Racconti di Sergio Guarino


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Sono nato a Napoli il 16 agosto 1959, dove risiedo.
Nel 1991 conosco la scrittrice Cecilia Coppola, presidente del movimento culturale “la Cyprea”, che mi propone di partecipare ad un concorso di ricerche sul mare.
L’anno dopo collaboro scrivendo articoli d’attualità per l’ex settimanale “Napoli Notte” e sempre nello stesso anno la Cyprea decide di pubblicare una seconda raccolta dal nome FRAMMENTI DI VITA.
Nell’ Agosto del 2000 “Lo Scrigno” è stato recensito dal prof. Antonio Spadaio della rivista “Civiltà Cattolica”.
Il 19 marzo del 2002 ho conseguito la laurea in lettere moderne, con il voto di 110 su 110 con lode.
Il 19 ottobre ’02 mi è stato assegnato dalla Provincia di Salerno, per il libro “Frammenti di Vita” il IX Premio Internazionale di Saggistica Salvatore Valitutti, giuria presieduta dal prof. Alfonso Andria.

E-mail: serguarino@virgilio.it

Leggi le poesie di Sergio

Le mie avventure con Cavallì
Tutti gli uomini affermano di cercare la realtà, ma quando essa è loro di fronte non sono mai pronti ad affrontarla: così finiscono col restare soli con loro stessi.
Se poi parlate con uno loro della Fantasia risponderà più o meno così: "Chi io? Fantasticare? Ma se non ho neanche il tempo di lavorare! Io poi sto bene così: non ho bisogno di sognare per vivere!"
In fondo in fondo, però, ognuno di loro è un grande sognatore.
E c'è di più: se si istituisse un premio mondiale per la Fantasia, sapete chi lo vincerebbe? Proprio il più realista di tutti!
Dobbiamo ammetterlo, riconoscere il mondo cui apparteniamo tutti è proprio difficile.
Vi racconto.
Un giorno mi capitò una strana cosa: la radiosveglia che ho sul mio comodino scattò, come al solito, alle sette precise del mattino e fui raggiunto, appena sveglio, dalle prime notizie del mattino cui fecero seguito, come al solito, le previsioni del tempo. Le notizie erano bruttine: " Si prevede tempo nuvoloso su tutta la regione, al nord ci saranno precipitazioni. Gli automobilisti prestino attenzione: la visibilità sarà scarsa su tutte le strade."
Spensi con il solito gesto automatico la radio e presi il telefono per avvertire che non sarei andato al lavoro. Pensavo: "Con un tempo così brutto non mi muoverò!"
Posato il telefono, mentre mi preparavo a rificcarmi sotto le coperte, scorsi nel muro, di fronte allo specchio una piccola fessura che non avevo mai notato. Ne fui incuriosito e mi alzai del tutto per avvicinarmi a guardare. A mano a mano che mi accostavo al muro la fessura sembrava allargarsi. Ero al colmo della curiosità quando raggiunsi il muro e quasi automaticamente avvicinai di più il naso per guardare e vidi - non ci credereste - che oltre la fessura era ben visibile un bello e grande cavallo bianco. Il cavallo, poi, aveva delle grandi ali!
Mi strofinai ben bene gli occhi - non potevo credere a ciò che vedevo! - e decisi che sarai andato in cucina a prepararmi un caffè: forse il cavallo era uno scherzo del sonno.
Mentre preparavo il caffè gettai uno sguardo fuori della finestra: pioveva. Ma ero turbato. Per ora non credevo più nemmeno ai miei occhi. Mi sembrava che anche la pioggia fosse un'illusione. Preso il caffè, sarei dovuto tornare a letto, ma me ne mancava il coraggio. A risolvermi in parte il problema, giunse lo squillo del telefono che mi costringeva a tornare in camera mia: potevano chiamarmi dal lavoro e non potevo evitare di rispondere.
Mi decisi, dunque: sarei tornato. A mano a mano che mi avvicinavo alla mia camera da letto, però, si fece evidente una nuova sorpresa: il pavimento era sparito e tutte le cose erano come sospese nell'aria. La fessura intanto era diventata molto più ampia.
Mi voltai a guardare la cucina dalla quale ero uscito e vidi che questa non c'era più. Mi rigirai subito e l'unica cosa che vidi fu, nello specchio, il cavallo alato. Nella camera da letto, privata del pavimento, brillava tranquillamente il sole.
Il telefono aveva smesso di squillare.
Certo, ero in difficoltà: cosa fare? Sarei potuto entrare nella mia camera priva di pavimento? Avrei galleggiato anch'io nell'aria come le mie suppellettili o sarei semplicemente piombato chissà dove? Come fare? Se cadi da una finestra sai che finirai sull'asfalto, ma io, se fossi caduto dal mio settimo piano, dove sarei finito? Sarei morto?
Mi sembrava di essere impazzito. Come avrei fatto a vestirmi? Azzardai un passo in avanti e capii che avrei potuto camminare sul vuoto. Mi avviai dunque e per prima cosa mi avvicinai allo specchio. Ma la mia mente era altrove: come potevo camminare sul vuoto?
Intanto il cavallo sembrava prendersi gioco di me e, soprattutto, del mio sbigottimento...
Restai un po' di tempo privo di pensieri: appena appena balenava nella mia testa un ricordo: quello di quando, bambino, restavo a lungo a fantasticare sul mio cavallo a dondolo con lo sguardo perduto nel vuoto. Ma ora non ero più un bambino, dunque non potevo che aver perso la ragione...
Nello specchio si rifletteva un singolare raggio di sole. Tutta l'atmosfera era irreale. Era tutto misterioso, come nei miei libri di fiabe che da tempo stavano ormai ad ammuffire in soffitta. Non potevo pensare nulla: i miei pensieri, ormai, erano tutti privi di senso.
A un tratto il silenzio astrale nel quale ero piombato si ruppe e una voce esclamò: "Sei nel mondo della fantasia."
"E tu chi sei?", dissi subito.
"Non mi riconosci?", disse la voce. "Guardami, sono qui."
"Come vuoi che ti veda?", risposi. Qui non ci sono che io... e... questo incredibile cavallo!"
Credevo ancora che, comunque, fosse la mia immaginazione. Ma la voce rispose: "Mi chiamo Cavallì, sono ancora giovanissimo e ho vissuto sempre nella fantasia di tutti."
"Beato te!", gli dissi. "Allora io sono un bambino, con i miei ventisette anni!"
"Non prendermi in giro", disse la voce. "Sai bene che abbiamo un diverso modo di contare il tempo: la fantasia non invecchia!"
Non ci potevo credere! Eppoi non volevo lezioni dalla mia immaginazione. Sapevo e so che nella vita c'è bisogno di sognare, ma non potevo accettare l'idea di vivere in un sogno. Ma doveva essere proprio così, perché non avevo preso droghe, né bevuto vino...
L'unica conclusione praticabile per me era terribile: ero impazzito!
Tuttavia dovevo ben credere alla mia esperienza: i matti non camminano sul vuoto. La mia logica era in crisi.
Sarei uscito, ecco!
Provai ad andarmene, ma la porta di casa era sparita. Dove andare? Piano piano cominciai a convincermi che dovevo essere entrato, mio malgrado, in un mondo fantastico, come quando ero bambino. L'idea mi piaceva, in fondo. Avrei avuto l'occasione di rivivere momenti che per me erano stati felici. Dovevo non lasciarmeli sfuggire.
Mi girai e mi riavvicinai quietamente al cavallo. Quando gli fui vicino, ne sentii la voce: "Ti è passato lo spavento?", mi disse. "Appena mi hai visto, hai tremato e non hai avuto neanche il coraggio di prendermi in considerazione. Com'eri buffo! Mi hai fatto ridere come non mi capitava da tempo." Il cavallo alato sembrava allegro. Continuò: "adesso che ti sei persuaso, che ne diresti di andare un po' lontano? Qui, tra l'altro, piove."
"Dove vuoi condurmi?", gli chiesi.
"Non andremo lontano. Vicino alla tua terra ci sono pianeti interessanti. Potremmo visitarli."
"Come farò a tornare alle mie occupazioni, al mio lavoro?"
"Non devi avere di queste preoccupazioni. Il viaggio sarà breve. Fra mille anni saremo di ritorno e tu riprenderai il tuo lavoro."
"Ma io, al lavoro, devo tornare domani. Come potranno passare mille anni in un giorno?"
"Povero te! Possibile che proprio non capisci? Il tempo così corto cui ti riferisci tu è solo una tortura che voi stessi vi imponete: il tempo reale è tutta un'altra cosa! Tutti vi affannate a rincorrerlo, e finite al suo servizio. Nel mondo della fantasia è diverso: il tempo deve servire! Ma ora andiamo!"
"Cosa devo portare con me?"
"Sei incorreggibile. Cosa vuoi portare? Possibile che tu non abbia capito che basta la fantasia? E' di fantasia che ti devi armare: non ti serve altro!"
A quel punto Cavallì uscì definitivamente dallo specchio e, sempre galleggiando nell'aria, disse: "Saltami in groppa. Andiamo!"
Feci come mi aveva detto. Appena fui fra le ali e il collo partimmo. Cavallì volava veloce. Le sue ali si muovevano quietamente ma con una incredibile energia. Volammo, volammo...
A me piaceva quel dolce ondeggiare della mia cavalcatura fantastica. Guardavo da ogni dove, naturalmente, e mi beavo di visioni che non avrei neanche potuto immaginare: era una meraviglia!
Presto raggiungemmo un piccolo pianeta assai vicino al sole. Per quanto i sui abitanti fossero piccoli, una specie di lillipuziani che mi ricordavano i "Viaggi di Gulliver" letti da bambino, il loro pianeta era affollatissimo. Uno di loro - doveva essere uno degli addetti al Cavalli porto di quel pianeta - mi disse: "Hei, tu! Da dove vieni? Sei un gigante. Ti facciamo visitare il nostro mondo, ma fai attenzione a muoverti: con la tua mole, qui, puoi fare disastri."
"Vengo dalla terra...", dissi. Ma, prima che potessi continuare, l'omino urlò quasi: "Non riesco a capirti. Parla più piano!"
Moderai la voce e ripetei: "Vengo dalla terra e non sono affatto un gigante. Da noi siamo tutti così. Anzi, io sono addirittura considerato un po' basso. Ma dimmi: qui come vivete?"
"Come viviamo noi?", disse l'ometto. "Voi, piuttosto: è vero che da voi siete tutti nemici?"
Cavallì mi fece un cenno per farmi capire che sarebbe stato meglio andarsene. Ebbi appena il tempo, infatti, di salutare l'ometto senza rispondere alla sua domanda che già eravamo in volo diretti ad un altro pianeta.
Cavallì, l'ho detto, volava veloce. Guardando alla terra da dov'eravamo la vedevo sempre più piccola. Divenne piano piano come una stella e alla fine scomparve.
Cavallì mi portò presto su un pianeta che aveva la forma di cuore. Su quel pianeta - prima di fermarci gli girammo a lungo intorno - era chiaro che non c'era l'inverno. Dappertutto si vedevano fiori e la gente sembrava, almeno da dov'eravamo noi, tranquilla e felice.
Ci fermammo, finalmente, e cercammo un vecchio amico di Cavallì. Ma non c'era. Ebbi però il tempo di girare un po' e constatai che fra gli abitanti regnava la pace più piena. Uno degli abitanti mi si avvicinò e con voce dolce mi chiese: "Sei forestiero, qui. Da dove vieni?" Quando risposi "Dalla terra" lui ebbe un sussulto: "Sei un uomo, dunque! E come sei arrivato fin qui?"
"Mi ha portato Cavallì, lo vedi:"
Il mio interlocutore era meravigliassimo: "Ah", disse. "...Allora anche gli uomini sanno sognare. Ecco...avevo sempre saputo che gli uomini sapevano solo farsi guerra e che persino le rose, per farsi chiamare regina, si combattevano continuamente a colpi di spine..."
Ero un po' innervosito: mi dispiaceva, in fondo, che l'omino avesse ragione. Trovai la forza però di dire: "C'è sempre bisogno di contrasti. Come potrebbe l'amore essere capito ed amato se non ci fosse l'odio? E il bello, se non ci fosse il brutto? Anche il cattivo è utile. Altrimenti, chi riconoscerebbe il buono?" Ma ero dispiaciuto.
L'omino comprese il mio imbarazzo e mi salutò in fretta: forse, però, non sapeva bene cosa dire.
Chiesi a Cavallì di riprendere il viaggio. Cavallì, anche lui, mi comprese. Rinunciò a trovare il suo amico e ripartimmo.
Eravamo già in viaggio da un po' che un vortice di stelle - doveva essere una galassia in rapido movimento - ci prese e ci spedì difilato su un pianeta assai strano. Era infatti una specie di stella a sette punte e i suoi abitanti camminavano a testa in giù. Per parlare con loro dovetti stendermi a pancia in giù. Raccontai della terra - abbellendola molto, naturalmente - e appresi che perfino laggiù, pardon!: lassù, conoscevano Cavallì.
Dovemmo aspettare che la tempesta di stelle si placasse: poi riprendemmo il viaggio. Scoprimmo presto che la tempesta aveva spostato molti pianeti, così Cavallì si convinse che la cosa migliore da fare era forse quella di fermarsi su un pianeta qualunque per rifare il punto della situazione. Facemmo così. Appena toccato il suolo ci accorgemmo che si trattava di un mondo devastato: era come se gli abitanti di quel pianeta non avessero fatto altro nella loro vita che combattersi. I suoi abitanti sembravano normali, ma avevano tutti la stessa caratteristica: gli occhi erano tumefatti come se fossero stati picchiati.
Ero esterrefatto. Prima che mi riprendessi, uno di loro mi disse: "Nessuno vi ha dato il benvenuto? Beh, ve lo do io: questi", e accennò ai suoi concittadini, "sono tutti maleducati" e mi stampò un bel - pardon!, brutto! - pugno sul viso. Sbigottito gli dissi: "Bel modo di augurare il buongiorno!"
Sembrò preoccupato. "Non te l'ho dato bene?", domandò. Poi, perplesso: "potevo fare di meglio... Vieni con me?"
Accennai di si e andammo un po' in giro. I negozi, stranamente, non avevano vetrine. Al loro interno c'erano solo scatole, ma nulla lasciava intuire il loro contenuto. In uno di questi, la solerte commessa ci chiese: "Posso darvi qualcosa? Qui abbiamo le migliori risse. Ne volete qualcuna?"
Mi rivolsi al mio accompagnatore: "Ho capito bene? Ha detto risse?"
Quello mi guardò di traverso: "Ma da dove vieni? Hai capito dove ti trovi?"
"Oh", dissi mentendo "si che lo so. Sono a..."
Quello sembrò ignorare la mia risposta e disse alla commessa: "Gli dia il meglio che ha."
La commessa prese una delle scatole, una delle più grandi e ce la diede. Quello pagò ed uscimmo. Appena fuori aprimmo la scatola e...ci trovammo subito nel bel mezzo di una incredibile rissa: volavano calci e pugni come non ne avevo mai visti. Non c'era di che divertirsi, naturalmente, ma quel tale sembrava goderne un mondo. Mi trovai a pensare che se la terra fosse stata così anche a me sarebbe piaciuto tanto dare dei pugni ai miei capi. Ma il mio provvido Cavallì comprese che mi stavo smarrendo e mi trascinò via. Gli dissi: "Strano. Non sapevo che si vendessero botte in scatola."
Cavallì mi disse: "Non devi giudicare male quello che fanno gli altri. Spesso chi ti fa del male crede sinceramente di farti del bene...anche quando di danno botte."
Non capivo bene. Dovetti riflettere a lungo per giungere alla conclusione che se si è convinti di fare del bene questa convinzione deve bastare. Anche agli altri.
Poi, diciamo la verità. Se uno è uomo lo capisce da solo che cosa è bene e che cosa no. Certo, è difficile ammettere di essersi sbagliati...
Riprendemmo a volare. Cavallì voleva proprio che vedessi tutto. Così mi disse che stavamo andando a visitare il pianeta dei pensieri passati.
Vi giungemmo ch'era ancora giorno. Tutto però aveva un'aria cupa. Persino i pensieri: non ce n'era uno che non cominciasse con un "se". Era come un mondo di sole privazioni...
Quando mi trovai in mezzo ai suoi tristi abitanti, uno di loro mi fece la solita domanda: "Vieni dalla Terra?"
"Si", risposi. "Vengo dalla Terra. Ma...perché me lo chiedi?"
Non rispose. Allora continuai io: "Vengo dalla Terra e ne sono fiero. Ma voi, piuttosto, perché siete in un grigiore così monotono e triste? Da noi c'è il sole ed è bello. Da voi c'è un'aria così cupa..."
"E'...", e la sua voce era lamentosa "che noi siamo tutti quei pensieri che non hanno mai visto la luce. Non è che non esista proprio il pensiero puro, luminoso. C'è anche quello. Se però chi ci genera fosse più onesto, e dicesse ogni cosa, noi non esisteremmo proprio. Non ci sarebbe neanche il nostro pianeta. Per questo, ti vorrei esortare a dire sempre quello che ti passa per la testa: se non lo farai, i pensieri - specialmente i cattivi - che tratterrai nella tua mente verranno poi qui e... Dai sfogo, ti prego, a tutto ciò che pensi."
Mi intristii molto. Se fossi rimasto lassù sarei diventato uno di loro assai presto. Ma avevo Cavallì a proteggermi, e così ripartimmo subito.
Era bellissimo: ancora una volta eravamo in volo. Insieme a Cavallì si stava proprio bene. Così mentre dirigevamo verso l'ennesimo pianeta mi venne un'idea e la espressi: "Hei, Cavallì", gli dissi, "che ne diresti di venirtene a vivere a casa mia? Lavorerei di giorno e la notte potremmo viaggiare..."
Cavallì, sempre volando con le sue belle e grandi ali bianche, volse verso di me il lungo e robusto collo incorniciato da una criniera incomparabile e sorrise. Poi riprese a guardare davanti a sé e quietamente rispose: "Non sarebbe male, come idea. Ma...ti ho mai parlato della fantasia?" "No", dissi. Allora lui si mise con pazienza a spiegarmi: "Vedi, la fantasia non è un cagnolino o un gattino che si possono tenere in casa, ignorandoli magari un po', dando loro la pappa e portandoli a passeggio quando ne hai voglia... fantasia è un qualcosa che supera tutte le dimensioni: è più grande del mare, credo... Inoltre, ha anche un suo preciso significato ed è...", fece una breve pausa, "non so bene come spiegartelo, ma penso che puoi capire da solo se ti dico che in fondo fantasia è libertà..."
Adesso attraversavamo una zona particolarmente calma e luminosa del cielo. Le ali di Cavallì erano distese e il loro moto impercettibile. Cominciavo a capire che non c'erano speranze di tenere a freno quell' incredibilissima creatura. Cavallì intuì il mio stato d'animo e riprese: "La libertà non si può rinchiudere in una casa, neppure se questa si trova bene in alto come la tua. Te lo immagini come starei io, un cavallo alato, con le mie ali e i miei zoccoli, fra ninnoli e tegami?"
"Ma tu non sei un cavallo qualunque. Tu sei Cavallì, sei il mio amico!", cercai di persuaderlo...
"Certo, sono tuo amico. Ma lo sappiamo solo noi. La gente che ne sa della fantasia? Se almeno restasse un segreto fra noi due... Ma tu non resisteresti alla tentazione di dire a tutti che vivi in un mondo fantastico e la gente riderebbe di te e di me. E io non voglio che si rida di me. Io voglio far sorridere le persone, non farle ridere. Il sorriso unisce, la risata, spesso, separa; e io non amo le divisioni."
Non osai replicare. Il nostro viaggio durò ancora un poco. Alla fine giungemmo a un pianeta che appariva molto tranquillo.
La prima impressione che ne ricavai fu che forse lo era anche troppo. Tutti non facevano che sbadigliare continuamente ed erano tutti in strada a bighellonare: nessuno, apparentemente, si occupava di nulla.
Pensai: "Beh, forse qui sarà Natale, o forse saranno tutti in ferie." Mi sfuggì però un "che bella vita!"
Cavallì mi spiegò: "Questo è il mondo della noia; nessuno ti parlerà. Sono tutti occupati ad annoiarsi. Passano la loro vita così, standosene senza far niente è il peggio che possa capitare: altro che bella vita!"
"E' vero", dissi, "non hanno né desideri né piaceri. Non si possono beare di nulla, anche se..."
Cavallì colse la piccola tentazione e ancora una volta si affrettò a riprendere il viaggio. Non lontano c'era il mondo del tempo e Cavallì vi si diresse subito.
Come pensate che fosse? Credo che la maggior parte degli abitanti della terra non l'abbia mai neanche immaginato. Io però che, grazie a Cavallì, ho potuto vederlo in faccia vi dico che qualunque sia l'idea che ve ne siete fatta, essa è del tutto sbagliata.
Già il nome, tempo, è fuorviante. Non si tratta, tanto per cominciare, di un vecchio rinsecchito, con una barba bianca che faccia correre continuamente le sue quattro ossa...
E' invece... un re, anzi, una regina. Quando giungemmo nel suo mondo, infatti, trovai una reggia, nella reggia un trono, e, sul trono, una donna bellissima, con un visino di fata incorniciato da lunghi capelli neri, su cui rilucevano grandi occhi azzurri... Aveva ciglia così lunghe che ne avvertivo il vento ogni volta che muoveva le palpebre.
La prima sorpresa fu che all'ingresso della reggia, un grandissimo palazzo assai somigliante ai castelli medioevali delle nostre antiche contrade, Cavallì fu costretto ad abbandonarmi: lui non apparteneva a quel mondo, e non poteva appartenergli neanche per sogno. Infatti disse "Entra tu, io non posso, lo sai. Il mio mondo è la fantasia e fra il mio mondo e questo non corre buon sangue..."
Entrai io, dunque. E vidi la splendida regina: era mollemente seduta sul suo splendido trono e il trono poggiava su un alto piedistallo. Mi guardò attraverso le lunghe ciglia e si capiva bene che mi conosceva già: c'era una certa malcelata consapevolezza nel suo splendido sguardo.
Le rivolsi una profonda riverenza e dissi: "Salve, regina. Vengo dalla terra..."
"Si, lo so", interferì.
"Perdonami regina, come fai a saperlo se non mi hai mai visto?"
Sorrise lievemente: "Vedo che non sai. Io sono il tempo e sono la regina di questo universo. Passo sul ogni cosa a mio piacimento... Non credere che il mio sia un compito facile, non faccio a modo mio. Devo dare continuamente a tutte le cose il loro giusto aspetto e questo non è sempre facilissimo. Inoltre, sono sempre esposta al rischio di essere giudicata male..."
"Ma non dovevi essere un vecchietto che a fatica trascina le sue quattro ossa?", protestai io. "Perché te ne stai seduta, non dovresti correre?"
Sorrise ancora. Fui incoraggiato a continuare: "Posso farti una domanda?"
"Naturalmente!", rispose.
"Puoi dirmi perché esistono gli anni, i mesi, i giorni...le ore?"
"Non mi fai una domanda difficile", rispose tranquilla. "Tutto deve avere uno scopo. L'uomo si è costruiti i giorni e tutto il resto per poter, parlando, dire: domani. E' vero, certo, che l'uomo dice anche tante sciocchezze, tu lo dovresti sapere. Per esempio, l'uomo dice continuamente frasi come: il tempo è denaro; frasi prive di senso."
"Ma è solo un modo di dire", mi difesi.
"Certo, certo. Ma, come vedi, io non corro affatto, e neanche sono denaro."
Cercai di sottrarmi: "Scusami, regina. Ora devo andare. Sai, il tempo non aspetta me." Mi sarei torto il collo! Aggiunsi subito: "Scusami, non volevo..."
"Ti comprendo. Sarò contenta se d'ora in poi mi chiamerai solo tempo. Adesso mi hai vista: non devi più chiamarmi regina. Per favore!"
Mi inchinai e uscii dalla sala del trono e dal castello. Fuori mi aspettava Cavallì. Quando mi vide mi rassicurò subito: "Sai, ho ritrovato la rotta che avevo perduta per quella tempesta di stelle. Te ne ricordi? Adesso possiamo andare e posso riprendere a cercare il mio amico. Andiamo!"
Mi riprese in groppa e ripartimmo. Il suo morbido pelo bianco mi dava calore. Era confortante stare sulla sua groppa.
Dopo un nuovo volo, dolce come un sogno, arrivammo nel mondo in cui Cavallì aveva il suo amico. Era un bel mondo, il più bello, forse, di quelli che avevamo visitato. In quel nuovo mondo i prati erano verdi, sconfinati. C'erano laghi, e, nei laghi, cigni di ogni colore. Non sembrava tanto diverso dalla terra, almeno di quei punti della terra in cui ci sono ancora prati. Cavallì si avvicinò ad un bel cigno nero e lo salutò con calore. Era il suo amico. "Come stai?", quasi gli urlò.
Il cigno parve sorpreso: "Guarda chi si vede! Cavallì! Sono felice di vederti, amico mio! Cosa ci fai qui?"
Cavallì ammiccò verso di me: "Faccio un viaggio d'istruzione con un mio nuovo amico. Lui è della terra e non sa tante cose. Così io..."
"Come al solito", disse il cigno. "Un altro uomo che ha poca fantasia: che fatica!"
"Beh, è stato un po' faticoso, ma solo all'inizio. Ora è diventato tutto più semplice. Fra poco però dovremo tornare a casa sua: è in giro con me da mille anni e sulla terra questo fa quasi un giorno!"
"Come vi siete incontrati?", chiese il cigno.
"Sono capitato a casa sua in un giorno di pioggia e lui non aveva voglia, finalmente, di andare alle sue faccende. Così ho potuto fare la mia comparsa, e ci siamo conosciuti un po'. Ero presso di lui già quand'era bambino, ma ero stato costretto a celarmi, tu sai... Ma gli voglio bene e non volevo che stesse un giorno intero a letto ad annoiarsi, così l'ho portato un po' in giro. Lo avresti fatto anche tu."
"Si", disse il cigno. "L'avrei fatto anch'io! Non è bello perdere tempo nell'ozio. Dici al tuo amico che stasera sarà mandato un arcobaleno: se vi piace potete con lui. Arriverà dalle vostre parti."
"Credo proprio che faremo così. Per lui sarà un'esperienza nuova." Cavallì era soddisfatto. Raccontò al cigno delle nostre passeggiate fra tanti mondi e alla fine il cigno mi chiese: "Ti è piaciuto il tuo viaggio? Avete visto molti mondi...", si lisciò le lucidissime penne che si posavano come una carezza sul suo dorso elegante. "Se dovessi scegliere", mi chiese, "a quale mondo ti piacerebbe appartenere?"
Mi imbarazzò moltissimo. Veramente non sapevo rispondere. Era chiaro però che non stavo sognando. In più, mi trovavo in un mondo veramente bello e ne avevo piacere. Mi rivolsi a Cavallì: "Se un giorno potessi scegliere, sceglierei proprio questo. Ci potrò tornare?"
"Hai capito, finalmente!", disse Cavallì. Questo è il mondo della fantasia e qui c'è posto per tutti e per tutto. Purtroppo, l'arcobaleno è già qui, dobbiamo andare. Prima, però, voglio regalarti qualcosa che ti farà da cuscino..." e mi porse una soffice nuvola, rosa come le guance della regina-tempo.
Mi ci adagiai dolcemente, baciaci con tenerezza il bel cigno nero, diedi un affettuosissimo arrivederci a Cavallì, e, poggiato con la mia nuvola sull'arcobaleno, mi lasciai scivolare piano piano fino alla finestra della casa da cui ero partito.
Fuori di me dalla felicità, mi infilai fra le lenzuola - il pavimento era tornato al suo posto - e, essendo ancora buio, mi assopii quasi subito con la testa affondata nella mia nuvoletta.
La radiosveglia che ho sul mio comodino scattò, come al solito, alle sette precise del mattino e fui raggiunto, appena sveglio, dalle prime notizie del mattino cui fecero seguito, come al solito, le previsioni del tempo. Le notizie erano bruttine: "Si prevede tempo nuvoloso su tutta la regione, al nord ci saranno precipitazioni. Gli automobilisti prestino attenzione: la visibilità sarà scarsa su tutte le strade.     

