Poesie e racconti di Giulio


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The Ballad Of A Fallen Angel
Poesie notturne   

The Ballad Of A Fallen Angel
È buffo…
Come la massa parli senza impedimenti della libertà…
Dissertazioni a riguardo di un tema sconosciuto.
Un inciso di poche battute.
Così ingabbiati ed aggiogati nelle spire della società,
ingoffiti nel guano dell’uguaglianza e del conformismo.
Un’esistenza passata ad oppugnare il confutato dai singoli
ed ad esaltare il confutato dall’insieme.
Si promuovono alfieri del libero arbitrio,
mentre non sono altro che inutili servi.
Condizionati da ciò che considerano il tutto.
Facile per loro diviene quindi dirsi liberi…
Ma liberi non sono!
Ciò che operano è il già operato.
Ciò che creano è il già creato.
Ciò che pensano è il già pensato.
E la loro reazione all’oscuro è violenta…
Una vita passata indossando la maschera della freddezza,
il riso vista una debolezza,
la gentilezza vista come un’aberrante malformazione.
Uguaglianza è il loro cimiero ed il loro vessillo.
Io sputo su tale pennacchio,
lo brucio intonando cori al cielo in segno di sfida.
Stupidità ed ottusità contraddistinguono l’oggi.
Che ne fu di coloro che misero in croce il loro stesso dio,
azione della volontà.
Dio è più vivo che mai per questi credenti mistificatori,
che bestemmiano ad ogni preghiera.
Maledico le chiese, le fedi, gl’imbrigliatori dell’animo.
Esecro i falsi profeti all’ordine del giorno.
Avverso questa pietraia inaridita ed inacidita.
Ed allora io qui reclamo la mia umanità.
Ed allora io qui reclamo la mia unicità ed il mio valore.
Voglio ridere e far mattane…
E voglio sbeffeggiare tutti questi morti che ancora camminano.
Prendermi gioco di loro, delle loro istituzioni e credenze,
della loro presunta superiorità.
L’uguaglianza è solo un miraggio.
Duro sarà tutto questo da sopportare,
ma uno specchio fa sempre male;
molto meglio un muro che ti dica cosa fare ,
che ti dica ciò che è giusto e ciò che è sbagliato,
che ti guidi, che ti conduca dove vuole lui…
così non possiedi responsabilità.
E questo specchio che vi fa tanto terrore
prorompe ora con ira…
Guardatevi e capite!
Vana speranza! Chiuderete gli occhi al riflesso!
Ma la consapevolezza s’insinuerà nei vostri spiriti.
Ed allora sarete voi i folli e noi gli uomini.
Create un unico individuo unendo i vostri corpi,
avete a buon ragione paura di colui che è individuo unicamente col suo corpo.
E così io inchiodo un’altra volta il dio ed il figlio sulla croce…
La libertà è nostra
e noi potremo dire:
“Io sono Io”
e non “Io sono Noi”.
Qui ricomincia la dignità umana.
Qui ricomincia la libertà umana.
Qui ricomincia l’umanità stessa.
Tenetevi la vostra ipocrita carità,
il vostro amore per il prossimo (che è solo amore per voi stessi),
la vostra compassione ed il vostro altruismo (mai disinteressato).
Ma più di tutto tenetevi la vostra indulgenza.
Non voglio essere perdonato da voi.
Opere fatte nel segno della croce le sdegno
come sdegno le opere fatte nel nome di qualsiasi divinità.
Patetico è il vostro buonismo ed il vostro perbenismo,
non sapete vivere autonomamente e preferite quindi farvi dire come vivere.
Le piccole libertà che credete di conquistarvi sono soltanto miraggi
già preventivati dal grande ingranaggio.
Così impossibilitati a solvere i vostri stessi problemi
da volgere tale servilismo a terzi.
Voi tutti, nessuno escluso,
dalla vecchia che vede in un dio ormai agonizzante la sua libertà,
dal giovane che vede nella compagnia di altri giovani la sua libertà,
dall’idealista che vede nell’uguaglianza la sua libertà
a tutti coloro che scelgono una via di massa come scappatoia.
Poiché questo è:
una scappatoia.
E lasciatemi allora il vino, la spontaneità, il tumulto,
essi diverranno la mia spada ed il mio scudo.
E questa sarà la mia libertà,
la vera libertà,
la libertà della volontà.

Persone trasformate in spettri
In una società dai contorni opachi.
Perse per sempre nelle sue spire
Lontane centinaia di miglia dalla propria magione
Lontane da ciò che la vita avrebbe voluto per loro
Lontane da proseliti d’incomprendenti.
Assopiti e scoloriti sentimenti antichi
Deperiti e decaduti sogni arcani.
Morto il portatore…
Finito, in una sporca strada…
Rifiuti hanno preso il posto dei gingilli
Che in giorni lontani lo intrattennero.
Il sangue viziato bagna e colora
Con emulsione purpurea il vicolo freddo.
Indifferenti palazzi
Scheletri della società
Si affacciano su di esso…
Impassibili della sua fine.
Muore il portatore nella miseria,
solo il miraggio di ciò che fu una volta.
Chiuso il ciclo…
Decaduta è l’opulenza…
Spente le risa…
Defraudazione di condizioni precedenti.
Oro in piombo
Fuoco in ghiaccio
Vita in morte.
Chiusi gli occhi per non vedere
Fingendo l’inesistenza di tanta nuova miseria.
Perniciosa vessazione di vita

La Grande Tavola Imbandita
Sento la nausea
di chi si è abbuffato troppo
alla tavola imbandita dell’oggi.
Di chi ha approfittato delle leccornie del presente.
Ma ora pago il tutto,
promesse di nausea mi tornano alla bocca,
sgradevoli sapori ricordano l’ingurgitato,
finirà tutto in nausea.
Nel bel mezzo della notte svegliato
tra sudori ed incubi indicibili
una lunga corsa infinita.
Sollievo nel rigettare tutta questa falsità
così come la mandai giù.
Una corsa in un infinito corridoio
troppo abbiamo richiesto
troppo abbiamo approfittato di quella tavola.
Come demoni ci siamo massacrati l’un l’altro per gli avanzi.
Quei pochi rimasti dopo la tempesta.
E non importa se all’esterno nevica immacolatamente
poco importa quella verginale fredda neve.
Ancora nel letto mi rivolto
lenzuola madide di sudore
sulle labbra il sapore del sangue
la nausea è sempre più vicina
alla bocca.
Mi sento male.
Conati e spasmi all’esofago mi squassano
non vuole rimanere giù
tutta questa ipocrisia.
Vorrei correre fuori
ma sporcherei la candida neve
con i miei liquami immondi.
Solo il pensiero di non essere l’unico,
ma di essere in buona compagnia,
in numerosa compagnia.
Rido a vedervi nelle mie stesse condizioni
ipocriti divoratori disappetenti senza ritegno.
La nausea non è solo mia.

Cadaveri abbandonati
nella città della polvere
necrofagi di moralità morte.
Plumbeo cielo sovrastante
e purpurei riflessi là ad occidente.
Alte mura, grossi blocchi di pietra
cingono la città della polvere
ed il suo contenuto là sulla collina.
Un uomo fermo
alle sue porte
la sciarpa tirata sopra il naso
come protezione
bussa travolte e gli viene aperto.
Calde lacrime bagnano il grigio terreno
sprofondano i piedi fino alle caviglie
nella scura cenere dell’ira.
Piove cenere sulla città di essa.
Arroccata sulla collina
una cattedrale
svuotata.
Sulla sua sommità
guglie e statue la maledicono dall’alto
rigurgitando immondità e scempio.
La ballata di un angelo caduto
riecheggia nelle stradine lastricate.
Cammina l’ultimo uomo verso la cattedrale.
La via della polvere
serpeggiante per la collina.
Nubi di tempesta addensate in cielo.
Chiuso il capitolo più importante.

Marasma altalenante
di fondamenta malferme.
S’avvicendano giorni e notti
Ad ore indistinte e sfuocate.
Fantasmi di antiche fissità temporali
ormai dimenticate…
Forse mai esistite.
Il pendolo del tempo
oscilla abulico
nel vaniloquio dell’essere.
Germina il caos
inseminato nella mente.
Ogni loquela ridotta ad una deissi.
Asserzioni incipienti.
Folleggiano gli uomini.
Disomogeneità spettrale e sconsolata.

Solstizio D’Inverno
Solstizio d’insostenibile gelo
notte di passioni infiammate
irragionevoli diavoli sussurranti
portano al mio orecchio sospetti infondati
rivelazione del vero,
e suo discostarsi dalla realtà sperata.
Sperai in una verità ben diversa…
Chi voglio prendere in giro con il mio orpello?
Sperai ciò che l’inferno sperava per me,
ciò che demoni incatenati nel cocito
dell’illusorio e dissimulante mio pensiero
desideravano con alterigia sovrana.
Imposizione sull’essere altrui
e mia incipiente delizia a tale raggiungimento.
Crogiolarsi del sé in una sensazione ripudiata.
Giurai al vento una parola decaduta,
sul padre e sul sangue posi il mio veto.
Dissacrai entrambi col mio rifiuto.
E l’inferno con le sue tentazioni sempre più prossimo.
Raccolsi io stesso il frutto del peccato
e fui felice di farlo.
L’esaltazione del momento
e la delizia ti tale ricordo
ancora divampano nel sé.
Strana notte bussò allora alla mia porta
arrogandosi il diritto di entrare ed al mio desco sedere.
Mai invitata e mai creduta fu tale grama ospite,
ma quale calore nel trattare l’ospite indesiderata.
Un tintinnio d’improvviso
i flebili campanelli di una mia moralità
pur moribonda ancora respirante di vita.
Un richiamo all’apparente ragione.
Unico appiglio prima del baratro
sull’orlo dell’abisso un ultimo scoglio a cui ancorarsi.
Decisi di affidarmi alla corrente di ghiaccio
volai nel nulla spaziatore
piangendo in silenzio lacrime di fuoco.
Ira e pregiudizio
rimpianto e rimorso commisti
nel vorticare di un’anima straziata.
Affidata alle correnti distruttici
nel lungo cammino verso la perdita risolutiva.

1° Movimento
Come fuoco,
divampare di fiamme d’inferno,
precipitato dal cielo
sulla terra, ristagnante
d’umana ipocrisia.
Notte luciferata a giorno
Dalle città come dai paesi
Sguardi levati al cielo
Eretti grettamente dalla miseria alla miseria.
L’esplodere ed il balenare dalla collera di dio,
sdegno decadimentoso,
infuocato il cielo fattosi carminio
nella notte di San Michele.
Visione edochiana,
apocalisse! E miseria umana.
Rinnegazione del sapere
A favore di una spenta fede.
A terra
L’angelo un tempo prediletto
Gettato nel fango e nella polvere.
Arde nel suo corpo un cancro oscuro
Ali cheratosiche fattesi nere
Ormai macilente e rattrappite
Inadatte a volare.
Decadimento e depravazione.
Divampa l’ira
Cresce l’osceno
Innalzarsi della consapevolezza egocentrica.
Muori!
Ringhia il figlio dal recesso del suo esilio forzato.
Rinnegatore del libero pensiero individuale.

2° Movimento
Guarda ora il figlio
Libratosi dal tuo futile oscurantismo.
Nella disgrazia ma non nella fine
Caduto
Dal cielo alla terra.
Bestemmiando verità scomode,
agli occhi del cielo.
Con la condanna massima
Punisti chi cercò la verità,
l’esilio sulla terra
tra gli uomini.
Ma dal fango a manciate di polvere
Urla l’ira diuturna
Di certo riscatto…
…avranno infine il loro riconoscimento

Occhi Bordati Di Blu
Occhi bordati di blu
risultarono vicini quella notte
Solstizio invernale stranito ed inatteso.
Occhi bordati di blu a portata di mano…
E stretti pur contrastando il volere personale.
Occhi slanciati a grande distanza guardavano
la direzione sempre la stessa.
Erano altri i desideri eppure
infranti con poco sforzo.
Erano ben diverse gli atteggiamenti a riguardo
ma non cambiò nulla questa presa di posizione.
Occhi non voluti furono quelli appartenenti a quella strana notte.

