Racconti di Mara Fossati


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Il postino delle anime
Quel giorno mi chiusero la porta in faccia. Ero licenziato e ingiustamente. Mi ero trovato disarmato, incapace di reagire di fronte a cattiveria e ignoranza. Qualcuno mi aveva tradito, approfittando della mia bontà e della mia posizione precaria. Decisi di non lasciarmi prendere dallo sconforto, e continuavo a ripetermi "Non tutto il male viene per nuocere". Così, passeggiando per le vie della città mi allontanai dal centro, dirigendomi verso la strada che conduceva al cimitero. Mi ritrovai di fronte all'ingresso secondario. Guardai l'ora. Mancavano venti minuti alla chiusura. Pensai "Se mi sbrigo faccio in tempo a salutare alcuni vecchi amici". Ed entrai. Mi diressi verso il lato nord dove sapevo esserci la tomba di Filippo, il mio compagno delle elementari, morto a diciotto anni poco dopo aver preso la patente. Schiantato contro un albero al rientro dalla discoteca. Era un asso in matematica. Aveva la testa riccioluta, sempre scarmigliata. Sembrava uno scienziato pazzo. E lo voleva diventare un giorno, lo ripeteva di continuo. Disegnava ragazzi con gli occhiali e la folta capigliatura, alle prese con flaconi di liquidi fumanti e formule matematiche. Era lui stesso. Ogni volta che incontravo i suoi genitori li salutavo, poi abbassavo lo sguardo. Mi sentivo in colpa. So che vedendomi pensavano a Filippo e si chiedevano come sarebbe stato alla mia età.
Dissi una preghiera e passai oltre. Arrivai fino alla tomba di Stefano. Morto in moto, anche lui stroncato dall'alta velocità. Da bambino era chierichetto. Durante l'omelia faceva i dispetti ai suoi vicini spintonandoli. E ridevano. Ho pianto tanto al suo funerale.
Proseguii, scrutando i nomi sulle tombe adiacenti, facendo il calcolo dell'età in cui erano decedute le persone. Finché mi accorsi che faticavo a leggere le date. Era diventato buio ed era scesa una leggera foschia. Guardai l'ora, erano le cinque passate "Strano", pensai "Non ho sentito le campane". E così mi avviai verso l'uscita. Avvicinandomi mi spaventai. Il cancello era chiuso. Sentii il cuore in gola. Gridai qualcosa. Non c'era in giro nessuno. Quel lato dava su una strada poco frequentata. "Forse faccio in tempo a raggiungere l'altra uscita, se il guardiano non ha ancora finito il giro di controllo" .
Camminavo svelto, con il fiatone, cercando la strada più breve che portava all'entrata principale. Vidi in lontananza le luci dei lampioni nella via. Arrivai al muro di cinta, lo percorsi tutto fino al cancello principale. Era chiuso. Decisi di controllare tutte le uscite. Nessuna era aperta. Intorno solo silenzio. stanco, mi diressi verso il settore loculi, di recente costruzione. Entrai, nella speranza di trovare delle chiavi. All'interno l'aria era tiepida. Gridai di nuovo, nessuno rispose, solo il mio eco. Uscii di corsa, in panico, e dopo pochi passi, mi resi conto che avevo perso l'orientamento. Affranto, pensai di tornare alla sezione loculi dove l'ambiente era caldo e pulito. Girai la maniglia e nella semi-oscurità cercai l'angolo più accogliente dove potermi sedere e riflettere. Mi appoggiai alla parete di fronte alle urne, illuminate da fievoli lumini. Sospirai profondamente. Di nuovo ripresi ad osservare le date di nascita e di morte. I volti delle foto, nella debole luce, sembravano aver assunto espressività. Alcuni sorridevano, altri erano accigliati, ognuno pareva aver preso vita col calare dell'oscurità.
In quel momento, girando la testa di lato, scorsi in lontananza una lieve luce azzurra alzarsi in prossimità di un'urna. Più calava il buio più diventava azzurro intenso. Un'altra fioca luce blu prese a brillare vicino, e un'altra ancora. "Allora esistono davvero" pensai con meraviglia ed orrore allo stesso tempo. Non riuscivo a credere che si trattasse proprio dei fuochi fatui. Mi alzai lentamente, e camminai verso di loro, tenendomi però a debita distanza. Ero titubante. Da piccolo i miei nonni mi raccontavano che il cimitero era abitato da anime che la sera si svegliavano, emettendo deboli luci azzurre. Quando crebbi, mi spiegarono che di notte poteva accadere di veder salire dalle tombe certe esalazioni azzurrognole, provenienti dalla decomposizione dei corpi. Il racconto mi aveva colpito ma riuscii mai a vederle, se non con l'immaginazione. E ora mi trovavo di fronte a veri fuochi fatui.
Avvicinandomi ebbi la sensazione di udire un brusio, e incuriosito mi accostai alle urne. Piano piano il bisbiglio si fece più nitido fino a che arrivai a comprendere le parole.
"…sì, questa volta l'ha fatta grossa".
"Cosa è successo?" domandò una voce.
"Sembra che abbia molestato ingiustamente un cagnolino" rispose un sibilo.
"Molestato un cagnolino? Incredibile! Un uomo come lui, sempre posato, sorridente con tutti ed ossequioso. E la nostra risposta? " chiese la prima voce.
"Elea la sta ancora dettando. Il povero Geremia è troppo malato. Fa fatica a scrivere e ultimamente non riesce più ad alzarsi, nemmeno per il giro d'ispezione ".