La storia di Conchigliò
Sapete, cari lettori, in un tempo non lontano, re Sogno si innamorò di Fantasia e volle sposarla. Dalla loro unione nacque un bimbo e gli venne dato un originale nome: Conchigliò.
Quando nacque il bambino ci fu una grande festa. Parteciparono alla festa tutti gli abitanti del Regno di cui Sogno era il re, e al bambino appena nato venne fatto dono di una corona. La corona era magica: aveva il potere, ogni volta che la si indossava, di portare al suo possessore i sogni che costui desiderava. Aveva anche un nome. Si chiamava "Sogno d'oro" e dava anche la sensazione a chi sognava di vivere veramente i suoi sogni.
La famigliola reale visse giorni assai felici insieme alla gente del regno di cui Sogno era re. Purtroppo, capita sempre così, la felicità non durò a lungo. Venne presto il tempo in cui un altro re, il re Vero, cominciò a minacciare il Regno di Sogno. Era un re feroce e, com'era da aspettarsi, dichiarò e avviò una terribile guerra.
Fantasia, bella ma anche saggia, si rese subito conto del pericolo e si affrettò ad affidare il bambino alle fate che già lo conoscevano ed amavano perché giocavano sempre con lui.
Giunse il giorno della battaglia decisiva e, sebbene re Sogno fosse ardito e valoroso, fu proprio lui ad avere la peggio. Il terribile re Vero, vinta la guerra, non si accontentò di prendere possesso del regno e delle ricchezze che vi erano sparse un po' dappertutto: volle anche che re Sogno e Fantasia fossero rinchiuse nella torre del Reale.
Le sue frasi di vittoria, quelle che pronunciò quando tutto fu compiuto, risuonarono severissime: "Finalmente", disse, "è finita! Ora sono il solo re di tutto. Dal MIO Regno non uscirà più nessuno."
E' facile immaginare la disperazione di re Sogno. Rifugiatosi sul seno di Fantasia pianse a lungo, a lungo... Poi, appena poté parlare, le disse: "E' proprio finita, non c'è più via di uscita. Cosa sarà degli abitanti del nostro Regno? Sai, mia regina, la mia disperazione è al colmo... Mi sono battuto con tutto me stesso, ma invano. Quale triste destino ci attende! Non abbiamo alcuna speranza di uscire vivi da qui. Non mi resta che aspettare la morte!"
Colpita da tanta disperazione ch'era anche la sua, Fantasia si fece forza e con voce tranquilla rispose: "Ti sei battuto eroicamente, lo so. Hai difeso il nostro Regno valorosamente ed hai cercato di salvare noi, il nostro Regno e ciò in cui, insieme ai nostri cari sudditi credevi. Purtroppo, sei stato sconfitto e ora soffri. Ma non devi dare troppa importanza alla sconfitta. Devi continuare a fare, come hai sempre fatto, il tuo dovere. Devi, insieme a me che ti amo teneramente, non farti vincere dalla disperazione. Almeno noi dobbiamo continuare a sperare. E' il nostro dovere e dobbiamo farlo fino in fondo, come abbiamo sempre fatto!"
Re Sogno era commosso: "Sei più saggia di quanto avessi mai pensato", le disse. Fantasia lo gratificò di un sorriso dolcissimo e non aggiunse parola.
Intanto le fate avevano appreso della sconfitta di re Sogno e, tenuto consiglio, avevano deciso di tenere con loro il piccolo Conchigliò, come avevano promesso a Fantasia.
Passò del tempo. Il bambino cresceva felice con le sue compagne di giochi. Solo, di tanto in tanto, quantunque la sua felicità fosse grandissima, una vena di nostalgia turbava il suo cuore: sentiva la lontananza di papà e mamma e sentiva che il desiderio di riabbracciare i suoi cari sembrava crescere insieme a lui.
Finché, un giorno, la Fata dei colori, ch'era sempre in giro a dare allegria al mondo togliendolo al suo uniforme grigiore, scorse Conchigliò tutto assorto nei suoi pensieri, gli si avvicinò e volle sapere cosa affliggesse il suo tenero cuore. Conchigliò fu contento dell'attenzione della bella Fata e fu ancora più contento di poterle raccontare il suo cruccio. Voleva rivedere papà e mamma, ecco tutto.
La Fata gli sorrise serena e gli disse che c'era chi poteva aiutarlo. C'era la Fata del Potere, no? Bastava si rivolgesse a lei.
Conchigliò non stava nei panni. Quasi dimenticò di ringraziare la Fata dei colori e andò subito a cercare la Fata del Potere. Questa, un po' più vecchia delle altre, ma sempre bellissima, se ne stava seduta davanti ad un grande scrittoio e preparava un editto per un altro re amico suo. La luce che entrava da una finestra aperta le indorava i bei capelli neri.Il volto era sereno anche se molto serio. Conchigliò le si avvicinò timoroso e quando lei lo vide scostò un poco i lunghi capelli e gli sorrise affettuosamente. Gli chiese come mai fosse lì e che cosa volesse.
Conchigliò glielo disse: voleva sapere cosa fare per liberare re Sogno e Fantasia. La Fata del Potere certo lo sapeva e anche lui sapeva bene che lei avrebbe potuto e voluto aiutarlo. Non avevano forse giocato tante volte insieme? E lei non l'aveva spesso stretto al suo cuore con tanto amore?
La Fata del Potere ebbe un piccolo moto di insofferenza, ma non lo fece trasparire. Era irritata con sé stessa per non aver pensato da sola al bisogno di Conchigliò. Ma si controllò benissimo e gli disse: "Certo, tesoro, che posso dirti come liberare papà e mamma. Però dovrai fare molta attenzione. Non è una cosa facilissima..."
"Dimmi, presto", le rispose Conchigliò. "Starò attentissimo, lo prometto. Tu lo sai che sarei disposto a fare di tutto pur di riabbracciare i miei cari. Ti prego..."
Un po' di dispiacere invase la Fata del Potere. Lei comprendeva bene che quello significava perdere per sempre un bambino amatissimo, coccolato e curato con amore grandissimo per tanto tempo. Ma capiva anche che non si poteva fare altrimenti. Anche se questo significava soffrire non poteva certo evitare di assecondare la volontà e la libertà di un bambino a lei tanto caro. Così prese il coraggio a due mani, e quasi con un sospiro disse: "Per liberare i tuoi cari devi entrare nel Regno di re Vero. Ma per fare questo dovrai rinunciare al tuo "Sogno d'oro", alla tua corona magica, cioè. Una volta entrato nel Regno, inoltre, anche se ne avrai bisogno, non potrai più contare su di noi..."
"Ma perché?", disse disperato Conchigliò.
"Perché il re Vero, prima di prendere il Regno di tuo padre, ha annullato tutti i poteri che avevamo sul suo Regno."
"Vuoi dire che..." Conchigliò non poteva crederci.
"Bene. Vedo che hai proprio capito..."
"E..." incalzò Conchigliò "una volta entrato in quell'orribile Regno cosa dovrò fare per liberare papà e mamma?"
."Prima di cercare la torre del Reale che si trova lì, devi trovare la chiave della torre che sta in fondo al mare. Quando l'avrai trovata...", ebbe un sussulto "ricordati di non farti vedere mai dal re Vero"
"Ma perché?", era curioso Conchigliò.
"Non fare troppe domande. Non tutto può essere detto. Comunque, se lui dovesse vederti... No, non voglio neanche pensarci! Comunque tu sappi questo: non dovrai farti vedere da lui!"
"Dimmi, ti prego, se re Vero mi vede, che faccio?"
"Nulla, purtroppo. Non volevo dirtelo. E' che se lui ti vedesse ti farebbe prigioniero... e...faresti la fine di re Sogno, di Fantasia e di tutti gli abitanti del Regno di tuo padre."
"Ho capito", disse mestamente Conchigliò.
"C'è un'altra cosa che non ti ho ancora detto", disse la Fata.
"Quale?" Ora Conchigliò era preoccupato.
"Un momento..." la Fata era chiaramente innervosita.
"Scusami!"
"E' che... potresti avere ancora degli amici nel Regno di tuo padre...”
"E chi sarebbero?"
"Dei bambini, non ancora fatti prigionieri. Sarà difficile trovarli. Ma se dovessi incontrarli li potrai riconoscere perché saranno come te quando indossi il tuo "Sogno d'oro". Anzi, adesso lascialo a me... Adesso puoi andare. Sei sicuro di volerlo?"
Conchigliò ormai aveva rinunciato alla sua corona. Era intristito ma l'idea di raggiungere i suoi lo esaltava oltre ogni limite: avrebbe finalmente potuto ritrovare le persone che amava.
Era proprio sul punto di andarsene quando la Fata gli disse: "Ho dimenticato di dirti una cosa importantissima..."
"Ancora?"
"Quando sarai sulla terra", gli disse la Fata, "per completare la tua missione usa anche la volontà. E' uno dei più forti poteri di cui l'uomo sia stato dotato, ma pochi lo usano. Molti, addirittura, hanno dimenticato di possederlo. Se userai la tua volontà, potrai tutto."
"E dove la trovo, la volontà?"
"Puoi trovarla solo in te stesso. Scommetto che ora vorrai sapere anche come cercarla. Non è così?"
"Si, si. Hai indovinato", urlò quasi Conchigliò.
"E' semplice", disse la Fata. Devi solo credere a fondo in tutto quello che fai. Basta non disperare."
"Ho capito", disse Conchigliò che ormai era certo di poter partire.
"Va pure, figliolo mio", disse la Fata. Ma nella sua voce ora c'era tristezza.
Conchigliò comprese. "Dopo che avrò liberato re Sogno e Fantasia, potrò tornare da te?"
"Certo! Però anche questo dovrai volerlo!"
"Come potrei rinunciare a stare ancora con voi?" disse Conchigliò. Ma non volle salutare la Fata: se lo avesse fatto non sarebbe più partito. Si allontanò così...
Il viaggio non fu lungo: dopo pochi minuti Conchigliò fu sulla terra. Era bellissima. Conchigliò pensò" L'immaginavo brutta da far venire i brividi!"
Conchigliò non aveva neppure finito di pensare che subito gli toccò assistere ad un terribile duello fra Natura e Inquinamento. Sembrava proprio che costui prendesse il sopravvento, Natura era caduta ferita ed esausta sotto i forti colpi dell'avversario e Inquinamento era soddisfattissimo e andava gridando: "Adesso nessuno potrà fermarmi! Potrò distruggere tutto!"
Conchigliò comprese che non avrebbe potuto concludere granché senza l'aiuto delle Fate. Quando riconobbe i bambini del "Sogno d'oro" si rianimò un poco, tuttavia, e pensò che forse non tutto era perduto. Le Fate però lo avevano avvertito che nel Regno di re Vero, ch'era stato di re Sogno, non potevano più nulla.
Conchigliò non si diede per vinto. Si tuffò in fondo al mare e andò a cercarvi la chiave che avrebbe potuto aprire la porta della torre. Ma incontrò ancora Inquinamento, che prima, impegnato com'era nel suo combattimento, non lo aveva notato. Questa volta, invece, Inquinamento lo aveva visto e notava anche che Conchigliò aveva paura. Gli chiese subito: "E tu, chi sei?"
"Mi chiamo Conchigliò", disse il ragazzo, timoroso, "Sono figlio di re Sogno e di Fantasia che Re Vero ha fatto prigionieri. Sono venuto a cercare la chiave della torre del Reale di cui ho bisogno per liberarli. Ma tu, chi sei?"
"Come?", chiese risentito il suo interlocutore. "Non sai che sono Inquinamento? Mi ha creato l'uomo, con la sua instancabile attività... Ora, però, si è accorto della mia potenza e vorrebbe eliminarmi...Ma non può!"
"Secondo me", gli rispose Conchigliò, anche per l’uomo, come per me, è solo questione di volontà. Come mi hanno detto le Fate, si tratta di un potere invincibile."
"Sono più forte di tutti, anche della volontà. Guarda che sudiciume! E tu mi parli di volontà? Io si che ce l'ho, la volontà! E l'uomo dovrebbe vincermi? Devi essere pazzo!"
"Adesso è come dici tu. Ma aspetta e vedrai! Per ora non posso perdere tempo a parlare con te, perché devo trovare la chiave senza che re Vero mi veda. Poi ne riparleremo."
"Questo è proprio impossibile! Re Vero ti vedrà e tu farai la stessa fine di tuo padre. Forse, finirai anche peggio!"
"E' importante per me che io ci provi, ed io ci proverò. Anche Natura si riprenderà presto e tornerà a combattere contro di te, com'è giusto!"
"Natura può poco contro di me. E tu puoi pochissimo contro re Vero: è il più forte di tutti!"
Conchigliò non gli rispose nulla. Prese a cercare la chiave, pazientemente. Sapeva che non poteva fare molto contro Inquinamento, così almeno avrebbe tentato contro re Vero.
A un tratto, gli venne un'idea: avrebbe potuto prendere tutti i bambini ch'erano in possesso del Sogno d'oro e far avvolgere il suo mondo in una nube di Speranza.
Uscì allora dall'acqua, si asciugò, si rivestì e cercò i bambini. Quando li ebbe raccolti tutti, espose loro la sua idea. Ovviamente, piacque a tutti l'idea di farsi avvolgere in una nube di speranza. Così riuniti, cercarono Speranza, la più bella di tutte e le chiesero di avvolgere tutto nella sua materna nube. Speranza li accontentò subito e gli effetti della nube furono immediati: il mondo fu avvolto subito da una nuvola di speranza e in un attimo la stessa Natura, che giaceva già da un pezzo riversa tornò in forze e si alzò. Il pensiero che venne a Conchigliò fu il più ovvio: "Ecco! Avrei dovuto saperlo, e pensarci prima. Era questo che mancava!"
Adesso poteva anche tornare più fiducioso a cercare la chiave. E lo fece.
Si era appena immerso di nuovo che la chiave comparve: era lì, proprio davanti ai suoi occhi! Adesso avrebbe potuto liberare re Sogno e Fantasia; adesso, ne era sicuro, non ci sarebbero stati più ostacoli.
Mentre si rivestiva, si ricordò che non avrebbe dovuto farsi vedere da re Vero e cominciò a meditare su come avrebbe potuto fare a raggiungere la torre. Levò gli occhi al cielo e... fu quasi un'Illuminazione. Il cielo era lì, sopra di lui, e gli bastava allungare una mano per toccarlo. Lo avrebbe abbassato, se ne sarebbe coperto e avrebbe rapidamente raggiunta la Torre senza farsi vedere: il cielo, per lui, era a portata di mano.
Fece tutto come aveva immaginato. Tirò giù il cielo, raggiunse la Torre, aprì il pesante catenaccio che la chiudeva e penetrò nell'antro in cui giacevano, disfatti, i suoi genitori. Che momento fu quello! Re Sogno e Fantasia erano senza fiato. Già da quando era giunto alla Torre avevano capito che si trattava di Conchigliò - ed erano emozionantissimi. Appena lo videro la loro natura di genitori prese però il sopravvento su ogni altra emozione e, quasi all'unisono, dissero: "Conchigliò, siamo fieri di quello che hai fatto. Abbiamo visto tutti i tuoi movimenti attraverso le sbarre e ti siamo veramente grati. Ma, più di tutto, ti vogliamo bene..."
"Avremo tempo per le effusioni", disse Conchigliò. "Adesso è più urgente scappare."
Re Sogno toccandosi la tasca si rese conto di avere con se un fischietto il cui potere era quello di richiamare tutte le farfalle. Lo tirò fuori, vi fischiò lungamente e le farfalle comparvero subito intorno a loro. Il re chiese che formassero un tappeto volante che li portasse fuori pericolo. Le farfalle erano legate al re Sogno. L’angolo di cielo che Conchigliò aveva tirato giù li nascose. Così non se lo fecero dire due volte. Costruirono subito il tappeto e tutta la famiglia, ormai ricomposta poté volare via senza essere vista da re Vero.
Ma bisognava riconquistare il Regno. Per questo, adesso, re Sogno aveva alleata la nuvola di Speranza.
Così, appena re Sogno ebbe riordinato le fila, fu data a re Vero nuova battaglia. E, ci crederete?, questa volta fu re Sogno a vincere insieme a Fantasia e a Conchigliò.
Loro, adesso, regnano tranquilli. Conchigliò ha ripreso la sua corona Sogno d'oro e di tanto in tanto va a rendere visita alle Fate della sua infanzia. Ma, naturalmente, il suo tempo lo passa più spesso con re Sogno e con Fantasia, che sono i suoi genitori...
Re Vero è sempre in guerra con loro, ma fino a che il Regno di re Sogno rimarrà avvolto nella nuvola di Speranza, per lui non ci sarà nessuna possibilità di vittoria.      

