Faten
Faten abitava a Safaga, città egiziana Del Mar Rosso, in parte, il suo
essere legata alla natura era anche dovuto a questo, quei luoghi
meravigliosi... quasi incontaminati l'avevano vista crescere libera e
solare, nonostante tutte le avversità. Figlia unica di un medico e di una
nota musicista, aveva ereditato da entrambi il rispetto per il prossimo
amalgamato a una buona dose artistica, superstite di un parto gemellare
drammatico, una sorella che continuava a vivere in lei costantemente pur
non avendola mai conosciuta fuori da quel grembo materno. Piccolissima
imparò a nuotare come un vero delfino, del resto quel mare stupendo, ricco
di coralli le era stato congeniale, ma il richiamo del verde degli alberi
con tutte le sue sfaccettature era il più forte di tutto, non a caso i
dipinti più belli ritraevano foreste e fitti boschi dai quali ne
scaturivano scritti infiniti che andavano ad intrecciarsi col suo passato
embrionale. Prima di quell' incontro Faten aveva avuto una vita pressocché
normale,certo, gli alti e bassi del vivere non erano mancati, sapeva bene
che il difficile delle cose, talvolta, scongelava antiche risorse. Le
intuizioni riguardanti i vari aspetti della sua esistenza facevano parte
di sé come il mangiare e il bere, non aveva mai dato molta importanza a
quelle che lei chiamava semplici coincidenze o casualità, anche se nel
profondo del suo essere serbava numerosi punti interrogativi. Per quanto
restasse tranquilla di fronte a quell'immagine fantastica di una eventuale
anomalia dell'essere, resisteva sempre all'approfondimento di quel dilemma
che in fondo in fondo, anche se non amava ammetterlo un po' l'assillava.
Ora però aveva avuto come una conferma a tutti i suoi dubbi, una sorta di
risposta che reclamava un'analisi profonda e il nome Eris che continuava a
rimbombarle nella testa poteva essere la chiave di tutto...
ContinuaRidateci i sogni
Quando il male prevale sul bene è la fine di tutti i sogni e
l’indignazione
non basta ad arrestare lo scempio di cui siamo spettatori. Subiamo
attraverso
la TV ogni tipo di violenza, siamo vittime di un meccanismo spietato che
bada
solo a fare ascolti, incurante di ogni etica morale, la cosiddetta TV
spazzatura.
A volte il mondo sembra l’esca dell’uomo che, senza curarsi di nulla,
abbocca in pieno a tutti gli inganni dandosi all’oblio.
Le pubblicità, subdole, che mostrano falsi modelli di donne con fisici
perfetti provocano danni, specie alle giovani che per raggiungere quei
canoni
di bellezza iniziano diete drastiche fino a diventare anoressiche o
bulimiche.
Oppure spot che mostrano famiglie fantastiche tipo quelle del Mulino
Bianco,
che, guarda caso, non rispecchiano mai la realtà, ci propinano favole e
mentre
lo fanno ci strappano l’anima con le loro idiozie.
Tutto questo passa sotto i nostri occhi prima o dopo averci fatto vedere
scene di guerre, sciagure e immagini di bambini del terzo mondo che
muoiono di
fame e di AIDS. In tutti e due i casi le vittime sono milioni e a me
sembra che
non si stia facendo molto dato che le mortalità sono in continuo aumento,
davvero lodevole l’atteggiamento del mondo nei confronti di queste
emergenze.
In questa età dove l’illegalità diventa legittima e dove la ricerca della
verità è vana, gli intrecci di scambi scandalosi traboccano squallidamente
in
ogni dove.
Ed ecco che il pensiero è forte più di ogni cosa, esso nasce improvviso,
quasi senza volerlo e ti cambia il momento e a volte la vita tradita dai
tanti.
Pensieri pensati e non vagano come proiettili in cerca di un bersaglio
giusto
e giace la speranza di chi resa non conosce, come in natura: il giorno e
poi la
notte ci si spinge nella vita e nella morte.
Oggi è solo un vago ricordo quando piccola mi annoiavo davanti alla TV ad
ascoltare Berlinguer trepidante e a volte furibondo, egli riusciva ad
accendere
negli occhi di mio padre una luce di speranza.
Che n’è stato di quell’ideale profondo che dava vita e ci faceva sognare?
Ed ora che il sistema ha ridotto ai minimi termini i confini della mente
dell’uomo, quest’ultimo possiede un destino colmo di niente e non ha più
voglia
di sognare.