"E il giovane capo-ufficio? Pare abbia abusato del suo potere…"
"Abbiamo preparato un biglietto anche per lui!Ma temo che rimanga senza risposta…".
"Povero Geremia…"rispose una voce.
"Perdonate?" domandai timidamente facendomi avanti.
"Ssst! Stiamo preparando la rassegna serale. Chi sei?"
"Sono rimasto chiuso dentro al cimitero…" balbettai "e ho trovato riparo qui. Avrei bisogno di aiuto".
"Se hai bisogno di aiuto, abbi pazienza, siediti e ascolta".
"Chi rimane in elenco?" domandò una voce.
"La donna con la pelliccia…"
A sera inoltrata le fiammelle si riunivano e redigevano una sorta di bollettino di coloro che quotidianamente frequentavano il cimitero. Dopo aver osservato e commentato, decidevano se preparare le risposte per coloro che si erano comportati in modo scorretto e disonesto.
"Si fa tardi, anche oggi rimarremo senza risposte" si lamentò una fiammella.
"Hei tu!" esclamò una voce muovendosi delicatamente verso di me come mossa da un alito di vento. "Ti spiacerebbe prender nota di alcune frasi? Sulla mensola in fondo troverai da scrivere".
Eseguii senza fiatare.
La voce proseguì "Al giovane dell'ufficio: <Un trono che crolla è come una montagna che frana, che schianta il piano e lascia dietro di sé un mare morto>". Tomba numero 173b. Da recapitare. Domani. L'ordine fu perentorio.
"Alla donna <La lingua può nascondere la verità, gli occhi, mai!>". Tomba numero 231f.
"All'uomo col cane <Come la carta al posto dell'argento, così hanno corso nel mondo, invece della vera stima e della vera amicizia, le loro manifestazioni esteriori e i loro atteggiamenti, mimati con la maggiore naturalezza possibile…Si tenga più allo scodinzolare di un onesto cagnolino che a cento di quelle manifestazioni e di quei gesti>". Tomba 191c.
Terminata l'ultima dettatura, mi assopii appoggiato al muro. Dormii alcune ore. Una tenue luce mi svegliò. Cominciava ad albeggiare. Mi accorsi che le fiammelle erano sparite, così mi affrettai a recapitare la posta ai relativi destinatari.

La sera stessa feci ritorno al cimitero, e così proseguii per diversi giorni.
Fui nominato custode, al posto del vecchio Geremia.
Mi ero riscattato. Non solo. Nel silenzio avevo trovato una compagnia, vera ed onesta. E avevo trovato una voce. Ero diventato il postino delle anime.

L'incontro
Erano passati alcuni anni dall'ultima volta che l'aveva vista. Sedeva vicino alla stufa, l'enorme stufa che riscaldava l'intera stanza dall'alto soffitto a cassettoni. Come di consueto, prima di cena sbatteva l'uovo per il figliolo che rientrava dal duro lavoro in stalla. Non era per nulla cambiata, e sebbene invecchiata, solito sorriso amichevole, voce autoritaria. Il nipote, vedendola, la strinse fra le braccia e la baciò affettuosamente. Cominciò così una lunga chiacchierata sugli anni passati, la lontananza del ragazzo dall'Italia e i problemi di salute di cui soffriva la zia. La signora Luisa insistette perché Andrea si fermasse a cena, e fu così che venne allestita una tavola con le cose buone e genuine della campagna; il formaggio del pastore, barattato in cambio di un pezzo di prato concesso al pascolo, il pane fatto in casa, il salame come riconoscimento per l'assistenza alla nascita di un vitello, e infine la torta al cioccolato per l'utilizzo di un taglia erba. Una cena barattata in piena regola.
Ad accompagnare la calorosa conversazione era il crepitio della legna ardente nella stufa che interrompeva le parole con vigorosi scoppiettii. L'occhio vigile della zia controllava che la fiamma fosse sempre viva. Iniziò quindi una simpatica conversazione sui proverbi, che la signora Luisa conosceva molto bene ed esibiva ad ogni occasione, spesso brontolando contro il figliolo che tardava a tornare benché fosse senza "fiö né cagneu". Il nipote, divertito, rideva ad ogni proverbio, ed incuriosito, le domandò come facesse a conoscerne tanti. La zia cominciò quindi a ricordare i vecchi tempi, quando la gente trascorreva la sera in stalla a chiacchierare, scaldandosi tra le bestie, gli uomini seduti sulle panche e le donne sulle seggiole, a filare, talune con i bimbi addormentati fra le braccia. Era quello il loro modo di riunirsi fino a tarda sera, raccontando episodi, e narrando vecchie storie. Andrea, assorto, ascoltava e immaginava il calore della stalla, i racconti.
Uno squillo del telefono lo riportò alla realtà. La zia si alzò faticosamente per rispondere e Andrea ne approfittò per avvertire Giulio, il suo amico, che sarebbe arrivato all'appuntamento con mezz'ora di ritardo. Estrasse di tasca il cellulare, ma si accorse che non c'era segnale. Nello stesso momento entrò Costante, il figliolo, e con lui una scia d'aria fresca. I due si abbracciarono calorosamente e Andrea avvertì che Costante emanava un odore di stalla, unito a profumo di fieno e di latte appena munto. La signora Luisa si apprestò a preparare i panni puliti del figliolo. Tuttavia, Costante, senza nemmeno togliersi gli abiti da lavoro, si sedette a tavola, ansioso di sapere le ultime novità dal nipote , mentre sottovoce la signora Luisa brontolava che era tardi e i ravioli erano stracotti. Costante afferrò la tazzina d'uovo sbattuto.
