Il postino delle anime
Quel giorno mi chiusero la porta in faccia. Ero licenziato e
ingiustamente. Mi ero trovato disarmato, incapace di reagire di fronte a
cattiveria e ignoranza. Qualcuno mi aveva tradito, approfittando della mia
bontà e della mia posizione precaria. Decisi di non lasciarmi prendere
dallo sconforto, e continuavo a ripetermi "Non tutto il male viene per
nuocere". Così, passeggiando per le vie della città mi allontanai dal
centro, dirigendomi verso la strada che conduceva al cimitero. Mi ritrovai
di fronte all'ingresso secondario. Guardai l'ora. Mancavano venti minuti
alla chiusura. Pensai "Se mi sbrigo faccio in tempo a salutare alcuni
vecchi amici". Ed entrai. Mi diressi verso il lato nord dove sapevo
esserci la tomba di Filippo, il mio compagno delle elementari, morto a
diciotto anni poco dopo aver preso la patente. Schiantato contro un albero
al rientro dalla discoteca. Era un asso in matematica. Aveva la testa
riccioluta, sempre scarmigliata. Sembrava uno scienziato pazzo. E lo
voleva diventare un giorno, lo ripeteva di continuo. Disegnava ragazzi con
gli occhiali e la folta capigliatura, alle prese con flaconi di liquidi
fumanti e formule matematiche. Era lui stesso. Ogni volta che incontravo i
suoi genitori li salutavo, poi abbassavo lo sguardo. Mi sentivo in colpa.
So che vedendomi pensavano a Filippo e si chiedevano come sarebbe stato
alla mia età.
Dissi una preghiera e passai oltre. Arrivai fino alla tomba di Stefano.
Morto in moto, anche lui stroncato dall'alta velocità. Da bambino era
chierichetto. Durante l'omelia faceva i dispetti ai suoi vicini
spintonandoli. E ridevano. Ho pianto tanto al suo funerale.
Proseguii, scrutando i nomi sulle tombe adiacenti, facendo il calcolo
dell'età in cui erano decedute le persone. Finché mi accorsi che faticavo
a leggere le date. Era diventato buio ed era scesa una leggera foschia.
Guardai l'ora, erano le cinque passate "Strano", pensai "Non ho sentito le
campane". E così mi avviai verso l'uscita. Avvicinandomi mi spaventai. Il
cancello era chiuso. Sentii il cuore in gola. Gridai qualcosa. Non c'era
in giro nessuno. Quel lato dava su una strada poco frequentata. "Forse
faccio in tempo a raggiungere l'altra uscita, se il guardiano non ha
ancora finito il giro di controllo" .
Camminavo svelto, con il fiatone, cercando la strada più breve che portava
all'entrata principale. Vidi in lontananza le luci dei lampioni nella via.
Arrivai al muro di cinta, lo percorsi tutto fino al cancello principale.
Era chiuso. Decisi di controllare tutte le uscite. Nessuna era aperta.
Intorno solo silenzio. stanco, mi diressi verso il settore loculi, di
recente costruzione. Entrai, nella speranza di trovare delle chiavi.
All'interno l'aria era tiepida. Gridai di nuovo, nessuno rispose, solo il
mio eco. Uscii di corsa, in panico, e dopo pochi passi, mi resi conto che
avevo perso l'orientamento. Affranto, pensai di tornare alla sezione
loculi dove l'ambiente era caldo e pulito. Girai la maniglia e nella
semi-oscurità cercai l'angolo più accogliente dove potermi sedere e
riflettere. Mi appoggiai alla parete di fronte alle urne, illuminate da
fievoli lumini. Sospirai profondamente. Di nuovo ripresi ad osservare le
date di nascita e di morte. I volti delle foto, nella debole luce,
sembravano aver assunto espressività. Alcuni sorridevano, altri erano
accigliati, ognuno pareva aver preso vita col calare dell'oscurità.
In quel momento, girando la testa di lato, scorsi in lontananza una lieve
luce azzurra alzarsi in prossimità di un'urna. Più calava il buio più
diventava azzurro intenso. Un'altra fioca luce blu prese a brillare
vicino, e un'altra ancora. "Allora esistono davvero" pensai con meraviglia
ed orrore allo stesso tempo. Non riuscivo a credere che si trattasse
proprio dei fuochi fatui. Mi alzai lentamente, e camminai verso di loro,
tenendomi però a debita distanza. Ero titubante. Da piccolo i miei nonni
mi raccontavano che il cimitero era abitato da anime che la sera si
svegliavano, emettendo deboli luci azzurre. Quando crebbi, mi spiegarono
che di notte poteva accadere di veder salire dalle tombe certe esalazioni
azzurrognole, provenienti dalla decomposizione dei corpi. Il racconto mi
aveva colpito ma riuscii mai a vederle, se non con l'immaginazione. E ora
mi trovavo di fronte a veri fuochi fatui.
Avvicinandomi ebbi la sensazione di udire un brusio, e incuriosito mi
accostai alle urne. Piano piano il bisbiglio si fece più nitido fino a che
arrivai a comprendere le parole.
"…sì, questa volta l'ha fatta grossa".
"Cosa è successo?" domandò una voce.
"Sembra che abbia molestato ingiustamente un cagnolino" rispose un sibilo.
"Molestato un cagnolino? Incredibile! Un uomo come lui, sempre posato,
sorridente con tutti ed ossequioso. E la nostra risposta? " chiese la
prima voce.
"Elea la sta ancora dettando. Il povero Geremia è troppo malato. Fa fatica
a scrivere e ultimamente non riesce più ad alzarsi, nemmeno per il giro
d'ispezione ".