Il quotidiano
Talvolta ingabbiata, la vita assieme appare come una mappa di intrecci
vari
stesa ai fili del bucato, sotto gli occhi di tutti, nasce, quasi sempre,
da una
deviante e protratta attrazione iniziale, costellata da montagne di
dubbi
contrastanti tra di loro. Ingenuità crescente… credere di sapere
l’essenziale
ritenuto indispensabile, quel tanto che non pesa per due che dicono
d’amarsi,
ovvero… lei lo dice, per lui, invece, è sottinteso e finisci col
dimenticare
persino che una volta lamentavi questa cosa; ma stranamente anche quelle
piccole frasi che avresti voluto sentirti dire ogni tanto è come se
indirettamente lui te le avesse ripetute ogni giorno ed ogni notte
ininterrottamente. Quando poi, con gli anni, l’essenziale ritenuto
indispensabile, per una coppia, diventa tanto e pesa quasi più di
te…voglio
dire… se entrambi sanno, l’uno dell’altra, una infinità di cose, anche
inutili,
mi chiedo, veramente, cosa resti da scoprire insieme, in quel remoto
caso che
lo si voglia ancora …che non sia la solita routine di sempre.
Il quotidiano le balza intorno ruotando, nella rincorsa improvvisata,
non ha
più spazi dentro da guardare e nel vortice, da sola, si solleva in un
momento.
La corsa
Scendo a fare due passi, è un pomeriggio ideale per andare in giro, sembra
quasi di avere i pattini o di volare, quando il tempo e la voglia si
alleano.
Da ragazza e poi da adulta ho sempre adorato camminare, è stato e lo è
tutt’
oggi uno degli elementi più importanti per la mia salute mentale, nonché
fisica, credo che mi abbia salvata più volte. Ricordo, invece, che da
piccola,
in seguito alla malattia di mia sorella Anna, non facevo altro che
correre,
soprattutto all’uscita di scuola, ma a quei tempi ogni occasione era buona
per
sfrenarmi, ero talmente irrequieta… provavo una sensazione di evasione
indescrivibile nella corsa, non so se fosse un’esigenza mia, piuttosto che
un
vero e proprio piacere infantile, a volte esageravo, mi spingevo a tal
punto
che nell’affanno credevo di morire, presumo che questo, però, accada alla
stragrande maggioranza dei bambini, ma appena mi riprendevo da quel
fiatone ero
un’altra, mi sentivo leggera e serena, mi dicevo che la vita in fondo non
era
poi così male, pensavo, nella mia ingenuità, che almeno quella cosa lì …la
corsa… nessuno avrebbe potuto mai togliermela.
Scrivendo poesie
Scrivendo poesie credeva di poter risolvere ogni cosa, nella sua pazza
vita,
che assurde pretese che aveva, piccole parole spacciate per oro colato.
Lei
stessa sapeva di non valere niente in quel campo, ma insisteva
imperterrita
come se da un momento all’altro, da quel bianco, potesse sbucare qualcosa
di
assolutamente bello, non certo per merito suo, ma solo ed esclusivamente
per
pura casualità.
Si rendeva conto che per arrivare al nocciolo, che non fosse la solita
strada
battuta, non era per niente facile e provava e riprovava, prima in un
senso,
poi in un altro, senza approdo alcuno. Una parola, un odore, una nota che
piacesse particolarmente a dare la spinta e invece tutti i versi che
scorrevano veloci, per lei, non contavano nulla, l’emozione, che amava
trasportare sul foglio, era andata a farsi friggere insieme alla voglia di
scrivere. Guardava i gerani ancora acerbi...solitamente, il suo animo si
scioglieva di fronte alla natura, come quando si soffermava davanti all’
innocenza di un bambino... gli occhi profondi di un randagio o un’anziana
signora con la quale parlare all’ufficio postale, tutte cose assolutamente
uniche per lei, da respirare, da vivere e soffrire, ma non quella volta
lì,
evidentemente...quindi, quale occasione migliore per parlare di un niente
che
di tanto in tanto dilaga nel nulla.
Ci cambiò l'autunno
Il mutare delle stagioni, l’incessante scorrere del tempo che dissipa e ci
rivela l’inspiegabile precarietà dell’essere umano....
Era l’autunno del 1964, un giorno di fine settembre immerso nel rosso dei
faggi ed ero impaziente per il ritorno a casa di mia sorella Anna, dopo
una
lunga degenza ospedaliera. Il suo ricovero risaliva alla primavera di
quello
stesso anno, era stata per mesi sul punto di morire, a causa di una brutta
meningite.