"Quanto tempo è passato?"domandò.
"Cinque anni" rispose.
"Com'è a Woodstock?"
"A Houston, zio".
"Ah, sì Hugston..." balbettò Costante.
Andrea sorrise. "Non immagini che praterie e distese di verde! E c'è pieno di mucche al pascolo, tu impazziresti."
"Sono le Locorn?"
"Vuoi dire le Long Horn"
"Sì, quelle con le corna lunghe, sa vöt ca sapia mì, non me ne intendo di inglese" si schernì lo zio.
"Ti posso mandare qualche foto se hai un indirizzo mail" rispose il giovane.
"L'i…che? Non mi parlare di Internet", evidenziando l'accento sulla e. "Ha rovinato il mondo" .
"Ma come zio? La comunicazione globale!"
"Mi vöri no Internet a cà mia. Le immagini sul video scorrono veloci. E a mì, am vegna al mal da testa". E poi, se mi arrivano in casa i pedofili? No, l'è no roba par mì".
Andrea rise di gusto. E replicò "Se avessi però bisogno di fare una ricerca su un capo in via di estinzione, poiché ami selezionare razze rare, con Internet in un attimo sapresti dove reperire il materiale genetico."
"Io mi tengo aggiornato sai?" E si alzò per prendere dalla cesta dei giornali "Terra e vita", la rivista di agricoltura.
"Mese per mese qui c'è un elenco di esemplari, suddivisi per razza e patrimonio genetico. Ora si parla di embryo-transfer. Si vuole effettuare la fecondazione in vitro e impiantare l'embrione con un importante patrimonio genetico nell'utero di una vacca che proseguirà la gravidanza del vitello come fosse suo."
"La mia è una fecondazione classica, ma prima svolgo un'accurata selezione dei semi" continuò Costante.
Il nipote zittito ascoltava. E fra sé e sé pensava "Che uomo...Sembra vivere fuori dal mondo, ma in quanto a scienza è all'avanguardia. Anche senza Internet".
Lo zio accorgendosi che Andrea era pensieroso, allungò una mano e lo accarezzò sulla guancia.
Sentì un odore acre e pungente. "Zio, la tua mano sa…"
"Scüsam né. L'è udur ad crava. Ho rusì cul cavròn! Al vegna no via" e scoppiarono a ridere.

Era trascorsa mezz'ora. Andrea abbracciò Costante e la zia.
Lasciandoli sentì una stretta al cuore.
L'incontro era stato per lui un salto nel passato.

Romano - Vita in solitudine
Il mio contratto era scaduto, ed essendo fine agosto decisi di trascorrere qualche giorno dando una mano a Costante nel lavoro in cascina. Erano stati mesi molto caldi e ancora la calura accompagnava le ultime giornate estive. Avevo trascorso solo pochi giorni di vacanza, a causa di problemi al lavoro. Tuttavia, aver abbandonato l'ufficio era stata per me una fortuna.
Pensai quindi di godermi la calda luce del sole a contatto con la terra e gli animali.
Costante era un uomo di mezza età che aveva dedicato tutta la vita ad allevare vacche da latte e a selezionare capi in via d'estinzione. Serio e genuino, un uomo d'altri tempi. Aveva sempre una parola buona per tutti e sapeva ascoltare. Spesso lo trovavo in stalla verso sera alle prese con i tubi delle mungitrici e il seggiolino di legno legato in vita, mentre passava con passo spedito da una mucca all'altra. Qualcuno gli era sempre alle calcagna per sfogarsi, confidare problemi, pettegolezzi, racconti piccanti di tradimenti o sotterfugi. I suoi preferiti. Li commentava tra sé e sé, poi ci rideva su scrollando il capo. A volte mi raccontava le storie più inverosimili.
Rientrava a casa tardi e cenava per ultimo; qualche volta faceva un paio di telefonate, poi si sedeva in poltrona con una rivista in mano, finché gli occhi gli si chiudevano, segno che la giornata era finita. Così, con passo stanco, saliva le scale e andava a letto. Il risveglio era all'alba, le mucche andavano munte prima che passasse il camion per il ritiro del latte. Alle cinque e mezza iniziava il lavoro.
Dopo la mungitura si accudivano le altre bestie e si svolgevano i lavori di manutenzione. Era necessario rinnovare la paglia alle mucche eliminando lo sporco, spazzare la stalla e il portico, preparare il latte per i vitelli, dare il fieno alle capre, alle pecore, ai maiali e ai cavalli, assicurandosi che le bacinelle d'acqua fossero piene.
Conoscevo l'attività, spesso per puro piacere avevo trascorso intere giornate ad abbeverare e a sfamare tutte quelle bocche.
La mattina era sempre una pena svegliarsi così presto, ma il piacere di assistere al sorgere del sole, mi faceva dimenticare la pesantezza degli occhi assonnati. Solo io e Costante, ad assaporare l'aria fresca del mattino e l'odore di fieno umido. Nelle giornate di caldo intenso, l'alba era velata da una leggera foschia.