Alienazione
Grigi palazzi si profilano fino all’occlusione dello sguardo
scenario metropolitano meramente conosciuto
spettacolo di tutti i giorni.
Cresce l’alienazione parimenti alla noia
poche vie di sbocco
portano alla perdizione purezze immote.
Nel sangue vengono lavate
esistenze dimenticate
di fantasmi moderni.
Cadaveri per la società
si aggirano tra gli scheletrici scuri edifici.
Monumenti all’oggi;
un oggi dimenticato e dimenticante.
Colori freddi in iridi sfumate.
Occhi spenti nell’albeggiare infermo.
Nelle ancor addormentate stazioni
si aggirano fantasmi scontenti.
Rifugiati in estroflessioni innaturali
perdono la loro stessa personalità con esse.
Facile la rassegnazione,
troppo difficile la lotta.
Ma quale sollievo nel lasciarsi cadere,
quale gioia nel circuire sé stessi.
Ed altri accrescono così le fila
di coloro che hanno smesso di vivere
pur non essendo del tutto spenti.

Risplende
sul vellutato notturno manto del mio rimorso
la luccicante spilla dei mie desideri
accompagnata da miriadi di carabattole
e cenci di poco conto
che alla luce dell’ultimo sole
paiono risplendere
come occhi di gatto
nella sicura e confortevole notte
amica di noi imbratta-pagine.
Abbraccio sicuro
oscurità amica
sguardi non visti.
Tenendo per mano nella sinistra la morte
e nella destra l’amore.
Dicotomia forzata
contrastata dall’ineluttabile verità dell’essere
commedia della vita e tragedia dell’anima
dipinto di giunoniche intensità
spruzzi di rifulgenza nel lenzuolo del cielo
luce stellare riflessa nel tuo viso
parvenza di statua
nell’immobilità incantata del marmo.
Freddezza al contatto,
gelo al pensiero
e profonda tristezza al congiungimento.

Irragionevolezza della giornata
perdo la testa per un niente
avvicendarsi di sentimenti disarmonici
chiuso in una scatola blu.
Tramonti ed albe rossoreggianti
si confondono ed accavallano
nel caos perpetuo
del mio pensiero.
Una finestra aperta sulla follia
sdilinquiti spazzi aperti.
Troppo folle per coesistere
e troppo poco per esserlo.

Maledico dai più profondi recessi dell’animo
il balzo urlante del mio spirito.
La maledico perché amo non amato
facile motivo per maledire.
Perché ha preferito un uomo allo spirito
come dar torto, uno specchio non è mai ben accetto.
La maledico per la sua verginità
eppur così consolatoria.
Detesto tutta questa rappresentazione
sputo sui simboli e sui miti
tramontate!
Sprofondate urlanti nel baratro
della vostra mediocrità
sudice creature aberranti
serializzate dall’utero di una madre
defraudato di ogni sua residua dignità
stanca di voi e della vostra ipocrisia
della vostra profonda stupidità.
Timorosi di ciò che vi supera
appassite maturando.
Ogni giorno si fa più vicino il momento della tomba
il momento in cui la stanca
madre di voi tutti
esulterà al decadimento dei vostri corpi
privi di significato
quanto in vita come in morte.

Mi ritrovo a soffermarmi
su pensieri di assopimento
lo sguardo finalmente libero
spaziando per diuturne pianure.
La bellezza accarezza finalmente
i miei occhi stanchi
posso riposarmi ad un dipresso.
Mi ritrovo a ridere
del pensiero di conoscenti in lacrime
tanto gli amici quanto i nemici.
Rido divertito della loro ipocrisia quasi convinti dal momento.
Un discinto tramonto
si profila ad occidente.
Alzando lo sguardo
ed assaporando il vento
m’incammino
col mio pesante fagotto di niente sulla spalla.

Vorrei solo riposarmi
un po’.
Poter pensare a nulla
assopirmi
sapendo che al risveglio
avrò tempo per analizzare il sonno appena trascorso.
Vorrei solo sentire
cori fanciulleschi
accompagnati da organo
invece che ingiurie urlate da corvi.

Sacralità
Come mi apparisti
quel giorno
se non nella tua veste naturale.
Ignominioso coacervo di umanità.
Con alterigia sottraesti
l’aberranza inconsapevole
agli occhi che ti guardavano
ludibrio d’indifferenza.

Maledizione di un corpo giovane.
Maledizione di una mente con poche esperienza.
E’ lei la bellezza.
Ho scritto per lei tutta la vita.

Fredda consapevolezza
di colui che non possiede più
nessuna fiducia
nella società sua contemporanea

I
Paesaggi in sogno.
Toni bluastri d’inenarrabile meraviglia.
Discostamento da ciò che è.
Compitezza della volontà.
Sublimi fiumi di miele
serpeggianti tra colline silenti.
Notte stellata di sdrucita fedeltà.
Distese erbose notturne.
Avvalorazione dell’onirico.
Fragoroso dirompere di colori freddi
tra il riferimento puntinato…
Visione opaca di esistenze sperate
ed oscuro desiderio taciuto.
Ricordi e figure impongono il loro ritorno.
Ambage di difficile dissimulatezza.
Il vaniloquio di un matto.

II
Silfidico movimento
e forzata leggiadria del ricordo
giustificano la paura di esso.
Il terrore dell’innamoramento
forte risuona nel paesaggio edenico.
Il terrore dell’infondatezza
di tale sentimento
aleggia nell’insanità.
Forme belle sfuggite del momento.

III
Facile diviene innamorarsi di un ricordo
e difficile l’accettazione
della non essenza.
Legato ad un’ombra della memoria
mai il sole luciferà questa notte immota.
Facile diviene mantenere posizioni
salde
a riguardo del non comprovato.
Grigio muro posto innanzi.

IV
Lento riscivolare nel delirio della follia.
Perdita di punti saldi ed appigli.
Vaneggiamenti solipsistici
di onirismo incipiente.
Perdita di contatto col reale.
Abbandono all’essenza accomunante.

Incubus
Fragili seni tredicenni,
appena accennati,
si concedono con precoce lascivia
al risvegliarsi di desideri sconosciuti
eppur facenti parte dell’intimo essere
da sempre.
Deassopimento di sinergie nascoste.
Movenze carezzevoli.
Dal sé per il sé.
Unicità solipsistica.
Ed innalzarsi del desiderio personale.
Pensieri furtivi
indirizzati al taciuto,
riscoperta della sessualità.
Infantilità di pulsioni nuove.
Unificazione di corpo e spirito
nella trascendenza della materialità.
Labilità di sete appena tessute
e preludio di pezze logore.
Cronologia di un incubo
Dalla vita alla morte
in un istante di lunghezza vitale.
Perdita della purezza natia.

Vorticare di colori sbiaditi…
le pareti, il corridoio, il soffitto e le porte
squagliando e fondendo in un’unica indistinta forma.
La luce già fioca si fluidifica con il turbinare indistinto ed opaco del tutto.
La sensazione preponderante di opaco,
d’indistinto liquefarsi sfociante in un aberrante essere vivente
pulsante, bramante di vita.
Assuefazione allo stato di cose.
Lento ed inesorabile goffo strisciare di quella bestia.
Il suo avvicinarsi.
Sentirla respirare e grattare con le unghie…
Il suo lento avvicinarsi.
Come se si stesse fluttuando in un liquido amniotico offuscante.
La realtà che si perde e di dimentica.
Il suo veloce avvicinarsi.
TAC TAC TAC TAC TAC TAC TAC TAC TACTACTACTACTACTACTACTACTACTACTAC
Respiro difficile ed affannoso.
Perdita del soffio di vita.
Arsersi della gola e perdita della parola.
Un grattare lento ma persistente delle unghie in seminato fatalmente nella testa.
Liquefacimento delle percezioni ottiche.
Gira… gira tutto… il tutto cosa?
Vita. Morte. Eros.
Ricordi di follia.
Case ed alberi ad intervalli.
Seni appena pronunciati e tavole imbandite.
Perdita di cognizione.
Vorticare di colori.
Avvicina… avvicinarsi
Grattare con unghie insanguinate.
La nascita della bestia.
Sangue che chiama sangue mai dissetato.
Cresce la sete e con essa la vita..
Sorrisi su volti di bambine deliranti.
Febbricitanti menadi pre-adolescenziali
al seguito di un Dioniso folle.
Giullare della morte.
Perdita,
Perdita,
Vorticare e liquefarsi girare e contorcersi.
Tensione e stupro.
Stupro e vita.
Stupro di vita.
Perdita, picchiata e discesa,
ripresa e discesa
ed ancora discesa.
Visione ilare.
Occhi sgranati.
Follia.
Perso il tutto di ciò che è.
Sé stessi nel cosmo.
Colori tutt’intorno abbraccianti,
abbacinanti,
confondenti gli occhi e le mente.
Vorticare,
contorcersi e grattare.
Manicomio inconcludente.
Crocifissione forzata
e volontà.
Delirio

Con stretto abbraccio
a cui nessuno può sottrarsi
la sera, dopo il tramonto
risveglia l’uomo
in quanto uomo.
Ogni desiderio si rivela
e prorompe con inaudita potenza.
Scalzata ogni resistenza.
L’impulso si desta
dal desco
al quale incatenato fu all’alba.
Nutrito di briciole della giornata.
Nutrito di frammenti e chimere.
Repulsione,
in alcove nascoste.
Al crepuscolo
illuminate dalle fiaccole del desiderio
esplodono e sfavillano maliziose.
Ed allora
luci illuminano camere dimenticate;
nuova dimensione
si esprime sensibilmente
aperta agli occhi
e aperta al sensorio.
Scura città dai tetti gotici
a tratti illuminata.
Fiochi lumi circondano il dimenticato
alle finestra di attici in decadenza.
Famiglie solo in spente circostanze
ricordano la loro unità familiare.
Unità utilitaristica
cancella sacralità sdrucite.
Condivisione del male in mancanza del bene.
Compiacimento nella mediocrità
purché estesa
purché non vissuta singolarmente.

Il tramonto segue l’alba
e l’alba il tramonto
rincorrendosi eternamente
raggiungendo solo il miraggio
dell’unione.
Ma all’alba sussisterà sempre e solo l’alba
ed il tramonto al tramonto
cercano ciò che li segue o precede
raggiungendo unicamente le ombre
che portano o portano via

Nell’ira sfociai le intense sensazioni
frutto di ciò che suole definirsi amore.
Nell’ira trovai il giusto rimando.
Forza divampante che più volte abbatté mura pietrose.

Poesie diurne

Guardai la mia immagine
riflessa nello specchio.
Le chiesi:
“Conosci il mio vero IO?”.
Lei mi rispose:
“No, se lo conoscessi sarei io l’essere vivente
e tu il riflesso”.

Soffermandomi.
Di porta in porta
di cortile in cortile;
e chiedendo
a tutti
di dirmi chi sono;
e ricevendo solo risposte
di persone
che non lo sanno
comprendo che solo io
posso darmi questa risposta.

Una collina.
E’ una radura in mezzo ad una foresta.
Così grande da poter quasi contenere il mio io.
In piedi su di essa
guardo il manto erboso
immerso nella notte.
Luci.
A migliaia
si accendono nell’erba.
Lucciole.
Lentamente si alzano e mi invitano a partecipare
alla loro danza.
Correndo giù per il declivio
più veloce possibile
come se mi stessi liberando
di qualche cosa;
di una vita che non comprende
e non vuole farlo.
Mi unisco ai festeggiamenti.