Aveva solo cinque anni quando si ammalò, io più grande di due anni, la
nostra
vita, prima di allora, era stata serena come un mattino a primavera, ci
adoravamo ed eravamo praticamente inseparabili, quel distacco fu, per me,
traumatico.
Aspettai tanto prima che riuscissi a convincere i miei genitori a portarmi
in
ospedale da Anna e a nulla valsero le lacrime della mia disperazione, ma
non mi
rassegnavo. E’ incredibile come nel corso degli anni questi fatti
scorrano,
nella mia testa, simili ad una pellicola inalterabile e le immagini una
dopo l’
altra si susseguano in quell’ordine cronologico di sempre.
Poi arrivò il tanto agognato giorno, non ero nella pelle e le
raccomandazioni
atte a placare il mio entusiasmo servirono a ben poco, finalmente, dopo
lunghi
mesi avrei rivisto Anna: starle vicina e parlare con lei voleva dire,
sebbene
per poco, ricongiungermi con quella parte preziosa della mia vita, quale
era ed
è tutt’ora Anna.
Quando arrivai al suo capezzale, tutta l’euforia, che avevo accumulata, si
spense di botto, rimasi impietrita e il dolore che provai non l’ho più
dimenticato. Dai miei occhi scendevano lacrime come cascate, addirittura
arrivai a pensare che non fosse lei, era completamente cambiata
dall’ultima
volta che l’avevo vista: il suo volto era sofferente e molto magro, stava
immobile, aveva gli occhi chiusi, ma non so se dormisse, mi sembra ancora
di
vederla, in quel lettino d’ospedale e sento ancora un nodo alla gola che
stringe come allora.
L’autunno ci riportava Anna proprio quando l’odore del mosto si diffondeva
nell’aria ormai frizzante e le prime piogge stagionali su sterpaglie
ancora
fumanti producevano effluvi inconfondibili, gli stessi che, ogni anno, di
questi tempi, mi riportano a quel periodo. La scuola era iniziata già da
un
po’, quell’anno mia sorella avrebbe dovuto frequentare la prima elementare
ed
io la terza, ma ancora non sapevo che lei, purtroppo, non era più in grado
di
seguire un normale corso didattico e ben presto mi resi conto di molte
cose.
Anna, in seguito alla malattia, aveva subito gravi lesioni cerebrali,
questo
determinò in lei profondi cambiamenti e non fu più la stessa. Da
quell’autunno
la vita di noi tutti cambiò totalmente: "Gli umori, alienati da
depressioni
croniche, in un’età dove piccoli e grandi, in un modo o nell’altro, vivono
realtà troppo pesanti e per cui si lasciano andare come foglie in autunno
e
come queste anche loro hanno colori tristi e privi di vita".
Spesso, quando di sera prego per lei, ripenso alle cose che mi dice nei
giorni in cui vado a trovarla, sovente parla di noi due e di quando
eravamo
piccole, ha ricordi confusi ma li conserva molto gelosamente. Anch’io
ripenso a
quelle due bimbe e le vedo mentre giocano serene ed inconsce di quello che
poi
sarebbe stato.
Quante storie così
E’ successo di nuovo, c’è stato un litigio, il solito, senza nè testa e nè
coda, lui ti ha massacrata di botte anche stavolta e di nuovo ti ha
chiesto
scusa tra lacrime e sangue, il tuo di sangue e forse anche le sue di
lacrime.
E’ successo di nuovo c’è stato un litigio e lui ti ha massacrata di
botte...
Inizialmente sembra una normale discussione tra due incompresi, appunto
sembra, sai bene che non lo è e tenti in tutti i modi di evitarla, ma
senti che
oramai è già troppo tardi, è sempre troppo tardi con lui.
Iniziano a tremarti il cuore, lo stomaco, la pancia e tutte le cose più
impensabili oltre ad un tremore esterno e più normale,
a quel punto sai già di non avere più scampo, è come se lui fiutasse la
tua
paura, una belva feroce che non aspetta altro che dilaniare le tue carni e
spezzare le tue ossa ad una ad una, ancora una volta.
In quelle briciole di tempo infinito pensi davvero che non nè uscirai viva
e
speri solo che finisca al più presto, qualunque sia la fine. E dopo? Dopo
sai
di certo di non amarlo più, ma hai paura di andartene, hai paura di
restare,
hai paura di vivere, hai paura di non essere creduta, poi però pensi che
nulla
può essere peggio di quell’inferno e scegli di chiedere aiuto sperando che
qualcuno ti ascolti sul serio.
