Vivo un’esistenza d’illusioni e sogni irrealizzabili... immaginando l’impossibile. Convincendomi del tutto futuro, scacciando il fantasma del nulla. Un romantico costretto ad illuministici pensieri perversamente trovato a crogiolarsi nella sua farsa. E quando quel conturbante sogno terminerà, quando mi desterò urlando, anche l’uomo che porta il mio nome cesserà d’esistere. E giacerò con mia sorella, che di tutte le persone è la più simile a me; e quindi la più sudicia nell’anima e nera e licenziosa e lasciva. Per sentirmi insano e disturbato, per sentirmi ancor più immorale. Scappando delirante da coloro che vendono le torri d’avorio per trenta denari. Vivo in questo mondo d’oro che possiede tutto e tutto mi concede, ma ancora insoddisfatto m’aggiro in esso. Le eventualità del reperibile ascendenti, affascinanti senz’altro, compiutamente dissanguate. Maturo nell’età di mezzo della storia che come nessun’altra offre agiatezza, ma instancabilmente lamento dissesti concernenti il mio ego e la sua posizione nella società. Vedo il verme che rode il tronco di platino dell’albero dell’evoluzione con l’occhio sempre critico dello scontento trovandovi unicamente cancrene. Il voler per forza o per necessità figurarmi quale visore dell’usualmente non guardato e compreso.a C. Vedersi sfilare accanto l’ennesimo angelo dorato e bronzeo [ad un sol tempo e già prospettarsi le sue ali coriacee di pipistrello celate sotto occhi d’aprile ma ancor più lancinante il dolore dovendo ammirare ed agognare quelle bianche di colomba a vista ed il ventre piatto ed armonico ed aromatico ed il sorriso imbarazzato sospeso sullo stagno. Ma ancor se possibile peggiore il costruirsi nuovi castelli di cristallo sulle rovine dei precedenti, le fondamenta poste su strali di fumo e nebbie di pensieri sfumati. E strane posture tristemente note che lasciano presagire lapidi e trincee insanguinate ove giacqui un anno or sono. Ridicolmente ingabbiati e giudicati da un tribunale inquisitorio interiore L’orgoglio livido e cinereo batte il suo martello da giudice supremo E noi tutti come scimmiette balzellanti impaludati in paramenti da imputato Ci pieghiamo a quel verdetto che tanto tememmo e sperammo inverso quasi inconsci di averlo, in fondo, deliberato noi stessi Prostriamo e prostituiamo il nostro volere ed i nostri istinti desiderativi ad un giureconsulto con la nostra medesima fattezza Diventiamo puttane del nostro stesso denaro e membro Freniamo l’impetuoso fiume del noi stesso con le fittizie dighe del proprio Combattiamo un’insensata guerra contro uno specchio sporco Autoimponendoci il peggio in favore dell’apparenza nei confronti di altri Mentre basterebbe la volontà soggettiva per vivere in spontaneità Ed essere degli dei il supremo e dei mari il conquistatore E ballare e gioire sulle tombe interrate dei miseri Ritmi jazz e blues che serpeggiano nell’aere soffuso e pesante Pesante come un’afosa notte estiva così rintronata nella baia Persino gli angeli ubriachi cadono come foglie di catrame dai tetti Sopra i quali s’erano appollaiati. Come quel piccolo bar nei pressi del porto, l’insegna in ferro battuto ed una donna finita chissà come lì; a compiangersi ed a farsi compiangere Mentre suonando e sbuffando il traghetto passa nello stretto carico di sogni e passeggeri E siamo in fondo tutti seduti in quel bar a piangerci addosso senza sapere di farlo E siamo in fondo tutti appoggiati ai parapetti di quel traghetto Mentre nelle strade nugoli di compratori si danno battaglia Almeno alzassero gli occhi per vedere come i grattacieli che li circondano si perdano nella notte, lassù, in alto Perché lo sanno, loro, che di notte, se alzi lo sguardo, non la vedi la fine di quei grattacieli Di giorno è diverso: vedi tutto e subito; ma di notte no… è tutto diverso Ci si perde così in bicchieri di wiskey on the rocks serviti dall’amico di turno mentre le luci nel corso illuminano la vita di milioni di persone E i cappotti corrono qua e là nella pioggia di angeli ebbri; sembrano instancabili quelli, loro, Ma non le vedono le bottiglie ordinatamente allineate dietro al bancone? Piano Bar, 25° piano… Prego si accomodi, vuole un tavolo accanto alla finestra? E il pianista comincia a suonare, lui, scostante nella sua velatura Mentre 90 metri più in basso