitano le sue amicizie che le fanno visita di quando in quando.
Lei adora le visite. Le sue primavere sono 94 e riempiono tutte la sua anima. E' li, sulla sedia a rotelle, con i suoi inseparabili orecchini, anelli e collane, che mette in mostra con malcelata civetteria. S'incipria, si mette i bigodini e ha sempre il flaconcino del profumo a portata di mano.
Per Natale le ho regalato lo smalto per le unghie (su sua richiesta, naturalmente) e l'ultima volta ne ho potuto constatare l'utilizzo. Una tenerezza infinita su quelle mani scarne e raggrinzite. I suoi discorsi ormai sono ripetitivi: la vista che retrocede, l'udito pure, doloracci qua e là, l'appetito che diminuisce e San Pietro che non la vuole perché è troppo vecchia.
Durante l'ultima mia visita, mi pregò di prenderle la borsetta custodita nell'armadio. Ne estrasse un portafoglio di media grandezza che mostrava i segni del tempo. Mi chiese di aprirlo. La chiusura resisteva tenacemente ai miei tentativi, ma finalmente ci riuscii. Non conteneva denaro. C'era solo una busta bianca, pure un po' consunta.
- Dammela, prego - mi disse la zia. Ubbidii. Ne estrasse una fotografia e una cartolina in bianco e nero dai bordi ingialliti. Mi mostrò, prima, la fotografia. Raffigurava lei, nel pieno della giovinezza, (era proprio una bella ragazza) seduta in un prato, mentre accarezzava una candida pecorella.
- Questa la metterete con me nella bara, per cortesia - disse.
Poi, prese la cartolina, me la mise fra le mani. Era indirizzata a lei, naturalmente; raffigurava un bambino in una culla inondata di luce e un giovane uomo di bell'aspetto che lo guardava amorevolmente. Dietro la cartolina, (datata 1936) in una elegante calligrafia, si leggeva: "a voi che siete la più bella fra le belle giunga l'abbraccio più affettuoso da chi non vi dimenticherà mai. Nazzareno" .
- Questa la puoi tenere tu, mettila dove vuoi - mi disse la zia.

La casa delle fate
Nella casa della mia infanzia il sole faceva capolino solo in rari momenti della giornata.
Al cortile, poi, chiuso com'era fra le mura delle case vicine, era preclusa la gioia di quei raggi benefici.
Solo nelle giornate di cielo terso mi incantavo a guardare il quadrato di luce azzurra che spiccava fra i tetti. Sembrava una piscina rovesciata. Veniva voglia di tuffarsi dentro se non altro per sfuggire all'odore di muffa che, in quel luogo, impregnava le narici.
Mia madre avrebbe voluto mettere dei gerani sul davanzale della finestra che dava su quel cortile - tanto per dare un po' di colore all'ambiente - diceva. Una volta ci aveva provato. L'attesa di vedere i bei fiori rosa, però, non era stata premiata. I gerani avevano partorito solo grandi monocrome foglie verdi.
Quel luogo angusto era però rallegrato ogni primavera dall'arrivo delle rondini.
Costruivano i loro nidi sotto i tetti o sotto i poggioli di legno. Quando mia madre si accorgeva del loro arrivo ce lo annunciava felice come se fossero arrivati dei cari parenti. Io penso che si sentisse un po' a loro affine. Le rondini, del resto, come lei, non facevano altro che prodigarsi per i loro figli.
Quel piccolo cortile era lo spazio più vicino che avevamo per giocare. E cercavamo di sfruttarlo al meglio. Io giocavo a palla facendola rimbalzare sul muro oppure, se eravamo in quattro o cinque, giocavamo ad "asino". Mia madre ci lasciava fare per un po', ma poi ci richiamava perché aveva paura che disturbassimo i vicini. Sapeva che il pittore di fronte non gradiva i nostri strilli. Gli disturbavano la concentrazione. Poi c'era un altro problema: quella scala pericolante che portava all'appartamento disabitato del lato Nord. Appena mia madre si accorgeva che mettevamo il piede sul primo gradino ci urlava di non continuare perché sarebbe uscita di sicuro la strega da una di quelle porte di legno che davano sul poggiolo. Noi rimanevamo un po' perplessi, dibattuti fra curiosità e timore. Ma ubbidivamo. Perché sapevamo che era meglio ubbidire. E basta.
