Poesie di Roberta Mella


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Non lasciarmi in giro
1 Il mio pensiero a te…

Sbriciolo il pane sopra il mio davanzale,

aspetto il passero
dietro ai vetri,
il suo frullo d’ali.

Sbriciolo me stessa
aspetto te.
Guardo dietro ai vetri
se ti vedo arrivare. 

Ho compiuto il periodico e fatidico
pellegrinaggio nel mito della mia persona:
la stagione è propizia
anche l’ora lo è stata.

Tanto varrebbe però
puntarsi un blak & deker in mezzo al petto
e trapanarsi dentro.

Gli occhi poi
ho dovuto afferrarli con le mani
per scagliarli nei luoghi da esser rivisti,
perché loro non se ne davano per inteso.

Allora invece andavo cieca,
gli altri sensi attenti.
Ho detto:- Adesso guardo avanti
e vi incontro tutti.
Ma poi nessuno è apparso,
nessuno c’era.

Aspettatemi,
strascichi di velo
di parole.
Adesso vengo
e vi avviluppo.

Se siete sfilacciati
Vi farò un orlo che ripara
Se avete strappi
un rammendo che protegge.

I miei baci intrecceranno una ghirlanda,
per la fronte, i pensieri e i tuoi capelli
(ala di corvo),
di fiori che mai verranno colti.

I miei baci infileranno una collana
di perle sempre chiuse dentro l’ostrica,
a ornamento della gola e la voce e la parola.

Le carezze invece saranno il mantello
lieve alle spalle e che protegge,
non tessuto mai da alcun telaio,
sempre filo soltanto ammatassato.

Le tue spalle di nidiaceo
(che ho potuto intuire bontà tua)
potrebbero aver danni se,
dopo che hai avuto avvertimento
di rovesci, calme inquiete e temporali,
il torrente improvviso
in piena rompe.

Non chiedermi parole in questa ora,
sii contenta del gesto,
del canto e dello sguardo.

Ma non desidero:
prendere,
possedere,
entrare,
non ci arrivo mai.
Ho ben altro da fare,
che mi piace di più,
che mi è più caro. 

Strappo con le unghie
quarti d’ora
al giorno.
Mastico minuti
levigando le parole tra i denti.

Ti cullo
Senza sosta.

Porto con me
Un nocciolo duro da spaccare
Un seme faticoso da incubare.
Arriverà un travaglio memorabile
Un parto da dimenticare.

Mai un mio dito
schiuderà le labbra.   

Aggrappati fortissimo,
e abbi fede
che il ramo non si spezzi,
la roccia non si sgretoli,
l’impalcatura regga.

Comunque
io qua sotto
sono immobile.   

Il mio pensiero a te
Il mio pensiero a te
Lo puoi trovare
Sulla lama del rasoio che ferisce
Il confine tra il tenero tramonto
E il profondo buio di passione.

Il mio pensiero a te
Vallo a cercare
Sulla striscia di sabbia che separa
La fragile e tremula laguna
Dall’oceano di forza e di tempesta.

Luna (che ovvietà)
rotonda,
soffice, molle,
buona:
non me ne può importare meno.

Solo se affilata,
appuntita,
infilzante,
seminascosta:
allora sì.


 
2 Orizzontali
Ti ho pensata con desiderio, ho pensato al tuo viso, alle sue espressioni, alle tue parole e alla tua voce, quando sei abbandonata all’amore.
Non l’ho fatto con intenzione, non sono cose che cerco, ma ogni tanto mi capita, e sono sorpresa io stessa. Restare presente a questi pensieri che appaiono di contrabbando nella mia mente, mi sembra possibile.
Poi, come stelle cadenti, si spengono, io non li alimento.   

Da dentro questa mia casa ti percepisco fuori, dietro ai vetri ti seguo con i sensi. Esco in giardino e resto di qua dello steccato, ti osservo attraverso i rovi delle more, che feriscono gli occhi, e ti osservo attraverso le volute del gelsomino, che per gli occhi sono sollievo.
Io non vado via, se vuoi farmi visita mi trovi, bussa, chiedi permesso, e io ti apro il cancello e poi la porta. Se vedi che le tende sono basse puoi ripassare un’altra volta?    