Cadde sulla Terra
Una antica leggenda narra una strana storia. Essa è giunta a me un po' distorta dai racconti che se ne sono fatti; io però ve la racconto ugualmente, perché mi pare che essa abbia comunque conservato intatto un significato che non sarebbe bene andasse perduto.
In una notte di quelle notti di primavera, in cui il mare fa tutt'uno col cielo pieno di stelle e lo sguardo si immerge in misteri che non saranno mai svelati (e in cui tutto diventa un diletto, anche lo scrivere), il mare compose per la sabbia la leggenda che io, misero me!, proverò a trascrivere, ben sapendo, che le parole difficilmente riusciranno ad esprimerne tutto l'incanto.
Era dunque una notte bellissima. Il cielo, blu intenso, si specchiava nel mare e gli dava una dolcezza indescrivibile. Una stella cadde nelle vicinanze di un grosso sasso e si fermò lì. Comprese che in prossimità di quel sasso aleggiava qualcosa di straordinario: lei non sapeva cosa fosse, ma i segnali che le giungevano, per quanto sommessi, indicavano l'esistenza di qualcosa che a lei era sconosciuta. Chiese al sasso di che cosa si trattasse, e quando il sasso le disse ch'era la vita, lei si incuriosì e volle conoscerla. La donna ch'era in lei venne allo scoperto e incominciò ad assaporare tutte le piccole cose di cui la vita era fatta e che a lei, quando stava lassù erano precluse. Le piacquero molto e piano piano vi si addentrò percorrendo tutte le vie che poteva percorrere una donna. Di tanto in tanto, però, specie nelle sere più belle, lei tornava accanto al sasso, laddove era caduta, e rimaneva a lungo in silenzio, contemplando la bellezza che la circondava da ogni parte e immergendosi ogni volta più profondamente nella rete di segreti che non riusciva a decifrare e che, tuttavia la tenevano avvinta. Il sasso capiva e taceva. Di tanto in tanto lei lo interrogava e il sasso le rispondeva brevemente e saggiamente, ma senza lunghi discorsi. Lei gli raccontava le sue esperienze della vita, ma dai lunghi racconti il sasso capiva che lei era affascinata da questa cosa meravigliosa ma non ne era soddisfatta. Una volta, finalmente, il sasso le chiese cosa le mancasse e lei, con un piccolo tremore della voce, glielo disse: non aveva trovato ancora ciò di cui tutti parlavano, il sentimento.
Il sasso tacque. Chiese in silenzio alla vita che conosceva così bene da millenni, e ottenne per la stella ciò che lei voleva: il sentimento.
Da allora la stella tornò ancora più spesso accanto al sasso: accanto a lui sentiva adesso qualcosa di profondo e di tenero e avrebbe trascorso così il resto della sua esistenza... Ma il sasso... era un sasso! Lui sapeva cosa fosse il sentimento ma non poteva provarlo! Rimaneva insensibile, infatti, e la stella, piano piano, si pentì di aver voluto qualcosa che il sasso, il suo sasso, non poteva condividere con lei e la sua vita, per quanto affascinante fosse, le apparve vana. Il dolce e tenero sentimento che lei aveva ottenuto proprio grazie a lui si trasformò in sordo dolore. Spesso, dai suoi occhi luminosissimi, sgorgavano lacrime blu come il mare: il suo cuore pareva si volesse fermare. Ma la stella era come stregata. Pur in lacrime, ogni sera ormai tornava al suo sasso e restava a lungo con lui a meditare in silenzio.
Una sera, una bella sera di luna, al colmo della tristezza, piano piano cominciò a parlare di sé. Non lo faceva mai, ma ora non poteva proprio tacere più ! Raccontò con parole dolcissime al sasso tutta la sua pena, la sua delusione, la sua profonda amarezza per la quale i suoi occhi avevano già versato tanto pianto. Era innamorata, ecco tutto. E non ce la faceva più ad amare da sola. Se almeno fosse potuta tornare lassù! Lì, almeno, avrebbe avuto addosso degli occhi! Ma come chiederlo? La vita, lei lo sapeva, non glielo avrebbe concesso!
Sentiva un gran dolore nel petto, non ne poteva più! Se ne sarebbe voluta liberare, ma non c'era rimedio: lei sapeva ormai che l'unica uscita era la fine della vita, ma questo significava la morte, una parola quasi sconosciuta alle stelle e che anche lei conosceva assai poco.
Al colmo del dolore impugnò un coltello che un pescatore distratto aveva abbandonato sulla sabbia e che la luna faceva luccicare e se lo conficcò nel petto. Cadde subito riversa ai piedi del sasso e con le ultime parole che le erano rimaste ringraziò lui e la vita per tutto quello che aveva visto e conosciuto e che... era stato meraviglioso!
La luna aveva grande amore per la stella, ma al vedere quella fine non poté fare a meno di pensare che se la stella aveva ritenuto inutile la sua vita, anche quella morte non serviva a gran che...
Aspettò un poco. Poi, quando fu vicina ad un'altra bella stella luminosa e dolce come quella ch'era caduta sulla terra cominciò il suo leggero mormorio di sempre: "Ognuno, ogni cosa deve stare al suo posto. Non c'è rimedio: è bello così!" E si incamminò al suo tramonto.
Quando fu scomparsa dall'orizzonte, il buio divenne profondo e tutto tacque. La notte, allora, pietosa come sempre, raccolse la stella caduta e la rimise fra le altre. La stella, tornata al suo posto, riprese a brillare e il sasso, da allora, non ha mai smesso di guardarla.
Qual è la stella e dove si trova il sasso la leggenda non lo dice. Ma io credo che tutte le stelle che brillano in cielo e tutti i sassi che le guardano solo uguali: tutti, credetemi, sono innamorati.
      