non sei nessuno Mi ricorda Gershwin tutto questo turbinare E devi correre, non credere, tenendo a due mani pacchi e pacchetti Ma il Jazz, quello vero, in quel trambusto, sono in pochi a sentirlo. Avvolgente come un buon vino Suadente come una buona musica Tutto questo manierismo sorge improvviso da scantinati nascosti allo sguardo da qualche metro di terra asfaltata Automobili sfrecciano veloci portando soggetti da un punto A ad un punto B; come se giunti a B i loro problemi scomparissero magicamente E’ un fuggire il loro, su veicoli metallizzati e veloci e belli Neppure lo sanno che anche se cambiano i palazzi, le strade ed i ponti loro rimangono gli stessi O forse lo sanno, ma preferiscono tacere, tacerne, preferiscono illudersi Hey se fai finta di ignorarlo magari riesci ad ingannare anche la vita…no? Come se essa si facesse prendere in giro da qualche baro Ma per quanti assi tu abbia nella manica… è sempre lei ad avere la mano vincente. Ego silenzioso artefatto arabescato d’alchemica ilarità. Compongo ombre all’incresparsi dell’ira blu cobalto. Vertere alle lance mosse appena dalla brezza marina eserciti si radunano alle scogliere sottostanti la luna rossa di caccia. Destarsi del delirio distruttivo sogno di polvere promulgare di stigmate stillanti lame di porpora nel glauco ventoso magnitudine demoniaca epicentro fallace e basculante. Siamo fiori di plastica sintetizzati in laboratorio, sfamati dai gas di scarico dei sottoprodotti dell’inerzia, dissetati da sorsate di conformismo. Ci nutriamo di uguaglianza e livellamento. Siamo ciò che qualcun altro ha deciso per noi in precedenza, incapaci di essere noi stessi. Siamo i nuovi falchi della società e ci ritroviamo con le ali rattrappite, non sviluppate, inadatte al volo. E così marciamo strisciando nella polvere in stormi infiniti. E’ un mondo di ridicolaggine. Esser innamorati di un corpo lasciando lo spirito libero di discostarsi vagheggiare in un tetro mare nel cui l’indecisione dell’azione forte prevale sul tutto. Il non pensarci è la volontà momentanea, ingannarsi ingannare, tradire… se stessi prima degli altri. Esser circondati da agresti orizzonti frutto però del sogno ingannatore. Veloce scorrere su carta, elegante volteggiare nel trasporre l’angoscia. Unico traguardo il tramonto seguito dall’assopimento rinfrancante. Incubi lo frammentano e cristallizzano spezzato in tagli uniformi. Di nuovo, sveglio il ritorno del diurno intabarrato nel nero della sua antitesi. Sfuggevoli frammenti di seni delicati, frusciare di lenzuola sulla nuda pelle. Taciuti giochi di angeli inconsapevoli. Sublimazione del sottointeso rumorosamente taciuto. Calde forme, al contatto gelide. Discostarsi leggero di esili gambe. Appagamento e smarrimento nel piacere condannato. Cosa fare… un avvicinamento annuale un congiungimento sperato un autoconvincimento di consequenzialità. La vanità dei propri piani L’arroganza della grandezza la convinzione della rettitudine. Di una ragazza stretta di una bambina amata di una belva in gabbia. La gente anelerebbe fruire di ali come gli angeli che sopra di loro danzano arroganti e boriosi per poter volar via, lontano. Nel cielo sopra case, sopra campi, dimenticando. Lontano dalle loro case, dalle loro vite da situazioni ormai troppo strette dal pianto dei loro bimbi affamati che tali rimarranno nonostante tutto questo dissentire e disperarsi. Intonando gospel al cielo costellato di nubi; nubi che lasciano in ogni modo spazio a quel cielo blu miraggio dell’irrealizzabile. E’ partoriente dei loro sogni e di loro affanni poiché se nasci uomo già precluse ti sono le bianche ali. Lucifero, nella radura sorridente alla pioggia, aggiungendo nuove lacrime alle gocce provenienti dai cieli. Poté volare in giorni passati ma tutto barattò per il libero arbitrio. Gettasti la linda felicità in cambio della polverosa liberà. Ridere tra le lacrime. E mi perderò al fine, lo so di per certo nella concupiscenza spiralica e nell’ozio sperperoso e nella masturbazione imbarazzante e nell’ambiguità oscillante alle spalle di coloro che complicano le facezie smaltandole d’oro e di giada sussiegosa E mi spanderò nel ribrezzo di un corpo brutto alla mia provocazione agli altrui olfatti delicati e sei dei sette peccati capitali scandiranno la mia cupida