Quella domenica ero rimasta sola; Costante, dopo la mungitura, era andato alla Fiera Agricola in Val di Nizza e sarebbe tornato in serata. LaVal di Nizza distava tre quarti d'ora d'auto dalla cascina ed era nota per le sue colline suggestive, gli agriturismi, la cucina casereccia e i paesini arroccati sulle sommità, dove, secondo la tradizione, si tengono feste e sagre di paese durante l'estate.
Gabriel, il ragazzo albanese che aiutava in stalla era rientrato in casa per la colazione che gli preparava la sua giovane moglie, giunta in Italia da poco perché incinta al quarto mese.
Avevo deciso di sistemare le unghie all'asina che curavo da parecchi giorni a causa di una brutta ferita che si era procurata incastrandosi lo zoccolo nella mangiatoia di ferro.
Così, con la busta di plastica che fungeva da valigetta di pronto soccorso, la condussi fuori dal recinto, legandola con una corda al trattore sull'aia. Volevo che la ferita prendesse aria e si asciugasse al sole. Ne approfittai per recuperare tenaglia e coltello e improvvisarmi maniscalco. Recisi entrambe le punte delle unghie anteriori che erano cresciute a dismisura. Soddisfatta del mio lavoro e grondante di sudore, mi stavo accingendo al alzarle la zampa posteriore, quando, china, intravidi oltre la sua pancia una grossa figura in movimento. Mi voltai rapidamente e vidi un enorme maiale avanzare verso di noi. Temendo che potesse fare del male al mio asino già provato dalla ferita, feci qualche passo nella sua direzione, con la speranza che il mio incedere deciso e minaccioso lo facesse fermare. Allargai le braccia come si usa fare coi cavalli, gridando "Via!Via!", ma quello iniziò a trotterellare, saltellando qua e là. Ero disorientata dalla mole che avevo davanti. Un enorme suino rosso alto quasi quanto me e cinque volte più grosso. Con rapida mossa slegai l'asina e la tirai verso il recinto per metterla in salvo. In realtà il gigante aveva ben altre mire, e scorrazzava per il cortile fermandosi di quando in quando a raccogliere qualcosa da terra, allontanandosi con semi e fili di fieno in bocca, che sgranocchiava con avidità emettendo grugniti di piacere. Finalmente qualcuno in lontananza lo chiamò per nome. Per nulla agitato, e con voce calma, Pino, l'aiutante di Costante, un uomo dall'aspetto basso e tozzo, aprì la porta del box invitandolo con la forca a rientrare. La mia asina era al sicuro. Tuttavia, mi ci volle qualche minuto perché mi passasse il batticuore.
Raccolsi i miei strumenti, decisa a dedicarmi ai maialini tibetani, di ben altre dimensioni. Sapevano di poter pascolare liberamente lì attorno mentre pulivo la lettiera, purché non si allontanassero troppo. Li tenevo d'occhio, finché fui distratta dal rumore provocato dalle corna di due caproni che si contendevano la femmina. Agitai la scopa in aria per farli smettere, dopodichè mi volsi a controllare la mia coppia di maialini. Mancava il maschio. Scrutai intorno, tra l'erba, in mezzo alle zampe delle mucche. Niente. Mi diressi verso il cancello che portava ai campi e lì lo vidi imboccare la strada sterrata che conduceva al paese. Lo chiamai invano, dovetti quindi inseguirlo perché desistesse dalla fuga. Decisi che fosse meglio rinchiuderli, cominciavo ad essere stanca.
Mi avvicinai al tubo dell'acqua per rinfrescarmi e mi sedetti sul fieno a riposare. "Che faticaccia!" pensai tra me e me.
Dopo qualche istante mi alzai per dare il fieno ai cavalli. Prima di raggiungerli controllai le cuccette dei vitelli e successivamente diedi un'occhiata agli asini. Un piccolo stranamente volgeva le spalle alla porta. Guardai bene e mi accorsi che aveva uno zoccolo incastrato tra le sbarre di ferro del cancelletto. Gli presi delicatamente il piede per girarlo, ma lui si divincolava peggiorando la ferita che si era procurato. Aveva già sporcato di sangue il ferro. Mi precipitai a chiamare Pino. Per far prima avevo attraversato la stalla passando dalle finestre, scavalcando le mucche sdraiate e provocando grande agitazione. Richiamato dalla mia voce egli avanzò verso di me muovendosi goffamente negli stivali di gomma, ed io mi affrettai a recuperare la cassetta di pronto soccorso. Tenendo stretto il piccolo sul petto, in modo che non si slanciasse in avanti, chiesi all'uomo di roteare lentamente lo zoccolo, che in un attimo si liberò. Quasi fosse grato e consapevole del nostro intervento, rimase immobile a farsi medicare. Sarebbe guarito nel giro di pochi giorni.
Non rimanevano che i vitelli e, mentre mescolavo il latte in polvere nell'acque tiepida delle bacinelle, mi auguravo che nient'altro sarebbe accaduto fino al ritorno di Costante. Sembrava che le bestie avvertissero che il padrone si era allontanato e avessero perso l'orientamento.
Finalmente egli arrivò, e durante la mungitura gli raccontai l'accaduto. Ascoltava e scrollava la testa ogni tanto.
A lavoro ultimato passavo dal pollaio, e se trovavo le uova le offrivo alla moglie di Gabriel. Era una ragazza bassa di statura e leggermente gobba. Non si allontanava mai di casa e, considerandolo un comportamento dovuto a eccessiva timidezza, avevo preso l'abitudine di bussarle alla porta e informarmi sul suo stato di salute, invitandola a fare due passi. La comunicazione tra noi era difficile, conosceva solo poche parole d'italiano. Nonostante i miei tentativi, rifiutava sempre e usciva solo per ritirare i panni stesi. Dovetti convincermi che era questione di cultura, e non insistetti più.