(In questi disastri si spera sempre che non ci siano bambini ma il più
delle
volte, purtroppo, ci sono)
Confidenze
Quando penna e carta mi rapirono ero ancora una bambina, ma ricordo bene
quanto difficile fosse la mia vita e quella dei miei in quel periodo.
Da allora nessuno mai ha pagato il riscatto del mio rapimento ed io sono
rimasta legata alla scrittura per tutto questo tempo.
Gli albori di questo mio frequentare l'arte di scrivere risalgono agli
anni dei drammi in famiglia, i più sofferti.
Scrivendo davo voce alle mie ribellioni represse, ai silenzi forzati ed ai
miei diritti negati.
Sono cresciuta, quindi, in un contesto che non dava adito ad alcuna
velleità.
Queste vicissitudini hanno determinato in me problematiche fatte di ansie,
paure e forti insicurezze, tutte cose che riesco a lenire attraverso la
poesia e scritti vari.
Scrivere è un rito antico, un intimo e profondo piacere, un efficace
medicamento che dà valore alla vita, è arte pura che nobilita l'animo, cui
infonde serenità.
Appagante: potrebbe diventarlo, laddove riuscissi ad esprimere al meglio
sensazioni e sentimenti al fine di ottenere la fotografia dell'anima e
della mente, come fanno i grandi scrittori, che innalzano il pensiero
umano ad altissimi livelli fino a renderlo sublime.
"Tu, scrittura, che pure ti riveli a me sonora e rumorosa, il silenzio è
per te sì importante ma lo è la parola ancor di più".
Riesce a farci sognare e a viaggiare pur stando fermi, ma, soprattutto, ci
fa riflettere, è un'ottima palestra per il nostro cervello.
Infine, ancora una volta voglio dirvi: "Io amo scrivere! Perché, nei
momenti più bui e solitari, la scrittura, compagna di viaggio, sempre mi
prende per mano".
Una gita in gommone
Era un pomeriggio d'estate e stavo al balcone seduta comodamente su una di
quelle sedie con lo schienale regolabile, leggevo la terza parte di Madame
Bovary, quando Emma, malinconica, ripensa ai primi mesi del suo matrimonio
con Carlo, alle passeggiate a cavallo nella foresta e al suo amante Leone.
Le tende mi riparavano dal sole, ma anche da occhi indiscreti. Il mio
cagnolino Remy era sdraiato ai miei piedi, col muso poggiato sulla
ringhiera e, di tanto in tanto, abbaiava irritato dagli schiamazzi di
alcuni bambini che giocavano nel viale sottostante.
Alla mia destra, nella parte interna del balcone, vi era un tavolino
grigio in ferro battuto con sopra un bicchiere colmo di limonata
ghiacciata che sorseggiavo ogni volta che ne avevo voglia.
Immersa com'ero nella lettura avevo persino smesso di zittire il mio
cucciolo che non la finiva di abbaiare. Un piacevole venticello creava un
fruscio tra le foglie dei gerani, facendo cadere petali di fiori
variopinti. Proprio quel vento leggero aveva condotto fino a me un odore
ormai diffuso nell'aria e, all'improvviso, non mi rendevo più conto di
cosa stesse accadendo. Grazie a quel profumo mi sentivo stranamente
turbata.
Volevo capire di cosa si trattasse e iniziai ad inspirare quanta più aria
era possibile, il profumo persisteva ed io volevo sentirlo sempre di più,
temevo che lo stesso vento che l'aveva portato lo facesse svanire lontano
prima che io potessi riconoscerlo.
Qualcosa mi diceva di cogliere quell'attimo e di insistere nella ricerca
che pensavo sarebbe stata rivelatrice di chissà quale vissuto. Ad un certo
punto iniziai ad annusare leggermente, ma in modo ripetuto e veloce come
se non volessi perdere neanche un po' di quella fragranza.
Ormai ero completamente distolta dalla lettura, quell'essenza mi aveva
rapita del tutto e sentivo che mi stavo accingendo a fare un cammino a
ritroso nel tempo …..
Il cuore mi batteva così forte che sembrava volesse scoppiarmi e, quando
l'emozione raggiunse il culmine, quel profumo così intenso e persistente,
si trasformò in un ricordo lontanissimo: una gita in gommone a Marina di
Camerota.
Ed ecco affiorare alla mente le emozioni di allora, circa diciotto anni
prima ….
Ricordo che il tempo era bello e noi tutti, mio marito Ottavio, le nostre
figlie Manuela e Stefania e mio fratello Alfredo, decidemmo di prendere il
gommone per andare su una spiaggetta della costa e passare lì buona parte
della giornata.