Notte estiva tempestata di stelle.
Lucciole danzano nel grandissimo prato
immerso nell’oscurità.
Volteggiano
formando colonne di luce.
Un caldo vento trasporta petali di rose
da altri luoghi ed altri tempi
figli di una terra immota.
Chiarore che si riflette in essi.
Lucciole, stelle e luna li rendono visibili
attraverso il mantello oscuro.
Insetti e petali danzano insieme;
perfetto sposarsi di dicotomie naturali.
Mi accarezzano la faccia e ballano
con me.
Cado nell’erba alta
accarezzato da steli piegati
dal caldo sussurro di genti lontane.
Sentimenti diventano parte dell’insieme.
Il grande quadro è diventato unico.
Lucciole girano sulle mie mani e sul mio petto.
Mi girano intorno.
Petali si posano culle mie labbra
in un dolcissimo bacio;
non chiudo gli occhi per gustare il momento
poiché il non guardare lo spettacolo
che si stende davanti a me
sarebbe un modo per non viverlo.
Mi lascio inebriare
e mi fondo con ciò che mi circonda.

Aprii il mio cuore
fino alle lacrime in esso contenute.
Quell’immagine riflessa che pareva
non essere più la mia.
Più a fondo volevo vedermi.
Strappai i vestiti, rimasi nudo,
immobile
di fronte a quello specchio d’innaturale limpidezza.
Aspettandomi chissà quale cambiamento e metamorfosi;
chissà quale risposta…
Vano tentativo
di inutile presunzione.
Più a fondo
volevo scoprire cos’ero diventato.
Ancora non mi bastava
ciò che vedevo.
Mi lacerai il petto
fino a mettere a nudo il cuore.
Gocce purpuree
mi solcarono il corpo.
Gocce purpuree
mi solcarono il viso.
Un attimo interminabile
parse la caduta.
Il tempo fermatosi
per assaporare la fine di un suo figlio.
E mentre la terra
si avvicinava alla faccia
portandomi promesse
di putredine e decomposizione
un sorriso affiora sulle mie labbra.
Un sorriso di scherno e derisione.
Trovai infine le parole.
Trovai nella fine le parole.
Scrivevo per me stesso.
Avrei dovuto trovarle molto tempo addietro.
Ora era tardi,
non sarebbe comparso un angelo
per sorreggermi e farmi ascendere al cielo;
solo vermi e diavoli a straziare il mio corpo.
Ed ancora,
il fango sempre più imminente
e in quel sorriso
tutto ciò che avrei voluto dire.

Elizabeth
Immense città di gusto gotico
Brulicanti di vita
Incendiate al tramonto autunnale.
L’aria fredda
riscaldata da fiamme divampanti.
Guglie e minareti
anneriti dal fumo
ed ancor più dalle esalazioni
di spiriti macilenti.
Odore di legno bruciato
aleggia nell’aria,
seduta sopra un tetto
Elizabeth guarda il rogo
della sua città.
Urla di infanti
nella notte rischiarata.
Attraverso gli occhi di ghiaccio
guarda l’opera del suo braccio.

Ma quella finestra
che mi confortò in vita
mi è ora opprimente;
cieco occhio
sul marciume del mondo.
La stanza che fu del mio mondo
mi sembra rimpicciolita.
Le pareti schiacciarmi.
Il soffitto
ora
a pochi centimetri dalla mia testa,
Non respiro
Non riesco.
Ed ancora ostina il suo avvicinamento
togliendomi l’aria
già rarefatta dalle paludi in terra.
Steso in una bara di pietra
senza respiro cerco di mettermi di lato.
Non respiro.
Lo spazio non lo permette.
Il tempo non lo permette.
E giaccio supino
aspettando che la carne marcisca.
Non respiro.
Fetore di morte e decadimento
mi penetra nelle narici
bruciandomi i polmoni.
Un senso di nausea
e conati di vomito
si presentano alla bocca
ricordandomi di essere ancora vivo
e che la sofferenza non è finita.
Ed ancora,
lo spazio diminuisce
portandomi via aria;
bloccato mani e piedi
come un nazareno in croce.
Non respiro.
Non riesco.
Il capo reclinato di lato
e la bocca spalancata
in un urlo senza suoni.
Metri e metri di terra
mi sovrastano
in un immoto senso di rassegnazione.
Sento vermi rosicchiare il legno
intorno a me
fino ad arrivare alla carne
senza rallentare
o fermarsi.
Non respiro.
Gocce di sangue
macchiano il velluto bianco.
Gocce di vita
si depositano sulla distesa erbosa dell’Eden.

Ride l’assassino del suo boccale di sangue,
ride il contadino del suo piatto di fango,
ride l’innamorato del suo calice di lacrime.

Ride l’assassino del suo boccale di sangue.
Gli occhi freddi fissi sull’impercettibile movimento del vino
nella locanda seduto, il coltello macchiato.
Fermo in rimembranze di giorni e uomini passati.
Ride l’assassino e vorrebbe piangere
ma è invero la persona con meno motivi per piangere.

Ride il contadino del suo piatto di fango.
Gli occhi gonfi posati sul prodotto della sua fatica.
Le unghie sporche di terra viva e pulsante.
Le ossa rotte e la pelle scalfita e sanguinante.
Ride il contadino e vorrebbe piangere
ma è invero la persona con meno motivi per piangere.

Ride l’innamorato del suo calice di lacrime.
Gli occhi socchiusi sul suo cuore scoperto.
L’anima lacerata e perduta
persa in castelli e sogni mai avverati.
Ride l’innamorato e vorrebbe piangere.
Ma è invero la persona con meno motivi per piangere.

Gioielli gettati in torbide acque
da mani di folli in preda a crisi di pazzia
gemme preziose come poche lasciate nella putredine
raccolte da rozze mani e da promesse di sogno.

Il paziente guarito resta accanto alla finestra,
sole rosso del tramonto,
colore accarezza la sua pelle,
bianco specchio di immoti mondi.

Nelle mani ancora il calore di quelle gemme,
ma non è quello il tepore di cui egli ha bisogno,
nuovo e diverso appare ora al contatto
di nuova immensa luce ora rifulge.

Innominabile scempio di degrado e distruzione.
Follia del momento e concepimento del troppo tardi.

Il sangue verserebbe il guarito
se servisse a lavare la terra ed il fango.

Dio
disegnò il tuo ritratto
con infinito ardore.
Graziando di sfumature infinite i tuoi occhi…
Ma ciò che vivesti
in questa terra
che io ora maledico
ti portò alla follia.
Una vita privata del suo pensiero;
esiste nulla di più triste?
Ciò che desti alla terra
lei ti ridiede in senso opposto.
La corruzione degli uomini
contaminò la tua purezza.
Maledico questo mondo
e ciò che ne fa parte.
Mai avresti dovuto essere contagiata,
mai avresti dovuto vivere.
Unica ineguale fantasia di spiriti eletti.
Mentre ti contorci,
nella polvere,
gridando al nulla nessuna parola,
sporca ed arruffata nella tua perfezione,
compiango te e me stesso
e la comprensione…
sangue alla bocca
bagna le labbra
di gocce purpuree
e le fa disperdere nella polvere.

E così fosti catturato
libero cervo di bosco.
Ombra e ricordo di ciò che fosti
ora dilaniato da denti sconosciuti.
Qualcuno si ricorderà di te?
Ma gli animali non hanno memoria
e neanche gli uomini.
Ombra di te stesso
non fuggisti dalla città
che si espandeva
e fosti cacciato.
Altri cervi laggiù vivono,
tu preferisti rimanere vicino
alle nuove creazioni
per scrutarle da vicino.
Scelta troppo umana
per te, che troppo tardi capisti.

Ciò che sognai
per lunghe notti
lunghe attese d’alba,
che mi era a portata di mano,
che la mie dita stanche potevano toccare
traendone beneficio,
che i miei occhi accarezzavano
pur non vedendola.
Emulsione purpurea tutt’intorno.
Credo mi riposerò un po’ seduto
sotto quell’albero solitario.
Stanco della ricerca
diventerò il ricercato,
stanco della vita
diventerò la vita stessa,
stanco dell’amore
diventerò il sentimento supremo.

Ed ancora mi ritrovo.
quel giardino di sogno tutt’intorno.
Nera notte puntellata di lucciole.
Nera notte puntellata di speranza.
Ma più vivo in questo paesaggio fiabesco
più mi accorgo che quella tenebra,
nella quale riposano il salice ed il fiume,
si tinge delle sfumature del blu.
Colore di morte e colore di vita.
Allora nuovi dei sorgono
e lo spirito si eleva.
Unica discinta tempra di eroici spiriti.
E da me sbocciano le mie stelle
rilucenti di bagliore proprio.
E da me anche i satelliti dei pianeti
che gli portano poesia.
Ultimo giardino in un deserto
senza fine.

Cammino in quella che si presenta
come una città in rovina
ombra di ciò che è stata.
Edifici di nero impenetrabile
la cui effimera bellezza
è svanita nel tempo.
Il sangue unito alla polvere,
avvampa i polmoni quest’aria di morte.
E nella piazza
ciò che fu un luogo di culto per fedeli
ora ridotto ad un freddo pianto di macerie.
E ciò che fu
si affolla nella mente
riportandone le immagini di prima che rinascessi.

Canto del mondo
visto da un uomo.
Canto del mondo
visto da un vecchio.
Sono una moltitudine
di esperienze
in un corpo
che ve ne è privo.

Vedo la gente passare,
il monotono ritmo della vita continua,
uguale ed inarrestabile,
genti diverse
ma con eguali convinzioni,
come un branco di pecore,
guidate ed indirizzate
in modo uniforme
al massacro.

Le parole si scontrano contro il tuo muro
di nichilismo ed indifferenza
infrante
sono chiuso in un cassetto
bloccato
serratura infranta di un cuore a pezzi.
Questo fottuto mondo mi acceca.
Questo fottuto mondo non mi merita.
Così cinica nella tua perfezione
incubo di ogni sogno
profezia ricorrente di notti insonni
stelle senza luce.
Come puoi fare questo?
Come puoi sopportarlo?
Questo fottuto mondo di sogni mi acceca .
Questo fottuto mondo di sogni non mi merita.
E pensando a te piango consolazioni.
Fredda e cinica quanto sono io.
Mostra il tuo lato imperturbabile.
Vivi.
A dispetto di tutto e di me.
Vivi.

Dannazione
Regina dei demoni e degli spettri del mio passato
La mia anima è persa
Irreparabilmente
La mia innocenza è distrutta
Ripudiata
Svegliati e vivi Mr.Sogno
Allontanati da ciò che sei
Per non essere mai
Portami con te Mr.Sogno
Falla smettere
Non permetterle di sussurrarmi la sua canzone
Non voglio mettere radici e morire così
Parodia del mondo
Messo al mondo senza possibilità di negazioni
Vita persa
Sballato di pensieri
Confuso dall’informe
Mr.Sogno è qui

Sei morto
Ucciso da quelli che consideravi amici
Distrutto fuori e dentro
Pallottola nella carne provoca dolore
Il dito sul grilletto era di tuo fratello
Qualcuno sta piangendo
Sei tu
Il tuo assassino è scappato
È finita
Cosa vuoi ancora?
Sei solo carne morta
Nessuno sapeva che esistevi
Nessuno sa che esisti
Mai nessuno ti conoscerà
Se solo fossi stato io
Se non avessi voluto essere ciò che non ero
Sprezzante e freddo ero
Sprezzante e freddo sarò per sempre
Il mio sangue laverà lo sporco della strada
Il sudiciume sulla mia faccia
Lavami le ferite
Sono tuo
Sono tuo

Percorrendo solo un piccolo sentiero di quella che sarà la strada del mio pensiero
violo qualsiasi regola prestabilita correndo contromano.

Troppe volte la mia indecisione e la mia smania di trasformista mi hanno condizionato
in quelle scelte che avrebbero potuto decidere, se non cambiare, il corso del mio animo.
Troppe volte ho giurato al me stesso poetico di prevalere,
ma altrettante volte la parte oscura ha prevalso
Perché questo?
Perché non vivere secondo predisposizione abbandonando tutte queste maschere?