giornata e la certa filiazione della facondia delle mie bestemmie rivolte al macilento e miasmatico confessionale ligneo e tarlato Escluso ogni addentellamento alla comune e i miei libelli scambiati di mano e la scepsi dell’umanità a priori obliata Il pensiero vagava aleatorio ed instabile, saltando da un frammento all’altro; fondamenta malferme. L’attenzione per le più insignificanti manifestazioni dell’agire fattasi maniacale. Risultava allora più un esercizio di scrittura che una reale trasposizione su carta del marasma. Era uno scrivere del non avere alcunché da scrivere; era il fondo; era il non aver più parole, sprecandone di trite per supplire questa mancanza. Era cercare vecchi specchi opachi per riempire lo spazio momentaneamente vuoto… e poi… tra l’altro… non per potersi rimirare, ma per saturarlo… quello spazio. Era un battere ancora sul ferro già temprato, un battere sul muro già dimostratosi invulnerabile; titanico a confronto del piccolo; eppur così semplice sarebbe aggirarlo. Ma in fondo… non stavo cercando un modo per perdere un po’ di tempo? Va bene: sinceri fino in fondo, come da sempre prefissato… non saggio, non composizione poetica. Mi ritrovo sospeso… sei ore trascorse ed altrettante da trascorrere. La mente viaggia epilettica da un corpo all’altro del filo del mio ricordo. Troppo elettrica per poter soffermarsi su un suo mondo. Ogni vocazione appassita sul nascere. Mi sono stufato di tutti coloro che parlano di ciò che non conoscono, di coloro che disquisiscono della consistenza del fumo, di coloro che cominciano dodici volte lo Zarathustra, leggono le prime sei pagine e poi lo commentano come se ne fossero padroni; mi sono stancato anche di quelli che applicano la filosofia alle loro pentole di casa, come palliativo per la loro miserevolezza, di quelli che vivono nel passato e di quelli che hanno bisogno di continuo sostegno perché insicuri; che in ogni loro agire hanno bisogno di qualche bel fantoccio che gli ricordi di quanto la loro causa sia santa, immacolata, verginale e giusta, in tutto e per tutto giusta. Di quelli che si aggrappano ad alti valori morali per giustificare il loro fallimento, atto compiuto per distogliere la loro già poco acuta consapevolezza comune; di coloro che non sanno e non vogliono risolvere i loro problemi. Ho le tasche piene anche di quelli che si piangono addosso, o peggio, che vengono a piangerti addosso; di coloro che passano la vita da incazzati; di coloro la cui massima aspirazione è apparire; di coloro che mancano di coraggio. Ho fatto indigestione di psicotiche, psicolabili ed insicure; di bandiere al vento e di soldatini e cani ammaestrati impauriti, ma sempre e comunque scattanti allo schiocco di frusta. Di re per forza di mendicanti per forza; e imposizione altrui. Mi sono venuti a noia pedanti, indottrinati, ottusi, poeti e filosofi sconclusionati, statue e vermi, sbarre e catene, porte chiuse e porte non aperte, estremisti e moderati in nome altrui. Siate semplicemente ciò che volete e siete; e non ciò che vogliono o volete apparire essere, in coscienza e consapevolezza. E’ ora di smettere di parlare con la bocca degli altri e d’aria. Cercano capri espiatori proseguendo l’opera di autoconvincimento, si creano palliativi mentali del tutto infondati. “Se non ci fosse quel serpente…” essi si dicono “…mio figlio sarebbe pecora e non lupo.” ; ridicole, mendaci speranze. Più facile crearsi schermi, spessi ed insonorizzati, tra il sé e la presa di coscienza ; più facile condannare terzi che accettare la verità. Con questa condanna allontanano dalla loro psiche la consapevolezza che i loro figli non sono ciò che speravano fossero. “E’ colpa della società, è colpa del reverendo, è colpa delle amicizie, della fortuna…” ecco ciò che essi si dicono. Ma difficile è accettare: “E’ colpa del figlio.” Indipendentemente dalla presunta locomotiva che li traina, troverebbero un’altra bandiera o se la creerebbero. Dita rigide scheletrici rami di incorporei alberi muscoli che si tendono occhi sgranati e fissi il pulsare del sangue gelidi brividi a fior di pelle le tempie paiono rimbombare ed esplodere la chioma rizzarsi profondi respiri flash di braci ardenti il sentirsi sprofondati in una grotta di ghiaccio cristallizzato l’annusare l’aria ristagnante del