Gli "amichetti" del bar dello sport
Siamo sinceri, almeno per una volta: l'ennesimo scandalo del mondo del
calcio non ci ha sorpreso più di tanto. Fra tutte le discipline sportive
quella del pallone è perennemente travagliata da casi giudiziari, che
vanno dalle scommesse clandestine, al doping e ora agli arbitri prezzolati
secondo un ben preciso disegno.
Non intendo tuttavia parlare più a lungo di questo ennesimo caso di
inciviltà morale e sociale, perché in fondo del calcio mi interesso poco,
ma di un problema ben più generale del quale non ci accorgiamo o facciamo
finta di non sapere che esiste.
Mi riferisco alla mancanza di un minimo di senso etico, un fenomeno che ha
lontane radici ma in rapida, tumultuosa espansione.
Nel nostro paese molti, troppi non hanno ben preciso in mente il
significato delle parole moralità e immoralità, anzi hanno comportamenti
sempre più amorali.
Il problema non è contingente, ma è intrinseco al nostro tessuto sociale e
politico proprio dall'inizio della repubblica, con scandali, più o meno di
proporzioni rilevanti di cui facilmente ci dimentichiamo, in quanto
rapidamente superati da altre vicende di truffe e di ruberie.
Valga un esempio per tutti: la Cassa del mezzogiorno. Istituita per
risollevare economicamente il nostro meridione si è rivelata un pozzo
senza fondo in cui sono stati gettati migliaia di miliardi di lire, senza
benefici apparenti per la gente di quei posti, fatta eccezione per pochi
personaggi, tristemente noti.
E le opere inutili, cominciate, quasi ultimate o anche concluse, ma non
utilizzate?
Anche in questi casi somme ingentissime sperperate senza risultati di
utilità: sono soldi nostri gettati al vento o addirittura finiti nelle
tasche di chi certamente non ne aveva bisogno.
Ogni tanto il problema viene sollevato, c'è uno strombazzamento
giornalistico senza precedenti, la bolla sembra che stia per scoppiare e
invece lentamente si affloscia e tutto torna come prima.
Ormai appare radicato il convincimento che sia parte integrante della
nostra società il rubare alla collettività, il distrarre fondi pubblici a
proprio beneficio, insomma che delinquere in tal modo non costituisca più
reato.
Poco a poco si corre il rischio che i reati previsti dal nostro codice
penale non siano considerati più tali, perché rientranti nel comune
atteggiamento della nazione.
La magistratura fa molto per opporsi a questo stato di cose, ma molto di
più possiamo fare noi con la cultura, privilegiando appunto tutto ciò che
arricchisce culturalmente.
Privilegiamo la lettura di un buon libro, anziché andare a sgolarci in uno
stadio per sostenere la nostra squadra in un incontro il cui risultato,
magari, è stato già deciso a priori; osserviamo il mondo che ci sta
intorno, non con gli occhi di una telecamera interessata a mostrarci solo
quello che vuole lei; ritorniamo padroni di noi stessi, delle nostre
capacità di scegliere, riavviciniamoci a quei saggi insegnamenti che non
molto tempo fa venivano impartiti alla nostra infanzia.
Riscopriremo un senso etico sommerso da decine di strati di ignoranza
imposta dall'alto e solo allora avremo il coraggio di mandare a quel paese
"gli amichetti" del bar dello sport del Bel Paese.
Sentieri di guerra
L'auto si fermò dove terminava la strada militare e iniziava una pietraia
scoscesa.
Ne scesero quattro uomini; tre si guardarono all'intorno, mentre il quarto
rimase con gli occhi abbassati.
- Signori, siamo arrivati; da qui in avanti vedremo solo trincee, scavate
a forza di mani nella roccia carsica, a volte abbastanza profonde, ma
altre niente più che dei modesti avvallamenti dove era necessario restare
sempre sdraiati. Vi faccio strada.
- Grazie, vada pure avanti lei colonnello; io, il dottore e il mio povero
fratello le verremo dietro, ma mi raccomando di procedere piano. Non alza
mai gli occhi, ma chissà che con il ricordo di questi luoghi di dolore non
possa rinsavire.
Si incamminarono su per l'erta, lungo una traccia di sentiero che
procedeva tutto a curve brevi e secche, in un paesaggio quasi lunare e
totalmente arido, senza nemmeno il più piccolo filo d'erba.
Arrivarono così a un rialzo di modesta altezza e dimensione, ma
pianeggiante.
- Ecco, vedete dove siamo ora c'era il posto di pronto soccorso, una cosa
alla buona, niente più di una baracca, dove il chirurgo e i suoi
assistenti prestavano le prime cure; per i feriti lievi non c'era nessun
problema, perché bastava un leggero bendaggio e poi venivano rispediti in
prima linea. Per gli altri le cose erano diverse: se c'erano speranze di
sopravvivenza, venivano un po' rattoppati e successivamente inviati
all'ospedale vero e proprio nelle retrovie; se invece erano spacciati,
venivano sistemati fuori, distesi sulla barella, insieme agli altri che
attendevano la diagnosi del medico, e lì…lì morivano.
- Posso immaginarmi, colonnello, le scene di dolore e di disperazione, a
cui avrà forse assistito anche mio fratello.
- No, signor Fabbri, per quanto si possa sforzare non potrà mai farsi
un'idea esatta di quello che era e pure io che combattevo un po' più in là
non ho potuto provare l'angoscia della disperazione nell'attesa del
verdetto come quando mi ci sono ritrovato con il mio braccio sinistro
maciullato, con il sangue che usciva a fiotti dalla ferita e si mischiava
a quello degli altri che erano distesi vicino a me. In quei momenti si è
fortunati se si è in stato di incoscienza, altrimenti, in mezzo ai
pensieri più cupi, si avverte chiaro il gelido respiro della morte, un
soffio lieve, ma costante, che passa su quei poveri diavoli per fermarsi
sui prescelti.
- Mi vengono i brividi a sentirla dire queste cose e non vorrei mai essere
venuto se non fosse per quel tentativo che il Dr. Marra vuol fare per far
tornare in sé mio fratello. A proposito, dottore, lei che è esperto e che
conosce già il problema per averlo in cura da tanto tempo, si è accorto se
ha avuto qualche reazione?
Il Dr. Marra, luminare di psichiatria dell'Università di Padova, un uomo
che aveva evitato la tragedia della guerra perché avanti con gli anni, si
limitò a scuotere la testa.
- Andiamo avanti, verso le trincee vere e proprie che disteranno non più
di una cinquantina di metri, subito dietro quello sperone roccioso.
Ripresero il cammino e in effetti, dopo nemmeno una decina di minuti,
arrivarono a superare il costone di roccia e lì si aprì alla vista uno
scenario apocalittico. La guerra era finita da appena un anno e tutto era
rimasto come prima, con l'unica differenza che non c'erano soldati, ma i
reticolati, in più punti divelti, i cavalli di frisia più avanti se ne
stavano ancora là, come un sinistro arredo a dimostrare che i solchi nel
terreno erano stati l'opera di centinaia di uomini, che le voragini che si
aprivano ovunque erano il risultato dell'impatto dei proiettili
d'artiglieria, che le migliaia di bossoli sparsi ovunque costituivano la
prova degli altrettanti colpi sparati.
- Queste sono le nostre trincee, poi c'è un tratto semipianeggiante di un
centinaio di metri e in fondo ci sono quelle del nemico, talmente vicine
dal poter udire a volte il parlottare dei soldati austriaci, ma talmente
lontane da raggiungere quando si andava all'attacco che si aveva
l'impressione di correre fino in capo al mondo.
Il colonnello si fermò un attimo, guardò meglio il paesaggio come a farsi
tornare in mente quel che una volta c'era e ora non esisteva più, poi
riprese - Proprio alla vostra destra c'era la compagnia mitragliatrici.
Ricorderò sempre quella notte del settembre del 1917 quando fu spazzata
via in un sol colpo da un proiettile di bombarda: uno solo, senza nessun
preavviso, e quelli che stavano là non si risvegliarono più e nemmeno
riuscimmo a trovarli. Erano come svaniti nel nulla, scavammo, ma senza
risultato: di cinquanta uomini l'unico segno che rimase fu uno scarpone
insanguinato. Per ironia della sorte ci fu un superstite, che si era da
poco allontanato per raggiungermi al comando, ma che fu ugualmente
investito dallo spostamento d'aria, sbattuto di qua e di là, ma senza
danni apparentemente gravi: il tenente Mario Fabbri.
Si fermò e guardò l'uomo dagli occhi bassi - Sì, sei stato l'unico
superstite, ma da allora non sei più stato tu. Ricordi, Mario?
Non rispose, sempre chiuso in se stesso, ma si poté scorgere chiaramente
un battito di ciglia, come se all'improvviso qualche cosa fosse apparso
nella sua mente, per poi scomparire pressoché immediatamente.
- Del problema se ne sono subito accorti i medici dell'ospedale militare
che l'hanno mandato per le cure del caso alla clinica di Padova, dove
appunto lei Dr. Marra l'ha preso in consegna. Non ci sono stati
cambiamenti nel suo stato?
- No, mai. Sempre apatico, insensibile al suono delle voci, alle carezze
di una mano amica.
Il colonnello si riavviò e, sempre seguito dagli altri, superò la trincea
e cominciò a procedere in quella che, in gergo militare, viene chiamata la
terra di nessuno.
- La chiamano la terra di nessuno, ma non è così: è la terra dei tanti che
l'hanno calpestata, che, dall'una e dall'altra parte, hanno cercato di
farla propria, dissodandola con i proiettili di cannone, bagnandola con il
loro sangue, seminandola con i loro corpi.
Si gridava "Avanti, Savoia!" e si correva come impazziti, con l'angoscia
che ormai aveva vinto ogni umana resistenza e con l'unico scopo di vincere
la morte. Qua e là, in questa terra martoriata, affioravano putridi i
corpi dei caduti, mani scheletriche uscivano dal suolo quasi a volerci
ghermire.
- Mi meraviglio di sentire un militare del suo grado parlare in questo
modo e con questi toni.
- Ha ragione, signor Fabbri, perché un soldato di professione deve essere
abituato alla guerra e alla morte, ma sotto la divisa c'è sempre un essere
umano, con le sue contraddizioni, con le speranze, con le paure, che lo
differenziano dalla bestia.
All'improvviso si udì la voce del Dr. Marra - Fermatevi! Mario si è
chinato e ha trovato qualche cosa.
Il fratello e il colonnello corsero subito: Mario era in ginocchio,
stringeva nella mano qualche cosa e singhiozzava.
- Buon segno - disse il Dr. Marra - Vediamo che cosa ha trovato.
Gli prese la mano e con non poca fatica riuscì ad aprirla, scoprendo una
targhetta metallica arrugginita, ma non tanto da non poter leggere quello
che vi era impresso: Albert Kaufmann 01256344.
Il colonnello spiegò il significato di quell'oggetto: - E' una piastrina
militare di un soldato austriaco; serve a identificare meglio la vittima.
Mario rinserrò il pugno e si asciugò il volto con il bordo della manica,
si alzò e sempre a occhi bassi, senza profferir parola, si avviò lunga il
percorso donde erano venuti. Superò la trincea, il posto di pronto
soccorso, arrivò all'auto e vi salì.
Gli altri, mentre lo seguivano, si interrogavano sul suo comportamento.
Il fratello, in particolare, chiese al Dr. Marra se c'era stato
l'auspicato ritorno della coscienza.
- E' troppo presto per dirlo, ma nutro dei dubbi. Almeno avesse parlato,
avesse spiegato l'importanza per lui di quella piastrina, si fosse messo a
cercare… E invece si è girato ed è quasi corso all'auto. Signor Fabbri,
temo che Mario non ritornerà più in sé.
Il colonnello decise di intervenire - Io non mi intendo di queste cose, ma
penso che il nostro disgraziato amico abbia ormai lasciato qui da tempo il
suo cuore e la sua mente e che quell'oggetto di uno sconosciuto, ma che ha
combattuto dove c'era anche lui, rappresenti il legame materiale con
questo luogo. Posso sbagliarmi, ma invece è un inizio, è la prova
tangibile del ritrovamento della memoria. Certo che lei dottore dovrà
lavorare molto e, soprattutto, dovrà esser per lui ciò che da quella notte
gli è mancato: la fiducia nel futuro.
- Può essere, colonnello, e se sarà così faremo il possibile per farlo
tornare a vivere, lavorando sulla sua memoria e facendogli accettare una
realtà che è già passata, un brutto sogno da cui dovremo risvegliarlo.
Arrivarono all'auto e vi salirono, il signor Fabbri e il colonnello
davanti, il Dr. Marra dietro accanto a Mario.
L'auto ripartì, sobbalzando sull'acciottolato, in una nube di polvere
impalpabile.
Mario, sempre stringendo la piastrina, appoggiò il capo sulla spalla del
medico e singhiozzando mormorò - Mai più guerre.
Per non dimenticare
Sergio Levi guardò a lungo il soffitto candido come la neve, verso il
quale saliva il fumo della sigaretta in cerchi grigiastri, sempre più
larghi mano a mano che s'allontanavano da lui, fino a spezzarsi diventando
evanescenti.
Altri colori avevano segnato la sua vita, un insieme di tinte sbiadite che
ricorrevano spesso nei suoi pensieri: il bianco sporco della neve, segnato
dal rosso opaco del sangue rappreso, il grigio di un cielo sempre
opprimente.
E poi c'erano gli odori, puzze che sembravano radicate nelle sue narici:
olezzi di corpi rivestiti di stracci, tanfi di escrementi e quel fetore,
così acre, di carne bruciata.
Guardò il tatuaggio al polso: quante volte aveva cercato di toglierlo,
usando persino una spazzola dalle setole dure! Di una cosa era ormai
certo: quel numero scritto con inchiostro indelebile era sceso sempre più
in profondità ed era ormai radicato nel suo animo.
Prese carta e penna e cominciò a scrivere.
C'è stato un tempo felice, in cui gli uomini erano uomini e la vita
scorreva tranquilla e serena, un tempo di cui la memoria ha una presenza
ormai di sensazione, senza nitidezze, perché quello che accadde dopo ha
cancellato anche il passato. Rivedo invece nitido, come fosse oggi, in
ogni suo istante un'epoca durata quasi due anni, che sembrano pochi, ma
che, per chi l'ha vissuta, sono un'eternità.
Una tradotta militare in un giorno di ottobre del 1943 arranca
sferragliando. Gente ammassata nei vagoni, senza cibo, senza acqua, in un
fetore opprimente di feci e di urina, qualcuno che, morto, si va già
decomponendo; la disperazione è palpabile, fra urla che poco a poco si
esauriscono in un rantolo.
- Dove pensi che ci portino, Sergio?
- Dicono in un campo di lavoro, forse in Germania.
- Ma perché?
- Perché siamo ebrei, ma non è questa la risposta giusta; un uomo può
forse odiare un altro uomo che conosce, ma non una razza; il motivo deve
essere ben più profondo e non può nemmeno essere il timore, visto che
siamo inermi.
- E allora cos'è?
- Adesso non lo so e forse un giorno avrò la risposta, ammesso che ci sia.
Il treno si ferma davanti a un cancello che porta un'insegna "Arbeit macht
frei" , il lavoro rende liberi, un'idiozia come mai ho avuto occasione di
leggere, perché noi eravamo liberi, liberi di vivere, di sognare, e ora
invece siamo prigionieri delle nostre paure, dei timori di un futuro senza
sogni.
All'intorno, una recinzione di reticolati, intervallata da torrette
occupate da sentinelle, e dentro tanti vecchi capannoni, tutti uguali,
grigi tanto che si confondono con il cielo.
La neve, sporca, crepita sotto i nostri passi e ovunque guardie che
urlano, cenciosi che si trascinano osservandoci con occhi vuoti: più che
in un campo di lavoro mi sembra di essere precipitato nell'inferno.
Sergio Levi si fermò un attimo, appoggiò la penna e si prese la testa fra
le mani, perché quello che aveva appena scritto non era un ricordo
riaffiorato, ma solo uno dei tanti incubi che accompagnavano le sue
giornate. Ci sono cose che non solo non si possono dimenticare, ma che
prepotenti riaffiorano in ogni momento, tanto hanno segnato la vita di un
essere umano.
Riappoggiò le mani sul tavolo, riprese la penna e tornò a scrivere.
Il lavoro? Quanto più di massacrante ci possa essere, con le guardie
sempre pronte a frustarti per un niente, quando non accade di peggio.
C'è stato un giorno che ci hanno portato a far legna in un bosco; uno
sventurato come me, un ometto quasi scheletrito, si è fermato un attimo
per raccogliere due o tre more, ma non ha fatto in tempo a portarsele alla
bocca che una guardia lo ha afferrato, l'ha sbattuto per terra e gli ha
schiacciato la testa saltandole sopra. Abbiamo guardato appena, con
l'angoscia di fare la stessa fine, e quando abbiamo terminato il lavoro
siamo tornati al campo, abbiamo lasciato in mezzo alla neve quei poveri
stracci, niente di più di un oggetto buttato via.
Ormai la morte non fa più paura, perché siamo già tutti morti.
Quelli che vegetano in questo posto non sono altro che ombre, divise
logore che rivestono un corpo vuoto di carne e di volontà.
Il tempo non esiste più e le uniche ore sono quelle degli appelli, lunghe,
interminabili, fermi in piedi sotto il sole rovente dell'estate, sotto la
pioggia fetida dell'autunno e la neve fredda dell'inverno.
Quello che più mi stupiva all'inizio era perché nessuno si ribellasse.
Atavica paura della morte? Autoconvinzione che effettivamente un giorno
saremmo stati di nuovo liberi?
Il motivo di questa sorda rassegnazione non rientrava nelle mie
comprensioni, né in quelle degli altri, ma ora so. Chi ci ha incarcerato
ci ha resi prigionieri di noi stessi, ha annullato le nostre personalità,
ci ha svuotato di ogni volontà, ci ha tolto la possibilità di sognare e di
sperare. L'ambiente, le privazioni, l'assoggettamento ci hanno ridotto a
considerare la schiavitù come un fatto completamente normale e poco a poco
il passato era come se non fosse mai esistito.
Le conversazioni fra noi sono pressoché scomparse e d'altra parte che mai
avremmo da dirci?
L'imbarbarimento è avvenuto senza che ce ne accorgessimo e il fatto che
uno di noi un giorno abbia afferrato un passerottino intirizzito e che
ancora vivo lo abbia divorato non ci ha fatto nessuna impressione, perché
i sentimenti sono stati da tempo cancellati.
Ricordo un episodio del gennaio del 1945; c'era un freddo polare e
qualcuno mi ha mormorato all'orecchio - E' morto il rabbino. Ho risposto -
Ah sì. Solo queste due sillabe, senza inflessione, senza angoscia, come se
mi avessero detto che ora era.
E quando un giorno di fine aprile del 1945 le guardie sono fuggite e sono
arrivati gli americani li ho guardati con indifferenza, ho rosicchiato le
loro zollette di cioccolata come quando mettevo sotto i denti le vecchie
carote ammuffite, non ho capito che mi era stata ridata la libertà. Loro
ci hanno guardato con sgomento e noi abbiamo rivisto dentro quelle tute
mimetiche, quegli elmetti le guardie che regolavano inesorabilmente il
nostro tempo.
Ci hanno fatto visitare dai medici e abbiamo obbedito, ma senza gioia o
timore, solo perché eravamo abituati a obbedire.
Rammento Salomon, un sopravvissuto, che mi ha detto - Non sarà una visita
per selezionarci, per decidere chi può ancora vivere?- Ha detto proprio
così, senza emozione, come se avesse parlato della cosa più naturale di
questo mondo, e io non gli ho risposto, perché ormai non m'importava più
di nulla.
Il ritorno a casa ha visto l'emozione dei parenti che non hanno vissuto
questo inferno, e non certo la mia.
C'è voluto un po' di tempo per rendermi conto che qualche cosa era
cambiato, che gli appelli omai c'erano solo nei miei sogni. Sì, sogno
anche ad occhi aperti e sempre le stesse cose: sono sempre là, vestito di
stracci, chino su me stesso.
Il tempo ha riempito la mia carne, ma quello che c'è dentro no.
La vita scorre con la stessa assenza di emozioni di allora, e una giornata
finalmente ho capito il perché della nostra condizione.
Guardavo un telegiornale e parlavano di una delle tante guerre in Africa,
di eccidi incredibili; hanno mostrato un soldato bambino che prendeva a
calci uno che aveva forse la sua età, lo picchiava e quello stava fermo,
rassegnato. Le sue colpe? Quelle di appartenere a un'altra tribù; ma in
effetti è la violenza sul più debole e che cela un essere ancor più
debole, è il desiderio del più forte di dimostrare a se stesso che lui può
tutto e gli altri niente.
Che speranza può avere l'umanità se ancora ragiona in questi termini?
La mia esistenza è ormai distrutta, lo è da quando inconsciamente ho
accettato di essere parte passiva di questo modo di intendere la vita; la
mia prigionia non è finita in quel giorno di aprile del 1945, ma è
continuata implacabile in tutti questi anni, in tutti questi incubi e in
questa realtà che un giornalista televisivo ha presentato al pubblico.
Ecco perché scrivo queste righe: per non dimenticare, affinché chi è
ancora libero dentro di sé possa non cadere in questo tragico errore.
Per me è troppo tardi; il cerchio si chiude ogni giorno di più.
Un colpo di pistola rintronò nella stanza.
Nostradamus
Apparve in paese in un freddo giorno di gennaio, infagottato in un vecchio
cappotto logoro, magro, scheletrico, la barba incolta, gli occhi
arrossati, i capelli corvini che non conoscevano da un bel po' il taglio
del barbiere.
Entrò nell'osteria e si precipitò subito a scaldarsi sedendo vicino alla
stufa a legna.
Si voltò a guardare i presenti, che lo fissavano incuriositi, e li salutò,
con un buongiorno stretto, tipico di un idioma non locale.
Il Guercio che, in un angolo stava leggendo l'Unità, sollevò gli occhi dal
giornale e gli rivolse la parola.
- E tu chi sei?
Quello si guardò intorno, quasi in preda al panico, soffocato da quegli
sguardi che lo scrutavano, e rispose, deglutendo.
- Sono Calogero Vizzini e vengo da Acitrezza, in Sicilia. Sono in cerca di
lavoro, perché da noi si muore di fame.
Al che il Guercio fece un cenno all'oste perché gli portasse un caffelatte
con un po' di pane, poi si alzò e andò a sedersi accanto al nuovo venuto.
Lasciò che consumasse la colazione, il che avvenne in un attimo, a
conferma di una fame arretrata, poi gli rivolse di nuovo la parola.
- Parlaci un po' di te. Raccontaci la tua storia, quello che sai fare, e
chissà che ti si possa trovare un lavoro.
- Che storia volete che vi racconti? Quinto di dieci figli, orfano di
madre, poiché l'undicesimo se l'è portata via con lui; la guerra, prima i
tedeschi, poi gli americani, quindi la pace, senza che sia cambiato
qualche cosa: bestia ero prima e bestia sono ora.
Ho studiato ben poco e so appena leggere e scrivere, ho solo le mie
braccia da offrire.
- Va bene, ho capito. Adesso vieni con me che ti trovo un lavoro e un
letto.
Il Guercio coltivava da anni un'amicizia con un agricoltore che, rosso non
era, ma che si teneva buoni i comunisti, sperando così di non dover
difendere un giorno la sua proprietà, e così sistemò Calogero da lui.
Il lavoro sarebbe stato quello dei campi e il letto un giaciglio preparato
alla meglio su nel granaio.
I giorni passarono, vennero la primavera e poi l'estate, e in paese si
dimenticarono del siciliano, che non aveva l'abitudine di frequentare
l'osteria.
Ricomparve, all'improvviso, una mattina dei primi d'ottobre; il volto
scavato, gli occhi allucinati, entrò nell'osteria, si guardò intorno e,
scorto il Guercio, andò subito da lui.
- Buongiorno, Calogero. Qualche problema, dormito male?
- Non è stata una notte, è stato un inferno, un incubo dietro l'altro e
sempre quello: il treno che viene da sud, che arriva al ponte sul Po,
comincia ad attraversarlo ed ecco che, in un fragore assordante, finisce
dentro l'acqua.
- Sì, è stato un incubo, perché già sono passati tre treni e nessuno s'è
bagnato.
- Forse, ma c'era nel sogno un orologio che segnava le 10,30.
Il Guercio guardò la sua vecchia cipolla - Adesso sono le 9,10.
- Non mi credete vero?
- Ma dai, non può essere che un brutto sogno, come se ne fanno ogni tanto.
Il siciliano, avvilito, tolse il disturbo e ritornò al suo lavoro.
Nell'osteria parlottarono un po' di quello strano tipo, del suo sogno
strampalato, poi tornarono agli argomenti preferiti: il calcio, la
politica e le corna.
Verso le 10 il Guercio, che doveva recarsi a Modena, uscì e andò in
stazione.
Si mise ad attendere il treno sul marciapiedi, andando su e giù, tanto per
ingannare il tempo.
Nel corso della sua svagata deambulazione finì che arrivò all'inizio del
ponte, anche per la curiosità di vedere il passaggio sul fiume del treno
che proveniva da Modena e che precedeva l'arrivo del suo di una decina di
minuti. Udì in lontananza il fischio della locomotiva e dopo un paio di
minuti questa comparve all'inizio del ponte, ma come iniziò a percorrere
la prima arcata questa si piegò e precipitò in acqua trascinando con sé la
motrice fra enormi sbuffi di vapore. Per un vero e proprio miracolo non la
seguirono nella caduta i vagoni con i passeggeri.
Inutile dire che il Guercio dovette rinunciare al suo viaggio a Modena e
anzi la linea fu impraticabile per diversi mesi.
Nella disgrazia, che avrebbe potuto avere dimensioni catastrofiche,
perirono solo il macchinista e il fuochista.
Dopo il primo attimo di sbigottimento, il Guercio si sovvenne del sogno di
Calogero, tanto che ritenne necessario raggiungerlo per raccontargli
l'accaduto.
- Ma come hai fatto a sognarti una cosa del genere?
- Non lo so; è successo e mi sono risvegliato tutto sudato e con un gran
mal di testa.
Della disgrazia e del sogno si parlò in paese a lungo, ma poi la cosa,
com'era nata, finì lì, nella convinzione generale che si fosse trattato di
una pura e semplice coincidenza.
I mesi passarono e si arrivò così al 14 luglio del 1948, una giornata
afosa che toglieva le forze, affanno tanto più avvertito dal Guercio che
nella sua officina stava lavorando una sbarra di ferro arroventata.
Benché frastornato dalla fatica e dai colpi di martello con cui cercava di
dar forma a quella materia inerte udì chiaramente una voce sguaiata che
reclamava la sua attenzione.
Si volse e vide sulla porta il siciliano, tutto tremante e con gli occhi
fuori dalle orbite.
- Che c'è?
- Ho fatto un altro sogno.
- Un altro sogno? E che hai sognato?
- Non so come dirvelo, ma voi siete la persona giusta, perché ho saputo
che state dalla parte del popolo.
- E allora?
Il siciliano divenne titubante, si guardò all'intorno, si accostò al
Guercio e gli bisbigliò - Una gran brutta cosa e ho paura a dirlo.
- Parla, insomma!
- Questa mattina il vostro capo dei capi…
- Il nostro capo dei capi?
- Sì, insomma…non ricordo come si chiama, ma il nome lo
so…è…dunque…Palmiro.
- Palmiro? Palmiro Togliatti vuoi dire?
- Sì, proprio lui. Questa mattina, dicevo, lo vogliono ammazzare.
- Non è una novità, perché Palmiro Togliatti è un personaggio scomodo, ma
potresti essere più preciso?
- In sogno l'ho visto insieme a una donna uscire da un palazzo enorme e
uno che gli si avvicinava e gli sparava.
- Sì, e magari sai anche l'orario?
- C'era il solito orologio che segnava le 11,30.
Il Guercio guardò la sua vecchia cipolla e la mostrò anche a Calogero.
- Ecco, vedi sono le 11,50 e non è successo niente; è stato solo un brutto
sogno e adesso calmati e torna al tuo lavoro.
Il siciliano se ne andò con aria sconsolata, mentre il Guercio, dato
l'orario, decise che era ora di chiudere bottega e di andare a pranzo.
Consumò alla svelta il piatto di pasta e fagioli che gli aveva preparato
la moglie, poi pensò bene che non era una brutta idea coricarsi per
un'oretta.
Si era appena appisolato quando fu svegliato da un frastuono di voci che
provenivano dalla strada; si alzò, aprì le imposte e, mezzo accecato dal
sole a picco, si sporse.
Giù c'erano il maresciallo dei carabinieri e una decina di iscritti al
partito in preda a una esaltazione tanto più incredibile data l'ora e la
calura.
- Ma che è successo?
Il maresciallo gli rivolse la parola - La prego, venga giù a calmarli,
perché vogliono dar l'assalto alla caserma per prendere le armi.
- Ma che siete tutti ammattiti! E' scoppiata la rivoluzione?
Il maresciallo, che aveva difficoltà ormai a tenere a bada i forsennati,
gli gridò con tutta la sua voce - Questa mattina hanno sparato a Togliatti!
- Madonna mia! E quando è accaduto?
- Verso le 11,30, mentre usciva da Montecitorio con Nilde Jotti; è stato
un ragazzo. Lui è ferito seriamente, ma non è in pericolo di vita. La
prego, faccia qualche cosa per calmarli.
- Adesso basta! Se continuate così, vengo giù io e facciamo i conti! In
queste situazione l'importante è mantenere la calma.
Bastarono quelle poche parole, espresse con tono imperioso, e la piccola
rivolta si sgonfiò come per incanto.
Il Guercio avrebbe voluto andare subito da Calogero, ma per telefono gli
fu comunicato che era necessaria la sua immediata presenza a Roma e
l'incontro con il veggente dovette essere necessariamente rinviato.
Partì già nel pomeriggio e non fu di ritorno che tre giorni dopo. Passò da
casa solo per un saluto rapido alla moglie e per lasciare la valigia di
cartone, poi corse a cercare il siciliano. Lo trovò nei campi, intento al
lavoro.
- E' stato tutto vero come hai raccontato tu. Ma com'è possibile?
- Lo chiedete a me? Vi rispondo che non lo so; vado a letto, m'addormento,
sogno e quando mi risveglio ho un gran mal di testa e mi ricordo tutto.
- Già…
- Non è che mi diverto, tanto che ormai ho paura ad addormentarmi.
- Forse è il caso di prendere una bella camomilla prima di coricarti.
- Proverò.
- Ciao e…non farne parola con nessuno di questa faccenda.
- A dire il vero, proprio questa mattina, ne ho parlato al padrone, al
Signor Giobatta.
- Proprio a lui dovevi parlarne?
- Mi sono raccomandato che rimanesse una cosa fra noi due.
- Appunto, è il tipo adatto a tener la bocca chiusa: a quest'ora se non lo
sanno ancora a Roma è un caso.
Lungo la strada che portava al campo si levò un polverone in rapido
avvicinamento e che ben presto avvolse entrambi. Si senti il rumore di un
motore, una porta che sbatteva e da quella nebbia emerse il maresciallo.
- Calogero Vizzini di Domenico?
- Sì, sono io, marescià.
- Seguimi, che ti devo portare in caserma.
Il Guercio si mise fra i due - Ma che ha fatto?
- Sono cose che non la riguardano e la prego di spostarsi.
Il tono era perentorio e il Guercio non poté fare a meno di tirarsi
indietro.
Calogero e il maresciallo salirono sulla camionetta e ripartirono a tutta
velocità in una nube di polvere che oscurò anche il sole.
Il Guercio si avviò alla svelta verso il paese, con la testa che gli
scoppiava, in preda ai più foschi presentimenti.
Già vedeva l'interrogatorio del povero Calogero, sospettato di essere uno
dei complici dell'attentato; gli balzavano davanti agli occhi le immagini
di oscure segrete, di bracieri da tortura pronti a essere utilizzati.
Scacciò questi pensieri dicendosi che in fondo le caratteristiche del
siciliano erano tali da non far pensare che potesse essere parte di un
complotto e che poi, in fin dei conti, l'ipotesi di un'azione organizzata
non poteva che essere osteggiata dal governo in carica, timoroso di
ulteriori gravi disordini.
A quest'idea si tranquillizzò per un istante, ma poi la sua mente sagace
gli fece intravedere un'ipotesi ancor peggiore:
se era conveniente per chi comandava dimostrare che non c'era stato un
complotto e che solo Pallante aveva deciso autonomamente di compiere il
folle gesto, la persona del siciliano avrebbe rotto le uova nel paniere e
appariva quindi evidente che la stampa e gli italiani non avrebbero dovuto
venire a conoscenza del nuovo personaggio. Si mise le mani nei capelli e
concluse che l'avrebbero fatto sparire.
Arrivato all'osteria, sapeva già che cosa doveva fare. Tramite i suoi
scagnozzi riuscì a convocare mezzo paese e di fronte a tutti raccontò la
vicenda. Fu un discorso abbastanza lungo , durante il quale non dimenticò
la sua abitudine di attribuire dei nomignoli. Tutto accaldato e con la
voce roca concluse - E perciò vi invito a venire con me alla caserma dei
Carabinieri, a circondarla di modo che nessuno possa portar via
Nostradamus.
- Nostradamus? - Gli fecero eco gli astanti.
- Ma sì, il siciliano, Calogero. Nostradamus era un santone di alcuni
secoli fa che sapeva sempre in anticipo quello che sarebbe successo. E
adesso andiamo.
Il maresciallo dei carabinieri, che era davanti al portone della caserma,
vide arrivare una folla perfettamente inquadrata, con le donne davanti e a
seguire gli uomini, una marcia compatta e solenne che ricordava il famoso
quadro di Pelliza da Volpedo. Si rifugiò all'interno e telefonò subito al
comando.
- Ci sono degli scalmanati che vogliono attaccarci. Che devo fare?
…
- Chi li comanda?
…
- Quel rosso del Guercio.
…
- Chi è il Guercio? Annibale Chiocchetti, il segretario della locale
sezione comunista.
…
- Devo essere più preciso nei termini, Signor capitano? Sì, certo, mi
scuso.
…
- Che fanno adesso? Sono davanti alla caserma, in piedi, ma fermi,
inquadrati come un reggimento.
…
- Devo sentire che vogliono, poi riferirle?
…
- Sarà fatto.
E il maresciallo riapparve sul portone.
- Che volete?
Il Guercio si fece avanti
- Vogliamo il siciliano e io voglio chiarire l'equivoco.
- Non posso e non vedo dove è l'equivoco.
- Le assicuro, Maresciallo, che quell'uomo è in grado di prevedere il
futuro.
- Mica tanto! Quando ha raccontato a Giobatta del suo sogno avrebbe dovuto
sapere che quello ne avrebbe parlato con tutti.
- Mi riferivo al sogno.
- E io no! Del suo sogno non m'importa; non sapevo nemmeno che Calogero
Vizzini fosse da queste parti fino a quando non l'ho sentito nominare
questa mattina da Giobatta.
- Mi tolga una curiosità: lei lo ha arrestato in relazione al sogno?
- No, ma che dice! Calogero Vizzini è ricercato per furti di bestiame
commessi al suo paese.
- Furti di bestiame?
- Sì, ben tre: a memoria il primo di tre galline, il secondo di un'anatra
e il terzo di due pecore.
Il Guercio sbottò a ridere come un pazzo, facendo restare allibito il
maresciallo.
- E io che credevo, che pensavo…Furti bestiame! - E giù un'altra risata.
Quando si fu calmato, mise una mano sulla spalla del maresciallo.
- Senta, non è che si può chiudere un occhio?
- No, non è possibile.
- Se c'è una multa da pagare, ci pensiamo noi.
- No, ripeto che non è possibile perché è già stato condannato in
contumacia a un anno e sei mesi di reclusione e purtroppo li dovrà
scontare.
Il Guercio allargò le braccia e ritornò alla folla, raccontò in breve il
tutto e finalmente si avviò verso casa.
Da allora trascorsero molti anni, senza che si avessero più notizie del
siciliano e anche il Guercio se n'era dimenticato.
Ormai vecchio, sopiti gli entusiasmi politici giovanili, passava buona
parte delle giornate al bar a fare una partita carte o a leggere i
quotidiani.
Fu proprio su uno di questi che notò immediatamente l'articoletto, una
sorta di pubblicità che diceva:
"Volete sapere il vostro futuro? Desiderate i numeri vincenti al lotto?
Basta rivolgersi al mago Nostradamus, veggente superiore laureato alla
Facoltà di Scienze Occulte della Sorbona - per appuntamento telefonate al
n…."
Non telefonò, ma volle sapere e quando chiese alla Telecom chi era
l'intestatario di quel numero e gli fu risposto "Calogero Vizzini",
proruppe in una risata fragorosa, come ormai da anni non gli capitava.
La croce azzurra
Conca di Plezo - 24 ottobre 1917
H. 01,00 antimeridiane
- Che trincea di merda! Come fai un passo ti impantani subito; mica come
quei signori della seconda linea, al caldo e al sicuro dentro le loro
fortificazioni di cemento armato. Ci sarà un motivo, però, se lei mi ha
svegliato, visto che c'è una calma assoluta. Sputi il rospo, tenente.
- Ha detto bene lei, capitano. C'è una calma assoluta da almeno dodici ore
e francamente non ricordo una cosa simile in tre anni che sono al fronte.
- Qualche ipotesi?
- Per me quelli stanno preparando un attacco e quando sorgerà il sole
cominceranno a martellarci con tutti i calibri.
- Può essere, ma non ho ricevuto avvisi dal comando e quindi è inutile fare
congetture. La invito, però, a raddoppiare i turni di guardia, perché le
due trincee in alcuni punti non distano più di una sessantina di metri e un
colpo di mano è sempre nell'aria.
- Sarà fatto. Mi scusi se l'ho disturbata.
- Non si preoccupi, perché ha fatto più che bene e poi, francamente, non
riuscivo a dormire, con tutti quei ratti che continuano ad andare su è giù
per il ricovero. Pensi che una notte mi sono svegliato di colpo perchè ce
n'era uno che razzolava sul cuscino!
- Per non parlare delle pulci che ci tormentano 24 ore su 24: sono peggio
di una quinta colonna.
- E' la guerra, dove non si distinguono più gli uomini dalle bestie. Ora
comunque mi ritiro e mi raccomando di tenere gli occhi bene aperti.
- Buona notte, signor capitano.
Il tenente passò la consegna alle vedette e cercò di indovinare nel buio di
una notte senza luna i confini di quella stretta valle, un vero e proprio
corridoio in cui un esercito teoricamente non sarebbe potuto passare, e in
effetti quel terreno non era stato teatro di vere e proprie battaglie, ma
al più di brevi scaramucce, azioni di disturbo senza speranza di risultati.
H. 02.00
Il silenzio della notte fu lacerato dal rombo simultaneo di migliaia di
bocche da fuoco. L'impressione era che tutto il fronte si fosse risvegliato
all'improvviso.
Il capitano corse subito, insieme al tenente, al posto di osservazione:
l'orizzonte si era illuminato come se l'alba avesse anticipato il suo
orario.
- Non capisco una cosa, tenente: il tiro dei cannoni è lungo, diretto alla
nostra seconda linea e sembra che usino piccoli calibri, giacché le
esplosioni ci arrivano come soffocate.
- E noi niente, nemmeno un colpo.
- Mi sembra di vedere davanti a noi della nebbia, che prima non c'era, e
quel che è peggio viene verso le nostre trincee, sospinta da un po' di
vento. Un po' di vento…la nebbia, ma non è possibile che ci sia questo
fenomeno atmosferico e ora che è più vicina mi sembra tanto strana, con
quel colore quasi azzurro…Gas, è gas! Mettere tutti le maschere!
E ognuno indossò quella specie di bardatura che lo faceva sembrare un
essere mostruoso e che filtrava talmente l'aria che si riusciva a
inspirarne ben poca.
- Ecco cosa preparavano, tenente. Ma adesso li sistemiamo noi; per
precauzione faccia sparare alle mitragliatrici una raffica in quella nebbia
ogni cinque secondi e comunichi al comando di preparare il tiro di
controbatteria.
Si mise quindi la maschera e attese la nube che, come una serpe malefica,
strisciava sul terreno, si infilava nelle buche scavate dalle granate,
risaliva gli avvallamenti e si avvicinava silenziosa alla trincea.
Quando arrivò al punto di vedetta avanzato la sentinella si strappò la
maschera, si dibatté come avvinta da un mostro e poi cadde in avanti
rantolando. Non passarono che una decina di secondi e comparve sul bordo
della trincea, lasciandosi cadere all'interno e avvolgendo tutto e tutti.
Ci fu chi riuscì a tenere indosso la maschera, ma senza benefici, se non
quelli di rallentare il momento della morte; i più, invece, se la tolsero,
emettendo gemiti gorgoglianti, mentre i polmoni si corrodevano, facendo
traboccare quel sangue che avrebbe dovuto ossigenarsi e che invece dilagava
nel corpo come un torrente in piena. Qualcuno cercò di fuggire, scalando
invano il bordo ripido della trincea e le sue mani si rattrappirono nel
disperato tentativo di aggrapparsi alle travi di rinforzo.
Il tenente, contorcendosi come se fosse avvolto dalle fiamme, prima di
chiudere definitivamente gli occhi riuscì a scorgere il capitano che, con
uno sforzo immane, si tirava un colpo di pistola alla tempia, unico rimedio
per porre rapidamente fine al tormento.
H. 02.45
Quattro compagnie di fanti della prima linea giacevano ormai esanimi: non
un solo superstite, non un ferito anche grave, ma unicamente una lunga fila
di morti.
Ciò nonostante cominciarono a esplodere sulle trincee i proiettili di
piccolo e medio calibro delle artiglierie di appoggio, inframmezzati dal
boato devastante dei grossi zaini di bombarda.
Quest'azione non durò più di una decina di minuti, poi nella valle ritornò
il silenzio e il nemico cominciò a muovere.
H. 02.55
Ombre scure si avvicinarono guardinghe alle nostre trincee, soldati dalla
divisa azzurra e dagli stivali neri, protetti da grosse maschere che
ricoprivano completamente il capo fino alle spalle.
Scivolarono sotto quello che restava dei cavalli di frisia, lanciarono per
sicurezza qualche granata, poi oltrepassarono, saltandola, la nostra
trincea di prima linea, tranne alcuni lasciati a ispezionarla per
sicurezza.
Le nostre artiglierie di rincalzo tacevano; le bocche da fuoco fissavano
inerti il fronte nemico, mentre ai loro piedi, accanto alle cataste di
proiettili, dormivano per sempre i loro serventi.
La stessa sorte era toccata alle batterie incavernate, dove era stato
sufficiente un solo proiettile ben piazzato per fare scempio di tutti i
soldati, alcuni dei quali, in preda ai dolori più atroci e alla
disperazione, non avevano esitato a saltare nel vuoto, sfracellandosi sulle
rocce sottostanti.
H. 11,30
- Herr General, un risultato superiore alle più rosee aspettative. Ieri a
quest'ora temevano queste difese e ora, che il gas si è disperso, stiamo
passeggiando sulla loro prima linea, su quella trincea che ci sembrava
insormontabile. E aggiungo che abbiamo avuto delle perdite irrisorie,
mentre il nemico è stato massacrato e i superstiti volgono in fuga
disordinata verso la pianura veneta, incalzati dalle nostre valorose
truppe.
- Questo è un giorno solenne per il nostro impero; dopo undici battaglie
sull'Isonzo, con le quali abbiamo contenuto la spinta offensiva degli
italiani, è finalmente giunta l'ora del riscatto.
-E che giorno!
- Dovrei essere felice, ma non lo sono; è come se questa vittoria non mi
appartenesse, come se fosse stata ottenuta a tavolino e non dopo una dura,
cruenta battaglia. Vede, colonnello Litmann, sono le nostre truppe che
avanzano, ma non sono loro che hanno sconfitto il nemico. Non è più tempo
di battaglie cavalleresche, di spade contro spade, di corpo a corpo
furibondi; siamo nell'epoca della tecnologia della morte e se noi ora
camminiamo in questa trincea del nemico è merito solo di questo nuovo gas
che hanno inventato i nostri alleati germanici: la croce azzurra o acido
cianidrico.
Li vede come sono morti: soffocati dal loro stesso sangue e non in un
combattimento fra uomini.
Temo che un giorno si inventerà qualche cosa di ancor più orribile che
annienterà ogni forma di vita senza possibilità di scampo.
- E' il progresso, Herr General.
- Sì, il progresso. Il fine giustifica i mezzi, vero? E così la cavalleria,
l'arma per eccellenza, la più nobile, è destinata a scomparire e tutto poco
a poco si risolverà in un massacro senza che nemmeno i contendenti si
possano vedere, proprio come questa notte.
- L'importante è la vittoria.
- Vero, ma non riesco a concepire anche il più grande dei successi senza
gloria.
Il cielo era sempre imbronciato e l'umido autunno contribuiva a rendere
ancora più triste lo scenario di morte nella conca.
Il vecchio generale si accese un sigaro, guardò per un'ultima volta la
desolazione che lo circondava, poi si incamminò sul percorso scosceso e
devastato, mentre truppe di rincalzo gli passavano a fianco, gridando
entusiaste - Zum Caporetto!.