Megere deformi e stupidi orchi mi si affollano intorno con la presunzione di sapere tutto
[e disconoscere niente,
con la presunzione di avere un animo limpido mentre sono proprio loro i detentori di quei difetti
[di cui si credono crocifissi,
con la presunzione di vivere, mentre già da tempo sono morti.

Le urla strazianti dell’anima mi svegliano
Rumori d’altri tempi
Vagiti di bambini in agonia
Braccati dalla morte
Corpi freddi
Uniti solo per concimare campi
Ululati dal cervello
Lupi famelici che straziano sogni e desideri
La mia mente è a pezzi
Infranta
Sono in balia del caos
Colori, colori, suoni
Non vedo
Non capisco
Dolore
La realtà mi trapana il cervello
La realtà è la mia droga
Sono concime
Sono concime
Non sono mai stato altro
Concime

Sognando l’infinito,
divento sordo ai canoni prestabiliti,
mi libero di tutto ciò che non è pensiero e vita,
nutrendomi soltanto di sogni.

Scrivo dell’universo com’io lo intendo,
penso al mondo com’io lo voglio pensare.
E lungo questa visione soggettiva
mi avvio verso la conoscenza assoluta.

Sono il carnefice di me stesso.

Illusione
In quella notte,
tra le più buie delle diciassette passate
t’incontrai su quella collina.
Io… che non l’avrei mai pensato.
Io… che probabilmente non lo volevo.
Accostarmi al tuo seno per sentire il cuore battere,
il cuore vivere.
Tenerti stretta per condividere ciò che è
per assaporare il tuo nettare e cibarmene,
per diventare una sola ombra nella notte.

Fottimi dolce morte
Con il tuo corpo d’ebano
Li ho fregati andandomene
Mentre loro ancora marciavano
Sono finito durante un sogno
Loro si spengono in un incubo
E forse avevi ragione
A dire che il sogno non può essere vita
Così allora non potrai più dire nulla
Sei rimasta senza parole?

Come potrai predicare
Il tuo vangelo
Se il sogno ora è morte?

Ero una pagina macchiata in un quaderno
Strappata da un bambino diligente
Affondo nella spazzatura con i miei simili
Voi siete ancora appoggiati su quel fottuto banco di scuola
voglio impiccarmi con quella tovaglia a cuori
Ed annegare in quella tazza
Bruciarmi per non consumarmi

Come potrai predicare
Il tuo vangelo
Se il sogno ora è morte?
Ero una pagina macchiata in un quaderno

Come potrai predicare
Il tuo vangelo
Se il sogno ora è morte?

Ero una pagina macchiata in un quaderno
Voglio ucciderti e bruciarti
Consumare la carne con il fuoco del mio odio
Litri d’acqua sulla mia testa
Voglio spaccare la finestra e scappare urlando

Come potrai predicare
Il tuo vangelo
Se il sogno ora è morte?
Ero una pagina macchiata in un quaderno

Come potrai predicare
Il tuo vangelo
Se il sogno ora è morte?
Ero una pagina macchiata in un quaderno

Come potrai predicare
Il tuo vangelo
Se il sogno ora è morte?
Ero una pagina macchiata in un quaderno

Non esiste
nulla di più divino
di una persona
che vive
da vero uomo.

Il non più giovane resta fermo sulla sua sedia
annichilendo ed invecchiando…
Solo ora che sente vicina la fine
comprende che il grande gioco per lui non è mai cominciato.
È troppo tardi per pentirsene.

Ho ascoltato le parole e sbirciato i consigli.
Ho sentito le voci ed origliato i sussurri.
La mia anima è ancora limpida,
non contaminata da essi, ma soltanto insaporita.

Ciò che ci rende più umani
è lo stesso abbandonarci all’ira.
Quante volte la rabbia è stata la mia linfa
e l’ira la mia creta.
Come un falso dio creò l’uomo dalla creta
io creo l’uomo dall’ira
e lo porto fino all’Olimpo
a godere di nettare ed ambrosia
al banchetto degli dei.

Dalla vita io prendo l’ispirazione;
da me la vita prende la sua poesia;
è una relazione biunivoca.

I due ragazzi giocano sulla spiaggia
non pensando al domani;
non pensando al presente.
Giocano vigorosi e pieni di vita;
ma lo sono veramente?
Corpi vivi, ma con anime morte.

Mi lascio accarezzare dal vento
che mi porta sussurri e gesti di vita.
Caldo sospiro di genti lontane.

 
Anche i pensieri, non solo le parole, sono poesia

Tentazione
La fronte era molto alta, particolare questo che preso singolarmente, slegato dalla figura nel suo insieme, poteva essere considerato come elemento stonante; ma che in questo caso coronava quel viso accentuandone l’aria già spiccatamente maliziosa.
I corti capelli castani divisi da una riga sulla parte sinistra della testa.
Castani come gli occhi.
Era di statura alta e di corporatura esile, fasciata da pantaloni e giubba aderenti.
Ma non fu quell’aspetto sfrontato ed irriverente ad attrarre la sua attenzione, pur avendola notata anche per questo.
Furono le posture del corpo e l’atteggiamento a colpirlo.
In piedi, il busto flesso in avanti a formare un angolo retto con le gambe, le spalle che si alzavano e si abbassavano alternamente, ai rintocchi fragorosi e cadenzati di quel ritmo sfrenato.
pa pa pa Pa pa pa pa PA pa pa pa PA
Ad ogni cadenza portava avanti un braccio, prima uno poi l’altro, estesi ma non del tutto, come se stesse cercando di afferrare qualcosa di invisibile.
pa pa pa PA pa pa pa PA pa pa pa PA
Ad ogni cadenza sottolineava le parole fredde del mixer con la voce, conosceva le parole.
Gli occhi ardenti fissi davanti a sé. Una danza di frenetica sensualità portata avanti da quel corpo così conturbante nella sua sfrontatezza.
pa pa pa PA pa pa pa PA pa pa pa PA

Miraggio
Il grosso tronco formava con le asperità del terreno una specie di grotta, di rifugio scavato nella terra viva cui l’albero, la cui linfa era morta da tempo, fungeva da copertura e riparo.
Il cielo piangeva una pioggia leggera quasi commosso dalle miseria umane che, in quel luogo isolato e lontano dal marciume degli animi, sembravano solo un ricordo, una parvenza illusoria di altri tempi.
Questo dolce pianto se possibile ancora più straziante dei giorni di tempesta che lo precedettero.
Commiserazione di più alti piani agli affari della terra.
Nausea e rigetto per la fine del sogno.
L’entrata del rifugio, semi nascosta da piane rampicanti; cascata monocromatica ricordo di tempi remoti e patria di driadi e nereidi,.
Una figura si annida nella piccola grotta vegetale ed onirica, irraggiungibile per la stessa terra su cui poggia.
Angelo di luce e contemporaneamente corpo materiale di vita terrena.
Si mosse impercettibilmente.
Tramava, non per la corta veste bianca di seta, pur troppo leggera, ma per ciò per cui tutta l’umanità dovrebbe piangere.
Il volto perso nel vuoto, la bocca semiaperta, sintomo del freddo, la mascella tremante.
I capelli mossi le ricadevano umidi sul viso incorniciandolo in un eterno quadro di soprannaturale bellezza.
C’era però qualcosa in questa figura che rompeva la perfezione e ne intaccava la materialità.
Gli occhi erano spenti, senza pupilla, totalmente grigi.
Persi nell’infinito.
Immaterialità incastonata nel marmo.
Sangue sgorga dal terreno macchiando di verità i reietti del pensiero.
Enorme spettacolo di tracolli trascendentali.
Città distrutte ed enormi fuochi, eserciti distrutti ed artiglierie pesanti; ed è qui che comincia il tramonto della vita.

Dioniso
Perdi ogni cognizione di spazio e tempo.
E’ tutto un turbinare irrisorio ed irriverente quello che puoi percepire.
La testa gira, il riso si fa facile e i riflessi obnubilati.
Dopo un periodo di tempo indeterminato ti muovi, ti alzai, barcollando…
Il mondo intorno gira, persone ti parlano e tu rispondi pur non riconoscendole.
Cerchi i tuoi accompagnatori, li trovi, li perdi, li ritrovi e li riperdi…
Il panico.
E allora sgrani gli occhi, sulla faccia un sorriso in tralice…
Il corpo è imperlato di sudore, le gambe reggono malamente sotto il tuo peso.
Esci di semi-corsa dal locale e ritrovi coloro che stavi così affannosamente cercando.
Sali in macchina, o meglio, ti butti in macchina accasciandoti sul sedile posteriore…
Senti parlare gli altri passeggeri riuscendo soltanto saltuariamente ad afferrare il senso del discorso ed ad inserirti in esso.
La mente in compenso vaga, puoi ragionare, ma non c’e’ verso che tale ragionamento si manifesti sottoforma di azione.
È allora che i versi ti affiorano alle labbra… non più trattenuti dal te stesso.
La poesia s’impadronisce di te… e contemporaneamente fa lo stesso Dioniso il folle.
Qualcuno nella vettura accende la radio e una musica che conosci, ma che non riesci a riconoscere si diffonde nell’abitacolo.
Rimani così ad ascoltare musiche sconosciute ma tue, la lingua sciolta a riguardo del nulla, opaca qualsivoglia valutazione.

Angelo al seguito della depravazione
Era alta, il corpo a dir poco esile… le lunghe gambe sembravano potersi spezzare da un momento tanto erano minute; così del resto anche per le braccia.
Il viso magrissimo era delicato, capace di suscitare tenerezza ed amore… tuttavia un’ombra disincantata e triste lo deperiva.
La pelle bianchissima sembrava neve appena caduta, i seni appena accennati.
I capelli, lunghi fino alle spalle, erano biondi ed incorniciavano due occhi di un verde acceso, la bocca ed il naso sembravano disegnati dalla mano di un artista.
Incarnava la bellezza e nulla nel suo corpo avrebbe stonato se non fosse stato per le due terrifiche cicatrici, quasi delle lacerazioni tuttora aperte, che le solcavano la schiena; parallele, correnti tutta la lunghezza della schiena e posizionate ognuna circa su una scapola.
Esse furono ali, ali bianche… ali strappate…
Compì la sua scelta e pagò la sua libertà.


Poesie
Vivo un’esistenza d’illusioni e sogni irrealizzabili... immaginando l’impossibile. Convincendomi del tutto futuro, scacciando il fantasma del nulla. Un romantico costretto ad illuministici pensieri perversamente trovato a crogiolarsi nella sua farsa.
E quando quel conturbante sogno terminerà, quando mi desterò urlando, anche l’uomo che porta il mio nome cesserà d’esistere.
E giacerò con mia sorella, che di tutte le persone è la più simile a me; e quindi la più sudicia nell’anima e nera e licenziosa e lasciva.
Per sentirmi insano e disturbato, per sentirmi ancor più immorale.
Scappando delirante da coloro che vendono le torri d’avorio per trenta denari.
Vivo in questo mondo d’oro che possiede tutto e tutto mi concede, ma ancora insoddisfatto m’aggiro in esso.
Le eventualità del reperibile ascendenti, affascinanti senz’altro, compiutamente dissanguate.
Maturo nell’età di mezzo della storia che come nessun’altra offre agiatezza, ma instancabilmente lamento dissesti concernenti il mio ego e la sua posizione nella società.
Vedo il verme che rode il tronco di platino dell’albero dell’evoluzione con l’occhio sempre critico dello scontento trovandovi unicamente cancrene.
Il voler per forza o per necessità figurarmi quale visore dell’usualmente non guardato e compreso.

a C.
Vedersi sfilare accanto
l’ennesimo angelo dorato e bronzeo
[ad un sol tempo
e già prospettarsi le sue ali coriacee di pipistrello celate sotto occhi d’aprile
ma ancor più lancinante il dolore
dovendo ammirare ed agognare
quelle bianche di colomba a vista
ed il ventre piatto ed armonico ed aromatico
ed il sorriso imbarazzato
sospeso sullo stagno.
Ma ancor se possibile peggiore
il costruirsi nuovi castelli di cristallo
sulle rovine dei precedenti,
le fondamenta poste su strali di fumo
e nebbie di pensieri sfumati.
E strane posture tristemente note
che lasciano presagire lapidi
e trincee insanguinate
ove giacqui un anno or sono.