"E il giovane capo-ufficio? Pare abbia abusato del suo potere…"
"Abbiamo preparato un biglietto anche per lui!Ma temo che rimanga senza
risposta…".
"Povero Geremia…"rispose una voce.
"Perdonate?" domandai timidamente facendomi avanti.
"Ssst! Stiamo preparando la rassegna serale. Chi sei?"
"Sono rimasto chiuso dentro al cimitero…" balbettai "e ho trovato riparo
qui. Avrei bisogno di aiuto".
"Se hai bisogno di aiuto, abbi pazienza, siediti e ascolta".
"Chi rimane in elenco?" domandò una voce.
"La donna con la pelliccia…"
A sera inoltrata le fiammelle si riunivano e redigevano una sorta di
bollettino di coloro che quotidianamente frequentavano il cimitero. Dopo
aver osservato e commentato, decidevano se preparare le risposte per
coloro che si erano comportati in modo scorretto e disonesto.
"Si fa tardi, anche oggi rimarremo senza risposte" si lamentò una
fiammella.
"Hei tu!" esclamò una voce muovendosi delicatamente verso di me come mossa
da un alito di vento. "Ti spiacerebbe prender nota di alcune frasi? Sulla
mensola in fondo troverai da scrivere".
Eseguii senza fiatare.
La voce proseguì "Al giovane dell'ufficio: <Un trono che crolla è come una
montagna che frana, che schianta il piano e lascia dietro di sé un mare
morto>". Tomba numero 173b. Da recapitare. Domani. L'ordine fu perentorio.
"Alla donna <La lingua può nascondere la verità, gli occhi, mai!>". Tomba
numero 231f.
"All'uomo col cane <Come la carta al posto dell'argento, così hanno corso
nel mondo, invece della vera stima e della vera amicizia, le loro
manifestazioni esteriori e i loro atteggiamenti, mimati con la maggiore
naturalezza possibile…Si tenga più allo scodinzolare di un onesto
cagnolino che a cento di quelle manifestazioni e di quei gesti>". Tomba
191c.
Terminata l'ultima dettatura, mi assopii appoggiato al muro. Dormii alcune
ore. Una tenue luce mi svegliò. Cominciava ad albeggiare. Mi accorsi che
le fiammelle erano sparite, così mi affrettai a recapitare la posta ai
relativi destinatari.
La sera stessa feci ritorno al cimitero, e così proseguii per diversi
giorni.
Fui nominato custode, al posto del vecchio Geremia.
Mi ero riscattato. Non solo. Nel silenzio avevo trovato una compagnia,
vera ed onesta. E avevo trovato una voce. Ero diventato il postino delle
anime.
L'incontro
Erano passati alcuni anni dall'ultima volta che l'aveva vista. Sedeva
vicino alla stufa, l'enorme stufa che riscaldava l'intera stanza dall'alto
soffitto a cassettoni. Come di consueto, prima di cena sbatteva l'uovo per
il figliolo che rientrava dal duro lavoro in stalla. Non era per nulla
cambiata, e sebbene invecchiata, solito sorriso amichevole, voce
autoritaria. Il nipote, vedendola, la strinse fra le braccia e la baciò
affettuosamente. Cominciò così una lunga chiacchierata sugli anni passati,
la lontananza del ragazzo dall'Italia e i problemi di salute di cui
soffriva la zia. La signora Luisa insistette perché Andrea si fermasse a
cena, e fu così che venne allestita una tavola con le cose buone e genuine
della campagna; il formaggio del pastore, barattato in cambio di un pezzo
di prato concesso al pascolo, il pane fatto in casa, il salame come
riconoscimento per l'assistenza alla nascita di un vitello, e infine la
torta al cioccolato per l'utilizzo di un taglia erba. Una cena barattata
in piena regola.
Ad accompagnare la calorosa conversazione era il crepitio della legna
ardente nella stufa che interrompeva le parole con vigorosi scoppiettii.
L'occhio vigile della zia controllava che la fiamma fosse sempre viva.
Iniziò quindi una simpatica conversazione sui proverbi, che la signora
Luisa conosceva molto bene ed esibiva ad ogni occasione, spesso
brontolando contro il figliolo che tardava a tornare benché fosse senza
"fiö né cagneu". Il nipote, divertito, rideva ad ogni proverbio, ed
incuriosito, le domandò come facesse a conoscerne tanti. La zia cominciò
quindi a ricordare i vecchi tempi, quando la gente trascorreva la sera in
stalla a chiacchierare, scaldandosi tra le bestie, gli uomini seduti sulle
panche e le donne sulle seggiole, a filare, talune con i bimbi
addormentati fra le braccia. Era quello il loro modo di riunirsi fino a
tarda sera, raccontando episodi, e narrando vecchie storie. Andrea,
assorto, ascoltava e immaginava il calore della stalla, i racconti.
Uno squillo del telefono lo riportò alla realtà. La zia si alzò
faticosamente per rispondere e Andrea ne approfittò per avvertire Giulio,
il suo amico, che sarebbe arrivato all'appuntamento con mezz'ora di
ritardo. Estrasse di tasca il cellulare, ma si accorse che non c'era
segnale. Nello stesso momento entrò Costante, il figliolo, e con lui una
scia d'aria fresca. I due si abbracciarono calorosamente e Andrea avvertì
che Costante emanava un odore di stalla, unito a profumo di fieno e di
latte appena munto. La signora Luisa si apprestò a preparare i panni
puliti del figliolo. Tuttavia, Costante, senza nemmeno togliersi gli abiti
da lavoro, si sedette a tavola, ansioso di sapere le ultime novità dal
nipote , mentre sottovoce la signora Luisa brontolava che era tardi e i
ravioli erano stracotti. Costante afferrò la tazzina d'uovo sbattuto.