preludio i battiti martellanti del petto vivo pressione opprimente dal profondo della terra spaccata e riarsa dall’ingiuria membra frementi nel ribollire dell’ira sua esplosione Camicie bianche e cravatte rosse S’investono di gloria fondatrice Inventate vocazioni personali impantanate nell’assurdo L’irridere la marmorea convinzione priva di fondamenta Credettero di essere padre e madre e fabbrica e stimolo e modello e professori Ma furono a torto solo quest’ultima I quiz show ci regalano le fantomatiche vetrine della nostra quotidianità, venditori dal bel viso ci offrono la saturazione dei nostri sbiaditi bisogni; la tranquillità ha lasciato il posto alla noia, il tedio del benessere assunto a giornata; il feticcio prezzolato come raggiungimento, il progressivo accrescersi della febbre dell’oro nell’Eldorado della frenesia presente; l’inizio come la fine, o viceversa, l’obliare l’ovvio nel compiangimento della routine Quella era la noia. Mettiamo in chiaro le cose... quella non era la “noia”. C’era stato di peggio e ci sarebbe altresì stato qualcosa di peggio in futuro. Ma quella era la noia. Torpore, stanchezza fisica, stanchezza mentale, oltre che un generale senso d’inerzia. La mente con preoccupante lentezza spazia celermente tra le infinite possibilità del pensiero. Sussiste comunque la pressante consapevolezza di un impossibilitarismo materiale. Quando vivi una condizione del genere tutto è opaco. Vivi in una nuvola, in una continua moviola. “Ciiiiiiiii ssssssseeeeeeeiiiiiii? Sssssssssuuuueeeeiiiiii ssssvvvvveeeeegggllllllliiiiiioooooo?” Alt Ogni cosa è buona e valente per far passare il tempo, è un’opportunità. 1-Prendi la matita 2-Gioca con la matita 3-Spezza la matita 4-Riponi i pezzi della matita 5-Riimmergiti nel torpore Comincia la lunga rincorsa all’intrattenimento. Tutto si riveste di una nuova facciata, è come se fossi lì lì per afferrarlo, pur non sapendo con esattezza “cosa” stai per afferrare, in fondo non importa. Sogno di dormire abbandonato in uno di quei materassi ad acqua, piumino d’oca coprente il mio corpo nudo Sveglia! Questa è la realtà bello! Prendi il tuo bel telefonino cellulare, decidi di mandare uno di quei malefici messaggi, spersonalizzazione e maschera, perdi l’ispirazione, riponi il cellulare, prendi un foglio bianco verginale, ti fai prestare i colori, cominci a scarabocchiare quello che dovrebbe essere un disegno, stracci il foglio, ridai i colori, cominci a leggere, chiudi il libro, testa sul banco... C’è una pericolosa lucidità in tutto questo. In fondo sai di star girovagando tra lazzi e quisquilie per far passare i minuti... eppure lo fai... eppure lo fai... Ogni cosa è buona, ogni oggetto te ne dà il pretesto; consumi qualsiasi cosa ti passi sottomano. Giocherelli con tutto... e aspetto una conclusione giornaliera Sto cercando un me stesso incontaminato nella trasposizione di un corpo privo d’esperienza. Ora ne sono consapevole, la mia ricerca di purezza si spinge fino al baratro del “non fatto”. Difficile ormai trovare individui tra la gente che sappiano quantomeno barcamenarsi con grazia ed eleganza nell’oggi epilettico e veloce. Creano code ed ingorghi di problemi ai semafori sempre rossi dell’ottusità e della vigliaccheria, questi automobilisti della domenica, profeti dell’escremento, ma buoni oratori. Tanto buoni a parole quanto incapaci di affrontare realmente i problemi; ed è per loro tutto un filosofeggiare, un pavoneggiarsi pomposamente in pompa magna nell’”Io sarò” e nell’”Io farò. Petto in fuori e palle mosce cari miei. Questi, loro, che non si sono ancora accorti del paradosso onnipresente, ovvero che è più difficile trovare soluzioni semplici ai problemi, che espedienti articolati e totalmente inutili e belle parole. Esserne incapaci non significa esserne esentati, anzi; la merda, ben presentata, è per molti un piatto ricco. Guardatevi intorno, affrontate il problema; cancellate processi mentali fuori luogo, elucubrazioni complesse, masturbazioni mentali, complessi e passati remoti. Ora risolvete. Questi, loro, si divertono a costruire castelli di cristallo su fondamenta di nembi; io, per quanto mi riguarda, anche se risulta allo sguardo più sgraziata, preferisco la pietra. L’ombra della morte, noi sovrastante raminga nel suo errabondare casuale