Se vai via non dirmelo, non passare per un saluto, io lo so: ti benedico e ti poso un bacio sulla fronte.
Tu sei sempre così bella, segreta, cupa. Quando sei tesa e triste, o stanca, e i tuoi occhi sono come pozzi insondabili e le tue rughe sono le tue ferite. Quando sei rilassata e allegra e i tuoi occhi sono stelle e la tua pelle ambra bambina. E poi mi piaci quando sei attenta e ti concentri, ascolti, pensi, rispondi. Sei bella quando porti gli orecchini e quando canti. Molto di più quando è ancora estate e sei in vacanza sei in vacanza…   

Sei la mia privata ossessione, il mio amore clandestino, la mia emozione di contrabbando.
Mi sei compagna di risvegli e crepuscoli.
Non ho smesso nemmeno un’ora d’amarti, qualunque sia stato il modo, anche nella rabbia, persino nella colpa.
Non hai mai smesso di mancarmi intensamente, ma resta, come sempre nel luogo che tu hai scelto, non voltarti neanche, non alzare lo sguardo.
Nella mente ho l’immagine della tua schiena, della nuca e dei capelli, non degli occhi. Anche se i tuoi occhi io li guardo più che posso ( faccio scorta, non basta mai), non vogliono restare.
Sconto docile questo amore separato, rendo volentieri un prezzo di silenzio, adesso che il silenzio mi da di che parlare.   

Quando tutto sarà calmo e disteso, e si alzerà un alito tiepido che sfiora appena e poi cade, non pensare ad un angelo stanco del suo anonimato. Sono io che ti tocco delicatamente i pensieri e con un dito ne seguo il contorno.
Non è più una carezza rapace, ma ancora le mani son liquide, la bocca tenera e il respiro possibile e libero. Tornano i tuoi nomi d’amore e li ritrovo intatti e in attesa. Tutto questo non manca e non è fatto per dare dolore.   

Lasciati cadere su di me, voglio sentire il tuo peso lieve contro il mio.
La scia cadere il tuo cuore su di me, che voglio sentirlo conto il mio.   

Ho un tatuaggio delle tue sembianze nella carne della mente, e un altro del tuo canto nella carne dentro il cuore.  

Sirena, di cui seguo il canto ineludibile, mi fai naufragare nel mare indaco notturno.
Non c’è stella polare che mi renda ad una rotta condivisa nella norma.    

I miei orecchini te li lascerei per sempre, ma ne ho una grande nostalgia, adesso che li hai portati tu e mi è toccato metterteli, chinandomi su di te e tenendo tra le dita quei piccoli lobi e delicati che hai, dei petali, praticamente. Una tortura, praticamente   

Vorrei profanare il tuo cuore, come la camera proibita in fondo a un tempio.
Non ho dio, ne dee, ne divinità.

Mi piacciono i tuoi denti. Vorrei provarli tutti, senza escluderne nessuno: provarne il morso e provare a toccarli con le dita.

Mentre ti preparavo il taboulè ho pensato: vorrei essere uno di questi granelli di boulgur, per finire più tardi tra le tue labbra.
Dopo la cena ho guardato tra il taboulè avanzato: il granello di boulgur che ero, era rimasto.

Quanto son belle le increspature che hai agli angoli degli occhi: quando sorridi sono simili a raggi che si sprigionano liquidi e guizzanti dai piccoli soli dorati con cui guardi.

Il mio cuore non è andato in briciole, ma certo è pieno di crepe: ogni volta che un pezzo si staccava, l’ho riattaccato al resto, come con la colla.
Ho perso qualche scheggia, qualche frammento mancherà per sempre.

Il tempo in cui, invece di dormire, resto sveglia, è tempo in più di cui dispongo per amarti.

Non tocco me stessa, se è te che vorrei toccare.   