"Quanto tempo è passato?"domandò.
"Cinque anni" rispose.
"Com'è a Woodstock?"
"A Houston, zio".
"Ah, sì Hugston..." balbettò Costante.
Andrea sorrise. "Non immagini che praterie e distese di verde! E c'è pieno
di mucche al pascolo, tu impazziresti."
"Sono le Locorn?"
"Vuoi dire le Long Horn"
"Sì, quelle con le corna lunghe, sa vöt ca sapia mì, non me ne intendo di
inglese" si schernì lo zio.
"Ti posso mandare qualche foto se hai un indirizzo mail" rispose il
giovane.
"L'i…che? Non mi parlare di Internet", evidenziando l'accento sulla e. "Ha
rovinato il mondo" .
"Ma come zio? La comunicazione globale!"
"Mi vöri no Internet a cà mia. Le immagini sul video scorrono veloci. E a
mì, am vegna al mal da testa". E poi, se mi arrivano in casa i pedofili?
No, l'è no roba par mì".
Andrea rise di gusto. E replicò "Se avessi però bisogno di fare una
ricerca su un capo in via di estinzione, poiché ami selezionare razze
rare, con Internet in un attimo sapresti dove reperire il materiale
genetico."
"Io mi tengo aggiornato sai?" E si alzò per prendere dalla cesta dei
giornali "Terra e vita", la rivista di agricoltura.
"Mese per mese qui c'è un elenco di esemplari, suddivisi per razza e
patrimonio genetico. Ora si parla di embryo-transfer. Si vuole effettuare
la fecondazione in vitro e impiantare l'embrione con un importante
patrimonio genetico nell'utero di una vacca che proseguirà la gravidanza
del vitello come fosse suo."
"La mia è una fecondazione classica, ma prima svolgo un'accurata selezione
dei semi" continuò Costante.
Il nipote zittito ascoltava. E fra sé e sé pensava "Che uomo...Sembra
vivere fuori dal mondo, ma in quanto a scienza è all'avanguardia. Anche
senza Internet".
Lo zio accorgendosi che Andrea era pensieroso, allungò una mano e lo
accarezzò sulla guancia.
Sentì un odore acre e pungente. "Zio, la tua mano sa…"
"Scüsam né. L'è udur ad crava. Ho rusì
cul cavròn! Al vegna no via" e scoppiarono a ridere.
Era trascorsa mezz'ora. Andrea abbracciò Costante e la zia.
Lasciandoli sentì una stretta al cuore.
L'incontro era stato per lui un salto nel passato.
Romano - Vita in solitudine
Il mio contratto era scaduto, ed essendo fine agosto decisi di trascorrere
qualche giorno dando una mano a Costante nel lavoro in cascina. Erano
stati mesi molto caldi e ancora la calura accompagnava le ultime giornate
estive. Avevo trascorso solo pochi giorni di vacanza, a causa di problemi
al lavoro. Tuttavia, aver abbandonato l'ufficio era stata per me una
fortuna.
Pensai quindi di godermi la calda luce del sole a contatto con la terra e
gli animali.
Costante era un uomo di mezza età che aveva dedicato tutta la vita ad
allevare vacche da latte e a selezionare capi in via d'estinzione. Serio e
genuino, un uomo d'altri tempi. Aveva sempre una parola buona per tutti e
sapeva ascoltare. Spesso lo trovavo in stalla verso sera alle prese con i
tubi delle mungitrici e il seggiolino di legno legato in vita, mentre
passava con passo spedito da una mucca all'altra. Qualcuno gli era sempre
alle calcagna per sfogarsi, confidare problemi, pettegolezzi, racconti
piccanti di tradimenti o sotterfugi. I suoi preferiti. Li commentava tra
sé e sé, poi ci rideva su scrollando il capo. A volte mi raccontava le
storie più inverosimili.
Rientrava a casa tardi e cenava per ultimo; qualche volta faceva un paio
di telefonate, poi si sedeva in poltrona con una rivista in mano, finché
gli occhi gli si chiudevano, segno che la giornata era finita. Così, con
passo stanco, saliva le scale e andava a letto. Il risveglio era all'alba,
le mucche andavano munte prima che passasse il camion per il ritiro del
latte. Alle cinque e mezza iniziava il lavoro.
Dopo la mungitura si accudivano le altre bestie e si svolgevano i lavori
di manutenzione. Era necessario rinnovare la paglia alle mucche eliminando
lo sporco, spazzare la stalla e il portico, preparare il latte per i
vitelli, dare il fieno alle capre, alle pecore, ai maiali e ai cavalli,
assicurandosi che le bacinelle d'acqua fossero piene.
Conoscevo l'attività, spesso per puro piacere avevo trascorso intere
giornate ad abbeverare e a sfamare tutte quelle bocche.
La mattina era sempre una pena svegliarsi così presto, ma il piacere di
assistere al sorgere del sole, mi faceva dimenticare la pesantezza degli
occhi assonnati. Solo io e Costante, ad assaporare l'aria fresca del
mattino e l'odore di fieno umido. Nelle giornate di caldo intenso, l'alba
era velata da una leggera foschia.