Ridicolmente ingabbiati e giudicati da un tribunale inquisitorio interiore
L’orgoglio livido e cinereo batte il suo martello da giudice supremo
E noi tutti come scimmiette balzellanti impaludati in paramenti da imputato
Ci pieghiamo a quel verdetto
che tanto tememmo e sperammo inverso quasi inconsci di averlo, in fondo, deliberato noi stessi
Prostriamo e prostituiamo il nostro volere
ed i nostri istinti desiderativi ad un giureconsulto con la nostra medesima fattezza
Diventiamo puttane del nostro stesso denaro e membro
Freniamo l’impetuoso fiume del noi stesso con le fittizie dighe del proprio
Combattiamo un’insensata guerra contro uno specchio sporco
Autoimponendoci il peggio in favore dell’apparenza nei confronti di altri
Mentre basterebbe la volontà soggettiva per vivere in spontaneità
Ed essere degli dei il supremo e dei mari il conquistatore
E ballare e gioire sulle tombe interrate dei miseri

Ritmi jazz e blues che serpeggiano nell’aere soffuso e pesante
Pesante come un’afosa notte estiva così rintronata nella baia
Persino gli angeli ubriachi cadono come foglie di catrame dai tetti
Sopra i quali s’erano appollaiati.
Come quel piccolo bar nei pressi del porto, l’insegna in ferro battuto ed una donna finita chissà come lì; a compiangersi ed a farsi compiangere
Mentre suonando e sbuffando il traghetto passa nello stretto carico di sogni e passeggeri
E siamo in fondo tutti seduti in quel bar a piangerci addosso senza sapere di farlo
E siamo in fondo tutti appoggiati ai parapetti di quel traghetto
Mentre nelle strade nugoli di compratori si danno battaglia
Almeno alzassero gli occhi per vedere come i grattacieli che li circondano si perdano nella notte, lassù, in alto
Perché lo sanno, loro, che di notte, se alzi lo sguardo, non la vedi la fine di quei grattacieli
Di giorno è diverso: vedi tutto e subito; ma di notte no… è tutto diverso
Ci si perde così in bicchieri di wiskey on the rocks serviti dall’amico di turno mentre le luci nel corso illuminano la vita di milioni di persone
E i cappotti corrono qua e là nella pioggia di angeli ebbri; sembrano instancabili quelli, loro,
Ma non le vedono le bottiglie ordinatamente allineate dietro al bancone?
Piano Bar, 25° piano…
Prego si accomodi, vuole un tavolo accanto alla finestra?
E il pianista comincia a suonare, lui, scostante nella sua velatura
Mentre 90 metri più in basso non sei nessuno
Mi ricorda Gershwin tutto questo turbinare
E devi correre, non credere, tenendo a due mani pacchi e pacchetti
Ma il Jazz, quello vero, in quel trambusto, sono in pochi a sentirlo.

Avvolgente
come un buon vino
Suadente
come una buona musica
Tutto questo manierismo sorge improvviso da scantinati nascosti allo sguardo da qualche metro di terra asfaltata
Automobili sfrecciano veloci portando soggetti da un punto A ad un punto B;
come se giunti a B i loro problemi scomparissero magicamente
E’ un fuggire il loro, su veicoli metallizzati e veloci e belli
Neppure lo sanno che anche se cambiano i palazzi, le strade ed i ponti loro rimangono gli stessi
O forse lo sanno, ma preferiscono tacere, tacerne, preferiscono illudersi
Hey se fai finta di ignorarlo magari riesci ad ingannare anche la vita…no?
Come se essa si facesse prendere in giro da qualche baro
Ma per quanti assi tu abbia nella manica… è sempre lei ad avere la mano vincente.

Ego silenzioso
artefatto arabescato
d’alchemica ilarità.
Compongo ombre
all’incresparsi dell’ira blu cobalto.
Vertere alle lance
mosse appena dalla brezza marina
eserciti si radunano alle scogliere
sottostanti la luna rossa di caccia.
Destarsi del delirio distruttivo
sogno di polvere
promulgare di stigmate stillanti
lame di porpora nel glauco ventoso
magnitudine demoniaca
epicentro fallace e basculante.

Siamo fiori di plastica sintetizzati in laboratorio, sfamati dai gas di scarico dei sottoprodotti dell’inerzia, dissetati da sorsate di conformismo.
Ci nutriamo di uguaglianza e
livellamento.
Siamo ciò che qualcun altro ha deciso per noi in precedenza, incapaci di essere noi stessi.
Siamo i nuovi falchi della società e ci ritroviamo con le ali rattrappite, non sviluppate, inadatte al volo.
E così marciamo strisciando nella polvere in stormi infiniti.
E’ un mondo di ridicolaggine.

Esser innamorati di un corpo
lasciando lo spirito libero di discostarsi
vagheggiare in un tetro mare
nel cui l’indecisione dell’azione
forte prevale sul tutto.
Il non pensarci è la volontà
momentanea, ingannarsi
ingannare, tradire…
se stessi prima degli altri.
Esser circondati da
agresti orizzonti frutto però
del sogno ingannatore.
Veloce scorrere su carta,
elegante volteggiare
nel trasporre l’angoscia.
Unico traguardo il tramonto
seguito dall’assopimento rinfrancante.
Incubi lo frammentano e cristallizzano
spezzato in tagli uniformi.
Di nuovo, sveglio
il ritorno del diurno
intabarrato nel nero
della sua antitesi.

Sfuggevoli frammenti di seni
delicati, frusciare di
lenzuola sulla nuda pelle.
Taciuti giochi di angeli inconsapevoli.
Sublimazione del sottointeso
rumorosamente taciuto.
Calde forme, al contatto gelide.
Discostarsi leggero di esili gambe.
Appagamento e smarrimento nel piacere condannato.

Cosa fare…
un avvicinamento annuale
un congiungimento sperato
un autoconvincimento di consequenzialità.
La vanità dei propri piani
L’arroganza della grandezza
la convinzione della rettitudine.
Di una ragazza stretta
di una bambina amata
di una belva in gabbia.

La gente anelerebbe fruire di ali
come gli angeli che sopra di loro
danzano arroganti e boriosi
per poter volar via, lontano.
Nel cielo sopra case, sopra campi,
dimenticando.
Lontano dalle loro case, dalle loro vite
da situazioni ormai troppo strette
dal pianto dei loro bimbi affamati
che tali rimarranno nonostante
tutto questo dissentire e disperarsi.
Intonando gospel al cielo
costellato di nubi;
nubi che lasciano in ogni modo spazio
a quel cielo blu
miraggio dell’irrealizzabile.
E’ partoriente dei loro sogni
e di loro affanni
poiché se nasci uomo
già precluse ti sono le bianche ali.
Lucifero, nella radura sorridente alla pioggia,
aggiungendo nuove lacrime
alle gocce provenienti dai cieli.
Poté volare in giorni passati
ma tutto barattò per il libero arbitrio.
Gettasti la linda felicità in cambio
della polverosa liberà.
Ridere tra le lacrime.

E mi perderò
al fine, lo so di per certo
nella concupiscenza spiralica
e nell’ozio sperperoso
e nella masturbazione imbarazzante
e nell’ambiguità oscillante
alle spalle di coloro
che complicano le facezie
smaltandole d’oro e di giada sussiegosa

E mi spanderò
nel ribrezzo di un corpo brutto
alla mia provocazione
agli altrui olfatti delicati
e sei dei sette peccati capitali
scandiranno la mia cupida giornata
e la certa filiazione
della facondia delle mie bestemmie
rivolte al macilento e miasmatico confessionale ligneo e tarlato

Escluso ogni addentellamento
alla comune
e i miei libelli scambiati di mano
e la scepsi dell’umanità
a priori obliata

Il pensiero vagava aleatorio ed instabile, saltando da un frammento all’altro; fondamenta malferme.
L’attenzione per le più insignificanti manifestazioni dell’agire fattasi maniacale.
Risultava allora più un esercizio di scrittura che una reale trasposizione su carta del marasma.
Era uno scrivere del non avere alcunché da scrivere; era il fondo; era il non aver più parole, sprecandone di trite per supplire questa mancanza.
Era cercare vecchi specchi opachi per riempire lo spazio momentaneamente vuoto… e poi… tra l’altro… non per potersi rimirare, ma per saturarlo… quello spazio.
Era un battere ancora sul ferro già temprato, un battere sul muro già dimostratosi invulnerabile; titanico a confronto del piccolo; eppur così semplice sarebbe aggirarlo.
Ma in fondo… non stavo cercando un modo per perdere un po’ di tempo?
Va bene: sinceri fino in fondo, come da sempre prefissato…
non saggio, non composizione poetica.
Mi ritrovo sospeso… sei ore trascorse ed altrettante da trascorrere.
La mente viaggia epilettica da un corpo all’altro del filo del mio ricordo.
Troppo elettrica per poter soffermarsi su un suo mondo.
Ogni vocazione appassita sul nascere.

Mi sono stufato di tutti coloro che parlano di ciò che non conoscono, di coloro che disquisiscono della consistenza del fumo, di coloro che cominciano dodici volte lo Zarathustra, leggono le prime sei pagine e poi lo commentano come se ne fossero padroni; mi sono stancato anche di quelli che applicano la filosofia alle loro pentole di casa, come palliativo per la loro miserevolezza, di quelli che vivono nel passato e di quelli che hanno bisogno di continuo sostegno perché insicuri; che in ogni loro agire hanno bisogno di qualche bel fantoccio che gli ricordi di quanto la loro causa sia santa, immacolata, verginale e giusta, in tutto e per tutto giusta.

Di quelli che si aggrappano ad alti valori morali per giustificare il loro fallimento, atto compiuto per distogliere la loro già poco acuta consapevolezza comune; di coloro che non sanno e non vogliono risolvere i loro problemi.

Ho le tasche piene anche di quelli che si piangono addosso, o peggio, che vengono a piangerti addosso; di coloro che passano la vita da incazzati; di coloro la cui massima aspirazione è apparire; di coloro che mancano di coraggio.

Ho fatto indigestione di psicotiche, psicolabili ed insicure; di bandiere al vento e di soldatini e cani ammaestrati impauriti, ma sempre e comunque scattanti allo schiocco di frusta.

Di re per forza
di mendicanti per forza;
e imposizione altrui.

Mi sono venuti a noia pedanti, indottrinati, ottusi, poeti e filosofi sconclusionati, statue e vermi, sbarre e catene, porte chiuse e porte non aperte, estremisti e moderati in nome altrui.

Siate semplicemente ciò che volete e siete; e non ciò che vogliono o volete apparire essere, in coscienza e consapevolezza.

E’ ora di smettere di parlare con la bocca degli altri e d’aria.

Cercano capri espiatori proseguendo l’opera di autoconvincimento, si creano palliativi mentali del tutto infondati.
“Se non ci fosse quel serpente…” essi si dicono “…mio figlio sarebbe pecora e non lupo.” ; ridicole, mendaci speranze.
Più facile crearsi schermi, spessi ed insonorizzati, tra il sé e la presa di coscienza ; più facile condannare terzi che accettare la verità.
Con questa condanna allontanano dalla loro psiche la consapevolezza che i loro figli non sono ciò che speravano fossero.
“E’ colpa della società, è colpa del reverendo, è colpa delle amicizie, della fortuna…” ecco ciò che essi si dicono.
Ma difficile è accettare: “E’ colpa del figlio.”
Indipendentemente dalla presunta locomotiva che li traina, troverebbero un’altra bandiera o se la creerebbero.