Il lunedì mattina solitamente si sbrigavano le pratiche amministrative. Quel giorno dovevo ritirare una raccomandata e andai fino in paese. L'ufficio postale si trovava di fianco al bar tabaccheria, nella strada adiacente alla via principale. C'erano alcune persone in fila e mi sedetti ad attendere il mio turno sulla panchina a ridosso del muro. La donna che mi stava accanto indossava un paio di mocassini di una misura più grandi, consumati e sporchi di polvere. La signora anziana entrata dopo di me portava invece un paio di ciabatte, e si era accomodata con disinvoltura sulla panca di fronte alla mia, come se non fosse mai uscita di casa ma avesse solamente cambiato stanza.
Per ultima era entrata una donna alta e robusta, con grosse scarpe sportive e un fazzoletto annodato sotto la gola. I pomelli arrossati e le mani vigorose, si era avvicinata all'uomo in fila e attraverso un sorriso di denti d'oro, aveva chiesto di poter passare davanti per chiedere un'informazione allo sportello.
"No, non sono ancora arrivati i moduli per gli extracomunitari" aveva risposto l'addetto al di là del vetro. Ringraziando, la donna si allontanò e salutò molto gentilmente con accento straniero. Avrei giurato che si trattasse di un'ucraina o di una rumena a servizio presso un fattore della zona.
Arrivato il suo turno, la signora a fianco a me si alzò.
"C'è un pacco per lei" le disse l'impiegato.
"Un pacco per me?" domandò.
"No mi perdoni, ho sbagliato, non è per lei".
"Se contiene soldi lo ritiro io" continuò la signora.
L'anziana dalle ciabatte intervenne dicendo: "I gän tüt fam ad danè, ma nä mangian mia neänc i galin".
I presenti scoppiarono a ridere, ed io anche.
Ritirai la raccomandata e tornai in cascina.

Mori
Era domenica mattina.
Entrai in casa sua per salutarla. Appena aprii la porta i cani saltarono giù dal divano e mi vennero incontro abbaiando. Mori doveva essere in camera. Girai lo sguardo intorno, per capire se fosse rientrata. I piatti nel lavabo erano ancora da lavare. L'aspirapolvere era appoggiato al tavolo, segno che stava facendo le pulizie. I cani ripresero il loro posto. La chiamai, ma non rispose. Mi diressi verso la camera da letto e dalla porta del bagno semi aperta la vidi. Era china sul gabinetto. Si girò a guardarmi, era pallida. "Che succede?" le domandai.
"Niente, arrivo subito" rispose a mezza voce.
Tornai ad aspettarla in cucina, ma sapevo che qualcosa non andava.
Ci conoscevamo da tanti anni. Era sempre stata di poche parole. Veniva da un paese della collina dell'Oltrepò Pavese, suo padre possedeva un vigneto, da cui ricava dell'ottimo vino. Sua madre, una signora espansiva, simpatica, dalla voce squillante, era stata operata per un problema ad una gamba, che l'aveva costretta a zoppicare per tanti anni. Stava migliorando, camminava da alcuni mesi senza il sostegno delle stampelle. Si preoccupava molto per Mori e diceva sempre "Ah, questa ragazza, selvaggia, testarda!"
Ero stata diverse volte a casa dei suoi. Durante il pranzo Mori non spiccicava mai una parola. Solo quando ci chiudevamo in camera sua, piena di poster e di libri di cavalli, si sentiva nel suo mondo e cominciavamo a chiacchierare.
Ovviamente si parlava di cani e di cavalli, le nostre passioni, di uomini raramente. Era questo un altro capitolo che la zittiva, non avendo mai incontrato un "esemplare" che potesse definirsi suo fidanzato. Aveva avuto una cotta per un ragazzo che all'epoca era impegnato. Mi chiedeva quale fosse l'abbigliamento più adatto per uscire con lui, ed io, sapendo che aveva pochi abiti per ancora più rare occasioni, le suggerivo di indossare la gonna e biancheria intima carina. Le consigliavo di raccogliere i lunghi capelli lisci, che poche volte avevano conosciuto le forbici del parrucchiere, e di mettere un leggero rossetto per valorizzare le labbra.
Durante le nostre chiacchierate mi aveva rivelato di temere il momento in cui lui le avrebbe chiesto un contatto fisico che non aveva mai provato. Al tempo ero fidanzata e avevo avuto alcune storie, e delicatamente le parlai tentando di tranquillizzarla riguardo un argomento per lei tabù.
La storia non durò molto, Mori soffrì parecchio. Non concepiva una relazione con un uomo già impegnato. Tuttavia lui continuò a cercarla per parecchio tempo, ma senza successo. Mori era stata forte, non aveva ceduto alla tentazione di rivederlo.
Un altro argomento critico erano i soldi in banca. Le chiesi dove li tenesse. "Sotto il letto" fu la risposta.
Un giorno mi raccontò che sua madre l'aveva chiamata al maneggio per avvisarla che il Comune offriva un corso gratuito d'inglese ai giovani della sua età. Mori rimane offesissima. Reagì come un puledro abituato a scorrazzare al paddock che si trova ad un tratto ad avere una corda attorno al collo e agita la testa per sbarazzarsene.