Quella domenica ero rimasta sola; Costante, dopo la mungitura, era andato
alla Fiera Agricola in Val di Nizza e sarebbe tornato in serata. LaVal di
Nizza distava tre quarti d'ora d'auto dalla cascina ed era nota per le sue
colline suggestive, gli agriturismi, la cucina casereccia e i paesini
arroccati sulle sommità, dove, secondo la tradizione, si tengono feste e
sagre di paese durante l'estate.
Gabriel, il ragazzo albanese che aiutava in stalla era rientrato in casa
per la colazione che gli preparava la sua giovane moglie, giunta in Italia
da poco perché incinta al quarto mese.
Avevo deciso di sistemare le unghie all'asina che curavo da parecchi
giorni a causa di una brutta ferita che si era procurata incastrandosi lo
zoccolo nella mangiatoia di ferro.
Così, con la busta di plastica che fungeva da valigetta di pronto
soccorso, la condussi fuori dal recinto, legandola con una corda al
trattore sull'aia. Volevo che la ferita prendesse aria e si asciugasse al
sole. Ne approfittai per recuperare tenaglia e coltello e improvvisarmi
maniscalco. Recisi entrambe le punte delle unghie anteriori che erano
cresciute a dismisura. Soddisfatta del mio lavoro e grondante di sudore,
mi stavo accingendo al alzarle la zampa posteriore, quando, china,
intravidi oltre la sua pancia una grossa figura in movimento. Mi voltai
rapidamente e vidi un enorme maiale avanzare verso di noi. Temendo che
potesse fare del male al mio asino già provato dalla ferita, feci qualche
passo nella sua direzione, con la speranza che il mio incedere deciso e
minaccioso lo facesse fermare. Allargai le braccia come si usa fare coi
cavalli, gridando "Via!Via!", ma quello iniziò a trotterellare,
saltellando qua e là. Ero disorientata dalla mole che avevo davanti. Un
enorme suino rosso alto quasi quanto me e cinque volte più grosso. Con
rapida mossa slegai l'asina e la tirai verso il recinto per metterla in
salvo. In realtà il gigante aveva ben altre mire, e scorrazzava per il
cortile fermandosi di quando in quando a raccogliere qualcosa da terra,
allontanandosi con semi e fili di fieno in bocca, che sgranocchiava con
avidità emettendo grugniti di piacere. Finalmente qualcuno in lontananza
lo chiamò per nome. Per nulla agitato, e con voce calma, Pino, l'aiutante
di Costante, un uomo dall'aspetto basso e tozzo, aprì la porta del box
invitandolo con la forca a rientrare. La mia asina era al sicuro.
Tuttavia, mi ci volle qualche minuto perché mi passasse il batticuore.
Raccolsi i miei strumenti, decisa a dedicarmi ai maialini tibetani, di ben
altre dimensioni. Sapevano di poter pascolare liberamente lì attorno
mentre pulivo la lettiera, purché non si allontanassero troppo. Li tenevo
d'occhio, finché fui distratta dal rumore provocato dalle corna di due
caproni che si contendevano la femmina. Agitai la scopa in aria per farli
smettere, dopodichè mi volsi a controllare la mia coppia di maialini.
Mancava il maschio. Scrutai intorno, tra l'erba, in mezzo alle zampe delle
mucche. Niente. Mi diressi verso il cancello che portava ai campi e lì lo
vidi imboccare la strada sterrata che conduceva al paese. Lo chiamai
invano, dovetti quindi inseguirlo perché desistesse dalla fuga. Decisi che
fosse meglio rinchiuderli, cominciavo ad essere stanca.
Mi avvicinai al tubo dell'acqua per rinfrescarmi e mi sedetti sul fieno a
riposare. "Che faticaccia!" pensai tra me e me.
Dopo qualche istante mi alzai per dare il fieno ai cavalli. Prima di
raggiungerli controllai le cuccette dei vitelli e successivamente diedi
un'occhiata agli asini. Un piccolo stranamente volgeva le spalle alla
porta. Guardai bene e mi accorsi che aveva uno zoccolo incastrato tra le
sbarre di ferro del cancelletto. Gli presi delicatamente il piede per
girarlo, ma lui si divincolava peggiorando la ferita che si era procurato.
Aveva già sporcato di sangue il ferro. Mi precipitai a chiamare Pino. Per
far prima avevo attraversato la stalla passando dalle finestre,
scavalcando le mucche sdraiate e provocando grande agitazione. Richiamato
dalla mia voce egli avanzò verso di me muovendosi goffamente negli stivali
di gomma, ed io mi affrettai a recuperare la cassetta di pronto soccorso.
Tenendo stretto il piccolo sul petto, in modo che non si slanciasse in
avanti, chiesi all'uomo di roteare lentamente lo zoccolo, che in un attimo
si liberò. Quasi fosse grato e consapevole del nostro intervento, rimase
immobile a farsi medicare. Sarebbe guarito nel giro di pochi giorni.
Non rimanevano che i vitelli e, mentre mescolavo il latte in polvere
nell'acque tiepida delle bacinelle, mi auguravo che nient'altro sarebbe
accaduto fino al ritorno di Costante. Sembrava che le bestie avvertissero
che il padrone si era allontanato e avessero perso l'orientamento.
Finalmente egli arrivò, e durante la mungitura gli raccontai l'accaduto.
Ascoltava e scrollava la testa ogni tanto.
A lavoro ultimato passavo dal pollaio, e se trovavo le uova le offrivo
alla moglie di Gabriel. Era una ragazza bassa di statura e leggermente
gobba. Non si allontanava mai di casa e, considerandolo un comportamento
dovuto a eccessiva timidezza, avevo preso l'abitudine di bussarle alla
porta e informarmi sul suo stato di salute, invitandola a fare due passi.