Serial Killer
Prese con calma la mira, inquadrò bene l'obiettivo, poi spinse il dito.
La vittima si dibatté un attimo, poi cadde a terra rantolante.
L'uomo non tradiva nessuna emozione, o forse un senso di soddisfazione era
lasciato trapelare dai suoi occhi, niente più di un guizzo, una luce rapida
come il flash di un fotografo.
Si guardò intorno e riarmò.
Fra sé pensava e quasi si diceva "E ora la prossima. Niente di più facile.
Un lavoro semplice, ma necessario. Una bella ripulita da questa marmaglia
che ci assedia ogni giorno. Arrivano a centinaia, ma che dico, a migliaia,
e nessuno fa niente per arrestare questo flusso. Il cittadino deve
difendersi da sé, perché lo stato non se ne cura."
Un altro colpo, un'altra vittima.
"Quasi mi diverto, anche se ammetto che la soddisfazione scemerà presto,
perché per oggi il problema è risolto, ma domani…domani si ripresenterà.
E se non ci sono io che faccio qualche cosa, che do il buon esempio, tutto
passerebbe nell'indifferenza. Si lamentano, sopportano, i pecoroni, ma non
alzano un dito."
Riarmò, spinse il dito ed ecco un'altra dibattersi negli spasimi
dell'agonia.
"A volte mi domando il perché di questo lassismo, questo sopportare e non
cercare di rimediare. Sembra che tutti dicano: ci sono, altre ne
arriveranno ancora, è impossibile porvi rimedio.
Questo modo di ragionare è tipico degli smidollati, gente senza nerbo,
esseri amorfi, pronti a criticare, ma quando è il momento di agire
preferiscono ritornare nell'ombra."
Un altro colpo, un'altra vittima.
"Certo che non fa piacere sporcarsi le mani, ma prima o poi bisogna pur
farlo. Che civiltà è mai la nostra se subisce passivamente queste
quotidiane aggressioni, questo ripetuto fastidio che avvelena l'animo?"
Si sposto all'altra finestra della stanza, scrutò i vetri: fuori c'era il
massimo silenzio, come in casa, e le vittime ignare del loro destino
continuavano la vita di tutti i giorni, come se nulla fosse accaduto.
Riarmò, un altro colpo e un'altra vittima.
L'uomo si mordicchiò il labbro. "Questa pulizia mi sta venendo a noia;
ancora una e poi smetto, almeno per oggi. Vorrà dire che almeno per questa
notte potrò dormire sonni tranquilli".
Un altro colpo e la vittima cadde a terra,
"Porca miseria, ne vedo altre due. Mi sono sfuggite, ma adesso provvedo."
Fece per riarmare, ma inutilmente.
Gli venne un moto di rabbia che sfogò con un urlo - Francesca, ho finito il
flit e ci sono ancora due mosche in giro!
La bottiglia in fondo al mare
Riovecchio è un piccolo borgo, aggrappato alla roccia della montagna, alto
sul mare quel tanto che basta a evitare che le tempeste se lo portino via.
Case vecchie, modeste, proprie di chi vive dell'immensa distesa liquida che
poco più sotto sembra volerle inghiottire; colori vivaci a stemperare il
profondo blu che all'intorno regna sovrano e in cui l'occhio si perde alla
vana ricerca di tonalità meno cupe, come quelle del cielo che incombe a
esaltare nei giorni di sole la bellezza di una natura ancora selvaggia.
La gente di qua vive del mare, di quello che può offrire dopo ore di
estenuante fatica a tirar su le reti nelle cui maglie, come gioielli,
rilucono pesci che si dibattono per ostacolare invano il loro destino.
I paesani sono quindi, per lo più, pescatori, gente rude, con i volti cotti
dal sole, le mani callose, e la naturale inclinazione ad allontanare la
realtà di un'esistenza tribolata rifugiandosi spesso nell'alcool.
Fra questi famoso era Paolino, detto anche il Nostromo, gran bevitore per
buona parte della sua vita fino a quando aveva deciso di smettere e così
una sera, mentre si trovava nella piazzetta del paese, quella che sporge
sui flutti sottostanti, si era scolato l'ultima bottiglia, poi dall'alto
l'aveva gettata a mare.
L'aveva guardata quasi con rimpianto mentre precipitava per poi
inabissarsi, dopo aver cavalcato per un attimo i marosi.
- Basta! - aveva gridato in quell'occasione con voce talmente forte da
coprire i rintocchi della campana della chiesetta e il fragore delle onde
che da millenni si sforzavano di buttar giù quel torrione di roccia su cui
sorge il paese.
Da allora era completamente cambiato, diventando, da taciturno quale era
sempre stato, particolarmente ciarliero e sempre disponibile a raccontare
quelle nuove virtù che aveva scoperto in lui smettendo di bere.
Il fatto che quella principale fosse l'acquisita capacità di parlare con il
mare aveva fatto sorgere più di un dubbio sulla cessata assunzione di
alcool, ma ben presto tutti dovettero ricredersi, perché Nostromo
effettivamente aveva instaurato un rapporto tutto particolare con quella
gran massa d'acqua.
La guardava dalla ringhiera della piazzetta, chiudeva gli occhi e dopo un
po' si rivolgeva agli astanti riferendo quello che gli aveva detto il mare.
- Meglio non andare a pescare domani, perché cambierà il tempo e ci sarà
una gran mareggiata.
Oppure:
- Le sardine si sono radunate vicino al promontorio del faro.
E, come potevano tutti verificare, ogni affermazione rispondeva al vero.
Insomma, per farla breve, era diventato un vero e proprio oracolo, e nei
dintorni non c'era nessuno che decidesse di andare per mare senza prima
averlo consultato.
Quando usciva con la sua barca, molti lo seguivano, certi che la pesca non
sarebbe potuta che essere buona e in effetti era così.
Sorgevano poi leggende su di lui, tipo quella che non aveva bisogno di
calare le reti, perché i pesci schizzavano fuori dall'acqua e sembravano
fare a gara nel finire sul fondo della barca, oppure che quando andava
aveva sempre il vento a favore e quando ritornava altrettanto.
A volte, guardava sulla piazzetta gli altri pescatori e quando apriva la
bocca ne usciva una voce cupa, mugghiante, quasi che a parlare fosse
direttamente il mare, ed aveva assunto nel dire una cantilena che ricordava
tanto la risacca.
In quelle occasioni non parlava di pesca, ma di storie di viaggi, di genti
lontane, di lidi di cui né lui, né gli altri avevano mai sentito nominare.
Per una comunità che viveva in pratica isolata era diventato quel narrare
una sorta di scoperta di un mondo che per non pochi non andava oltre il
promontorio del faro; era una conoscenza continua, un avvertire chiaro e
pieno di speranza che la vita non era ristretta nei limiti di un'esistenza
chiusa e tribolata.
I bambini, in particolare, stavano ad ascoltare a bocca aperta e con gli
occhi sgranati le storie di delfini che aiutavano i pescatori di perle
dell'oceano Indiano, oppure le galoppate delle orche ai limiti dei grandi
ghiacci dell'estremo settentrione.
Fra questi il più assiduo era Paco, dai capelli color stoppia e dai vispi
occhi cerulei, dotato di un intelligenza a tutta prova che compensava
ampiamente quello scherzo di natura che lo aveva fatto nascere con una
gamba più corta dell'altra. Si trascinava, arrancando sui gradoni delle
strette strade, dietro Nostromo con cui aveva instaurato un rapporto
talmente privilegiato che non di rado questi lo portava con sé alle battute
di pesca. Provava tanta tenerezza per quel bimbo sfortunato, la cui vita
sarebbe stata più difficile di quella certo non facile degli altri. Gli
insegnava tutto quel poco che sapeva: i nomi dei venti, le varie specie di
pesci, i diversi tipi di onde. Nelle sere limpide gli parlava delle stelle
che trapuntavano il cielo e gli diceva: - Ogni volta che uno muore se ne
accende una e quello che lascia questa terra va ad abitare su di essa; un
giorno questo accadrà anche per me. Ecco, quella là che brilla di più è
dove sta mia mamma.
E mentre il bimbo si sforzava di indovinare un volto di donna nel luccichio
di quell'astro, a Paolino spuntava immancabile una lacrima e tanto
desiderava che quel suo potere di parlare con il mare potesse estendersi
anche al cielo.
Fu un periodo sereno per la piccola comunità, un'era da ricordarsi anche
negli anni futuri, e tutto sembrava non aver fine quando avvenne la
disgrazia.
Un pomeriggio d'autunno, con il cielo plumbeo che si mescolava al mare, i
bimbi giocavano nella piazzetta. Come a volte accade, una spinta tira
l'altra e Paco ne ricevette una particolarmente violenta, sbatté contro la
ringhiera che fece da ponte al tronco, così che il corpo venne sbalzato nel
vuoto. L'urlo di terrore del bimbo fu coperto dal fragore dei marosi che ne
fecero facile preda.
La notizia si propagò in un attimo; tutti corsero, si sporsero, ma non
riuscirono a scorgere nulla fra la schiuma; la madre, disfatta e implorante
si rivolse a Nostromo: - Salvalo, se puoi! Chiedi al mare che me lo
restituisca, che non prenda la sua vita!
Nel frattempo il cielo era diventato nero come la pece, le onde si alzavano
sempre di più quasi a voler ghermire il borgo.
Nostromo non disse nulla, corse giù verso l'arenile, inutilmente dissuaso
da chi aveva compreso e temeva per la sua vita.
Le poche barche erano state tutte strappate agli ormeggi, tranne una: la
sua.
Come la spinse in acqua la tempesta si placò e lui, remando come un
dannato, prese il largo.
Tutti rimasero a guardare quel piccolo guscio che si allontanava dalla riva
fino a quando lo persero di vista. Intanto, la burrasca aveva ripreso forza
e le onde si ingigantivano, si avventavano verso l'arenile, divorando quel
poco di spiaggia ciottolosa.
E poi venne la notte; fra cupi tuoni e rapide saette sembrava che il cielo
e il mare si fossero uniti per distruggere il paese. La gente, stretta
nella piccola chiesa, pregava e sperava; l'alba li colse assonnati e ancora
tremanti e quando udirono nitido il suono della risacca compresero che
tutto era finito.
Uscirono e restarono abbagliati dalla luce del sole che stava sorgendo; in
basso il mare, finalmente acquietato, mormorava, anzi era quasi un sussurro
quello delle onde che lente arrivavano alla riva per poi ritrarsi.
Scesero a quel che restava dell'arenile e raggomitolato su se stesso
trovarono Paco. Si avvicinarono, uno si accostò, porse l'orecchio e poi si
mise a gridare: - Non è morto! Respira e dorme.
Lesti lo sollevarono e allora notarono che fra le mani stringeva una
bottiglia, che non ci fu verso di togliergli.
Fu riscaldato, accarezzato, stretto dal corpo fremente della madre e si
gridò al miracolo.
Di Nostromo, invece, non fu mai trovato il corpo e così si alimentò
ulteriormente la leggenda.
Paco crebbe, diventò adulto e non pochi però pensarono che la brutta
avventura gli avesse sconvolto la mente; girava, infatti, sempre con quella
bottiglia e a volte sembrava addirittura che comunicasse con lei.
Nelle notti stellate, poi, si attardava sempre ad ammirare il cielo, che
guardava attraverso quel vetro.
Nessuno seppe mai che cosa esattamente vedesse e lui non volle mai dirlo,
perché se avesse rivelato che quella specie di lente rivolta verso una
certa stella gli faceva apparire il volto sorridente di Nostromo, allora sì
che l'avrebbero preso per pazzo.
L'occasione di Sara
- Che fai? Non vorrai andare all'appuntamento con quell'uomo?
Sara finse di non sentire e continuò ad asciugarsi i capelli con il phon.
- Ma come puoi pensare che un divorziato sia una persona seria! Quello
vuole semplicemente approfittare di te. E poi non venirmi ancora a dire che
questa è un'occasione, perché, se ti guardi intorno, vedrai che ci sono un
sacco di uomini meglio di quello lì.
Sara spense il phon e volse gli occhi alla madre.
- Mamma, non è lui l'occasione. Questa invece è la mia ultima opportunità.
Che credi, forse, che il mondo brulichi di persone rispettabili, di maschi
belli, intelligenti, ben posizionati, soli e alla ricerca di una
quarantenne come me?
Si guardò nello specchio: già sottili si intravedevano le prime rughe
intorno al contorno degli occhi e la tinta appena applicata celata a stento
i fili argentei che cominciavano a interrompere l'uniformità dei capelli
corvini.
- Sara, te lo ripeto: non aver fretta, perché prima o poi l'uomo che fa per
te arriverà.
- No, mamma. Sono anni che ti ascolto e aspetto, e intanto invecchio,
sfiorisco e appassisco alla tua ombra.
- Quando fai così, sei del tutto irragionevole e dimostri di essere
immatura.
- Immatura? Mamma, se non sono cosciente di me stessa a quarantanni non lo
sarò mai. Che cosa è stata la mia vita fino a ora? Casa e lavoro, lavoro e
casa: una vita squallida, ossessiva nella sua monotonia.
- Non mi vuoi più bene, allora.
- Ecco, si ritorna al discorso del voler bene. Sono tua figlia, mi hai
generato, mi hai cresciuta e non posso che volerti bene, ma non ti sembra
che anche io abbia diritto alla mia vita? Non pensi forse che anche il mio
animo possa necessitare di un affetto diverso? No, non lo pensi; sei troppo
egoista. Prima mi hai costretto a vivere la sofferenza quotidiana della
lunga malattia del papà e poi, quando è morto e hai chiuso la tua vita in
una parentesi, mi hai obbligato a vegetare con le tue insulse manie, con le
continue emicranie per cui pretendi di essere compatita.
La vecchia si alzò dalla poltrona in cui era sprofondata, si appoggiò allo
stipite della porta e teatralmente proruppe in "una figlia ingrata" che
fece andare su tutte le furie Sara.
- Ingrata? Io sarei ingrata? Tu hai vissuto la tua vita, hai forse saputo
che cosa vuol dire amare e pretendi che io non lo debba sapere. Sì, sono
ingrata e perché mai dovrei essere il contrario? Quando le mie amiche
trovavano dei ragazzi le compativi, dicevi che così avrebbero rovinato la
loro vita, magari sposandosi con il primo venuto. E mi ripetevi di
attendere un principe azzurro che non era e non è nemmeno nella tua mente.
- Non ti permetto di parlarmi così!
- Non mi permetti? Che dovrei fare? Dovrei continuare a dire obbediente sì
mamma, certo mamma, hai sempre ragione tu mamma? La verità è un'altra: tu
per po' mi hai voluto bene, quando ero piccola. Ma poi, crescendo, quell'affetto
è diventato un'ossessione, si è tramutato, con la paura di perdermi, di
trovarti un giorno sola, in un possesso che mi ha tolto ogni voglia di
vivere.
- Non ti riconosco più.
- Nemmeno io mi riconosco più; poco fa mi sono guardata allo specchio e ho
visto il volto di una donna spenta, di un essere umano che l'infelicità ha
reso del tutto inutile.
- Per me sei tutto, non potrei esistere senza te!
- Esisterai lo stesso, mamma, con me o senza di me, perché quello che tu
chiami vita e a cui mi hai costretto è una sorte di morte dentro che non
necessita della presenza di altri.
La madre proruppe in un lamento - Ahi, che emicrania mi hai fatto venire!
La mia vita è solo sofferenza, dolore che anche tu alimenti.
Sara non rispose e finì di truccarsi; pensava all'appuntamento con il
collega d'ufficio e sperava, ma non voleva illudersi inutilmente; avrebbe
fatto di tutto perché quell'ultima occasione fosse propizia, perché anche
per lei ci fosse quella vita che le era stata negata.
Si vestì, si rimirò allo specchio, poi, finalmente pronta, aprì la porta di
casa.
- Se vai, non ti voglio più vedere! Non tornare!
La porta di casa sbatté mentre Sara si affacciava alla vita.
Laggiù in fondo
Da quando avevano scoperto il giacimento di antracite ed era stata avviata
l'attività di estrazione tutti gli uomini del paesino avevano lavorato
nella miniera, una generazione dietro l'altra, e anche ora che la vena
stava inaridendosi nessuno pensava di lasciare quella pericolosa attività e
di emigrare all'estero, come avevano fatto quelli della valle vicina. Il
rischio era sembra incombente, la fatica ogni giorno più improba, ma il
legame con la propria terra, con le origini era più forte di qualsiasi
considerazione.
Anche Fasulin, benché avesse solo 14 anni, ogni giorno scendeva nel pozzo a
sudare, a respirar polvere di carbone per 12 ore, perché così aveva fatto
suo padre, e prima ancora suo nonno, e perché la fame era sempre tanta.
Aveva cominciato a 10 anni, quando ancora le mani avevano quella morbidezza
e quel colorito roseo dell'età, e ora si erano già indurite e nelle unghie
si annidava il nero del carbone, così tenace che nemmeno a lavarle con la
spazzola veniva via.
Era stato il bisogno a farlo scendere in miniera, ma in lui c'era anche una
vocazione, nata nelle lunghe sere d'inverno intorno al focolare, quando il
nonno e gli altri vecchi raccontavano le storie del mondo sotterraneo. Lui
se ne stava ad ascoltare per ore, gli occhi sgranati, quasi rapito da
quelle vicende di elfi, di folletti che animavano le buie gallerie del
sottosuolo. E anche se alla fine dicevano che non era vero, ma solo una
favola, lui stava zitto, mentre i suoi occhi vedevano profondi cunicoli
animati da lucine volteggianti, da omini verdi che cantavano canzoncine
allegre e melodiose.
Quando, in uno dei tanti incidenti, gli venne a mancare il babbo e la sera
si ritrovò di colpo solo con il nonno da tempo inabile e con la mamma,
stravolta dal dolore e da una vita di stenti, fu giocoforza proporsi di
andare a lavorare giù in miniera. Lo presero subito, visto che se rendeva
la metà di un adulto, però lo pagavano un quarto del salario, una miseria
appena sufficiente per sopravvivere. Ma lui andò, perché almeno la grande
fame non fosse di casa e anche perché voleva entrare in quel mondo di
fantasia che tanto sognava.
Gli diedero come istruttore il vecchio Giamba e così cominciò una dura
realtà che Fasulin volle vedere come una fiaba.
- Per i primi tempi, scenderemo poco e non scaverai, ma aiuterai a spingere
i carrelli pieni di carbone. Così, poco a poco, ti abituerai all'oscurità,
alla poca aria e imparerai i segreti della miniera.
- Sì, parlami dei segreti, voglio sapere.
E Giamba si lasciava andare a raccontare cose strampalate, a cui nemmeno
credeva, leggende che aveva ascoltato da bambino e che la dura realtà aveva
quasi cancellato dalla sua mente.
- Sembra che sotto non ci sia nessuno, ma la miniera è più popolata del
paese. Ci sgno gli gnomi, piccolissimi e dispettosi, che ti tirano i
capelli. E poi gli elfi…
- Come sono gli elfi? Descrivimeli, per piacere.
- Sono difficili da vedere.
- Ma tu li hai visti, vero?
- Sì, una volta, in una delle gallerie più profonde. C'era un gran buio, ma
poi è comparsa una gran luce, insieme a una musica allegra, come quella che
si suona per ballare nella festa del paese. Mi sono guardato intorno e a
non più di tre metri da me l'ho visto.
- Era brutto?
- No, no, sembrava un bambino come te, tutto vestito di verde; mi guardava
e cantava, con una vocina sottile, ma melodiosa. E' stato solo per un
attimo, ma poi è ritornato subito il buio e con esso il silenzio.
Fasulin era rimasto come imbambolato, come se davanti agli occhi vedesse
l'immagine descritta dal vecchio. Quella sera neanche mangiò quel poco che
c'era e corse subito a coricarsi; benché rotto dalla fatica, si trattenne
dal dormire subito, sforzandosi di vedere nel buio della stanza quell'immagine
che si era impressa nel cervello in modo indelebile.
- Sono cattivi gli elfi?
- No, sono buoni, come i bambini. Di cattivo c'è solo l'orco.
- Com'è?
- Non lo vedi, ma senti il suo puzzo di gas e quando si arrabbia esplode
come un tuono e fa crollare tutto. L'ha già fatto diverse volte e molti di
noi sono rimasti laggiù, senza poi poter tornare in superficie.
- Come il mio papà?
- Sì, come lui. Quando senti quel puzzo, corri più che puoi, cerca di
risalire e l'orco non ti prenderà.
Fasolin restò muto, ma nei suoi occhi si vedeva la paura. Quella sera andò
a coricarsi molto tardi, mentre gli continuavano a rimbombare nella mente
le parole del vecchio Giamba. Inspirò profondamente, ma l'aria della camera
non puzzava e allora, vinto dalla sonno, chiuse gli occhi.
Progressivamente si abituò alla vita della miniera, al duro lavoro di tutti
i giorni e quando arrivò a 14 anni, abbastanza robusto per usare il
piccone, i padroni decisero di farlo scendere nel pozzo più profondo. Per
Fasulin fu una giornata memorabile: ora anche lui era un minatore come
tutti gli altri, con un salario pieno, anche se misero, e, nel suo caso,
con la possibilità di scendere in quel mondo che la sua fantasia tanto
vagheggiava.
Stranamente, però, non accadde nulla e né ebbe ad avvertire il puzzo
dell'orco, né tanto meno gli si presento l'occasione di vedere gli elfi.
Di questo mondo sotterraneo parlava continuamente con Giamba, che stava ad
ascoltarlo e ogni tanto scuoteva il capo. Un giorno si stancò, lo prese da
parte e gli disse:
- Senti, ragazzino, non ti sembra che sia venuto il tempo di non credere
alle favole? Il lavoro è già bestiale, la miseria tanta, e mi pare che sia
giunto il momento che tu apra gli occhi: non c'è l'orco, non ci sono gli
elfi, ci sono solo leggende che incantano i bambini e che a noi grandi,
quando le raccontiamo, fanno dimenticare quanto sia grama la vita che
conduciamo. Sono il sogno di un momento e nulla di più.
- No, sono il sogno di tutti i miei giorni, di tutte le mie notti, e solo
così non sento la fatica, ho meno fame e quando torno a casa la sera non
vedo quel povero vecchio mezzo scemo di mio nonno e mia mamma che sembra
vecchia ancor più di lui. Io ci credo e sento che invece è tutto vero
quello che mi hai raccontato e un giorno lo vedrò.
Ma i giorni passavano e, se anche il sogno permaneva, agli occhi di Fasulin
la miniera si presentava sempre come un buio budello in cui ammazzarsi di
fatica.
Poi, in una nebbiosa giornata di novembre…
- Giamba, sento il puzzo dell'orco!
Il vecchio si fermo, inspirò profondamente e avvertì l'acre odore del gas.
- Via, via tutti, il gas!
Cominciarono a correre verso la bocca del pozzo, Fasulin davanti e Giamba,
meno in forze, dietro. Erano già risaliti, come gli altri, di un centinaio
di metri quando avvenne l'esplosione. Un lampo accecante percorse i
cunicoli, bruciò senza pietà gli uomini che si trovavano sul suo cammino e
le travi di sostegno delle volte, che cominciarono a cadere.
Poi tutto finì e Fasulin si trovò, solo, in una galleria che piegava verso
il fondo, chiusa dall'altro lato da una montagna di detriti. Si guardò
intorno, ma non vide nulla, se non il buio più assoluto. Rimase fermo,
incerto sul da farsi.
Passarono le ore, ma i soccorsi non arrivavano e forse non erano nemmeno
partiti, perché quando l'orco si arrabbiava non c'era nulla che l'uomo
potesse fare. Decise, allora, di muoversi e, poiché era buio fitto,
procedette a carponi lungo il cunicolo che degradava verso il basso. Andava
piano e non poteva sapere né quanta strada avesse percorso, né quanto tempo
fosse passato.
In superficie, intanto, intorno all'imboccatura del pozzo sostavano i
parenti, i compagni degli altri turni, in attesa del ritorno alla luce
della squadra di soccorso. Quando emerse dalle viscere, il capo non potè
far altro che scuotere le braccia, perché non avevano trovato che morti, in
pratica gli operai di un intero turno, fatta eccezione per uno: Fasulin.
La madre, impietrita dal dolore, se ne stava in silenzio, guardava quel
buco nero da cui suo figlio non sarebbe più tornato.
Laggiù, intanto, Fasulin continuava ad avanzare, avvertendo però già i
segni della stanchezza, il freddo che gli saliva dai piedi e lo faceva
tremare. Infine, non ebbe più la forza di andare avanti e si rannicchiò
contro la parete.
Il buio era completo e cominciò a pensare che la sua illusione altri non
era che il sogno disperato di evadere da una realtà senza speranza.
Aveva ragione Giamba: non c'è nulla per i poveri come noi, nemmeno la
possibilità di continuare a sognare. Al mondo non siamo altro che un
bruscolino nell'occhio del tempo: troppo piccoli per apparire, troppo
miseri per renderci conto di vivere. E' inutile che il prete ci dica che
nostro sarà il regno dei cieli: siamo talmente in basso che Dio non ci
potrà mai vedere.
La stanchezza, il freddo e la poca aria cominciavano a prendere il
sopravvento, il tutto acuito dallo scoramento, perché si rendeva conto che
nessuno sarebbe venuto a prenderlo, che i soccorsi erano una speranza su
cui non era possibile contare.
Cercava di tenere gli occhi aperti, di penetrare quel buio così assoluto
che stava entrando in lui, ma le palpebre cominciavano ad appesantirsi, il
cuore rallentava sempre più i battiti, il respiro diventava affannoso.
Provò a levarsi in pedi, ma cadde; gli occhi gli facevano male, gli sembrò
di gelare del tutto; ansimando tese una mano verso il nulla e le palpebre
gli si chiusero. E fu allora che una luce vivissima illuminò la galleria,
mentre le volte furono percorse dal suono di una canzoncina che tanto gli
ricordava una ninna nanna che la mamma gli sussurrava da piccolo. Spalancò
gli occhi: eccoli, li vide. Vestiti di verde, sorridenti, gli elfi erano
intorno a lui, e più dietro ancora c'erano tanti volti noti e fra questi
Giamba e suo papà che sembravano invitarlo.
Si sentì straordinariamente leggero mentre le sue gambe percorrevano i
pochi passi che lo separavano da loro.
Candele
Nella giornata grigia, uggiosa, con una pioggerellina insistente che
consigliava, ove possibile, di stare al coperto, un uomo camminava
lentamente, senza ombrello, quasi non avvertisse quel fastidio. Giunto
nella piazza della cattedrale salì in fretta i gradini del tempio, sostò
cinque minuti sotto il colonnato, giusto il tempo di fumare una sigaretta,
poi entrò.
L'interno, nonostante le grandi vetrate dipinte, era quasi immerso
nell'oscurità e aumentava il senso di grandezza della costruzione, un
gotico giustamente famoso per la sua eleganza, meta di migliaia di turisti
che, tuttavia, in quel giorno di pioggia, erano assenti.
Si segnò, poi volse lo sguardo all'intorno, cercando di focalizzare ogni
particolare, fino a quando la sua attenzione si concentrò sul
confessionale. Lo raggiunse rapidamente, si accomodò e suonò il campanello
di chiamata.
Nell'attesa, si asciugò i capelli con il fazzoletto e rimase a fissare il
graticcio, oltre il quale avrebbe preso posto il confessore. Era assorto,
senza pensare a nulla, una sorta di catalessi che gli consentiva di
recuperare energie e pensieri, quando udì chiaramente avvicinarsi dei
passi; poi sentì che qualcuno si accomodava dall'altra parte e infine…
- Buongiorno, sono Padre Pierre, il confessore.
L'uomo ebbe un sorriso di compiacimento e accostò il volto al graticcio -
Buongiorno, Padre, sono un peccatore che chiede il perdono di Dio.
- Parla, figliuolo, libera la tua anima dal peso che la grava e Dio, nella
sua misericordia, monderà i tuoi peccati. Non aver timore, perché il
peccato è nella natura umana. Da quanto non ti confessi?
- Da una vita. E per quanto riguarda il peccato lei ha ragione: è in tutti
noi, anche in quelli che ho ucciso.
- Ucciso? E' grave quello che stai dicendo.
- Sì, Padre, perché ho violato il comandamento che impone di non uccidere,
ma non perché ho ucciso.
- Credo di non capire, puoi spiegarti meglio?
- Mi è stato comandato di uccidere e io l'ho fatto.
- Comprendo la lacerazione del tuo animo, nel conflitto fra la tua
coscienza e gli ordini che hai dovuto eseguire, magari quale militare in
azioni di guerra.
- Padre, non sono un militare, sono un assassino di professione, un
sicario.
Il sacerdote si portò le mani alla fronte e esclamò - Dio mio!
- Mi scusi se l'ho turbata, ma in confessione è l'unica volta che dico la
verità.
- Non ti rendi conto di quanto sconvolgente possa essere questa verità; lo
capisci, spero?
- Quale verità? Quella che ho ucciso su commissione, o quella che ho
violato il comandamento?
- Non c'è nessuna differenza.
- E invece c'è, ed è una grande differenza. Nel primo caso ho fatto tutto
per lavoro, dietro ricompensa, tale e quale un soldato; nel secondo caso ho
disobbedito alla legge di Dio.
- Lasciami pensare un momento, per cercare di spiegarti meglio.
- Va bene, tutto il tempo che vuole, Padre.
Si passò nuovamente il fazzoletto sui capelli e con calma trasse una
rivoltella dalla custodia sottoascellare, infilò la mano in una tasca della
giacca e prese un silenziatore che avvitò alla canna dell'arma.
Improvvisamente fu scosso da un suono cupo e profondo; istintivamente
guardò verso l'alto e le note della toccata e fuga di Bach cominciarono a
diffondersi nel tempio. L'organista ci metteva il suo impegno, ma non era
certo un esecutore di valore; comunque, l'atmosfera del luogo riusciva a
far sorvolare su qualche passaggio non proprio perfetto. Si immerse nella
musica e lentamente avvertì crescere in lui una piacevole sensazione di
serenità che lo distaccava dal mondo e gli faceva sorgere un senso di
onnipotenza del tutto appagante.
Padre Pierre diede un leggero colpo di tosse, come ad annunciare che era
pronto a riprendere la conversazione - Se ho ben capito, tu uccidi per
denaro persone che nemmeno conosci, ma che non sono senza peccati, come
prima mi hai detto.
- Sì, è proprio così.
- Vedi la differenza sta in questo: il militare deve disobbedire a un
comandamento e, se non lo fa, viene punito; tu, ogni volta, cerchi il
committente, fai come un contratto di tua spontanea volontà e di
conseguenza già prima dell'incarico disobbedisci alla legge di Dio, senza
nessuna costrizione.
- Se non lo facessi io, lo farebbe un altro, perché il destino delle
vittime è segnato.
- E allora, seguendo il tuo ragionamento, perché chiedi di parlare con Dio
mio tramite e chiedi l'assoluzione, se non hai peccato?
- Perché sono venuto meno a un suo comandamento, e non di mia spontanea
volontà come dice lei, ma perché forse ho sbagliato una volta e quell'errore
mi ha portato ai successivi.
L'uomo si fermò un istante, chiuse gli occhi e iniziò a raccontare.
- Le narro la storia di un giovane, timorato di Dio, che studiava in
Seminario, da cui è uscito suo malgrado per necessità familiari;
nell'ambiente povero di periferia, sfumati i miei sogni, ho trovato chi mi
ha dato una speranza di un mondo migliore e più giusto, un mentore che mi
ha prospettato un grande disegno che avrebbe portato a una più equa
distribuzione della ricchezza e io gli ho creduto. Si potrebbe chiamare
quest'idea un movimento politico, ma clandestino, visto che il
raggiungimento dello scopo prevedeva di colpire il potere nei suoi simboli
più rappresentativi. L'obbedienza era, e doveva essere totale; si arrivò
così a un giorno in cui fui comandato di uccidere il più odioso di questi
simboli e io lo feci nella convinzione assoluta di fare del bene
all'umanità. Proprio per questo mi sentii in dovere di violare il
comandamento, identificando la mia persona con l'angelo giustiziere, come
se fossi stato uno strumento di Dio.
L'organizzazione fu scoperta, dovetti fuggire, andai via dal mio paese,
trovando momentanei aiuti presso membri dell'organizzazione; ero e sono un
esule, senza più patria, senza famiglia, e che per vivere è disposto a
tutto. Una volta che si è violato il comandamento, una volta che
volontariamente si è forzata la propria coscienza non ci sono più remore e
così, quando mi fu proposto di uccidere dietro compenso una persona,
accettai.
Si fermò un attimo, passandosi la mano sulle labbra secche, poi riprese -
Lei mi domanderà ora perché chiedo il perdono di Dio? Semplicemente perché
nella mia coscienza s'annida il dubbio che, contravvenendo alla legge di
Dio, possa essere meritevole di una punizione, nonostante, chiamiamole
così, tutte le circostanze attenuanti che mi hanno portato a violare il
comandamento. Ormai la mia mente è confusa e non comprende più quale sia
veramente il giusto. Attendo, Padre.
Il sacerdote, affranto, rispose con voce angosciata - Figliuolo, non ci
possono essere punizioni sufficienti per i tuoi peccati; tu li hai
confessati e solo Dio, nella sua misericordia, può darti l'assoluzione. Ti
consiglio, però, di porre fine a questa vita, di costituirti, di espiare le
tue colpe, prima secondo la giustizia degli uomini, per poi sottoporti a
quella di Dio, quando verrà l'ora. Prometti, almeno, che altri non avranno
a patire per le tue azioni, che cesserai questa vita scellerata.
La musica frattanto era aumentata di volume, negli splendidi passaggi del
brano di Bach, e il sicario ritenne che il momento fosse propizio; si
udirono appena due leggeri schiocchi, come due esplosioni soffocate, poi
silenziatore e pistola furono riposti nelle loro sedi.
Uscì dal confessionale, dal quale fluiva un sottile rivolo di sangue, si
approssimò all'altare e ripensò a tutti quelli che aveva ucciso; li contò
mentalmente, poi prese venti candele, le dispose ben allineate,
accendendole una a una. Recitò silenziosamente una preghiera, poi restò
brevemente assorto nei suoi pensieri.
Rivide tutta la sua vita, in rapide sequenze, una lunga serie di delitti,
effetto di quella prima disobbedienza alla legge di Dio e si sentì quasi un
predestinato; una torbida scia di sangue scorreva davanti ai suoi occhi e
concluse che se l'angelo sterminatore era venuto meno al comandamento di
non uccidere per un ordine divino forse anche lui non faceva altro che
obbedire al grande libro del destino che il cielo aveva disegnato.
Si sentì soddisfatto, appagato da quel colloquio, che gli aveva rischiarato
la mente, allontanando i dubbi e facendo radicare certezze.
Le note dell'organo gli giungevano lontane, come se scendessero dal cielo;
e fu proprio un acuto dello strumento che lo fece sobbalzare. In chiesa non
c'era nessuno, tranne il musicista, ma le precauzioni non erano mai troppe
e in fondo, se era ancora in libertà, era dovuto alla sua prudenza.
Guardò verso l'organo, poi prese un'altra candela e l'accese.
La santa alleanza
La guerra non era finita da molto, ma agli inizi del 1948, con l'unione dei
socialisti dei Nenni e dei comunisti di Togliatti nel Fronte Popolare, si
verificò in vista delle elezioni di aprile una tensione senza precedenti,
tanto da far temere dei colpi di testa da parte dei due contendenti: il
centro e la sinistra. In una situazione economica drammatica, con la
povertà dilagante, l'Italia praticamente distrutta, si avviò una campagna
elettorale senza esclusione di colpi.
Anche il paese, nel suo piccolo, fu teatro di dispute, di una propaganda
astiosa, a ogni livello e in ogni luogo, anche in chiesa.
Il tutto iniziò una domenica mattina dei primi di gennaio, allorché don
Zeffirino, durante la messa, parlando di un episodio del Vangelo, quello
della Pesca Miracolosa, accennò vagamente al fatto che solo con l'ideale
cristiano si sarebbe potuto ritornare a mangiare.
E, considerato che la portatrice politica di questo ideale era la
Democrazia Cristiana, ai presenti non fu difficile comprendere il
significato del messaggio.
Dell'evento fu subito informato il Guercio che, immediatamente, come locale
segretario del partito comunista, fece ciclostilare un manifesto, di cui
furono tappezzati tutti i muri della case del paese, frontale della chiesa
compreso, e in cui si diceva semplicemente "Con le parole e con gli ideali
cristiani non si mangia".
Già alla messa della sera, poi, i rintocchi delle campane furono sovrastati
dall'inno dell'Internazionale, suonato a tutto volume.
Don Zeffirino, che prete sì era, ma che, nonostante l'età avanzata, era
ancora ben lucido e che tutto avrebbe voluto, salvo che far sorgere un
conflitto in paese, anche per il fatto che molti dei suoi fedeli erano
dichiaratamente comunisti, decise di correre subito ai ripari e fece sapere
al Guercio che desiderava parlargli.
L'incontro, di cui ebbero notizia solo i fedelissimi, si tenne in campo
neutro e fu così che verso mezzanotte, in un freddo quasi glaciale, sul
vecchio argine coperto dalla neve si trovarono di fronte i due contendenti.
- Annibale, scusa se ti chiamo con il tuo vero nome, queste cose non mi
piacciono, possono portare a eventi spiacevoli, a disordini e a chissà a
quali altre disgrazie.
Il Guercio, che tremava per il freddo nonostante il suo vecchio pastrano
militare, sbottò immediatamente:
- E il discorso in chiesa, durante la messa, è stato un vero e proprio
comizio, che ne dice? I preti devono pensare solo alle cose dello spirito,
perché a quelle terrene provvedono i politici.
- Cerca di capirmi, se ti va. Sono un parroco che vuole solo il bene delle
sue pecorelle, di tutte, comuniste e non comuniste. Vedo gente che soffre
la fame, bambini che hanno la pancia vuota, sento il freddo delle case non
riscaldate; devo dare una speranza a questi esseri umani, o no?
- Anche noi vediamo, anche noi soffriamo e anche noi vogliamo che le cose
cambino.
Il prete rimase un attimo in silenzio, poi mise una mano sul cuore e con
gli occhi che lacrimavano per il freddo e per quello che si accingeva a
dire, mormorò:
- Se tutti e due vogliamo veramente il bene di questa povera gente, non
facciamoci la guerra; ti conosco da tanti anni e so che sei una gran brava
persona; vediamo di intenderci, di evitare che anche noi portiamo il
tizzone al fuoco che sta per divampare. Devi sapere che non mi sono sognato
di fare quel discorso in chiesa, che mi è stato imposto dal vescovo; ad
essere sincero, la curia mi ha comandato di essere più esplicito, ma non me
la sono sentita.
- E va bene, Don Zeffirino. Facciamo un accordo: lei dice solo messa e non
fa politica e io faccio solo politica e non metto di mezzo la chiesa. Può
andare?
I due si strinsero la mano, poi lasciarono quel posto buio e gelido.
La quiete ritornò in paese e i rintocchi delle campane ripresero a segnare
il tempo dello spirito, ma la tregua durò poco, e non per colpa del
parroco.
Dopo un paio di settimane, dalla corriera che proveniva dalla città scese
un giovane prete, si avviò con passo deciso verso la casetta di Don
Zeffirino, pressoché addossata alla chiesa, bussò, gli fu aperto ed entrò.
- Buon giorno, padre. Sono Don Riccardo e mi manda Sua Eccellenza il
Vescovo, un santo, la bontà in persona. Pensi che è preoccupato per la sua
salute, per quell'artrosi che l'affatica così tanto, che le impedisce di
assolvere alla sua missione nel migliore dei modi, e allora…insomma ha
deciso che le occorresse un aiuto ed è per questo che sono venuto.
- Ringrazio Sua Eccellenza il Vescovo, ma in verità non è che io stia poi
così male, e francamente un aiuto non mi serve.
- Tenga la lettera di Sua Eccellenza, e legga.
Don Zeffirino si mise gli occhiali e aprì la busta che gli veniva porta. La
lettera era straordinariamente breve e dopo un preambolo sulle sue
condizioni di salute concludeva dicendo che l'aiuto era ritenuto
indispensabile e che lui avrebbe dovuto riposarsi per un po', non servendo
la Santa Messa, così faticosa per una persona anziana affetta da artrosi;
anzi, l'incarico veniva conferito sine die a Don Riccardo, giovane
sacerdote dalle eccelse qualità.
Il parroco appoggiò il foglio sulla sua scrivania e quasi sbuffando disse
di essere d'accordo con le volontà del suo Vescovo, ben intuendo tuttavia
che i motivi di tanta generosità erano ben altri.
Don Riccardo officiò subito la messa pomeridiana delle 17, con don
Zeffirino tenuto premurosamente fuori della chiesa con la scusa
dell'ambiente freddo.
Alle vecchiette presenti fece subito una buona impressione, anche perché il
giovane prete
si poteva tranquillamente considerare un bell'uomo, con i capelli biondi e
gli occhi cerulei, tanto che la Ciuffina ebbe a dire alla vicina di banco:
- Bello, però. Pare un tedesco.
E del tedesco aveva la grinta, tanto che quando arrivò all'Omelia, anziché
commentare un passo del Vangelo, andò dritto al sodo:
- Carissimi fedeli! Il Tempio di Dio è l'unico rifugio, in quest'epoca
oscura in cui le forze del male vogliono impadronirsi delle vostre anime e
del nostro Paese. State attenti, perché esse sono condotte da esseri
subdoli che, sotto un'apparenza di umanità, celano la loro vera natura di
diavoli. Ma si riconoscono bene: sono ammantati di rosso, del rosso del
sangue delle loro vittime. Sono vicino a noi, pronti ad artigliarci, a
trascinarci con loro nei gironi dell'inferno. Diffidate di tutti, anche dei
più miti. - Si fermò un attimo, scrutando i presenti, poi. - E soprattutto
di quelli che hanno un occhio solo.
Soddisfatto, contemplò lo sbigottimento dei fedeli.
Quando terminò la funzione, la Ciuffina, che aveva fatto nella Resistenza
la staffetta, corse dal Guercio e gli raccontò tutto.
Il giorno dopo i rintocchi delle campane che annunciavano la messa delle 7
furono sovrastati dalle note dell'Internazionale e sui muri apparve un
nuovo manifesto, breve come il precedente, che diceva: " Salutiamo Don
Riccardo che presto se ne andrà".
Ma non se ne andò né il giorno dopo, né una settimana dopo e la contesa
continuò imperterrita fra inni dell'Internazionale a tutto volume e omelie
che erano dei veri e propri comizi in cui compariva sempre l'uomo da un
occhio solo, di volta in volta etichettato come Satana, come Belzebù e
perfino come il tanto temuto baffone.
Dire che il Guercio non ne poteva più sarebbe troppo semplice; più di una
volta gli era venuta la tentazione di irrompere in chiesa durante la messa
e dare un po' di legnate all'officiante, ma poi si era trattenuto, un po'
per l'innato rispetto verso il luogo sacro, ma soprattutto per il timore di
far apparire così il giovane prete come un martire.
La sede del Partito gli faceva continue pressioni per sistemare una volta
per tutte, con le buone o con le cattive, l'autore di quella incresciosa
situazione, ma egli tergiversava perché gli stava venendo in mente un piano
diabolico.
Ci pensò a lungo, valutò attentamente gli aspetti positivi e negativi della
soluzione e, solo quando fu ben certo che l'esito sarebbe stato una vera e
propria manna, decise di metterlo in pratica.
Una sera, fece venire alla sua officina Ludovico Bianconi, l'affossatore
comunale, meglio conosciuto come Tricorno per le frequenti infedeltà della
moglie, e gli parlò senza mezzi termini:
- Scusa se ti ho fatto venire, ma la questione è della massima importanza,
tanto che tutti gli iscritti al Partito, te compreso soprattutto, devono
prestarsi anima e corpo.
Tricorno lo guardava con occhi bovini e non riusciva a capire come lui,
seppellitore e per lo più pluricornuto, potesse tornar utile al Partito.
- Non se ne può più di questo Don Riccardo; aizza la gente, è peggio del
diavolo, e io ho trovato il modo di sistemarlo a dovere e definitivamente.
- Lo pestiamo ben bene fino a farlo morire e poi io lo seppellisco?
- Ma per carità! A parte che sono contrario alla violenza, ma poi ne
faremmo un martire; io invece voglio sputtanare lui e tutti quelli che sono
con lui. Il paladino della moralità deve essere ripagato con la sua stessa
moneta.
- A dir la verità non capisco…
- Non m'importa che tu capisca o meno, perché l'importante è che tu mi
aiuti. L'Adalgisa, tua moglie, mi sembra sempre una gran bella donna..
- La più bella; sarei l'uomo più felice di questa terra se lei non fosse
insaziabile e allora mi sono rassegnato…
- Non a caso ti chiamiamo Tricorno e lei invece Unapertutti; ma bando a
queste sciocchezze! Che vuoi farci: corna più, corna meno…
- Sì, e io sopporto, purché non mi lasci.