Mi son vista da lontano, salutarti come se io restassi sopra un molo e tu partissi col piroscafo.
Poi ho visto che stavi sulla soglia dello spazio notturno che ti dedico.
Mi son detta che è come la marea: se ne va e poi torna, e non è sempre uguale nel tempo e nell’intensità. Come il respiro.

Il cassetto col tuo nome non ha serratura, è senza chiave.

Sto controllando tutti i giorni la rosa sul balcone, se stanno per aprirsi i suoi piccolissimi boccioli, perché ormai è deciso: la prima ti spetta di diritto.

Di te ho così tanto che non resterò mai più senza.

Vedi come sei presente? E’ notte, e non può essere mai tutto-o-niente. E’ molto.

Se mi allontano un poco l’orizzonte si allarga. E tu sei nel cielo a seconda delle (mie) stagioni, come le costellazioni, a oriente, a mezzogiorno, ad occidente. Il nord non è previsto.

Ti amo quando non ci sei, vuol dire che amo di te il mio pensiero? Amarti quando sei presente non mi riesce più, direi che me l’hai tolto   

La notte è tua, e tu sei la creatura dalle cui mani cola la luce che bagna i pensieri, e si fa stelle.
La sera tardi, la notte, l’alba, ti appartengono. Di giorno invece tornano i conti, in pareggio, in debito, in credito, dipende.
Il sole abbaglia e confonde ciò che vedo. Il buio mi lascia percepire quel che sento.


3 Dormono sulla collina
Dormono sulla collina
Eri così piccola
che una mano
mi sarebbe stata sufficiente
per portarti via
rapirti dentro il sogno mio.

Eri così trasparente
che una mano delle mie
sarebbe bastata
per oscurarti
dentro il buio mio.

Niente di me
sarebbe bastato
per frantumarti
in qualche tuo angolo invisibile.

La vite senza fine gira,
penetra,
avanza.

Si apre la via
nel tessuto interiore

Scava un orifizio
in cui precipitare
il dolore terroso,
denso fango opaco.

I trucioli di risulta
volano d’attorno
e cadono inutili,
carne senza respiro

Una volta
e sola
avrei voluto
farti tremare i polsi
come tu a me
tutte le volte

Solo una volta
avrei voluto
vederti
le palpebre abbassate

I tuoi polsi invece,
ancorché sottili,
sono di marmo ambrato
levigati,
immobili.
Le palpebre,
spesse,
sontuoso velluto,
sipario sempre aperto

Le vostre dita intruse
nello spazio tra i miei seni
premono e dilatano la carne,
come se fosse lattice di gomma,
e anche lo sterno, sotto,
è gommoso e cede.

Le vostre dita inseriscono a forza
e prelevano a piacere
e lasciano il labbro che hanno aperto
livido e contuso.

Senza toccarmi invece
le dita tue gentili
mettono ordine,
riparano lo sfregio.

Io mi consegno
tutte le volte a te,
mi deposito
arrendevole
nelle tue mani.

E tu tutte le volte
mi restituisci un mondo
innocente
perdonato
casto.

Sino al prossimo serpente
della conoscenza:
arriverà l’arcangelo
con la sua spada fatta di fuoco?

È colato il catrame
si è raffreddato
in una lastra liscia

Ha inglobato
detriti di piacere
frammenti di bellezza
cocci di ceramica estiva.

Ora affiorano,
relitti scarni,
gobbe deformi,
affogati dentro il nero
paralizzati
con un battito
ancora presente

Scandalizzano la compattezza
della bonaccia ottusa
di questa strada
asfaltata di spavento

Tu potresti afferrarmi
e tarpare il volo senza ali
dalla cornice di cemento.
Sotto di essa è il fiume,
in riva addirittura (pensa!),
le betulle.
Le luci specchiano
richiami nell’acqua: o son le foglie
ad essere liquide di notte?

Trattienimi qui,
scava una buca,
conficcami nel suolo,
ricopri le radici
con della terra soffice
e poi calpesta intorno
coi tuoi piccoli piedi,
che io non possa andare.