La notte che non voleva più far sognare
Sono sicuro che la maggior parte di noi aspetta la notte per sognare. Forse ciò dipende anche dal fatto che viviamo in maniera snervante, troppo seria. Vorremmo poter fare cose da fanciulli alla luce del sole: ma non possiamo. Se le facciamo, le facciamo di nascosto. Mettere i piedi in un ruscello e giocare con l'acqua, per esempio, Oppure, andare su una spiaggia ed accendere un falò; entrare in una favola; vivere con la fantasia le avventure di grandi personaggi di tanto tempo fa... A proposito di tanto tempo fa...
Una volta vivevo in un paese, un piccolo paese, che si chiamava Belsognare. Il suo nome veniva da una antica leggenda secondo la quale in quel paese si facevano i più bei sogni. I suoi abitanti, infatti, sognavano ogni notte, infatti, e i loro sogni erano sempre bellissimi.
Una sera, però...
Mentre l'erba era ancora intiepidita per i raggi del sole che l'avevano accarezzata tutto il giorno e la gente, finito il lavoro, si accingeva a far festa, il cielo improvvisamente si oscurò e un lampo squarciò le nubi lasciando al tuono che lo seguiva di sbottare in un "Basta! Baaastaaa...!" che mandò definitivamente a monte ogni possibile allegria.
Tutti guardarono in alto e videro un volto di donna - bellissimo! - incorniciato da una lunga chioma di capelli folti e neri e illuminato da due meravigliosi occhi verdi più profondi del mare. Allo sbigottimento suscitato dal tuono subentrò lo stupore profondo per quella immagine bellissima di cui non si capiva il senso e tutti rimasero in silenzio con il naso in su e lo sguardo perduto su quell'immagine che sembrava galleggiasse nell'aria .
A un tratto, un ometto grassoccio si fece largo fra la gente, si arrampicò come poté su un albero per essere più vicino a quel volto singolare, e prese risolutamente la parola: "Salve!", disse. "Che cosa sei? Anzi, CHI sei?"
"Sono la notte", rispose il volto, con una calda e suadente vocina.
L'ometto era incredulo: "Eh, la notte!", disse.
"Si", rispose quel volto. "Sono la notte. Ma...perché ti meravigli tanto? Esisto da sempre, e lo sai. Ma ora vorrei essere ascoltata. Sono venuta a comunicarvi una mia decisione: d'ora in poi non vi farò sognare più!"
L'ometto si sistemò meglio su un ramo che usciva ad U dal tronco e, con tono sgomento, chiese: "Perché hai preso una così orribile decisione?"
"Perché ho deciso così, e così sarà!" fu la tremenda risposta.
L'ometto, ancora più sgomento ma sempre determinato a fare la sua parte azzardò: "Ma, almeno, facci conoscere il motivo della tua decisione. Non si fa qualcosa se non c'è una ragione, almeno normalmente. Alcuni fanno delle cose senza ragione, è vero. Ma noi, quelli, li consideriamo pazzi!"
La notte sembrò sospirare: "In realtà una ragione ci sarebbe... Ma a che serve parlarne? Comunque, non cambierebbe nulla."
L'ometto era al colmo dello sgomento. Cercò di andare un po' più in alto sull'albero, poi disse: "Almeno, provaci!"
La notte esitò. Poi, con un accento di rassegnazione che velava la bella voce facendole trascinare più lentamente le parole, disse: "D'accordo. Vi dirò la ragione, Prima, però, dovete promettermi che andrete comunque a dormire. Siete d'accordo?"
Dalla gente si levò un coro: "D'accordo!"
La notte, a quel punto, spinse indietro i lunghi capelli neri con le sue belle mani dalle dita affusolate e lunghissime e cominciò: "Tempo fa, in un paesino, proprio uguale al vostro, c'era un bambino al quale regalavo ogni notte i più bei sogni che avessi. A quel bambino i sogni che inviavo piacevano talmente che spesso non desiderava svegliarsi. Fino al punto che una volta - tremo a dirlo - addirittura non si svegliò più. Non era morto, si vedeva, e fu tenuto in vita. Il suo corpo, cioè, continuò tranquillamente la sua ormai triste storia e, com'era normale che avvenisse, divenne presto quello di un giovane, poi di un uomo e, alla fine, quello di un vecchio. Quando fu vecchio, finalmente, si svegliò. Ma presto si accorse che della vita non sapeva niente. Credette anzi che la vita non fosse che sogno e... si riaddormentò! Aveva ignorato tutto e tutti: aveva ignorato la realtà, brutta o bella che fosse. Non aveva infatti potuto sapere ch'era stato bambino, poi uomo, poi vecchio. Neppure, forse, aveva saputo d'essere stato vivo. Ditemi, dunque: senza la possibilità di scegliere fra sogno e realtà, che senso ha l'esistenza? Quel bambino era morto senza vivere, no? E io non voglio che una cosa simile accada più. Sarebbe una cosa tremenda!"
Tutti tacquero. Sembrava che la notte avesse ragione a non volere più donare i suoi sogni. Ma...la sua decisione era veramente quella giusta? O non ce n'era forse una migliore?
L'ometto, mestamente, venne giù dall'albero sul quale era baldanzosamente salito e, quando fu sull'erba, alzò lo sguardo verso la notte e le disse dolcemente: "Noi ci sforziamo di comprendere la tua decisione, forse hai ragione. Ma non riusciremo a condividerla mai. Il nostro paese ha un nome, Belsognare, che gli è stato dato proprio perché tu ci donavi i tuoi sogni: era una leggenda per tutti. Se tu ci privi dei sogni dovremo rinunciare anche al nome: cambierà tutto. E tu, poi sembri così convinta. E' brutto, sai, non avere scelta. Ci troviamo proprio come quel bambino di cui ci hai raccontato. Non potremo far niente."
Il bel volto della notte divenne per un attimo pensoso. Poi le labbra di mossero: "Questo è vero", disse. "Ma voi sapete che non tutte le cose sono così come appaiono. I problemi non hanno sempre due soluzioni. Spesso, anzi, i più difficili non ne hanno affatto..." Fece una lunga pausa, poi riprese: "Talvolta, anche per chi deve applicarle, certe scelte comportano un dolore. So molto bene di darvi un dispiacere, ma vi sono costretta. Ci sono circostanze che non dipendono da me: i fatti hanno la loro forza, che lo si voglia o no. Ed è questa la terribile realtà di chi deve prendere decisioni per altri."
Ma l'ometto era cocciuto. Tentò la sua ultima carta: "Se fossi in te, ci penserei ancora. Per tanto tempo ti sei lasciata cantare dai poeti; hai ispirato canzoni meravigliose che si cantano ancora; tu stessa sei diventata un sogno per tanti di noi. Noi abbiamo bisogno di te, lo sai. E la tua bellezza è proprio nei sogni che ci mandi: t'immagini con quanta tristezza ci addormenteremo quando non ci manderai più i tuoi messaggeri? Andare a dormire diverrà una cosa noiosissima. Allora sì che sarà veramente come morire!"
La notte era commossa. Trovò però un filo di voce per dire: "Occorre rischiare. Voi non riuscite a dare il giusto peso alle cose, né sapete assegnare loro un fine. Comprendo il vostro dolore, ma l'abitudine, piano piano, vi renderà meno difficile la vita, pardon!, il sonno. Si tratterà solo di sostituire un'idea ad un'altra: dovrete solo cambiare l'idea di sognare con quella di non farlo. Non sarà impossibile, vedrete."
L'ometto si sentiva sconfitto. Vedeva bene quanto poco ci fosse da fare. Tuttavia non si arrese, anzi. Cercò di rifugiarsi in un: "Possibile che non si possa proprio ricercare un'altra via di uscita?"
La notte sembrò riflettere. "E' difficile trovare una soluzione diversa", disse. "Se ci pensassi un po', però..." e tacque.
Tutti erano col fiato sospeso. L'ometto non osava parlare per non perdere quel filino di speranza cui anche lui si trovava sospeso. L'atmosfera era di piombo. Poi, la notte riprese: "Ci potrebbe essere un'altra soluzione, volendo, ma non sono sicura che sia migliore di quella che vi ho indicato. E neanche immagino se potreste essere d'accordo..."
"Tu proponi", disse l'ometto, che intanto aveva ripreso coraggio. "Lascia giudicare a noi se l'alternativa che ci proponi è buona o no. Parla, coraggio!"
"Di coraggio ne ho", rispose la notte. "E' che...e se vi facessi sognare solo di tanto in tanto?", sospirò.
"Sarebbe già qualcosa", disse l'ometto. "Lo vedi, però, che ci sono soluzioni diverse? Le cose non sono sempre come sembrano. Ma...", proseguì il portavoce degli abitanti di Belsognare, "puoi dirci una cosa? I sogni di cui ci fai dono, da dove vengono?"
"Curioso l'ometto", pensò la notte. Ma gli rispose: "Forse vuoi sapere troppe cose. Mi sei molto simpatico, però, e cercherò di dirtelo. I sogni, i vostri sogni, quelli che ogni notte vi mando, sono il frutto dell'amore che mi lega al vento. Quando lui mi viene intorno e mi corteggia con le sue folate, a volte dolci, a volte violente, questa nostra unione si trasforma e voi sognate..."
"Dunque, i sogni sono tuoi figli? ", chiese sorpreso l'ometto.
"Proprio così!", disse la notte. "Però il tempo ne è geloso e li spande per il mondo. Così io finisco per perderli, e voi sognate. Il vento, poi si pente e va in giro a cercarli, ma non sempre riesce a trovarli tutti. Allora mi sono decisa a non lasciarli più andare e cerco di conservarli sotto il mio mantello...Come vedi, mi hai strappato la confessione che volevi, la vera ragione della mia decisione! Sei abile."
"Mi dispiace", disse compreso di vero dolore l'ometto. "Non potevo immaginare una storia così. E' triste, hai ragione."
"Pochi lo sanno", disse la notte. "Sei abile, te l'ho detto. Sei stato anche l'unico a volerlo proprio sapere. Perciò, malgrado tu mi abbia strappato questo segreto, mi sei simpatico. Come hai fatto a pensarci?"
"Non era solo curiosità", disse l'ometto. Noi di Belsognare, anche grazie a te e ai sogni che ci hai mandato, siamo sempre stati attratti dai misteri. E questo mistero era uno dei più belli: di ciò che si ama si vuol sapere tutto, lo sai. E noi i tuoi sogni li amiamo."
La notte era commossa. Quel piccolo uomo aveva saputo toccare una corda molto sensibile dell'animo femminile, e lei, la notte, era proprio una donna. Sorrise, infatti, con la dolcezza di chi, donna, sa di essere amata. Poi si diede una piccola scossa per riprendere il controllo di sé e disse: "Sì, conosco abbastanza voi uomini e so quanto siete attratti da ciò che non conoscete. Voi vorreste sottrarre alla natura tutti i suoi segreti e non vi importa molto di soffrire per questo. Basta guardare al mondo e a come lo avete ridotto per la vostra curiosità: una vecchia carcassa coperta da stormi di avvoltoi. Solo voi potevate ridurlo così!" Tacque.
L'ometto lottava contro lo sgomento. Sussurrò appena: "Allora..."
La notte lo soccorse subito: "Allora...Avete deciso, o no? Accettate la mia proposta?"
L'ometto fu rinfrancato: "Quasi avevo dimenticato", disse. "Non posso decidere io, però. Lasciaci il tempo di consultarci. Qui, a Belsognare abbiamo l'abitudine di decidere insieme. Dacci un po' di tempo, te ne preghiamo."
"Aspetterò", disse la notte. "Ma decidetevi!"
L'ometto corse a mescolarsi con la sua gente. Si sentiva solo un grande mormorio. Quando il sommesso vociare cessò, l'ometto, nel silenzio improvvisamente subentrato, si arrampicò nuovamente sull'albero e si rivolse al bel volto che nel frattempo aveva ripreso tutto il suo splendore e, quando fu bene in alto, disse: "Notte cara, non ci potresti rispiegare la soluzione che proponi? Qualcuno ha ancora dubbi."
"Certo", rispose la notte. "Si tratta di questo: finora avete sognato tutte le volte che il sonno vi portava con sé. D'ora in poi sognerete solo quando lo deciderò io. Questo è tutto." Ci fu una pausa. Poi la notte riprese: "Se questa soluzione non dovesse piacervi, tornerò sulla mia primitiva decisione e allora non ne parleremmo più. Pensateci bene, dunque! Non ci saranno ripensamenti. E non abbiate paura: non dovrete cambiare molto. A Belsognare, vedrete, resterà tutto com'è adesso."
L'ometto, con gli occhi bassi che tradivano la profonda tristezza che lo attanagliava, fece cenno di aver compreso. Era rammaricato, si capiva. Mormorò: "Non più tutte le notti?" Poi, quasi con rabbia, sbottò: "Vedi che qualcosa dovrà cambiare?"
Si era fatta quasi l'alba. Il bellissimo volto della notte, adesso, svaniva lentamente nella nebbiolina che sempre avvolge a quell'ora Belsognare. Ebbe appena il tempo di sussurrare: "Sono solo i particolari che cambiano, i fatti no. Ricordate: solo di tanto in tanto..."
L'ometto, arreso, scese dall'albero mentre il sole già faceva brillare le goccioline di rugiada sulle foglie. Belsognare non era più quella. Nasceva un nuovo giorno che si sarebbe concluso, come per tutti gli altri paesini, con il ritorno della notte. Questa, però, ora, avrebbe portato bei sogni solo ad alcuni, non più a tutti. Solo all'ometto, forse, avrebbe continuato a mostrare il suo bel volto. Quello splendido volto che con i suoi capelli sciolti sulle spalle arrivava quasi alla cima dell'albero e induceva l'ometto ad arrampicarvisi su...          