La comunicazione tra noi era difficile, conosceva solo poche parole
d'italiano. Nonostante i miei tentativi, rifiutava sempre e usciva solo
per ritirare i panni stesi. Dovetti convincermi che era questione di
cultura, e non insistetti più.
Il lunedì mattina solitamente si sbrigavano le pratiche amministrative.
Quel giorno dovevo ritirare una raccomandata e andai fino in paese.
L'ufficio postale si trovava di fianco al bar tabaccheria, nella strada
adiacente alla via principale. C'erano alcune persone in fila e mi sedetti
ad attendere il mio turno sulla panchina a ridosso del muro. La donna che
mi stava accanto indossava un paio di mocassini di una misura più grandi,
consumati e sporchi di polvere. La signora anziana entrata dopo di me
portava invece un paio di ciabatte, e si era accomodata con disinvoltura
sulla panca di fronte alla mia, come se non fosse mai uscita di casa ma
avesse solamente cambiato stanza.
Per ultima era entrata una donna alta e robusta, con grosse scarpe
sportive e un fazzoletto annodato sotto la gola. I pomelli arrossati e le
mani vigorose, si era avvicinata all'uomo in fila e attraverso un sorriso
di denti d'oro, aveva chiesto di poter passare davanti per chiedere
un'informazione allo sportello.
"No, non sono ancora arrivati i moduli per gli extracomunitari" aveva
risposto l'addetto al di là del vetro. Ringraziando, la donna si allontanò
e salutò molto gentilmente con accento straniero. Avrei giurato che si
trattasse di un'ucraina o di una rumena a servizio presso un fattore della
zona.
Arrivato il suo turno, la signora a fianco a me si alzò.
"C'è un pacco per lei" le disse l'impiegato.
"Un pacco per me?" domandò.
"No mi perdoni, ho sbagliato, non è per lei".
"Se contiene soldi lo ritiro io" continuò la signora.
L'anziana dalle ciabatte intervenne dicendo: "I gän tüt fam ad danè, ma nä
mangian mia neänc i galin".
I presenti scoppiarono a ridere, ed io anche.
Ritirai la raccomandata e tornai in cascina.
Mori
Era domenica mattina.
Entrai in casa sua per salutarla. Appena aprii la porta i cani saltarono
giù dal divano e mi vennero incontro abbaiando. Mori doveva essere in
camera. Girai lo sguardo intorno, per capire se fosse rientrata. I piatti
nel lavabo erano ancora da lavare. L'aspirapolvere era appoggiato al
tavolo, segno che stava facendo le pulizie. I cani ripresero il loro
posto. La chiamai, ma non rispose. Mi diressi verso la camera da letto e
dalla porta del bagno semi aperta la vidi. Era china sul gabinetto. Si
girò a guardarmi, era pallida. "Che succede?" le domandai.
"Niente, arrivo subito" rispose a mezza voce.
Tornai ad aspettarla in cucina, ma sapevo che qualcosa non andava.
Ci conoscevamo da tanti anni. Era sempre stata di poche parole. Veniva da
un paese della collina dell'Oltrepò Pavese, suo padre possedeva un
vigneto, da cui ricava dell'ottimo vino. Sua madre, una signora espansiva,
simpatica, dalla voce squillante, era stata operata per un problema ad una
gamba, che l'aveva costretta a zoppicare per tanti anni. Stava
migliorando, camminava da alcuni mesi senza il sostegno delle stampelle.
Si preoccupava molto per Mori e diceva sempre "Ah, questa ragazza,
selvaggia, testarda!"
Ero stata diverse volte a casa dei suoi. Durante il pranzo Mori non
spiccicava mai una parola. Solo quando ci chiudevamo in camera sua, piena
di poster e di libri di cavalli, si sentiva nel suo mondo e cominciavamo a
chiacchierare.
Ovviamente si parlava di cani e di cavalli, le nostre passioni, di uomini
raramente. Era questo un altro capitolo che la zittiva, non avendo mai
incontrato un "esemplare" che potesse definirsi suo fidanzato. Aveva avuto
una cotta per un ragazzo che all'epoca era impegnato. Mi chiedeva quale
fosse l'abbigliamento più adatto per uscire con lui, ed io, sapendo che
aveva pochi abiti per ancora più rare occasioni, le suggerivo di indossare
la gonna e biancheria intima carina. Le consigliavo di raccogliere i
lunghi capelli lisci, che poche volte avevano conosciuto le forbici del
parrucchiere, e di mettere un leggero rossetto per valorizzare le labbra.
Durante le nostre chiacchierate mi aveva rivelato di temere il momento in
cui lui le avrebbe chiesto un contatto fisico che non aveva mai provato.
Al tempo ero fidanzata e avevo avuto alcune storie, e delicatamente le
parlai tentando di tranquillizzarla riguardo un argomento per lei tabù.
La storia non durò molto, Mori soffrì parecchio. Non concepiva una
relazione con un uomo già impegnato. Tuttavia lui continuò a cercarla per
parecchio tempo, ma senza successo. Mori era stata forte, non aveva ceduto
alla tentazione di rivederlo.
Un altro argomento critico erano i soldi in banca. Le chiesi dove li
tenesse. "Sotto il letto" fu la risposta.
Un giorno mi raccontò che sua madre l'aveva chiamata al maneggio per
avvisarla che il Comune offriva un corso gratuito d'inglese ai giovani
della sua età. Mori rimane offesissima. Reagì come un puledro abituato a
scorrazzare al paddock che si trova ad un tratto ad avere una corda
attorno al collo e agita la testa per sbarazzarsene.