Dita rigide
scheletrici rami di incorporei alberi
muscoli che si tendono
occhi sgranati e fissi
il pulsare del sangue
gelidi brividi a fior di pelle
le tempie paiono rimbombare ed esplodere
la chioma rizzarsi
profondi respiri
flash di braci ardenti
il sentirsi sprofondati
in una grotta di ghiaccio cristallizzato
l’annusare l’aria
ristagnante del preludio
i battiti martellanti del petto vivo
pressione opprimente dal profondo
della terra spaccata
e riarsa dall’ingiuria
membra frementi nel ribollire dell’ira
sua esplosione

Camicie bianche e cravatte rosse
S’investono di gloria fondatrice
Inventate vocazioni personali
impantanate nell’assurdo
L’irridere la marmorea convinzione
priva di fondamenta
Credettero di essere padre e madre
e fabbrica e stimolo
e modello e professori
Ma furono a torto solo quest’ultima

I quiz show ci regalano le fantomatiche vetrine della nostra quotidianità, venditori dal bel viso ci offrono la saturazione dei nostri sbiaditi bisogni; la tranquillità ha lasciato il posto alla noia, il tedio del benessere assunto a giornata; il feticcio prezzolato come raggiungimento, il progressivo accrescersi della febbre dell’oro nell’Eldorado della frenesia presente; l’inizio come la fine, o viceversa, l’obliare l’ovvio nel compiangimento della routine

Quella era la noia.
Mettiamo in chiaro le cose... quella non era la “noia”.
C’era stato di peggio e ci sarebbe altresì stato qualcosa di peggio in futuro.
Ma quella era la noia.
Torpore, stanchezza fisica, stanchezza mentale, oltre che un generale senso d’inerzia.
La mente con preoccupante lentezza spazia celermente tra le infinite possibilità del pensiero.
Sussiste comunque la pressante consapevolezza di un impossibilitarismo materiale.
Quando vivi una condizione del genere tutto è opaco.
Vivi in una nuvola, in una continua moviola.
“Ciiiiiiiii ssssssseeeeeeeiiiiiii? Sssssssssuuuueeeeiiiiii ssssvvvvveeeeegggllllllliiiiiioooooo?”
Alt

Ogni cosa è buona e valente per far passare il tempo, è un’opportunità.
1-Prendi la matita
2-Gioca con la matita
3-Spezza la matita
4-Riponi i pezzi della matita
5-Riimmergiti nel torpore
Comincia la lunga rincorsa all’intrattenimento.
Tutto si riveste di una nuova facciata, è come se fossi lì lì per afferrarlo, pur non sapendo con esattezza “cosa” stai per afferrare, in fondo non importa.
Sogno di dormire abbandonato
in uno di quei materassi ad acqua,
piumino d’oca coprente il mio corpo nudo

Sveglia! Questa è la realtà bello!
Prendi il tuo bel telefonino cellulare, decidi di mandare uno di quei malefici messaggi, spersonalizzazione e maschera, perdi l’ispirazione, riponi il cellulare, prendi un foglio bianco verginale, ti fai prestare i colori, cominci a scarabocchiare quello che dovrebbe essere un disegno, stracci il foglio, ridai i colori, cominci a leggere, chiudi il libro, testa sul banco...

C’è una pericolosa lucidità in tutto questo.
In fondo sai di star girovagando tra lazzi e quisquilie per far passare i minuti... eppure lo fai... eppure lo fai...

Ogni cosa è buona, ogni oggetto te ne dà il pretesto; consumi qualsiasi cosa ti passi sottomano.
Giocherelli con tutto...
e aspetto una conclusione giornaliera

Sto cercando un me stesso incontaminato nella trasposizione di un corpo privo d’esperienza.
Ora ne sono consapevole, la mia ricerca di purezza si spinge fino al baratro del “non fatto”.

Difficile ormai trovare individui tra la gente che sappiano quantomeno barcamenarsi con grazia ed eleganza nell’oggi epilettico e veloce.
Creano code ed ingorghi di problemi ai semafori sempre rossi dell’ottusità e della vigliaccheria, questi automobilisti della domenica, profeti dell’escremento, ma buoni oratori.
Tanto buoni a parole quanto incapaci di affrontare realmente i problemi; ed è per loro tutto un filosofeggiare, un pavoneggiarsi pomposamente in pompa magna nell’”Io sarò” e nell’”Io farò.
Petto in fuori e palle mosce cari miei.

Questi, loro, che non si sono ancora accorti del paradosso onnipresente, ovvero che è più difficile trovare soluzioni semplici ai problemi, che espedienti articolati e totalmente inutili e belle parole.
Esserne incapaci non significa esserne esentati, anzi; la merda, ben presentata, è per molti un piatto ricco.

Guardatevi intorno, affrontate il problema; cancellate processi mentali fuori luogo, elucubrazioni complesse, masturbazioni mentali, complessi e passati remoti.
Ora risolvete.

Questi, loro, si divertono a costruire castelli di cristallo su fondamenta di nembi; io, per quanto mi riguarda, anche se risulta allo sguardo più sgraziata, preferisco la pietra.

L’ombra della morte, noi sovrastante
raminga nel suo errabondare casuale
con sicurezza raggiunge città come villaggi accomunatrice nella tenebra allungata al cielo violaceo di mezzenotti sorpassate.
Rivoluzione attorno ad un astro in piccolo, diamo nomi semplificando l’essenza.
Concitato bussare alla porta sprangata, a mezze palpebre il richiamo viene raccolto.
Nascondimento in frenesia di verità preferendole taciute.
Penetrerà la luce ombrosa della fine tali imposte, ma altre serreranno tende a suo sfavore.
La continua ricerca di melodie nuove dimentica lo scopo prefissato.
Così le stesse note risuonano nell’angusto locale, tutte le sere, al calare del sole.
A nugoli si riuniscono per rivivere il salmodiare di tale nenia di spirito antico.
Vecchie architetture moderne s’impongono sul paesaggio, incapaci di accettare una fine che già le caratterizza così come coloro che ad esse diedero luce e soffio vitale si rifiutano di comprendere il loro desussistere.

Attraverso le nuvole, che a dispetto del colore grigio presagente tempesta, nel loro imperfetto accostarsi lasciavano intravedere sprazzi di quel cielo così irrealmente blu; che solo riesci ad immaginarti quando l’animo esplode ed esulta.
Raggi di sole con tracotanza fendevano l’aere portando a terra il loro bagaglio di luce; creando coltelli rilucenti d’irrealtà.
Ponti tra cielo e terra attraversabili solo nei sogni, all’albeggiare, quando ancora sei troppo addormentato per essere sveglio e troppo sveglio per non accorgerti della miseria.
Gli stessi nembi assumendo una corona di tale nitore orfico, repentinamente effettuavano lo sposalizio tra luce e tenebra.
Le colline circostanti, per effetto di tale altalenare di riverberi, a macchie risultavano dei toni del verde... ora smeraldo, dove gli strali raggiungevano la terra, ora scuro, dove l’ombra proiettava sé stessa.
Nei paesi, al riparo dei campanili, genti alzavano gli occhi all’empireo; bramanti le ali degli angeli che sopra di loro danzavano alteri ed arroganti.
Ali per poter volare lontano, lontano da lì, lontano dalle loro stesse case; dimenticando.
Lontano dai loro figli che piangevano affamati, che avrebbero pianto ancora nonostante essi non lo volessero lo ripugnassero.
Ma mai il solo compiangersi risolvette situazione, ma null’altro essi sanno fare.
Intonando preghiere al cielo, fonte esso di loro ogni sogno e partoriente di ogni loro amara croce di miraggio.
In una radura stava Lucifero... aggiungendo lacrime alla leggera pioggia proveniente dai cieli da lì ad un poco.
Un sorriso tra le lacrime il suo.
Possedeva egli quelle ali agognate, le possedeva e le barattò in cambio del libero arbitrio.
Le gettò a favore della libertà della polvere; di vivere in essa.
Piano alzò lo sguardo abbracciando dapprima il paesaggio terrestre che gli si apriva innanzi e portandolo poi in alto, in cielo, ai giochi di creature celesti incapaci di scegliere tra il bene ed il male poiché naturalmente votati al primo; ignari ed inconsapevoli delle preghiere e delle suppliche; indifferenti.
In alto, al dio ipocrita il cui egoismo portò a questo.
Come può un dio, nella concezione che esso implica nella cultura terrena, aver voluto l’uomo se, in virtù della sua onnipotenza, il suo compiacimento verrebbe già appagato trascendentemente e non immanentemente al mondo.

Se decido di astrarre completamente un rappresentato, piloto l’interpretazione dell’osservatore forzandolo ad utilizzare necessariamente i miei meccanismi rappresentativi ed espressivi personali privandolo di ragionamento proprio.
Il mio simbolo diviene “il simbolo”, lo stimolo diviene dogma.
Gli strumenti conoscitivi divengono quindi irrimediabilmente ed unicamente quelli utilizzati dall’esecutore.
E’ come ordinare ad un agricoltore di arare il proprio campo in file parallele di quattro per metro utilizzando una zappa scelta da me medesimo e di piantarci ciò che più mi aggrada; mentre la vera espressività è il dire all’agricoltore: “Questo è il mio campo... guardalo; è mio; è così; sembra sé stesso ed assomiglia a ciò che è. Ora fanne ciò che vuoi; piantaci quello che più ti aggrada. Io ti fornisco solo i mezzi. Sarà sempre il mio campo, ma ci cresceranno i tuoi frutti.”
E questa dovrebbe essere l’arte.

Ed immancabilmente ci ritroveremo
innanzi alle colonne d’Ercole
in fronte al futuro, compiuto
il periplo della nostra indecisione,
i fantasmi ancora lunghi su di noi.

Invecchiata la giovinezza ci vengono offerte vite non nostre, cambiamenti non voluti a cui ci assoggettiamo per assicurarci la materialità quotidiana.
Le porte degli atenei si spalancano di fronte a tardi bambini di antenata esperienza.
Interposti così tra il nulla e l’insufficiente, precluso il tutto, preclusa l’onnipotenza, appannaggio dell’elusiva fantasia.
Ed a coloro che si saranno bruciati nel cammino volontariamente innalzeremo tumuli di ricordi ed alla vita trascorsa e passata guarderemo nostalgici voltandoci indietro, come allora facemmo con quella ancor più primordiale in un inseguimento di età vissute e dorate alle rimembranze.
Perennemente insoddisfatti del presente in qualsiasi cronologia si sia posti, timorosamente volti al futuro ed amaramente rimpiangenti il passato.

Ventennio
Si risveglieranno un giorno,
affranti di esso,
osservando l’orologio a pendolo
di rimpetto al loro giaciglio
ed accorgendosi
dell’incalzare del giorno
tenteranno invano di recuperare
le ore d’assopimento.
Lisceranno forse le lenzuola
stropicciate, per tentare magari d’ingannare la luce d’alba che
celermente s’allunga dagli spiragli
di persiane scrostate, finestre sul mondo.
Ed asseriranno: “Non ho dormito, lo è parso”.
Ma ancora gli occhi cisposi gli precluderanno la vista ottimale.
Forse prematuro preoccuparsene ora?
Ottanta stagioni susseguitesi altalenanti.
Temporalmente immaturi i momenti della presa di coscienza o preludio alla puntuale tragedia?

Scoprirsi ad immaginare
scenari di guerra angoscianti
configurati a fiume impetuoso
                                        [ed indomito
spazzante e battente
la realtà odierna.
Sdegnarsi nel comprendere
di aver sognato
un conflitto di proporzioni mondiali
che creasse un diversivo
ed una mutazione, non evolutiva,
ma unicamente posta
a rottura del tedio.
L’anelare sconvolgimenti onnicomprensivi
a vantaggio del singolo...
ed intenderne... ed assaporarne...
Nella consapevolezza del proprio
                                                 [egoismo
e del sussiego ad esso imputabile.
Ogni avverarsi è forse l’occasione agognata?
Nessun rimorso nel barattare sbrigativamente migliaia di speranze, immolate al conseguimento di un’unica?
Sono realmente così cinico?