con sicurezza raggiunge città come villaggi accomunatrice nella tenebra allungata al cielo violaceo di mezzenotti sorpassate. Rivoluzione attorno ad un astro in piccolo, diamo nomi semplificando l’essenza. Concitato bussare alla porta sprangata, a mezze palpebre il richiamo viene raccolto. Nascondimento in frenesia di verità preferendole taciute. Penetrerà la luce ombrosa della fine tali imposte, ma altre serreranno tende a suo sfavore. La continua ricerca di melodie nuove dimentica lo scopo prefissato. Così le stesse note risuonano nell’angusto locale, tutte le sere, al calare del sole. A nugoli si riuniscono per rivivere il salmodiare di tale nenia di spirito antico. Vecchie architetture moderne s’impongono sul paesaggio, incapaci di accettare una fine che già le caratterizza così come coloro che ad esse diedero luce e soffio vitale si rifiutano di comprendere il loro desussistere. Attraverso le nuvole, che a dispetto del colore grigio presagente tempesta, nel loro imperfetto accostarsi lasciavano intravedere sprazzi di quel cielo così irrealmente blu; che solo riesci ad immaginarti quando l’animo esplode ed esulta. Raggi di sole con tracotanza fendevano l’aere portando a terra il loro bagaglio di luce; creando coltelli rilucenti d’irrealtà. Ponti tra cielo e terra attraversabili solo nei sogni, all’albeggiare, quando ancora sei troppo addormentato per essere sveglio e troppo sveglio per non accorgerti della miseria. Gli stessi nembi assumendo una corona di tale nitore orfico, repentinamente effettuavano lo sposalizio tra luce e tenebra. Le colline circostanti, per effetto di tale altalenare di riverberi, a macchie risultavano dei toni del verde... ora smeraldo, dove gli strali raggiungevano la terra, ora scuro, dove l’ombra proiettava sé stessa. Nei paesi, al riparo dei campanili, genti alzavano gli occhi all’empireo; bramanti le ali degli angeli che sopra di loro danzavano alteri ed arroganti. Ali per poter volare lontano, lontano da lì, lontano dalle loro stesse case; dimenticando. Lontano dai loro figli che piangevano affamati, che avrebbero pianto ancora nonostante essi non lo volessero lo ripugnassero. Ma mai il solo compiangersi risolvette situazione, ma null’altro essi sanno fare. Intonando preghiere al cielo, fonte esso di loro ogni sogno e partoriente di ogni loro amara croce di miraggio. In una radura stava Lucifero... aggiungendo lacrime alla leggera pioggia proveniente dai cieli da lì ad un poco. Un sorriso tra le lacrime il suo. Possedeva egli quelle ali agognate, le possedeva e le barattò in cambio del libero arbitrio. Le gettò a favore della libertà della polvere; di vivere in essa. Piano alzò lo sguardo abbracciando dapprima il paesaggio terrestre che gli si apriva innanzi e portandolo poi in alto, in cielo, ai giochi di creature celesti incapaci di scegliere tra il bene ed il male poiché naturalmente votati al primo; ignari ed inconsapevoli delle preghiere e delle suppliche; indifferenti. In alto, al dio ipocrita il cui egoismo portò a questo. Come può un dio, nella concezione che esso implica nella cultura terrena, aver voluto l’uomo se, in virtù della sua onnipotenza, il suo compiacimento verrebbe già appagato trascendentemente e non immanentemente al mondo. Se decido di astrarre completamente un rappresentato, piloto l’interpretazione dell’osservatore forzandolo ad utilizzare necessariamente i miei meccanismi rappresentativi ed espressivi personali privandolo di ragionamento proprio. Il mio simbolo diviene “il simbolo”, lo stimolo diviene dogma. Gli strumenti conoscitivi divengono quindi irrimediabilmente ed unicamente quelli utilizzati dall’esecutore. E’ come ordinare ad un agricoltore di arare il proprio campo in file parallele di quattro per metro utilizzando una zappa scelta da me medesimo e di piantarci ciò che più mi aggrada; mentre la vera espressività è il dire all’agricoltore: “Questo è il mio campo... guardalo; è mio; è così; sembra sé stesso ed assomiglia a ciò che è. Ora fanne ciò che vuoi; piantaci quello che più ti aggrada. Io ti fornisco solo i mezzi. Sarà sempre il mio campo, ma ci cresceranno i tuoi frutti.” E questa dovrebbe essere l’arte. Ed immancabilmente ci ritroveremo innanzi alle colonne d’Ercole in fronte al futuro, compiuto il periplo della nostra