Era ostinata e sosteneva con determinazione le sue idee. Per un certo periodo di tempo la definii "ruvida" ma col tempo si ammorbidì. Più di una volta mi è capitato, conversando, di avvertire saggezza nelle sue parole. Mi domandavo da dove venisse quel cambiamento. Avevo la convinzione e forse la presunzione di credere che la saggezza fosse strettamente legata all' esperienza, ma ho dovuto ricredermi.
Vedendola silenziosa, a volte cercavo di decifrare i suoi pensieri. Ma spesso li interpretavo in modo sbagliato. Avrei voluto che provasse entusiasmo per un viaggio all'estero, in America, dove praticare la monta americana specializzandosi in cutting, il lavoro coi vitelli, e vivere la vita dei cow-boy. Ma poi, come risolvere il problema dell'inglese?
"Io sto bene qua, non sono adatta a cambiare abitudini" rispondeva.
Nonostante tutto, la ristretta cerchia del maneggio era la sua vita. Finché, un giorno, ricevette la proposta di lavorare in una scuola di equitazione vicino a casa sua, ai piedi della collina. Trenta cavalli in tutto e parecchi soci. In più, alloggio presso la scuderia.
In primavera fece la sua comparsa al maneggio un uomo sulla cinquantina, di corporatura robusta e aspetto da cow-boy. Si diceva che fosse veneto, ma che venisse dal Texas, dove aveva lavorato in qualità di ranger e horse-trainer presso un ranch di Dallas. I cavalli li conosceva bene e li sapeva trattare, anche quelli più difficili. Sembrava fosse uscito dal romanzo "L'uomo che sussurrava ai cavalli" e si fosse trovato lì per caso. Fece colpo su Mori. Avevano gli stessi interessi, trascorrevano le giornate insieme, e lei subì presto il suo fascino.
Durante una camminata con i cani mi rivelò che lui le aveva fatto intendere che si era innamorato di lei. "Il problema è che ci dividono venticinque anni di età, e oltretutto è sposato". "Sposato? E sua moglie dov'è?" chiesi perplessa.
Mori mi spiegò che la moglie aveva sempre vissuto in Veneto, e che la loro vita coniugale era stata molto travagliata.
"Tuttavia, dove c'è amore l'età non conta" le dissi durante la discussione. E per qualche tempo continuai a ripeterglielo.
Mori attraversò momenti di solitudine e di tristezza, combattuta tra le difficoltà di un amore impossibile e la differenza di età. Non riuscivo a vederla coinvolta in una situazione così complicata.
Finché non la trovai la domenica mattina china sul gabinetto. Stava vomitando.
Mi raggiunse in cucina. Era piuttosto provata, ma aveva uno strano bagliore negli occhi.
"Cosa succede?" le chiesi accomodandomi sul divano vicino ai cani.
"Forse non ho digerito, non lo so, ho mal di pancia".
"Bé, fatti una camomilla, una tisana" ribadii. "Da quando hai male?"
"Da qualche giorno, mi viene la mattina poi passa".
"Non sarai mica incinta?" le chiesi con tono scherzoso.
"Ho l'aria di esserlo?" rispose con un sorriso ironico.
"Cosa? Stai scherzando! Mori! Sei incinta?"
"Ho fatto il test, positivo" rispose afferrando uno straccio e appoggiandoselo sulla fronte.
Si sedette accanto a me, incrociando le gambe sul divano.
"Ma è bellissimo! E da quanto?" le chiesi.
"Quarantacinque giorni" rispose piano, con aria contrita.
"E non sei contenta? Ma è magnifico! Ci sono donne che pagherebbero per poter essere nel tuo stato!
"Sì, ma non doveva succedere, non possiamo tenerlo!" replicò.
"Ma perché? Non puoi parlare così. Pensa che magari nemmeno io potrò mai averlo, e tu che sai di avere una vita dentro la rifiuti?" gridai.
"Non doveva succedere" continuava a ripetere.
"Ma è successo e ora dovete essere responsabili! E lui che dice?" replicai animatamente.
"Cosa vuoi che dica? Questo sarebbe il figlio che non ha mai avuto. Ma come facciamo? Non abbiamo soldi, il lavoro è precario, non abbiamo una casa nostra, che vita possiamo dargli? Oltretutto lui è sposato e io sono stanca, non ce la faccio più a nascondere tutto" rispose piangendo, affranta e rassegnata.
"Affronterete insieme le difficoltà man mano, non potete! Potresti pentirtene più avanti. Pensaci!" insistei.
"C'è un altro problema. Io prendo delle pastiglie per la prolattina. Sono pericolose se assunte in gravidanza. Le ho già sospese, ma è pericoloso ugualmente continuare. L'ha detto il ginecologo" rispose tristemente, passandosi lo straccio sulla fronte.
"…Quand'è così.. Non c'è scelta…" balbettai.
Un insieme di pensieri mi si confondevano nella mente. Mori. La gravidanza. La vita dentro di lei. L'aborto. Il figlio mai avuto. Io. Le mie storie. Le nostre esistenze. Così diverse. Eppure, mai scontate. La realtà, che in un attimo, si trasforma.

Dopo due settimane, il problema venne risolto chirurgicamente e a distanza di qualche tempo non furono più costretti a nascondere la loro relazione.
Il suo compagno aveva chiesto la separazione senza nulla volere dalla moglie.
Ora vivono un tenero amore, dividono una casa piccola, conducono una vita semplice, e a loro basta.