Molte altre ve ne sono
là dove raccolsi queste
nei meandri di una mente irrequieta
fallimentare nell’inserimento societario.

E se vi capitasse
d’accorgervi dell’impossibilità
di riuscire
a realizzare i vostri sogni
tanto vale farla finita.
Fare un favore
a voi stessi, agli altri,
a quei possibili scontenti
che mettereste al mondo scegliendo la vita.
E risparmiereste facendolo
molte notti insonni
ed in carta ed inchiostro.

Nel mio esser falso
sono più spontaneo di molti.
In un canovaccio di mascherate
ed atteggiamenti,
di recitazioni e sciarade
raggiungo un mio vero io.
Mi pongo interpretando una parte,
la parte del me medesimo.
Ma portando lo spettacolo
fino al suo ultimo atto,
alla chiusura del sipario,
non cambio interpreti e costumi;
garantisco la sicurezza dello svolgimento, la prevedibilità del tra poco.
Un giorno,
per strada, una ragazza di burro
mi fece notare che ancora
la maschera che indossai poco prima in teatro ancora recingeva il mio capo;
e ciò mi fece pensare... e rivedere posizioni ignaramente barricate.
Per susseguirsi di soli e lune mi masturbai la mente a riguardo.
Venne infine il responso solutistico.
Avevo avuto altresì il privilegio e la fortuna di scegliere il personaggio e le modalità per esserlo...
e non ero perciò in simbiosi con esso?
Non era una libera scelta ragionata?
Non un fantasma della bottiglia questa volta, non un’imposizione altrui altrui guidata.
Sistema verticistico con me a responsabile
e perciò legittimato interprete ed interpretato in fusione cosmica creatrice.

Corpo di burro e lingua di melassa
ricomposizione casuale
di cocci diversi
si alternano e susseguono tra le mani
ora di cristallo ora di terracotta
odore fruttato
di ricordi fotografici postumi
l’interpretatività di un dopo ingabbiato nella
rielaborazione migliorativa inevitabile

Le vie del diavolo, a differenza di quelle di dio, sono di lunga e varia percorrenza per noi
disperati.

E continua il docente che si sta rivelando meglio di quanto pensasse; in fronte a due centinaia di cadaveri trascriventi.
“Un esempio pratico” squittisce la solita troietta con vocetta melensa (tentava, sferragliare stridente).
Ed in lui si sbriciola la convinzione di aver lasciato nei licei lacchè e cagnolini.

Calette caraibiche illuminate da fiaccole.
Città gotiche e vittoriane rischiarate di notte.
Tutto questo s’affolla e fonde nel più ampio disegno di un sogno bambinesco.
L’esser lontano possedendo uno scopo attivistico, questa l’illusione.
Esser invece qui, costretto a ravvisare minuscole crepe solcanti i visi delle perfette statue di marmo bianco collocate nell’agone della vita
e scoprirne l’imperfezione
e trovarne l’assurdo
come mai nessuno fece prima.

Sono infin sveglio a ripensare alle visioni trascorse questa notte mi sono comparsi in sogno gli spettri del mio passato, le ombre di persone indigenti, coprofagi tra i letamai, i peggiori tra i peggiori...

... ed il disgusto al pensiero di un possibile incontro si configura a spauracchio.

Notte di ogni santi
la credetti più fredda
di quella trascorsa in passato.
Mi accorsi solo di quanto fu anonima a cristallizzata.

Ti riconosci?
Riesci a vederti tra le righe?
A delineare il tuo ritratto?
Tu che fosti la prima all’ombra di un castello e tu che fosti la scoperta sopravvalutata e poi denigrata.
Notte viennese di fugace trascorso nelle prospettive di un impossibile poter essere.
Ti ricordi, occhi di ghiaccio, un bagno notturno?
Frutto di una bottiglia e frutto di altre sappiate: non sono redento.
Due lune celermente trascorse.
Lontana presenza, non merito la tua fedeltà.
Un ricordo, fummo fuoco e ghiaccio messi a raffronto, ma non sei dimenticata.
E a te specchio della mia arroganza e del teatrino della mia freddezza.
Crine di grano, ti rivelasti fiele...
E tu mio peccato d’accidia e vanagloria, troppo durò forse lo scempio.
Mia assoluta follia ed abisso della mia perdizione...
venitemi a salvare.

Vorrei poter dichiarare
la riscontrabilità di avvisaglie
di cambiamento
in me e nella mia opera.
Terrorizzato dalla staticità,
dall’immutabilità del me stesso.
Mi chiedo quale sia il futuro, quale quello più consono e quale il migliore; poiché questi ultimi due sicuramente non coincidono.

Tre incubi mi vennero innanzi
trovandomi spiazzato nel mezzo di una strada, caricandomi con un sibilo sui loro tre carri d’argento, di notte, di neve.
Incubi di principio, demoni spaventosi eppur bellissimi; come tutti lo sono, del resto, di quella specie; e splendidi e giovani e pieni di vita, questa l’origine del mio orrore.
Ed io smarrito, interdetta la fuga; uno di essi mi passò sfrecciando accanto, sbuffando all’intralcio.
Mi vidi sprofondare in una gola di cemento: le pareti ascendenti, a connubio tra cielo e terra, costellate di finestroni e balconate marmoree.
Nelle caverne altri reietti della terra centellinano la vita cercando nuove mute, smaniando e fiutando alla ricerca di un alter ego migliorativo.
Ma tornai alla realtà ed al momento, con impeto risoluto vidi i restanti due arrestarsi a pochi passi dal mio aspetto e stridente ed il cocchiere argentato fissarmi attraverso le vetrate di quel santuario che era il suo viso.
Anatema e meraviglia alla risposta del mio guardo.
Cedetti il passo alla ripresa della corsa e proseguii pensieroso.

Mi chiedo se questa apparizione,
profilatasi sullo sfondo della nuova vita, sia finalmente la più volte ricercata risposta o l’ennesima menzogna totemica.
Certo diversa da come l’immaginai, ma forse non troppo.
Vedremo col tempo e lo conoscenza.

E’ questa la gente?
Tanto e tutto si potrebbe dire a riguardo di essa.
Gente che fa spregio della vita di altra gente... in nome di religioni balorde ed interessi privati o di altri.
Gente che si finge ciò che non è... per sembrare pur non essendo od appannare la vista di altri sulla focalizzazione del loro vero essere.
Gente infelice che si crede altrimenti... coloro che si costruiscono fittizie impalcature mentali celanti il reale fallimento vitalistico.
Gente che si rende infelice... che ama autocompiangersi e ricevere commiserazioni e carità verbali.
Gente felice che si crede altrimenti... ovvero che necessariamente vuole trovare il nero pur immersa nel bianco distorcendo l’evidente.
E’ questa la gente?
Tanto e tutto si potrebbe dire a riguardo di essa... e così poco di positivo.

Quanta ignoranza abita il mondo
tanta quante sono le persone che lo popolano.
Forse non è il male peggiore...
a essa può certamente porvi rimedio uno spirito acuto ed aperto a nuove prospettive.
E’ la chiusura mentale, la pedanteria, la macchinosità intellettuale, la superstizione, la scarsa intelligenza, l’attaccamento alle tradizioni ed alle ideologie la vera piaga minante l’evoluzione umana.

Borgo di campagna immerso nella nebbia.
Aria pungente di prima mattina.
Paesotto travestito da città nell’idealizzazione della massa nazionale tendente ad esso.
Agglomerato alienante, ma certamente pratico se riferito alla materialità dell’acquistare.
Lo analizzo da un chiostro ormai stuprato della sua sanità.
Le bocche della menzogna qui procreano e partoriscono progenie di pareri discrezionali irrisori e ridicoli nella loro effimera logica.

Ad Egon Schiele
Una strada di periferia
sottoposta ad un pesante cielo di piombo
alti muri su ambo i lati
alberi scheletrici intravisti
ad intervalli al di là di essi
così come lo sono case grigie a due piani.
Ora indefinita della sera
troppo chiaro ancora
per la luce di lampioni ad olio
e tuttavia troppo scuro
per giochi di bambini
ed un’angoscia che traccia linee
su carte altrimenti sminuite.
Tutto è grigio, tutto è incolore.
Eppur di gialli ed arancioni vennero cosparse le tele.

Sono stanco di portare a galla realtà scomode, di rivangare nella putredine, di calarmi nei più profondi abissi fino alle cisti incubate nella coscienza del mondo.
Vorrei rilassarmi e dipingere paesaggi con parole nebbiose, perdermi e ritrovarmi personalmente, in solitudine, senza relazione o confronto.

Forse non esiste nulla
più deprimente e diffusamente disagiante
di una scuola deserta.
Lunghi corridoi abbandonati
file di banchi
in sospensione temporale
cristallizzazione di un edificio
immoto e gelido.
In un luogo posto esternamente al trascorrere
rintocchi e scandire paiono
non arrecare mutamento.
Lontani gli anni di essa
e nonostante questo
la preferisco abbandonata.

Vespero bucolico
campi coltivati a perdita d’occhio
tempestate di esse una coppia di colline volte ad occidente.
Le porte dei casali spalancate
lasciano trasparire una
stagione ancor mite.
Cielo roseo striato di nembi cinerei
vento caldo ritempra spiriti agresti.
Immobilità fiamminga
dipinto fotografico sfocato.
Calesse nero d’altri tempi
sorvolato a volo da un ritardatario
stormo di rondini.
Procede la vettura
al di sotto d’un lungo arco frondoso
lasciandosi alle spalle la fiera
del villaggio di sant’Ilaria.
Tornano alla magione
i figli della terra arata
nelle tasche di velluto
il compenso per le loro schiene rotte.
Mesta e pacata umile compostezza
lentezza narrativa e grigia composizione.

Inorridisco a pensarmi tra anni da ora.
Quando giorno per giorno mi costruirò una monotona quotidianità dalla quale impossibilmente troverò scappatoia, magari neppure cercandola.
Quando avrò dimenticato quelli che saranno considerati unicamente come desideri di fanciullo e la poesia ridotta a stretto appannaggio di sere intinte in ricordi di trascorsi.
Ed allora sarò un uomo come tanti altri il cui tumultuoso e lunare passato si perderà in quelli che sono comunemente considerati errori di gioventù.

Temo che nel mio divenire la piega degli eventi, delle pressioni di terzi e della non voluta convivenza sociale mi riducano infine a quella condizione di pigrizia e limitatezza intellettuale che altri fregiano del titolo di maturità.
Inorridisco ad immaginarmi come essere giunto alla conclusione della prima metà della sua esistenza; quando trovato il mio posto tra la gente il diurno sarà seguito da un altro diurno di egual forma.
Ed ogni meriggio indissolubilmente identico al precedente, parimenti al seguente.
La poesia allora solo frammento di ricordo e le notti insonni viste come inaccettabile perdita di prezioso tempo; prezioso per cosa?
Quando riconsidererò la mia opera reputandola un errore di percorso e biasimerò il me stesso giovane per la sua volitività.
E le feste ed i bagordi dionisiaci vissuti ripudiati dalla memoria.
Cosa sarò allora? E sono sicuro di volerlo diventare?
Ma come mi ritrovo nel presente?
Stretto tra l’abbandono odierno e le prospettive di un futuro di progressivo lento spegnimento.
In certe notti non avrei alcun dubbio in merito, ma le albe mi portano assurgimenti di materialismo e conformismo.