indecisione, i fantasmi ancora lunghi su di noi. Invecchiata la giovinezza ci vengono offerte vite non nostre, cambiamenti non voluti a cui ci assoggettiamo per assicurarci la materialità quotidiana. Le porte degli atenei si spalancano di fronte a tardi bambini di antenata esperienza. Interposti così tra il nulla e l’insufficiente, precluso il tutto, preclusa l’onnipotenza, appannaggio dell’elusiva fantasia. Ed a coloro che si saranno bruciati nel cammino volontariamente innalzeremo tumuli di ricordi ed alla vita trascorsa e passata guarderemo nostalgici voltandoci indietro, come allora facemmo con quella ancor più primordiale in un inseguimento di età vissute e dorate alle rimembranze. Perennemente insoddisfatti del presente in qualsiasi cronologia si sia posti, timorosamente volti al futuro ed amaramente rimpiangenti il passato. Ventennio Si risveglieranno un giorno, affranti di esso, osservando l’orologio a pendolo di rimpetto al loro giaciglio ed accorgendosi dell’incalzare del giorno tenteranno invano di recuperare le ore d’assopimento. Lisceranno forse le lenzuola stropicciate, per tentare magari d’ingannare la luce d’alba che celermente s’allunga dagli spiragli di persiane scrostate, finestre sul mondo. Ed asseriranno: “Non ho dormito, lo è parso”. Ma ancora gli occhi cisposi gli precluderanno la vista ottimale. Forse prematuro preoccuparsene ora? Ottanta stagioni susseguitesi altalenanti. Temporalmente immaturi i momenti della presa di coscienza o preludio alla puntuale tragedia? Scoprirsi ad immaginare scenari di guerra angoscianti configurati a fiume impetuoso [ed indomito spazzante e battente la realtà odierna. Sdegnarsi nel comprendere di aver sognato un conflitto di proporzioni mondiali che creasse un diversivo ed una mutazione, non evolutiva, ma unicamente posta a rottura del tedio. L’anelare sconvolgimenti onnicomprensivi a vantaggio del singolo... ed intenderne... ed assaporarne... Nella consapevolezza del proprio [egoismo e del sussiego ad esso imputabile. Ogni avverarsi è forse l’occasione agognata? Nessun rimorso nel barattare sbrigativamente migliaia di speranze, immolate al conseguimento di un’unica? Sono realmente così cinico? Molte altre ve ne sono là dove raccolsi queste nei meandri di una mente irrequieta fallimentare nell’inserimento societario. E se vi capitasse d’accorgervi dell’impossibilità di riuscire a realizzare i vostri sogni tanto vale farla finita. Fare un favore a voi stessi, agli altri, a quei possibili scontenti che mettereste al mondo scegliendo la vita. E risparmiereste facendolo molte notti insonni ed in carta ed inchiostro. Nel mio esser falso sono più spontaneo di molti. In un canovaccio di mascherate ed atteggiamenti, di recitazioni e sciarade raggiungo un mio vero io. Mi pongo interpretando una parte, la parte del me medesimo. Ma portando lo spettacolo fino al suo ultimo atto, alla chiusura del sipario, non cambio interpreti e costumi; garantisco la sicurezza dello svolgimento, la prevedibilità del tra poco. Un giorno, per strada, una ragazza di burro mi fece notare che ancora la maschera che indossai poco prima in teatro ancora recingeva il mio capo; e ciò mi fece pensare... e rivedere posizioni ignaramente barricate. Per susseguirsi di soli e lune mi masturbai la mente a riguardo. Venne infine il responso solutistico. Avevo avuto altresì il privilegio e la fortuna di scegliere il personaggio e le modalità per esserlo... e non ero perciò in simbiosi con esso? Non era una libera scelta ragionata? Non un fantasma della bottiglia questa volta, non un’imposizione altrui altrui guidata. Sistema verticistico con me a responsabile e perciò legittimato interprete ed interpretato in fusione cosmica creatrice. Corpo di burro e lingua di melassa ricomposizione casuale di cocci diversi si alternano e susseguono tra le mani ora di cristallo ora di terracotta odore fruttato di ricordi fotografici postumi l’interpretatività di un dopo ingabbiato nella rielaborazione migliorativa inevitabile Le vie del diavolo, a differenza di quelle di dio, sono di lunga e varia percorrenza per noi disperati. E continua il docente che si sta rivelando meglio di quanto pensasse; in fronte a due centinaia di cadaveri trascriventi. “Un esempio pratico” squittisce la solita troietta con