Era ostinata e sosteneva con determinazione le sue idee. Per un certo
periodo di tempo la definii "ruvida" ma col tempo si ammorbidì. Più di una
volta mi è capitato, conversando, di avvertire saggezza nelle sue parole.
Mi domandavo da dove venisse quel cambiamento. Avevo la convinzione e
forse la presunzione di credere che la saggezza fosse strettamente legata
all' esperienza, ma ho dovuto ricredermi.
Vedendola silenziosa, a volte cercavo di decifrare i suoi pensieri. Ma
spesso li interpretavo in modo sbagliato. Avrei voluto che provasse
entusiasmo per un viaggio all'estero, in America, dove praticare la monta
americana specializzandosi in cutting, il lavoro coi vitelli, e vivere la
vita dei cow-boy. Ma poi, come risolvere il problema dell'inglese?
"Io sto bene qua, non sono adatta a cambiare abitudini" rispondeva.
Nonostante tutto, la ristretta cerchia del maneggio era la sua vita.
Finché, un giorno, ricevette la proposta di lavorare in una scuola di
equitazione vicino a casa sua, ai piedi della collina. Trenta cavalli in
tutto e parecchi soci. In più, alloggio presso la scuderia.
In primavera fece la sua comparsa al maneggio un uomo sulla cinquantina,
di corporatura robusta e aspetto da cow-boy. Si diceva che fosse veneto,
ma che venisse dal Texas, dove aveva lavorato in qualità di ranger e
horse-trainer presso un ranch di Dallas. I cavalli li conosceva bene e li
sapeva trattare, anche quelli più difficili. Sembrava fosse uscito dal
romanzo "L'uomo che sussurrava ai cavalli" e si fosse trovato lì per caso.
Fece colpo su Mori. Avevano gli stessi interessi, trascorrevano le
giornate insieme, e lei subì presto il suo fascino.
Durante una camminata con i cani mi rivelò che lui le aveva fatto
intendere che si era innamorato di lei. "Il problema è che ci dividono
venticinque anni di età, e oltretutto è sposato". "Sposato? E sua moglie
dov'è?" chiesi perplessa.
Mori mi spiegò che la moglie aveva sempre vissuto in Veneto, e che la loro
vita coniugale era stata molto travagliata.
"Tuttavia, dove c'è amore l'età non conta" le dissi durante la
discussione. E per qualche tempo continuai a ripeterglielo.
Mori attraversò momenti di solitudine e di tristezza, combattuta tra le
difficoltà di un amore impossibile e la differenza di età. Non riuscivo a
vederla coinvolta in una situazione così complicata.
Finché non la trovai la domenica mattina china sul gabinetto. Stava
vomitando.
Mi raggiunse in cucina. Era piuttosto provata, ma aveva uno strano
bagliore negli occhi.
"Cosa succede?" le chiesi accomodandomi sul divano vicino ai cani.
"Forse non ho digerito, non lo so, ho mal di pancia".
"Bé, fatti una camomilla, una tisana" ribadii. "Da quando hai male?"
"Da qualche giorno, mi viene la mattina poi passa".
"Non sarai mica incinta?" le chiesi con tono scherzoso.
"Ho l'aria di esserlo?" rispose con un sorriso ironico.
"Cosa? Stai scherzando! Mori! Sei incinta?"
"Ho fatto il test, positivo" rispose afferrando uno straccio e
appoggiandoselo sulla fronte.
Si sedette accanto a me, incrociando le gambe sul divano.
"Ma è bellissimo! E da quanto?" le chiesi.
"Quarantacinque giorni" rispose piano, con aria contrita.
"E non sei contenta? Ma è magnifico! Ci sono donne che pagherebbero per
poter essere nel tuo stato!
"Sì, ma non doveva succedere, non possiamo tenerlo!" replicò.
"Ma perché? Non puoi parlare così. Pensa che magari nemmeno io potrò mai
averlo, e tu che sai di avere una vita dentro la rifiuti?" gridai.
"Non doveva succedere" continuava a ripetere.
"Ma è successo e ora dovete essere responsabili! E lui che dice?" replicai
animatamente.
"Cosa vuoi che dica? Questo sarebbe il figlio che non ha mai avuto. Ma
come facciamo? Non abbiamo soldi, il lavoro è precario, non abbiamo una
casa nostra, che vita possiamo dargli? Oltretutto lui è sposato e io sono
stanca, non ce la faccio più a nascondere tutto" rispose piangendo,
affranta e rassegnata.
"Affronterete insieme le difficoltà man mano, non potete! Potresti
pentirtene più avanti. Pensaci!" insistei.
"C'è un altro problema. Io prendo delle pastiglie per la prolattina. Sono
pericolose se assunte in gravidanza. Le ho già sospese, ma è pericoloso
ugualmente continuare. L'ha detto il ginecologo" rispose tristemente,
passandosi lo straccio sulla fronte.
"…Quand'è così.. Non c'è scelta…" balbettai.
Un insieme di pensieri mi si confondevano nella mente. Mori. La
gravidanza. La vita dentro di lei. L'aborto. Il figlio mai avuto. Io. Le
mie storie. Le nostre esistenze. Così diverse. Eppure, mai scontate. La
realtà, che in un attimo, si trasforma.
Dopo due settimane, il problema venne risolto chirurgicamente e a distanza
di qualche tempo non furono più costretti a nascondere la loro relazione.
Il suo compagno aveva chiesto la separazione senza nulla volere dalla
moglie.
Ora vivono un tenero amore, dividono una casa piccola, conducono una vita
semplice, e a loro basta.