Il libro e la matita
Nella vetrina di una grande libreria, esposto insieme a tanti altri, c'era un libro che era diverso da tutti i suoi simili: a lui, qualche tempo prima, erano state rubate le parole del racconto che portava in seno. Naturalmente, non lo comprava nessuno.
Non è difficile, credo, immaginare la tristezza di questo libro. Guardava mestamente gli altri che venivano e se ne andavano e invidiava molto la possibilità che questi avevano di giocare con la fantasia dei bambini. Non riusciva a non pensare alle sue pagine bianche che non potevano raccontare più le cose che aveva dentro.
Un giorno, poi, ahimè!, addirittura tutti i libri della vetrina in cui un pietoso libraio lo aveva esposto vennero comprati e lo lasciarono. Nella vetrina non rimase che lui, con le sue nitide pagine vuote!
Alla tristezza di non poter fare ciò per cui era nato si aggiunse quella che gli veniva adesso dalla solitudine.
Il libro, potete immaginarlo, pensò che la sua esistenza, adesso, non aveva proprio più un senso; egli si spinse fino a convincersi che per lui sarebbe stato meglio essere bruciato dal fuoco. Solo che...non poteva trasformare questo pensiero in realtà: almeno fino a quando fosse rimasto nella vetrina. Così la vetrina diventò per lui una gabbia. E come se fosse in gabbia, lo si guardava, lo si ammirava, forse, ma la sua realtà rimaneva sconosciuta a tutti: egli non poteva mostrare né far sentire ciò che aveva dentro - cosa che avrebbe grandemente voluto - e non gli restava quindi che... soffrire!
Ci pensava sempre. Finché un giorno decise: sarebbe scappato senza fare più ritorno.
Aspettò allora che venisse sera e che il cielo si vestisse a festa. Quando le stelle cominciarono a brillare tutte insieme come sapevano fare solo loro, lui, quatto quatto, uscì dalla vetrina, infilò la porta dalla quale aveva visto uscire tutti gli altri e iniziò a girovagare.
Camminò a lungo, quella notte; fino a che, all'alba, quando la luce del sole che non era ancora comparso cominciò a spegnere a una a una le stelle, lui, esausto, si fermò su un prato per riposare un po'. Il contatto, dolcissimo, con la tenera erba appena bagnata di rugiada gli fece definitivamente passare la voglia di essere bruciato dal fuoco. Di tornare alla vetrina, però, non voleva saperne.
Quando si fu riposato, riprese a girovagare. Presto, si trovò incamminato nel bel mezzo della folla di un mercato. La gente si muoveva per ogni dove e, a lui, che non era abituato a tanta confusione e a tanto chiasso cominciò a girare la testa. I suoi passi, anche per la stanchezza, divennero sempre più incerti ogni urto che riceveva lo faceva traballare. Era sul punto di svenire quando venne urtato leggermente da una matita. La guardò con simpatia per la delicatezza dell'urto e si accorse che si trattava di una bella matita, affusolata e lucente come solo certe matite sanno essere.
Con un sorriso gentile, chiaramente di scusa, il sottile legnetto lo salutò con un "ciao!" ch'era quasi amichevole e lui, il libro, che sulle prime quasi non si era accorto del saluto, rispose frastornato: "Ciao!...ma...tu mi conosci?"
"Veramente, no...", disse la matita. "Se vuoi, però...", e completò un giro su se stessa che le permise di mostrare la bella scritta dorata di cui era adorna, "se vuoi, possiamo diventare amici..."
"Ma...", proseguì, diventando come improvvisamente pensosa, "cosa ci fa un bel libro come te in un posto caotico come questo? Qui, certamente, nessuno legge..."
Il libro le si fece più vicino e la invitò a mettersi un po' in disparte per evitare altri urti. "Che bella matita" , pensò
Quando furono abbastanza al riparo, cominciarono a parlare fra loro e preso familiarizzarono. Il libro, naturalmente, raccontò la sua storia e vide che la matita era interessata e che si commuoveva al suo racconto.
A un tratto la matita gli disse: "Sai, anch'io ho qualche problema. Sono venuta al mercato a cercare un temperino capace di rifarmi la punta..." Ebbe un gesto vezzoso accennando alla testa: "Senza una bella punta, anch'io non servo a gran che..."
Il libro comprese. Adesso non dovevano che cercare il temperino. Si rimisero in marcia insieme e presto si trovarono davanti ad un banco su cui c'era di tutto. Al mercato, si sa, di banchi così ce ne sono molti. Cercarono fra tutti quelle cianfrusaglie e alla fine il temperino fu trovato.
Era un bel temperino d'argento a null'altro disposto che a far punta alle matite ansiose di scrivere. Lo avevano appena comprato che questi, con qualche rapida giravolta, restituì alla matita una bellissima punta bruna.
La felicità della matita era al colmo: gratificò del suo bel sorriso, che il libro ormai ben conosceva, il temperino d'argento e, impettita, si rimise in cammino accanto al suo bel libro.
Presto si trovarono in un prato e, come spesso accade, cercarono di appartarsi un po'. Al libro la matita piaceva per quella sua linea elegante e un po' altezzosa. A lei piaceva il libro perché ormai cominciava a capire che cosa quello poteva contenere.
Si scambiarono qualche effusione, poi il libro, non senza emozione, le disse: "Ora che hai la tua bella punta e conosci la mia storia, che ne diresti di scrivermi tu?"
Era una vera dichiarazione d'amore. La matita ne fu incantata: non desiderava altro. Le bastò un piccolo cenno. Lui si sistemò meglio nell'erba e aprì la sua prima pagina.
La matita ormai sapeva cosa scrivere. Le fu quindi facile tracciare sulle pagine rimaste bianche tanto a lungo le parole rubate una volta. Via via che scriveva, inoltre, sentiva di amare sempre di più quel libro: le sembrava quasi che il libro si muovesse con lei per aiutarla a scrivere più in fretta. Quanto aveva desiderato tutto questo!
Non era ancora tramontato il sole di quel giorno che il racconto aveva ripreso il suo posto sulle pagine ora non più bianche.
Intanto, la foga della scrittura aveva fatto dimenticare al libro e alla matita dove si trovavano. Essi erano in realtà su un bel prato e intorno c'erano tante mamme con i bambini che giocavano nell'erba. Se ne ricordarono solo quando una bambina che sventolava le sue treccine bionde rincorrendo un cerchio rosso (lo guidava con un bastoncino di bambù) li urtò e lanciò un piccolo urlo di disappunto. Rimasero impietriti: cosa sarebbe accaduto, ora? Guardarono e...
La bambina, superato il primo attimo di dispiacere per la caduta del suo bel cerchio, si avvicinò incuriosita e, visto che si trattava di un bel libro e di una bellissima matita, dimenticò il suo cerchio, raccolse entrambi, mise la matita nella tasca del suo grembiulino bianco, si sedette con una certa aria di sussiego - le bambine fanno sempre così - nell'erba, aprì il libro e cominciò a leggere...
Per il libro e la matita era il compimento di tutti i desideri : avevano trovato il loro destino e il loro destino era il migliore possibile!
Quando la mamma della bambina raggiunse la sua piccola lettrice, questa le disse con una certa animazione: "Mamma, questo libro è un incanto. Lo terrò sempre con me. E anche la matita. Non la userò mai, sai? E' troppo bella..." La mamma la guardò con la solita tenerezza: "Sai? ", le disse. "...anch'io, da bambina, avevo perso un libro così. E me ne dispiaceva, perché avrei proprio voluto fartelo leggere. Che fortuna!"
Si incamminarono verso casa: avevano trovato tutti la loro storia, cioè, la felicità.       

Il fiore presuntuoso
In un giardino, c'erano varie specie di fiori. Erano tutti bellissimi, ma ce n'era uno, in particolare, che, oltre ad essere bellissimo, era anche presuntuoso. Per questa sua caratteristica, naturalmente, era malvisto dagli altri.
I suoi colori erano inimitabili. Potevano sfidare il più nobile dei pittori: avrebbero vinto. Non parliamo poi della lucentezza che acquistavano quando la rugiada si posava su di loro: erano veramente rari. E il fiore se ne rendeva conto.
Posto suo era un angolino accanto ad una splendida rosa nera. Il fiore presuntuoso raramente rivolgeva a questa la parola; e, quando lo faceva, era solo per dirle con aria di superiorità: "Non riesco proprio a capire perché ti chiamino regina. Non sei la più bella. Ci sono io, come vedi, a tenerti testa...e, con una risatina maliziosa, volgeva altrove lo sguardo. La rosa non se se adombrava, naturalmente. Tutta raccolta nello splendore dei suoi lunghi petali, si accontentava di starsene ad ondeggiare lievemente sul suo lungo stelo pieno di foglie e a lasciarsi cullare dai dolci sogni che il venticello le portava.
Il fiore presuntuoso pensava: "Certo, non sarò il re dei fiori, ma la mia bellezza è immortale."
Un giorno, un brutto giorno per il fiore presuntuoso, fecero la loro comparsa nel giardino un paio di forbici: si avvicinarono sornione e recisero il lungo stelo di cui il fiore era molto orgoglioso. Il fiore presuntuoso si ritrovò ben presto in un vaso - bello è vero! ma... - sistemato fra quattro mura che gli impedivano per sempre di vedere le albe e i tramonti che tanto amava. Era anche lontano dagli altri fiori e, soprattutto, era separato dalla rosa con cui così poco parlava e di cui adesso rimpiangeva quella ch'era, in fondo anche per lui, la bellezza!
Fu una vera tragedia. Il primo giorno trascorse nella più completa e triste solitudine. Il fiore arrivò assai presto a pensare: "Forse, se fossi stato meno bello, ora non mi troverei qui!"
Passarono altri giorni. Il fiore incominciò ad appassire; tuttavia, non mutava il suo cuore. Continuava infatti a pensare: "Malgrado tutto, potrei anche diventare più bello di prima, potrei diventare, addirittura, l'imperatore dei fiori, potrei superare in tutto regina rosa, potrei..."
Ma passarono inesorabili altri giorni e l'unica cosa che veramente cambiò per lui fu il colore dell'acqua da cui traeva il poco alimento...e il fiore capì, il fiore presuntuoso capì che per lui era finita. Mentre viaggiava verso la sua sepoltura, però, disse a se stesso: "No. Non finirò fra i rifiuti, io!"    

Lite tra i giorni della settimana
Vi siete mai chiesti perché il primo giorno della settimana deve essere il lunedì? Di certo penserete che si tratti di una domanda molto sciocca, e forse è vero. Ma basta guardare i nostri figli o i nostri fratelli piccoli per vedere come tutti sbuffano la domenica sera, pensando che l'indomani dovranno ricominciare con le loro occupazioni, e capire quindi perché intorno al lunedì si è ormai creato un clima di vero odio. Riguardo a questo, mia nonna una volta mi raccontò una storia che io trovai alquanto inverosimile; ma non voglio influenzarvi con le mie impressioni e ve la racconterò. Così potrete giudicare voi stessi.
Ogni inizio di settimana, diceva mia nonna, i giorni che la compongono tengono una riunione: serve ad organizzare il loro lavoro. E' una vera e propria tavola rotonda in cui essi possono discutere, insieme, dei loro problemi.
Una volta, nel bel mezzo di una di queste riunioni, Lunedì si levò in piedi e disse con tono molto risentito: "Sono stufo di sentire la gente che sbuffa appena si pronuncia il mio nome! Possibile che debba toccare sempre a me? Adesso, basta! Se sono così poco desiderato, me ne andrò!"
Detto, fatto! Senza che gli altri potessero calmarlo o trattenerlo, Lunedì prese le sue cose e se ne andò.
I giorni furono preoccupati, oltre che sorpresi. Solo Domenica se ne stava tranquilla al suo posto e sembrava non essersi accorta di nulla. Passato però lo sbigottimento iniziale, Martedì, aggiustandosi un po' l'arco che aveva sulle spalle (martedì, lo sapete, è il giorno di Marte, il dio della guerra, e gira sempre armato) si rivolse il più gentilmente che sapeva a Domenica e le disse: "E' un po' troppo comodo fare come ha fatto Lunedì: prendere tutto e andar via. Troppo comodo e troppo bello!" Domenica, senza quasi scomporsi, gli rivolse con i grandi, straordinari occhi di cui era dotata, uno sguardo dolce e severo e rispose: "Lunedì tornerà, vedrete!" Martedì rimase sorpreso dalla fermezza dello sguardo, ma non si diede per vinto (che guerriero era, sennò?)e incalzò: "Come puoi dire così, e con tanta sicurezza?"
"Ho fiducia in Lunedì" rispose domenica e si toccò delicatamente col dorso della lunga mano sinistra i capelli che le cadevano morbidi sul bel collo bianchissimo. "Eppoi, credo in quello che dico. Vedrete " aggiunse dando al suo sguardo una ancora più assorta pensosità "Lunedì tornerà, ne sono più che sicura. Nessuno può vivere senza uno scopo: Lunedì meno di tutti. Ha le sue lune, è vero, ma queste sono talmente mutevoli! L'albero può anche non voler dare frutti, ma darà sempre almeno il suo ossigeno. Ognuno ha un compito, e anche Lunedì ha il suo, malgrado i capricci. Inoltre i compiti si equivalgono...Lunedì rinsavirà, vedrete!"
"Capisco", continuò, dando uno sguardo d'assieme al gruppo dei giorni ch'erano variamente agitati, "capisco che con uno in meno il nostro lavoro sarà più duro perché dovremo colmare il vuoto di uno che non c'è, Ma non importa! Potremmo anche...", e si guardò intorno prima di continuare, "fare così: dare a Martedì il posto di Lunedì, a Mercoledì il posto di Martedì e così via fino a me. Alla fine avremmo una seimana invece di una settimana, ma almeno andremo avanti."
Poi, visto che aveva lei la presidenza della riunione, ne approfittò per concludere: "se qualcuno vorrà dire o proporre qualcosa d'altro, ne riparleremo alla prossima riunione. Adesso, dobbiamo andare!"
Era pronta ad andare, quando si fermò un attimo ed aggiunse: "D'ora in avanti se qualcuno vuol fare come Lunedì e seguirlo, ci userà la cortesia di avvertirci con almeno un anno di anticipo, in modo da consentirci di riorganizzare per tempo il lavoro. Intesi? Ora andiamo!"
Il suo fascino era enorme. Era l'unica donna del gruppo, ma era anche bellissima. Per questo tutti tacquero e tranquillamente uscirono: la seimana ricominciò.
Con l'assenza di lunedì si rivoltò il calendario: non si sapeva più misurare il tempo; spesso non si capiva più nemmeno che giorno fosse. Era il caos! Si lamentavano tutti. Ma non era solo questione di lagnanze: regnava una grande confusione. Gente che andava a lavorare di domenica, massaie che andavano a messa il mercoledì, barbieri che chiudevano il sabato, partite di calcio che si disputavano il giovedì senza che nessuno potesse andare allo stadio perché la gente lavorava, ecc. Insomma, non si capiva più niente. E presto non se ne poté più.
Finché un giorno, approfittando di una delle solite riunioni d'inizio di seimana Martedì prese con estrema risolutezza la parola e disse: "Non ce la faccio più. Non è giusto che io continui a fare il lavoro di due giorni. Anche se volessi non potrei più!" Cominciava a diventare anziano e non voleva ammettere che le sue forze scemavano, ma veramente era al colmo. Concluse: "Me ne vado anch'io!"
Fu il segno della rivolta. Tutti in coro a quelle parole sbottarono: "Eh, no! Se te ne vai tu, ti seguiremo tutti!" E fecero per andarsene. Ma Domenica, che fino a quel punto era rimasta tranquillissima, li gelò con uno dei suoi sguardi luminosi e severi: " Non mi sembra che il vostro sia il comportamento opportuno. Se Lunedì ha sbagliato, ed ha sbagliato!, ciò non deve indurre anche noi a seguirne l'errore. Restate tranquilli. Lunedì, come vi ho già detto, tornerà!"
"Chi lo dice?" azzardò beffardo Martedì.
"Lo dico io!" Domenica era troppo affascinante: quella sua persona eretta, quel suo sguardo suadente emanavano un fluido magico cui non si poteva resistere...
Martedì, ancora una volta, ne fu travolto e si arrese. Sarebbe rimasto.
Ma Mercoledì, il saltellante e allegro figlio di Mercurio, irritato dalla sottile, muta intesa che si era insinuata fra Domenica e Martedì, si fece ardito e apostrofò la bella signora: "Brava! Parli molto bene, tu! Lo si può capire. Tu sei un giorno di riposo e di festa. Che fatica ti costa? Anch'io, se fossi al posto tuo, parlerei così. "
Domenica si mostrò colpita. Abbassò le dolci palpebre come sanno fare le donne quando vogliono accennare alle lacrimucce, e si assicurò la solidarietà di tutti quelli che l'ammiravano. Poi però attaccò con il tono più dolce della sua splendida voce: "Non posso darti torto, quello che dici è vero. Tuttavia...", e qui fece una pausa significativa che utilizzò per controllare che la solidarietà degli altri fosse al colmo, "penso che dovrei dare un consiglio a tutti voi: non fate mai paragoni. La vita non è uguale per tutti e forse per questo è bella. Anche noi non siamo sempre gli stessi. Di noi, stabile rimane solo il nome. Cambiamo continuamente, anche se non ce ne rendiamo conto. Lunedì, in fondo, è uguale a noi. Anche lui cambia continuamente, come ognuno di noi sette. Ed è inutile dire che se fossi stato al suo posto avrei fatto così o cosà, L'importante è far bene le cose. Il resto non conta."
Guardò con affetto Mercoledì (che diventò di tutti i colori) e concluse: "No! Non mi sento neanche di dar torto a Mercoledì. Può darsi benissimo che ciò che ha detto sia giusto. Vedremo."
Tutti furono definitivamente conquistati. Lo stesso Mercoledì chiuse con dolcezza le ali dei piedi che gli aveva affidato Mercurio e abbassò il suo vivacissimo sguardo.
Passò ancora del tempo, ma di Lunedì non si vide traccia. Il caos intanto aumentava. Nelle riunioni solite si parlava del più e del meno, ma ormai nessuno più osava porre il problema.
Finché, un giorno, in una di quelle riunioni, il grande Giovedì, lo statuario figlio del padre di tutti gli dei, il sommo Giove, ritenne fosse giunto il momento di dire, olimpicamente: "Noi sei abbiamo un problema: la mancanza di Lunedì. Ciascuno di noi è preoccupato dal fatto che costui ha lasciato il suo posto, lasciandoci un cumulo di grattacapi. E' vero però che nessuno, finora, compreso me, si è degnato di sforzarsi di capire perché si è comportato così. Inoltre, nessuno di noi gli ha detto una sola parola di comprensione e di incoraggiamento. Ci siamo tutti preoccupati solo di trovare un rimedio. Sin dal primo momento non abbiamo fatto che dirci: come si fa?"
Era bello sentire parlare quel gigante. Nelle sue parole non si riusciva a intravedere alcun segno di risentimento. Andava diritto alle cose; il suo sguardo era determinato e franco. La sua sicurezza esercitava un fascino incredibile. Continuò: "Inoltre, in tutto questo tempo non ci siamo neanche chiesti cosa stesse facendo né dove fosse. Non siamo stati un po' troppo superficiali, come tutti?"
Tutti rimasero colpiti. Non ci avevano pensato, era vero. E il fatto che a richiamarli alla realtà fosse stato Giovedì era così naturale! Lo sapevano infatti che lui era saggio; come non averci pensato che prima o poi li avrebbe messi in riga? Già da tempo aveva la stima di tutti, compresa Domenica, e la luminosità delle parole che aveva con tanta nobiltà profferite non poteva che accrescere la considerazione di cui già godeva: tutti erano al colmo della stima per lui. Solo Venerdì, forte della sua straordinaria bellezza (era figlio di Venere, la dea più bella!), animato com'era dalla sua solita indifferenza ma preoccupato dal fatto che qualcuno stesse sottraendogli fascino, osò dire: "Se volessimo preoccuparci di ogni cosa, mi dite che cosa accadrebbe? Eppoi, che scopo avrebbe?"
Ci fu un attimo di sbandamento. Ma Sabato, figlio anche lui di un dio severo, lo scuro Saturno, ristabilì la situazione dicendo quasi con cattiveria: "Ci aiuterebbe a vivere meglio sia con noi stessi, sia con gli altri!"
Era fatta. Adesso tutti potevano discutere con più serenità. Si conoscevano meglio, e si stimavano, anche, per le loro reali capacità. Si poteva finalmente parlare.
Sabato ricominciò: "Vorrei farvi una proposta, prendendo spunto da quello che ha appena detto giovedì. Che ne direste di andare a cercare Lunedì?"
Ci fu un attimo di silenzio, cui seguì un sommesso mormorio. Tutti si interrogavano su che cosa valesse la pena di fare. Alla fine parlò Venerdì: "Perché no?" Anche questo era un segnale. Tutti si mossero subito e ben presto, ci credereste?, Lunedì fu ritrovato.
L'incontro con gli altri giorni della settimana fu occasione di battute del più vario genere, che del resto Lunedì si era ben meritato. Come quella di Martedì, sempre il più animoso, che gli disse beffardo: "Com'è andata la vacanza? Vorrei fare anch'io come hai fatto tu, dev'essere bello!"
L'incontro più bello però fu quello con Domenica. Quando la bella signora ebbe davanti il birbone gli disse vezzosamente: "Sapevo che saresti tornato! Anche se non speravo fosse così presto!" E lui, sornione come al solito (era o non era figlio della luna, e di umore il più mutevole che si potesse immaginare? ), "Presto o tardi, che importa? Adesso sono qui!"
Domenica non si lasciò sopraffare dalla sua impertinenza e gli rimandò un "Ti trovo bene!" ch'era quasi uno schiaffo. Poi, più conciliante, aggiunse: "La tua vacanza, chiamiamola così, non è stata del tutto inutile. Ha fatto scoprire amicizie che neanche immaginavamo. Ma, ti prego, non andartene più. La nostra settimana rimane tale solo se ci sei anche tu. Non sei il più importante, si capisce: come ognuno di noi non lo è. Ma non deve mancarci nessuno. E' bello così."
Da quel giorno non si lamentarono più. I giorni andarono d'accordo e adesso, quando fanno le loro riunioni, ognuno sa tenere conto della bellezza dell'uno o del fascino dell'altro. Su tutti domina sempre la domenica. Ma la domenica, si sa, è anche donna.      