vocetta melensa (tentava, sferragliare stridente). Ed in lui si sbriciola la convinzione di aver lasciato nei licei lacchè e cagnolini. Calette caraibiche illuminate da fiaccole. Città gotiche e vittoriane rischiarate di notte. Tutto questo s’affolla e fonde nel più ampio disegno di un sogno bambinesco. L’esser lontano possedendo uno scopo attivistico, questa l’illusione. Esser invece qui, costretto a ravvisare minuscole crepe solcanti i visi delle perfette statue di marmo bianco collocate nell’agone della vita e scoprirne l’imperfezione e trovarne l’assurdo come mai nessuno fece prima. Sono infin sveglio a ripensare alle visioni trascorse questa notte mi sono comparsi in sogno gli spettri del mio passato, le ombre di persone indigenti, coprofagi tra i letamai, i peggiori tra i peggiori... ... ed il disgusto al pensiero di un possibile incontro si configura a spauracchio. Notte di ogni santi la credetti più fredda di quella trascorsa in passato. Mi accorsi solo di quanto fu anonima a cristallizzata. Ti riconosci? Riesci a vederti tra le righe? A delineare il tuo ritratto? Tu che fosti la prima all’ombra di un castello e tu che fosti la scoperta sopravvalutata e poi denigrata. Notte viennese di fugace trascorso nelle prospettive di un impossibile poter essere. Ti ricordi, occhi di ghiaccio, un bagno notturno? Frutto di una bottiglia e frutto di altre sappiate: non sono redento. Due lune celermente trascorse. Lontana presenza, non merito la tua fedeltà. Un ricordo, fummo fuoco e ghiaccio messi a raffronto, ma non sei dimenticata. E a te specchio della mia arroganza e del teatrino della mia freddezza. Crine di grano, ti rivelasti fiele... E tu mio peccato d’accidia e vanagloria, troppo durò forse lo scempio. Mia assoluta follia ed abisso della mia perdizione... venitemi a salvare. Vorrei poter dichiarare la riscontrabilità di avvisaglie di cambiamento in me e nella mia opera. Terrorizzato dalla staticità, dall’immutabilità del me stesso. Mi chiedo quale sia il futuro, quale quello più consono e quale il migliore; poiché questi ultimi due sicuramente non coincidono. Tre incubi mi vennero innanzi trovandomi spiazzato nel mezzo di una strada, caricandomi con un sibilo sui loro tre carri d’argento, di notte, di neve. Incubi di principio, demoni spaventosi eppur bellissimi; come tutti lo sono, del resto, di quella specie; e splendidi e giovani e pieni di vita, questa l’origine del mio orrore. Ed io smarrito, interdetta la fuga; uno di essi mi passò sfrecciando accanto, sbuffando all’intralcio. Mi vidi sprofondare in una gola di cemento: le pareti ascendenti, a connubio tra cielo e terra, costellate di finestroni e balconate marmoree. Nelle caverne altri reietti della terra centellinano la vita cercando nuove mute, smaniando e fiutando alla ricerca di un alter ego migliorativo. Ma tornai alla realtà ed al momento, con impeto risoluto vidi i restanti due arrestarsi a pochi passi dal mio aspetto e stridente ed il cocchiere argentato fissarmi attraverso le vetrate di quel santuario che era il suo viso. Anatema e meraviglia alla risposta del mio guardo. Cedetti il passo alla ripresa della corsa e proseguii pensieroso. Mi chiedo se questa apparizione, profilatasi sullo sfondo della nuova vita, sia finalmente la più volte ricercata risposta o l’ennesima menzogna totemica. Certo diversa da come l’immaginai, ma forse non troppo. Vedremo col tempo e lo conoscenza. E’ questa la gente? Tanto e tutto si potrebbe dire a riguardo di essa. Gente che fa spregio della vita di altra gente... in nome di religioni balorde ed interessi privati o di altri. Gente che si finge ciò che non è... per sembrare pur non essendo od appannare la vista di altri sulla focalizzazione del loro vero essere. Gente infelice che si crede altrimenti... coloro che si costruiscono fittizie impalcature mentali celanti il reale fallimento vitalistico. Gente che si rende infelice... che ama autocompiangersi e ricevere commiserazioni e carità verbali. Gente felice che si crede altrimenti... ovvero che necessariamente vuole trovare il nero pur immersa nel bianco distorcendo l’evidente. E’ questa la gente? Tanto e tutto si potrebbe dire a riguardo di essa... e così poco di positivo. Quanta ignoranza abita il mondo tanta quante sono le persone che lo popolano. Forse