La vidi al maneggio qualche giorno fa. Salii da lei. Stava pulendo la
cucina.
"Come stai?" le chiesi.
"Ho un leggero mal di pancia, credo di aver fatto indigestione coi
peperoni" mi rispose senza guardarmi.
Non aggiunse altro. Silenzio. La salutai e mi allontanai.
Bosco di notte
Prese la stradicciola che conduceva verso il fiume. Mirko conosceva a
memoria i sentieri del bosco, e anche quando aravano i campi o tagliavano
i pioppeti, non si perdeva mai. Aveva dentro di sé una bussola che lo
faceva orientare anche quando il paesaggio cambiava aspetto. Era novembre
e il sole cominciava a scendere oltre la volta delle nubi
Il bambino guardava in cielo, seguiva con lo sguardo il raduno degli
uccelli migratori su una macchia di arbusti.
Si arrestò, la scena rubava l'attenzione come fosse uno spettacolo
pirotecnico. Gli storni volteggiavano in gruppi separati, veloci, e
sorvolavano i campi, riunendosi solo per nascondersi oltre la macchia.
Dopo pochi secondi riprendevano il volo lanciandosi in cielo a gran
velocità. Questi grappoli di fuochi animati si univano e si dividevano in
sincronia come davanti a uno specchio. Sembrava che una forza magica li
sospingesse.
Mirko, col naso all'insù, seguiva a bocca aperta.
Una pausa più lunga oltre la macchia lo spinse a proseguire il cammino.
Sul margine del sentiero, dove cresceva l'erba, posò del pane per terra.
Sapeva che alcuni animaletti sarebbero usciti in cerca di cibo.
A poco a poco il silenzio si riempì di fievoli voci, di rumori di volpi e
di lepri.
Sentì sopra di sé un rumore e vide passare uno stormo di anitre, talmente
basse, che poté avvertirne il fremito dello sbatter d'ali. La prima della
formazione a V emetteva un verso come per incoraggiare le compagne. Quella
gigantesca lettera sembrava un enorme freesbee sfuggito al controllo di un
bambino e ora vagava in cielo accompagnando i migratori in viaggio.
Su un tratto di sentiero delimitato da querce, il bimbo si trovò su un
letto di foglie secche scoppiettanti. Il fruscìo delle foglie calpestate
provocava un rumore assordante.
Un barbagianni, appena uscito dal nascondiglio, si alzò in volo,
incuriosito, volteggiando con sordo rumore di ali sopra la testa di Mirko.
Poi, si posò nuovamente sul ramo della quercia, ad osservare.
Da una cavità di questa uscì uno strano brusio. Scorse all'interno due
piccoli fari gialli. Erano occhi che l'osservavano. Ma non ebbe paura.
Sapeva che a quell'ora gli abitanti del bosco si svegliavano e uscivano
per procurasi il cibo.
Era la civetta, che con il calare dell'oscurità si era destata e sbatteva
gli occhi, un po' stropicciata, come un vecchio scienziato che, inforcando
gli occhiali, si accinge a maneggiare le provette degli esperimenti.
Mirko superò la curva e il rapace notturno con uno stridulo "Tuì-tuì",
uscì dalla cavità e gli volò accanto seguendolo fino al fiume. Al di là
dell'argine si apriva uno spettacolo lunare. L'acqua scintillava e le onde
riflettevano una luce d'argento, formando tante piccole stelle in
movimento.
Il bimbo scese per il piccolo passaggio che portava al fiume e avanzò due
o tre passi entrando nella luce della luna.
"Tuì-tuì" fece la civetta, allontanandosi all'improvviso. Mirko sentì alle
sue spalle spezzarsi dei rami e insieme uno stormire di foglie.
Indietreggiò alcuni passi e si allontanò per tornare sul sentiero.
Un'ombra scura gli passò davanti con un sordo grugnito. Capì che si
trattava del cinghiale. Era uscito dalla tana, forse spinto dall'odore del
pane.
Lo vide saltare nella macchia seguito da un'ombra più piccola. A Mirko
piacevano molto i cinghiali, aveva sentito raccontare tante storie
riguardo loro, così schivi e difficili da osservare. Ma ora erano lì a
pochi passi da lui.
Gli piaceva molto la vita del bosco nell'oscurità. Non si sentiva mai
solo, qualche animaletto lo seguiva sempre.
Si era alzata una leggera brezza. Anche il vento gli faceva compagnia, lo
sentiva strisciare sulla cima degli alberi. Si tirò su il colletto della
giacca e rabbrividì. Era calata l'umidità.
Affrettò il passo perché si era fatto tardi. A casa l'aspettavano.
In lontananza udì una voce. La mamma lo stava chiamando e gli veniva
incontro sul sentiero. Come furono vicini lo strinse e gli strofinò le
spalle per scaldarlo: "Andiamo ometto, si è fatto tardi non ti sei
accorto?".
All'improvviso l'animazione del bosco sfumò.
Cessò lo stormire delle foglie. Il canto degli uccelli si affievolì. Il
grido della civetta svanì tra le fronde. Il grugnito dei cinghiali si
perse lontano. Rumori e squittii si dissolsero. Goccioline di nebbia
attutirono il calpestio delle foglie.
In pochi minuti era calato il silenzio e per il bosco si diffondeva
un'aria di inesplicabile svogliatezza.
