Racconti di Roberta Mella
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Charis E’ finito, il tempo è finito. Dammi quel benedetto e sospirato colpo di grazia, ché ferita, ma viva, non ci posso più stare. Spara, ti prego, col tuo fucile, l’avrai, no, da qualche parte? Non dirmi "devi uscire dalla trappola in cui sei caduta", e pazienza se non l’avevi tesa per me, o se proprio non l’avevi tesa e basta e me la sono tesa da sola. Per di più mezza morta, come sono, da dove vuoi che esca? E non dirmi "è normale, devi capire, non drammatizzare, impara a restarci dentro", non ti preoccupare, vieni, qui, sporgiti un poco sull’orlo di questa fossa (attenzione, non vorrei mai tu ci finissi dentro) e spara, ti prego: se hai un mitra, tanto meglio, puoi sparare una raffica. Non so se ce l’hai, ti ricordi quando lo si vagheggiava, da ragazze? Poi forse da morta, uscirò. Uscirà questa stupida anima, sempre che esista (dubbi ne abbiamo, anzi anche qualche certezza), con l’aria stranita che chiede: "ma che cazzo sta succedendo, cos’è 'sto casino?" (fine settimana con l’Happy Family, solito piombo fuso, che poi cola anche negli interstizi feriali) Sono qui dentro, ormai paralizzata dalle lesioni. Ogni tanto ti faccio un segno con un battito di ciglia. Quando non ne posso più della posizione che tengo da giorni, e le piaghe sotto di me sono un tutt’uno col resto, e ho bisogno di essere spostata di un millimetro. Sto diventando anche muta, se no userei la voce di più: ad esempio per cantare canzoni di nostalgia slabbrata da qualche incertezza, quando i singulti si mischiano alle parole. Quando diventerò invisibile? Mi dispiace, non riesco a stare qua dentro, non riesco a farmelo sembrare normale. Quale norma, quale consuetudine, non le conosco. Questa è un’emergenza imprevista, non c’è intervento che serva, non ne sappiamo niente. Anche se tu fai molti sforzi, fai dei paragoni con quello che puoi. Ho bisogno di anestesia, di una cosa potente. Tipo una cosa che entra direttamente nella spina dorsale, nel midollo. Una peridurale. Perché parzialmente mi anestetizzano: il digiuno, il lavoro. Il sesso con mio marito non mi anestetizza più, mi sono assuefatta dopo poche volte che lo usavo a questo scopo. Gli psicofarmaci sono troppo faticosi, l’alcol in questa storia preferisco che sia un tabù. Qualunque sostanza proibita per legge mi fa venire da ridere ancor prima di usarla. Dormire e/o leggere non scherziamo neanche. Scrivere non è un anestetico, è sale sulle ferite, lingua che batte dove il dente duole, un cilicio neanche tanto segreto. Ma non sono anestetici efficaci neanche il digiuno e il lavoro: se non mangio sono solo un po’ meno vitale, un poco più ottusa, ma non dove serve, anzi il cervello sembra trovi più spazio, la fame allarga certe percezioni, è una specie di allucinogeno. Lavorare funziona se si fa in modo euforico, faticoso, dove si cercano stress e relazioni incessanti, peccato che ti ho lì a pochi metri, anche se so come fare ad evitarti il più possibile. Cucinare e pulire la casa (peccato non esserci abituata) mi anestetizzano come dal dentista: non provi dolore, ma senti che succede qualcosa, che ti stanno facendo addosso a qualcosa di doloroso. E peggio di tutto è che quest’amore qui, è uno spreco indicibile, è inutilizzato, ma mi ha quasi ammazzata, senza scopo di esistere. Quando sembra un minimo utile, senza dubbio non è necessario. Avrei voluto servirti a qualcosa, e oltre a non farlo, sono pure ingombrante: dove metterai la mia carcassa quando finalmente avrai sparato quel colpo che ti chiedo per carità? Spero che la mia pelliccia di lupo, almeno quella, ti possa servire, a te che sei freddolosa, e fatti una collana con i miei denti canini. Qualcosa di me avrà finalmente una scusa per toccare il tuo corpo non casualmente. Guarda che anche io vorrei un bel percorso, ben fatto, un vialetto di ghiaia, le pietre bianche sui bordi (è in un cimitero?), sereno, preciso, che porti da qualche parte. Non amo le cantonate, mi spiace. Ma anche tu, insomma, mi vieni a dire "se fossi più distaccata non staresti meglio?", ma come cazzo si fa? Certo lo fossi del tutto stare meglio del tutto. Sotto casa, insieme con quelli per la carta e la plastica, non hanno ancora messo i cassonetti per cuore e cervello (sarà uno solo o poi ne mettono due distinti?). Questo è stato il parto più ardito (e dire che di figli ne ho tre, ma due so stati cesarei): volevo riuscire a non desiderare, non volevo più tendere al possesso, volevo amarti senza soffrire per non averti. Avevo deciso che doveva bastarmi che vivi e stai al mondo, che esisti. Certo nulla mi impedisce di amarti così, senza avere niente di te, e, infatti, è quel che succede. Ma pensavo che avrei potuto adattarmi ad essere appagata della tua spigolosa esistenza, della tua essenza gentile: una eroica trovatrice cortese, avrei dovuto essere io. E’ stato un bambino morto dopo poche ore dalla nascita. Riposi in pace. Con i suoi fratellini che l’han preceduto. E coi prossimi che verranno. Anche se qui dentro è sempre più difficile concepire qualcosa, l’utero è diventato una nocciolina americana salata, buona per l’aperitivo. Altri parti non ne vedo all’orizzonte, se non tutti quei prematuri arrabbiati di esser cacciati fuori anzitempo, senza sapere a che scopo e perché sopravvivere. "Farsene una ragione", hai mai sentito un’espressione più cretina di questa? Equivale a "elaborare il lutto", almeno in qualche frangente, ma allora la ragione cosa c’entra? Io la ragione già la possiedo, ho l’età, non devo farmene una , a meno che voglia dire che quando la perdi devi fartene una nuova, ma per ora, nonostante le apparenze non l’ho ancora perduta, poi si vedrà. Lutti, al momento, non dovrei averne in giro da elaborare, almeno non più di chiunque altro: e qui non ritratta di un lutto, di una perdita. Si perde qualcosa dopo averla avuta, e questo non è il mio caso. Se ci elaboro anche sopra qualcosa, non resta più neanche quello che mi è sembrato di aver per poche ore sfiorato. Pensa che a volte ho creduto che sarebbe alla lunga rimasta una bella amicizia, un rapporto non banale, una complicità vaga, una discreta intimità, qualche ricordo insolito a fare da storia, ma qualcosa di assolutamente normale, gestibile: certo col tempo. Invece adesso ti chiedo di finirla, di farlo tu per me, che io non ci ho coraggio che basti. "No future". Cerca tu di capire, la voglia che ho di dirti un addio, per modo di dire, perché non sono affatto preparata a questo, all’atto pratico di cosa si dovrebbe trattare? Viale dei pensieri |