L'orologio dispettoso
Mi chiedo spesso: perché oggi corriamo tanto? Possibile che non ci accorgiamo che con una vita così frenetica possiamo perdere di vista le cose più semplici? E che sono poi queste cosette quelle che ci fanno felici?
Non è che, per caso, abbiamo dato troppo potere agli orologi?
Sentite un po'...
C'era una volta un paesino nel quale la vita si svolgeva semplice e tranquilla: naturalmente, in quel posto, non si era visto ancora - non ce n'era bisogno - un solo orologio.
Un giorno, però, il sindaco fece dire a tutti gli abitanti che voleva vederli in piazza. Quando furono riuniti fece loro il seguente discorso:
"Abitanti di Pannà, abbiamo una vita troppo disordinata. Per avere più ordine, dobbiamo regolare ad orario le nostre attività. Dobbiamo metterci al passo con gli abitanti dei paesi che sono vicini a noi.. Eppoi, anche Pannà ha diritto ad un certo progresso. Non dobbiamo restare arretrati: non sarebbe giusto." Fece una pausa significativa, poi aggiunse: " Ho riflettuto: abbiamo bisogno di un orologio. Solo così ci potremo dare l'ordine di cui vi ho parlato".
Potete immaginare il mormorio che si sollevò fra gli abitanti di Pannà. Quando gli animi si furono un po' calmati, si fece avanti il falegname e disse: "Personalmente io non vedo tutta questa necessità di mettere ordine; la parità con gli altri e il progresso non mi interessano... Il mio lavoro mi piace", soggiunse sornione, "...lavoro quando mi va! Se mi venisse data una scadenza, non avrei più nessun piacere dal mio lavoro! Questo penso!"
Il sindaco, prese la sua aria di grande sopportazione e con studiata lentezza rispose: "Hai detto che lavori quando ti va. E questo va bene. Ma devi ammettere che così lavori anche più del necessario e ti stanchi anche, inutilmente. Se facessimo come dico io, tutti invece avremmo il giusto riposo nei tempi giusti. Non credi?"
Il falegname non si convinse: "Se una cosa si fa con piacere uno non si stanca, e la cosa che fa non è mai inutile. Anche se uno lo fa solo per se stesso e lavora ininterrottamente di giorno e di notte!"
"E' vero", disse ancora il sindaco, sempre trascinando un po' le parole, "ma a che serve?"
"Ad avere più soddisfazione, perbacco!" rispose Il falegname che stava perdendo la calma e, soprattutto, la tranquillità.
Il sindaco riprese la sua aria seria di responsabilità: "Si", disse, "ma la soddisfazione di chi lavora non è utile al paese che deve progredire. E, d'altronde, l'orologio non sarebbe usato solo per dare delle scadenze. Guardiamo ai lati positivi delle cose, non solo a quelli negativi!" E aggiunse: "se venisse qualcuno e chiedesse che ora è, che cosa gli risponderemmo?"
Il falegname assaporò il trionfo: "gli diremmo che a Pannà non abbiamo ancora l'orologio!" Qualcuno rise. Anche il sindaco fece un sorrisetto amaro, poi disse non senza ironia: "Vedete... A questa risposta che idea si farebbero di Pannà? Ho ragione o no?" Poi, con determinazione, aggiunse: "Il discorso è chiuso. Pannà deve avere e avrà un orologio!" Tutti, mormorando le più diverse opinioni, si allontanarono dalla piazza e tornarono a casa.
Il giorno dopo, sull'alta torre accanto al palazzo comunale comparve un grande e bell'orologio, con l'incarico di segnare il tempo per il lavoro, quello per il riposo e quello per tutte le altre attività.
L'orologio era bello, lo abbiamo detto. Ma era anche un po' dispettoso. Era stato appena sistemato, che già pensava: "Poveretti! Ancora non sanno del potere che mi hanno dato! Ah, ah, ah! Questa notte gli darò una bella lezione. Vedranno di che cosa sono capace, vedranno chi comanda! Le impuntature si pagano, cari cittadini! Ah, ah, ah!"
Aspettò che le sue lancette si disponessero sulle tre della notte e fece partire il suo progetto: "Don! don! don! " si mise a suonare. Pensò ancora: "Vedrete di che cosa sono capace!", "Don! don! don!" e continuò a suonare.
Gli abitanti di Pannà, che non erano abituati ai dispetti, credettero che quel modo di comportarsi del loro orologio fosse normale. Si misero dunque in attività e ciascuno cominciò a sbrigare le sue faccende: chi piallava (il falegname), chi soffiava col mantice nella fornace (il fabbro), chi rassettava (le donne di casa), ecc...
Ma era appena passato qualche minuto che l'orologio si rimise a suonare: "Don! don! don!"
Tutti si fermarono e si predisposero a consumare il loro pasto. Ma avevano appena cominciato che l'orologio tornò a suonare: "Don! don! don!" . Non c'era più tempo!
Andò avanti così per un bel po'. Appena iniziavano a fare una cosa, l'orologio suonava! I ritmi erano diventati impossibili. La vita scorreva assai velocemente e la gente era stanca: non si facevano più nemmeno le solite quattro chiacchiere. Non si stava più insieme, non si facevano più feste... Sulla bocca di tutti non c'era che una parola: "Ho fretta!" E tutti erano diventati irascibili, sempre di più, mentre l'orologio si divertiva moltissimo a farli correre.
Il sindaco, poi, era partito il giorno stesso in cui l'orologio era comparso e neanche sapeva quello che stava accadendo, perduto com'era in quelle sue faccende lontano da casa.
Un giorno, però, giunse a Pannà un vagabondo: canticchiava, era felice della sua vita... Che vita fosse, poi, lo si può immaginare benissimo. Non aveva alcun interesse per il tempo, naturalmente, perchè era molto saggio: aveva girovagato a lungo per ogni dove, infatti, e di cose ne aveva viste...
Quando si trovò davanti a quel coso - l'orologio dispettoso, che aveva l'aria di divertirsi tanto - si meravigliò non poco. Capì che era lui a far lavorare, mangiare e riposare la gente al suo ritmo, e vide subito che quello era un ritmo assurdo: le diverse attività si erano ormai sovrapposte l'una all'altra fino quasi a confondersi...
Si avvicinò al fabbro e gli chiese, con aria quasi di spavento: "Che razza di paese è mai il vostro? Perché quell'orologio fa così?" Il fabbro, senza nemmeno alzare lo sguardo, gli rispose: "Serve a dare ordine. Non farmi perdere tempo. Ho un mucchio di cose da fare. Vattene!"
Il vagabondo si allontanò a malincuore e mormorò fra sé: "Serve a dare ordine? Ma che significa!?"
Non poteva spiegarsi l'atteggiamento di tutta quella gente, quale fosse il motivo di tanta fretta. Eppoi, perché quell'orologio suonava ininterrottamente? Forse era guasto. Ma allora, perché non lo avevano riparato? No, fu la sua deduzione, non era possibile, il problema doveva essere un altro. Ma quale?
Non poteva pensarci. Era troppo strano! Si disse: "Voglio proprio scoprire cosa è successo!"
Per prima cosa andò dal medico di Pannà e gli chiese: "Sono malati gli abitanti di questo paese?"
"No", gli rispose il vecchio medico, anche lui malandato in salute per il troppo lavoro, "certo che no. Ma perché mi chiedi questo?"
"E' che... ho notato una certa stranezza in questo posto e mi sono chiesto se non fossero tutti malati."
"Ma tu chi sei? E da dove vieni? ", gli chiese il medico.
"Sono un vagabondo e vengo da ogni dove", fu la risposta.
"Allora, non sei malato?", gli disse il medico, sistemandosi meglio sul naso gli occhiali sbilenchi.
"Certo che no", ribatté il vagabondo.
"Se non sei malato", continuò il medico, "vattene e non farmi perdere tempo. Ho troppo da fare! L'orologio suonerà fra poco e, come ha detto il sindaco, dobbiamo seguire il progresso!"
"Capisco!" esclamò il vagabondo, e si allontanò anche dal medico. Ma continuava a non comprendere.
Mentre il vagabondo girovagava ancora per il paese, giunse la corriera delle quattro e, con essa, il sindaco. Appena questi ebbe toccato il suo suolo, stanco e sudato per il lungo e faticoso viaggio di ritorno, vide ciò che aveva visto il vagabondo, e comprese. Disse con rammarico: "Volevo il progresso. Ma questo è troppo!" Corse nel suo ufficio e diede ordine di togliere l'orologio dalla torre, "subito!"
Fece poi dire di nuovo a tutti che voleva rivederli in piazza, e quando si furono riuniti cominciò: "Abitanti di Pannà! So di aver commesso un grosso errore. L'orologio che abbiamo messo sulla torre non è quello che volevo io. Lo cambieremo subito con un altro. Dovete comunque poter dire l'ora a chi ve lo chiede. Come ho detto l'altra volta, anche Pannà ha diritto ad avere il suo progresso, per poter svolgere la sua vita, alla pari con quella degli altri paesi. E ora, se qualcuno vuol dire qualcosa, lo ascolto!"
Il vagabondo, che, per la troppa fretta della gente, non era stato notato da nessuno si fece avanti. Il sindaco, prima che colui potesse profferire parola, gli chiese: "E tu, chi sei?"
"Sono un vagabondo", fu la risposta.
"Ah", disse il sindaco. "tu sei una di quelle persone che vivono ignorando il tempo! Anche noi siamo vissuti così, a lungo. Ma poi stiamo riparando..."
"Ho visto come!", disse un po' beffardo il vagabondo. "Quando sono arrivato qui ho ben visto che tutti sono stati messi al servizio di sua maestà il tempo. Le assicuro che non desidero affatto fare la fine dei suoi abitanti: per me vivere significa nascere, crescere e invecchiare in santa pace. Eppoi, nella vita voglio godere delle piccole cose che mi vengono offerte, amandole con tutto il cuore. Inoltre...", e fece una pausa.
"Dì pure", lo incoraggiò il sindaco che cominciava a sentirsi deluso per il fallimento della propria idea.
"A chi vuoi che importi che cosa uno riesce a fare e in quanto tempo lo fa?, incalzò il vagabondo.
Il sindaco andò su tutte le furie. "Ecco!", disse, "sapevo che eri come questi cialtroni! Parlate tanto e non capite niente! Lo sapevo!"
Fu troppo. La gente, ormai, aveva capito. A furore di popolo, il sindaco fu cacciato, e con lui l'orologio, da Pannà.
In quel paese, da allora, la vita semplice, fatta del gusto e del piacere di far bene le cose, tornò splendente e i "cialtroni" di cui aveva parlato l'incauto sindaco ripresero il loro potere e se lo tennero, d'allora in poi, ben stretto.
Di sindaci e di orologi non si parlò mai più.           