Infatti in men che non si dica mettemmo negli zaini tutto l'occorrente per
la gita.
Quindi raggiungemmo a piedi la "Calanca", la spiaggia che era la nostra
base, il punto d'appoggio dove avevamo a noleggio ombrellone e sedie
sdraio e dove vi era anche il nostro gommone arancione. Facemmo indossare
i giubbotti di salvataggio alle bambine e, una volta imbarcato tutto, ci
allontanammo dalla riva a remi, stando molto attenti ai bagnanti.
Raggiunta la distanza di sicurezza, Ottavio accese il motore del gommone e
accelerando sempre più, ci sembrò di cavalcare le onde.
A quel punto l'acqua sembrò divenire più fonda e di un blu più intenso.
Il mare brillava sotto i raggi del sole ed in lontananza si vedevano i due
promontori con le torri: una delle tante caratteristiche di Marina di
Camerota e alla vista di quello splendore pensai quanto fosse vera la
definizione di "perla del Cilento"!
Accostammo ad un piccolo fazzoletto di spiaggia solitaria, Stefania e
Manuela avevano già messo le maschere e vollero subito tuffarsi, si
divertivano a guardare i fondali ed i pesciolini che vi nuotavano, l'eco
delle loro risate rendeva quel posto ancora più suggestivo. Restammo ad
osservarle un bel po' mentre giocavano, mio marito ed io avevamo insegnato
loro ad amare il mare ma anche a non fidarsene troppo.
Ad un certo punto di fronte a noi, mentre stavamo in acqua, su una
scogliera alta, leggermente pianeggiante e ricca di vegetazione, vedemmo
delle caprette pascolare, fu per noi un'immagine quasi fiabesca, restammo
a guardarle fin quando scomparvero dalla nostra vista.
Erano più o meno le quindici quando notammo che il mare iniziava ad
agitarsi e pensammo di ritornare alla Calanca prima che fosse troppo
tardi, soffiava un vento leggero, fu allora che sentii per la prima volta
quel profumo intenso e, anche in quell'occasione era stato il vento a
portarlo fino a me. Avvertii dei brividi lungo la schiena ed ebbi una
strana sensazione come se qualcosa di brutto dovesse accadere.
Ripartimmo e mentre stavamo in mezzo al mare agitato, preoccupati della
forza dell'acqua che ostacolava il nostro rientro, ad un tratto vedemmo
passare a fianco a noi un'altra imbarcazione guidata da una persona che lì
per lì avemmo l'impressione di conoscere e la cosa sorprendente fu che
subito dopo tutti la identificammo con un parente defunto qualche anno
prima. Restammo senza parole, il viaggio di ritorno si rivelò molto
travagliato e il gommone imbarcò un bel po' d'acqua.
Quando finalmente arrivammo alla "Calanca" ci guardammo negli occhi,
eravamo esterrefatti, ma non proferimmo parola.
Ricordi
Guardava nel buio, intravedeva l'orizzonte e, fissandolo, rubava alla
notte silenzi infiniti.
Ombre indefinite destavano curiosità morbose.
Piccole luci lontane accendevano in lei ricordi di infanzia.
In quella atmosfera, quasi misteriosa, era facile riportarsi al passato.
Tutto si poteva collegare, a proprio piacimento, alle varie situazioni che
si volevano ricordare.
Anche i rumori erano poco riconoscibili e ci si rendeva conto di quanto il
silenzio fosse assordante.
Soffermarsi in questo scenario era pressappoco ambiguo, si aveva la
sensazione di completo abbandono, in realtà la consapevolezza di sterzare
era chiara: vi era un muro oltre il quale non si poteva o non si voleva
vedere.
Piccole luci di case lontane, la notte, ancora più fonda, le diradava ad
una ad una.
Poi rimase una sola luce, una sola casa illuminata, lo sguardo si posò su
quell'unica lucetta che illuminava ancora di più il suo ricordo ed
abbattendo ogni muro entrò finalmente in quell'unica casa illuminata e
vide se stessa piccola.
Ricordò di tutte le volte che si nascondeva per piangere e spesso non
aveva un buco dove poterlo fare in santa pace.
La sua casa era troppo piccola e non le consentiva di isolarsi dagli
altri, quindi imparò a piangere ovunque si trovasse e si accorse,
purtroppo, che nessuno faceva caso a lei, di questo ne soffrì tanto al
punto che ancora oggi ne piange. |