- Certo, ma perché mai dovrebbe lasciarti? Lo sanno tutti che lei è
innamorata di te. Allora, ascoltami bene: devi convincere l'Adalgisa ad
andare a tutte le messe e a mettersi in prima fila.
- E' una parola! Non va a una messa che saranno almeno dieci anni.
- Non preoccuparti di questo. Quando torni a casa devi dire semplicemente,
con noncuranza, quasi fosse una constatazione, che lungo la strada hai
incontrato il nuovo quel prete, Don Riccardo, e che sei rimasto stupito di
come un uomo così bello si sia fatto sacerdote.
- Solo questo?
- Solo questo e vedrai che basterà. Adesso vai, e mi raccomando ancora una
volta: diglielo come se le dovessi dire che mi hai visto.
Come l'uomo uscì, bussarono alla porta.
Quando aprì, non poco fu lo stupore del Guercio di trovarsi davanti Don
Zeffirino.
- Buona sera, Don Zeffirino.
- Buona sera, Annibale. Sono venuto perché questa storia è durata anche
troppo: le campane zittite dall'inno e la messa trasformata in un palco per
comizi. E poi quel ragazzo mi ha tolto ogni potere; non posso muovermi
senza dovergli dire dove vado e alla sera, invece di recitare insieme il
rosario, mi tocca sorbire le sue filippiche contro i rossi. Ogni tanto mi
chiedo da che parte stia Satana. Insomma, per farla breve, vediamo di
trovare un accordo.
- L'altro sa che lei è da me?
- Certo, perché sono stato costretto a dirglielo.
- E che scusa lei ha accampato?
- Gli ho detto la verità, e cioè che sono venuto a cercare un accordo.
Il Guercio alzò le mani al cielo per quell'idea che gli era venuta
all'improvviso e disse:
- Certo, facciamo questo accordo: da domani mattina il suono delle campane
non sarà coperto da quello dell'inno.
- E in cambio?
- Niente. Lei, Don Zeffirino, non dovrà fare proprio niente e io le
assicuro che nel giro di una settimana al massimo lei ritornerà padrone
della parrocchia.
- Vedo, Annibale, che nonostante tutto la fede è sempre in te. Che Dio ti
benedica.
- Buona sera, padre. Torni alla sua casa e dica che ha raggiunto l'accordo
e che il Guercio ha sempre un animo religioso.
Alla messa delle sette, annunciata dai limpidi rintocchi delle campane,
presenziò anche l'Adalgisa; si sedette sulla prima panca e quando il
sacerdote entrò per celebrare il rito avvertì un colpo al cuore: quegli
occhi cerulei l'avevano conquistata.
La funzione proseguì come al solito e anche l'omelia fu un comizio del
tutto uguale ai precedenti. Alla fine del discorso Don Riccardo guardò
trionfalmente i presenti e i suoi occhi incontrarono quelli dell'Adalgisa
che diventarono improvvisamente dolci come il miele. Anche lui avvertì
qualche cosa, tanto che dovette dare un paio di colpi di tosse per
soffocare quella strana sensazione che gli stava salendo dalle viscere.
Alla messa vespertina la donna si presentò con un vestito stretto che ne
esaltava le forme morbide e con uno scialle che le copriva perfino il petto
e che, del tutto casualmente, quando il prete si volse verso di lei,
scivolò a terra, svelando una generosa scollatura che a stento tratteneva i
seni abbondanti.
Questa volta Don Riccardo non riuscì a trattenersi e il comizio diventò una
specie di monologo esitante, con frasi smozzicate, amnesie improvvise,
lunghi silenzi, tanto che non pochi dei presenti pensarono che non stesse
per niente bene.
Il giorno dopo, terminata la funzione del mattino, avvenne la conoscenza
diretta, quando l'Adalgisa avvicinò il bel sacerdote per chiedergli
informazioni sull'orario delle confessioni.
Nemmeno a farlo apposta, poco prima della messa vespertina, l'Adalgisa
entrò nel confessionale e vi rimase a lungo. Ne uscirono entrambi
contemporaneamente: lei con un sorriso radioso e lui con il viso paonazzo e
visibilmente accaldato. Anche quella funzione fu uno strazio, tanto che
l'officiante saltò il comizio.
E poi, discretamente spiati dagli uomini del Guercio, finirono per
incontrarsi ogni sera dietro la canonica: carezze, baci, palpeggiamenti,
proprio come due teneri innamorati.
La notizia di questa imprudente relazione fu fatta abilmente diffondere in
paese, soprattutto tramite la Ciuffina, istruita al riguardo in modo
scientifico.
Questa cominciò nel crocchio sul sagrato in attesa della messa delle 7.
- Avrà i suoi difetti Don Riccardo, ma bisogna dire che è un gran bell'uomo.
Certo, mi chiedo come possa uno così rinunciare alla compagnia di una
donna, anzi non mi meraviglierei se non ci rinunciasse per niente…
E le altre all'intorno, chi più chi meno, esprimevano la loro opinione al
riguardo:
- Eh sì, troppo bello e troppo maschio! -
Oppure: - Ma come fa a fare il prete e a rinunciare a certi piaceri un
maschio così…
E allora intervenne la Ciuffina, con una frase buttata lì, che non sembrava
pertinente al discorso:
- Non so se avere notato, ma dopo tanti anni ha ripreso a venire a messa
l'Adalgisa, e si mette sempre in prima fila. Inoltre, si confessa ogni
giorno, e sta dentro al confessionale anche mezz'ora. Certo, di peccati ne
ha da raccontare, con quel povero marito che è più cervo di un cervo!
Le altre, quasi inconsciamente, finirono con il collegare un discorso
all'altro e, anche senza certezze, non poterono che concludere che fra il
pretino e Unapertutti doveva esserci qualche cosa.
Come un lampo, questa intuizione si trasformò in ghiotta notizia e si
sparse per il paese ad una velocità incredibile, tanto che ne venne a
conoscenza anche Don Zeffirino.
Seduto sulla sua poltrona a dondolo, e massaggiandosi le gambe doloranti
per l'artrite, meditava sul da farsi: parlarne al vescovo e magari sentirsi
dire che era una sua calunnia inventata di sana pianta per liberarsi di
quel curato scomodo? Affrontare il problema di petto con Don Riccardo, con
il rischio però che questi, sostenuto com'era dalla curia, lo facesse
allontanare del tutto dalla sua parrocchia?
Sembrava un problema senza soluzione: l'unica cosa certa era che quel prete
impostogli diventava ogni giorno più scomodo.
Non trovò di meglio che pregare, ma Dio quel giorno sembrava intento a
problemi ben più gravi e nemmeno dopo 50 orazioni aveva le idee più chiare
di prima.
Intanto, il prete dongiovanni poco a poco dimenticava i motivi per cui era
arrivato lì: messe poco preparate - e del resto durante la funzione non
aveva gli occhi che per l'Adalgisa -, niente più comizi, ritardi
frequentissimi ai pasti preparati dalla perpetua, ai quali si accostava
peraltro di malavoglia, rivelando un'inappetenza paurosa che gli fece
perdere ben cinque chili nel giro di una settimana. Inoltre era sempre
agitato, passava notti insonni, e nemmeno all'alba Morfeo gli concedeva la
grazia di potersi abbandonare, proprio perché da lì a poco, alla messa
delle 7, avrebbe rivisto la sua Adalgisa.
La donna avrebbe voluto portarselo a letto già da un bel po', ma
stranamente in quel periodo non ci furono morti e quindi il marito se ne
stava sempre a casa, anche per il freddo che pativa in modo particolare, e
farlo in campagna sarebbe stato a dir poco proibitivo, con la neve e con il
gelo di quei giorni. Insomma non si intravedeva una soluzione logistica in
tempi brevi.
Poi arrivò un colpo di fortuna: il vecchio Boldi, 97 anni ancora ben
portati, scivolò sul ghiaccio e, quantunque apparentemente non si fosse
fatto niente, dopo nemmeno tre ore esalò l'ultimo respiro. I funerali si
sarebbero tenuti il giorno dopo e dato che il morto, ateo irriducibile da
svariati anni, aveva lasciato scritto che pretendeva che il rito funebre
non fosse religioso, non c'era pericolo che Don Riccardo fosse impegnato.
Le esequie si svolsero in un giorno gelido, sotto un'abbondante nevicata
che avrebbe reso più lungo il lavoro dell'affossatore. Insomma, era un
insieme di condizioni ideali.
Quando in paese non ci fu più nessuno, perché tutti erano al funerale,
un'ombra nera s'accostò alla casa dell'Adalgisa e, trovando la porta
socchiusa, s'infilò rapidamente nel varco.
La donna, un po' per esperienza e un po' per risparmiare tempo, attendeva
nuda sul letto; Don Riccardo sbarrò gli occhi sbavando, poi con ancora la
tonaca indosso fece per gettarsi su di lei che, però, lo fermò.
- Spogliati, starai più comodo e sarà più bello.
Lui non si fece pregare, quasi stracciandosi la lunga tonaca, e la
raggiunse in un attimo.
Dopo un po' di preliminari e proprio quando, all'apice del desiderio. don
Riccardo si apprestava a compiere l'atto, si udì un urlo disumano e sulla
porta della camera da letto apparve Tricorno che imbracciava un fucile da
caccia.
- Delinquenti, vi ammazzo tutti e due! Porco di un prete, te lo faccio
vedere io ad approfittare di una donna sola e indifesa!
L'altro, nudo come un verme, si era raggomitolato come un riccio e guardava
con occhi sbarrati la canna del fucile puntata contro di lui.
Tricorno tirò con forza il grilletto, ma si udì solo un click; e di quell'insuccesso,
tutto preventivato perché nell'arma non c'erano cartucce, approfittò
immediatamente Riccardo, balzando dal letto come una tigre. Con una
spallata, il biondo pretino buttò da una parte il marito apparentemente
inferocito, poi, con la tonaca in mano, corse giù dalle scale e guadagnò
l'uscita.
Sulla porta però si fermò: sotto la fitta nevicata c'era tutta gente del
paese che l'aspettava. Nudo com'era, si raggomitolò nuovamente a riccio e
si sentì mancare, ma prima di perdere i sensi vide chiaramente il flash di
una macchina fotografica.
Inutile dire che Don Riccardo fu richiamato velocemente dal vescovo, che lo
destinò a un periodo di lunga penitenza. Il suo posto non fu preso da
nessun altro e così Don Zeffirino ritornò a dirigere la sua parrocchia,
evitando nell'omelia qualsiasi accenno politico, mentre il Guercio riprese
la campagna elettorale con i toni decisi, ma moderati. che gli erano
propri.
L'Adalgisa ritornò a disertare le messe e si consolò ben presto con gli
altri maschi del paese.
E Tricorno?
Continuò il suo lavoro, orgoglioso per una volta delle proprie corna.
(Da "Storie di paese")
Sotto il pergolato
Era una torrida giornata d'estate, ma sotto il pergolato c'era un po' di
refrigerio, nonostante il sole riuscisse a filtrare fra le foglie, facendo
luccicare gli acini quasi maturi.
Guardava i due ragazzi ballare al ritmo di una musica moderna; staccati,
l'uno dall'altro,
si agitavano come indemoniati, incuranti della calura opprimente. In
particolare Lisa, la fidanzata di suo figlio, sembrava non sentire il peso
dell'abbondante pasto appena consumato e si esibiva in movenze sinuose,
quasi un richiamo sessuale volto ad aumentare il desiderio del suo
innamorato che corrispondeva entusiasta con una vitalità
sorprendente.
Osservò Jacopo, il suo unico figlio, e constatò con piacere che era
veramente un bel giovane, ma la sua attenzione, quasi inconsciamente, era
sempre più rivolta a Lisa,
stupenda in quel vestitino a fiori che esaltava le sue forme morbide, che
dava slancio a quelle gambe snelle che sembravano volare nei passi della
danza. L'abbondante scollatura lasciava intravedere un seno generoso che
sussultava ritmicamente e in cui si perse.
Chiuse gli occhi e l'immagine di quelle mammelle rotonde si sovrappose a
quella di un altro seno durante un altro ballo di tanto tempo prima. Rivide
così la scena di quando conobbe sua moglie, di quel ballo molto più quieto,
di quel valzer lento durante il quale la teneva stretta quasi temesse che
gli sarebbe sfuggita. Era bella Francesca, radiosa in quel vestito nero che
la fasciava, lasciando indovinare le linee aggraziate di un corpo esile, ma
perfetto.
Riaprì gli occhi e guardò la moglie: sonnecchiava appesantita dal pasto,
abbandonata sulla sedia. Era cambiata tanto, non aveva più nulla di quella
ragazza esile di un tempo, con quel vestito troppo stretto per lei, dal
quale la carne traboccava; spostò la sua attenzione sul volto, su cui i
segni del tempo marcavano linee ora strette, ora larghe.
- Vuoi ballare con me?
Si scosse e vide Lisa che lo invitava.
- Sono vecchio, ormai; poi questi balli non fanno per me.
- Metto sul giradischi qualche cosa d'altro, di più quieto, magari un bel
valzer lento.
- Allora sì.
Lasciò che la mano della ragazza prendesse la sua, si fece condurre fino al
piccolo spazio di quella balera improvvisata e, quando cominciò la musica,
chiuse gli occhi, attrasse a sé quel corpo fresco e si lasciò trasportare
dalle note.
Gli sembrò di essere sospeso in uno spazio senza tempo, in una dimensione
sensoriale sconosciuta e si chiese se era tutto vero, oppure un parto della
sua immaginazione.
Avvertì chiaramente alcuni brividi che percorrevano il suo corpo, si
accorse con vergogna del riaccendersi della sua virilità e allora immaginò
di non essere con Lisa, ma con Francesca.
Ad occhi chiusi vedeva innanzi a sé quel bel vestitino nero, risentiva
l'emozione di quel giorno, il desiderio che cresceva, il sangue che
ribolliva, ed allora si fermò, accennò una scusa qualsiasi e ritornò al suo
posto.
Si accasciò quasi sulla sedia, il volto sgomento, l'animo angosciato, al
punto che i vicini si preoccuparono, pensando a un malore improvviso.
- Vuoi un po' d'acqua? Desideri coricarti?
- No, è che alla mia età e dopo un pasto così non si possono più fare certe
cose.
Lisa gli si avvicinò e gli mise una mano sulla fronte.
- Scotti; forse è il caldo.
- Sì, è il caldo. E avvertì chiaramente il calore espandersi dentro di lui,
accompagnato da brividi freddi.
- Se riesco a stare un po' quieto, mi riprendo.
Un'altra mano si posò sul suo capo, una mano grassoccia scossa tutta da un
tremito.
Alzò lo sguardo e vide sua moglie come in controluce; non riusciva a
scorgerla perfettamente, tanto sembrava avvolta da una nebbia chiara e
densa, ma sapeva che era sua moglie, perché udiva la sua voce trepidante,
sentiva il suo affanno, la sua preoccupazione.
- Che hai? Come ti senti? Ti sta passando?
Chiuse gli occhi e la vide chiaramente, fasciata dal suo vestito nero,
snella, aggraziata,
estatica dinnanzi a lui; sentiva il suo profumo di violetta, la musica del
valzer lento che accompagnava i movimenti della sua figura e su quelle note
lo colse il sonno.
Quando si risvegliò, vide che erano tutti intorno a lui; scorse nitido il
volto di sua moglie, le gote un po' ingrossate, le rughe intorno agli
occhi, così diversa da Lisa, dalla sua freschezza, dalla sua vitalità, ma
non gli era mai sembrato così bello, con quegli occhi che celavano a stento
la preoccupazione per il suo stato.
Si precipitò a dire che stava meglio, che era tutto passato, anzi, si scusò
per il disturbo involontario e per dimostrare che era tutto vero si alzò in
piedi e strinse a sé Francesca.
- Ho avuto paura, tanta paura, vecchio mio.
- Pure io ho avuto paura, ho temuto di perderti.
Lisa mise sul piatto un disco con valzer lenti e disse - Che bello vedere
due che alla loro età si vogliono ancora così bene.
Sempre stretto alla moglie accennò alcuni passi di danza, lasciò scorrere
le mani lungo quei fianchi pingui che ora gli sembravano così esili, sentì
prepotente rinascere il desiderio e gli sembrò di tornare a vivere.
- Che ne dici, se andiamo a casa? - le sussurrò.
- Sei stanco?
- Per niente, è che avrei voglia, mi capisci vero cosa intendo?
- Sì, vecchio porcellone…
- E allora andiamo; è inutile aspettare; il tempo vola e oggi mi sento come
quel giorno che ti ho conosciuta, risento la stessa musica, anche se non
ricordo il titolo.
- Era un valzer, il valzer delle candele.
- Ah sì, ora rammento come fosse adesso; c'è su un altro valzer, ma tu sei
sempre tu.
- Magari! Sono cambiata, ingrassata, invecchiata.
- Pure io e ho messo su pancia, ma siamo sempre noi, c'è sempre quel
sentimento.
Si fermarono, salutarono tutti, dicendo che se andavano, accampando la
scusa di un certo affaticamento e probabilmente vennero creduti. Solo Lisa,
con un sorriso d'intesa, sembrò aver compreso e li accompagnò all'auto.
- Buon viaggio, andate piano e…riposatevi.
Corse via ridendo e battendo le mani.
Messa in moto l'auto, estrasse dal cassetto un CD e lo inserì nel lettore.
Possenti si diffusero le note del Bolero di Ravel, mentre Francesca si
abbandonava sul sedile, accarezzando i capelli del suo uomo.
- Via, a casa, che non riesco più aspettare, Francesca.
- Sì, andiamo, voliamo. Ah scusa; che abbia capito qualche cosa, Lisa?
- Lisa? Gran bella ragazza e anche intelligente, perspicace, il tipo giusto
che ci voleva per Jacopo; mi ricorda tanto te quando eri giovane, la stessa
vitalità, la stessa grazia, lo stesso intuito. Sì, penso che abbia capito e
ne sono contento.
- Tempi passati; ero un bel figurino, ma poi gli anni pesano, si fanno
sentire, che lo vogliamo o no; anche tu eri un gran bell'uomo e lo sei
ancora, perché io ti vedo così.
- Vuoi sapere un segreto? Per me non sei per nulla cambiata.
- Perché hai messo su il Bolero di Ravel, e non un valzer lento?
- Non lo immagini? Meglio non raffreddare…
Scoppiarono a ridere come due ragazzi.
Occhi nel buio
La cantina è lunga e stretta, illuminata solo dalla fioca luce di
una lampadina penzolante; si passa a stento fra scatoloni accatastati,
ricoperti da vecchia polvere che il mio incerto incedere solleva
annebbiando la già scarsa visibilità. Mi batte forte il cuore ogni volta
che scendo a prendere il vino; imploro la mamma di accompagnarmi, ma non
vuol sentir ragioni e, quando le mostro i miei timori, dice che sono solo
mie immaginazioni, sogni, piccoli incubi di un bimbetto di 10 anni. Ma io
so che lui è là, che mi guarda nel buio ove è rintanato, anche oggi…
Scendo la stretta scala e come apro la porta mi attanaglia l'acre odore di
vecchio e putrefatto; avverto subito la sua presenza silenziosa e nel buio
mi sembra di scorgere i suoi occhi che mi fissano, seguono i miei passi ed
allertano i miei sensi. Mi prende un'angoscia indescrivibile ed allora mi
metto a parlare, frasi senza senso, come se fossi con un'altra persona,
nient'altro che una discussione fra me e me, con la voce a tratti roca, in
altri squillante, ma sempre tremula.
E questo perchè lo vedo ghermirmi, stringermi fra le sue mille braccia,
portarmi nell'angolo più buio per fare scempio di me: è troppo mostruoso
per poterlo descrivere, anche perché a volte mi sembra un gigante dai denti
aguzzi, mentre altre è un infido folletto che, sotto una placida apparenza,
nasconde la più insana delle crudeltà.
E quel buio, ove nulla è possibile scorgere con i miei occhi, appare come
un inferno senza fine, animato da mille ombre pronte a divorarmi.
- Ed allora, arriva questo vino?
Ammutolisco: la voce della mamma, se da un lato mi rincuora, dall'altro mi
ricorda che devo proseguire nel percorso, fino in fondo, ove stanno le
bottiglie.
Mi sento stringere la mano, trasalgo, il cuore sembra impazzire, poi tiro
un sospiro di sollievo, perché chi mi sta rincuorando è la mia cara
dolcissima mammina.
- Ancora le tue paure! Ma chi vuoi che ci sia, se non la tua fantasia.
Vedi, adesso vado io là.
- No, non andare, ti prenderà, ti strapperà a me! Ti prego, non andare.
La mamma arriva in fondo, accende una pila ed adesso posso vedere quegli
occhi che prima solo immaginavo: un ragno quieto e silenzioso che fissa la
scena dai fili della sua ragnatela.
E' un attimo, e la mamma si toglie una scarpa, la precipita sul placido
insetto, spiaccicandolo contro il muro.
Guardo quella piccola poltiglia: ora so che ho perso il compagno delle mie
fantasie e che il mostro è solo in noi stessi.
Click
Click, giro l’interruttore e la luce va via, il buio inonda la stanza e mi
avvolge. Invano cerco di dormire e, come sempre, da più di dieci lustri,
vivo la notte più intensamente del giorno.
Quando agli altri si chiudono gli occhi e sprofondano nell’inconscio del
sonno ristoratore, a me succede tutto il contrario: abbasso le palpebre, ma
per quanti sforzi faccia non riesco a dormire.
E’ una situazione insostenibile e quello che ai più può sembrare
un’assuefazione per me è un vero tormento. La mente si aggroviglia in mille
pensieri e sono fortunato se sono i ricordi del giorno appena trascorso,
perché invece di solito emergono le memorie di fatti accaduti molti anni
indietro.
Ed ecco allora che il buio si anima e per quanto serri le palpebre scorgo
emergere figure sfocate, ma ben identificabili: uomini, donne che hanno
avuto una parte nella mia vita e che sembrano reclamare tutti insieme di
continuare ad essere presenti. Ognuna di queste immagini ha ben precisi
riferimenti: un amore finito, un’incomprensione, un qualche cosa di
iniziato e mai terminato.
Cerco di scacciarle, ma sono lì che mi guardano con quegli occhi vuoti, con
quelle bocche mute che urlano più di qualsiasi grido. Ricordi di ciò che si
sarebbe potuto fare e non si è fatto, oppure di ciò che non si doveva fare
ed invece è stato fatto, rimorsi, insoddisfazioni, un’analisi spietata di
tutta una vita.
Sento la pendola che batte le ore, ascolto il mio cuore che scalpita; non
si può nemmeno immaginare quanti suoni ci siano in una notte, dal toc toc
del lavandino che perde al ronzio persistente del cervello che lavora. E le
ore non passano mai e ti accorgi di quanto sia lungo un minuto, di come il
tempo sia un concetto relativo; l’alba, con la prima luce che filtra dalle
fessure delle persiane, è agognata con la disperazione di chi sa che il
nuovo giorno porterà una notte come tutte le altre.
No, non è la notte il mio problema, non è il buio il mio dramma, è solo la
consapevolezza di vivere non in pace con me stesso. Quante volte ho
desiderato di non esistere ed invece è proprio la certezza di essere che mi
condanna a questo perpetuo rimorso.
Forse sono pazzo, ma più probabilmente sono impazzito per queste ore di
sonno mancato ed allora ho preso una decisione: basta coscienza in rivolta,
basta notti di veglia, basta tutto…
Ci vuol poco, solo un definitivo click e la luce se ne andrà per sempre.
La messa delle sette
E’ la prima della giornata, con la campana che risveglia anche chi
continuerebbe volentieri il suo sonno; poco frequentata, se non dalle
vecchine ansiose di porre fine a una notte di dormiveglia e di
spettegolare, prima e dopo la funzione, sul sagrato della chiesa. Sì,
perché anche il cicaleccio a bassa voce, le parole dette a mezzo, le
allusioni, finiscono con il diventare una funzione nella funzione e
rappresentano la condizione indispensabile per iniziare un nuovo giorno.
E in paese, dove tutti si conoscono e tutti sanno, i luoghi d’incontro sono
sempre quelli: il negozio del barbiere, quello della parrucchiera,
l’osteria e appunto il sagrato.
E’ stupefacente vedere come persone avanti con gli anni affrettino il
passo, quasi si precipitino, per essere tempestivamente presenti a questo
rito; c’è chi fa colazione con il latte e il caffè, e c’è chi preferisce le
ultime notizie, spesso sviluppo di informazioni dei giorni precedenti.
Ecco venire dalla strada dell’argine la Ciuffina, chiamata così per via di
una cresta di capelli rigorosamente tinteggiati di biondo, preceduta dalla
ottuagenaria Pioppina, ancora dritta e alta, nonostante l’età, donde il
soprannome.
Raggiungono il crocchio davanti la chiesa e improvvisamente la discussione
si anima, prende toni accesi, perché oggi c’è qualche cosa di nuovo, una
notizia di quelle da prima pagina.
- L’ho saputo ieri sera dalla perpetua e la cosa è certa, perché è stata
confermata dalla Iside Tirabassi, la cugina di Don Zeffirino.
- E’ quasi incredibile! E chi mai avrebbe pensato a una faccenda del
genere; a vederlo, non si sarebbe proprio detto. Non c’è più mondo; chissà
dove andremo a finire. Ai miei tempi era tutto diverso e ognuno si teneva
il suo ruolo.
La Ciuffina, ultima arrivata, non ha fatto in tempo a sentire la prima
parte del colloquio e si agita, vuole sapere, mordendosi le unghie per
l’impazienza – Ripeti, ripeti, che io e la Pioppina non abbiamo sentito.
In quel momento, però, si apre la porta della Chiesa e il chierichetto
annuncia che la messa ha inizio.
Le voci cessano, le vecchiette entrano con passo lento e si accomodano ai
banchi, sempre allo stesso posto, quasi che per usucapione sia potuto
diventare una proprietà personale.
Don Zeffirino, insonnolito, con l’artrosi che lo frena, comincia la
funzione, che le vecchine seguono attente con gli occhi, ma con la mente
altrove.
In particolare c’è la Ciuffina che si agita, che vorrebbe tanto sapere, ma
che per il momento non può e deve rimandare per forza alla fine della
messa.
Ogni tanto volge gli occhi alla Iside, la cugina del parroco, ma questa non
sembra accorgersene e assorta partecipa alla funzione.
E finalmente, quando don Zeffirino, tutto piegato dall’artrosi, biascica la
frase di rito, in un attimo la chiesa si svuota e tutte si ritrovano sul
sagrato.
Quasi implorante la Ciuffina reitera la richiesta di sapere e allora
proprio la Iside, con aria circospetta, si guarda intorno, chiama a sé
tutte e con voce bassa, ma ferma, racconta per l’ennesima volta il fatto.
- Che non si sappia in giro, perché è una cosa troppo grossa, pericolosa,
con questi tempi che vedono i comunisti cercare di soffocare la libertà, di
far venire da noi quei senza Dio, volgari, violentatori di donne.
Al che si alza un mormorio di sdegno, misto a paura, come se quelle signore
attempate, forse un tempo appetibili, potessero diventare da lì a poco gli
oggetti di stupri di massa.
- Beh, acqua in bocca pertanto, perché ne va della vita! Conoscete tutti
quel losco individuo del Guercio, il capo dei malfattori rossi, il simbolo
stesso del prepotente, con quel mezzo sorriso dalla parte dell’occhio sano;
un brutto ceffo, anche come aspetto, eppure, se non bastavano i discorsi da
sobillatore, da rivoltoso, da caporione di marmaglia, ha anche un altro
difetto incredibile, ma che dico mai? Non è un difetto, è il peggior vizio,
proprio dell’essere abominevole quale è; ho vergogna a dirlo, non so ce la
faccio…
- Dai, fatti coraggio – tutte in coro.
- E’ meglio che ve lo spieghi un po’ per volta; dunque, non so se avete
notato che ogni sera lascia il paese con quella sua vecchia moto; alla
moglie dice che va a una riunione del partito e lei ci crede, poverina. Una
tragedia familiare e lui si permette di far questo perché la femmina che
tiene in casa è un’oca. Ebbene, vi dico subito che non va alle riunioni di
partito.
- Va al casino? - sbotta la Ciuffina.
- Magari! Peggio, molto peggio. Tre giorni fa, mio marito, che si era
dovuto fermare in città per alcune questioni e aveva perso l’ultima
corriera per il paese, stava gironzolando per i giardini, quando l’ha visto
con un bambino, con un povero innocente; e lo accarezzava, capite lo
accarezzava; e poi con il piccolo, che avrà al massimo quattro anni, è
andata dietro un cespuglio, ci sono rimasti un po’ e poi quando sono
riusciti il Guercio aveva in mano….oh, mio Dio…, aveva in mano le mutandine
del piccolo. Capite adesso che quell’essere abominevole è anche un
pederasta. Bisogna avvertire i carabinieri, bisogna fare qualche cosa.
Comunque, in ogni caso, mute come i pesci, mi raccomando, perché quello è
capace di tutto.
Il silenzio, per certe cose, è veramente d’oro ed in capo ad un’ora tutto
il paese viene a conoscenza del fatto e, naturalmente, anche il maresciallo
dei carabinieri che tiene d’occhio il Guercio da un po’ di tempo per la sua
attività politica. E’ così che decide di convocarlo in caserma; tutto il
paese lo vede entrare e dopo nemmeno una ventina di minuti venirsene fuori
ridacchiando.
La Iside non può fare a meno, allora, di cesellare il fatto con una chiara
allusione alle possibilità di corruzione dei rossi, così che in paese si
formano due fazioni, con i governativi che additano il Guercio al pubblico
ludibrio e con i comunisti che ne prendono le difese, molti per dovere
d’obbedienza e alcuni perché non credono possibile la cosa.
Sono i primi anni da quando è finita la guerra e l’odio viscerale proprio
della resistenza ora prosegue, con sgarbi quotidiani, e in alcuni casi con
vere e proprie risse.
La situazione in paese sta diventando insostenibile, tanto che il
maresciallo decide di convocare tutti in piazza per fare un po’ di
chiarezza sulla questione, ma non lo lasciano neppure iniziare a parlare e,
fra fischi e grida di venduto, deve quasi rifugiarsi dentro la caserma.
Il giorno dopo, che è domenica, si è sparge la voce che, durante la messa
delle 11, la più seguita, a cui partecipano tutti, anche i rossi, tranne
qualcuno, Don Zeffirino parlerà del caso Guercio.
L’afflusso è massiccio, tanto che tutti non riescono a entrare e restano
sul sagrato, ma il grande portone resta aperto. Mancano poco alle 11 quando
arriva uno che a messa non ci va mai: il Guercio. Passa fra due ali di
folla, fra invettive e applausi a seconda dell’opinione politica, si
inginocchia davanti all’altare e prende posto in prima fila.
Don Zeffirino lo guarda e gli dice – Posso?
- Sì.
- Figliuoli, la nostra comunità è profondamente turbata da una notizia che
circola in questi giorni, una notizia che avrebbe sconvolto chiunque che
non sapesse. E’ una storia che conosco da tempo, perché l’interessato,
anche se ateo, a suo tempo ha voluto confidarsi con me come amico di
vecchia data. Lo ricordo quando bambino era immancabile ed è stato uno dei
miei migliori chierichetti, ma poi la guerra, le tragedie avvenute dopo il
1943 hanno modificato il suo carattere, la fede ha cominciato a vacillare e
ne ha trovato una nuova, blasfema, terrena, antireligiosa, ma lui la serve
con grande scrupolo morale. Il Guercio è un avversario, dunque, e non un
nemico, e un giorno confido che, come tante, troppe pecorelle smarrite
possa rientrare all’ovile e il suo pastore l’accoglierà a braccia aperte.
Non si può infangare una persona, lanciarle delle accuse così ignobili e
per questo racconto ora la verità.
Sapete tutti che negli ultimi due anni della guerra è stato su in montagna
a fare il partigiano e più di una volta ha visto la morte in faccia, e
qualche altra l’ha data lui; ebbene, c’è stato un giorno in cui la sua
banda è stata accerchiata dai tedeschi; la situazione sembrava ormai
disperata, ma lui non si è dato per vinto, ha ordinato di resistere fino
alla notte quando maggiori erano le possibilità di sganciarsi. Uno dei suoi
uomini, che poi non ci è riuscito, è stato catturato e poi fucilato; ebbene
questi gli aveva chiesto un grandissimo favore: prendersi cura del suo
unico figlio, nato da pochi mesi. E lui ha promesso che l’avrebbe fatto.
Così, ogni quindici giorni, tramite me, per non far sapere la cosa in giro,
sono ormai tre anni che il Guercio manda una piccola somma alla vedova, che
sta in città con il piccolo. E come farebbe ogni buon papà, tre sere ogni
settimana, terminato il lavoro, va a trovarlo, lo porta a spasso, gli fa
fare i bisogni quando gli scappano. Ecco, ho detto tutto.
La gente mormora, si volge verso il Guercio, ma lui se n’è già andato.
Un cenno della mano di Don Zeffirino e la messa ha inizio.
(da “Storie di paese”)
Note su "Riappropriarsi
della parola attraverso la rete" di Salvatore Armando Santoro
Ho letto con estremo interesse questo saggio di Armando, in quanto tratta
un tema comune a noi poeti amatoriali, termine quest'ultimo invero
riduttivo, ma che serve solo a evidenziare autori non legati all'attività
letteraria intesa in senso professionale.
Dico subito che concordo con quanto esaurientemente scritto, peraltro in
modo assai comprensibile, il che non guasta in un panorama editoriale dove
si leggono critiche sovente astruse e indecifrabili, legate per lo più a
opere di scarso valore, a onta dei risultati di vendita che denotano un
panorama dei lettori quanto mai variegato, ma disponibile a essere
influenzato nelle scelte e nei giudizi (una per tutte, vedasi il
celeberrimo "Codice da Vinci", mediocre romanzo, pompato all'inverosimile,
tanto che a non leggerlo sembra di essere un diseredato).
Armando ha ben evidenziato la spontaneità del poeta amatoriale, che
giustamente usa la sua opera come mezzo di comunicazione delle sue
emozioni e dei suoi sentimenti, che poi sono proprie di ognuno di noi in
maggiore o minor misura; in buona sostanza è una conversazione
apparentemente lanciata nel vuoto, perchè fra le migliaia di lettori ci
sarà sempre più d'uno che la farà propria. In un mondo sterilizzato,
impersonale, Internet può rappresentare certo un pericolo, ma il suo uso
permette anche il raggiungimento di scopi un tempo impensabili e una
riprova di questo è il proliferare di siti dove poeti e narratori, anche
alle prime armi, si mostrano al mondo.
Mi è capitato di leggere, facendo zapping (un brutto, ma efficace
neologismo), diverse poesie e racconti di autori del tutto sconosciuti e
che non hanno mai avuto l'onore di essere presenti nelle nostre librerie;
alcune di queste opere, a mio giudizio, sono di assoluto valore e nulla
hanno da invidiare ad altre ben più blasonate. Non è improbabile che
resteranno nel web, senza che un editore sia disposto a pubblicarle;
parlano di sentimenti, di emozioni, di amore, tutte caratteristiche
proprie dell'essere umano, ma che l'ambiguità esistente tende a soffocare,
privilegiando opere che non parlano se non del nulla, che una volta lette
non ti restano dentro, insomma tutto il contrario di quanto dovrebbe
essere un lavoro artistico. Gli editori non si avventureranno mai a
finanziare romanzi di autori sconosciuti, ma magari di elevata capacità
tali da renderli paragonabili ai grandi della letteratura, perchè diranno
sempre loro che il "genere non tira". E allora proliferano "generi che
tirano", tipo il puro e semplice pettegolezzo, il fantastico, il giallo,
il giallo-rosa, narrativa quindi prevalentemente d'evasione e che non
impegna le meningi più di tanto, perchè è proprio questo che si vuole: che
la gente non mediti, perchè un essere che ragiona è pericoloso in un mondo
dove l'asservimento deve essere totale, in presenza di una libertà tutta
di maniera, e non di sostanza.
In questo senso il web per tutti quelli che scrivono se stessi, vogliono
comunicare, espandere il loro animo a quello degli altri è una rivoluzione
senza precedenti e finisce con il rappresentare l'ultimo baluardo di un
concetto di libertà che vede la difesa della personalità umana, contro
ogni delegittimazione, anche dei sentimenti.
Seconda parte
Ritorno al concetto di effetto diffusivo di
Internet per puntualizzare due aspetti:
1) tramite il web autori che non avrebbero possibilità di pubblicare con
editori sono in grado di raggiungere un pubblico di lettori
incredibilmente elevato e, quindi, di farsi conoscere maggiormente; questo
aspetto presenta però un risvolto negativo: la mancanza di introiti. Tale
circostanza, per lo più, non è tuttavia avvertita in modo marcato,
considerato che gli autori non sono professionisti. Viene meno anche la
possibilità di recensione delle opere da parte di critici "autorevoli"
che, in realtà, non sono poi tanto titolati per la bisogna, ed in
proposito passiamo al secondo aspetto;
2) l'attività delle Case Editrici ora più che mai è orientata al profitto,
possibilmente cospicuo e immediato; in questo ambito gli esordienti hanno
ben poche possibilità di ottenere contratti, anche se fossero dei talenti
eccezionali; una volta le cose erano diverse, perché l'editore, se fiutava
le notevoli possibilità di un autore sconosciuto, non esitava a pubblicare
le sue opere, certo che il tempo gli avrebbe dato ragione e l'avrebbe
ripagato degli oneri sostenuti. Ecco allora il proliferare di opere di
autori già affermati, per lo più esteri, dove la professionalità
dell'editore è più marcata, peraltro limitatamente a poche nazioni.
Riguardo ai critici più di una volta ho riscontrato che certi sperticati
elogi di un'opera apparivano in contrasto con il mio giudizio derivante
dalla lettura della stessa; non contento, in alcuni casi, ho interpellato
miei conoscenti che avevano letto lo stesso romanzo e, guarda caso,
esprimevano un giudizio non proprio positivo. Che cosa vuol dire questo?
Che, leggendo, io e questi altri non abbiamo capito niente? No, perché pur
mettendo in conto questa possibilità, questo vorrebbe dire che l'autore
non è stato esemplarmente chiaro nella stesura della sua opera se lettori
che vanno dall'operaio al professore universitario non sono stati in grado
di capirla, e allora non è quel romanzo così attraente, affascinante che
il critico ha tanto osannato. Questo nella migliore delle ipotesi, perché
in alcuni casi ci sono opere di scarsa qualità, che inducono a pensare
che, il critico, come si suol dire, è di bocca buona, oppure ha avuto un
interesse tutto particolare nel tessere i suoi elogi.
Quanto sopra per evidenziare che il web offre possibilità inimmaginabili
per gli autori, con un pubblico potenziale ben superiore a quello degli
affezionati frequentatori di librerie, non di rado eccessivamente
acculturati e quindi meno disponibili alla novità.
Ciò non toglie che sia indispensabile saper scrivere, nel senso che non
basta avere buone idee, ma occorre saperle sviluppare in modo equilibrato
con un italiano scorrevole e corretto. Per far questo ci sono anche scuole
di scrittura, ma ritengo che possa essere alla portata di quasi tutti
semplicemente leggendo opere di autori che spesso a scuola abbiamo
svogliatamente studiato. Mi riferisco, per quanto concerne la narrativa,
ai "Promessi sposi" del Manzoni, o comunque a romanzi di autori
dell'ottocento e della prima metà del novecento. Relativamente alla
poesia, la conoscenza non superficiale dei testi omerici, di Virgilio, di
Dante Alighieri e di tutti i grandi poeti successivi, compreso Mario Luzi,
tanto caro all'amico Santoro e anche a me, può costituire la base
indispensabile per comporre, perché, se è vero che poeti si nasce,
scrittori di poesie si diventa.
Non intendo dilungarmi sulle metodologie, sugli stili, perché mi preme
invece evidenziare la necessità imprescindibile che chi pubblica le
proprie opere su Internet debba avere un ritorno, anche se non economico.
Quando leggiamo qualche poesia che ci interessa, qualche racconto che ci
avvince, esprimiamo, ove possibile, la nostra soddisfazione. Per chi ha
aperto il proprio animo, ha trasportato i suoi sentimenti sulla nuda
carta, il gradimento del lettore è spesso l'unica retribuzione di tanta
fatica, e credetemi non è poco, anzi, spesso, è tanto.
La canzone di Maria
Perché era andata a rovistare nella soffitta, fra ragnatele e vecchie
cassapanche polverose?
Maria se lo andava chiedendo, mentre buttava da un lato vecchi stracci,
conservati senza un motivo, senza una logica.
Forse era il tempo che non le mancava, le poche ore di sonno, la tediosità
di una vita in solitario di una signora che aveva passato ormai la
settantina.
Quella mattina si era alzata assai presto, quando ancora non albeggiava, e
dopo le abluzioni aveva preso il solito caffè, d'orzo però, come le aveva
consigliato il medico a causa dei disturbi del suo cuore; più che un
malanno era un fastidio, un'aritmia ricorrente che le metteva affanno.
Il giorno prima aveva lavorato a lungo, preparato la camera degli ospiti,
armeggiato in cucina per preparare quei piatti che a sua figlia piacevano
tanto e questo perché lei e il marito sarebbero arrivati con il nipotino
all'indomani. Non la vedeva da un anno, perché Livia, così si chiamava, da
quando si era sposata si era trasferita con il marito negli Stati Uniti,
dove lui lavorava in un laboratorio di ricerche. I contatti, se pur
telefonici, erano frequenti, ma rivederla era tutta un'altra cosa.
Nell'attesa, quindi, le era venuta l'idea di fare un salto in soffitta a
fare un po' d'ordine.
Mise da una parte una gran quantità di giornali ammuffiti, poi passò a
un'altra cassapanca, l'aprì e sotto una patina di polvere vide una grossa
agenda. Avvertì una forte palpitazione, la prese subito in mano e rimase a
contemplarla: sul dorso era impresso l'anno 1938.
Aveva sempre avuto la passione di tenere un diario, ma aveva conservato
solo quello e lei sapeva bene il perché. Con mani tremanti iniziò a
sfogliarla fino a quando arrivò al 10 aprile; si aggiustò gli occhiali e si
mise a leggere.
Oggi ho compiuto gli anni; c'è stata una grande festa in famiglia e il
papà ha comprato una torta con 20 candeline. Mi sono emozionata e anche
commossa: sono venute tutte le mie migliori amiche e c'era anche lui,
Stefano. Mentre tagliavo la torta, ho visto che mi sorrideva. Quanto è
bello, non è un uomo, ma un sogno; potrò mai aspirare un giorno a essere
prescelta da lui per essere sua moglie? Io credo proprio di amarlo, ma lui…
amerà me? Quel sorriso può significare tante cose, anche un semplice cenno
di amicizia.
Abbiamo mangiato la torta, ma io non ho avuto occhi che per lui. Penso che
se ne sia accorto, perché a un certo punto mi si è avvicinato e mi ha detto
- Buona, veramente buona Maria; una gran bella torta, degna di una gran
bella ragazza.
Credo di essere arrossita, ma quelle parole mi hanno inebriato, più del
bicchierino di spumante che mi sono sforzata di bere.
Poi ho aperto i regali e mano a mano che mi passavano i pacchetti attendevo
ansiosa quello di Stefano e quando è arrivato ho sciolto quasi tremando il
nodo del pacco che piccolo non era, e infatti c'era dentro un disco.
L'ho voluto sentire subito ed è bellissimo, una canzone solo per me
intitolata "Parlami d'amore, Mariù"; l'ho ascoltata come in sogno e lui era
di fianco a me; a un certo punto mi ha cinto la vita e mi ha invitato a
ballare. Non credo di aver mai danzato così male in vita mia come oggi; non
sentivo la musica, intorno a me non c'era più nessuno, se non lui.
Dio mio, fa che questa felicità abbia a durare in eterno.
Una lacrima fece capolino fra gli occhi, ma l'asciugò subito e fece
scorrere le pagine successive, in cui il diario di ogni giorno cominciava
con "Il mio Stefano", poi arrivò a un punto in cui il foglio era in parte
strappato; si fermò un istante, mentre avvertiva la tristezza che
l'assaliva; si fece quasi coraggio e cominciò a leggere.
20 settembre
Il mio Stefano non è più mio; oggi ci siamo lasciati, o forse è stato lui a
lasciarmi, incapace di sopportare l'amore che gli riverso ogni giorno; sono
sicura che non ha un'altra, ma è da un po' di giorni che ho notato che si
va raffreddando nei miei confronti e quella magica atmosfera è diventata un
grigiore piatto; forse siamo troppo giovani con i nostri venti anni,
forse l'amore è così, un sogno che con il tempo si affievolisce; non sono
più sicura di amarlo come prima, e forse è meglio che tutto finisca presto.
E notò che l'ultima riga era sbiadita, come se le lacrime avessero diluito
l'inchiostro.
Ripose il diario, fece scorrere le mani lungo uno dei fianchi della
cassapanca e trovò il disco. Diede una spolverata alla vecchia copertina e
decise di riascoltarlo dopo tutti quegli anni.