La caccia
In una foresta, non troppo lontano da noi, viveva felicemente una famiglia di leoni.
Una mattina, mentre facevano colazione, la leonessa si rivolse a suo marito con un affettuoso "Caro...". "Si, cara", le fece eco lui, distogliendo lo sguardo dal giornale.
"Hai visto che giornata meravigliosa? Pensavo che sarebbe un vero peccato restare tappati in casa. Potremmo fare una gita e portare i nostri figli al giardino zoologico. Non l'hanno mai visitato."
"Per me va benissimo", rispose il leone, ripiegando con cura il suo giornale. (Lo avrebbe letto al ritorno).
Si prepararono. Si lisciarono ben bene il folto mantello di pelliccia, leccarono con cura i loro leoncelli, e... partirono.
Al giardino zoologico c'era una fila lunghissima di gabbie divise fra loro da solide ringhiere. Nelle gabbie c'erano tutte le specie della terra: l'uomo piccolo era accanto a quello grosso, il barboso accanto al pelato, l'uomo azzurro e grigio accanto a quello a strisce e a pois. Non parliamo poi dei colori delle pelli!
I cuccioli di divertirono moltissimo a tirare loro noccioline, caramelle, bucce di frutta e ogni sorta di avanzo di cibo che avessero a portata di zampa.
Giunti alla fine della visita, mamma leonessa disse al figlio maggiore: "Sai, tesoro, il nostro zoo possiede almeno un esemplare di ogni razza umana e non è paragonabile a nessun altro: abbiamo inoltre tutte le rarità. Hai visto com'è vasto e ben curato?"
"Un giorno o l'altro ci ritorniamo " concluse papà leone, con l'aria fiera e soddisfatta di chi si sente quasi l'Autore di tutto quanto è stato visto.
Mamma leonessa assunse subito un'aria mesta: "Si, certo. Anche se, a dire il vero, il vedere tutte quelle persone in gabbia mi fa provare un senso di tristezza. Anche loro sono nati liberi!"
Papà leone, che vedeva franare il suo già assaporato successo, si affrettò subito : " Potrebbe esser vero quello che dici. Ma se non ci prendessimo cura di loro, come vivrebbero? Chi li sfamerebbe? Chi sarebbe disposto a dar loro ciò di cui hanno bisogno per vivere? Non sono capaci neppure di pensare... anche se questo, tutto sommato, forse è un bene per loro. Capisci cosa cerco di dirti? "
"Hai ragione, come al solito. E' che a volte mi lascio prendere anch'io dai sentimenti. Meno male che ci sei tu ".
Mamma leonessa sembrava convinta. Infatti, appena tornati a casa lei si concesse totalmente, e lui giunse al colmo della pienezza di se. Non c'era dubbio: erano una cosa sola!
Il giorno dopo, all'alba come al solito, a colazione il cucciolo più piccolo parlava ancora con entusiasmo della visita del giorno prima. Il fratello maggiore, invece, giocherellando distrattamente con la sua razioncella, non mostrava la medesima emozione. Lo sguardo attento di mamma leonessa cadde sulla distrazione del maggiore: "Cos'hai figliolo?", disse premurosamente, "sembri deluso".
"Sono deluso."
"Ah! Si? E posso sapere perché?"
"Ecco. Secondo me, al giardino zoologico manca un esemplare."
"Si? E quale?"
"Manca l'uomo allo stato libero. Quelli che abbiamo visto sono nati in gabbia e non hanno nessuna attrattiva. Pensa se invece avessero un uomo catturato allo stato libero! Mi immagino la sua rabbia selvaggia per il fatto di essere osservato: sarebbe bello da vedere!"
Papà leone lo guardò tra l'interrogativo e il compiaciuto, poi rise di cuore. Infine disse: "Bravo! Hai fatto una magnifica osservazione; come si vede che sei mio figlio! Un vero leone! "
"Anzi, visto che è così che la pensi " soggiunse " ti prometto che domattina stessa partiremo per la caccia a un uomo veramente libero. Ne daremo l'esclusiva al nostro zoo. Come ho fatto a non pensarci prima!? Già pregusto la celebrità, diventare famoso... E' un'idea allettante! Domattina..."
Così fu. L'indomani padre e figlio partirono per la caccia all'uomo libero.
Girarono in lungo e in largo, ma della preda cercata, neanche l'ombra. Solo dopo qualche tempo, un pomeriggio, mentre si riposavano dalle fatiche di un lauto pasto all'ombra di un cespuglio di rovi, si udì la voce del leoncello esclamare: "Eccolo, eccolo, papà!"
"Dov'è?" chiese il leone, richiamando tutte le sue energie per rimettersi in sesto e saltar su.
"Lì..." disse il giovane leone. E indicò un punto nel prato, oltre i rovi.
"Ah, si! Eccolo! Avviciniamoci e mettiamogli questo collare: finalmente lo abbiamo trovato. Vedrai, sarà la nostra fortuna."
Il robusto leone aggiunse, poi, con la solita aria di sicurezza: " A me hanno insegnato che questi sono incapaci di pensare veramente e che sono molto docili." "Dai... ", incoraggiò il figlio, "non aver paura. Ci sono anch'io..."
Si avvicinarono. "Guarda come si fa ", disse il leone. E fece come aveva detto. Ma l'uomo, vedendosi sul punto di ricevere il collare si rivolse meravigliatissimo ai leoni che gli erano sopra e disse: "Che succede? Dite: vi ha per caso dato di volta il cervello? Che cosa vi ho fatto?"
Il leoncello, con espressione ancor più meravigliata e rivolto quasi più a se stesso che al padre, a questo punto esclamò: "Parla... ?!? Hai sentito anche tu, papà? Parla?"
"Si vede che si sono evoluti..." disse il leone.
"Come , si sono evoluti?" ribatté l'uomo. "Chi è che si sarebbe evoluto? Mi volete spiegare, per favore? Che cos'è questa storia? "
"Subito ", disse il leone.
Ma ancor prima che potesse profferire parola il cucciolo gli mandò, seccatissimo, un "Ma dai, papà, non vorrai davvero metterti a parlare con un uomo?"
"Lascia fare a me", gli disse suo padre. "Cerco soltanto di farlo stare calmo": era la voce della saggezza dei grandi.
E così il leone cominciò a parlare all'uomo rivolgendogli un discorso pieno di senno, e cercando di usare la più melliflua delle voci.
"Devi sapere, caro, che dove abitiamo noi c'è un giardino zoologico pieno di esemplari della tua razza. Fino a poco tempo fa eravamo convinti che ci fossero tutte le specie d'uomo. Mio figlio, tuttavia - non è privo di genialità il ragazzo! - mi ha fatto notare che tutte le razze sono rappresentate solo da esemplari nati in cattività e che quindi, fra le razze ne manca una, quella dell'uomo nato libero. Così ci siamo determinati a cercarti. Tu sei libero, no?"
"Naturalmente", rispose l'uomo. "Come te. Ma che significa?"
"Significa che fai proprio al caso nostro!"
A questo punto l'uomo perse la calma e si mise a gridare: "Ma chi credi di essere? Sei giunto di soppiatto, mi hai affibbiato - è proprio il caso di dirlo! - un collare e tutto questo solo per il fatto che sono nato libero! Che roba!"
"Ma noi cercavamo proprio te. Pensa: tutti ammireranno la tua rabbia... Eppoi, in cambio, riceverai tutte quelle cose..."
"Quali cose?"
"Avrai cure, pulizia, una gabbia tutta per te... Avrai del cibo ogni giorno...", il leone era sempre più suadente. "D'altronde, devi sapere che i tuoi simili sembrano talmente soddisfatti... Ci considerano la loro fortuna! Non siamo forse noi che ci occupiamo di loro, che gli diamo la vita? Senza noi sarebbero già morti... Considera che non siete dotati di intelletto e che quindi non sarete mai autosufficienti. Per fortuna, ci siamo noi che..." Papà leone sembrava sempre più soddisfatto di sé.
L'uomo tuttavia lo interruppe: "Ma chi dice queste stupidaggini?", disse, quasi urlando. "Un essere è un essere e già prima di nascere, solo per questo ha diritto alla sua vita, alla sua libertà, La libertà è unica, la tua è uguale alla mia! Dimmi: chi ti da il diritto di decidere se un altro essere deve vivere in una gabbia o no? Io sono stato creato per correre e l'uccello per volare e tu per andare a caccia, ma non di uomini liberi! Nessuno è da meno di un altro. Le vite si equivalgono, o non lo sai? Se mi chiuderai in una gabbia non sarà la mia rabbia ad essere ammirata, ma la mia disperazione! Dammi retta: torna a casa tua e fai aprire quelle gabbie. Nulla ha il valore della libertà! Vai, ora."
"Ma, papà", disse sgomento il leoncello, "non avevi detto che gli uomini erano incapaci di pensare?"    

Oh! se fosse stato vero!
Ero su un treno che viaggiava nel vuoto. Non c'erano posti a sedere tant'era affollato e io stavo nel corridoio. I passeggeri avevano una inverosimile particolarità: quantunque i loro corpi fossero del tutto normali - avevo notato anche qualche bella figura di ragazza dai fianchi rotondi - i loro volti... mamma mia, quei volti! ... non erano umani!
Erano figure di animali di ogni specie. Pensai: "E se proprio ora venisse da me una di queste bestie e tentasse di farmi del male...? A chi chiederei aiuto? Che cosa potrei fare?"
E si aggiunse subito un altro pensiero terribile: "Potevo essere anch'io uguale a loro..."
Cercai di toccarmi la faccia senza darlo a vedere, mentre il panico si impadroniva di me. Avevo assolutamente bisogno di uno specchio; dovevo scoprire la realtà. Intanto non potevo.
Piano piano mi persuasi che non era poi così necessario avere quello specchio; tanto più che, anche se fosse stato vero ciò che temevo, non avrei potuto cambiare nulla...
Intanto, più in là, una pantera mi sorrideva maliziosamente. Ad un tratto, proprio quando ero sul punto di intraprendere con questa una conversazione amichevole, si avvicinò un asinello e mi disse: "favorisca il biglietto, per favore ". Frugai nelle tasche e non trovai il biglietto. L'asinello infuriato disse: "Ora ti faccio vedere io, brutto animale!".
E con un calcio mi scaraventò nel vuoto.       

L'uomo aveva le ali
Prima di ogni tempo, prima di ogni storia scritta nei libri...
Sulla terra viveva l'uomo misto. Era bellissimo. Aveva grandi ali che, aperte, misuravano più di sei metri: egli poteva volare dovunque avesse voluto... Le sue ali, però, non avevano le piume. Le ali, infatti, erano fatte, sì, per volare, ma non erano come quelle degli altri pennuti.
Questa differenza suscitava nella sua anima un forte sentimento di invidia. Guardava le penne vellutate degli altri uccelli e non riusciva a darsi pace. Così, un giorno, prese la grande decisione: avrebbe rubato il desideratissimo piumaggio. Detto, fatto!
Di notte, si avvicinò piano ad un bell'uccello che dormiva immerso in un sonno profondo, e, nel buio raccolse tutte le penne che poté, se le attaccò alle ali e spiccò un alto volo.
L'oscurità, purtroppo, non nascose solo la sua malefatta. Era infatti in arrivo anche un terribile temporale e lui non se ne accorse. Sulla montagna dove il ladro stava provando fieramente le nuove ali, il vento iniziò a soffiare forte e le nuvole divennero sempre più gonfie. Ma l'uomo ora aleggiava ancora più leggero e non guardava né pensava a null'altro. Forse non ebbe neppure il tempo di rendersene conto che, per un nuovo colpo di vento, cadde a picco giù dalla montagna e andò a schiantarsi contro i rami di un albero che era posto sulla riva di un fiume.
Il potente urto spezzò le ali e le belle piume finirono nell'acqua e gli diedero i bei colori che ancora hanno i fiumi. Da allora, l'uomo non poté più volare, se non con la sua fantasia.    

Il sogno del gallo Mims
In una fattoria, insieme a vari altri animali, viveva un giovane gallo di nome Mims. Era diverso dagli altri, però, e non voleva mai fare ciò che avrebbe dovuto un gallo aggressivo e robusto come lui, un gallo, cioè, che si rispettasse.
Quello che gli piaceva era fare il gallo da combattimento; in realtà, però, si annoiava e passava i suoi giorni da solo a pensare a quanta gloria avrebbe potuto ottenere se solo ne avesse avuta la possibilità.
Il padrone della fattoria non capiva l'atteggiamento dell'animale; così, chiese consiglio ai suoi vicini. C'era chi diceva di darlo via, chi di cambiargli il cibo e chi, addirittura, voleva fare del gallo Mims un bel pollo arrosto.
Una notte, nella fattoria, Mims udì un forte rumore, poi null'altro. Allora si affacciò e vide una volpe con una gallina morta fra i denti. Com'era nella sua natura, uscì subito e in un momento fu addosso alla volpe. Un colpo di becco, un altro di speroni e la volpe fu messa in fuga.
Al mattino, il padrone, vedendo la gallina morta immaginò cosa fosse successo: sulle zampe di Mims c'erano ancora le tracce di sangue della volpe.
Mims ora era sulla bocca di tutti e tutti lo volevano.
Il padrone sentì che presto in paese ci sarebbe stata una lotta di galli. Chi avesse avuto il gallo più forte avrebbe vinto un bel mucchio di soldi. Sapendo quello che aveva fatto il suo Mims, il padrone volle partecipare alla gara. Al mattino, di buonora, si avviò in paese col suo eroe dalle lunghe penne sotto il braccio. Arrivato dov'erano gli altri puntò sulla vittoria del suo gallo una forte somma - tutti i suoi risparmi - e, addirittura, tutta la sua fattoria. Poi disse al gallo che avrebbe dovuto affrontare il confronto con un altro bell'animale: "Vai e ammazzalo", gli comandò.
Mims, che già pregustava la vittoria, non se lo fece dire due volte e si lanciò subito nel combattimento. Il suo avversario, per la verità, era un lottatore di professione: tutto nero, con una bella criniera rossa, aveva uno sguardo feroce e si mostrava sicuro di sé. I due si attaccarono duramente; fu perfino difficile, durante la lotta, distinguere il sangue di Mims da quello del suo avversario. Le penne che volavano, dell'uno e dell'altro, per effetto delle beccate e delle speronate, d'altronde, non facevano vedere un gran che, ed era ben difficile capire chi stesse vincendo.
Mims, che ancora non sapeva ammazzare, si trovò a pensare: "Quello è troppo uguale a me. Un mio pari dovrebbe combattere solo con la volpe che ammazza le galline..."
Ma proprio mentre pensava così il suo avversario con un ultimo salto gli fu sopra e con un colpo di becco gli staccò di netto la testa.
Tutti, naturalmente, applaudirono il vincitore, e nessuno si curò più del perdente né del suo padrone che ormai non era più padrone di niente.    

La pietra dei desideri
Ogni essere umano è spinto, nel corso della vita, a desiderare qualcosa. Ma, secondo voi, come sono nati i desideri? A me hanno raccontato una storia: state a sentire.
Tanto tempo fa sulla riva di un fiume sorgeva una capanna dove viveva un giovane di nome Novesimo, soprannominato Fischiettino perché gli piaceva tanto fischiare. Come si è potuto capire, era un giovane allegro e gli piaceva andare a caccia e a pesca. Ma ciò che gli piaceva di più, la sua vera passione, era costruire amuleti.
Un giorno, mentre Novesimo era a pesca al fiume, naturalmente fischiettando, il suo sguardo si posò su una pietra, non molto grande, liscia che soltanto a guardarla si provava piacere, ma di forma assai strana: talmente strana da non potersi descrivere.
Il ragazzo, immerse la mano nell'acqua e raccolse la pietra pensando di farne un ciondolo.
Ritornato alla capanna, posò la pietra in un angolino vicino a degli utensili. Passarono giorni prima che potesse lavorarla.
Un mattino, Fischiettino, che era, come abbiamo visto, anche cacciatore, andò nel bosco e uccise un grosso orso: con la pelle dell'animale avrebbe ricavato un nuovo pavimento per la sua capanna. Ma quando si accinse al lavoro si accorse che la pelle dell'orso era più grande di quanto avesse immaginato. Si mise allora a riflettere per trovare una soluzione: gli dispiaceva infatti tagliare quella bella pelle... ma cosa poteva fare?
Quasi senza accorgersene, mentre pensava, si ritrovò a giocare con la pietra e, ad alta voce, disse: "Mi ci vorrebbe una capanna più grande, ma per costruirla occorrono giorni e giorni... e io non ho tempo!"
Aveva appena finito di parlare che la capanna divenne come l'aveva immaginata.
Dapprima, non riuscì a capire. Credette che fosse stato lo spirito dell'orso: evidentemente, per non veder tagliata la sua pelle l'orso aveva fatto ingrandire la capanna. Era comunque difficile credere a ciò che gli era capitato. Fischiettino sistemò comunque la pelle nella capanna e si sedette di nuovo a riflettere. Mentre cercava di darsi una spiegazione cominciò, quasi senza accorgersene, a lavorare la pietra per farne un pendaglio da collana: ne modificò la fattura e la pietra divenne un amuleto. Lui, tutto soddisfatto, mise al collo l'amuleto e non ci pensò più.
Qualche tempo dopo, un pomeriggio, Novesimo se ne andò a pesca sul fiume: doveva pensare alle provviste per l'inverno. Ma il pesce sembrava essere sparito; non c'era verso di trovarne uno. Ancora una volta, per puro caso, il giovane toccò l'amuleto che aveva al collo e disse ad alta voce: "Mi servirebbe pescare una buona quantità di cibo per superare l'inverno, e devo farlo ora: fra un po' qui sarà tutto ghiacciato e di certo non potrò più pescare!".
Ancora una volta, aveva appena finito di parlare che una gran frotta di pesci si affollò fra le sue braccia, quasi che le sue stesse mani portassero chissà quale prelibata esca! "Che fortuna!" esclamò sorridendo. Tornando alla capanna rimuginò a lungo: ma, per quanto pensasse, non riusciva a trovare una spiegazione a quello che di strano e di misterioso gli stava accadendo. Poi di colpo ricordò ciò che aveva detto a proposito della capanna prima che divenisse più grande; e gli venne in mente anche quello che aveva detto al fiume. Si ricordò di aver avuto in mano qualcosa, la pietra dalla strana forma, e volle fare una prova. Chiuse gli occhi, afferrò l'amuleto che aveva al collo e disse ad alta voce: "Come vorrei del pane caldo!" Aprì gli occhi: davanti a lui era del soffice pane caldo! Finalmente aveva capito: aveva trovato la pietra dei desideri!
Il ragazzo fu felice. Pensò che ora avrebbe potuto avere tutto con estrema facilità e sentì il bisogno di comunicare a qualcuno la sua gioia. Che dico?, la sua euforia. Così, decise di recarsi al villaggio dove c'era suo nonno, un vecchietto saggio dalla lunga barba bianca e dalla ancora più lunga pipa di terracotta sempre accesa. Vi si recò dunque e gli raccontò tutto. Il vecchio ascoltò attentamente tirando ampi sbuffi di fumo dalla sua pipa, poi, tolta per un attimo la pipa dalla foresta della barba bianca, disse con aria preoccupata: "Ascolta b...bene quello che sto per dirti. Quella pietra non è m...magica come credi tu...", e riprese la pipa. Poi aggiunse: "Quella è solo la pietra dei desideri, che ti porterà a volere sempre di più...Ogni volta che avrai avuto una nuova cosa subito ne vorrai un'altra e ancora un'altra... M...ma non sarai mai f...felice come sei stato finora. C..ci sono cose che quella pietra non può darti. T...ti porterà presto alla insoddisfazione. F...finirai per avere qualcosa che sarà anche la fine della tua vita". Stette un poco in silenzio, tirando ancora dalla sua pipa, poi continuò:"D...dammi ascolto. Vai al fiume, trova qualche punto in cui sia più profondo e getta via la pietra..:" Poi tacque.
" Ma come si fa a buttare via un simile tesoro?" Il buon vecchio fece un profondo sospiro e riprese: "M...mi chiedo come posso fare a s...spiegarti che quello che tu credi un tesoro sarà una terri...terribile maledizione per te e probabilmente anche per altri..." Divenne ancora più pensoso. Poi disse: "D...devo ammettere che non si possono dare consigli a chi è così g...giovane ed essere ascoltato. I c...consigli sono il frutto dell'esperienza, ma l'esperienza è così personale, così necessaria! Ascolta almeno te stesso, ma ricordati: se v...vorrai (fece un colpetto di tosse) diventare veramente saggio dovrai tenere conto anche dei consigli di altri. Io credo di averti detto tutto ciò che poteva esserti utile: adesso tocca a te. Vai al fiume e pensaci!" A questo punto tacque definitivamente. Prese dal camino una scatola di fiammiferi - quelli di una volta - riaccese la pipa che si era spenta e si rimise tranquillamente a fumare. Neanche si preoccupò di salutare il ragazzo che tutto confuso lo baciò e uscì.
Il ragazzo per strada pensò un poco alla stranezza dei discorsi che aveva udito, poi si distrasse con le bellezze della campagna che godeva dei mille colori dell'autunno. Giunto alla capanna, del tutto dimentico delle sagge parole del nonno, iniziò ad esprimere ogni sorta di desiderio.
I suoi desideri, sempre soddisfatti, ora erano sempre più grandi. E lui, senza accorgersene, stava cambiando. Il suo sguardo era diverso. Egli non andava più a caccia e a pesca, non godeva più del fresco della primavera, né dei caldi colori dell'estate. Era per giunta diventato pigro e la sua allegria che veniva dal suo accordo con la natura era scomparsa...
Un giorno disse: "Voglio dei cavalli, uno per ogni colore. Eppoi non voglio che si bagnino con la pioggia. Dunque, voglio anche una stalla!" Naturalmente, apparvero sia i cavalli sia la stalla. Poi pensò che quando il fiume si fosse ghiacciato non avrebbe potuto abbeverarvi i cavalli e così chiese anche un raggio di sole che stazionasse costantemente sul fiume. Ottenne anche questo.
Spesso si recava al villaggio, ma qui nessuno si curava della sua presenza. Il nonno intanto era morto. Lui, paradossalmente, si sentiva solo.
Una notte, mentre se ne stava nella sua capanna e pensava a che cosa avrebbe potuto ancora chiedere disse a sé stesso: "Sono stufo di vivere in questa capanna: Voglio un grande palazzo come quello dei re, con un trono tutto d'oro incastonato di pietre preziose" Strinse ancora la pietra che aveva al collo e il gioco fu fatto.
Ma non ne fu contento. Si sentiva sempre più triste ed annoiato. Sedette sul trono d'oro e di pietre preziose e mormorò: "Forse, se riuscissi a fare qualcosa di straordinario, mi divertirei e la gente del villaggio mi noterebbe: potrebbero anche proclamarmi loro re. Ma penso che dovrei proprio sbalordirli. Non mi sarà difficile..." Impugnò quindi la pietra e disse, quasi gridando: "Voglio diventare tanto grande da poter stare con un piede solo sull'intero mondo e ridurre le pietre in polvere!" Un attimo dopo il ragazzo toccò la luna ma... cadde dal mondo! La pietra che stringeva in mano era diventata polvere ed aveva finito con il cadere come una pioggia sul mondo penetrando in ogni uomo...
Al fiume tornò tutto com'era: nel mondo, però, erano entrati i desideri.       