non è il male peggiore... a essa può certamente porvi rimedio uno spirito acuto ed aperto a nuove prospettive. E’ la chiusura mentale, la pedanteria, la macchinosità intellettuale, la superstizione, la scarsa intelligenza, l’attaccamento alle tradizioni ed alle ideologie la vera piaga minante l’evoluzione umana. Borgo di campagna immerso nella nebbia. Aria pungente di prima mattina. Paesotto travestito da città nell’idealizzazione della massa nazionale tendente ad esso. Agglomerato alienante, ma certamente pratico se riferito alla materialità dell’acquistare. Lo analizzo da un chiostro ormai stuprato della sua sanità. Le bocche della menzogna qui procreano e partoriscono progenie di pareri discrezionali irrisori e ridicoli nella loro effimera logica. Ad Egon Schiele Una strada di periferia sottoposta ad un pesante cielo di piombo alti muri su ambo i lati alberi scheletrici intravisti ad intervalli al di là di essi così come lo sono case grigie a due piani. Ora indefinita della sera troppo chiaro ancora per la luce di lampioni ad olio e tuttavia troppo scuro per giochi di bambini ed un’angoscia che traccia linee su carte altrimenti sminuite. Tutto è grigio, tutto è incolore. Eppur di gialli ed arancioni vennero cosparse le tele. Sono stanco di portare a galla realtà scomode, di rivangare nella putredine, di calarmi nei più profondi abissi fino alle cisti incubate nella coscienza del mondo. Vorrei rilassarmi e dipingere paesaggi con parole nebbiose, perdermi e ritrovarmi personalmente, in solitudine, senza relazione o confronto. Forse non esiste nulla più deprimente e diffusamente disagiante di una scuola deserta. Lunghi corridoi abbandonati file di banchi in sospensione temporale cristallizzazione di un edificio immoto e gelido. In un luogo posto esternamente al trascorrere rintocchi e scandire paiono non arrecare mutamento. Lontani gli anni di essa e nonostante questo la preferisco abbandonata. Vespero bucolico campi coltivati a perdita d’occhio tempestate di esse una coppia di colline volte ad occidente. Le porte dei casali spalancate lasciano trasparire una stagione ancor mite. Cielo roseo striato di nembi cinerei vento caldo ritempra spiriti agresti. Immobilità fiamminga dipinto fotografico sfocato. Calesse nero d’altri tempi sorvolato a volo da un ritardatario stormo di rondini. Procede la vettura al di sotto d’un lungo arco frondoso lasciandosi alle spalle la fiera del villaggio di sant’Ilaria. Tornano alla magione i figli della terra arata nelle tasche di velluto il compenso per le loro schiene rotte. Mesta e pacata umile compostezza lentezza narrativa e grigia composizione. Inorridisco a pensarmi tra anni da ora. Quando giorno per giorno mi costruirò una monotona quotidianità dalla quale impossibilmente troverò scappatoia, magari neppure cercandola. Quando avrò dimenticato quelli che saranno considerati unicamente come desideri di fanciullo e la poesia ridotta a stretto appannaggio di sere intinte in ricordi di trascorsi. Ed allora sarò un uomo come tanti altri il cui tumultuoso e lunare passato si perderà in quelli che sono comunemente considerati errori di gioventù. Temo che nel mio divenire la piega degli eventi, delle pressioni di terzi e della non voluta convivenza sociale mi riducano infine a quella condizione di pigrizia e limitatezza intellettuale che altri fregiano del titolo di maturità. Inorridisco ad immaginarmi come essere giunto alla conclusione della prima metà della sua esistenza; quando trovato il mio posto tra la gente il diurno sarà seguito da un altro diurno di egual forma. Ed ogni meriggio indissolubilmente identico al precedente, parimenti al seguente. La poesia allora solo frammento di ricordo e le notti insonni viste come inaccettabile perdita di prezioso tempo; prezioso per cosa? Quando riconsidererò la mia opera reputandola un errore di percorso e biasimerò il me stesso giovane per la sua volitività. E le feste ed i bagordi dionisiaci vissuti ripudiati dalla memoria. Cosa sarò allora? E sono sicuro di volerlo diventare? Ma come mi ritrovo nel presente? Stretto tra l’abbandono odierno e le prospettive di un futuro di progressivo lento spegnimento. In certe notti non avrei alcun dubbio in merito, ma le albe mi portano assurgimenti di materialismo e conformismo. |