Ne era passato tanto di tempo, da quel 20 settembre non aveva più rivisto
Stefano, di lì a qualche mese aveva conosciuto Roberto, più vecchio di lei
di una decina di anni, si erano piaciuti e già alla fine della primavera
dell'anno successivo si erano sposati. Poi, la guerra, gli anni difficili
del dopo, la nascita di Livia, la morte improvvisa di Roberto, un buon
marito.
Scese le scale e arrivò in salotto, accese il giradischi e…
Le note si diffusero nella stanza e con esse le parole della canzone
"Parlami d'amore, Mariù
Tutta la mia vita sei tu"
Quella spina che le era rimasta in fondo al cuore le provocò una fitta, un
tremendo senso di sconfitta, una lacerazione dell'animo che neppure lo
sfogo delle lacrime riuscirono a placare.
"Gli occhi tuoi belli brillano
Fiamme di sogno scintillano"
Perché, perché era finito tutto, perché il sogno era cessato?
E chissà dove era ora Stefano?
"Dimmi che illusione non è
Dimmi che sei tutta per me"
Strinse forte i pugni, soffocò l'urlo che prepotente chiedeva di uscire dal
suo petto.
"Qui sul tuo cuor non soffro più
Parlami d'amore Mariù…"
Le parve di impazzire, con i ricordi che si accavallavano alla realtà del
presente, sogni, speranze mancate contro le concretezze del tempo
trascorso.
Si sentì quasi mancare, ma non c'era altro da fare, ormai.
Si alzò, spense il grammofono, ne trasse il disco e lo spezzò in tante
piccole parti, poi decise che anche il diario avrebbe fatto la stessa fine.
Ossessione
Calano le prime ombre, insieme alla nebbia, un velo grigio di maglie fitte
che deforma la realtà.
Già, la realtà, un ben arduo dilemma, in un mondo dove sempre più c'è un
abisso fra ciò che appare e quello che effettivamente è. E così quello che
sembra un innocuo passante potrebbe invece essere un criminale della
peggior specie, un essere dalle sembianze umane, ma dall'animo bestiale,
proprio come nel caso del Rag. Tagliaferri.
A suo tempo l'evento fece scalpore, fu riportato su tutti i giornali, ne
parlarono perfino i telegiornali, ma ora tutto tace e la gente ha
accantonato la memoria e con essa tutte le paure.
Io invece ricordo, tutti i giorni, tutte le notti, perché, indirettamente,
sono stato una sua vittima.
Correvano gli anni sessanta e in Italia c'erano i primi sintomi di uno
sviluppo economico, che poi sarebbe prepotentemente esploso, tanto da
meritarsi l'appellativo di "boom".
Le strade cominciavano a essere percorse da un numero crescente di
automobili, di piccola dimensione rispetto alle attuali, ma sufficienti a
portare una famiglia alla conoscenza del mondo all'intorno, a beneficiare
di una insperata libertà di movimento.
Anche i primi televisori cominciavano a entrare prepotentemente nelle
case, a stupire attonite famiglie, mutando radicalmente il modo di vivere;
insomma, il progresso economico portava anche a un'evoluzione degli usi,
dei costumi, a un' apparente riscrittura del futuro delle genti.
Il Rag. Tagliaferri, stimato contabile di una banca locale, sposato con
due figli, era il classico esponente di una nuova borghesia che andava
prendendo piede, una persona non in vista, ma anche non sconosciuta,
fedele devoto che non mancava una messa domenicale insieme a tutta la
famiglia, prodigo di consigli disinteressati in pubblico quanto avaro di
sentimenti in privato, un uomo, si potrebbe definirlo, per tutte le
stagioni, ma in effetti per nessuna. Dietro quell'aspetto distinto e
bonario si celava una perpetua insoddisfazione, un tarlo che continuava a
rodere, uno spettro satanico.
La prima vittima fu trovata alla vigilia di Natale del 1961, una povera
prostituta selvaggiamente picchiata, poi strangolata con la sua stessa
sciarpa; la notizia, in sé, non fece un gran scalpore, perché nella
mentalità corrente l'assassinata veniva vista come un gradino sotto
all'ultimo nella rigida scala sociale che ci si era imposti. Del resto,
non bisogna dimenticare che all'epoca il nostro codice penale prevedeva
ancora il reato di adulterio e il delitto d'onore, un retaggio maschilista
duro a morire anche ai nostri giorni.
I giornali si limitarono a un breve trafiletto e solo uno, di stampo
chiaramente cattolico, mise un titolo che ancor oggi fa rabbrividire
"Vittima dei suoi peccati".
I festeggiamenti di fine anno fecero dimenticare a tutti l'avvenimento, ma
il giorno dell'Epifania fu scoperto un altro cadavere lungo uno dei viali
del parco cittadino. Furono subito evidenti le analogie con il primo
omicidio per le stesse modalità di esecuzione, ma vi era una differenza
per nulla trascurabile: la vittima era una signora della buona società,
moglie di un primario del locale ospedale.
In questo caso le notizie assursero al rango di eco roboante, con edizioni
straordinarie dei principali quotidiani, ampio risalto durante i
telegiornali e perfino un accorato appello del vescovo della città che
pregava l'omicida di costituirsi per il suo bene, ma, anche sottinteso,
soprattutto per il bene di tutti. Sorsero comitati di cittadini desiderosi
di proteggere la vita familiare di tutti e fra questi si distinse quello
del Rag. Tagliaferri, le cui lettere ai direttori dei giornali dovettero
sembrare meritevoli di pubblicazione, trattando indifferentemente e
insieme problemi psicologici e religiosi dell'omicida.
In tutto questo baccano la polizia lavorava sodo, ma francamente
brancolava nel buio, in assenza di moventi, impronte, o comunque anche di
esili tracce; tanto per dimostrare che si stava facendo qualche cosa,
furono fermati alcuni individui con analoghi precedenti penali, ovviamente
senza esiti: rimasero in Questura giusto il tempo per accertare gli alibi.
Poi, quando il clamore del fatto cominciava a smorzarsi, fu rinvenuta la
terza vittima, in un vicolo della città; anche in tal caso le modalità
apparvero da subito le stesse e pure l'assassinata era una persona in
linea con la scala sociale, una donna gentile, quieta, tutta dedita alla
famiglia e che l'autopsia accertò in stato di gravidanza appena iniziata.
In un solo colpo, quando un imbarazzato poliziotto mi comunicò la notizia,
mi ritrovai vedovo e senza un figlio.
Dire che rimasi sconvolto è un eufemismo: il dolore che dimostrai al
momento non è nulla rispetto alla disperazione che tutti i miei conoscenti
notarono in me, mentre giornalisti indifferenti al mio stato mi braccarono
per avere ulteriori notizie, scavando nella mia vita, rivoltandola come un
guanto, così che quando ero per strada, e la gente mi guardava, avevo
l'impressione di essere nudo.
In quel periodo ebbi poca voglia di informazioni e ricordo solo un titolo:
"Il mostro colpisce ancora". Ormai la psicosi aveva paralizzato la vita
cittadina e innumerevoli erano le denunce di donne che avevano solo vaghi
sospetti su uomini, il cui unico torto, magari, era stato quello di
incontrarle sul marciapiedi una sera. Furono rafforzati i servizi di
vigilanza, istituite ronde notturne, potenziata l'illuminazione. E in
mezzo a tutto questo caos ci fu anche qualche poliziotto che si prese la
briga di interrogarmi, di chiedermi l'alibi, come se io avessi avuto la
possibilità di uccidere mia moglie mentre me ne stavo in una riunione
d'ufficio con dieci colleghi.
Le notizie si accavallarono, la confusione aumentò, le chiacchiere si
susseguirono in una sorta di girone infernale, dove tutti giravano in
tondo, senza sapere dove.
Infine, il sistema collassò e fu quando venne trovata la quarta vittima,
la moglie del Rag. Tagliaferri.
La trasmissione delle notizie divenne allora caotica, gli appelli dei
religiosi si moltiplicarono, sovrapponendosi, un sottile stato d'ansia
prese tutti i cittadini, la gente cominciò a guardarsi con sospetto, il
vicino divenne un possibile nemico e anche l'amico più fidato sembrò
celare una personalità contorta fino ad allora sconosciuta.
I passanti diventarono esseri potenzialmente pericolosi e in breve tutti
finirono con il diradare le uscite.
Si creò una situazione di stallo, mentre tutti aspettavano con ansia che
gli investigatori annunciassero la lieta novella; passarono così i giorni,
tetri, senza albe e tramonti, in una città che sembrava in stato di
assedio.
E un sabato pomeriggio proprio un poliziotto, in servizio di sorveglianza,
scoprì la quinta vittima, subito dopo aver incontrato per la strada un
uomo che non gli era sconosciuto. In breve, lo prelevarono da casa, lo
portarono in Questura e dopo una notte di interrogatori lo arrestarono.
Mi vengono i brividi se penso a quando lessi l'edizione straordinaria del
quotidiano locale "Catturato il mostro: è il Rag. Tagliaferri".
Non feci in tempo a riprendermi che già bussavano alla mia porta;
immaginai il titolo, ancor più straordinario "I mostri sono due"; sì,
perché avevamo congegnato bene il tutto, un piano perfetto,
incredibilmente bello, per degli omicidi apparentemente senza movente: il
Rag. Tagliaferri avrebbe ucciso mia moglie e io la sua, con alibi per
entrambi a prova di bomba; nella sua ossessione di perfezionismo avevo
avallato anche i primi due omicidi, sempre eseguiti da lui, con il preciso
scopo di dare ai nostri una connessione logica con questi. Ma quel
cretino, senza dirmi nulla, aveva voluto strafare, pensando che una quinta
vittima ci avrebbe messi al riparo da anche il più remoto dei rischi.
Il segreto di Cocò
- Questo posto è un vero paradiso, e non esagero; cibo ottimo e abbondante,
ampi spazi per muoversi in tutta libertà, dei padroni che ci adorano,
e…infine un galletto sempre pronto a fare il suo dovere. Che volete di più
dalla vita?
Madame Ciccina si alzò impettita sul suo trespolo e rivolse uno sguardo
altezzoso a tutte le colleghe, beandosi del discorsetto appena tenuto, e
attendendo una risposta quale pretendeva.
E infatti ci fu un coro unanime di sì.
Il galletto non era meno soddisfatto, visto che la decana del pollaio aveva
giustamente messo in risalto le sue qualità, anche se onestamente doveva
ammettere che la sua posizione risultava notevolmente agevolata dal fatto
d'essere l'unico maschietto; in verità c'era anche un altro gallo,
Chicchirichì, ma era talmente vecchio e decrepito che appena riusciva a
reggersi in piedi, e che quindi era naturalmente impossibilitato a essere
un concorrente.
Ciccina, acuta osservatrice, si era però accorta che l'assenso non era
stato proprio unanime e che una non aveva aperto il becco.
- Cocò, non sei della mia opinione? Benedetti giovani, sempre scontenti,
gli si potrebbe offrire il mondo e loro avrebbero qualche cosa da ridire.
Perché non sei d'accordo?
- Sì, si mangia bene, c'è tutto quello che hai detto tu, ma resta il fatto
che tutte non sono soddisfatte; infatti qualcuna ogni tanto se ne va.
- Ingrate, esseri spregevoli, ecco chi sono quelle che lasciano il pollaio.
- Ma la mia amica Zampetta era una brava gallina ed era contenta del posto,
tanto che me l'aveva detto più volte. Eppure è da ieri che è sparita, da
quando l'ha chiamata la padrona.
- C'ero quando è venuta la padrona e l'ha chiamata amorevolmente: questa è
la prova che certe di voi hanno dei grilli per la testa.
La discussione fini lì e tutte si avviarono verso il letamaio a praticare
il loro sport preferito: la caccia ai lombrichi.
Il giorno dopo, al risveglio, la padrona entrò nel pollaio e…
- Ciccina, Ciccina cara, vieni con me, dai vieni.
- Ragazze, vi saluto; la padrona ha riconosciuto di sicuro i mie meriti di
abile amministratrice del gruppo e mi vorrà premiare: qualche leccornia
speciale, certamente. Poi vi racconterò.
Il poi però non ci fu, perchè Ciccina non fece ritorno, come Zampetta e
tante altre.
La circostanza fu motivo di accesa discussione nel pomeriggio; ci fu chi
vide nell'assenza una particolare elevazione di rango della scomparsa,
quasi una parificazione ai padroni e chi invece, più malignamente, ebbe a
dire che certa gente predica bene, ma poi razzola male.
Solo Cocò non aprì il becco e se ne stette in un angolo cupa e tutta
tremante.
Il galletto se ne accorse e le impose di dire la sua opinione, ma la
gallina restò zitta. Poiché era evidente il suo stato di tensione, si
ritenne di attribuirlo a una misteriosa malattia e pertanto si chiamò il
vecchio e saggio Chicchirichì per un consulto.
Con il poco fiato che gli restava le chiese quale erano le ragioni del suo
malessere, ma non ottenne risposta.
Il galletto allora decise di passare alle maniere forti e cominciò a
beccarla sulla testa. Cocò restò impassibile, quasi non avvertisse il
dolore. Chicchirichì intervenne e fece smettere il manesco collega,
stringendo a sé la povera Cocò.
- Dimmi cosa c'è, che cosa ti angustia.
- E' un segreto, Chicchirichì, un terribile segreto; se lo racconto, non mi
crederete.
- Dai, sei una brava gallina, seria e rispettata da tutti. Perché non
dovremmo crederti?
- E va bene, ma solo perché ho bisogno di sfogarmi. Dovete sapere che sul
mezzogiorno, mentre facevo una passeggiatina, Full, il cane dei padroni, mi
è corso dietro e io per sfuggirgli ho aperto le ali e ho fatto un balzo,
breve, ma sufficiente a finire sul davanzale della finestra della cucina ed
è allora che ho visto…
Tutte in coro - Che hai visto?
- Ho visto Madame Ciccina a tavola con i padroni.
- Quale onore per la nostra decana!
- Non avete capito: sulla tavola…
- Beh, i nostri modi sono po' grezzi, ma pensiamo che imparerà a sedersi
come si deve.
E che mangiavano?
- Ragazze…, i padroni mangiavano Ciccina.
E il coro - Ma no! Impossibile!
- E invece sì; ricordo ancora la padrona che si portava alla bocca una
coscia, l'addentava, masticava rumorosamente, poi diceva ripetutamente che
era buona, tanto buona.
- No! No!
E tutte le galline si misero a correre all'intorno come impazzite;
l'isterismo collettivo fu fermato con tono stanco, affranto, ma imperioso
da Chicchirichì.
- Ragazze mie, temo che Cocò abbia detto la verità; ho sempre avuto dei
sospetti per le sparizioni misteriose, ma non ho mai avuto l'occasione di
vedere la scena che la nostra amica ci ha appena raccontato; inoltre, poco
fa, mentre passavo vicino al secchio delle spazzature la mia attenzione è
stata attirata da un mucchio di piume cremisi, tali e quali quelle di
Ciccina.
- Come possiamo difenderci?
- In nessun modo: loro ci danno da mangiare senza che dobbiamo lavorare e
noi contraccambiamo… con noi stessi, in un destino amaro, ma accettabile.
Passarono tre giorni di quiete, in un pollaio di colpo ammutolito, poi la
mattina del quarto si affacciò la padrona.
Le galline, tutte tremanti, abbassarono il capo.
- Cocò, bella, vieni con me.
La chiamò più volte, ma lei non accennò a muoversi, anzi, quando vide
avvicinarsi la padrona, spiccò un balzo e volò fuori dalla recinzione,
correndo come impazzita il più lontano possibile. Dietro a sé sentiva la
voce della donna sempre più vicina, le pareva quasi di avvertire il suo
fiato. Arrivò così alla strada, percorsa da una moltitudine di mostri a
quattro ruote come quello della padrona e quando si accorse che questa la
stava afferrando, decise che quel giorno non avrebbe occupato il posto
sulla tavola.
Il balzo colse di sprovvista il conducente del grosso autocarro e anche il
tentativo di frenata fu inutile.
L'angelo dormiente
Il risveglio fu brusco, improvviso, nella stanza quasi completamente buia.
Aveva fatto un brutto sogno e sentiva ancora dentro lo spavento; avrebbe
voluto chiamare la mamma, ma si trattenne, perché gli sembrava di scorgere
qualche cosa.
Cercò di mettere a fuoco, poi strabuzzò gli occhi: accanto al letto, sul
pavimento
s'indovinava una figura raggomitolata su se stessa, un altro bimbo come
lui,
anche se assai diverso. Aveva i capelli biondi, con tanti boccoli, una
tunica bianca e dalla schiena uscivano ripiegate delle candide ali: un
angelo, dormiente, perché aveva gli occhi chiusi ed il respiro tipico di
chi è nel mondo dei sogni.
Fece per gridare, ma si trattenne; allungò una mano e scosse quel corpo
che al tatto gli parve inconsistente.
L'angelo emise uno sbadiglio, poi si volse verso il bimbo, guardandolo
negli occhi.
- Ciao Marco, scusami, ma anche gli angeli ogni tanto si appisolano, e poi
tu dormivi tanto profondamente che ho pensato non fosse necessario
vegliare su di te.
- Ma tu, tu, sei …un angelo?
- Certo, sono il tuo angelo custode e starò sempre accanto a te.
- Avevo sentito questa storia degli angeli custodi, ma non ci credevo,
perché aveva il sapore di una favola.
- E invece, come puoi vedere, non è una fiaba.
- Grandioso!
E nel dire questa parola, alzò un po' troppo la voce; si udirono allora
nell'altra camera dei movimenti frettolosi, infine fu accesa la luce e
sulla porta apparvero i genitori.
- Non stai bene, piccolo?
- No, stavo parlando con il mio angelo custode; ecco, vedete, è di fianco
a me.
La madre sorrise, si avvicinò al letto e, carezzando la fronte del suo
piccolo - Non c'è nulla, è stato solo un sogno. Ora dormi, perché è ancora
notte fonda.
Appena usciti e spenta la luce, Marco bisbigliò - Non ti hanno visto,
forse davvero sto sognando.
- No, ci sono e tu mi vedi, solo tu però, perché l'angelo custode non può
essere scorto se non dal suo padroncino e purché abbia l'animo puro. Ora
ascolta il consiglio della mamma e dormi, anzi dormiamo.
Da quella notte, Marco e il suo angelo furono inseparabili, giorno dopo
giorno, ma mentre il bimbo cresceva, si sviluppava, diventava un uomo, il
suo compagno restava sempre uguale, come se il tempo per lui non passasse
mai.
Quando aveva bisogno di un conforto, di risolvere un problema, Marco
sapeva a chi rivolgersi e anche se spesso il suo consigliere risultava
profondamente addormentato, tanto da doverlo svegliare con uno strattone,
le risposte venivano precise, puntuali, pertinenti e, soprattutto, valide.
Non aveva fatto più cenno a nessuno del suo amico invisibile, perché
l'importante era che ci fosse per lui, e non mancarono le occasioni perché
l'aiuto dell'angelo fosse importante, qualche volta creando anche
situazioni imbarazzanti, come in occasione del suo matrimonio.
Alla classica domanda "Marco, tu vuoi prendere per sposa la qui presente
Ester?", rimase un attimo silenzioso, nell'attesa di una risposta del suo
amico, come al solito addormentato.
Fra lo stupore generale dei presenti, allungò allora una mano nell'aria e
solo quando l'angelo annuì con la testa, gridò il fatidico "sì".
Gli anni passarono, con l'angelo sempre presente, fino a quando un giorno
Marco, ormai vecchio e malandato, avvertì chiaramente che la vita gli
sfuggiva; ormai, quasi incosciente, e con la vista ottenebrata, volse lo
sguardo intorno al suo letto e scorse la moglie, i figli, gli amici più
cari, ma non il suo angelo.
Allora chiuse gli occhi e lo vide: sorridente, gli tendeva la mano e lo
invitava a seguirlo in un corridoio di luce accecante.
Si sentì straordinariamente leggero, mentre, tenendo quella mano, si
avviava verso l'eternità.
L’abbuffata
Sono ormai ventidue anni che immancabilmente ci si trova tutti la sera del
10 giugno per una cena conviviale e ora sono per l’appunto le 20,00 del 10
giugno 2005.
Sono arrivato per primo al ristorante e, sgranocchiando un grissino,
attendo gli altri tre.
Siamo amici dall’infanzia, cresciuti insieme come fratelli, gli stessi
studi, ultimati i quali, con l’approccio al mondo del lavoro, le
frequentazioni si sono diradate. Ci si ritrovava un paio di volte ogni anno
fino a quel tragico 10 giugno del 1983 quando ci giunse la notizia che, da
5 eravamo diventati 4. Me lo comunicò per telefono Massimo, con la voce
rotta dalla commozione – Scusa il mio tono, ma da oggi Franco non è più fra
noi.
- Ma che è successo?
- L’ha trovato la moglie, si è impiccato.
Franco era il più chiuso del gruppo; in lui c’era una naturale
riservatezza, un pudore che lo portava ad arrossire quando noi si parlava
di sesso, tanto che disperavamo che riuscisse a trovare una ragazza, e
invece la trovò, e veramente bella, esuberante, in netto contrasto con il
suo carattere. Arrivò al matrimonio dopo un brevissimo fidanzamento e
Franco sembrava toccare il cielo. Poco dopo il ritorno dal viaggio di
nozze, cominciarono a circolare le voci, dapprima accenni velati, poi quasi
clamori: insomma, la sposina lo tradiva.
E Franco iniziò macerarsi, ad apparire sempre meno in pubblico, chiuso in
un doloroso mutismo che, quando gli parve insopportabile, lo indusse a
compiere l’ultimo, estremo passo.
In quella dolorosa circostanza noi quattro amici ci ripromettemmo di
ritrovarci almeno per una cena di commemorazione il 10 giugno di ogni anno
e l’impegno, fino ad ora, è sempre stato rigorosamente mantenuto.
Io, come al solito, sono in leggero anticipo e osservo gli altri
commensali: una famigliola con due bambini, una coppia di fidanzati, almeno
così mi sembrano con gli occhi più attenti per i loro volti che per le
pietanze, un gruppo di anziani festosi, un singolo tutto solo che, come me,
si guarda all’intorno.
Ecco che arriva Massimo, sempre più corpulento, i capelli tinti di nero,
una larga camicia fiori su un paio di pantaloni violetti; è l’unico che non
si è sposato, ma è più che logico con quelle particolari tendenze un po’
soffocate in gioventù, ma che poi sono esplose da adulto; si dice che
adesso conviva con un giovane, ma non ho voluto indagare, e, tanto meno,
approfondire con lui per paura di ferirlo, di rinfacciargli una diversità
di cui non ha colpa. Tutti sappiamo, ma quando c’è anche Massimo non si
tocca mai questo argomento, nemmeno nelle barzellette che inevitabilmente
fanno parte del menù della cena.
- Ciao Giovanni, sei sempre il primo, in tutto. Ti ricordi a scuola? Anche
là eri il primo, il primo della classe.
Chissà perché questa frase ricorre spesso nei nostri incontri; me lo sono
chiesto più volte senza arrivare ad una giustificazione logica, se non in
un latente senso di invidia per chi, nella classe, primo non era.
- Ciao Massimo, mi sembri un attore. Gli anni passano per tutti, ma non per
te.
- Adulatore… Cerco di tenermi su, di invecchiare il meno possibile, però,
nonostante i sacrifici delle diete, mi appesantisco sempre di più.
- Ginnastica, movimento, un po’ di bicicletta, del nuoto, e i risultati si
vedrebbero, come nel mio caso.
- Vero, sei splendido.
Dovrei essere contento di un simile apprezzamento, ma è solo un
convenevole, perché, nonostante il moto, avverto l’invecchiamento, la
fatica del lavoro che ogni giorno si acuisce e stride con il ricordo della
lontana gioventù.
- Salve, ragazzi – sono arrivati Carlo e Umberto, due che, se fossero nati
rispettivamente uomo e donna, si sarebbero di certo sposati, e non per
tendenze particolari, in loro inesistenti, ma per la comunione di intenti,
di opinioni, che ha permesso di frequentarsi con una certa assiduità anche
dopo i matrimoni. Dico matrimoni al plurale, perché entrambi hanno a suo
tempo divorziato, per poi risposarsi nuovamente, senza tuttavia essere
contenti delle scelte fatte.
- A tavola, che ho fame da lupo – Carlo si agita, sempre a voce alta, come
non dovesse discutere, ma leggere un proclama. E’ sempre stato così: con il
tono forte si sente più importante e accresce la fiducia in sé, come se ne
avesse bisogno, lui che del gruppo è quello che è arrivato nella vita ad
una posizione più elevata e maggiormente remunerativa.
Umberto è sempre stato poco loquace e quando parla Carlo normalmente si
limita ad annuire, e in genere è sempre d’accordo, quasi che uno fosse il
cavaliere e l’altro il suo scudiero. Ogni iniziativa parte da Carlo e
Umberto subito si accoda; quel che è incredibile è che lui, pur non del
tutto insoddisfatto della moglie, abbia deciso di divorziare dopo lo stesso
passo compiuto dall’altro e il lasso di tempo intercorso fra i due
successivi matrimoni è stato altrettanto breve, anche perchè, neanche a
farlo apposta, hanno sposato due sorelle.
La scelta del menù è rapidissima, demandata peraltro a Carlo, a cui, per
turno, è demandato anche l’onere di pagare il conto.
L’antipasto di salumi misti e di sottaceti viene divorato in un baleno, nel
silenzio più assoluto; arriviamo poi ai primi, un bel tris di agnolotti,
tortelli con la zucca e tagliatelle con i funghi. Già il vino comincia a
scemare e forse anche per questo la conversazione ha inizio. Chiamarla
conversazione è un eufemismo, perché è tutta una serie di monologhi, dove,
più che ascoltare, quel che conta è parlare. Comincia il solito Carlo e non
sono mai riuscito a capire come faccia a masticare e parlare
contemporaneamente. Il discorso, nella sostanza, non è dissimile da quello
dell’anno precedente, anzi di tutti gli altri anni. I valori della
famiglia, della religione, del lavoro sono ricorrenti e sembra più che mai
il comizio di un politico. Quando termina, attende quasi trepidante
l’applauso, ma tranne un cenno di capo, a mo’ di consenso, di Umberto, la
platea non recepisce, anzi ne approfitta subito Massimo per dire la sua. I
temi sono diversi da quelli del precedente monologo, ma anche loro
ripetitivi e sentiti in altre occasioni: la musica, di cui è un grande
appassionato, la stagione lirica all’Arena di Verona, i prezzi sempre più
insostenibili degli oggetti di abbigliamento. Si va avanti così, con Carlo
e Massimo che si alternano nei monologhi, con bis del tris di primi, con i
secondi che per me sono già troppi, ma tanto paga Carlo…
Dopo il dolce e il caffé si arriva al bicchierino ed è allora che la
tradizione assume i contorni più vivi: è d’obbligo ricordare perché ci
siamo trovati. Sempre per turno la commemorazione dell’amico scomparso oggi
spetta a me e, nell’imbarazzo fra tenere un monologo che ne tracciasse
delle improbabili eccelse qualità e adottare una via indiretta, ma più
semplice, ho pensato bene, anzi direi male, di scrivere una poesia dedicata
all’ospite forzatamente assente.
Ammetto che non è uno dei miei parti migliori, che l’onda emozionale del
fatto si è ormai assopita, ma con un po’ di mestiere ho abbozzato quattro
versi.
Prendo il foglio e comincio a leggere.
“ Lontano è il ricordo della tua immagine,
nel tempo affievolito, ma sempre resterà
il rimpianto di non averti questa sera con noi.
Caro amico, l’unica cosa che temo è che
tu ora possa essere finalmente felice,
senza dolore, senza angosce, senza tradimenti.”
E’ retorica, non c’è dubbio, ma, per effetto anche del vino, strappo un
applauso e c’è anche chi, come Massimo, versa una lacrima. Ed ecco che,
all’improvviso, tutti ammutoliamo e si fa un’atmosfera greve. Effetto
dell’infelice poesia, delle libagioni o della stanchezza?
Guardo Carlo: se ne sta assorto, lo sguardo vuoto, lui sempre così
pirotecnico che sente la forza del successo raggiunto, ma che deve fare i
conti con un figlio drogato, con una seconda moglie che ama solo i suoi
soldi e in pratica con la solitudine del suo animo che lo spinge ogni tanto
a cercare avventure a pagamento.
E che dire di Umberto, sottomesso per vocazione, incapace di affrontare una
realtà che lo vede sempre al seguito di qualcuno più forte, più maturo, e
che quando va a casa deve fare i conti con una moglie talmente bigotta che
continua a spogliarsi al buio; gli rimarrebbe la soddisfazione dei figli,
ma se due si sono laureati, sono occupati e hanno messo su famiglia,
dell’altro non si hanno più notizie da anni, da quando, una mattina, è
uscito di casa dicendo ai genitori “ perché mi avete messo al mondo?”.
Massimo, nonostante la sua diversità, appare il più realizzato: lavora in
un atelier come stilista, si dice che vada d’accordo con il suo giovane
amico e nel complesso sembra accettarsi per quel che è. Sicuramente anche
lui avrebbe qualcosa da recriminare, ma di certo non tutto.
Il bello è che pensando ai problemi dei miei tre amici ho quasi dimenticato
i miei, che non sono da poco. Da giovane sognavo di fare lo scrittore, ma
sono diventato un semplice giornalista di un quotidiano locale, uno
scribacchino della cronaca che ogni tanto si diletta a scrivere poesie che
non piacciono nemmeno a me; sono sposato da quasi venticinque anni, un
matrimonio felice agli inizi, diventato a poco a poco un’abitudine che, più
passano gli anni, né io, né mia moglie riusciamo più a sopportare; ho un
figlio, o meglio ho un parassita, che non ha mai avuto voglia di studiare e
tanto meno di lavorare, e che si fa mantenere, che spende e spande senza
nemmeno avere l’idea di come impostare il suo futuro.
Ecco perché siamo muti e non di certo per la commozione provocata dal
ricordo dell’amico scomparso.
Ci alziamo dal tavolo e usciamo; ci salutiamo promettendoci di ritrovarci
il 10 giugno del prossimo anno.
Carlo, nell’accomiatarsi, grida – Ah, che cena, ragazzi! Una mangiata da
far paura, ma che dico…, una vera e propria abbuffata.
E ha ragione, perché l’unica cosa di noi che è piena, che è soddisfatta, è
lo stomaco.
Camera con vista
“Affittasi camera a
persona referenziata in casa del settecento con splendida vista su Piazza
Sordello”
Carlo trasalì: era quello che cercava da tanto tempo. Ripose il giornale,
poi telefonò.
“Sì, è una camera
ammobiliata con una vista splendida.”
“Fa proprio al caso mio;
sono un ingegnere ormai in pensione che è stato tanto tempo lontano dalla
sua città e vorrebbe risentirne ogni giorno il profumo.”
“Le do l’indirizzo; venga
pure a fare una visita quando vuole.”
“Se non le spiace, sarò da
Lei fra una mezz’ora. Mi dica esattamente dov’è?”
“ In via Tazzoli, 10.”
Carlo strinse ancor più
forte la pagina del locale quotidiano, perché meglio di così non poteva
andare: la via era quella giusta ed il numero 10 era proprio davanti al
23.
Rivide mentalmente il
vecchio portone, il cortiletto interno, le scale semibuie e l’appartamento
al secondo piano; fu un flash, un ricordo nitido ed improvviso di
un’immagine a lui tanto familiare trent’anni prima.
Uscì dal bar e si soffermò
un momento a scrollarsi l’odore di fumo che gli si era appiccicato, poi
s’incamminò lentamente lungo via Trieste; giunto al ponte sul Rio, si
fermò a guardare l’acqua che scorreva in basso fra le vecchie case.
E cominciò a pensare; era
arrivato lì dopo un lungo viaggio, di diverse ore di aereo, dal Messico
dove aveva costruito il suo ultimo ponte, il più bello, il suo canto del
cigno e come un cigno si librava su una valle stretta, profonda; non
sembrava neppure l’opera di un uomo, ma una creazione della natura, che si
elevava talmente in alto da sembrare toccare il cielo.
Ora, che era arrivato
quasi al termine del viaggio, gli sembrava che l’arrivo fosse
infinitamente lontano, quella meta che nell’ultimo anno della sua attività
lo aveva continuamente assillato. Eppure mancava poco: duecento, trecento
metri, una distanza che ad ogni passo diventava insormontabile. Riprese il
cammino, imboccò via Pomponazzo, passò rasente Palazzo Sordi ed infine
arrivò a Piazza Arche. Un pezzo del lago Inferiore si lasciava intravedere
alla sua destra, un piccolo diadema verde a cingere vestigia del passato.
Gli tremarono le gambe
quando piegò per Via Tazzoli; la leggera salita del percorso che portava
nella splendida Piazza Sordello sembrò di una difficoltà estrema. S
guardava intorno: non cercava il numero 10, ma il 23 e quando lo vide le
pulsazioni aumentarono a dismisura. Ecco là il vecchio portone, immutato,
con la vernice forse un po’ più scrostata. Si accostò quasi tremante ad
osservare i nomi sui quattro campanelli e trasalì: c’era anche quello, sì
nulla era cambiato. Era ancora viva, quindi; fu tentato di appoggiare il
dito, ma all’ultimo momento si ritrasse.
Come uno squarcio di luce
nella nebbia riprese prepotente il tormento del ricordo.
Era una domenica e lui
era andato a prendere, per la prima uscita insieme, la Claretta.
Aveva suonato e gli era
stato aperto; attraversato il cortiletto interno, aveva salito ansioso le
scale e..
- Si può entrare?
Una voce maschile aveva
risposto affermativamente ed eccolo nel piccolo salotto di fronte al Sig.
Bartolomeo Damiani, a sua moglie ed alla figlia Claretta, bella, sempre
più bella, permeata di una grazia leggiadra. I genitori stavano un po’
impettiti, ma gli occhi della fanciulla sprizzavano lampi di gioia.
- Sig. Damiani, sono
Carlo Baldi e…e…, insomma mi piacerebbe uscire oggi con sua figlia.
- Giovanotto, spero che
le sue intenzioni siano più che serie. Del resto Claretta ci ha detto
qualche cosa di lei. E Claretta , mentre arrossiva, gli sorrise. - Io e
mia moglie abbiamo solo questa figlia, una gran brava ragazza, e viviamo
solo per lei. Certo che può uscire, ma non le manchi di rispetto: è come
un fiore che sboccia e non vorrei che dovesse subito appassire.
E così iniziò la
storia, così bella nelle premesse e così triste nelle conclusioni.
Si scosse, attraversò la
strada e si trovò davanti all’ingresso del numero 10, che ricordava come
una fatiscente casa del 700, ma che ora si presentava restaurata, pur
conservando i tratti del fascino antico, come una vecchia nobile signora,
dalle cui rughe traspariva la bellezza di un’epoca passata.
Salì lungo le scale e
bussò alla porta, che si aprì.
- Buon giorno, signora,
sono l’Ing. Carlo Baldi; le ho telefonato mezz’ora fa.
- Si accomodi, ingegnere.
Non sa quanto sia contenta che lei sia venuto; è un vero onore per me
ospitare l’artista dei ponti, l’uomo che ha tenuto alto il nome
dell’Italia in tutto il mondo.
- Non esageri, signora. Ho
fatto solo il mio lavoro - ed osservò con attenzione la figura esile che
gli stava davanti, concludendo che doveva avere più o meno la sua stessa
età.
- La stanza in questione
dà proprio su via Tazzoli; in verità, per vedere un pezzo di Piazza
Sordello, bisogna sporgersi, ma ne vale la pena. Eccola, gliela mostro.
Arredata con vecchi mobili
di prima della guerra, era una camera accogliente, linda, luminosa. Pochi
gli arredamenti, limitati allo stretto necessario: il letto, un comodino,
l’armadio e una graziosa poltroncina di tessuto decorato con fiori di
mimosa.
- Va benissimo; la prendo,
il prezzo non importa, faccia lei.
- Vanno bene 300 Euro al
mese?
- Benissimo.
- Per quanto tempo?
- Fino a quando questa
gentile signora padrona non mi caccerà.
Ci fu un risolino
soffocato, quasi a schermirsi, e la donna salutò a voce bassa, uscendo
dalla stanza.
Carlo non perse tempo;
prese la poltroncina e si sistemò davanti alla finestra. Non gli importava
della vista su Piazza Sordello, ma da lì, da quel davanzale poteva
osservare perfettamente il portone del n. 23, parte del cortiletto
interno, e, soprattutto, le due finestre di un certo appartamento del
secondo piano.
La casa sembrava
disabitata: nessun rumore, e tanto meno movimenti. Le finestre in
questione poi non lasciavano trasparire nulla dell’interno, coperte
com’erano da pesanti tendaggi scuri.
Fissò nuovamente il
portone e…
- E’ stata una
bellissima giornata, Carlo; oggi Mantova mi è sembrata diversa, le case, i
monumenti brillavano di una nuova luce. Ritornerai anche Domenica?
- E me lo chiedi? Anche
per me oggi è stato un giorno incredibilmente stupendo e questo grazie a
te.
Claretta non disse
nulla, ma quando le loro labbra s’incontrarono fu percorsa da un fremito
che la fece sussurrare - Sei un sogno… Poi corse in casa.
Sorrise, ripensando a quel
giorno di tanti anni prima, all’atmosfera di sogno che da quel breve
contatto era nata così all’improvviso. Ed anche adesso stava sognando,
perché davanti a lui c’erano solo cose inanimate, veicolo di ricordi che
emergevano prepotenti dal momentaneo oblio del tempo trascorso.
Immerso nei suoi pensieri
non si accorse che si era fatto tardi e che già era abbondantemente
passata l’ora della cena. Poco male, sarebbe andato a letto subito, stanco
com’era per il lungo viaggio fra due continenti e fra il passato ed il
presente.
Già all’alba, ai primi
rumori della strada, era sveglio e si rimise al suo posto di osservazione.
- Ti voglio sposare,
Claretta, non riesco a vivere senza di te.
- Sei un amore, Carlo,
e Dio è stato buono con me permettendomi di conoscerti.
- Domenica ne parlerò a
tuo padre e spero proprio che non sia contrario.
- Stai tranquillo; ne
sarà più che felice. Dove andiamo oggi?
- Una bella passeggiata
nelle viuzze dietro il Duomo, un gelatino giusto per rinfrescarsi e poi..,
e poi purtroppo verrà l’ora in cui dovrai tornare a casa.
Fu una passeggiata
tranquilla, durante la quale Carlo parlava e Claretta ascoltava estasiata.
- Vedi, il lavoro che
ho a Mantova è ben retribuito e ci consente di vivere dignitosamente, ma
non è quello che desidero; ho sempre sognato di costruire ponti, uno più
alto dell’altro, come cattedrali che svettano verso il cielo. Ho ricevuto
un’offerta estremamente interessante da una grossa azienda, ma è evidente
che in tal caso a Mantova non potremo più stare; saremo sempre in giro per
il mondo: paesi nuovi, gente diversa, dalle steppe dell’Asia alle foreste
del Brasile. Te la senti di fare una vita così?
- Per te e con te
andrei perfino sulla luna; ti amo, Carlo, e sempre ed in ogni caso ti
amerò.
Osservò nuovamente il
portone che, in quel momento, si aprì, lasciando uscire un giovane sulla
trentina, alto, snello, che con passo deciso imboccò la via, probabilmente
per andare al lavoro. Sorrise, dicendo fra sé - Ecco, qualcuno che ha
ancora tutto il mondo davanti, che può creare o distruggere la propria
vita.
Guardò l’orologio: segnava
le otto in punto. Si sistemò meglio e lancinante gli sovvenne il ricordo
di quanto accadde dopo quella promessa di matrimonio.
In una sola settimana
la vita due esseri fu stravolta, il destino implacabilmente li destò dal
romantico sogno in cui erano immersi.
Il martedì,
improvvisamente, venne a mancare, per un colpo apoplettico, il Sig.
Bartolomeo Damiani ed il venerdì, forse per il dolore, la vedova fu
colpita da un ictus che la paralizzò completamente.
E cominciò anche la sua
tragedia.
- Claretta, appena
possibile, anche per te, è meglio che ci sposiamo.
- Carlo, io devo
rimanere accanto alla mamma, lo sai che non può stare sola, e non so se
sei disposto ad un simile sacrificio.
- Pur di restare con
te, non andrò via da Mantova, non costruirò ponti…
- Ti amo e proprio per
questo ti conosco; sono più che sicura che prima o poi finiresti con il
dichiararti insoddisfatto; tu mi ami, lo so, ma a rinunciare alla tua
passione non ti vedo, e non voglio sentirmi rinfacciare in seguito che ti
ho condizionato la vita; pensaci bene prima di fare un passo sbagliato.
E pensò, tentato da un
lato dal sentimento per Claretta, che gli pareva meno contraccambiato di
prima per quella sua dedizione quasi ossessiva alla madre, e dall’altro da
quel desiderio innato, a stento soffocato, di concretizzare quel talento
che invasava la sua mente.
Prese ad incontrarsi
meno con Claretta, anzi le occasioni d’incontro divennero sporadiche, e
alla fine lui decise.
Le scrisse una lunga
lettera di commiato, temporaneo così diceva, promettendole che non appena
la situazione della madre avesse avuto una positiva evoluzione, un
eufemismo che sottintendeva la morte della donna, sarebbe tornato a
riprenderla per portarla via con sé.
Il distacco, già
avvenuto gradualmente, non gli parve così doloroso ed il nuovo lavoro, di
estremo interesse e gratificante, fecero sì che l’idea della promessa
restasse solo nelle righe dello scritto, anche se, ad onor del vero, ogni
tanto, dai più disparati posti, le inviasse delle lettere, rimaste tutte
senza risposta.
- Posso?
Carlo si scosse nell’udire
la voce della padrona “Prego.”
- Ingegnere, non so se
posso, ma ieri nel pomeriggio, tornando da un giro in centro, l’ho vista
alla finestra ed anche questa mattina è ancora lì; non sono affari miei,
ma non è da una persona come lei stare ore ed ore solo a guardare. Per
caso, conosce qualcuno che sta nella casa di fronte?
- Sì, una vecchia amica
che desidererei tanto rivedere. E la voce quasi gli si strozzò in gola.
- Era anche mia amica la
Claretta, perché la persona di cui parla è la Claretta Damiani, vero?
- Sì..
- Troppo tardi è tornato;
è morta due anni fa. Ha atteso il suo arrivo tanto ed anche prima di
morire ha sperato; gli ultimi giorni ha voluto che il portone restasse
sempre aperto, per lei.
Carlo non riusciva a
trattenere le lacrime e - Le ho scritto diverse volte, ma non mi ha mai
risposto; che cosa potevo fare? Come ho finito il mio lavoro, sono tornato
subito e se non ho suonato al suo campanello era solo per la paura che lei
si fosse sposata.
- No, non si è mai voluta
sposare; mi diceva che non rispondeva alle sue lettere perché non voleva
farle capire quanto l’amasse, inducendola così ad abbandonare quello che
tanto aveva desiderato fare. Però, se lei è sincero, mi confermerà che
queste sue lettere le ha spedite solo nel primo periodo, e non negli
ultimi venti anni.
- Sì, è vero, ma poiché
non mi rispondeva ho temuto di non interessarle più.
- Ed allora perché adesso
è ritornato?
- E’ difficile ammetterlo,
ma ho trascorso la mia vita solo per il mio egoismo e quando ho costruito
l’ultimo ponte, il più alto del mondo, mi sono accorto di quanto fossi in
basso io, solo, senza affetti, senza amore; mi sono detto: chissà, forse
lei c’è ancora, forse non è sposata, o lo è stata, o comunque adesso è
libera; c’è ancora del tempo da vivere ed il passato può diventare anche
un lontano ricordo. E invece…
- Lei non immagina neppure
quanto l’abbia amata; conservava tutti i ritagli dei giornali che
parlavano dei ponti da Lei costruiti; l’ha cercata, quando era prossima
alla morte, ma, quando abbiamo saputo dov’era, la Claretta già ci aveva
lasciato.
- Saputo? Chi, oltre a lei
signora, mi ha cercato?
- Carlo Damiani, suo
figlio, vostro figlio.
- Ma come. Ho un figlio,
un figlio, e non l’ho mai saputo!
- E’ nato poco dopo che
lei ingegnere era partito per la sua avventura. Non ha voluto dirglielo,
perché sapeva che sarebbe tornato per sempre, suo malgrado.
- Dov’è, dov’è quest’uomo?
- Abita lì, è alto come
lei, snello, un bel ragazzo, sa chi è suo padre, anche se non l’ha mai
visto. Strano che non l’abbia notato quando esce di casa ogni mattina alle
8.
E Carlo si sovvenne.
- Non sono tornato per
niente, ho un figlio, a cui attribuirò la paternità; sarò il suo mentore,
sarò quel genitore che tanto tempo fa avrei dovuto essere.
E il giorno dopo scese di
primo mattino in strada e si mise di fronte al portone. Alle 8 in punto
questo si aprì ed uscì il giovane.
- Mi scusi, solo un
momento, due parole..
- Dica pure.
- Mi presento: sono Carlo
Baldi.
Il giovane non disse nulla
e nemmeno si mostrò sorpreso.
- Sono tuo papà e desidero
esserlo a tutti gli effetti.