Appena poteva mia madre ci portava fuori, in qualche posto tranquillo, in mezzo al verde, nei dintorni del paese.
- E' per la vostra salute - diceva.
Lì, potevamo correre e giocare felici all'aria aperta. Venivano anche dei nostri coetanei e passavamo dei bei pomeriggi. Mia madre sferruzzava seduta su un muretto conversando con altre mamme che avevano avuto la stessa idea.
Spesso, per raggiungere quei posti, percorrevamo una strada bianca e polverosa che passava per le campagne.
Arrivati ad un certo punto, adiacente alla strada e all'inizio della distesa delle campagne, si presentava allo sguardo del passante una casetta dalle pareti color rosa pallido, leggermente scrostate, con le imposte di un verde oliva scolorite qua e là.
Quella casetta si distingueva dalle altre del paese per la sua posizione isolata e per il suo stile vagamente signorile. Era senz'altro disabitata. Le imposte erano sempre chiuse e appariva, ai miei occhi di bambina, come qualcosa di prezioso ed inspiegabilmente abbandonato.
Stava lì, come una nobile vecchia signora pensierosa, immobile, in un suo dignitoso silenzio.
- Non ci abita nessuno in quella casa? - chiedevo a mia madre.
- No, non ci abita nessuno - Rispondeva.
- Come mai? - insistevo.
- Perché….. quella è…. la casa delle fate - replicava tranquilla e serena mia madre.
- E le fate non si vedono? - continuavo incuriosita.
- No, le fate non si fanno mai vedere dagli uomini - Era la risposta.
- Nessuno può entrare lì dentro? -
- No, guai, le fate si arrabbierebbero moltissimo -.
Mi bastava così. Non volevo andare oltre. Era meglio fermarsi lì. Non volevo sciorinare le altre domande che affollavano la mia mente. Le ricacciavo tutte indietro. Lei aveva detto così. E io volevo crederci. Silenzio, quindi e….via con la fantasia!
Immaginavo un turbinio di veli e uno scintillio di colori dentro le misteriose stanze della casetta rosa.
Tutto, oltre quelle imposte chiuse, doveva essere evanescente e affascinante. E poi, quello che potevo immaginare io era probabilmente ben poca cosa in confronto al mondo meraviglioso che doveva esserci là dentro.
All'interno di quella casa ogni cosa doveva essere stupefacente e tanto diversa da quello che si poteva vedere nelle normali nostre case. Perfino i fiori nei vasi, probabilmente, erano fiori particolari che solo le fate sapevano dove raccogliere.
Ero sicura che la loro vita si svolgeva in un armonioso intreccio di serenità, pace e benessere.
E tutto questo era precluso ai comuni mortali.
Mentre oltrepassavo la casetta, a volte giravo indietro il capo per vedere se, per qualche provvidenziale sbadataggine di qualche fata, un lembo di velo si fosse impigliato da qualche parte. Macchè, mai niente. Le fate erano molto furbe e sapevano bene come non farsi scoprire.
Poi, nella concretezza dei giochi con i coetanei, per un po' tutto questo veniva accantonato negli angoli reconditi della mente, ma quando si ritornava a casa, passando davanti alla "casa delle fate" mi sembrava che perfino gli ultimi raggi di sole indugiassero su quelle imposte superbamente chiuse, quasi che anche loro avessero voglia di penetrare, come me, in quel mondo proibito.
Intanto le stagioni si avvicendavano, calamitando i nostri giorni e i nostri anni.
La "casa delle fate" era sempre là. Le imposte chiuse. I colori sempre più sbiaditi.
Le vicende della vita mi portarono fuori dal mio paese.
Ci ritorno appena posso.
Vado al cimitero a salutare mia madre. L'ultima volta ho voluto percorrere la vecchia strada al limitare delle campagne. Ora è una grande strada asfaltata. Ho cercato con lo sguardo la "casa delle fate". Ma la casetta rosa dalle imposte verde oliva, ahimè, non c'è più! Al suo posto sorge una bella casa moderna. Rallentando l'andatura posso notare, su un terrazzino, un triciclo e dei giochi.
D'impulso accelero. Qualche minuto più tardi, mia madre mi sorride dalla foto della lapide. Ricambio, con la solita strizza al cuore.
- Hanno distrutto la casa delle fate - le dico.
- E i bambini che giocano nella nuova casa, non lo sapranno mai! -.


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