La vidi al maneggio qualche giorno fa. Salii da lei. Stava pulendo la cucina.
"Come stai?" le chiesi.
"Ho un leggero mal di pancia, credo di aver fatto indigestione coi peperoni" mi rispose senza guardarmi.
Non aggiunse altro. Silenzio. La salutai e mi allontanai.

Bosco di notte
Prese la stradicciola che conduceva verso il fiume. Mirko conosceva a memoria i sentieri del bosco, e anche quando aravano i campi o tagliavano i pioppeti, non si perdeva mai. Aveva dentro di sé una bussola che lo faceva orientare anche quando il paesaggio cambiava aspetto. Era novembre e il sole cominciava a scendere oltre la volta delle nubi
Il bambino guardava in cielo, seguiva con lo sguardo il raduno degli uccelli migratori su una macchia di arbusti.
Si arrestò, la scena rubava l'attenzione come fosse uno spettacolo pirotecnico. Gli storni volteggiavano in gruppi separati, veloci, e sorvolavano i campi, riunendosi solo per nascondersi oltre la macchia. Dopo pochi secondi riprendevano il volo lanciandosi in cielo a gran velocità. Questi grappoli di fuochi animati si univano e si dividevano in sincronia come davanti a uno specchio. Sembrava che una forza magica li sospingesse.
Mirko, col naso all'insù, seguiva a bocca aperta.
Una pausa più lunga oltre la macchia lo spinse a proseguire il cammino.
Sul margine del sentiero, dove cresceva l'erba, posò del pane per terra. Sapeva che alcuni animaletti sarebbero usciti in cerca di cibo.
A poco a poco il silenzio si riempì di fievoli voci, di rumori di volpi e di lepri.
Sentì sopra di sé un rumore e vide passare uno stormo di anitre, talmente basse, che poté avvertirne il fremito dello sbatter d'ali. La prima della formazione a V emetteva un verso come per incoraggiare le compagne. Quella gigantesca lettera sembrava un enorme freesbee sfuggito al controllo di un bambino e ora vagava in cielo accompagnando i migratori in viaggio.
Su un tratto di sentiero delimitato da querce, il bimbo si trovò su un letto di foglie secche scoppiettanti. Il fruscìo delle foglie calpestate provocava un rumore assordante.
Un barbagianni, appena uscito dal nascondiglio, si alzò in volo, incuriosito, volteggiando con sordo rumore di ali sopra la testa di Mirko. Poi, si posò nuovamente sul ramo della quercia, ad osservare.
Da una cavità di questa uscì uno strano brusio. Scorse all'interno due piccoli fari gialli. Erano occhi che l'osservavano. Ma non ebbe paura. Sapeva che a quell'ora gli abitanti del bosco si svegliavano e uscivano per procurasi il cibo.
Era la civetta, che con il calare dell'oscurità si era destata e sbatteva gli occhi, un po' stropicciata, come un vecchio scienziato che, inforcando gli occhiali, si accinge a maneggiare le provette degli esperimenti.
Mirko superò la curva e il rapace notturno con uno stridulo "Tuì-tuì", uscì dalla cavità e gli volò accanto seguendolo fino al fiume. Al di là dell'argine si apriva uno spettacolo lunare. L'acqua scintillava e le onde riflettevano una luce d'argento, formando tante piccole stelle in movimento.
Il bimbo scese per il piccolo passaggio che portava al fiume e avanzò due o tre passi entrando nella luce della luna.
"Tuì-tuì" fece la civetta, allontanandosi all'improvviso. Mirko sentì alle sue spalle spezzarsi dei rami e insieme uno stormire di foglie. Indietreggiò alcuni passi e si allontanò per tornare sul sentiero.
Un'ombra scura gli passò davanti con un sordo grugnito. Capì che si trattava del cinghiale. Era uscito dalla tana, forse spinto dall'odore del pane.
Lo vide saltare nella macchia seguito da un'ombra più piccola. A Mirko piacevano molto i cinghiali, aveva sentito raccontare tante storie riguardo loro, così schivi e difficili da osservare. Ma ora erano lì a pochi passi da lui.
Gli piaceva molto la vita del bosco nell'oscurità. Non si sentiva mai solo, qualche animaletto lo seguiva sempre.
Si era alzata una leggera brezza. Anche il vento gli faceva compagnia, lo sentiva strisciare sulla cima degli alberi. Si tirò su il colletto della giacca e rabbrividì. Era calata l'umidità.
Affrettò il passo perché si era fatto tardi. A casa l'aspettavano.
In lontananza udì una voce. La mamma lo stava chiamando e gli veniva incontro sul sentiero. Come furono vicini lo strinse e gli strofinò le spalle per scaldarlo: "Andiamo ometto, si è fatto tardi non ti sei accorto?".

All'improvviso l'animazione del bosco sfumò.
Cessò lo stormire delle foglie. Il canto degli uccelli si affievolì. Il grido della civetta svanì tra le fronde. Il grugnito dei cinghiali si perse lontano. Rumori e squittii si dissolsero. Goccioline di nebbia attutirono il calpestio delle foglie.
In pochi minuti era calato il silenzio e per il bosco si diffondeva un'aria di inesplicabile svogliatezza.