- Signor Baldi, la posso
anche capire, ma non abbiamo niente da dirci. Io non ho più l’età per
avere un padre ora e neppure lei ha l’età per avere un figlio adesso. Mi
scusi, ora vado perché sono in ritardo.
- Aspetta, parliamone
ancora…
Ma il giovane affrettò il
passo e ben presto sparì alla sua vista.
Carlo si
appoggiò al portone; l’angoscia crebbe in lui non appena cominciò ad
accorgersi che il lungo viaggio era finito, anzi non era mai iniziato.
Viaggio di notte
Il rag. Franco Milani mai e poi mai avrebbe potuto immaginare, spegnendo
la luce e biascicando un risicato augurio di buon riposo alla moglie, che
quella notte, che si apprestava ad iniziare, sarebbe stata unica ed
irripetibile, degna d'esser ricordata negli anni a venire.
Come al solito il sonno lo colse pressoché immediatamente, favorito dalle
fatiche del giorno e dall'abbondante pasto della sera.
E così la mente, liberata dalle incombenze del giorno, elaborò il sogno.
A Franco sembrò di essere su un treno in movimento, lungo un percorso
all'apparenza sconosciuto.
Se ne stava nel primo vagone, subito dopo la locomotiva, ma quel suo stare
seduto senza nessuno intorno lo indusse a cercare compagnia negli
scompartimenti successivi; si alzò, affrettò il passo, anzi cominciò a
correre….
"Non correre, Franco, che poi sudi troppo e ti viene la febbre."
"No mamma, lasciami essere un bambino come tutti gli altri; voglio
giocare, saltare, correre, perché mi piace e vedrai che la febbre non mi
viene."
Quando venne la sera, però, il viso paonazzo, il respiro ansante, pur
nella quiete della casa, evidenziarono il solito rialzo della temperatura
e sia la mamma che il papà dissero chiaramente che lui non era un bimbo
come tutti gli altri e che pertanto da allora in poi se ne sarebbe rimasto
fra le mura domestiche a leggere, a studiare.
….. Anche il secondo vagone era vuoto e Franco si buttò ansante su una
poltrona;
guardò fuori dal finestrino, ma non scorse nulla, tanto il paesaggio
pareva avvolto da una nebbia densa che avvolgeva tutto il convoglio,
isolandolo dal resto del mondo……
"Sei stato il migliore, diplomato a pieni voti, caro il mio ragioniere, e
te lo sei guadagnato, con tutte quelle ore con la testa china sui libri,
ad assimilare la partita doppia, mentre i tuoi coetanei, come cicale,
preferivano la partita al pallone"
"Sì mamma, ho lavorato tanto, ma non sono soddisfatto."
"Potevi dare senz'altro di più, ma quanto hai ottenuto basta ed avanza."
"No, non è quello che intendevo; voglio solo dire che sono maturato senza
passare per la fanciullezza, senza vivere il mondo della mia età."
…….Provò nel terzo vagone, ma anche questo non aveva passeggeri; udì un
rumore, si guardò intorno speranzoso, ma era solo la tenda di un
finestrino aperto che svolazzava, legata ai suoi anelli…..
"Mamma, papà, voglio dirvi una cosa: al lavoro c'è una collega, una brava
e bella ragazza" ed abbassando gli occhi "insomma, stiamo bene insieme e
penso che ci sposeremo."
"Non essere precipitoso: sei ancora giovane ed in fin dei conti hai solo
ventinove anni, tutta una vita ed una carriera davanti; cerca di
ragionare, lasciati consigliare da chi ha più esperienza di te; è ovvio
che sei libero di fare ciò che vuoi, ma noi ne soffriremmo."
E finì con il decidere di cambiare posto di lavoro, in preda ad
un'afflizione profonda e con il rimorso di aver fatto forse la scelta
giusta, ma più con il cervello che con il cuore. Si mise a lavorare come
un forsennato, sì da dimenticare quel tarlo che gli rodeva dentro, ma che
prepotente ogni tanto emergeva fino a sovrastarlo, lasciandolo infine
spossato, senza volontà. Si trascinò così per qualche anno, fino a quando
si trovò nella condizione di fare una scelta comunque autonoma: o trovare
una compagna di suo gradimento, o porre fine ai suoi giorni.
Conobbe Clara quasi per caso al bar dove lei lavorava; non fu un amore a
prima vista, anzi assai più probabilmente un ripiego per non impazzire.
Frutto di un ragionamento, di un calcolo, più che di un improvviso e
naturale sentimento, questo amore però ebbe miglior esito, anche perché
questa volta non volle ascoltare i genitori, il cui spirito protettivo si
era ulteriormente acuito con l'avanzare dell'età.
"Non è istruita, Franco, non è neppure bella, non è per te."
"A me sta bene e questo basta e avanza."
Poco dopo la celebrazione delle nozze, alle quali i genitori parteciparono
in una mestizia da funerale, gli stessi caddero ammalati ed in breve
lasciarono questo mondo, senza che Franco avesse molto da patire per la
loro dipartita.
Ormai era sposato, aveva una vita sua, sì sua e questo era il problema,
perché un matrimonio senza amore lo faceva sentire isolato in casa
propria, e questo a dispetto dell'autentico sentimento che Clara nutriva
per lui.
Neppure la nascita di un figlio era servito a cementare la loro unione;
riversava verso quel bambino un autentico amore, quello che avrebbe dovuto
provare per la moglie, ma che non gli riusciva; insomma, aveva una donna a
fianco, invero non di esaltante bellezza, ma abbastanza intelligente da
comprendere il suo ruolo di comparsa in quel rapporto, fatto di normali
convenevoli, ma non di trasporti, di passioni da parte del marito.
……….. Proseguiva nel percorso a ritroso del convoglio ed aveva sempre più
l'impressione di essere il solo passeggero in quel viaggio di cui ignorava
la destinazione….
"Papà, mi sono fidanzato; è la donna più bella che ci sia; te la
presenterò quanto prima."
"Calma, vai piano, cerca di…." e stava per dire <ragionare> quando si
sovvenne del discorsetto dei suoi anni di anni prima, di quella supina
decisione che lo aveva così condizionato " comportarti bene; usale
rispetto, ma se ti piace, se veramente vi volete bene, non lasciartela
sfuggire: l'amore non è una merce che si compra, è un bene raro che,
trovato, deve essere gelosamente custodito."
……….. Sorrise, pensando al suo ragazzo, ed a quanto accaduto l'ultima
domenica, quando in chiesa l'aveva sentito pronunciare, con voce
stentorea, tutto il suo amore alla sposa che in abito bianco lo guardava
estasiata. Clara gli aveva stretto la mano, mentre le lacrime le bagnavano
le guance; si era voltato ed aveva osservato la sua donna: invecchiata
come lui, sempre al suo fianco, sempre disponibile ad accogliere un suo
autentico gesto d'affetto che non era mai arrivato. Sì, lui aveva sofferto
nella sua vita, ma c'era chi aveva penato ancor più di lui, nella
rassegnata attesa del realizzarsi di un sogno…..
"Spero tanto che siano felici e che si amino sempre; non voglio che uno di
loro abbia a soffrire per il comportamento dell'altro, perché voler bene
con tutta l'anima ad una persona senza essere contraccambiati è quanto di
peggio ci possa essere."
"Lo spero pure io, Clara; sono tanto giovani ed hanno tutta la vita
innanzi a loro."
………….. Aveva ormai percorso tutto il convoglio ed era arrivato all'ultimo
vagone;
in completa solitudine volse lo sguardo intorno e sgomento si accorse che
dietro a sé il treno lasciava solo il buio, senza più nebbia, un'oscurità
sinistra e profonda.
La prima luce dell'alba lo risvegliò ed ebbe coscienza del sogno; nella
stanza semibuia scorse accanto a sé la moglie che dormiva; osservò quel
capo appoggiato sul cuscino, il corpo disegnato dalle lenzuola, inspirò
profondamente e cominciò ad accarezzarle i capelli, a baciarle i lobi
delle orecchie. La Clara si risvegliò, lasciò fare per un po', poi
l'attrasse a sé ed iniziò così un lungo, dolcissimo amplesso.
Alla fine, la donna guardò con occhi compiaciuti e meravigliati il marito.
"Oh Franco, dimmi che è tutto vero, che non sogno; mi sembra che tu sia
ritornato come da un lungo viaggio con il desiderio di amare chi ti ama."
"Non è un sogno, è tutto vero e sono ritornato da un viaggio, un viaggio
lungo come una vita."
Saldi
"Quanto viene questa canottiera di cotone?"
" Poco; costerebbe 8 Euro, ma con i saldi al 50% solo 4 Euro."
"E questi slip?"
"Già scontati 3 Euro."
"Penso proprio di prendere due canottiere e due slip."
"Che misura?"
"Non saprei; è tanto che vivo da solo e che mi vedo costretto ad indossare
capi troppo stretti o troppo larghi, ma mai giusti, della mia taglia, che
però ignoro." E notò una strana luce negli occhi della donna che gli stava
davanti, una signora non più giovane, ma estremamente interessante.
"Per la misura non le so dire; faccia lei."
"Vediamo…una terza, no forse meglio una quarta, ma se non dovesse andar
bene può sempre cambiare…"
"Se lei dice che è una quarta, non potrà che andar bene; lei è del
mestiere e di queste cose se ne intende più di me." E stranamente cominciò
a nascergli la speranza che la misura non andasse bene e dovesse ritornare
da lei per il cambio.
"Bianche o di un altro colore?"
"Direi meglio bianche: sono più adatte alla mia età."
"Ma lei non è vecchio!"
"Forse, ma i sessanta che porto me li sento tutti: il tempo sembra non
passare mai, ma invece scorre inesorabile; per lei le cose sono diverse: è
così giovanile e, se mi permette, ha una figura splendida."
A Marina luccicarono di nuovo gli occhi, ma non disse nulla; consegnò le
canottiere e gli slip, incassò il denaro e salutò con la solita formale
cortesia l'uomo che se ne andava.
A casa, nella quiete silenziosa della camera da letto, ripensò a lungo
all'episodio e più rifletteva su quella che ai più sarebbe apparsa una
normale conversazione poco a poco cominciò a vedere con una luce diversa
il suo interlocutore: solo come lei, alla disperata ricerca di un motivo
valido per continuare a vivere. Il sonno la colse mentre abbracciata al
cuscino le scorreva dinnanzi l'immagine dell'uomo in canottiera e slip.
Fu una notte di travaglio, con frequenti risvegli accompagnati da brevi
assopimenti; cercava di dimenticare, si diceva che stava fantasticando,
che non era accaduto nulla, ma in cuor suo sapeva che stava nascendo un
desiderio inconfessabile di ritornare a parlare con quella figura
sconosciuta che andava assumendo caratteristiche di famigliarità, quasi si
trattasse di una conoscenza intima, da lungo tempo in essere.
Il mattino arrivò al lavoro stanca, quasi stranita, tanto che le colleghe
le chiesero se avesse fatto indigestione. Glissò sulla risposta da dare
alla domanda e si mise a riordinare la mercanzia negli scaffali. Ogni
tanto gettava uno sguardo alla porta: desiderava, e non desiderava allo
stesso tempo, che lui si ripresentasse. Fu solo nel tardo pomeriggio che
lui apparve; entrò e si diresse verso di lei.
"Buongiorno… non va bene la misura?" e quasi si morse le labbra per quella
frase quasi infelice.
" La misura è perfetta; mai ho avuto qualche cosa che mi calza così a
pennello. Volevo solo dirglielo…; anzi, ci sarebbe da dire dell'altro…"
"Dica, la prego…" e strinse forte i denti, mentre il cuore cominciava a
batterle forte.
" Non avrebbe anche tre paia di calze corte di cotone?"
Marina lo guardò allibita e si sentì sprofondare.
"Porto il dodici e desidero che siano belle, perché un paio voglio
indossarle questa sera, quando uscirò con una signora.., se lei è
d'accordo..; sarei onoratissimo e felice di accompagnare fino al portone
di casa sua questa bellissima donna che ora lavora e che mi consegnerà i
migliori calzini che ha in negozio." Guardò la donna: anche ora gli occhi
luccicavano e si inumidivano, lasciando trapelare una silenziosa intensa
gioia.
Voci di dentro
Passeggiavano lentamente lungo la sponda del lago, senza parlare, il passo
stanco e la mente forse altrove. La luce del tramonto illuminava i loro
volti, impietosa delineava le rughe intorno agli occhi, sbiancava i già
candidi capelli. Arrivarono al pontile dell'imbarcadero e la leggera
pendenza li costrinse a fermarsi.
"Ogni giorno che passa aumenta la fatica" disse lui.
"E' l'età." rispose lei.
Ripresero il cammino e quando furono in mezzo al pontile sostarono
nuovamente, guardando l'acqua che rifletteva le loro immagini.
"Ricordi? E' stato tanti anni fa, proprio in questo posto che ti ho
baciata per la prima volta."
" Non potrò mai dimenticarlo."
L'acqua, leggermente increspata dalla brezza serale, frammentava le loro
immagini, ne dava una visione quasi onirica.
Il ricordo del passato, di quel primo bacio si ravvivava di continuo,
aprendo la mente a nuove rimembranze, ai tanti giorni trascorsi insieme, a
dolcezze quasi dimenticate, ai sogni realizzati e a quelli infranti, a
tenere parole scambiate nei momenti di più intensa passione, a mani
strette convulsamente per soffocare insieme gli inevitabili dolori della
vita.
Ora, invece, ed ormai da tempo, l'età avanzata aveva attutito le loro
sensazioni, aveva ammorbidito la passione, aveva ovattato i dolori; di
sogni, poi, non ne erano più nati. Proseguiva un amore fatto di attenzioni
e di consapevolezze, di sentimenti consolidati e sempre costanti, frutto
di quella intensità di passione che li aveva dapprima avvicinati e poi li
aveva uniti.
La parabola del tempo volgeva ormai all'ingiù e di questo ne erano
consapevoli: un fatto naturale che li accomunava, accentuando il senso di
reciproca mutualità. Spenti gli ardori, erano rimasti intatti ed ancor più
rafforzati quei sentimenti che venivano solo dal cuore.
La guardò intensamente e "Mi piacerebbe darti un bacio."
"Non fare il ridicolo, c'è gente; cosa mai potranno pensare di due vecchi
che vogliono fare i giovani?"
"Non mi interessa; questo è il posto del nostro primo bacio e lo voglio
degnamente ricordare.
Gli altri che pensino quello che vogliono, io so solo che questo luogo è
per noi sacro e che non mi accontento del semplice ricordo." Fu un attimo,
l'attirò a sé e la baciò.
Due giovanotti che passavano in bicicletta fecero trillare i loro
campanelli, un pescatore gettò uno sguardo distratto e mormorò qualche
parola ininteleggibile, ma due fidanzati sciolsero il loro abbraccio ed
applaudirono. "Bravi nonni, l'amore non ha età."
Ripresero il loro lento cammino, con passo quasi austero e gli occhi
raggianti.
Piccolo racconto di Natale "E' una festa meravigliosa, amore mio; da quando siamo insieme ho imparato il vero significato della parola felicità." e guardava estasiato la donna che aveva portato all'altare da appena sei mesi. "Non parlare; parlo io, aggiungo solo che sono felice." E fece per abbracciare l'amata, allorché avvertì netta, devastante, una stilettata al cuore. Barcollò, strabuzzò gli occhi e vide il pavimento avvicinarsi sempre di più; poi la corsa in ambulanza, mani febbrili che si agitavano sul suo petto, il pianto straziante della sua donna. E l'anima scivolò fuori dal corpo ormai esanime. "Non è possibile, morire proprio oggi che è Natale" urlò questa frase che nessuno sentì. Lentamente, eterea, l'anima salì al cielo, dove un compassionevole Iddio l'accolse. "Se tu veramente comandi il mondo, non staccarmi così da lei; fa che io almeno possa restarle accanto." Un cenno della mano ed ecco che lo spirito si trasformò in un canarino che veloce scese a terra. Nevicava, a larghe falde, e sbattendo le ali per il freddo si posò sul davanzale della finestra della camera da letto. Con il becco picchiettò sul vetro; la donna, stravolta dal dolore, era distesa sul letto e volse lo sguardo. Quel piccolo essere intirizzito in quella giornata di morte le sembrò meritevole di soccorso e lo fece entrare. Nei giorni successivi gli diede anche una casetta, una piccola gabbia di metallo che troneggiava in cucina accanto alla pendola. Il tempo passava e lei non si risposò; lavorava tutto il giorno ed alla sera quando rincasava si sentiva rincuorata dalla presenza del canarino, che la fissava sempre e sembrava pendere dalle sue labbra. Aveva provato a trovargli una compagna, ma lui non l'aveva voluta; se ne stava ore ed ore zitto a guardare la donna affaccendata nei lavori domestici. E venne un altro Natale. "Certo che come canarino non canti per niente; te ne stai sempre lì muto, a fissarmi, come se mi volessi dire qualche cosa. Che cosa ti frulla in quella testolina?" Ed il canarino cominciò a cantare una melodia strana, che lasciò stupefatta la donna. "Ma questa, questa è la canzone che ci piaceva tanto, che il mio povero marito definiva la melodia del nostro amore!" e le lacrime cominciarono a sgorgarle dagli occhi. Il canarino si interruppe e ridivenne nuovamente muto. Per quanti sforzi, quante preghiere, quante lusinghe la donna adottasse non riuscì a farlo più cantare, e questo silenziò durò fino al Natale successivo, quando nuovamente il canarino cantò la canzone amata. Poi, di nuovo il silenzio nei giorni successivi fino ad un nuovo 25 dicembre. Si andò avanti così per degli anni: l'uccellino che restava muto tutto l'anno e poi immancabilmente il giorno di Natale riprendeva a cantare, solo una canzone, solo quella. Che avesse cominciato a capire qualche cosa la donna? Non è dato di sapere, anche se più volte in tarda età accennò ad un'amica la stranezza di quell'esserino, che avrebbe già dovuto esser morto da un bel po' e che invece restava giovane, tale e quale di quando lo aveva conosciuto. Lei, invece, era naturalmente e progressivamente sfiorita ed ormai, assai avanti con gli anni, giaceva da tempo a letto, accanto al quale aveva voluto fosse messa la gabbietta con il canarino. E così si arrivò ad un nuovo Natale; nevicava, a larghe falde, e faceva freddo. La donna era ormai pìù di là che di qua, ma aprì gli occhi che corsero subito alla gabbietta a cercare il suo piccolo amico e questi iniziò a cantare….. Fu nel pomeriggio che la sua amica e vicina la trovò esanime nel letto; istintivamente guardò la gabbietta e vide adesso c'erano due canarini; non nevicava più, era spuntato il sole con un tepore quasi primaverile. La vicina si asciugò le lacrime e parve capire; aprì la finestra e poi la gabbietta. I due canarini iniziarono subito a cantare una canzone che lei aveva già sentito ad ogni Natale. "Andate, andate, finalmente insieme." E le due bestiole si involarono verso il cielo, sempre più su, finchè scomparvero alla vista degli umani. L'ultimo treno Camminava lentamente, la schiena incurvata, i piedi striscianti sull'acciottolato, il capo chino; quella strada che percorreva ogni giorno da chissà quanto tempo sembrava diventare sempre più lunga. Arrivato di fronte ad un edificio scalcinato, con i vetri rotti alle finestre, le grondaie cadenti, si fermò ed alzò gli occhi: scolorito dal tempo sulla facciata c'era un cartello. Non vedeva quasi più, ma a memoria sapeva quello che c'era scritto, e poi quante volte era stato lì, tante che neppure se le ricordava. Con un ultimo sforzo varcò il portone divelto della stazione ferroviaria e raggiunti i binari si lasciò cadere su una panchina; stropicciò gli occhi e guardò le rotaie arrugginite: sarebbe arrivato oggi, o avrebbe dovuto ancora aspettare? Richiuse gli occhi e ripensò a se stesso; era da anni che attendeva quel treno che non arrivava mai. Poco a poco la cittadina si era spopolata ed era rimasto solo lui; non c'era più la luce, non funzionava neppure il gas ed ormai i suoi pasti erano costituiti dalle radici del giardino; all'inizio aveva dovuto contenderle agli animali, ma poi anche questi erano spariti. Nulla di nuovo da vedere: solo case che l'inclemenza del tempo lentamente sgretolava ed era anche quella una ragione valida per trascorrere il tempo in stazione, in un'attesa che non sembrava avere mai fine. Sdraiato sulla panchina ripensava al passato, tanto lontano al punto che dubitava che fosse esistito. Si rivide così l'immagine di un giovane snello e fiero il giorno della visita di leva, il suo primo contatto da adulto con il mondo degli adulti; correva l'anno 1910 e venne fatto abile. Si concluse tutto in un giorno, ma si sarebbero ricordati di lui da lì a poco con la Grande Guerra. Scacciò le immagini dolorose che cominciavano ad apparirgli dinanzi ed allora corse a quella del matrimonio e rivide il vecchio calendario con la pubblicità del lucido da scarpe: aveva evidenziato in rosso il 3 giugno 1920 ed appunto in quella data si era sposato. Era bella la sposa, ma faticava a ricordarne il volto: gli sovveniva, per quanti sforzi facesse, solo un viso aperto in un sorriso, un viso piatto, solo i contorni ed una fessura scintillante di bianco, la bocca. Come poteva essersi dimenticato la fisionomia di sua moglie, perché anche in seguito, negli episodi in cui lei era presente, si intravedeva solo un'immagine sfocata e perché quando ne guardava la fotografia subito scordava l'aspetto di quanto gli era stato più caro? Era una domanda a cui non voleva dar risposta, anche se questa c'era ed era anche il motivo per il quale lui a trecento sessanta anni era ancora lì, non una gioia, ma una condanna . Aveva visto poco a poco morire gli amici, i conoscenti, poi i figli, i nipoti, i pronipoti ; infuriavano epidemie provocate dagli uomini e la gente cadeva per strada, si lasciava andare, scivolava accanto al marciapiedi nell'indifferenza generale di chi ancora sperava di vivere. E se ne era andata anche sua moglie, nonostante il patto scellerato che aveva firmato. Quella vicenda così dolorosa se la ricordava bene; la moglie si era ammalata senza speranza e tutto sembrava inutile; aveva girato ovunque alla ricerca di medici che potessero guarirla, ma senza successo. Una sera che, affranto, la vegliava accanto al letto di dolore si accorse di un ombra sulla porta della camera, un'immagine indefinita. L'ombra si avvicinò al letto e lui le si parò davanti, "Lasciami fare, sono venuto a prenderla; è la sua ora." "Prendi me, lasciala vivere." "Per te è troppo presto, ma quando sarà il momento mi rivedrai." "Ancora un po' di tempo, ancora un po' di gioia insieme, ti prego…" "Tu vuoi veramente bene a tua moglie, ma sai che il distacco prima o poi ci sarà, e non sarà meno doloroso di adesso. Questo è l'ordine delle cose ed io e te non ci possiamo far nulla." "Lasciami ancora qualche ora con lei, che la possa stringere, possa vivere in questo poco tempo l'emozione di una vita trascorsa insieme. Ti prego: il mio cuore deve dirle ancora tante cose…"
"E va bene, ripasserò fra due ore, ma ad una condizione: tu vivrai tanto, sarai l'ultimo a lasciare questo mondo. Non c'è nessuna cattiveria in questo patto: tu hai chiesto di cambiare l'ordine delle cose e così potrai vedere le conseguenze di questa richiesta. Dimmi se sei d'accordo?" "Sì, anche se non mi interessa di vivere così a lungo, ma se questo è necessario perché tu la lasci in pace per un paio d'ore mi sta bene; invecchierò, ma molto di più degli altri, e forse non sarà così brutto." "Te ne accorgerai e presto comincerai a sperare che io venga da te." E così riuscì a rinviare la morte della moglie di due ore; ricordava di come l'aveva tenuta stretta a sé in quel breve lasso di tempo, di come le aveva accarezzato i capelli, di come aveva sentito il battito del suo cuore rallentare sempre di più fino a fermarsi. Aveva provato un dolore indicibile, ma l'angoscia era cessata: aveva preso coscienza dell'ineluttabilità dell'evento, ma non poteva ancora supporre l'angoscia che avrebbe provato dopo. Gli anni passavano ed intorno a lui la vita si spegneva; poco a poco aveva cominciato ad invidiare chi se ne andava, si era esposto ad ogni possibile pericolo, soprattutto durante l'epidemia, ma mentre tante giovani vite venivano falciate dal morbo lui procedeva imperterrito, con la morte solo nel cuore. Aveva avuto un momento di speranza quando gli aveva fatto visita una sera l'ombra, ma questa gli aveva solo ricordato che per lui sarebbe arrivata con l'ultimo treno. E così, giorno dopo giorno, se n'era stato sempre in stazione, nell'attesa di quel treno che non arrivava. Girò il fianco: da tempo gli dolevano tutte le ossa. Fu allora che gli sembrò di sentire un fischio lontano; si scosse e provò ad ascoltare meglio: nulla, il silenzio assoluto. Poi lo udì nuovamente, sollevò il capo ed ecco che in fondo al binario veniva avanti una locomotiva con al seguito una sola carrozza. Sbuffando si fermò davanti a lui. "E' l'ora" disse l'ombra sporgendo dalla macchina. "E' l'ora che così tanto hai desiderato." Raccolse le ultime forze, salì i due scalini del vagone aggrappandosi alle maniglie, poi entrò nello scompartimento. Si gettò sul divano: non si sentiva più stanco, ma avvertiva un crescente torpore. Reclinò il capo e sentì che gli occhi si chiudevano, ma prima, nitido, come fosse stato davanti a lui, rivide il volto della moglie. "Si parte" mormorò l'ombra. Ma lui non rispose, gli occhi chiusi, il volto sereno, disteso sembrava sorridere. Il treno si avviò traballando ed in breve scomparve all'orizzonte. La prima volta "Nonno, quando hai fatto l'amore per la prima volta?" "Ma cosa ti sogni mai! Non sono domande da bambino per bene quale sei te." "A scuola alcuni miei compagni ne parlano, ma mi sembra che non abbiano le idee chiare; c'è Carletti che dice che ha visto il suo babbo baciare la sua mamma e invece Rossi mi ha raccontato che un uomo ed una donna stanno nudi uno di fronte all'altro e così fanno l'amore." "Ah, un giorno capirai senza io ti spieghi; però mi hai fatto venire in mente quella che avrebbe dovuto essere stata la mia prima volta e, per fortuna, non avvenne niente. Adesso ti racconto, ma non farmi domande chiarificatrici, va bene?" E' accaduto quell'anno della festa con la storia dell'albero della cuccagna che ti ho già raccontato; più o meno il fatto si verificò un mesetto prima della sagra. Avevo quindici anni, non andavo più a scuola e lavoravo quasi ogni giorno in campagna: insomma, mi sentivo un adulto, anche se non lo ero. Avevo preso così l'abitudine la domenica pomeriggio di andare all'osteria del paese, raduno obbligato dei maschi del luogo, ove, stimolati da un bicchiere di vino, scioglievano le lingue, con un argomento pressoché fisso: le capacità amatorie. L'impressione era di essere in un pollaio con tanti galli e neppure una gallina; ovviamente una chiacchiera tirava l'altra e si finiva con lo sparlare di qualcuna. Uno dei soggetti preferiti era la vedova Patti, donna sulla trentina, da tutti definita una mangiatrice di uomini, anche se poi risultava che nessuno l'aveva sperimentata. Certo, erano chiacchiere spesso a vuoto, piccole vanità di gente per lo più analfabeta, che vedeva in una supposta particolare virilità quella realizzazione nella vita, altrimenti insignificante, fatta com'era di lavoro duro e poco pagato, dall'assillante problema di far quadrare i conti in modo che nella giornata, oltre alla cena, ci fosse anche un pranzo, per quanto grami entrambi. Io ascoltavo in disparte, cercando di capire quali erano le verità e quali invece le spacconate. E fu così che venni a conoscenza dell'esistenza in paese di una persona, diciamo, molto disponibile. "Dove vai?" disse Tonio a Francesco, che si apprestava a lasciare l'osteria. "Mi sono rimasti tre soldi, giusti giusti per un colpetto all'Adalgisa." "Sempre bene in carne quella femmina, vero?" "Sì, anche troppa, ma mi vanno abbondanti; non voglio stringere le ossa di mia moglie; qualche volta bisogna pur togliersi la voglia di avere tanto da guardare e da toccare." "Più tardi penso proprio di farci un salto pure io; è un po' che non ci vado ed ho nostalgia di quella baldraccona. E tu ragazzo, che hai da ascoltare? Questi sono discorsi per uomini, e non per mocciosi che hanno ancora la goccia al naso." Rimasi sconcertato e "Non faccio del male, se ascolto. E poi non sono un moccioso, io sono un uomo che lavora tutto il giorno e che contribuisce a mandare avanti la famiglia." "Mi fai ridere; quella non è roba per te: non sapresti che farci. Va, levati dai piedi, ed oggi sono generoso: ti faccio anche un regalo, sì un regalo ad un uomo come te…" e mi allungò una sigaretta tutta rattrappita. Francesco uscì e pure io; lo seguii, un po' a distanza, in modo che non se ne accorgesse, una prudenza forse eccessiva perché i due bicchieri di vino tracannati cominciavano a fare il loro effetto; camminava traballando, appoggiandosi ogni tanto ai muri delle case, finché giunto in fondo alla via entrò in una mezza stamberga. "Allora è lì che sta l'Adalgisa" mi dissi ed il cuore cominciò a battermi forte. Ecco, ero vicino alla fonte di ogni piacere; bastava che attendessi l'uscita di Francesco e poi mi facessi avanti ed anch'io avrei assaporato l'ebbrezza dell'amore, come un vero uomo. Contai i soldi in tasca ed erano appunto tre baiocchi, ma restava un dubbio: avrei fatto bene, o avrei commesso un peccato; sarei diventato così un uomo, o sarei rimasto il ragazzino delle prime esperienze solitarie; ne sarei stato capace, o avrei fatto miseramente fiasco. I pensieri affardellavano la mente; il cervello sembrava scoppiare e mi diceva di non farlo, ma in certi momenti non si ragiona con la testa, ma con qualche cosa che esplode prepotente dentro di te ed a cui non riesci ad opporti. Così quando Francesco se ne uscì, entrai io. C'era una sola camera, con un pagliericcio e sopra, nuda come l'aveva fatta mamma, stava l'Adalgisa. Era quella che si sarebbe detta una buona stazza, abbondante in ogni parte, con due seni che sembravano cocomeri ed un di dietro mastodontico; sui quaranta, quarantacinque anni, il volto, non bello, enorme e sfatto mi ricordò chissà perché certi rospi che s'annidavano nei fossi delle risaie. "Che vuoi, ragazzino?" "Io, io…. " "Eh, spicciati, che tempo da perdere non ne ho con un moccioso" "A dir la verità, passavo di qua ed allora…" "Va la, lo so che cosa vuoi." e spalancò oscenamente le gambe a mostrare quello che pensava fosse il meglio della sua mercanzia. Rimasi impietrito: mi ero immaginato qualche cosa di diverso, un fiore che sbocciava e non …. Corsi via, mentre l'Adalgisa rideva sguaiatamente. Appena fuori, mi appoggiai ad un muro a prendere fiato: se l'amore era così, non l'avrei mai fatto in vita mia, ma già sapevo che non era vero, perché da un po' di tempo provavo uno strano sentimento, di gioia e di ansia insieme, per una ragazzina di nome Marianna; con lei avrei dovuto ritentare e forse allora sarebbe finita diversamente. Mi trovai in mano la sigaretta; la portai alle labbra e l'accesi: aspirai una prima boccata e subito presi a tossire convulsamente. Ero quasi chino al suolo a sputare anche l'anima, quando mi arrivò una scapaccione fra capo e collo. "Ecco il nostro ometto; ma vattene a casa a succhiare il latte". Era Tonio che, fischiettando, entrava dall'Adalgisa. Ma perché mai avrei dovuto diventare uomo, perché non potevo restare ragazzino? Fu solo un attimo di sconcerto, poi ricordai il sorriso con cui la Marianna alcuni giorni prima aveva contraccambiato il mio sguardo, ed allora ripresi la strada, le mani in tasca, fischiettando un motivetto allora in voga. - Da "I racconti del nonno" - Il più bel giorno della mia vita
"Nonno, hai qualche racconto un po' allegro?" "Sì, ne ho uno che riguarda il più bel giorno della mia vita." Era una gelida giornata dei primi di dicembre, il giorno 6 per l'esattezza, e la guerra, la Grande Guerra era terminata da circa un mese. Poco a poco le truppe venivano smobilitate e venne anche il nostro turno, la volta del ritorno degli Alpini dell'Adamello. Eravamo partiti in tanti, con promesse di libertà e di giustizia, e sulla tradotta ora salivamo in pochi, con l'animo ferito da tanto orrore, ma ancora con la speranza che qualche cosa potesse veramente cambiare nella nostra vita. Ci illudevamo che anche per noi ci sarebbe stato un po' di sole, e invece…ma questo non fa parte del racconto di oggi. In treno non parlavamo; le nostre menti correvano alle case lontane che avremmo presto rivisto, alle donne che ci aspettavano e che avevano patito la guerra al pari di noi. Il paesaggio scorreva davanti ai finestrini di quelle carrozze di terza classe, ma non lo scorgevamo: davanti a noi c'erano ancora le immagini delle trincee contorte, della neve insanguinata e degli amici caduti; queste ultime, che al fronte erano state accantonate, nascoste negli angoli più reconditi del cervello, ora prorompevano da quel temporaneo oblio a ricordarci che anche loro avevano permesso il nostro ritorno. Era quasi sera quando arrivammo in stazione a Mantova e là sul marciapiedi, accanto ai binari, la folla dei nostri cari era in attesa. Scorsi subito la Marianna; provai una sensazione indescrivibile, una gioia così intensa che ebbi paura che il cuore mi uscisse dal petto. "Dio, com'è bella" e lo dissi ad alta voce; scesi dal treno e di quei momenti ho un ricordo confuso, indescrivibile. Mi sembrò di essermi alzato in volo; le gambe si muovevano da sole, non comandate dal cervello, ed il cuore che batteva sempre più forte; non fu un abbraccio, fu l'apoteosi della passione fino allora soffocata dalla guerra. Le baciai i capelli, le guance, il naso, la bocca; intorno, benché ci fosse una moltitudine, per me c'era il vuoto assoluto: in quei momenti lì s'incontravano, sostavano, vivevano il momento più bello della loro vita solo due persone: io e la Marianna. Le accarezzai il volto, lasciai scorrere le dita su quell'ovale perfetto, poi la fissai negli occhi e dissi solo "Eccomi di nuovo". Lei non rispose, ma lo sguardo valeva più di mille parole: leggevi la gioia di una donna per il ritorno del suo uomo da uno scampato pericolo. Piano piano, tenendoci per mano, ci avviammo verso casa, il che voleva dire circa otto chilometri di scarpinata, ma non m'importava: avrebbero potuto essere anche mille e non mi sarei spaventato, perché ora con me c'era lei. Il buio già incombeva, ma la luce delle stelle ci avrebbe guidato in quella camminata che non avrei mai voluto che dovesse finire. Ogni tanto mi volgevo a guardarla e lei mi sorrideva: ah, la guerra ormai era sparita, dimenticata, ed ora c'era finalmente la vita, per quanto di fatica, di lavoro, di povertà, ma c'era ed era quel mio piccolo mondo, io e lei; il resto non contava. Arrivammo che era buio pesto; ancora non abitavamo insieme perché la guerra ci aveva impedito di sposarci. Accompagnai la Marianna a casa sua e prima di lasciarla " Amore mio, che vuoi che ti dica?" "Dimmi che mi ami." La guardai e "Ancora meglio: vuoi sposarmi?" "Sì" e ci abbracciammo, mentre le mie lacrime si mescolavano alle sue. Mi allontanai lentamente a ritroso, quasi avessi paura che quel buio l'inghiottisse, e quando entrò in casa andai per la mia strada. Passai vicino al vecchio lavatoio, dove le donne si ritrovavano a fare il bucato ed aspirai a pieni polmoni il profumo del sapone, passai le mani sui vecchi scanni, poi le immersi nell'acqua. La luna vi specchiava ed io, increspando la superficie, ne mutavo i riflessi, l'immagine enigmatica che tutti conosciamo. Ecco, questa era l'aria di casa, in cui ero cresciuto e da cui forzatamente avevo dovuto allontanarmi per più di quattro anni. Mi appoggiai alla vecchia quercia e chiusi gli occhi; che ne sarebbe stato adesso della mia vita, che cosa avrei fatto? Non trovai risposte, ma l'immagine sorridente della Marianna fugò ogni incertezza sul futuro. Qualunque sarebbe stato, non poteva che esser bello, perché io ora ero con lei. Mi chinai a raccogliere una zolla di terra; la strinsi forte e ne uscì il profumo acre ed intenso della vita; stetti un attimo ancora a guardare il cielo stellato, che avrei voluto raccogliere fra le mie braccia per farne dono a Marianna, e poi mi avviai: a casa di certo mi attendevano in ansia. - Da "I racconti del nonno" - Giorni di scuola "Giovanotto, domani ti devi alzare presto: è il tuo primo giorno di scuola." "Nonno, ci sei andato anche tu a scuola, vero?" "Sì, ho fatto le cinque classi delle elementari e per l'epoca era già tanto, perché per studiare bisognava essere ricchi." "Dai, raccontami dei tuoi giorni di scuola." "Ci proverò, perché devo andare tanto indietro nel tempo e ricordare non è sempre facile." Ricordo il primo giorno di scuola, perché è legato ad un episodio che mi si è impresso nella mente e che tanto vorrei scordare, ma non ci riesco. Ero emozionato, come lo sono anche oggi tutti i bambini. La mamma mi aveva vestito abbastanza decorosamente con quel poco che avevo; pensa, era settembre e portavo ai piedi le scarpe invernali, perché non ne avevo altre, ma ero felice. Sarei stato insieme a degli altri bambini, avrei imparato a leggere, a scrivere. Il fabbricato della scuola era fatiscente, con i muri corrosi dall'umidità, e le aule, stanzoni scrostati con i vetri delle finestre rattoppati alla meglio, erano piene di banchi di legno tarlati e segnati dal tempo. Rammento che dapprima ci fu l'appello e poi ad ognuno fu assegnato il suo posto; io capitai allo stesso banco di Cescone, un bambinone in sovrappeso che quando si sedeva faceva scricchiolare l'asse del sedile. In seguito sarebbe diventato famoso per le sue somarate, certamente non volute, perché, purtroppo per lui, la dimensione del cervello era inversamente proporzionale a quella del corpo. Ci avrebbe fatto ridere con le sue risposte idiote durante le interrogazioni, con quel suo faccione che sbucava da dietro la lavagna dove lo cacciava la maestra, ma da bambini ingenui non potevano sapere il male che gli avremmo fatto; la sua diversità, così evidente, così corrosiva, lo avrebbe portato di lì a qualche anno al drammatico epilogo della sua vita, a quel suicidio che avrebbe posto fine alla sventura di non essere come gli altri. La maestra! Me l'ero sognata come una fatina dai capelli biondi ed invece era una vecchia e acida zitella che accompagnava, di frequente, il suo stridulo insegnamento con scapaccioni, i cui segni ti restavano per dei giorni. Certo che se l'insegnante avesse dovuto dare agli allievi un esempio di vita e questi l'avessero seguito, le risse, le scazzottate sarebbero state all'ordine del giorno. E bastava niente per prendersi un ceffone: un pelo sul pennino che sbrodolava d'inchiostro il quaderno, una domanda innocente volta a comprendere meglio una lezione, e persino l'inderogabile necessità del gabinetto. Tuttavia, quel primo giorno sembrava tutto bello e sentivo dentro di me l'orgoglio di essere uno scolaro. Venne anche il direttore a farci un discorsino di benvenuto che sembrava però di commiato, tanta era la fretta di lasciarci. Quell'uomo aspirava da tempo ad una posizione migliore, a dirigere una scuola frequentata solo da figli di nobili e della ricca borghesia, e non quindi un povero istituto di campagna dove ogni tanto si doveva ricorrere alla disinfezione dai pidocchi. In verità non ci fu una prima lezione, ma un più volte ripetuto decalogo di comportamento: quello che si doveva fare (ed era molto), quello che non si doveva fare (ed era ancor di più) e quello che si poteva fare (in pratica niente). Lo scopo evidente era quello di non permettere alla povera gente di aspirare a migliorare; c'era solo da stare zitti e sopportare: così nella scuola ed altrettanto nella vita. Verso metà mattina accadde il fatto; in classe c'era un biondino, un bambino minuto, dagli occhi chiari stanchi ed infossati; stava in prima fila ed ascoltava assente, quando improvvisamente reclinò il capo ed il fianco su un lato, cadendo dalla sedia. La maestra gli si avventò contro, pensando che dormisse, ma… "Mio Dio, ma il bimbo sta male; presto, qualcuno, chiamate qualcuno." Ed in due o tre corsero a chiamare il bidello, un vecchio che, quando non era ubriaco, masticava in continuazione tabacco in un fetore insopportabile fra frequenti sputacchiate che non sempre arrivavano all'apposito recipiente. Questi venne ciabattando, con aria insonnolita, guardò il bimbo "Non sta bene", sentenziò come un medico di fama, assumendo un'aria importante, come se la sua diagnosi potesse essere partorita solo da una mente superiore.