Ho imprigionato le parole
in una torre
di guardia ho messo
il mio angelo custode,
che qualcosa alfine abbia da fare!

Le parole
non vedono la luce
delle stelle tue da molto tempo
i muri sono grevi
le cortine spesse alle finestre
e il fossato attorno fondo

Soltanto con lo specchio
invio messaggi
quando il sole è alto
ma sono deboli abbagli
riflessi che non possono dar fuoco

Non verrà lo sgominatore di draghi
a dar l’assalto al silenzio nella torre
infatti non un sauro, ma un angelo povero
sta di sentinella.

Cosa ne faremo
di questo fascio
di steli nudi
che stringiamo
tra le nostre braccia?
Non certo lo offriremo
in dono
al nostro amore.
Ad esso,
solo
dedichiamo viole.

Cosa ne faremo
di questo fascio
di lacrime
che portiamo
in mezzo agli occhi?
Non possiamo portarlo
da asciugare
al nostro amore.
Ad esso,
solo
dedichiamo il riso.

Cosa ne faremo
di questo fascio
di silenzio
che portiamo
in bocca?
Lo regaliamo
oggi
all’amore nostro.
Perché infatti
oggi,
non abbiamo il canto.

Mi piace guardare le aurore dalla finestra
quando la cucina è ancora fredda e in ombra.

Quella di oggi mi ha sciolto tutti i nodi stretti
che da diverse notti andavo accantonando.

Io sono un groviglio infatti
di spessa lana dura,
inutilizzabile senza che una mano
paziente ne districhi il grumo.

Vieni insieme a me
presso questo spigolo di muro,
la regale vigna sopra le nostre teste
la regale luna sopra la casa di dolore.
Vieni a guardare
le luci fiocamente rumorose
sotto di noi:
le vediamo respirare in palpiti,
ne riconosciamo la topografia mentale.
Qui è più freddo,
l’atmosfera fine
Trema la città
mentre vive,
sotto il declivio
che ci tiene al bordo.

La Madre mi si nega
il Padre muore

Non c’è più norma
non più tenerezza

E’ sceso il buio freddo
vuoto esteso

Son fuori da ogni sistema
senza gravità che mi trattenga

Non mi fondo
non mi regolo

Scompare il Giusto
il Bene non mi basta.

E’ partita la mia bambina
col suo carro trainato dai delfini
E’ andata via
e con sè ha portato:
argento dei capelli
stelle degli occhi
rose tea delle guance
avorio delle mani,
ma cedevole nel braccio.
Ha preparato un involto
legato strettamente
da cui è sfuggita
un po’ di sabbia fine
che un alito d’aria
subito ha disperso
I granelli sono entrati
in tutte le mie fenditure:
mi fanno lacrimare il ciglio
scricchiolano tra i denti
e impastano la bocca.
La mia bambina è andata via
senza voltarsi
mostrando la sua nuca fine.
Faccia buon viaggio
Siano i suoi delfini docili destrieri
E che sia benedetta là dove è diretta

Ditemi dunque dove si trova
l’altare sopra cui posare
tutto questo sacrificio,
ai piedi del quale offrire
questa ostinata devozione.

Qualcuno parli e dica
dove si trova il tempio
e io ci andrò,
sia esso al fondo di un abisso
o su una vetta,
sia esso in mezzo alla tempesta
o in un deserto.

Immolerò sull’ara
in mezzo al fuoco,
insieme ai fiori
insieme ai versi e alle parole
insieme ai canti,
questa fatica troppo lunga.

La dov’è andata,
la mia bambina è morta.
Devo portare un abito per onorarla
e non so quale.

Ha le stelle degli occhi
accese contro il cielo,
le braccia abbandonate ai fianchi,
la pelle ora di madreperla.

Le sue spalle,
sorgente della tenerezza,
sono ora inaridite,
i capelli si attaccano
alla bocca schiusa.

Lasciatela così come si trova:
quando sarò là
le intreccerò io
le dita sopra il petto,
intorno al rosario di quarzo
delle unghie perfette.

Lasciatela sola,
le chiuderò io gli occhi
coi miei baci.


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