Calura d'agosto
Agosto. Toscana. Entrando nel rustico lo sguardo si sofferma sul pavimento in cotto e i letti in ferro battuto. Le tonalità dominante è color mattone, accompagnato dall'arancio delle pareti. Il tetto in legno riscalda e dà calore alla stanza. Ma ciò che rende magica l'atmosfera è la vista. Due finestrelle basse, attraverso le griglie, lasciano intravedere la collina, concentrando l'attenzione sul poggio sovrastante.
Mi chino per osservare il dolce paesaggio. Il viso provato dalla calura d'agosto si distende al soffio del vento, che annuncia una perturbazione in arrivo.
Sulla sommità del poggio sta un leccio solitario, quasi lasciato a spezzare la linea del colle. Una strada bianca conduce fino a lui e si perde nel cielo.
Sul versante della collina si arrampicano lenti due trattori, a creare tra le onde del mare di terra, profondi solchi di arida creta senese.
L'aria si fa fresca. Aspirando, si percepisce un odore di acqua, di terra bagnata. In lontananza avanzano minacciose nubi cariche di pioggia. Osservo prima loro poi i trattori. Il silenzio è rotto, a tratti, dal ronzio dei motori trasportato dal vento, unito all'odore di pioggia man mano più intenso.
All'improvviso il tuono. Le nuvole hanno varcato la sommità del poggio. L'aria scuote la cima del leccio.
I salici, dondolando, sembrano salutare il temporale agitando manine d'argento.
Indifferenti, le due macchine proseguono il cammino.
La terra secca, bevendo cambia colore e si tinge di scuro. Non si tratta di una semplice pioggerella, bensì di un vero acquazzone!
A quel punto i trattori si arrendono e in fila indiana abbandonano il campo. Una riga netta distingue le zolle appena smosse dal verde circostante. Con pesante rumore di cingoli passano sotto la mia finestra.
Ora avverto gli spruzzi delle gocce che raggiungono la finestra e accosto leggermente i vetri.
Trascorsi dieci minuti si apre in cielo una striscia di azzurro, il vento cala, le nubi si allontanano. Riprendono timidi cinguettii. Dal suolo sale vapore.
Avverto uno stridio. Lungo il sentiero si avvicinano i due per proseguire il lavoro abbandonato.
Tutto riprende armonia.

Metro
Quell'inverno il freddo entrava nelle ossa, la nebbia offuscava i pensieri e l'unico desiderio, arrivando al parcheggio, era di rifugiarsi in metropolitana e assaporare quel calore misto a odore di ferraglia. Era il mese di dicembre, si era ormai in pieno clima natalizio, luci sfavillanti ovunque, musichette, festoni colorati. "Tutti gli anni la stessa storia - penso, - pare di essere a Carnevale". Scendendo gli scalini del metro, scansando accuratamente i lenzuoli su cui i venditori ambulanti allestiscono le vetrine, do un'occhiata alla merce esposta, poi ai loro volti; sono cinesi, peruviani, marocchini, eppure gli oggetti in vendita si assomigliano tutti in tutto, dai pupazzetti di Babbo Natale ai cappucci intermittenti con scritto Merry Christmas. Penso: "La spiritualità del Natale non si può perdere in quegli oggetti da due euro" e provo un senso di disagio; ma in fondo non so se provare fastidio o tenerezza per quei piccoli venditori che tirano a campare con pochi spiccioli, e mi pento. Ma poi rifletto chiedendomi "Quelle anime crederanno nel Natale, o appartengono ad altre religioni? E' tutto un controsenso". Così, immersa nei pensieri mi incammino verso la via dell'ufficio. Davanti a me, un ragazzo storpio avanza barcollante, esibendo sulla stampella la sua gamba deforme e chiede l'elemosina. La gente lo scansa e ancora una volta penso: "A Natale scendono tutti in strada, ma a Natale si è tutti più buoni. Sarà…" Scuoto con rammarico la testa e mi avvicino al portone d'entrata, quando mi sento chiamare da una voce di donna, e girandomi vedo una giovane con in grembo un fagotto da cui spunta un faccino innocente. Come non cedere? Le faccio un sorriso, frugo in tasca, le allungo una monetina e mi allontano ancora più confusa, forse frastornata da tanto rumore e da tanta umanità. Entro in ufficio. Dentro è silenzio e pace, quasi adorabile questo rifugio che si estranea da quella bolgia rumorosa. Penso che finalmente mi immergerò nella mia lezione d'inglese e mi appresto a ripassare prima dell'arrivo di Elliot, l'insegnante americano.Con lui il tempo vola, ha sempre il sorriso sulle labbra e qualcosa di divertente o interessante da raccontare. Eccolo che arriva, riconosco i suoi passi, è più veloce del solito, entra nel mio ufficio portandosi ancora quella scia di freddo invernale. Indossa come di consueto il cappello di lana a tesa larga, ma la sua espressione non è calma come sempre e il suo tono di voce, caldo e profondo, è piuttosto concitato. Sembra che qualcosa l'abbia sconvolto, e senza nemmeno togliersi il cappello esclama: "Mara, you won't believe!" - "I saw Santa begging on the metro!". (Mara non ci crederai!Ho visto Santa Claus chiedere l'elemosina in metro!). Inizialmente non colgo il significato della frase ma percepisco che qualcosa è successo a Santa Claus. Lo guardo stupito e lui ripete la frase, questa volta ridendo, incredulo lui stesso alle parole che ha appena pronunciato. "I saw Santa begging on the metro". Oh my God!" continua. E con un sorriso amaro conclude dicendo: "E' diventato povero anche Babbo Natale!".


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