"Che facciamo?" "Lasci fare a me, signora maestra; lo porto a casa dai suoi: un po' di riposo, qualche scapaccione ben dato e domani - e sottolineò il domani, soffermandosi con aria austera - domani sarà di nuovo qua, vispo e fresco come un fringuello." E così il biondino fu portato a casa, ma il giorno dopo non venne a scuola, e neppure il successivo. Cominciai a temere il peggio e decisi di andare a trovarlo. Abitava in una vecchia casa, al terzo piano; le scale erano buie e maleodoranti di zuppe ricotte e di urina di gatto. Bussai alla porta: venne ad aprirmi un uomo dal volto scavato e dolente, gli occhi rossi e le labbra tremanti. Non dissi nulla, perché anche se ero un bambino certe cose le capivo. C'era un altro uomo nella stanza, ben vestito e con una borsa: il medico. "Se mi chiamavate prima, forse potevo fare qualche cosa, ma ora è evidente che è impossibile: non posso richiamare in vita un morto!" "Dottore, non l'abbiamo chiamata prima perché non abbiamo soldi per pagarla; io faccio il bracciante e non lavoro tutto l'anno, e non sempre si mangia; quando ho visto che respirava affannosamente, la disperazione mi ha fatto dimenticare il problema del denaro ed allora sono corso da lei…" "Non voglio niente, voglio solo andarmene, uscire, respirare l'aria fresca del mondo che vive…" ed uscì. "Vieni a vederlo, sembra che dorma sereno." mi disse il padre e notai che c'era un'altra camera. L'uomo mi fece strada, poi sostò sull'ingresso facendomi cenno di entrare. Io non ebbi il coraggio e mi affacciai soltanto: nel buio, appena rischiarato dalla tremula luce di una lampada a petrolio, c'era una donna prona su un letto che abbracciava un fagottino. Corsi via piangendo: era stato il mio primo incontro con la morte. Il giorno dopo tutta la classe andò al funerale; prima in chiesa, dove il parroco recitò brevemente alcune litanie in latino e non dedicò più di un minuto per ricordare questo sventurato figlio della miseria. Poi, tutti al cimitero, con la piccola cassa di legno scadente su un carretto spinto dal padre. Fu calata nella nuda terra e mentre la fossa veniva ricoperta il bidello che, quando era ubriaco, ragionava meglio di quando era sobrio, ebbe solo a dire " Vai, piccolo, dove non avrai più da soffrire. Che schifo di mondo, questo." Non un fiore, ma solo una piccola croce con impresso ad inchiostro il nome ed il cognome, poche lettere che in breve le piogge dell'autunno ed il freddo dell'inverno cancellarono. - Da "I racconti del nonno" - Sinfonia d'autunno "Che hai nonno? Mi sembri triste…" "E' la giornata, fredda e nebbiosa, con l'umidità che penetra in queste ossa stanche." "Raccontami qualche cosa, la tua vita che sembra un romanzo, fallo per me." "Non sono dell'umore giusto, ma questa giornata me ne ricorda un'altra dell'ottobre del 1945. E va bene, racconterò di allora" Era umido e freddo come oggi; la guerra era finita da pochi mesi, ma se non c'era più la paura delle bombe c'era il solito problema della miseria, che mi ha accompagnato per tutta la vita. E miseria non vuol dire solo non potersi comprare da mangiare, è ancora peggio: è come vagare in un deserto senza una meta, è avere la certezza che nulla potrà cambiare, che l'assillo quotidiano che c'è stato ieri ci sarà anche oggi, domani, dopodomani e così per tutti i giorni a venire. Ho sempre davanti gli occhi delle persone che hanno come fedele compagna la miseria: sono spenti, rassegnati, impotenti. La nonna era alcuni giorni che non stava bene: una febbre iniziata con poche linee era via via cresciuta ed il dottore continuava a dire che era un po' d'influenza, un comune malanno di stagione. Ma poi la temperatura aveva preso ad aumentare vertiginosamente: 39, 40 gradi; e l'accompagnava una tosse roca. L'abbiamo portata all'ospedale; broncopolmonite mi hanno detto sotto voce e poi il dottore mi ha appoggiato una mano sulla spalla ed ho capito tutto; sono uscito nel corridoio ed ho appoggiato la testa al muro. Trent'anni insieme, a lottare, a crescere i figli, ma sempre uniti, trent'anni di miseria, ma anche di felicità, perché non è la ricchezza che ti rende felice, è amare ed essere riamato. Non poteva finire così, in un letto sgangherato di ospedale, in uno stanzone che puzzava di disinfettante. Ed allora sono rientrato nell'ambulatorio… "Dottore, non si può proprio fare nulla? La prego, mi dica qualche cosa, la supplico…" "E' molto debole e la malattia è devastante; direi che non ci sono cure, o forse…" "Forse, cosa? Mi dica, sono disposto a tutto." "Gli americani hanno un prodotto che cura le infezioni e questa è un infezione: si chiama penicillina." "Penicillina? Proviamo questo prodotto; proviamo…" "Non lo abbiamo nella farmacia e c'è solo sul mercato nero, a prezzi proibitivi. Si vende in fiale da iniettare per via intramuscolare; se vogliamo fare un tentativo, ma senza certezza di risultato, direi che occorrono sei fiale; ieri costavano, costavano uno sproposito: Lire centomila cadauna, cioè in totale Lire seicentomila.." " Seicentomila?" e mi caddero le braccia. "Seicentomila, ma è un'enormità; io prendo ventimila lire al mese e non bastano neppure per il mangiare…" "Non so che dirle; ha tutta la mia comprensione." "Quanto tempo ho?" "Come?" "Sì, per quando al massimo Lei deve avere le fiale?" "Prima possibile, e comunque non oltre domani pomeriggio." "Va bene, va bene" Uscii come tramortito, barcollando e con il chiodo fisso di trovare quei soldi. Ma dove? Non avevamo una lira da parte e tutti quelli che conoscevo erano tutti nelle stesse condizioni, se non peggio. Tornai a casa impietrito; i vicini capirono che era successo qualche cosa di grave e vollero sapere. Raccontai piangendo tutto, anche delle seicentomila lire ed anche loro mi misero una mano sulla spalla. Mi buttai sul letto affranto, cercando un po' di quiete per riordinare le idee e sperando in un improbabile colpo di genio, ma dalla strada veniva un rumore incessante di merci trasportate, di mobili spostati. Che diavolo succedeva? Mi affacciai alla finestra: c'erano i Bianchi che mettevano su un carretto la loro vecchia cassapanca, l'unico mobile che avevano di qualche valore; più in là i Marchesi si caricavano sulle spalle dei materassi e la signora Silvia, di cui non riesco mai a ricordarmi il cognome, spingeva una carrozzella da neonato con sopra qualche chincaglieria. "Ma che fanno! Si mettono a traslocare oggi e poi chissà dove andranno con le poche case disponibili" Mi ritrassi, perché orma il fermento interessava tutta la via; gente che stava lì da anni, che conoscevo da una vita e che ora di colpo se ne andava. Mi sembrava di impazzire: la nonna là in ospedale già quasi in agonia, io a casa a pensare all'impossibile e tutti quelli che se andavano. Era peggio di un incubo, anche se speravo che tutto fosse solo un sogno. Cominciai a fare un po' di conti: se impegno questo mi possono dare tot, quest'altro tot, ma alla fine la cifra che risultava era drammaticamente inferiore al necessario. Non avevo nulla da poter dare in garanzia ed uno strozzino mi avrebbe riso in faccia; cercare qualcun altro che mi prestasse i soldi, ma chi, se tutti quelli che conoscevo erano squattrinati. Gocce di sudore mi scendevano dalla fronte e la testa mi scoppiava. Ritornai a letto e probabilmente sfinito mi addormentai. Poi qualcuno bussò alla porta: mi alzai intorpidito ed andai ad aprire. Lungo le scale c'era una moltitudine, i Bianchi, i Marchesi, la signora Silvia, tutto il vicinato. Che fossero venuti a salutarmi prima di andarsene? Il brusio cessò quando si fece avanti il capofamiglia dei Bianchi. "Senti Pietro, noi vogliamo come te che tua moglie viva; siete due gran brave persone, siete come di famiglia per tutti; lo sai che siamo poveri come te ed allora abbiamo fatto una colletta, ma non siamo arrivati a seicentomila lire, anzi siamo appena arrivati alla metà. Però si può, si deve tentare; tienile e speriamo bene…" "Non so cosa dirvi, ma io quando mai potrò restituirvi questi soldi?" "Non importa; quando vorrai e se potrai; quel che conta è che tua moglie guarisca." E se ne andarono in silenzio. Quella povera gente aveva impegnato tutto quel poco che aveva ed io seguii il loro esempio: portai anche il letto al Monte di Pietà. Alla fine riuscii a comprare quattro fiale, ma si vede che la solidarietà dei poveri è apprezzata in cielo e queste bastarono. Mi sento ora in debito con tutti, anche perché non sono in grado di ripagarli; adesso capisci perché la porta di casa mia è sempre aperta: loro non vengono, ma quello che ho qua è loro. - Da I racconti del nonno -
L'albero della cuccagna Quando il nonno raccontava, ascoltavo estasiato come se udissi le più belle fiabe, ma in verità non si trattava di invenzioni, ma di fatti reali, esperienze di vita vissuta, forse implementate con un po' di fantasia per sopperire al calo di memoria dovuto all'età. Si trattava di episodi della sua vita, in tempo di pace ed in tempo di guerra, una specie di cronaca vera, lo spaccato di un'epoca. E quello che mi appresto a ricordare è sintomatico delle condizioni di vita della povera gente ai primi del novecento. Correva l'anno 1910 ed ero un ragazzino in piena pubertà; mi guardavo intorno e tutte, dico tutte, le fanciulle mi interessavano; nessuna mi sembrava brutta, anche perché morivo dalla voglia di abbracciarle e di fare quello che i grandi, con mezze frasi ed ammiccamenti, andavano ripetendo. Già lavoravo; ultimata la quinta elementare avevo cominciato ad andare in campagna a sgobbare sotto il sole dell'estate, sferzato dalla pioggia dell'autunno, battendo i denti per il freddo in inverno, ma con il cuore caldo e forte in primavera, ed accadde appunto in quella primavera, in occasione della festa del patrono. In paese c'era movimento, era venuta una giostra mossa da un povero ronzino; in programma c'erano le corse con i sacchi e, soprattutto, l'albero della cuccagna. Allora si mangiava una volta al giorno: un uovo con insalata, o un'insalata con un uovo, e così per sette giorni, per un mese, per un anno, per tutta la vita; qualche rara volta, per Pasqua o per Natale, si cambiava con una minestra di brodo di carne di pollo, carne poi che mangiavamo: ci sembrava in quelle occasioni di essere ricchi, ma già il giorno dopo ricomparivano nel piatto l'uovo e l'insalata. Scusami, mi stavo perdendo con il ricordo; eravamo dove? Ah, sì, all'albero della cuccagna, un lungo palo infisso nel terreno e cosparso di grasso con in cima una ruota di carro da cui pendevano in genere un paio di salami, una pancetta e, a volte, anche un prosciutto crudo; prelibatezze da ricchi, si diceva, e non per noi che eravamo poveri. Tuttavia, ai poveri era concesso di poter beneficiare di queste meraviglie, a patto che riuscissero ad arrampicarsi lungo il palo - e ti assicuro che non era facile - e ad afferrarle. Nella competizione si misuravano tutti, perché troppo grande era il premio: carne, quella carne così indispensabile di cui sentivamo tanto il bisogno. Ci si allenava, a volte anche per mesi, ed io quell'anno mi sentivo in una forma smagliante. La sera prima della gara, gironzolando intorno alla giostra, buttai gli occhi sulla Marianna, una ragazzina tutto pepe, con due splendidi occhi neri che ricambiarono maliziosi il mio sguardo. Mi feci avanti e "Ciao, Marianna, che fai da queste parti?" "Giro." "Giriamo insieme?" E lei annuì. Non c'era molto da vedere e ben presto ci stancammo della giostra che ruotava e del ronzino che stancamente la muoveva; mi avviai verso la campagna, tenendola per mano, e lei mi seguì. Appena fummo al buio l'abbracciai, la strinsi a me con tutta la forza che avevo e lei mi diede un bacio sul collo. Poi…non ti racconto altro: un giorno anche tu capirai e proverai le stesse emozioni; ti dico però una cosa che è importante per comprendere la storia: non facemmo quelle cose che facevano i grandi, perché lei si rifiutò, nonostante i miei tentativi, le mie suppliche; riuscii però a strapparle una promessa, anche se condizionata "Se domani riuscirai a salire sull'albero della cuccagna e mi porterai tutte quelle buone cose, sarò tua.", e corse via ridendo. Giuro che quella notte non dormii; mi sentivo emozionato, mi sembrava di aver tagliato per primo il traguardo di una gara importante e, soprattutto, mi pareva di essere un grande e non un ragazzino di 15 anni. Il giorno dopo, che era domenica, non si lavorò ed io passai il tempo ad allenarmi; andavo su e giù lungo quell'albero con una velocità che mi stupiva, assai maggiore di quella degli altri concorrenti, tranne uno, il Ratti, un uomo sui trent'anni, già sposato, con quattro figli da sfamare ed una moglie che non riusciva a dare il latte al quinto di soli pochi mesi. Mi fissava mentre mi arrampicavo, scorgevo in quello sguardo una speranza rassegnata, e quando toccava a lui metteva tutte le sue forze; era veloce, ma non quanto me. La moglie, con i quattro bimbi a lato ed il quinto in braccio, lo osservava con trepidazione e gli ripeteva "Sta attento; non cadere; non farti male; non abbiamo che te." All'imbrunire gli allenamenti cessarono ed andammo a lavarci nel fosso dal grasso che ci avvolgeva. Il Ratti mi venne vicino e, a bassa voce " Ti prego, lascia che vinca io; mia moglie non ha più latte per il poco mangiare ed il piccolo potrebbe morire; hai tanti anni davanti tu, per vincere." Non era una preghiera, era un'implorazione. Mi voltai a guardare sua moglie, con il bimbo attaccato al seno avvizzito e dissi solo "Ci penserò." Ed infatti ci pensai fino all'ora della gara; davanti a me scorrevano due immagini: quella della Marianna che mi si concedeva e quella del Ratti che, trionfante, scendeva con i salumi. Non riuscii a prendere una decisione ed arrivai in quello stato alla tenzone. Prima che iniziasse la moglie del Ratti mi si accostò, mormorandomi "Non abbiamo che lui…" Mi ritirai in un angolo a piangere: di fronte a me non c'era la Marianna, non c'era più nessuno, c'era solo l'immagine vivente delle sofferenze per la miseria, e così presi la mia decisione. Quando toccò il mio turno, mi avvinghiai al legno come un felino, presi a salire con una velocità incredibile e quando ero quasi arrivato in cima finsi di scivolare e caddi quasi di sasso, fra le risate generali. Rimasi ancora quel tanto che mi consentì di vedere la vittoria del Ratti, poi mi allontanai. Dietro un cespuglio mi attendeva la Marianna. "Sono scivolato, non so neppure io come ho fatto." "Lo so io e sono fiera di te". Vuoi sapere come andò a finire? Valentina è il nome della nonna, ma è il suo secondo nome ed il primo è, è?: è Marianna. - Da "I racconti del nonno" - L'alpino nella neve Nel corso della prima guerra mondiale si combatté molto, e duramente, anche sulle alte cime; i crinali furono contesi aspramente dai due contendenti e le difficoltà del terreno, le condizioni climatiche repentinamente mutevoli e l'alta quota determinarono perdite incalcolabili. Sono passati tanti anni da quando il nonno mi ha lasciato ed io ero ancora bambino, ma non ho dimenticato i suoi racconti di vita, le esperienze drammatiche che lo coinvolsero in quella grande tragedia che lo videro umile alpino combattere sulle nevi eterne dell'Adamello. Quello che mi appresto a raccontare è un episodio che al nonno, nel rammentare, provocava un'emozione così forte da riuscire a trasmetterla anche a me e che tuttora provo,per la nota dolente che lo contraddistingue. L'anno, mi pare fosse il 1916; la guerra era già entrata nel secondo anno e le nostre speranze di una rapida vittoria erano già svanite; eravamo partiti da Mantova in otto ed ero rimasto solo io (Cavedaschi era caduto nei primi giorni, Moretti non si era più svegliato una mattina ed il freddo se l'era portato con sé; gli altri, gli altri? Sì, gli altri non mi erano sconosciuti, ma ho imparato presto che è meglio dimenticare l'amicizia per evitare la sofferenza per la perdita di un caro compagno). Eravamo incavernati su un bastione di roccia che guardava sul ghiacciaio del Mandrone; uno spazio angusto, scavato con il piccone, vivevamo in mezzo ai nostri stessi escrementi, si mangiava ogni tanto, quando la corvè riusciva a raggiungerci; il freddo era sempre intenso e non potevi dormire più di un'ora di seguito, altrimenti ti si congelavano gli arti. Gli austriaci erano dall'altra parte, fra le rocce fronteggianti, ad una distanza non superiore ai 200 metri, in una posizione di fatto imprendibile, perché noi avremmo dovuto uscire dalla caverna, calarci con le funi sul bordo del ghiacciaio, attraversarlo, aggirando i crepacci, e risalire il pendio per attaccare il nemico. E la stessa cosa era per loro; di fatto eravamo entrambi immobilizzati e le scaramucce quotidiane si concretizzavano in salve di fucileria e nei tiri dei cecchini. Nonostante questo, le perdite erano elevate da entrambe le parti per l'inclemenza del tempo, per il freddo, per il vestiario inadeguato e per il cibo, poco e di poca sostanza. Ricordo ancora: era un giorno di aprile, la primavera, che in valle rinverdiva tutto, da noi non si avvertiva e solo il sole, più alto, ci avvisava della nuova stagione. Era quasi sera e le cime riverberavano della luce rossastra dell'astro che calava: una visione stupenda contrastante con l'immane tragedia. Su di noi era scesa una malinconia indicibile nell'emozione provocata dallo spettacolo della natura; andavano riaffiorando i ricordi della casa lontana, dei propri cari, della vita di ogni giorno prima della guerra, insomma della normalità così noiosa quando c'è, ma così agognata quando manca.
Garrusu, un sardo piccolino e sempre con gli occhi tristi, si alzò e cominciò a cantare, prima con voce bassa, poi sempre più forte: erano parole che rievocavano giorni lontani, donne che andavano a prender l'acqua alla fontana, scene di vita di un paese come tanti. Ascoltavamo in silenzio, gli occhi umidi e quando Garrusu finì notai che tutti, me compreso, avevamo le guance bagnate. Nessuno disse nulla, nessuno applaudì: la commozione ci aveva preso, ma non solo noi. Dall'altra parte iniziò un coro incomprensibile per la lingua diversa, ma la melodia ci percuoteva il cuore, univa i nostri animi a quelli degli ignoti cantori. Il tenente, che parlava un po' il tedesco, ogni tanto borbottava , traduceva "Mia sposa lontana che aspetti il tuo uomo….; casa, casa mia, quanto sei bella…". Poi si interruppe singhiozzando. Il canto cessò ed allora dalla trincea nemica si levò un grido "Taliani, cantate ancora e che oggi non ci sia guerra". E Garrusu riprese con un'altra canzone e quando finì cominciarono gli altri; l'intermezzo musicale andò avanti per un paio d'ore, fino a quando il buio avvolse tutte le cime, le valli, le caverne, le trincee, penetrò negli uomini, accrebbe la loro angoscia, devastò i loro cuori. Poi, fu tutto silenzio e le stelle presero a brillare. Garrusu si rannicchiò in un angolo, poi mi si avvicinò: "fai tu la guardia per primo?" "Sì" "Non riesco più a stare in questo posto; voglio, devo tornare a casa." "Ma come farai? Se anche riuscissi a calarti, a costeggiare il ghiacciaio ed a scendere al Tonale, là i nostri ti prenderebbero e per te sarebbe la morte." Non rispose, ma quel silenzio, quegli occhi cupi e disperati parlavano più di qualsiasi discorso. Appena iniziato il turno di guardia, lo vidi scivolare accanto a me, gettare la fune, aggrapparsi ad essa e balzare oltre il parapetto. Mi parve di vederlo arrivare alla base del bastione, poi non scorsi più nulla. In cuor mio pregavo perché Garrusu ce la facesse e, quando sorse il sole, pur nel timore dei cecchini, mi affacciai e sotto non vidi nessuno. Ne fui contento, per lui, per me, per tutti, perché se tutti, noi e gli austriaci, ci fossimo ammutinati la guerra sarebbe finita, saremmo tornati a casa e la pace sarebbe tornata nei nostri cuori. Al tenente dissi che Garrusu si era affacciato ed era caduto; non so se mi credette, però non volle guardar giù. Gli anni passarono e nel novembre del 1918 ci fu l'armistizio. Ci calammo giù dal bastione con le corde con una felicità che mai potrò dimenticare; gli austriaci ci vennero incontro sul ghiacciaio, lentamente, nel timore dei crepacci. "Taliani, venite, in questo crepaccio c'è qualche cosa" la voce mi fece trasalire. Andammo ed in effetti ad una profondità di circa tre metri si vedeva qualche cosa che sembrava un fagotto. Ci calammo e quegli stracci erano una divisa d'alpino che racchiudeva un povero corpo, ancora ben conservato. Garrusu, irrigidito, sembrava guardarci stringendo in mano qualche cosa: una fotografia di una donna con un bimbo in fasce. Italiani ed austriaci se ne stavano muti all'intorno: Garrusu aveva ritrovato la sua casa in quella gelida notte d'aprile. Dei monti e delle valli Già s'approssimava la sera; il sole, che per tutto il giorno aveva esaltato la bellezza del panorama, cominciava a ritrarsi stanco dietro i crinali e le ombre avanzavano rapidamente incupendo il verde lussureggiante delle pinete. Il cielo scoloriva dall'azzurro immane nel blu sempre più profondo e l'aria mite andava facendosi sempre più frizzante. Aldo guidava lentamente e con attenzione lungo la ripida discesa, gettando ogni tanto un'occhiata all'Ornella, che, rannicchiata sul sedile a fianco, dormiva beatamente. "Come è bella, come è desiderabile, ma non sarà mai mia" diceva fra sé e comincio a ripensare a quella lunga giornata trascorsa insieme. Erano partiti per quella gita in montagna, da lui tanto vagheggiata e magnificata, tanto che l'Ornella, la figlia del medico condotto del suo paese e che conosceva fin dalle elementari, non aveva potuto non acconsentire all'invito ad accompagnarlo. "Ornella, dai, siamo o non siamo vecchi amici? Che male c'è se facciamo un giro insieme, partiamo la mattina e torniamo la sera." "Va bene, Aldo, sono curiosa di vedere quei posti di cui parli tanto da almeno un mese." E partirono che era l'alba, fra le raccomandazione delle rispettive madri. "Fate i bravi, state attenti." Aldo sorrideva" Io 25 anni e lei 23 anni; ci trattano ancora come se fossimo bambini." La gita in effetti era un pretesto, perché Aldo voleva dichiarare il suo amore ad Ornella; erano anni che sognava di vivere con lei; fin da piccola lo aveva interessato per quella sua aria sbarazzina, poi crescendo aveva trovato in lei ulteriori motivi per consolidare il suo intendimento. Poco a poco era diventata una fanciulla graziosa e poi aveva assunto la fisionomia della donna piacente e desiderabile. Erano rimasti buoni amici fin dall'infanzia e si vedevano abbastanza spesso; Aldo aveva cercato di capire se lei provava un analogo sentimento nei suoi confronti, ma non aveva sondato il terreno con la necessaria esperienza ed il timore di un diniego gli aveva impedito sempre di esternare le sue emozioni; aveva cercato di interpretare i segni del suo sguardo, ma invano, anzi sembrava che l'Ornella nutrisse qualche interesse per altri ragazzi, magari appena conosciuti. A questi riservava occhiate generose davanti a lui che, senza darne a vedere, soffriva in silenzio; una cosa, però, era certa: la ragazza non aveva ancora un fidanzato, ma il tempo stringeva e con tutti i mosconi che le ronzavano intorno prima o poi sarebbe arrivato quello che gliela avrebbe portata via. Ecco il perché della gita: loro due e nessun altro e lui si sarebbe fatto avanti. "La nostra meta è San Martino di Castrozza, ai piedi del gruppo dolomitico delle Pale di San Martino." "Lo so bene, Aldo, me l'hai già detto non so quante volte." "Scusami, Ornella, ma….sono emozionato; io e te in gita insieme…" "Beh, non c'è nulla di strano; siamo amici da una vita." E Aldo si morse il labbro perché avrebbe tanto desiderato una risposta del genere "Che bello stare insieme", o giù di lì. Passato l'abitato di Predazzo presero la strada che portava al Passo Rolle, costeggiando verdi prati qua e là chiazzati dal bruno scuro delle mucche al pascolo. "Ecco, vedi, quello alla nostra destra è il lago di Bellamonte; fra poco arriveremo al centro visite del Parco Regionale di Paneveggio." "E' dove ci sono i caprioli?" "Sì, è lì." Il silenzio che seguì lo intristì ulteriormente; quanto avrebbe voluto che dicesse "Andiamo a vedere i caprioli? Magari li fotografiamo…". Arrivarono al centro che già i caprioli si affollavano lungo la staccionata attratti dalle offerte di cibo dei visitatori. "Adesso voglio farti una fotografia, mentre porgi la mano con il fieno." "Se vuoi,….". E come se voleva, quanto sperava in un suo sorriso rivolto verso l'obiettivo; gli si sarebbe aperto il cuore, si sarebbe sentito incoraggiato a tentare l'approccio. Ma Ornella non girò il viso verso di lui, anzi guardava fisso il capriolo, quasi volesse sottrarsi alla sua presenza, a quegli occhi che la osservavano pieni di speranza attraverso il mirino dell'apparecchio fotografico. Aldo scattò un paio di istantanee senza nessun impegno, tanto sarebbero rimaste fra quelle che, una volta catalogate, non si avrebbe avuta più l'occasione, od il desiderio di rivedere. Lo scoramento aumentava, era come un vuoto che si propagava sempre più velocemente dagli intestini fin verso il cuore; il volto gli si era rabbuiato; cercò di non far trapelare nulla della tempesta che lo agitava, ma gli sembrava impossibile che lei non potesse accorgersene. Che fare, allora? Il tentativo, così a lungo desiderato e preparato, era andato a monte e questo era certo. Aldo si disse" E' evidente che non posso che essere un suo amico, e nulla di più. Beh, accantoniamo tutti i propositi e vediamo di trascorrere la giornata in amicizia." E così fu; nell'atteggiamento non cambiò nulla ed immutata rimase la cordialità, ma ogni tanto in lui si accentuava la burrasca che lo stava devastando ed allora non trovava di meglio che zittirsi e guardare innanzi a sé senza vedere. Nel pomeriggio, dopo il pranzo, non trovò di meglio che parlare a lungo, come una guida turistica, dei posti che visitavano; era un'ottima soluzione, gli riusciva facile e soprattutto gli impediva di pensare. "Vedi, quello è il gruppo della Pale di San Martino e la cima più alta è il Cimon della Pala, che assomiglia in modo straordinario al Cervino; è uno spettacolo maestoso, imponente, che ti fa sentire vicino a Dio" e le descrizioni proseguivano, mentre l'Ornella, muta, ogni tanto assentiva. E venne l'ora del ritorno, quanto mai agognato da Aldo, alla luce dei risultati del suo sforzo. Non appena partiti, l'Ornella si addormentò; il viaggio all'indietro fu pìù veloce, senza le tensioni dell'andata. In vista della pianura, Aldo, al fine di non essere colto dal sonno pure lui, decise di dire, sia pure a voce bassa, quello che gli passava per la mente. "Ornella, se solo immaginassi quanto ti voglio bene; per me sei un sogno e così purtroppo rimarrai; non so dirti perché ti amo, anzi perché ti ho sempre amata. A volte mi chiedo se hai capito qualche cosa del mio turbamento." E la vallata s'apriva, lasciando alle spalle le montagne ormai confuse nell'oscurità del cielo. "L'unica cosa che so è che non riesco a vivere senza di te e che dopo di oggi rimarrò solo con il mio sogno." E guardò Ornella sempre più addormentata. "Forse sarò ridicolo, ma non m'importa: o te, o nessuna. Ma ci sarò sempre, solo per te, perché la speranza è l'ultima a morire." Arrivarono a casa che già le stelle punteggiavano il cielo; Aldo desiderava solo una cosa: rifugiarsi nella sua camera e piangere. Con delicatezza svegliò Ornella "Siamo arrivati." "Ah sì; che dormita che ho fatto e che sogni…" Scesero dall'auto. "Ciao Ornella, buona notte e grazie della compagnia" La ragazza sorrise e "Aldo, non rimarrai solo con il tuo sogno"; poi gli stampò un bacio sulla bocca e corse via. Aldo non riuscì a trattenere le lacrime e volse lo sguardo al cielo: le stelle disegnavano uno straordinario arabesco fatto di monti e di valli. Il giorno dopo La città quella sera era pressoché deserta; pioveva in quel precoce autunno che non vedeva il sole da diversi giorni. I rari passanti frettolosamente arrancavano allo scarso riparo delle grondaie con un unico desiderio: ritrovare il riparo ed il caldo del focolare domestico. Solo un'ombra s'aggirava lentamente, senza meta, protetta solo da una mantellina e da un elmetto, incurante degli scrosci, quasi non le importasse nulla di eventuali malanni, non improbabili con quell'umidità ed il freddo tignoso che penetravano fino alle ossa. Mario alzò il bavero, poi si asciugò il viso e proseguì il suo cammino: era la sua ultima sera di libertà, il suo ultimo giorno di certezze, poi l'indomani sarebbe partito per quell'inferno di cui tutti parlavano e da cui pochi erano tornati: il Carso. La guerra durava ormai da due anni e l'annuncio trionfante che sarebbe stata breve era stato rapidamente cancellato. Vent'anni era l'età di Mario, un'età di gioie, di speranze, di innamoramenti; questo in altri tempi, non in quelli dove l'unica certezza era che la vita poteva essere tremendamente breve. Era tutto il giorno che girovagava senza una meta, con la disperazione che può avere chi sa che la vita finirà da lì a poco. Aveva ascoltato con angoscia i racconti dei soldati in licenza, in particolare del cugino che non riusciva a capacitarsi di essere ancora vivo. Frasi mozze, pronunciate con voce soffocata, accompagnate da un percettibile tremito del viso. "Fango, fango, o pietraie, ma ovunque morte; il tormento dell'attacco, il balzo fuori dalla trincea, chi cade intorno a te, le mitragliatrici fiammeggianti che ti puntano, l'immane esplosione dei proiettili delle bombarde." Mario ascoltava e, mordendosi il labbro, pregava che non fosse vero, che fosse frutto di esagerazioni, ma poi si accorse sgomento che i racconti del cugino collimavano con quelli di altri reduci, ed in tutti colpiva quel tremito del viso, quella sorta di espressione attonita, rassegnata. "Vedi, arrivi ad un punto che ti rassegni; speri solo di non soffrire. I primi caduti ti lasciavano sgomento, poi sono diventati talmente tanti che….; non c'è posto per le amicizie, perché non potrebbero durare. E poi tutta quella sporcizia, il cibo scotto, i piedi permanentemente nel fango, i pidocchi che ti tormentano… A volte penso che l'inferno non potrà che essere meglio." Quando aveva ricevuto la cartolina dal distretto l'aveva letta solo come chi può leggerla uno che è già preparato alla fine dei suoi giorni, e quel giorno di pioggia che volgeva alla notte l'aveva trascorso come fosse stato l'ultimo della sua vita, perché il giorno dopo sarebbe partito per un viaggio senza ritorno. Aveva camminato a lungo senza una meta, fermandosi solo in ogni osteria a farsi un goccio, nella speranza che l'alcool ottenebrasse la sua mente. "Quando preparano un attacco non ce lo dicono, ma lo comprendiamo, perché si raddoppiano le dosi di acquavite. Ci vogliono ubriachi, senza volontà, perché se il cervello funziona chi mai si sognerebbe di correre incontro alla morte certa." Che cos'era stata la sua vita? Aveva cominciato da giovane a fare il garzone della macelleria sotto casa; ore ed ore di lavoro malpagate, rimbrotti continui, la miseria di una famiglia con tanti fratelli, ed un solo sogno: fuggire via, ovunque, senza pensare, per ricominciare, crearsi una vita giorno dopo giorno, metter su famiglia; la famiglia! Non era mai stato con una donna, addirittura non ne aveva mai baciato una: che schifo di vita! Nulla di bello da ricordare ed allora tanto valeva la pena di terminare presto, anche se era ingiusto. E domani…. Isabella uscì dal lavoro e si affrettò verso casa, riparandosi il capo, per quanto possibile, con la borsetta. Lavorava dieci ore al giorno in una modisteria, fatiche continue, assai poco retribuite, ma le permettevano di non pensare a quel marito caduto in uno dei primi mesi di guerra dopo solo un anno di matrimonio. Quanto l'aveva amato! Era stato il suo primo uomo ed in lui aveva apprezzato la gentilezza, non disgiunta da una evidente forza interiore. Il loro era stato un rapporto forzatamente breve, ma intenso, ed il ricordo che ne serbava le faceva palpitare il cuore. Quand'era partito per il fronte era stato capace di trasmetterle la sua forza che aveva placato l'angoscia e la trepidazione che la pervadevano. L'aveva accompagnato alla tradotta e nel momento del commiato "Amore mio, torna, torna. Tieni questo mio fazzoletto e se lo appoggerai sul tuo cuore sentirai battere anche il mio." gli disse fra le lacrime, che lui aveva asciugato con quel piccolo pezzo di tela che profumava di violetta. Era poi partito, ma il fazzoletto era rimasto fra le mani di lei. Altre lacrime lo avevano inzuppato quando era giunta più tardi la notizia della morte avvenuta in combattimento. Da allora l'aveva sempre tenuto nella borsetta, così da non separarsene mai. Isabella girò l'angolo e venne urtata da uno sconosciuto, un militare. "Mi scusi, signora" "Va bene" e si chinò a raccogliere la borsetta caduta a terra. Nel rialzarsi osservò lo sconosciuto: un giovane, forse della sua età, fradicio di pioggia e con uno sguardo triste. "Non l'ho vista; è che sono frastornato; sa…, domani parto per il fronte. Se posso…, non so…, se vuole…; qui piove e fa freddo; le andrebbe di bere un caffè?" Non era una cortesia, era una supplica ed Isabella se ne accorse; non sapeva che fare, non le sembrava decoroso entrare in un'osteria con uno sconosciuto, ma anche lui sarebbe partito il giorno dopo e chissà quali tormenti l'affliggevano. "Sì." Lì vicino c'era un'osteria, un ambiente fumoso dove l'odore acre del vino si mescolava al puzzo dei toscani. Entrarono e presero posto ad un tavolo traballante, uno di fonte all'altro. Mario guardava la donna alla luce della lampada che pendeva dal soffitto: non poteva essere definita una bellezza, ma in lei c'era un innato senso di dolcezza che le dava splendore, e poi emanava una forza interiore che si poteva scorgere nel suo sguardo mite, ma fermo, quasi che gli eventi della vita fossero per lei nulla più che un ricordo dal quale trarre spunti per proseguire. Un lungo silenzio li accomunava, ma gli occhi finirono per incontrarsi e quelli spenti e tristi di Mario si accesero di una nuova luce che non passò inosservata ad Isabella. "Sono vedova; mio marito è caduto nei primi mesi di questa tremenda guerra; da allora è la prima volta che sono seduta ad un tavolo con un uomo." "Capisco ed anche per me è la prima volta che sono davanti ad una donna, una bella donna." "Non esageri, sono una come tante." "No, lei è diversa, lei è la cortesia, la dolcezza,…., è tutto quanto di bello c'è al mondo; lei è la vita." Isabella sorrise per i modi impacciati di Mario, ma quel ragazzo le faceva tanta tenerezza, con quella sua aria sperduta, quel timore per il domani che si poteva leggere nei suoi occhi. E poi, non sapeva il perché, ma sentiva per lui un'attrazione che non riusciva a giustificare. Bevvero distrattamente il caffè, o meglio quel liquido nero e caldo che avrebbe dovuto essere caffè, ma non sentirono il gusto, perché i loro sensi erano tutti orientati in un'unica direzione. Il pendolo dell'osteria battè le dieci. "Mi scusi, si è fatto tardi; devo andare" e si avviò verso la porta. Mario la rincorse; uscirono in strada entrambi e sotto la pioggia si guardarono ancora una volta. Fu solo un attimo, un brevissimo istante, ma le loro labbra si incontrarono. "Ci sarò anch'io domani alla partenza" gli gridò Isabella e corse via. Mario rimase fermo sotto la pioggia che gli sembrò diventata amica. Il giorno dopo la Stazione Centrale era affollata per la partenza della tradotta. Mario continuava a guardarsi intorno, la cercava, doveva vederla. E come promesso, lei venne. "Come ti chiami?" "Mario Stuani" "Io Isabella Damato; ti ho portato un dolcetto e nel pacchetto c'è anche il mio indirizzo: mi scriverai?" "Ma certo che ti scriverò, ogni giorno, sarà come parlare con te." Questa volta il bacio fu più intenso, insieme con un abbraccio forte e fremente. Il treno fischiò. Mario si ritrasse. "Aspetta" e frugando nella borsetta la donna ne trasse il fazzoletto. "E' mio, ma adesso è tuo." "Lo porterò sempre con me, me lo metterò sul cuore…" poi saltò sul predellino. Il treno si mosse e cominciò a prendere velocità. Mario continuò a guardarla fino a quando non scomparve dalla sua vista. Si mise il fazzoletto sul cuore; si sentiva raggiante: era passato dalla rassegnazione al desiderio di vivere, anche se ora aveva paura della morte. Quel ritaglio di tela lo accompagnò per i lunghi anni della guerra, si sgualcì, si intrise di fango, ma rimase sempre lì ed alla vigilia del Natale del 1918 ritornò alla sua padrona. Dietro la siepe C'era tanti anni fa un giardino incolto, un fazzoletto di terra che non aveva mai visto la mano dell'uomo, coperto da erbacce, nascosto alla vista solo da un'alta siepe, cresciuta disordinatamente, con rami sporgenti che ne spezzavano l'originaria linea retta. Carlo, dopo una vita di lavoro e per il lavoro, dove il riposo rappresentava solo il recupero delle energie e non lasciava posto e tempo al benché minimo svago, si trovò forzatamente messo in pensione; avrebbe voluto continuare la sua vita nell'azienda, ma la nuova direzione aveva voluto dar spazio ai giovani e lui, ormai sessantenne, aveva dovuto cedere il passo. Una disgrazia, un lutto in famiglia non l'avrebbero travolto maggiormente; si sentì d'improvviso inutile ed ora che di tempo ne aveva la casa gli appariva improvvisamente vuota e troppo grande. E poi che fare? Aveva cercato un altro lavoro, ma nonostante la sua esperienza l'età risultò un ostacolo insormontabile. Non si era mai sposato, perché non ne aveva avuto il tempo; i parenti più stretti già avevano lasciato questa terra; gli amici erano quelli del lavoro, conoscenze coltivate solo in ufficio e là erano rimasti, quando non se ne erano andati innanzi tempo. Carlo, per la prima volta, si accorse di essere solo e senza uno scopo nella vita. L'angoscia lo assaliva ogni giorno, ma soprattutto la notte, quando gli incubi sembravano materializzarsi; e poi, poco a poco, si sentì sopraffare dall'inedia, proprio lui che così tanto era stato attivo. Sembrava una via senza uscita finché un giorno guardò fuori dalla finestra e si accorse del giardino che, benché suo, non l'aveva mai interessato. "Proviamo a sistemare quella sterpaglia, a cominciare dalla siepe" si ripromise e così cominciò. Con le cesoie tagliò i rami che sporgevano, raddrizzò la siepe, ma poiché non aveva esperienza in proposito il risultato non gli piacque e decise allora di procedere in modo più drastico. Poco a poco che tagliava la siepe diventava sempre più sottile e lasciava intravedere quello che le stava dietro: un giardinetto tenuto in modo esemplare, con piccole aiuole che, data la stagione primaverile, erano tutte punteggiate da tulipani di vari colori. Non che la cosa gli interessasse in modo particolare, ma rimase colpito da quell'ordine, ancor più stridente rispetto al disordine del suo lembo di terra. E così non passava giorno senza che gettasse uno sguardo dietro la siepe con la inconscia curiosità di sapere chi fosse l'artefice di un lavoro così ben fatto, ma non riusciva ad intravedere altro che fiori aggraziati, sentieri coperti da minuti sassolini, una fontanella in mezzo, con un fauno che teneva in grembo un otre dal quale sgorgava l'acqua. Quel desiderio di conoscenza finì con il diventare un'ossessione, tanto che provò a chiedere giro, ma nessuno sapeva chi abitasse lì, ed anzi tutti ignoravano che ci fosse un giardino così ben tenuto. Aveva costituito un vero e proprio posto di osservazione in cui passava intere giornate; la cosa che più l'irritava è che la sera tardi se ne tornava in casa senza che l'erba fosse tagliata, mentre il giorno dopo invece lo era. Possibile che qualcuno la tagliasse di notte? Iniziò le osservazioni anche dopo il calar del sole e fino all'alba, ma non riuscì a scoprire nulla; sembrava che ci fossero dei giardinieri invisibili che coltivassero quel giardino che, di giorno in giorno, diventava sempre più florido. Capì che avrebbe dovuto osare e così un giorno si incuneò fra i rami della siepe e si trovò di là. Dapprima impacciato e timoroso cominciò a procedere sui sentieri; guardò estasiato un magnifico cespuglio di rose scarlatte, poi si inoltrò in un boschetto di larici che ricordò di non aver mai visto, passò oltre e si trovò su un prato immenso cosparso di violette; era talmente grande il prato che non se ne scorgeva la fine e si perdeva all'orizzonte ove emergevano montagne sconosciute. E che dire del cielo? Di un azzurro intenso, limpido, senza sbavature. Cominciò a camminare sul prato verso le montagne e più andava avanti, più queste si allontanavano e si scoprivano nuove meraviglie: alla destra un laghetto ricoperto di ninfee, alla sinistra un tempietto pagano con due satiri marmorei che sembravano rincorrersi, alle spalle il boschetto donde era venuto era stato sostituito da uno sperone roccioso, da cui scendeva una cascata di acqua spumeggiante. I passi erano sempre più veloci, il prato pareva scorrere veloce sotto di lui, finché si accorse di essersi staccato dal suolo in un volo del tutto naturale, le braccia distese, il corpo orizzontale, mentre la terra si allontanava ed il cielo si avvicinava sempre di più. Era comparsa all'improvviso una nuvoletta rosa verso la quale si sentiva irresistibilmente attratto. Appena raggiunta si accorse che aveva una forma strana, quella di un libro aperto con un'immensa pagina bianca sulla quale c'era scritto: "la vita è un sogno dove realtà e fantasia si mescolano sapientemente e solo chi è in grado di distinguerle ed armonizzarle saprà apprezzare i veri valori che la rendono meravigliosa. Amala, che non ti tradirà; sogna quel tanto che ti è necessario per lenire i suoi aspetti negativi, tieni i piedi sulla terra per gustare i suoi lati positivi, e, soprattutto, vivi, giorno dopo giorno, ora dopo ora, come se fossero gli ultimi istanti che ti restano." Un suono lacerante rintronò nelle orecchie di Carlo che gli parve di precipitare; sbarrò gli occhi nell'oscurità della stanza, cercando a tentoni la sveglia. Finalmente riuscì a trovare il pulsante ed a zittire quel fracasso. Era stato un sogno, solo un sogno, e la sveglia era il segnale che avrebbe dovuto alzarsi per andare al lavoro. Già il lavoro, a cui dedicava troppo tempo, di cui si sarebbe pentito da lì a trent'anni quando sarebbe andato in pensione. Aveva tutta una vita davanti, da plasmare, da suggere come un nettare. "No, basta; le mie otto ore e poi fuori, libero di vivere." Nell'uscire di casa, diede un'occhiata distratta al giardino incolto ed alla siepe che non aveva mai curato "Da questa sera, vi cambio." Poi notò una testolina bionda che faceva capolino dietro i rami. "Ciao, Letizia. Ti va questa sera di uscire per una pizza?" "Ma sì, ma non troppo tardi." " Va bene, a stasera." E si allontanò fischiettando, con il pensiero rivolto a quella gran bella figliola dei suoi vicini di casa. Come in una fiaba Come in una fiaba potremmo dire che tanti anni fa c'era, ed invece è accaduto da poco, in questo mondo dove lo spazio per la fantasia è sempre più minacciato dall'opprimente tecnologia, una volta tanto utile, almeno nella nostra storia. Alcuni anni fa c'era un uomo che viveva felice con la sua famiglia, contento della sua vita, del suo lavoro, senz'altro sogno se non quello di arrivare in serenità alla vecchiaia che ormai s'affacciava prepotente. Le giornate scorrevano in armonia, tutte uguali, sebbene diverse, perché quando si ama e si è riamati non si avverte il trascorrere del tempo. Ma un giorno, prossimo alla primavera, un orco maligno s'impossessò del corpo della moglie del nostro uomo. La donna lottò a lungo, sostenuta dal marito che iniziò ad avvertire la pressante presenza della signora in nero che con il suo lungo mantello sollevava la polvere intorno a loro. La donna stava morendo nel corpo ed ogni giorno che passava l'uomo moriva nel cuore, ma continuarono a lottare, anche se poco a poco lo scoramento s'impossessò di entrambi. Alla donna che chiedeva, supplicava aiuto, l'uomo mentiva, dicendo che erano riusciti a cacciare l'orco, ma non era vero; questi ormai aveva preso il sopravvento e così in una sera di primo autunno l'avvolse nel mantello della signora in nero e la portò via con sé. L'uomo crollò: una battaglia così difficile, ma del tutto inutile, e la sconfitta era senza appello. Di colpo invecchiò, perse la voglia di vivere, si accorse che i giorni erano sempre uguali perché non passavano mai; la sua vita non aveva più scopo, era diventata un inutile peso e la solitudine accrebbe questa sofferenza. Le fate della fantasia gli vennero allora in soccorso ed una di queste, la Musa della Poesia, si pose al suo fianco e con la sua bacchetta magica gli aprì nell'animo nuovi orizzonti. L'uomo trovò così uno sfogo alla sua solitudine, al disperato bisogno di amore e tracciò sulla carta quello che il suo cuore chiedeva. Nacquero le prime poesie, quasi infantili, ma più ascoltava il suo cuore, maggiori erano le sensazioni che riusciva ad esprimere. Però non era ancora felice, perché la solitudine, benché mitigata dalla fantasia, era sempre la sua fedele compagna. Trascorse parecchio tempo, le poesie che lui scriveva, grazie alla tecnologia, erano liberamente leggibili mediante un collegamento telefonico; e così un giorno il telefono, sempre muto, prese a squillare. Dall'altra parte del filo c'era un altro essere umano che aveva uguale bisogno di affetto e che leggendo i versi del nostro uomo era entrata nel suo mondo di fantasia, ne aveva capito i sentimenti e desiderava conoscerlo. Si incontrarono in riva al mare in una bella giornata di sole e capirono che non avrebbero più potuto fare a meno l'uno dell'altra; accanto a loro, sulla spiaggia umida, le fate della fantasia sorridevano: il loro lavoro era finito. E come in tutte le fiabe, i due vissero, anzi vivono, felici e contenti. La storia (semiseria) Dopo l'8 settembre 1943 si operò una scelta decisiva ed irrevocabile; molti preferirono la montagna e pertanto la raggiunsero; altri, più inclini alla pianura ed al mare, restarono. In ogni caso erano entrambi soddisfatti della scelta: chi restò ebbe il piacere di riposare su spiagge con pochi turisti e senza vu cumprà (c'erano meno possibilità di vendere); i patiti della montagna non trovarono il solito affollamento di agosto o di febbraio. I primi, a forza di prendere il sole, divennero tutti neri, donde il nome a loro affibbiato di "camicie nere"; i secondi, sempre in giro per sentieri, furono appellati i "patiti della montagna" , in seguito cambiato nei "partigiani della montagna" per l'amore maniacale per le scalate e le discese. Ognuno se la passava bene, ma i secondi cominciarono a punzecchiare le "camicie nere" perché se ne stavano sempre ferme in spiaggia; uno sfottò oggi, un gavettone domani e si stancarono. Organizzarono nell'inverno una spedizione punitiva fra i monti, dove intanto gli "altri" se la spassavano in discese vertiginose e nell'ebbrezza di non dover far code agli skilift. Con fatica, le camicie nere arrivarono sui monti e lì li aspettavano i "partigiani della montagna"; fu una battaglia memorabile "a palle di neve" dalla quale i marittimi uscirono sconfitti, anche per il decisivo intervento di un eroico personaggio, chiamato "erpupazzone", che nel momento più cruciale emise un acuto di tale tonalità che le nevi si sciolsero, travolgendo le camicie nere e ricacciandole a valle. Inferocite per l'onta subita le camicie nere ritentarono in primavera, con l'aiuto dei tedeschi alleati, conosciuti per l'abilità sugli impervi pendii. Capo delle camicie nere era tale Alessandro Ceccolini, gerarchetto in ascesa e di sicura fiducia del presidente della Repubblica del Nord, tale Bonito Napoloni, eletto all'alto incarico per la sua abilità nel ballo liscio. Gli assalitori avevano una terribile arma segreta: migliaia di ghiaccioli requisiti in tutti i chioschi italiani, sicuramente più efficaci delle palle di neve, ma… Ma fecero un imperdonabile errore: dimenticarono di essere in primavera e durante il cammino i ghiaccioli si sciolsero e pertanto dovettero rientrare senza combattere. Fu oltremodo penoso vedere tutte quelle camicie nere diventate ora verdi (ghiacciolo alla menta), ora gialle (ghiacciolo al limone), ora rosa (ghiacciolo alla fragola). Tuttavia, previdenti, non le lavarono e giunti nel 1945 alla fine della contesa risultò che tutti gli italiani non erano mai stati fascisti, ma solo "partigiani della montagna". Il piano Aldo rifletteva, stringendo il capo fra le mani. Dunque, la signora Irma era nubile, maestra in pensione, una discreta pensione, proprietaria della villa ove risiedeva, nonché di otto appartamenti locati e di ben 150 ettari di terreno agricolo collinare, il tutto per un valore prudenziale di non meno di € 2.500.000. La lunga ricerca del pollo, o meglio della pollastra, si era quindi conclusa. Ora stava solo a lui trovare il modo per agganciarla, per interessarla, per attrarla e poi, poi il gioco era fatto. La cosa non doveva essere difficile, considerato il suo noto fascino di conquistatore, il fisico asciutto, i capelli leggermente brizzolati, la sua più giovane età (lui 48 anni, lei 55), il buon livello di cultura. La signora non era certo una donna bellissima, ma era piacente, forse un po' chiusa, ma tutto sommato poteva essere anche gradevole condurre l'azione, al di là del fine. Il piano era articolato in tre fasi: l'innamoramento, il matrimonio e poi il divorzio per colpa di lei (al riguardo aveva già interessato un amico anche lui attirato dalla rilevanza dell'affare). Per non dar nell'occhio, per non rivelare i suoi fini avrebbe dovuto dimostrare di essere benestante e questo era un sacrificio, perché aveva dovuto ricorrere al congruo aiuto di un usuraio. Il giorno più lungo sarebbe cominciato da lì a poco: tutto era stato meticolosamente programmato e tutto sarebbe dovuto andare alla perfezione. Ecco la signora Irma che usciva in retromarcia con la Panda dal cancello della villa; Aldo accese il motore della nuova, fiammante Alfa Gt e si avviò lentamente, per poi accelerare di colpo non appena le ruote posteriori della Panda furono sulla strada. Fu un urto di poco conto, ma Aldo scese imbestialito dall'auto.