Calura d'agosto
Agosto. Toscana. Entrando nel rustico lo sguardo si sofferma sul pavimento
in cotto e i letti in ferro battuto. Le tonalità dominante è color
mattone, accompagnato dall'arancio delle pareti. Il tetto in legno
riscalda e dà calore alla stanza. Ma ciò che rende magica l'atmosfera è la
vista. Due finestrelle basse, attraverso le griglie, lasciano intravedere
la collina, concentrando l'attenzione sul poggio sovrastante.
Mi chino per osservare il dolce paesaggio. Il viso provato dalla calura
d'agosto si distende al soffio del vento, che annuncia una perturbazione
in arrivo.
Sulla sommità del poggio sta un leccio solitario, quasi lasciato a
spezzare la linea del colle. Una strada bianca conduce fino a lui e si
perde nel cielo.
Sul versante della collina si arrampicano lenti due trattori, a creare tra
le onde del mare di terra, profondi solchi di arida creta senese.
L'aria si fa fresca. Aspirando, si percepisce un odore di acqua, di terra
bagnata. In lontananza avanzano minacciose nubi cariche di pioggia.
Osservo prima loro poi i trattori. Il silenzio è rotto, a tratti, dal
ronzio dei motori trasportato dal vento, unito all'odore di pioggia man
mano più intenso.
All'improvviso il tuono. Le nuvole hanno varcato la sommità del poggio.
L'aria scuote la cima del leccio.
I salici, dondolando, sembrano salutare il temporale agitando manine
d'argento.
Indifferenti, le due macchine proseguono il cammino.
La terra secca, bevendo cambia colore e si tinge di scuro. Non si tratta
di una semplice pioggerella, bensì di un vero acquazzone!
A quel punto i trattori si arrendono e in fila indiana abbandonano il
campo. Una riga netta distingue le zolle appena smosse dal verde
circostante. Con pesante rumore di cingoli passano sotto la mia finestra.
Ora avverto gli spruzzi delle gocce che raggiungono la finestra e accosto
leggermente i vetri.
Trascorsi dieci minuti si apre in cielo una striscia di azzurro, il vento
cala, le nubi si allontanano. Riprendono timidi cinguettii. Dal suolo sale
vapore.
Avverto uno stridio. Lungo il sentiero si avvicinano i due per proseguire
il lavoro abbandonato.
Tutto riprende armonia.
Metro
Quell'inverno il freddo entrava nelle ossa, la nebbia offuscava i pensieri
e l'unico desiderio, arrivando al parcheggio, era di rifugiarsi in
metropolitana e assaporare quel calore misto a odore di ferraglia. Era il
mese di dicembre, si era ormai in pieno clima natalizio, luci sfavillanti
ovunque, musichette, festoni colorati. "Tutti gli anni la stessa storia -
penso, - pare di essere a Carnevale". Scendendo gli scalini del metro,
scansando accuratamente i lenzuoli su cui i venditori ambulanti
allestiscono le vetrine, do un'occhiata alla merce esposta, poi ai loro
volti; sono cinesi, peruviani, marocchini, eppure gli oggetti in vendita
si assomigliano tutti in tutto, dai pupazzetti di Babbo Natale ai cappucci
intermittenti con scritto Merry Christmas. Penso: "La spiritualità del
Natale non si può perdere in quegli oggetti da due euro" e provo un senso
di disagio; ma in fondo non so se provare fastidio o tenerezza per quei
piccoli venditori che tirano a campare con pochi spiccioli, e mi pento. Ma
poi rifletto chiedendomi "Quelle anime crederanno nel Natale, o
appartengono ad altre religioni? E' tutto un controsenso". Così, immersa
nei pensieri mi incammino verso la via dell'ufficio. Davanti a me, un
ragazzo storpio avanza barcollante, esibendo sulla stampella la sua gamba
deforme e chiede l'elemosina. La gente lo scansa e ancora una volta penso:
"A Natale scendono tutti in strada, ma a Natale si è tutti più buoni.
Sarà…" Scuoto con rammarico la testa e mi avvicino al portone d'entrata,
quando mi sento chiamare da una voce di donna, e girandomi vedo una
giovane con in grembo un fagotto da cui spunta un faccino innocente. Come
non cedere? Le faccio un sorriso, frugo in tasca, le allungo una monetina
e mi allontano ancora più confusa, forse frastornata da tanto rumore e da
tanta umanità. Entro in ufficio. Dentro è silenzio e pace, quasi adorabile
questo rifugio che si estranea da quella bolgia rumorosa. Penso che
finalmente mi immergerò nella mia lezione d'inglese e mi appresto a
ripassare prima dell'arrivo di Elliot, l'insegnante americano.Con lui il
tempo vola, ha sempre il sorriso sulle labbra e qualcosa di divertente o
interessante da raccontare. Eccolo che arriva, riconosco i suoi passi, è
più veloce del solito, entra nel mio ufficio portandosi ancora quella scia
di freddo invernale. Indossa come di consueto il cappello di lana a tesa
larga, ma la sua espressione non è calma come sempre e il suo tono di
voce, caldo e profondo, è piuttosto concitato. Sembra che qualcosa l'abbia
sconvolto, e senza nemmeno togliersi il cappello esclama: "Mara, you won't
believe!" - "I saw Santa begging on the metro!". (Mara non ci crederai!Ho
visto Santa Claus chiedere l'elemosina in metro!). Inizialmente non colgo
il significato della frase ma percepisco che qualcosa è successo a Santa
Claus. Lo guardo stupito e lui ripete la frase, questa volta ridendo,
incredulo lui stesso alle parole che ha appena pronunciato. "I saw Santa
begging on the metro". Oh my God!" continua. E con un sorriso amaro
conclude dicendo: "E' diventato povero anche Babbo Natale!". |