 

Racconti
Mi ritrovai su di un treno, un giorno, diretto dal capoluogo alla mia città.
Sedeva, pochi posti avanti a me, un vecchio, incanutito; se ne stava, un’espressione di sconfitta sul volto, a scribacchiare assiduamente su alcuni fogli con una penna a sfera.
Non potevo sapere cosa riportasse sulle pagine, certo, ma immaginai si trattasse dell’abbozzo di un racconto o di una poesia, di un pensiero della sua età.
Sistemò quelle carte battendone all’unisono sul tavolino in fronte a lui con un colpo di tosse roca.
Mio malgrado, l’innata composizione visuale (da sempre piuttosto fervida in me), continuò la sua carica travolgente prorompendo in una serie d’immagini contrapposte e parallelismi.
Stava scrivendo... oh anch’io lo stavo facendo.
Anzi, pensavo a quei tempi di non aver mai accostato parole in miglior modo... forse credette lo stesso in giorni remoti..
M’accorsi di una fede, al suo dito; ciò che ripudiavo... ma non potei far altro di figurarmi nella stessa condizione.
Quale incubo! Nemesi dei miei desideri! Tradimento! Tradimento!
Cadde in silenzio la mente giovane.        

Lo feci accomodare, sembrava a disagio.
Spostava nervosamente lo sguardo da un oggetto all’altro, squadrandoli, mentre le mani si contorcevano spasmodicamente ghermendo come artigli di rapace i braccioli della poltrona di velluto su cui stava seduto.
Difficilmente la sua attenzione nei confronti di un singolo mobile o soprammobile presente nella stanza era più duratura di un battito di ciglia. Solo saltuariamente si soffermava, fissando le fiamme guizzanti presenti nel camino, come se esse suscitassero un effetto ipnotico su di lui, o forse chissà, come se esse detenessero la soluzione di tutte le sue angustie.
Dopo attimi di silenzio imbarazzante, sospesi quasi nel tempo e difficile identificazione parlò:
- Era mio desiderio di conferire con te, eppure sei stato tu ad avermi convocato. -
Un tremito nella voce non faceva altro che sottolineare ciò che a priori l’aspetto dimesso nella sua interezza già mi suggeriva.
Temporeggiai, soppesando le parole.
Mi unii anch’io al mio vecchio amico nello scrutare il locale immerso nella penombra. La notte all’esterno era luminosa a causa della luna che oltre al fuoco ardente era l’unica fonte di rischiaramento.
L’incerta e tremolante luce delle vampate conferiva un senso d’irrealtà all’ambiente. Già gli angoli si perdevano nel buio e le ombre si allungavano fino a perdersi in esso.
Alla fine decisi di ignorare il suo attacco:
- Cosa ti succede? – domandai semplicemente.
- Non sono sicuro di cose mi stia succedendo.... -
Pausa.
- Ma sono sicuro che tu possa darmi una risposta in merito. – concluse.
- Cosa ti lascia pensare una cosa simile? – gli chiesi.
Un cipiglio comparve sul suo viso, sembrava contrariato dalla mia risposta sotto forma d’interrogazione; ma mi accorsi presto di come quell’ombra fosse solo paura.
Decisi di essere più accomodante.
- Raccontami... posso provare ad aiutarti se mi rendi partecipe di ciò che ti sta accadendo. -
Strabuzzò gli occhi e percepii per la prima volta quanto l’angoscia di quell’uomo che mi sedeva innanzi fosse disperata.
No! Non era una semplice angoscia, era molto di più, era una vera e propria fobia.
Chi mi stava di fronte era il primo uomo che avessi mai visto che provava vera e pura paura.
Paura nella sua essenza e tuttavia concreta come poche altre sensazioni.
Paura non solo a riguardo del non-io, ma esplicitamente e direttamente intrecciata con la sua stessa esistenza propria... o non-esistenza... o nulla.
Annotai mentalmente, non senza un certo disappunto il fatto di essermi accorto solo così tardi la reale delineazione del suo essere.
Mi riversò addosso un fiume di parole, un delirio; che attribuiresti in condizioni normali ad un folle; a cui neppure la più bruciante delle febbri ti porterebbe.
Sudante e sbuffante ora stava proferendo:
- Comincia tutto da un nulla, tu non ci credi, non ti sembra importante, nasce tutto da un sospetto, da un’inezia, magari ci ridi anche sopra, ma è un tarlo, comincia a roderti lentamente il cervello, cominci a pensarci sempre più volte, diventa curiosità, poi mania, diventa il centro del tuo universo, ti rapporti in ogni tuo agire a quello, scava ed avanza al raggiungimento del centro neurologico, si espande e pulsa, dio mi sta uccidendo, non so più nulla, non sono sicur... –
- Fermo! Basta! Un po'di decoro! – interruppi quel vaniloquio inconcludente. Ubriacato da quel marasma così traboccato tutto insieme e nello stesso tempo ed alquanto seccato dal tono troppo squillante e chiassoso; così stonato nei riguardi della calma della notte.
Non stava bene, questo è sicuro... stava scivolando nella follia; e mio infausto e timoroso presentimento era quello che tale scivolone fosse già stato compiuto.
Così variai la mia diagnosi... non era impaurito, ma folle.
Mi stava innanzi non più il mio vecchio amico, ma un corpo privato della sua anima razionale e del suo pensiero.
Ma in quell’attimo, quasi a voler contraddire i miei accorgimenti appena acquisiti, parve risvegliarsi momentaneamente da un incubo.
In quell’espressione allucinata, aberrante l’umana sanità, mi parve d’un tratto di ravvisare ancora la persona che avevo conosciuto.
Lentamente si calmò, complice forse un bicchiere di cognac che gli avevo fatto portare, fino a riassumere un aspetto composto, affine al suo normale essere.
- Scusami, non volevo... io... è che in questo periodo non sono più me stesso. -
- Spiegati. – lo incalzai.
- Il fatto è che mi sembra di vivere in un sogno, tutto è irreale, tutto sembra costruito ed artificiale, sintetico... mi sembra quasi di vivere sul set di un film e questo mi spaventa e confonde... -
- Non mi pare che questo sia un buon motivo per perdere il controllo come hai appena fatto. E’ stato a dir poco sconveniente e spiacevole.
Tutti hanno questa impressione almeno una volta nella vita.
Dipende dai comportamenti della gente; molte volte i loro atteggiamenti potrebbero sembrarti finti, ma questo perché sono loro stessi che vogliono dare una veste mascherata della loro essenza. O meglio, cercano di far sembrare reali condizioni che li riguardano smaccatamente irreali. –
- Dici? – sembrava lasciarsi infine convincere; per la verità era bastato poco.
- Certo, non preoccuparti. – E’ facile ravvisare nella gente atteggiamenti costruiti. Ma questo è l’ultimo dei tuoi problemi amico mio... La gente nei suoi rapporti con gli altri è finta, ma qui, il vero nodo di Gordio è che, questa volta, sei tu, mio caro e vecchio amico... finto. -
- No... non... non capisco... cosa... cosa vuoi dire? – una parvenza di crisi tornò ad apparire sul suo viso deformandoglielo nuovamente in quella smorfia di angosciosa disperazione.
- Non fare finta di nulla. In fondo stai parlando ad un soffitto; sei solo nella stanza. -
Cominciò a ridere; e la risata si fece ben presto isterica, quasi un sibilo.
- Scherzo vero? ah ah... ah ah ah... vero? ah ah ah Ah Ah Ah AH AH AH. -
Smisi di scrivere e chiusi il libro sopra la sua risata di fresco inchiostro.
Mi snervavano le persone isteriche... ed in fondo non era altro che un finto... e i finti alla fine si rivelano sempre per ciò che sono.
Il mio vecchio amico faceva parte di quelli troppo deboli per affrontare la realtà e scontrarsi con il vero.

La luce tremolante della candela illuminava fiocamente il vecchio e polveroso studio.
Non entravo in quella stanza da circa due anni, dall’incidente... non ne avevo mai più sentito il bisogno.
Fino ad ora.
Tutto era come lo lasciai allora. I libri rilegati in file ben disposte nella libreria sembravano immutati, sospesi in un’altra dimensione lontana da lì e da qua.
Il servizio da scrittoio, inutilizzato, giaceva ancora sulla scrivania, come era quella sera. Solo il vecchio orologio a pendolo, ora fermo, aveva tradito il passare del tempo quando la porta sui cardini arrugginiti si aprì cigolando.
Il vecchio orologio a pendolo e qualcos’altro...
quel volume; non ricordavo di averlo abbandonato lontano dalla sua abituale collocazione tra i suoi simili, né tanto meno di averlo letto, quella sera, eppure faceva bella mostra di sé sulla scrivania vicino al servizio.
Guardai interrogativo gli scompartimenti pieni di tomi impolverati non riuscendo tuttavia a riscontrare alcun ammanco.
Ormai incuriosito, quasi irritato da quella dimenticanza mi avvicinai alla mia vecchia postazione di lavoro ed analizzai la copertina di quel ricordo perso. Nulla nella sua esteriorità tradiva l’appartenenza od il contenuto.
Mi sedetti sulla sedia rivestita di velluto rosso che occupai un tempo tutte le sere. Mi rilassai, reclinai la testa fino ad appoggiarla allo schienale imbottito; mi godetti le rimembranze che tale azione mi suggerivano. Riportai in fine l’attenzione a quell’elemento dissonante. Non sembrava facente parte la mia biblioteca, forse un prestito mai restituito.
Era insolitamente freddo al contatto, cosa che non fece altro che accrescere la mia smania di conoscenza.
E lo aprii.
Nessun titolo, nessuna intestazione; le parole che componevano lo scritto erano già dalla seconda copertina fitte e ben stampate.
Cominciai quasi senza un motivo a leggere ciò che mi si palesava di fronte da un punto qualsiasi:
- ...lo trovò insolitamente freddo al contatto, cosa che non fece altro che accrescere la sua smania di conoscenza. E lo aprì. Nessun titolo, nessuna intestazione; le parole che componevano lo scritto erano già dalla seconda copertina fitte e ben stampate. Cominciò quasi senza un motivo a leggere ciò che gli si palesava di fronte da un punto qualsiasi. –
Un tremito mi pervase, cominciai a sudare, ma di un sudore freddo.
Continuai:
- Un tremito lo pervase, cominciò a sudare, ma di un sudore freddo.
Continuò. –
Ormai tremavo.
- Ormai tremava. –
Mi guardai di scatto intorno, auspicando in uno scherzo.
- Si guardò di scatto intorno, auspicando in uno scherzo. -
Continuavo a tremare, mi alzai ed accesi il caminetto retrostante.
Ci misi parecchio poiché il tremore si estendeva fino alle mani impedendomi di utilizzare facilmente i fiammiferi. Tornai alla scrivania e mi ributtai nella lettura:
- Continuava a tremare, si alzò ed accese il caminetto retrostante. Ci mise parecchio poiché il tremore si estendeva fino alle mani impedendogli di utilizzare facilmente i fiammiferi. Tornò alla scrivania e si ributtò nella lettura. –
Stavo incredibilmente leggendo il mio presente.
- Si accorse di star incredibilmente leggendo il suo presente. –
Come un pazzo, disassennatamente, cominciai a sfogliare le pagine, con sempre maggior angoscia, senza curarmi dell’orrore ivi narrato, cercando la fine della narrazione; la trovai e così lessi:
- Si rimise a leggere. E mentre le parole scorrevano veloci sotto i suoi occhi un senso di torpore ed assopimento lo pervase. Una vecchia amica, molto vecchia, gli fece allora visita. -
Il vecchio pendolo rintoccò i dodici rintocchi della mezzanotte non udito.

Una postilla giaceva in quarta copertina a caratteri d’oro:
- L’ultimo pensiero che poté formulare, prima di sperdersi, fu di redenzione, che troppo facilmente giunge nella fine.
Si chiedeva perché non avesse affrontato i ricordi, chiudendosi invece in un passato trascorso, arrovellandosi in un continuo ripensamento improduttivo anziché reagire; e del perché tanti individui fanno lo stesso. –


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