"Disgraziato, non hai guardato ed adesso vedi che cosa mi hai fatto; mi hai rovinato la macchina nuova." La signora Irma scese tremante dall'auto, senza profferire parola. "Ah, mi scusi signora; non avevo visto che era una donna, mi scusi per le mie parole, ma, insomma, penso che mi comprenda." "Non so cosa dirle; credevo di aver guardato bene ed invece… Entriamo in casa e compiliamo insieme la constatazione amichevole; è evidente che è colpa mia e la prego di scusarmi." Aldo sorrise e disse fra sé "Tutto secondo il piano." Entrati in casa, si sedettero ad un tavolo per compilare il modulo. "Non sono pratica; mi aiuti, per cortesia." Aldo rimase immobile, fissandola con occhi estatici. "Mi scusi se insisto, e non me ne voglia, ma gradirei il suo aiuto." Niente. "Mi ascolta, signor…?" "Aldo, mi chiamo Aldo Fascetti, ma è lei che deve scusare me se non le ho dato ascolto, ma mi sono incantato a guardarla; vede, signora…" "Irma, Irma Rossigni." "Dicevo, vede signora Irma; ma che bel nome Irma; ehm, dicevo, ma in verità non so come dirglielo; beh, facciamo così, niente modulo, niente denuncia all'assicurazione, mi arrangerò io. Adesso devo proprio andare." "Ma no, no; ho sbagliato ed è giusto che paghi io; che cosa mi voleva dire?" Aldo non rispose, ma l'afferrò fra le braccia e la baciò, poi corse via. Salito in auto, mentre metteva in moto, guardò la facciata della villa e vide ciò che si aspettava; la signora Irma aveva scostato la tenda di una finestra e l'osservava. Lui accennò con la mano ad un saluto e lei contraccambiò. Accelerò trionfante e si diresse verso casa. Il giorno dopo, a metà mattina, compose il numero di telefono della signora Irma e… "Pronto; chi parla?" "Signora Irma, sono io, io, Aldo Fascetti, sa quello dell'incidente…," "Mi scusi, non avevo riconosciuto la voce." "Purtroppo ho un problema; il carrozziere mi ha fatto un preventivo stratosferico e pertanto sono costretto a pregarla di ricorrere alla sua assicurazione…." "Mi sembra giusto; come facciamo?" "Adesso non mi è possibile; il mio lavoro di consulente finanziario mi vede impegnato ogni giorno fino a sera, ma, cosa dice se ne parliamo intorno ad una tavola imbandita? Insomma, vuole uscire a cena con me?" "Si potrebbe fare; a che ora?" "Alle 20,30; passo a prenderla a casa; arrivederci." "D'accordo; la saluto anch'io." Ed anche la cena andò secondo il piano; Aldo parlò del suo lavoro che, per inciso, non si era mai sognato di fare, enumerò i consistenti guadagni della professione, fu brillante come al solito e, riaccompagnandola a casa, ottenne nuovamente di entrarvi. Chiusa la porta d'ingresso, lei accese la luce, ma lui la spense subito e replicò l'abbraccio ed il bacio del giorno prima; la donna corrispose con passione tanto che la serata si concluse nel più auspicato dei modi: nella camerata letto stile ottocento, fra coperte ricamate finemente. Aldo, al risveglio, provò una strana sensazione; guardò la donna addormentata, le fattezze delicate, i lineamenti morbidi e concluse che gli piaceva. Scosse la testa, perché questo non faceva parte del piano; comunque, meglio così, con la recita che sarebbe stata anche gradevole. In seguito, non passò giorno che Aldo ed Irma non si vedessero, e non concludessero la serata nel soffice letto di lei. Poco a poco si accorse di essersene innamorato, perché la Irma non era solo appagante nel letto, ma affabile conversatrice, dolce, tenera, ben diversa dalle numerose donne che aveva conosciuto. Gioì nel constatare che il suo amore era contraccambiato e si sentì un altro uomo, più sereno, felice della nuova vita che gli si prospettava. Mentre restava per ore ad ascoltarla, incantato, provava spesso vergogna per il suo piano ed alla fine decise che non l'avrebbe più attuato, che l'avrebbe sposata e basta e che era già una ricchezza vivere con lei. Arrivò così finalmente il giorno in cui avrebbe richiesto la sua mano; si sentiva emozionato mentre scendeva dall'auto con un mazzo di fiori. Suonò il campanello; nessuna risposta. Suonò nuovamente; niente; pigiò più volte il dito, inutilmente. Prese il cellulare, fece il numero della Irma, ma gli squilli rimasero senza risposta. Riprovò il mattino dopo, il pomeriggio, la sera, la notte, ma sempre niente. Gli sembrava di impazzire; provava un'angoscia senza precedenti, un senso di vuoto che gli corrodeva l'animo; si sforzava di non pensarci, ma non era possibile, perché la Irma gli mancava. Passò così una settimana; Aldo, assonnato ed intristito, la barba lunga, ogni tanto componeva quel numero di telefono con la speranza che gli moriva ogni giorno di più. Poi, una sera, mentre stava disteso sul letto, squillò il suo telefono. "Pronto…" "Ciao Aldo, sono Irma." Aldo sentì il suo cuore allargarsi quasi al punto di scoppiare. "Aldo, non volevo telefonarti, ma ritengo giusto che tu sappia; vedi, mi sono permessa di chiedere informazioni su di te ed ho scoperto un'altra persona, un farabutto da due soldi, un gigolò, ed allora ho capito…" "Purtroppo è tutto vero, ma tu mi hai cambiato, sono diventato un'altra persona." "No, sei tu che hai cambiato me; mi hai dato dapprima la speranza di un amore con l'inganno, e poi…" "Irma, ti assicuro che l'Aldo Fascetti di prima non è quello di adesso ed è tutto merito tuo." E le raccontò quindi del piano così ben congegnato che per amore aveva abbandonato. Irma stava silenziosa ad ascoltare, poi quando finì il racconto "E chi mi assicura che tu adesso mi ami veramente?" "Nessuno, questa è una cosa che devi sentire tu; io so solo che mi manchi tanto e che sono disperato; non avrei mai creduto che potesse finire così, non avrei mai pensato di poter diventare un altro uomo e questo solo per amore." "Vedi Aldo, vorrei crederti, perché ti amo, ma, al momento, non voglio né dirti addio, né rivederti; lasciamo che il tempo sia un giudice onesto. Ciao, Aldo". "Aspetta, ti prego, aspetta amore mio…" Il click che sentì mise fine alla conversazione e dall'orecchio rimbombò nel cervello, scese fino al cuore, gli devastò l'anima. Aldo, tuttavia, era veramente cambiato al punto da ripudiare il passato; cercò un lavoro, umile, ma dignitoso, e quando tornava a casa stanco nel suo alloggio pensava solo alla Irma. Passò diverso tempo, forse un anno, ed una sera, mentre rincasava, scorse dinanzi a sé nella nebbia una figura da sempre impressa nella sua mente. Quasi barcollò, dovette perfino appoggiarsi al muro di una casa, ma quella figura era proprio la Irma. Le andò incontro con passo malfermo e lei, sorridendogli "Il tempo è il miglior giudice; è proprio vero che sei cambiato; andiamo, si torna a casa." Verso sera Roberto seduto sul balcone osservava il panorama che si presentava ai suoi occhi: verso settentrione si poteva scorgere chiaramente la cresta delle montagne, fra cui spiccava il Monte Baldo, ancora incappucciato di neve; sembravano emergere dal mare di nuvole basse che coprivano in parte la pianura ed apparivano sfumate di rosa nella luce del tramonto, che fiammeggiava in un occidente limpido e quasi solenne. Guardava e pensava; gli sovvenivano le parole pronunciate lo stesso giorno da un caro vecchio amico "Roberto, non vado in pensione; che farei, come potrei passare il tempo? Mi sembrerebbe di mettere i piedi anzitempo nella fossa; e del resto che cosa puoi aspettarti dalla vita se non le poche, ma per questo più importanti soddisfazioni di un lavoro che svolgi da anni? I figli sono sistemati, mia moglie è abituata ormai a vivere vedendomi poche ore al giorno ed io ormai avverto il ritorno a casa come un peso, un qualche cosa che viene a ledere, ad intaccare la mia esistenza." Queste parole gli ronzavano nel cervello e poco a poco avevano finito con il rappresentare il pensiero fisso di quella giornata, senza preoccupazioni, senza affaticamenti, come solo poteva e doveva essere il tempo di un pensionato. Non che gli mancasse un po' di nostalgia del lavoro, ma era limitata a ricordi episodici e sfumati che servivano più che altro a fargli comprendere che ogni cosa ha il suo tempo. Eh sì, il tempo che inesorabile passava: ora le giornate sembravano più lunghe, cadenzate senza più orari fissi, con un senso di libertà inappagabile. Le ombre cominciavano ad allungarsi ed andava scendendo la sera. Roberto aspirò a pieni polmoni l'aria che si era fatta un po' più fresca, poi volse di nuovo lo sguardo a settentrione, dove la visione della cresta di montagne cominciava ad impallidire, mentre la coltre bassa di nubi si era pressoché diradata. Chiuse gli occhi e vide scorrergli davanti una lunga serie di immagini sfocate emergenti dalla nebbia del passato: la sua vita. Una cena con i suoi genitori, da tempo scomparsi, una riunione lieta intorno al tavolo con i buoni cibi preparati dalla madre, i volti sorridenti, sua moglie che si complimentava con la cuoca, un'atmosfera serena, intimamente familiare. Una gita in auto con la consorte che canticchiando gli accarezzava i capelli, il lungo nastro d'asfalto contornato da siepi di oleandri in fiore ed in fondo la luce bassa del sole che tramontava; odori di mare, di fieno appena tagliato, la gioia nel cuore e la serenità nell'animo. Il primo bacio alla moglie, il primo amplesso, l'emozione di quella volta che aveva riprovato sempre, bianche lenzuola in un letto ordinato, l'abbraccio di due corpi nudi, reciproche carezze e dopo quel senso di quiete, di appagamento che così bene conciliava il sonno. I rapporti si erano un po' diradati con l'avanzare dell'età, i corpi portavano sempre più il segno del tempo, ma il loro amore era sempre rimasto saldo e le tenerezze, più lievi, meno impetuose, non erano mai venute a mancare. "Vivi sempre come se fosse l'ultimo giorno della tua vita" era suo padre che gli parlava, che indicava al figlio il segreto perché il tempo non mutasse , non appiattisse il desiderio di esistere. E Roberto aveva applicato il consiglio alla lettera, senza sforzo, senza che ci fosse bisogno di ricordarlo ogni giorno; aveva saputo cercare sempre il lato positivo degli eventi, non si era lasciato intristire da accadimenti dolorosi; anche quando aveva contratto una lunga malattia aveva saputo accettarla, confortato dall'amore della moglie, ed era riuscito ad uscirne, come se anche quel fatto facesse parte della realtà di una vita che offriva anche tante bellezze, purché si sapesse e si volesse coglierle. Si era sempre chiesto qual'era la ragione di questa serenità, una domanda a cui non aveva saputo dare risposta, ma quella sera in cui gli portarono la notizia della morte improvvisa, a distanza di pochi minuti di entrambi i genitori, capì; aveva amato sempre tanto suo padre e sua madre, aveva apprezzato la loro felice unione, era fiero di loro, e, per quanto sconvolgente il decesso di entrambi, aveva riflettuto a lungo fra le lacrime, concludendo che era giusto così perché la vita ha sempre un termine e l'esser giunti ambedue, pressoché contemporaneamente, a questa conclusione era un dono di Dio. Nessuno dei due avrebbe sofferto la mancanza dell'altro e la loro vita era finita senza che fosse venuto meno l'affetto, l'amore, senza nessun rimpianto, con la stessa serenità che li aveva accompagnati. La serenità, appunto, derivava esclusivamente dal loro accordo, dalla loro simbiosi, da quel profondo sentimento dell'uno per l'altro che aveva permeato le loro vite; ecco la potenza dell'amore, ecco il senso di appagamento in un'esistenza. A Roberto giungevano i rumori della cucina, di tegami messi sul fuoco; ormai era quasi buio ed era il momento di concludere. Si sentì soddisfatto della sua vita, avvertì chiaramente dentro di sé la certezza che così doveva essere e crebbe tumultuosa una sensazione, un desiderio: vivere al meglio anche gli anni futuri. "Roberto, è pronta la cena." Si scosse, lasciò il balcone ed èntrò in cucina; giunse silenziosamente alle spalle della moglie e le cinse la vita. "Dai, facciamo ora" "Ora, ma se è già pronta la cena!" "Ora, ora" La donna si lasciò prendere in braccio e mentre lui la portava verso la camera da letto mormorò "Ora, perché no?". Il figlio Mario guardava il piatto: l'arrosto di vitello con patatine arrosto era intatto. Non aveva toccato cibo, così come non aveva detto una parola durante il pasto. Paola, la moglie, cercava invano di destare il suo interesse, gli toccò la mano, che Mario subito ritrasse. "Non ho fame e non ho voglia di niente" " Mario, non puoi andare avanti così; fatti forza, cerca di vivere, fallo almeno per me." Non ci fu nessuna risposta, nessuna reazione, fatta eccezione per l'arrossamento degli occhi di Mario; senza più controllo presero a scendere le lacrime. Mario si alzò di scatto e mentre infilava la porta di casa disse semplicemente "Esco, sai dove vado.". Quando sentì i passi che scendevano le scale, Paola si portò le mani alle tempie e sommessamente iniziò a singhiozzare; erano passati già più di sei mesi ed il dolore era ancora forte, ma Paola aveva cercato di reagire, di stringersi di più a Mario per trovare un motivo per cui valesse la pena di vivere. Prese il telefono e compose il numero della sorella. "Ciao Federica, scusa il disturbo, ma ho bisogno di parlare, di sentire una voce amica…" "Il solito problema? Mario non vuole accettare il fatto?" "Sì, si va chiudendo sempre più in se stesso, come se il dolore fosse solo suo, ma Franco era anche figlio mio e Dio sa quanto mi manca; se riesco ad andare avanti è perché ho ancora Mario, ma non so come finirà; Federica, sto perdendo anche lui." "Cerca di stargli vicino più che puoi, scuotilo, richiamalo alla realtà." "Proverò ancora, devo riuscirci, per me e per lui." Mario si accostò alla tomba del figlio e prese a mormorare. "Vedi che sono venuto anche oggi; non ti lascio solo, il tuo papà ti farà sempre compagnia; è una bella giornata di sole, come quelle che ti sono sempre piaciute; oggi saresti uscito per un giro al lago ed io avrei aspettato il tuo ritorno per chiederti come era andata, come avevi passato la giornata…" e si fermò, perché ormai aveva un nodo alla gola, che gli soffocava la voce, gli impediva di urlare tutto il suo dolore, quello strazio che lo accompagnava dal giorno della morte, del tutto improvvisa, inaspettata, per colpa di un pazzo ubriaco che lo aveva investito mentre camminava sul marciapiedi. La memoria della notizia non si era attenuata, era stata semplicemente cancellata, ma il dolore era rimasto, era cresciuto dentro di lui come un cancro devastante che ogni giorno si espandeva, spegnendo con diabolica voluttà la sua vita. Prese a rassettare la tomba, a togliere i fili d'erba che si ostinavano a crescere ai margini, uno dopo l'altro, pressando la terra appena smossa, pareggiandola, con un perfezionismo maniacale che non gli era mai stato proprio, ed intanto ricordava i bei momenti trascorsi con quel figlio così tanto desiderato: la sua nascita, il primo giorno di scuola, il giorno della laurea, la festa fra amici quando dopo tanti anni di lavoro Mario era andato in pensione. Fu interrotto nei suoi pensieri da un rumore vicino, un brusio, una voce maschile rotta dai singhiozzi; si volse e vide un uomo chino sulla tomba a fianco. Lo osservò: era una persona avanti con gli anni, scossa da un tremito convulso. L'uomo si accorse del vicino, si asciugò gli occhi e con la voce rotta dall'emozione "Era mia moglie, è mia moglie; abbiamo vissuto tanti anni insieme, anni felici, poi lei si è ammalata ed in poco tempo se ne è andata; adesso sono solo; vede, non abbiamo avuto figli, ed avevo solo lei; al dolore per la sua perdita si accompagna l'angoscia di non aver più nessuno su cui contare, con il quale poter dare un senso alla vita, e forse questo è quanto di peggio mi possa essere capitato; lunghi giorni vuoti, uguali, senza calore, un'esistenza inutile. E' sua moglie?" "No, mia moglie è viva; è mio figlio: aveva solo ventiquattro anni." "Eh, quanto la capisco, ma almeno a lei è rimasto qualcuno di caro con cui dividere il proprio dolore, un altro essere umano per ricominciare a vivere." Mario non rispose; guardò la tomba del figlio, mandò un bacio con la mano alla fotografia, poi si avviò verso casa. Le parole dell'uomo però gli erano entrate nel cervello e non volevano uscirne; nella sua mente prese a svolgersi un conflitto che lo faceva meditare. Poco a poco prese il sopravvento un senso di rimorso per il suo egoismo, per quell'essersi voluto isolare dal mondo, per aver voluto tenere il suo dolore tutto per sé, senza dividerlo con la moglie. Già, la moglie; chissà quanto doveva soffrire la Paola e lui non ne aveva tenuto conto e, probabilmente, con il suo atteggiamento non aveva fatto altro che accrescere il dolore di quella povera donna. Quando arrivò a casa, sapeva già che cosa c'era da fare. Entrò, si avvicinò alla moglie che lo guardava con gli occhi arrossati e la strinse a sé. "Scusami, amore mio; perdonami. Chi è morto non è solo mio figlio, è nostro figlio, e nulla ce lo potrà restituire; però potremo continuare a vivere ricordandolo sempre; lui non sarà più presente in queste stanze, ma lo sarà sempre nel nostro cuore; è una tragedia che affronteremo insieme con l'amore che ci siamo sempre voluti e che ora ci vorremo di più, per noi, per lui." Paola gli accarezzò le mani e lo strinse a sé. Tracce musicali Le mani correvano sul tavolo come sulla tastiera di un pianoforte; Paolo era particolarmente nervoso quella era. Gli capitava sempre prima di ogni concerto, ma mai così, perché quello era un giorno particolare: era il decimo anniversario del suo matrimonio, un'unione non fortunata, chiusa da due anni con il divorzio. Si era sempre chiesto che cosa aveva spinto la moglie ad abbandonarlo, ma non era riuscito a trovare risposta; era tutto filato liscio per cinque anni, poi, poco a poco, il filo che li univa si era allentato; la moglie, che pure tanto amava, gli aveva cominciato a rimproverare quel suo carattere fatto di perfezione sul lavoro ed in ogni cosa, quella sua mancanza di passione nel rapporto, quella freddezza di ogni giorno. Forse era vero, ma lui era sempre stato così, e quei rimproveri, anziché spronarlo a cambiare, lo avevano ancor più chiuso in se stesso; si era rifugiato nel lavoro, ore ed ore passate al pianoforte, fino a raggiungere quella perfezione di esecuzione che tutti gli invidiavano. La critica gli rimproverava un'unica cosa: l'assenza di passione, di estro delle sue pur pregevoli esecuzioni. Non si era curato più di tanto di queste osservazioni ed ora, conosciuto e stimato, in tutto il mondo avrebbe da lì a poco tenuto un concerto alla Scala di Milano, la sua città natale, dove ancora viveva nei giorni liberi del suo girovagare di artista. Mancava poco ormai: una decina di minuti. Ripassò mentalmente il programma, si aggiustò la marsina, poi decise che era ora di andare. Al suo apparire sul palcoscenico, il teatro gremito esplose in un lungo applauso. Paolo si chinò leggermente senza provare emozioni, perché gli applausi gli erano ormai abituali, poi sedette sullo sgabello e, mentre in sala si spegnevano le luci, appoggiò delicatamente le mani sulla tastiera. Nel perfetto silenzio dell'ambiente si alzarono lievi le note della "Tristesse" di Chopin; le dita correvano incontro ai tasti automaticamente e Paolo le seguiva come rapito; più che un esecutore sembrava un ascoltatore, ma la mente era rapita da un turbinio di pensieri ed immagini, ricordi di un periodo che aveva creduto felice e che non sarebbe terminato mai. Sullo spartito affioravano di continuo il volto della moglie sorridente, una passeggiata fatta insieme sui monti del Tirolo, un laghetto in cui avevano messo le mani per rinfrescarsi, un amplesso sul letto d'ottone della loro bella casa, le lacrime del giorno del divorzio, ultima volta in cui l'aveva vista; due anni, due lunghi anni senza di lei, un'eternità; non l'aveva cercata, non aveva voluto cercarla, anche se l'aveva desiderato tanto, per parlarle, per spiegarle, per trovare un possibile punto d'accordo. L'amava, ancor più di prima, e le note della "Tristesse" sembravano essere state scritte per lui, una sofferenza interiore, una lacerazione dell'anima, che inconsciamente stava trasferendo alla sua esecuzione, perfetta come sempre, ma viva come non mai. Quando arrivò all'ultima battuta, impresse un tocco così leggiadro che agli spettatori parve che il brano non fosse finito, poi scese il silenzio e, mentre s'accendevano le luci, il pubblico tributò il suo entusiasmo; non fu un applauso, ma un'autentica ovazione. Paolo lentamente si alzò, madido di sudore, le lacrime che scorrevano sul volto, ad abbracciare idealmente il trionfo, poi non potè esimersi dal concedere i bis. Decise di accontentare i suoi estimatori con un collage di antiche sonate popolari, melodiose, semplici, ma per lui significative, e mentre le mani correvano per loro conto continuarono a riaffiorare i bei giorni passati, tutta una vita che non sarebbe mai più tornata. Al termine, corse trafelato al suo camerino e non prestò quasi attenzione alle parole del suo direttore artistico "Fantastico, Paolo, oggi non hai suonato, hai creato". Si buttò sulla poltrona in preda ad una disperazione come non aveva mai provato e sperò che il sonno potesse arrivare presto ed assopire quel tormento. Qualcuno bussò alla porta. "Non ci sono, per nessuno". Ribussarono. Paolo si alzò, aprì di scatto "Lo ripeto, non….", ma le parole si smorzarono in bocca. "Tu…tu..". "Sì, sono io; non ho perso un tuo concerto; tutte esecuzioni impeccabili, di una perfezione incredibile, ma fredde; ma questa sera, caro Paolo, non eri il Paolo che conoscevo; questa sera ho trovato in te quello che ho sempre desiderato e che ti ho rinfacciato di non avere: il calore del cuore, la passione di vivere, l'umanità." "Hai seguito tutti i miei concerti?" "Sì, non ne ho perso uno; non potevo stare senza vederti, senza sapere se qualche cosa in te era cambiato, e già disperavo, ma questa sera…." "Mi sei mancata, mi manchi….." "Vogliamo ricominciare?" "Non speravo altro." E fu come se il pianoforte si fosse rimesso a suonare; Paolo la strinse a sé con le mani, le sue dita corsero rapide lunghi i fianchi, mentre il cuore batteva sempre più forte. Ritratto di giovane signora Andava di fretta, rasentando il muro per evitare la pioggia. Aveva i piedi ormai bagnati che cominciavano a dolerle, ma non poteva fermarsi; era d'obbligo proseguire ed arrivare a casa prima di sera, prima del ritorno del marito dal lavoro. Mentre camminava cercava di riordinare i suoi pensieri, ma si sentiva la testa vuota, confusa. Come le era potuta accadere una cosa simile? Come aveva potuto cedere senza esitazione all'invito di un uomo appena conosciuto? Non riusciva o non voleva darsi una risposta; sapeva solo che era accaduto, che aveva ceduto ed aveva tradito il marito che pure tanto amava. Raggiunse casa ansante ed immediatamente si tolse gli abiti bagnati; mentre li stendeva, si vide allo specchio nuda e si fermò. Si compiacque nell'osservare il proprio corpo e si sentì attraente, desiderabile; non si era mai vista così e per lei era un motivo di intima soddisfazione. Era lo scoprire qualche cosa che c'era sempre stato e di cui non si era mai accorta, era vedere se stessa non solo come donna, ma anche come femmina. Si scosse dal torpore che l'assaliva ed iniziò a rivestirsi, ma la sua mente correva sempre all'episodio che l'aveva vista da poco protagonista. Era bastato un sorriso di quell'uomo per conquistarla, una parola gentile per ammaliarla. E pensare che era solo uno sconosciuto che sarebbe rimasto senz'altro tale; una storia breve, neppure un'avventura, un isterismo dei sensi che l'aveva travolta pur nella consapevolezza di sbagliare. Non sapeva nemmeno il suo nome e non le importava di conoscerlo; non ricordava bene neppure il suo volto: un uomo anonimo, come tanti, un' ombra per un rapporto rapido. Si ricordò allora di come si era comportata in quella camera dello squallido albergo ad ore e si convinse di non essere seria, ma una puttana, una donna buona a letto e basta. Anziché soffocarla quest'idea rafforzava in lei la soddisfazione per quello che aveva fatto, ma che assai probabilmente non avrebbe ripetuto. Cosa l'aveva spinta a ciò? Rifletté a lungo senza trovare una risposta e ne cercò tante: i rapporti sessuali con il marito, ma erano più che gratificanti; la monotona vita di casa, ma monotona non lo era, perché non passava giorno che fosse uguale al precedente; la voglia della novità, ma che novità era quella di un rapporto con uno sconosciuto. Pensò a lungo e si chiese se era veramente soddisfatta della sua vita e, purtroppo, concluse che lo era. Ed allora? L'assalì l'angoscia che l'evento potesse ripetersi, che in lei geneticamente fosse presente una celata voluttà di cui mai si era accorta, ma per quanto cercasse di ricordare non riuscì ad avere memoria di improvvisi, inconfessabili desideri. Il tempo passava e la soluzione non veniva; immagini si susseguivano di sconosciuti, di ignoti che aveva casualmente incontrato: nulla. Un suono lungo la risvegliò dai suoi pensieri; che era? Allungò la mano sul comodino, inconsciamente, e fermò la sveglia. Rimase allibita, guardandosi intorno: non era in cucina, ma in camera da letto e lei, in pigiama, giaceva fra le coperte. Era stato un sogno, inconfessabile, ma un sogno. Mentre si alzava, guardò la fotografia del marito sul comodino, un volto anonimo, del tutto identico a quello dello sconosciuto che aveva turbato il suo sonno. Una vita inutile La notte, con la sua oscurità colma di incognite, correva incontro all'auto. I fari cercavano di illuminare il nero nastro d'asfalto, sciabolando il buio; una frenata prima della curva a destra, poi il riallineamento rapido con il rombo del motore che cresceva rabbiosamente. Lorenzo non guidava, si lasciava condurre dal mezzo, mentre pensieri ed immagini affollavano la sua mente. Ogni paracarro che veniva illuminato era una tappa istantanea delle sue riflessioni, di quel senso di rabbia e di vuoto che lo opprimevano sempre di più. Che cos'era stata la sua vita? Un lungo pellegrinaggio di delusioni, di speranze mai concretizzate, di sogni irrealizzati, di solitudini mai cercate e pur sempre presenti. Avrebbe voluto dare il suo contributo per migliorare il mondo, ma non ne aveva avuto l'occasione, o forse non ne aveva avuto il coraggio; aveva cercato tanto l'amore che aveva finito con il dimenticare come avrebbe desiderato che fosse. Anche nel lavoro non si sentiva realizzato; aveva ottenuto risultati apprezzabili, ma erano stati, secondo lui, di molto inferiori alle sue aspettative. Non era riuscito a comunicare con il mondo perché non aveva voluto vederlo com'era, ma come avrebbe voluto che fosse. Ed in questo quadro anche i suoi rapporti con le donne erano stati deludenti: quella superficialità nell'amore che imputava all'altro sesso era in realtà frutto della frustrazione che incombeva da sempre sul suo capo, di quell'insicurezza e di quell'insoddisfazione che derivavano dall'impossibilità di accettarsi quale effettivamente era: né più, ne meno degli altri esseri umani. Sarebbe bastato prendere coscienza dei propri limiti perché la sua vita cambiasse radicalmente, ma questo non lo aveva mai voluto, perché sarebbe stato come ammettere che il senso della vita che si era costruito fin dall'infanzia era sbagliato. Aveva ormai raggiunto i cinquant'anni e si sentiva sempre più solo; poco a poco era subentrata in lui l'amara sensazione di aver vissuto inutilmente, di aver cercato mete irraggiungibili, di essersi creato un concetto della vita avulso dalla realtà. La conoscenza di Maddalena, e questo lo sapeva bene, era l'ultima possibilità che gli era stata offerta per uscire dal suo sogno ed entrare nella realtà. Proprio quella sera avevano cenato insieme e lui si era riproposto come sempre; nel mentre lei zitta lo ascoltava, Lorenzo non aveva mai chiuso bocca: come avrebbe dovuto essere un mondo migliore,come era il suo concetto di amore, quell'offrire tanto senza nulla chiedere in cambio; e poi tante altre cose del suo mondo. Terminata la cena, si era sentito prostrato, come l'attore che recita un lungo copione di un'opera che molto probabilmente non incontrerà il favore del pubblico. Maddalena gli era apparsa stranita, turbata, quasi soffocata da quel fiume di parole e quando si erano accomiatati, ad un suo maldestro tentativo di baciarla, si era ritratta e lo aveva liquidato con un laconico " ciao; buona notte". Era evidente che aveva ancora una volta fallito e dentro di lui era andata crescendo una sorta di irrazionale nervosismo che ora cercava di quietare con la corsa in auto. Sì, quell'andare sempre più veloce era lo sfogo della sua rabbia repressa, del rancore che ormai provava verso se stesso. Quanti chilometri aveva percorso? Non lo sapeva, né voleva conoscere questo dato: l'unica cosa che gli interessava era quella lunga ed estenuante fuga da se stesso. Il muso dell'auto si avventava sulla strada, quasi volesse azzannarla; ai lati, emergevano da buio le fioche luci di qualche casa e conferivano un aspetto spettrale a quel paesaggio senza forme. Ma che è quella luce rossastra e tremula ai lati della strada? Lorenzo non capiva, aguzzava gli occhi, poi, quando la luce si spostò di colpo verso la linea di mezzeria, pigiò sui freni, sterzando contemporaneamente; sfiorò la luce, ma l'auto sembrava impazzita; avanzava di traverso sull'asfalto, sussultando come un pachiderma morente. Poi cominciò a roteare su se stessa, sballottando Lorenzo che ormai non capiva più quello che stava facendo. Vide venirgli incontro qualche cosa di bianco e solo quando sentì l'urto, il fragore delle lamiere che si accartocciavano, si accorse di aver terminato la corsa. Fu un' istante, poi tutto si fece buio, anche nella sua mente, mentre avvertì chiaramente, e dolorosamente, il rumore sordo delle sue ossa che si spezzavano. Ecco, era tutto finito, ma lui non lo sapeva; il copricerchio di una ruota, come una trottola, si agitava sull'asfalto, sempre più lentamente; clak, clak….., clak, poi anche lui si fermò. Non riuscì a capire quanto tempo era passato, ma avvertì gradualmente di essere disteso immobile in un letto; faceva fatica ad aprire gli occhi; li socchiuse lentamente, irritati dalla luce, e vide delle pareti bianche. Una mano lieve gli accarezzava i capelli ed una voce trepidante gli sussurrava "Lorenzo, combatti; non devi morire, sei troppo importante per me; ho tanto bisogno di te, di qualcuno che creda ancora di poter far qualcosa per questo mondo, per me". Riconobbe la voce: era quella di Maddalena. Richiuse gli occhi e sentì che ora avrebbe potuto dormire come mai non aveva fatto, perché adesso c'era qualche cosa, qualcuno per cui valesse vivere. La mano indugiava fra i suoi capelli, la voce gli sembrava una melodia; per la prima volta ebbe paura di morire e si sforzò di restare sveglio, ma poi il sonno prese il sopravvento e sognò, sognò di essere finalmente felice, un uomo non più solo nel mondo degli uomini. Una maledetta giornata di pioggia Scrosciava la pioggia, ma Franco sembrava non accorgersene; camminava spedito, con gli abiti ormai zuppi ed i piedi bagnati. Ogni tanto volgeva lo sguardo al cielo, cercando un' improbabile schiarita; erano giorni di maltempo, di continui rovesci, accompagnati da un costante abbassamento della temperatura, fenomeni più da primo inverno che da mezza primavera. Accelerò ulteriormente il passo, perché la paura di tardare cominciava ad opprimerlo. "Perché sono uscito senza l'ombrello?" si chiese, mentre stringeva ancor più forte il mazzo di fiori ormai sfatti. Si era preparato meticolosamente per quell'incontro: abiti perfettamente stirati, capelli ben tagliati ed il volto accuratamente rasato. Ed ora…, ed ora, per un po' di questa maledetta pioggia, tutto era finito a schifio. Lasciò cadere il mazzo di fiori nel torrente che aveva ormai invaso la strada e l'acqua si impossessò di quei petali infradiciati, portandoli via. Franco guardò mestamente la scena, in preda ad una cupa disperazione per quella sfortuna che lo perseguitava da tempo. Scapolo, di bell'aspetto e di buona posizione, aveva cercato più volte di accasarsi; le opportunità non gli erano mancate, ma erano tutte terminate in breve volgere di tempo; spesso si chiedeva se era colpa del suo carattere, di quel voler cercare a tutti i costi la perfezione, ma non aveva saputo, o voluto, darsi una risposta. Restava il fatto che dopo un po' le donne lo lasciavano, senza plausibili motivi, forse timorose di un legame duraturo; finiva con il consolarsi dicendo che in fondo erano state avventure di completa soddisfazione, ma più passava il tempo, ed il peso degli anni iniziava a farsi sentire, sentiva crescere in lui il desiderio, la necessità di un'unione più salda. Il risvegliarsi la mattina solo, in un letto troppo grande, farsi il caffè ascoltando la voce anonima della radio, il silenzio delle pareti domestiche, l'unica compagnia miagolante del gatto, gli ingeneravano un senso di sconforto e rendevano insopportabile quella solitudine un tempo invece tanto apprezzata. Ed ecco allora avviare un nuovo tipo di ricerche, non farsi più avanti con signore già conosciute, anche se superficialmente. Aveva vergogna ad ammetterlo, ma aveva dovuto affidarsi ad un'agenzia matrimoniale; schede compilate sul carattere, spesso con indicazioni non veritiere, alcune fotografie scattate per l'occasione ed il testo del suo annuncio "Scapolo bella presenza, benestante, anni quaranta (qualcuno in meno rispetto alla realtà), seriamente intenzionato, cerca donna seria, sincera ed onesta per iniziale convivenza ed eventuale matrimonio". L'annuncio era stato pubblicato durante l'inverno sul principale quotidiano locale ed era rimasto a lungo senza riscontro fino agli inizi della primavera, allorché l'agenzia lo aveva contattato per comunicargli che, forse, si era fatta avanti un'anima gemella. Si era precipitato subito negli uffici ed aveva potuto prendere visione della scheda della signora in questione; aveva così appreso che si trattava di una divorziata di anni trentasei (sarebbe stata la vera età?), insegnante, casa propria, senza figli, lieve difetto fisico, amante della natura e dei viaggi. Guardò la fotografia: un'istantanea del solo volto, un ovale perfetto, un naso appena pronunciato, una bocca socchiusa in un sorriso rassicurante, due occhi sbarazzini, una cascata di capelli biondi. "Interessante, molto interessante" pensò e manifestò il desiderio di farne la conoscenza. Trascorse qualche giorno, poi una sera, dopo cena, squillò il telefono; sollevò la cornetta e rimase senza parole: dall'altro capo del fino c'era lei, una voce imbarazzata, ma calda, persuasiva, di qualcuno che sa ciò che vuole. Fu una conversazione breve, ma Franco ebbe la netta sensazione che sarebbero seguite altre telefonate e così avvenne, fino all'ultima con la quale la signora gli propose di vedersi, di conoscersi meglio. In preda ad un'emozione travolgente, Franco ne convenne e così fu fissato l'appuntamento per le sedici del giorno dopo, in un bar di piazza Scalarini. "Piazza Scalarini, uno slargo di una stretta via della città vecchia, qualche abitazione, alcuni negozi, un solo bar; non posso sbagliarmi" pensava Franco mentre si avvicinava a grandi passi alla meta. Girò l'angolo ed infatti ecco piazza Scalarini, con il suo unico bar, proprio di fronte a lui; guardò l'orologio che segnava le 16,10 ed ebbe il timore di non trovarla, che se ne fosse andata per il ritardo. Entrò nel locale, dove vi erano pochi avventori; scrollandosi l'acqua di dosso, diede un'occhiata: eccola, seduta ad un tavolino, intenta a leggere un giornale. La fissò estasiato: era più di una bella donna, era la grazia, la simpatia in persona, quanto aveva sognato e che non avrebbe mai sperato di trovare. La donna si accorse di quello sguardo e sollevò gli occhi; le labbra si aprirono appena in un sorriso, subito frenato quando si accorse dello stato pietoso dell'uomo che le stava dinnanzi. "Ciao, ma sei tutto bagnato; sembra che tu sia caduto in un fosso!" "Sì, purtroppo, il tempo…" non riuscì a dir altro. "Devi cambiarti, altrimenti prendi un malanno, ma come fare?" "Ho trovato, cambiamo il programma, vieni su in casa mia ad asciugarti, abito vicino" e lo prese per mano. Franco era incapace di parlare, sarebbe sprofondato volentieri per quel suo aspetto di pulcino bagnato; solo quando uscirono dal bar si accorse che la donna era claudicante e che portava al piede sinistro una scarpa ortopedica. Salirono in casa di lei e Franco dovette spogliarsi in bagno, mettersi un pigiama che doveva essere appartenuto al precedente marito, un uomo di stazza rispettabile, considerata la taglia del capo. E mentre si guardava le maniche che coprivano abbondantemente le mani, la donna, con un sorriso, gli confermò che era così e, sottovoce, gli disse "Non era bello come te, ma quando si ha un difetto come il mio ci si deve accontentare; ecco, penso che ora, dopo esserti rivestito, te ne andrai e non ti farai più rivedere, come hanno fatto altri" Franco la guardò, vide in quegli occhi sbarazzini la disperazione della solitudine, la sua stessa disperazione, e non disse nulla; l'attrasse a sé, appoggiò le labbra sulle sue e sussurrò "No." Nessuno è perfetto Oggi le nubi che hanno ingrigito i giorni passati si sono aperte e si è affacciato un sole radioso a illuminare ed a riscaldare questo povero mondo che non riesce a vivere senza guerre ed orrori. Il male è sempre presente e non trascura nessuno: dal criminale che uccide per il solo gusto di sopprimere un'altra vita all'indifferenza che ci permette di guardare distaccati tante miserie, quasi fossimo solo spettatori di un film, del quale invece siamo le comparse. Ma ritorniamo a questo giorno di sole, al calore, alla speranza che questo astro da sempre infonde e cerchiamo di capire perché, almeno per me, sarà una data da ricordare. Oggi sono emerso anch'io dal grigiore oscuro che ha accompagnato gli ultimi mesi della mia vita; è stato un lungo tunnel del quale non scorgevo la fine e, poi, del tutto all'improvviso, mi sono riaffacciato alla luce. Non posso dire di aver provato un'esperienza particolare, né posso asserire di aver avuto la certezza di aver vissuto; il periodo è stato talmente oscuro che ora mi sembra impossibile che sia realmente esistito e che il ricordo vago sia quello di un sogno frammentario al risveglio del mattino. Riordino le idee e cercherò di spiegarmi meglio; non sono un uomo diverso dagli altri e quindi in me sono egualmente presenti pregi e difetti e, fra questi, precipuo il convincimento di essere del tutto speciale, quasi un prediletto. I motivi sono tanti, ma soprattutto uno: l'autocommiserazione. Sì, avete capito bene, quella sensazione che finisce con il far diventare ognuno vittima di se stesso; nel mio caso una vera e propria frustrazione, una cocente ed irrefrenabile mania di perfezionismo, laddove tale termine deve essere inteso come la ricerca costante di essere il migliore in tutto quando, ahimè, ben si sa che ciò non è possibile. E le inevitabili conseguenze della realtà dei fatti mi avevano poco a poco costretto all'unica autodifesa che ritenevo possibile: salire in alto, in un mondo tutto mio, in una realtà che realtà non era, ma solo il frutto di un'esasperazione della fantasia. Non ti capiscono: è ovvio, non può capirti chi è inferiore a te; la gente si ammazza: è naturale, perché in essa è presente quel male da cui tu sei immune. Ragionamenti di certo illogici, a posteriori, ma che allora per me rappresentavano l'unica valvola di sfogo per le delusioni di una vita ritenuta inutile. E invece nessuna, ripeto, nessuna vita è inutile, perché nel disegno delle cose ognuno ha la sua parte in questa grande commedia della vita. Guai a quell'attore che vuole interpretare un personaggio diverso! Non se ne accorgerà subito, ma lentamente uscirà da questo immenso palcoscenico e sarà poi molto arduo potervi rientrare. Che è accaduto oggi di così importante? Nulla e tutto. Niente, infatti, che possiate ritenere degno di nota; questo per voi, ma non per me. Oggi è successo un fatto semplicissimo: come tutte le mattine mi sono alzato, lavato, ho fatto colazione, poi ho aperto il giornale ed ecco in prima pagina la notizia del bambino palestinese ucciso. Immediatamente si sono affacciati ricordi sopiti della mia infanzia, cestini delle merende, i primi giorni di scuola, i pochi giocattoli, tutte cose di cui quel povero bimbo non potrà più aver memoria. Ed allora mi sono arrabbiato, imbestialito, perché mi sono reso atrocemente conto che anch'io ho avuto parte nella sua morte, con l'indifferenza con la quale fino ad ora ho guardato dal mio piedistallo i fatti del mondo. Ho scoperto così che il male era anche in me, sotto le subdole spoglie di un cinismo di maniera, comune a tanti, tantissimi esseri umani, e nel dolore di apprendere di essere men che perfetto ho ritrovato la felicità di poter ritornare a vivere per fare quanto mi sarà possibile affinché io e voi possiamo sentirci degni di essere uomini. Acqua ferma Vito osservava lo specchio d'acqua immobile, in parte ombreggiato da alcuni salici; la calura del pomeriggio lì non era ancora arrivata e, benché fosse ben presente il lezzo del liquido stagnante e l'inevitabile moltitudine di moscerini e di zanzare, si poteva chiaramente avvertire un senso di refrigerio. Più osservava la superficie immobile, più si sentiva irresistibilmente attratto dalla stessa; era uno specchio nel quale si rifletteva la sua immagine, immobile anch'essa, come fermata nel tempo. E la mente vagava a ritroso alla ricerca di tante altre identità che avevano contrassegnato la sua vita; ecco, dapprima sfocata, e poi sempre più nitida, l'immagine di una donna, sua madre, sorridente ad un bimbo in fasce, lui stesso. Come istantanee emergevano figure sopite, ma mai dimenticate, ricordi di un passato accantonati nella memoria per essere fatti riemergere quando era necessario, ed ora non era solo necessario, ma indispensabile: il tempo correva e nel giorno della vita sempre più prossima si faceva la sera. Come prolungare la luce, come ritardare il buio, se non ricorrendo alle esperienze trascorse? Con quale forza avrebbe potuto pensare di ricominciare nuovamente, se non partendo dal passato? Volti diseguali si disegnavano sulla superficie dello stagno, appartenuti od appartenenti a persone che avevano segnato la sua vita: il primo amore, il nonno che troppo presto lo aveva lasciato, quello dell'amico fidato che poi non si era rivelato tale, la moglie defunta, che tanto aveva amato e per la quale ormai provava solo affetto, perché l'amore è tale solo se può essere ricambiato; l'insulso sorriso di una donna che lo aveva tradito, lo sguardo sereno e allegro di suo padre che non poteva più essere replicato dai suoi occhi ormai spenti. Ad un tratto apparve una figura senza volto che gli tendeva le braccia esili, che invocava la sua presenza: quella del figlio tanto desiderato e mai avuto. Possibile che nella sua vita ci fosse posto solo per