NaPicCOla
Chiuso in un cassetto c'era un semplice foglio di carta bianca che sperava di avere, un giorno, un ruolo importante. Sapeva che fin quando restava chiuso in quel cassetto la sua esistenza sarebbe stata vuota e priva di utilità. Così... sperava!
Il giorno venne. Il cassetto fu aperto da un bambino che prese il foglio e vi scrisse "Napiccola". Chissà cosa significava per lui... Dopo qualche minuto il foglio venne trasformato... in un cappello!
Il foglio-cappello si rallegrò: anche se non era proprio come aveva tanto a lungo sognato, ora aveva una storia. Ma il gioco durò poco: il cappello fu presto abbandonato per strada.
Non potete immaginare la tristezza che provò quella carta... ma... passò un fruttivendolo, raccolse il foglio gualcito e lo ritrasformò in uno di quei corni di carta - un coppetto - che servono a contenere i frutti. E foglio-cappello-coppetto tornò ad essere allegro: il fruttivendolo lo usò per mettervi infatti della frutta, che, guarda caso, era stata acquistata dalla mamma di quello stesso bambino.
Ma anche questo nuovo compito non durò a lungo. Presto, finito nelle mani del bimbo, l'antico foglio diventò una barchetta e la storia si ripeté...
Foglio-cappello-coppetto-barchetta finì col trovarsi abbandonato sul davanzale di una finestra... Ora però non era triste. Aveva capito che ogni sua trasformazione non era servita ad altro che a far continuare la sua storia...
Così, mentre pensava a quello che aveva finora vissuto, fu trasformato ancora una volta: dal vento, adesso, che lo portò a volare su tutta la città, finché non giunse su un prato e fu adagiato nell'erba. Lì, proprio sull'erba, accanto a lui, era seduta Fantasia: stava scrivendo una favola, ma aveva finita la carta. Lui ebbe appena il tempo di accorgersene che Lei, guardatasi intorno, lo vide e lo raccolse. Così, foglio-cappello-coppetto-barchetta-aereoplano, si rese conto che sarebbe stato usato di nuovo.. Ma, stiracchiata la carta, Fantasia vide che c'era scritto "Napiccola" e sorrise. Continuò comunque la sua favola su quel foglio. Ci pensò, però, e, visto che stava scrivendo una favola, prese la sua grande decisione. Diede alla sua favola come titolo la parola che aveva letto e che non aveva potuto capire. Così la sua favola si chiamò "Napiccola".
Se vi capita in un libro la riconoscerete certamente: è la favola di un foglio e di un bambino.      

La penna
Scrivevo una favola per bambini facendo parlare gli animali e le cose come se fossero persone. L'argomento era quello della limitata utilità che le cose hanno nel tempo. Un foglio, per esempio, lo si scrive, lo si rilegge e, se non ci piace ciò che abbiamo - pur faticosamente - scritto, lo buttiamo in un cestino: dimenticato per sempre. Fin qui il discorso sembra filare, ma quel foglio gettato resta senza una storia.
Pensate se capitasse a uno di noi, una simile sorte: sarebbe di sicuro una tragedia...
Ascoltate. Una volta, era sera inoltrata, mi trovavo immerso in certi pensieri che, quasi senza che me ne accorgessi, mi erano balenati dentro. Decisi di lasciare per un poco il lavoro. Per distogliermi, poggiai la penna su uno dei fogli che avevo davanti e... vidi una cosa davvero incredibile: la mia penna scriveva da sola. So bene che quello che sto dicendo non potrà mai essere preso come verità, ma piano piano sul foglio s'era formato veramente uno scritto!
Lessi qualche riga. Era uno scritto rivolto a me: mi si incolpava di essere un po' troppo superficiale con le cose che mi circondano. Pensai che la penna potesse aver ragione e, per un po', lasciai che continuasse a scrivere.
"Chi credi di essere?", continuò infatti a scrivere la penna. "E' vero che sono solo una penna, ma non sono certo da meno di te. Tu usi me, ma c'è chi usa te! Io sono nata per scrivere; quando il mio inchiostro sarà finito sarò messa da parte, se non gettata via, è vero... Ma credi che la tua fine sarà diversa dalla mia? Che sarà più importante? Di me resteranno gli scritti del mio inchiostro! E potranno essere letti ancora per molto tempo; ma di te cosa resterà? Un ricordo, destinato a svanire! Come puoi vedere, dunque, siamo pari: anche se sei convinto che sia io l'oggetto da usare, non puoi sapere se non sono invece io ad usare te. "
Compresi che aveva ragione: le cose non sono loro, ma io. E, francamente, da allora ne ebbi più rispetto.      

La nuvola
E fu così che divenne amica mia.
Passeggiavo su per una collina; trascinavo faticosamente il mio sacco di noia e, a mano a mano che procedevo, questo diventava sempre più pesante. Era una giornata bellissima: il sole splendeva su tutte le cose, vestendole di una bellezza non sempre del tutto meritata. A un certo punto mi sedetti per riposare un po', lasciandomi lentamente quasi assopire da pensieri di ogni sorta.
Tutto ad un tratto il sole fu coperto da una nuvola. Istintivamente alzai lo sguardo e tra me e me mormorai: "perché mai quella dannata nuvola avrà coperto il sole?" Avevo appena terminato la domanda che sentii una vocina che diceva: "Ehi! Che brutto modo di rivolgere la parola. Sono offesa! Ma dove hai imparato le buone maniere?"
"Dove le hai imparate tu!", fui trascinato a ribattere, irritato dalla vocina che mi aveva sorpreso.
"Impossibile! " continuò la vocina "...altrimenti saresti stato più gentile, con me:"
Mi venne da ridere, ma mi trattenni. Poi, col tono di chi vuol prendersi gioco del suo interlocutore, esclamai: "aspettavo proprio te, per imparare qualcosa."
"Sarebbe stata una buona idea. Sappi che chi rispetta viene rispettato... Ma...perché dobbiamo attaccar briga con un così bel tempo? Mette una tale allegria addosso che... A te no?"
"Veramente", risposi " sei stata tu a disturbare me. E poi, non so davvero da dove viene la tua presunzione d'insegnarmi certe cose: come puoi farlo se mi hai appena visto?"
"Ascolta, per piacere."
"Ti ascolto" risposi, facendo l'atto di riverirla."
"Bravo! Ecco...volevo spiegarti perché ti ho disturbato.E' che... non è stata colpa mia: stavo schiacciando un pisolino lasciandomi cullare dal dolce venticello e... Scusami!"
"Sei scusata, ma... perché ora non ti sposti?"
"Si, ma prima vorrei farti una proposta."
"Che proposta?"
"Volevo proporti una passeggiata. Se fossi in te non esiterei..."
Devo confessare che rimasi perplesso. Non riuscivo a capire quella proposta. Ma mi convinsi pensando che talvolta può esser meglio non capire e che non bisogna far prevalere sempre la ragione. Altrimenti si resta legati a cose che non sono vere ma solo costruite dai nostri pensieri.
Adesso, inoltre, quella vocina che mi aveva dato ai nervi cominciava a piacermi. Lasciai perdere quindi il mio sacco di noia e accettai. Naturalmente, con la solita tranquilla ironia la nuvola mi disse: "Ne hai impiegato di tempo per deciderti... però alla fine..." Scese, però, dove stavo io e continuò con dolcezza: "Per la prima volta in vita tua lasciati portare. Vieni. Salta sulla mia groppa.
Feci quello che mi diceva e cominciammo a viaggiare. Facemmo quattro, cinque, sei volte il giro del mondo: io non mi annoiavo, anzi! Passavo le mie giornate guardando tante meraviglie e parlando con la mia compagna quasi ogni momento...
Uno di quei giorni, però, vedemmo avvicinarsi un temporale vero. La nuvola, con voce assai triste, mi disse: "Amico mio, devo lasciarti. Devo seguire il corso della mia natura."
"Quale natura?"
"Quella di tutto e di tutti."
"Ma io non voglio lasciarti. Dimmi: non c'è un modo di restare insieme?"
"Si... un modo ci sarebbe!"
"E quale?"
"Quello di spogliarti del tuo corpo e diventare come me, acqua... Solo che così andresti contro la tua natura, e se un giorno..."
Non esitai. Mi spogliai immediatamente del corpo e insieme cademmo nel mare . il grande, il vero regno della libertà.
Ero diventato acqua, dunque. Mi ero liberato di quel corpo che mi aveva tenuto prigioniero così a lungo quasi senza che me ne accorgessi. Là, nel mare, era tutto così semplice; ero veramente libero, libero come non si può spiegare. Ma quante sono le cose che non si spiegano?
Spesso, l'insieme delle goccioline in cui la nuvola si era trasformata mi chiedeva: "sei felice?" Lo ero più che mai e lo dicevo. Mi ero spogliato solo del mio corpo, d'altronde. La mia anima era rimasta la stessa, naturalmente, ed io continuavo ad avere tutti i desideri e i bisogni che avevo a lungo voluto ignorare e che erano tuttavia parte di me.
"Dunque sei contento?" continuava a chiedermi la mia amica, premurosamente. Ed io le rispondevo come al solito: "Si, certo."
Lei però mi domandava così spesso perché aveva capito. Non so come, ma aveva capito. Sapeva. E riformulava la domanda con tono solo un poco più severo: "sei felice?"
"Certo, perché non dovrei?", risposi una volta, e nella mia voce comparve un tono di rimpianto....
"Non è vero quello che dici. Ti sei liberato di alcune cose per immergerti in altre che non ti appartengono. E adesso... Io te lo avevo detto che non potevi andare contro la tua natura... Perché non hai voluto ascoltarmi? Ora sei prigioniero della stessa libertà che hai voluto tu... Vieni con me, cerchiamo di rimediare: tu non appartieni a questa vita..."
Mi portò in superficie. Il calore del sole ci fece evaporare...
Ritrovai il mio corpo: accanto, giaceva ancora il mio sacco di noia. Rientrai nel me di prima e diedi un calcio al sacco che rotolò giù per la collina. Guardai poi la nuvola e dissi: "E' stato bello. Scusami per come ti ho trattata quando ci siamo conosciuti. Non sapevo com'eri..."
Lei sorrise e poi disse: "Sai, le cose si fanno proprio perché non si conoscono. Se non fosse così, che senso avrebbe vivere? Eppoi, non era tutta colpa tua. C'era anche quel sacco che ti appesantiva tutta l'esistenza. Ora la tua vita sarà migliore, vedrai... Ora però devo proprio lasciarti. E' stato bello anche per me..."
E scomparve. Era proprio una nuvola!     

Lettera alla fantasia
Cara Fantasia,
sai, in questo mondo le cose non vanno affatto bene. Tutti, bambini compresi, hanno smesso di sognare. Figurati: non si crede né a Babbo Natale, né alla Befana; non si raccontano più favole o storie... Addirittura, chi ci prova è considerato pazzo. La televisione, che doveva essere una delle più importanti invenzioni dell'uomo, ha tolto la parola che dava calore e colore alle case e, per di più, in ogni momento del giorno e della notte trasmette immagini di guerre e di violenze. Anche la Speranza ha dovuto cedere il posto alla Disperazione. Ormai qui si obbedisce solo a sua maestà il Denaro. Non ci sono più poeti, né conquistatori; gli esseri umani si vergognano di esprimere i loro sentimenti, o meglio: esprimerli è diventato un mestiere come tanti... Tu che ne dici?
Il punto, secondo me, sai qual è? Che tutti sono troppo malati di realtà! Quindi, appena puoi, torna a trovarci.   

Il paese di Luna Park
Tanto, tanto tempo fa, vivevo in un paese assai bello. In quel luogo, le case avevano tetti rossi e spioventi e il sole non doveva tramontare per lasciar posto alla luna: potevano brillare insieme.
In quel paese regnava una regola: chi ne fosse uscito non avrebbe potuto più farvi ritorno.
E' da sempre risaputo che ogni proibizione racchiude un fascino singolare, al quale non si può resistere. Così fui preso anch'io dalle nubi della curiosità e volli uscire
dal mio paese per conoscere nuove cose.
Feci i miei bagagli e andai via. Fuori, conobbi l'indifferenza, il disimpegno, l'odio. Queste cose non mi piacquero e, preso dalla nostalgia per il paese che avevo lasciato, volli fare il tentativo di ritornarvi. Presto fui alle sue porte e bussai. Ma non mi si aprì: la regola era severa. Non mi restava che tornare a vagabondare...
Era ormai notte, le stelle brillavano lassù.
Mi stesi su un prato, chiusi gli occhi e... vidi il paese di Luna Park.       

Lo scrigno
Chi di voi, da bambino, non ha posseduto uno scrigno? Il piccolo forziere che racchiudeva, come tesori, sogni quasi reali. Il vostro piccolo forziere lo aprivate ogni volta che desideravate scorrazzare nei ricordi più fantasiosi: il vostro scrigno era là e vi aspettava, chiamandovi, talvolta, e invogliandovi con i suoi riflessi a gettarvi nel suo mondo segreto; segreto, probabilmente, anche ai vostri stessi occhi.
Quei gioielli della vostra fantasia, troppo a lungo trascurati, acquistavano, ogni volta che lo scrigno si apriva, una lucentezza nuova.
Ma è cosa saputa: il tempo non ha rispetto di niente e quei sogni così preziosi venivano comunque logorati dalla realtà, messi da parte e dimenticati.
Vi confesserò un piccolo peccato: in realtà io non ho mai posseduto uno scrigno. Voi vi chiederete allora perché e con quale diritto mi azzardo a toccare questo argomento; in tutta verità vi dico che lo scrigno in me si è trasformato: non è mai stato un oggetto esterno, distaccato da me. E' stato, e resta, la mia sola voglia di sognare.
Capirete quindi che posso ritenermi in regola per parlare di scrigni: anche perché penso che anche in molti di voi il vostro scrigno di un tempo si sia fuso con la vostra stessa fantasia, quantunque spesso la realtà abbia logorati, messi da parte, fatto dimenticare i sogni che vi erano contenuti.
Ciò che voglio fare io è farvi aprire il mio scrigno per curiosarvi un po': chissà, fra i gioielli della mia fantasia, qualcuno non somigli a qualcuno dei vostri.


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