tristezze? No, non erano tristezze, erano le gioie di effimeri momenti che provavano invece che aveva vissuto. Poi, lentamente prese corpo l'immagine di una donna dai rossi capelli, un'immagine vitale che lo scosse dal torpore; era anch'essa nella sua mente? Sì, sempre era presente; poco a poco era entrata in lui, nella sua vita, come un messaggio di speranza: un misto di dolcezza e di vitalità, il futuro che non avrebbe mai sperato. "Andiamo, si è fatto tardi" e Vito si volse: lei era lì, accanto a lui, i capelli rossi appena mossi da un refolo di vento. Lo prese sottobraccio, stringendolo a sé. Vito quasi si aggrappò a lei, poi, quando vide il suo sorriso gentile, si ritrasse "Un attimo solo"; raccolse un sasso e lo gettò nello stagno; l'acqua, non più ferma, fu percorsa da cerchi sempre più larghi. "Ecco, adesso possiamo, dobbiamo andare" e si incamminarono con passo leggero, mano nella mano. La passeggiatina Nella vita di ognuno di noi ci sono episodi che si ricordano in modo particolare, che essi siano belli o che siano brutti. La nostra mente li richiama inconsciamente, affinché la memoria ci possa essere d'aiuto quando più ne sentiamo il bisogno. Oggi è una giornata calma, con un sentore di primavera che invoglia ad essere vitali, ottimisti, ed è proprio per questo che mi è tornato in mente un fatto accaduto non lontano nel tempo, non più di alcuni mesi fa, un episodio che mi aiuta a sorridere, anche se un po' forzatamente. Che da mondo è mondo l'uomo sia un cacciatore è risaputo, mentre invece è più raro il caso che sia la donna a prendere l'iniziativa, a meno che questa non sia di facili costumi, ma, per quanto mi è accaduto, posso assicurare che non lo era e che, anzi, era serissima. Avevo, ed ho tuttora, una cagnolina che, come tutti questi animali, necessita di una passeggiatina per scopi vari. Ebbene, un giorno, mentre andavo a spasso con la bestiola, ho incontrato una signora piuttosto avanti con gli anni, non saprei dire quanto, ma in ogni caso più anziana di me. Anche lei sgambettava con una bestiola dal folto pelo bianco e di razza indefinita. Poiché, nella fattispecie, si trattava di un maschietto, quando ci incontrammo i due animali cercarono subito di fare una reciproca conoscenza, con scodinzolamenti, guaiti più o meno gioiosi e con le immancabili annusatine. Ed i padroni? Costretti a sostare, loro malgrado, avviarono una conversazione che dal futile passò in breve a qualche cosa di più personale. Così, appreso che ero vedovo, la donna, sfoggiando il suo miglior sorriso mi fece sapere che lo era anche lei, anzi che era tre volte vedova, essendo deceduti tutti i precedenti mariti. Fino a quel momento non vi era nulla di particolare da esser meritevole di ricordo, dico fino a quel momento, perché poi la signora, dimostrando un coraggio insospettabile, avviò una lunga dissertazione sul fatto che, se le donne possono restar sole, per gli uomini questo non è normale. Eh sì, una persona di una certa età, abituata alla presenza costante di una donna in casa, non può più farne a meno, perché l'uomo non è capace di arrangiarsi, di condurre una vita solitaria, di rinchiudersi fra le pareti di un appartamento senza scopi, senza mete, se non quella dell'immancabile fine. Osservai che aveva ragione e questo sembrò rinvigorirla; cominciò così a chiedermi se già avevo qualche amicizia femminile, mettendomi subito sull'avviso di diffidare e di procedere con cautela, per non passare da cacciatore a preda, ed io, ingenuamente, ne convenni. Fu un errore, lo devo ammettere, ma mi consentì di conoscere meglio la mia interlocutrice che, fra sorrisi angelici ed occhiate languide, lentamente prese a propormi la sua candidatura. Non lo fece immediatamente, ma per gradi sottili, quasi invisibili, cercando di destare in me un interesse crescente per la sua persona. Non ricordo esattamente l'intero monologo, ma alcuni spezzoni, tipo "meglio una donna matura che una giovane; è più di affidamento", oppure "solo una donna che ha provato la sua dolorosa esperienza può starle validamente al fianco". Non nascondo che sentivo crescere un profondo imbarazzo, ma preferii lasciarla fare per vedere in che modo avrebbe concluso. Rimasi deluso quando smise di parlare nel mezzo di una frase che potrei definire incompiuta, ma mi sbagliavo; da attrice consumata, recitando la trama di una commedia forse ben conosciuta, rimase in silenzio per una decina di secondi, fingendo di guardare i cani, poi sollevò gli occhi verso il mio viso e, con aria misteriosa, ma con voce calda, mi disse, anzi mi sussurrò "Ed allora?" Forse s'aspettava una mia reazione entusiasta, un sorriso gratificante, ma rimasi con lo sguardo incredulo di un cacciatore diventato preda e, lentamente, con voce ferma, dissi "E allora si è fatto tardi; ho degli impegni e devo correre a casa." Mi sembrò di essere crudele, ma la signora non rientrava certamente fra i miei desideri e poi, tutti quei mariti morti, ed io che ci tenevo a vivere ancora a lungo…Lei mi guardò delusa, quasi affranta; deve essere brutto sentire respinti i propri sentimenti, soprattutto ad un'età che lascia pochi spazi per altri tentativi. La salutai in fretta e mi allontanai velocemente con la mia cagnolina; quando fui a distanza, mi voltai un attimo e la vidi ferma sulla strada a guardare il marciapiedi. Per quanto ovvio, ho cambiato l'itinerario della passeggiatina. Il tempo dell'odio Una discesa all'inferno sarebbe stata meno dolorosa, ma per chi, in un attimo, ha perso quanto più di caro gli sta a cuore, la pena di vivere diventa un'ossessione inguaribile. Così si sentiva Robert Goodwin dopo l'attentato alle Torri Gemelle, in cui avevano perso la vita la moglie ed il figlio; per un uomo di sessant'anni la vita non aveva più significato e riusciva ad esistere unicamente per il tremendo senso di odio che lo aveva avvinto, poco a poco, dopo i giorni delle lacrime e dei lunghi silenzi. Ah, se avesse potuto mettere le mani su almeno uno dei mandanti di quei terroristi! Allora sì che sarebbe stato meglio e la vendetta avrebbe gratificato gli anni del dolore. Comprendeva, tuttavia, che il suo era un desiderio irrealizzabile e, nella crescente consapevolezza di ciò, aveva deciso di vivere nell'odio costante nei confronti di chiunque fosse mussulmano. Tre isolati dopo il suo vi era una via popolata prevalentemente da immigrati arabi, gente per lo più tranquilla e da tempo integrata, ma comunque sempre di quella razza dannata. Vi si era recato più volte, osservando con disgusto le vecchie case cadenti, i negozietti di mercanzie varie, quei volti inequivocabilmente segno di un'etnia inferiore, la cui ferocia era celata da uno sguardo impassibile. Nel quadro generale non gli andava proprio giù il negoziante di stoffe, che trafficava nella sua bottega con pezze variopinte, fischiettando motivetti allegri, innocui, ma che alle sue orecchie arrivavano come una vera e propria provocazione. Era felice quell'uomo, felice di vivere in una nazione prospera da poco oltraggiata dal più sanguinoso attentato che la storia ricordi. Lo osservava spesso dalla vetrina, mentre ciarlava con una bimbetta dell'apparente età di sette, otto anni, probabilmente sua figlia; per lui c'era un futuro, una discendenza, qualcuno da amare ed un giorno su cui contare. Robert, invece, era rimasto completamente solo e non avrebbe potuto contare nemmeno su se stesso. La logica della sua mente ormai malata lo convinse in breve che una significativa riparazione della sua disgrazia non avrebbe potuto prescindere dalla soppressione di quel negoziante con quello che normalmente sarebbe stato un delitto, ma che, nella fattispecie, poteva essere tranquillamente considerato un atto di giustizia. Così un giorno decise di realizzare il suo proposito; entrò nel negozio ed estrasse la sua pistola; non gli importava che ci fossero testimoni, altri arabi presenti per comprare stoffe, anzi questi avrebbero fatto da cassa di risonanza al suo gesto. "Lurido bastardo, criminale di un terrorista, l'ora del giudizio è arrivata; tu sarai solo il primo di una lunga lista; la tua morte sarà il segno della riscossa dell'umanità che avete vilipeso, infangato, distrutto…". Armò il cane, si accinse a premere il grilletto, ma si raggelò: due occhi neri lo fissavano spaventati ed imploranti allo stesso tempo, quelli della bimbetta. Era uno sguardo diverso da quello dei presenti, pieno di terrore, di angoscia. La bimbetta aveva sì paura, ma in quegli occhi c'era lo sguardo dell'innocenza, trasparente, cristallino; era l'espressione che aveva avuto anche lui da bambino e che in tutto il mondo è presente a quell'età, era un qualcosa di attonito che lo condannava irrimediabilmente. Gettò a terra la pistola e corse via; ansante, e senza essere inseguito, raggiunse il suo isolato e si fermò a prender fiato davanti la vetrina di un negozio; guardò la sua immagine riflessa ed in quegli occhi stanchi ritrovò lo stesso sguardo attonito che aveva avuto la bimbetta; si aggiustò con le mani i capelli grigi e prese la strada di casa: il tempo dell'odio era finito. Gioco d'amore Invecchiare non è nulla: è nel corso naturale di ogni essere vivente; quello che, invece, ti addolora è sapere che ci sono cose che si possono fare solo in determinati tempi, fra i quali, la gioventù, è quello che passa più alla svelta e del quale serbiamo più forte il ricordo, se non il rimpianto. In quell'epoca tutto è spensierato; la mancanza di esperienza è la chiave dell'entusiasmo che accompagna ogni atto e così l'amore non è un problema, è la vocazione naturale dalla quale ci si lascia volentieri cullare, ed il dispiacere dell'insuccesso è più breve dell'emozione per un nuovo incontro. Ho bisogno della compagnia di una donna, di quell'intuito femminile che tanto apprezziamo e di cui sentiamo spesso la mancanza; risvegliarsi ogni giorno in un letto troppo grande, sapere che l'oggi non sarà dissimile dal giorno appena trascorso, parlare solo a se stessi fra quattro pareti sempre più opprimenti, a lungo andare ingenera un vero e proprio stato depressivo. In una vita senza calore umano, priva della possibilità di qualsiasi evento emozionale, è indispensabile, e quindi non solo necessario, ricercare una figura femminile da porre accanto a sé, e così la caccia comincia. E' da un po' di tempo che osservo la vedovella, una signora sui cinquant'anni, senza figli, che abita in una graziosa villetta non molto lontana da casa mia; per quanto mi è dato di sapere, è una persona seria che, almeno in apparenza, non ha ancora cercato di diventare una preda. Non è bellissima, ma graziosa, che è quello che più conta, perché, come è noto, la bellezza in senso artistico è propria della gioventù; con il passare degli anni, con lo sfiorire, si finiscono con l'apprezzare valori ben più concreti. Ma come contattarla? Trent'anni fa mi sarebbe stato facile, grazie all'incoscienza tipica dell'età, ma oggi ho paura di sbagliare, di sentire un no secco che, più che ferire il mio orgoglio, acuirebbe il senso di solitudine, quasi di emarginazione, che già avverto. Ed allora bisogna escogitare un piano d'azione, valutare i pro ed i contro dello stesso, ed alla fine osare, ben sapendo che dall'esito di questo gioco d'amore dipende il futuro della mia vita. Comincio a farmi vedere; quando esce di casa faccio in modo di incontrarla come se fosse un fatto del tutto involontario; non ci conosciamo e pertanto non la saluto, ma già dopo una decina di volte di questo maneggio abbozzo un sorriso che spero venga contraccambiato. Macché, il suo volto resta impassibile e concludo che è proprio un osso duro. Va bene, continuiamo secondo il piano. Oggi non l'incontrerò solamente, non abbozzerò solo un sorriso, proverò a salutarla. E così faccio. "Buon giorno" "Buon giorno" e nulla di più, con il volto sempre impassibile, ma comunque il ghiaccio è rotto e questo mi dà forza. Nel pomeriggio ritento l'attacco, nella speranza che in questo gioco condotto da un cacciatore la preda sia più che disponibile ad essere catturata. "Buon giorno, signora; non passa giorno che non ci vediamo; il paese è piccolo e questa è l'unica passeggiata, bella, piacevole, graziosa" ed abbasso la voce, per poi sbottare, quasi vergognoso " e poi si incontra della gran bella gente." Il suo volto accenna ad un sorriso, subito frenato; il volto si rabbuia un attimo, poi mi arriva un "buon giorno" secco. Resto in imbarazzo, mentre lei si allontana, ma noto il suo incedere: non è di una persona arrabbiata, è quel tipico passo leggero di chi sente la speranza nascergli nel cuore. Ed ecco che all'improvviso si volge e con uno sguardo radioso mi dice "Ci sarò anche domani." La mia voce trema nel risponderle "Anch'io" e già vorrei che oggi fosse domani. L'orizzonte Schiumava il mare quel giorno spinto dal libeccio; Alfredo stava sulla scogliera, incurvato dalla forza del vento, e guardava l'orizzonte, da cui spuntavano in rapida successione nubi nere, pesanti, cariche di pioggia. Guardava e pensava; là dove il mare sembrava toccare il cielo c'era la terra dalla quale anni prima era venuto, povero emigrante in cerca di una vita migliore. Ricordava ancora chiaramente l'approdo, il campo profughi, da cui era fuggito per sentirsi meno disperato in una moltitudine di altrettanti disgraziati come lui. Aveva vagato in giro per l'Italia, si era adattato ai lavori più umili, sempre respingendo i facili guadagni di un'attività disonesta; aveva faticato anche dodici ore al giorno a raccogliere pomidori per una paga da fame, aveva coabitato in un tugurio per un affitto sproporzionato. La clandestinità non era stata vissuta, non ne aveva avuto il tempo: a faticare di giorno ed a cercare di dormire la notte, i piedi contro la testa di un altro, in mezzo a respiri affannosi, a frasi pronunciate nel sonno in lingue diverse. Quanto tempo era stato così? Questo non lo ricordava, ma gli sovvenivano ancora le paure di essere scoperto ed obbligato a tornarsene al suo paese. Poi, un giorno, aveva conosciuto, del tutto casualmente, una persona che l'aveva strappato a quella vita, gli aveva riconosciuto quella dignità di uomo retto ed onesto, mai sopita, ma celata sotto i miseri abiti donatigli da organizzazioni assistenziali. Come era accaduto? In un modo estremamente semplice: ad un signore, che scendeva da una bella auto, era caduto, senza che questi se ne accorgesse, il portafoglio ed Alfredo l'aveva raccolto, consegnandolo al legittimo proprietario. Questi lo ringraziò, fece per dare al Alfredo una banconota in segno di ringraziamento, quando si fermò; guardò il povero emigrante e si accorse di avere dinnanzi un essere umano, uno straniero in un mondo per lui ancor più straniero; decise che l'atto caritatevole non avrebbe risolto i problemi di quell'uomo e fece la cosa più saggia che avesse mai pensato in vita sua: gli offrì un lavoro, che Alfredo accettò senza esitazione, regolarizzò la sua posizione, lo sistemò in un appartamento decente, ed in cambio ebbe tanta riconoscenza come mai si sarebbe aspettato di avere. Nacque così un sodalizio proficuo, non proprio un'amicizia, ma qualche cosa che li univa e di cui avevano entrambi bisogno: per Alfredo la sicurezza di una vita e per il suo datore di lavoro la certezza di contare sempre su una persona fidata. Passarono altri anni; Alfredo poco a poco, grazie al suo impegno, era riuscito a far carriera ed ora non era più l'emigrante impaurito sbarcato sulle coste italiane, era diventato un uomo agiato, con pari diritti, avendo ottenuto anche la cittadinanza. Avrebbe potuto tornare al suo paese, di cui sentiva tanto la mancanza, e vivere bene il resto dei suoi giorni con i risparmi accumulati, ma lo tratteneva quel sentimento di riconoscenza verso chi aveva creduto in lui. Erano entrambi invecchiati senza scambiarsi la benché minima confidenza che potesse fare assurgere il loro legame all'amicizia, eppure non si sentivano estranei, anzi, più il tempo passava, maggiore era il desiderio di stare insieme, se pur parlando solo di lavoro. Negli ultimi tempi era tuttavia cambiato qualche cosa; il padrone, ammalatosi gravemente, lo volle ancor più vicino a sé; non c'era giorno che lo chiamasse accanto al capezzale, senza che gli dicesse nulla, ma solo per averlo vicino. Poi, quando ormai le condizioni di salute precipitarono, il padrone, con la poca voce che gli restava gli disse "Me ne vado, amico mio." Quella frase semplice, breve, sconvolse letteralmente Alfredo: era tutto un mondo che crollava, ma era anche il riconoscimento di quell'amicizia che di fatto si era instaurata fra i due. Al funerale pianse, pianse un caro amico con cui aveva diviso gran parte della sua vita. Il vento diventava sempre più forte e faceva vacillare Alfredo, che diede un ultimo sguardo all'orizzonte, poi disse fra sé "E' tempo di tornare." Una festa in maschera "Vieni, non stare sempre in casa solo; ci sarà allegria, magari anche qualche donna" mi avevano ripetuto più volte gli amici ed alla fine, più che altro per non scontentarli, avevo deciso di andare a questa festa mascherata in occasione del carnevale. Non mi è mai piaciuto cambiare l'identità, assumere quella di un altro e tanto meno quella di un pagliaccio e così decisi di optare per una semplice mascherina che mi coprisse solo i contorni degli occhi. La festa si teneva in un noto locale della provincia e, timorosi di un mio ripensamento, mi vennero a prendere per tempo gli amici, chi vestito da Mandrake, chi da Zorro, chi da Pierrot. Devo onestamente dire che in confronto a loro, con la mia semplice mascherina e con i vestiti di ogni giorno, mi sentivo un pesce fuor d'acqua. Appena entrati nel locale della festa, quest'ultima ci travolse con lanci di coriandoli e di stelle filanti. Ne fui frastornato e così, senza dar troppo nell'occhio, mi avviai al bar, dove speravo di trovare un po' di quiete. In effetti, a parte i camerieri che si affrettavano a portare le ordinazioni, per poi involarsi, quasi piroettando, con i vassoi colmi di bevande, al banco non c'era nessuno. Tirai un sospiro di sollievo ed ordinai un brandy abbondante. Mi misi a sorseggiare il corroborante liquore ed immediatamente mi corse il pensiero a quello che era stata la mia vita fino ad allora. Lavoro, casa, lavoro e nient'altro; una donna l'avevo avuta od almeno così credevo, ma era stata cosa di tanti anni fa, un grande amore di gioventù che mi pareva contraccambiato, ma che invece non lo era. Fu un colpo sentirsi dire "Non ti amo più" e la cocente delusione divenne a poco a poco una frustrazione con una crescente diffidenza nei confronti dell'altro sesso; e così erano passati gli anni, senza affetti, ma anche senza patemi d'animo, gli aspetti tipici delle avventure che non mi erano mancate. "Un brandy anche a me" fece una voce femminile accanto a me. Mi girai e vidi al mio fianco un'esile figura vestita da Maria Antonietta, con il volto coperto solo da una mascherina come la mia. Rimasi assorto ad osservarla: quel volto aveva un nasino all'insù che sembrava esaltare le rosse labbra carnose. Ho sempre cercato di capire il motivo per il quale quel viso sconosciuto aveva subito attirato la mia attenzione, ma ancor oggi non sono riuscito a trovare una spiegazione e forse è meglio così. "Le piace il mio costume?" Mi guardai intorno, ma la voce veniva proprio dalla mia vicina e la domanda era rivolta a me. "Bellissimo, poi a lei dona che è una meraviglia." "Grazie per il complimento, ma preferisco i miei soliti abiti; non mi piacciono queste feste, dove ognuno vuol sembrare quello che non è; non come lei, a meno che negli altri giorni non vada vestito da Pierrot e si sia mascherato con un abito normale per l'occasione." disse ridendo, con un suono argentino che mi attraversò tutto come una scarica elettrica. Eh sì, quella donna mi piaceva sempre di più e così decisi di approfondire la conoscenza; appresi così che la signora era stata sposata, ma poi aveva divorziato - buon segno, mi dissi, libera e non zitella -, che non aveva figli - altro elemento estremamente positivo, almeno dal mio punto di vista -, e che, soprattutto, non aveva per le mani un uomo. Cominciai ad assaporare l'idea dell'avventura, anche se devo dire che questa volta provavo più di una semplice attrazione; in effetti, sentivo dentro di me una strana emozione che da tempo avevo dimenticato e che aveva a lungo caratterizzato il mio primo ed unico amore. Era giunto il momento, quanto mai necessario ed opportuno, di presentarsi, ma, proprio mentre stavo chiedendo il suo nome, un frastornante trenino di ossessi travolse il banco del bar, mi avviluppò con mille tentacoli e mi risucchiò dentro la fornace della festa. Riuscii appena a sentire "Mi chiamo Laura, Laura….", ma il cognome si perse nel frastuono ed io non riuscii neanche a dire il mio. Appena potei uscire da quel girone infernale, corsi al bar, ma lei non c'era più; chiesi al barman, ma mi rispose che non la conosceva; riprovai allora a cercarla nel cuore della festa, ma sarebbe stato come riuscire a trovare un ago nel pagliaio. Sconsolato uscii ed attesi i miei amici, che riportarono a casa un individuo attonito, quasi un ubriaco. Chiesi anche a loro se sapevano qualche cosa della sconosciuta di nome Laura, ma, a parte qualche apprezzamento salace, le mie domande rimasero senza risposta. Il giorno dopo, dopo una notte insonne, ripensai immediatamente a quel nasino, un'immagine che mi avrebbe accompagnato anche fino a sera. E più la mia mente focalizzava il particolare anatomico della sconosciuta, più cresceva in me il desiderio di rivederla. Sapevo che era una cosa quasi da pazzi essersi innamorato di una donna che non conoscevo, ma purtroppo era accaduto. La cercai nei giorni successivi ed anche adesso, che ho ormai perso la speranza di ritrovarla, quando passeggio per la strada osservo i volti di tante donne sconosciute, ma nessuno ha quell'irresistibile nasino all'insù. Il risveglio Era l'alba; la luce del giorno filtrava attraverso gli spiragli delle persiane e disegnava strani arabeschi sulle pareti bianche. Irina guardava il soffitto e ripensava alla sua vita; rivedeva, come una proiezione cinematografica, la sua giovinezza spensierata, la scuola frequentata con profitto e con amore, i primi turbamenti di cui allora non sapeva spiegarsi la ragione. Ogni tanto volgeva gli occhi a guardare il suo Paolo che dormiva profondamente con il capo ancora appoggiato alla sua spalla; eh sì, era un bell'uomo, con degli occhi profondi ed espressivi, con un carattere forte che non mancava tuttavia di dolcezza, come lei stessa aveva potuto verificare; prima di dormire, avevano fatto l'amore, con passione, ma senza foga, con una delicatezza ed un rispetto reciproco che le avevano subito placato quel senso di apprensione che aveva preceduto l'amplesso vero e proprio. Paolo era stato bravo anche lì e si era dimostrato contemporaneamente maschio ed uomo, dato che l'aspetto istintivo era stato sapientemente mitigato dal tatto ed aveva permesso di attenuare il senso di pudore di entrambi. Non le sembrava vero di aver trovato una persona simile, un essere umano semplicemente adorabile, forse anche troppo adorabile, perché in una donna esiste sempre il timore di essere usata, e non amata. Era forse vero anche in questo caso? Paolo mirava a lei solo per un appagamento sessuale, o in lui, oltre all'attrazione, era presente anche l'amore? Questi pensieri affollavano la mente di Irina, che cercava di trovare una risposta ad ogni quesito rammentando anche piccoli dettagli di comportamento; così, se la timidezza dell'uomo all'inizio della cena le poteva sembrare un segno di evidente imbarazzo di una persona innamorata, avrebbe potuto anche essere il frutto di un disegno ben calcolato per esercitare una più forte attrazione sulla donna. Era poi vero che era stata lei stessa a proporre di passare la notte insieme, ma vi era considerare anche che l'uomo aveva accettato subito, senza la benché minima esitazione. A questo pensiero Irina sorrise e si disse che qualsiasi uomo non avrebbe potuto che accettare una simile offerta, il che la rincuorò non poco. Restava una perplessità di fondo insanabile e cioè che anche lui era solo e che quindi avvertiva maggiormente il desiderio di una compagnia femminile; il desiderio non voleva dire amore: il suo insomma era uno stato di necessità. "E se anche lo fosse - pensava Irina - pure io sono nella stessa condizione, ma spero tanto che né io, né lui possiamo innamorarci per questo motivo, od almeno prevalentemente per questo motivo." Poco a poco il chiarore del giorno invadeva la camera da letto e con la luce i pensieri di Irina, anche se presenti, si sfumavano, diventavano meno assillanti ed assumevano il contorno di normali logici approfondimenti; tuttavia, le era rimasto uno stato d'ansia, come se il prossimo risveglio di Paolo potesse coincidere con una sentenza che avrebbe determinato la sua vita futura. Non passò molto e l'uomo aprì gli occhi, attrasse a sé Irina e la baciò; poi, mentre le carezzava il viso, con una naturalezza esaltante le sussurrò "Irina, ti amo; mi vuoi sposare? Non pretendo una risposta immediata; aspetterò quanto ritieni tu ed, intanto, se vuoi venire a vivere stabilmente con me, lo puoi fare; ne sarei felicissimo." Irina non rispose, guardò fisso l'uomo, poi lo baciò con passione, mentre ancora si chiedeva se fosse tutto vero. (Da "La donna venuta da lontano") Pietà Più ci penso, maggiore è il senso di vergogna che provo, e non è solo vergogna, è la consapevolezza di aver tradito tutti, a cominciare da me; io che mi ero prefisso per tutta la vita di rispettare un canone morale senza la benché minima esitazione, traendo piacere intimamente dalla soddisfazione di essere coerente giorno dopo giorno, ora dopo ora, sono precipitato in una voragine senza fondo e solo per il piacere vuoto di una vendetta che non ha alcun senso, perché solo io sono il colpevole di quanto mi è accaduto. Il tutto trae origine da una relazione con una donna che non avrei mai dovuto avviare, perché la signora in questione è stata all'inizio avvicinata da me unicamente per la sua accertata disponibilità. Nel mio rigido concetto di morale accompagnarmi con un essere amorale, perché la persona in questione è sempre stata così e sempre lo sarà, mi ha indotto a cercare di vederla in modo diverso, rivestita da una coscienza, che non le è propria, e che io, nella mia immaginazione, le ho calzato indosso. La relazione è proseguita nella misura in cui lo stereotipo che avevo creato per lei ha retto, finchè sono stato sordo a ciò che sentivo e cieco a ciò che vedevo. La mia è stata solo un'illusione, di cui ero consapevole, ma che accettavo per l'attrazione che aveva su di me; eppure, bella non era, intelligente nemmeno, colta…è meglio non parlarne. Allora, che cosa avrò mai trovato in lei, che cosa mi ha fatto perdere la testa? E' difficile spiegarlo, anche perché la mia coscienza ferita sanguina ancor più copiosamente, ma devo riuscirci, perché una confessione finirà con il recarmi un po' di sollievo e voglio essere brutale, senza tante perifrasi, voglio evitare di accampare giustificazioni improbabili. L'uomo è un essere che ha libertà di scelta fra il bene ed il male, l'uomo almeno normale e non quindi chi nasce malvagio e sempre lo sarà. E' una lotta costante quella fra il bene ed il male ed avevo sempre fatto trionfare il bene, ma con lei, già avvicinandola, avevo soffocato il bene. Sì, la sua vera attrazione per me era la sua depravazione, una parola, un atteggiamento di cui avevo letto sui romanzi, ma che mai avevo toccato con mano, una fantasia, come pensavo, ma che ora avevo la possibilità di sperimentare. E non c'è nulla di più bello del male per chi non l'ha mai conosciuto; è un mondo tutto nuovo che ti si apre davanti, è una vita diversa, dove il sesso non ha più limiti, dove le più oscure nefandezze ti travolgono piacevolmente e ti sembrano del tutto naturali. Per lei era routine, per me era una novità esaltante, una volta allentati i freni inibitori. Sì, una novità, ma proprio per questo nel volger di poco tempo, proprio perché non era parte di me, la coscienza si è risvegliata e guardandomi allo specchio sono inorridito; ovvio che subito la tresca è stata interrotta. Il senso di orrore per me stesso gradualmente si è trasformato in vergogna e nel mio senso di onnipotenza ho voluto cercare il colpevole di quanto io stesso mi avevo provocato. E poiché non esiste colpevole senza condanna ho ricominciato ad interessarmi a quella donna per una vendetta riparatrice. Ne ho pensate tante, alcune le ho anche immaginate quasi fossero vere, ma alla fine ho deciso che le avrei urlato in faccia il mio disprezzo, quel disprezzo che in realtà ho per me stesso. Ed è la consapevolezza di questo che se non fa diminuire il mio interesse per quella persona mi impedisce di portare a termine la mia opera. E' ancora la lotta fra il bene ed il male: da un lato la mia coscienza ritrovata, dall'altro la parte oscura di me stesso. Finirà? Non lo so, so solo che mia moglie si è accorta di tutto e che dispera del mio amore per lei, di quell'amore che, benché ritrovato, appare ora soffocato da un odio cieco; a volte penso che mi sto distruggendo per punirmi della grave colpa di cui mi sono macchiato, ma in tal modo corro il rischio di annientare anche quanto di più caro mi sta vicino e che già tanto ha dovuto sopportare. In tutta sincerità, quando mi guardo allo specchio, e rifletto su di me provo solo ormai un gran senso di pietà. I prati del silenzio Un giorno di tanti anni fa che non potrò mai scordare, perché ci sono avvenimenti che, per quanto a noi comuni, restano impressi nella memoria in un piccolo angolo, per poi riaffiorare dopo lungo tempo quando meno ce lo aspettiamo, oppure quando deliberatamente lo desideriamo. Si era di maggio, un maggio straordinariamente caldo, con un'afa quasi insopportabile tanto da velare l'orizzonte; ero giovane, allora, e del caldo non m'importava, perché ero con "lei". Sdraiati su una coperta, guardavamo il cielo terso e facevamo quattro chiacchiere, discorsi semplici, anche di poco conto, ma l'età giustifica tutto. Sotto di noi e tutt'intorno ampi prati di trifoglio, qua e là chiazzati dal bianco e dal rosso della fioritura; nessun rumore, a parte il nostro bisbigliare; l'unica nota, monotona e costante, era data dal frinire delle cicale. Il caldo stava diventando sempre più opprimente: non un filo d'aria e gocce di sudore che cominciavano a scivolare sui nostri corpi, inzuppavano gli abiti dando una sensazione di apparente refrigerio. Non so chi cominciò per primo, ma iniziammo a spogliarci, un capo dietro l'altro che gettavamo sull'erba: là la mia canottiera, più oltre il suo reggiseno. In breve restammo nudi, ma se questo non portò alcun beneficio alla nostra arsura finì con il creare una situazione di complicità, quasi avessimo commesso un reato di cui sembravamo fieri. Ricordo che guardai a lungo il suo corpo, in modo quasi sfrontato; lei, invece, celava dietro un'apparente timidezza il desiderio di confrontare il suo con il mio. Fu quando si mordicchiò il labbro inferiore che fui assalito da un desiderio irrefrenabile di toccarla, di far scivolare le mie mani lungo i suoi fianchi, di indugiare sui suoi piccoli seni, di separare quelle cosce che teneva strette a nascondere la sua intimità. Dovevo agire subito, o avrei dovuto aspettare un'altra occasione, a patto che se ne potesse presentare un'altra altrettanto favorevole? Il mio desiderio le sarebbe sembrato inopportuno, prematuro, giacchè era da solo un mese circa che ci frequentavamo? Avrei potuto darle l'impressione di essere una persona poco seria? Questi ragionamenti, a distanza di tempo, mi fanno sorridere, ma quando si è convinti di aver trovato la persona giusta con la quale condividere la vita si ha paura di sbagliare, di compromettere tutto, di gettare al vento per pochi attimi di piacere le aspettative di una gioiosa vita in comune. Ma poi l'istinto, la passione presero il sopravvento sulla ragione e l'abbracciai; stringendola a me, avvertii chiaramente il fremito che l'attraversava ed allora non indugiai oltre. Fu un amplesso breve, il primo, sia per me che per lei, e mentre consumavano il nostro rito d'amore ebbi la sensazione che le cicale avessero interrotto il loro frinire e che il silenzio all'intorno fosse assoluto, rotto solo dal nostro ansimare. Raggiunto il culmine del piacere, appoggiammo nuovamente le nostre schiene sul trifoglio senza dire nulla, stringendoci solo per mano; restammo a lungo così, poi le dissi dolcemente, piano, quasi sillabando "Ti amo" e lei mi rispose, con un accenno di sorriso di timido compiacimento "Anch'io". Le cicale ripresero a frinire, mentre il sole s'apprestava al riposo della notte. E' un evento che mi è ritornato in mente mentre guardavo il suo volto bianco nel pallore della morte, quel viso che volevo e voglio ricordare nel sorriso di una vita che si apriva all'amore. La leggenda del regno della felicità C'era una volta un paese che faceva parte di questo mondo, ed eppure gli era così estraneo; mentre all'intorno tutti si scannavano, là regnava soave una pace ed una tranquillità senza pari; nessuno rubava, perché non c'era nulla da sottrarre, accontentandosi tutti di ciò che avevano; nessuno uccideva, perché non conoscevano l'odio; tutti erano disposti ad aiutarsi, perché non ce n'era bisogno. Questa terra così perfetta si sarebbe potuta definire il regno della felicità, ma non era proprio così, per il semplice motivo che i suoi abitanti non sapevano di essere felici; la loro vita scorreva così da un tempo immemorabile senza scossoni, giorno dopo giorno, ognuno pressoché uguale all'altro. Una situazione così ideale non poteva non attirare l'invidia e le brame dei vicini, e così un giorno un esercito sanguinario invase il paese, uccise, straziò, distrusse, saccheggiò senza tuttavia riuscire a trovare l'autentica ricchezza a cui mirava, quella felicità tanto bramata. Come avevano varcato le frontiere ne avevano sentito il profumo, ma più le violenze aumentavano, più veniva cercata, più si allontanava dagli invasori, come un miraggio nel deserto. Alla fine, nell'impossibilità di raggiungere lo scopo, gli invasori si ritirarono, lasciando dietro a sé una scia di morte e di nefandezze. I pochi superstiti di quello che era stato un paese felice si interrogarono a lungo sul motivo di tanta barbarie e nel dolore per le perdite subite, per la morte che era passata sopra le loro teste, sopravvenne forte il ricordo del tempo passato, di quella quiete, di quella serenità di cui solo ora si accorgevano. Nell'impossibilità di ricostruire il paese, decisero allora di lasciarlo e di migrare verso i paesi confinanti, verso quel mondo di cui avevano conosciuto tragicamente la realtà, con il solo scopo di perpetuare fra quelle genti la memoria del regno della felicità. E così fecero; come cantastorie narrarono sulle piazze dei paesi la loro storia a gente incredula; solo i bambini ascoltarono rapiti la leggenda che quei superstiti sembravano avere inventato, ma che aveva il fascino di qualche cosa di lontano, di meraviglioso, anche se irraggiungibile. E nei loro sogni si misero alla ricerca di quel paese, senza mai trovarlo; rimase in loro anche da adulti la traccia di quel mondo perfetto, della cui inesistenza tuttavia ora avevano certezza, e negli anni che passavano ogni tanto ebbero la sensazione di esservi vicini, ma come un miraggio la felicità che credevano di aver raggiunto nel volger di poco tempo spariva, perché non credevano in essa, perché non la cercavano in se stessi. La fotografia Ogni tanto, quando ho tempo, mi piace riordinare le mie carte, stracciare quelle che non hanno più nessun interesse, inserire in raccoglitori quei documenti che, a torto o a ragione, mi sembra potranno avere una qualche utilità. Generalmente, per effettuare questo lavoro, approfitto di quelle giornate grigie e tediose che ti costringono in casa; ieri è stata appunta una di queste ed allora ho cominciato a rovistare fra fogli, vecchie fatture già saldate, giornali quasi ammuffiti ed aprendo proprio uno di questi mi è scivolata fra le mani una fotografia ingiallita dal tempo, dimenticata lì perché ritenuta, chissà quando, non più attuale. L'ho osservata incuriosito: ritrae due giovani, un ragazzo ed una ragazza, in piedi su un prato verde, con uno sfondo di montagne coperte da fitti boschi. Come in un film che scorreva davanti ai miei occhi ho rivisto le immagini di un'epoca spensierata ed ormai lontana, quella della mia giovinezza, perché quella fotografia ritraeva me ed il mio primo amore, la Marina, una ragazza che mi aveva attirato per il suo carattere assai estroverso, non disgiunto da una femminilità ancora acerba. Non mi ricordo esattamente l'anno in cui l'ho conosciuta, però ho chiara memoria del luogo: un grazioso paesino di montagna in cui ero solito villeggiare l'estate con i miei genitori. Erano epoche assai diverse dalle nostre, con meno auto e quelle che c'erano possono adesso far sorridere per la loro semplicità; erano quasi tutte Fiat (500, oppure 600), scatole di latta senza la benché minima comodità, ma che permettevano ad una famigliola di muoversi e di iniziare a conoscere il mondo, ed in questo assolvevano bene al loro compito di mezzi di trasporto. Gli alberghi erano pochi ed allora la maggior parte dei villeggianti prendeva in affitto l'appartamento dei valligiani che, per l'occasione, si adattavano a vivere nelle cantine. Il ripetersi in altro luogo della vita fra le mura di un alloggio, anziché nella camera di un albergo, facilitava le conoscenze con i vicini, quasi sempre altri villeggianti, ed appunto quell'anno costoro, nel mio caso, erano rappresentati da una famiglia di Milano, costituita da marito e moglie, due figlie, la Nicoletta, più avanti nell'età e gia sposata, ed appunto la Marina, una biondina di neppure diciotto anni. Quando la vidi, mi ricordo, sentii subito nascere in me un'inarrestabile simpatia per questa fanciulla che poi avrebbe turbato i miei sogni di tante notti. Non era una bellezza, almeno secondo i canoni estetici correnti, ma aveva una vitalità, una gioia di vivere, che non poteva lasciare indifferente uno come me, che, benché di poco più vecchio, ero, come si suol dire, tutto casa e studio. Da questo punto di vista, era la piacevole scoperta della spensieratezza della gioventù che esercitava su di me un fascino incredibile, era come immergersi nuovamente nella tipicità di un'età come la mia, sacrificata, nel mio caso, alle dure esigenze di uno studio costante, continuo e spesso avulso dalla realtà che mi circondava. Facemmo amicizia fin da subito, lei forse attratta da un giovane che aveva l'aria di essere più maturo dell'età che portava; lunghe passeggiate durante il giorno, conversazioni quasi sempre frivole la sera, due salti a ballare la domenica, e più stavamo vicini, maggiore era la voglia di stringerla a me, di baciarla, di sentirla mia. La notte era il momento più brutto, perché non ero con lei; tardavo a prendere sonno e, quando questo veniva, era tutto un accavallarsi di sogni, dove entrava sempre la mia adorata Marina. I giorni passavano e neppure me ne accorgevo; era una sensazione stupenda non ricordarsi del tempo. Poi, una sera, e mi è venuto in mente come se fosse accaduto da pochi giorni, mentre conversavamo seduti su una panchina, ho osato e con la mano destra le ho accarezzato il volto; mi tremavano le gambe ed attendevo pavido la sua reazione, ma lei non si scostò, si voltò verso di me e, con il suo più bel sorriso, mi disse "Ti sei innamorato di me? Ne sarei felice." Il mio cuore prese a battere forte, lunghi fremiti attraversano il mio corpo, e non riuscii a profferire parola; quasi inconsciamente avvicinai il mio viso al suo e, lentamente, quasi in punta di piedi, le mie labbra andarono a cercare le sue; fu un bacio breve, ma per me sembrò durasse un'eternità, tanto era meraviglioso, tanta era la sensazione di felicità che entrava in me, un appagamento non misurabile che non ebbi più occasione di provare. Quel bacio non fu che il primo; altri ne seguirono i giorni appresso, unitamente a casti contatti dei nostri corpi, a carezze virtuose, ma che pure ci sembravano i segni di un peccato, e così seppi che se per me lei era il mio primo amore la stessa cosa era anche per la Marina. Era un amore timoroso di non offenderci l'un l'altro, spingendoci in un campo, quello sessuale, ancora per noi sconosciuto; a pensarci, mi viene da sorridere, ma erano altri tempi e non è detto che fossero peggiori degli attuali. Costruivamo insieme sogni di un futuro improbabile, con ricorrenti frequentazioni anche dopo la villeggiatura, e ciò nonostante abitassimo piuttosto lontani l'uno dall'altra, ma come il tempo, che non contava, anche la distanza pareva non esistesse in quel mondo magico in cui ci eravamo tuffati; vivevamo, vivevamo la pienezza della gioventù in un gioco che esulava dalla realtà che ci circondava. E' stato, anche ripensandoci oggi, un periodo stupendo, unico, un'esperienza che non si sarebbe più ripetuta. Poi venne la fine dell'estate e con essa la fine della villeggiatura; ci scambiammo solenni promesse di rivederci, gli indirizzi di ognuno di noi furono trascritti febbrilmente, ma già il richiamo alla realtà di tutti i giorni aveva iniziato ad incrinare la magia del nostro mondo; avevo cominciato a dubitare di una possibilità di un seguito di quell'amore: la distanza, i miei impegni con gli studi, l'impossibilità di poterla vedere ogni giorno, come invece era mio desiderio. Tutte quelle remore che anche prima esistevano, ma che avevamo sepolto sotto le onde della nostra passione, ora venivano prepotentemente a galla. Anche lei era un po' cambiata e quel suo sorriso radioso era ora opacizzato da una sottile vena di tristezza, come chi sa che il tempo è cambiato. Il giorno della partenza ci siamo baciati per l'ultima volta, ma era un bacio con la passione attenuata dalla consapevolezza che i giorni trascorsi non sarebbero più ritornati. Dall'auto che partiva mi ha gridato "Mi scriverai? Mi raccomando" "Ti scriverò ogni giorno, penserò sempre a te." Ritornato a casa, le scrissi una prima lettera, poi una seconda ed infine una terza, alla quale mi rispose con un tono dolce, ma formale. Le inviai altre sei lettere, poi, non avendo riscontri, riposi la penna. Non la vidi più, ne seppi più nulla di lei; anche il ricordo si affievolì fino allo scomparire del tutto. Riguardo la foto, mi si inumidiscono gli occhi, poi la strappo: i ricordi, quando sono belli ed irripetibili, rattristano l'animo, ti fanno sentire più vecchio, ti tolgono il respiro e la forza di vivere. Breve incontro A rivederla, così all'improvviso, senza che me l'aspettassi, ho sentito una fitta al cuore ed immagini, ricordi che credevo sopiti sono riemersi con vigore dall'oblio. Erika era stato il mio primo amore, un amore, passionale, spensierato come può essere l'amore di chi ha vent'anni; una storia non breve con momenti di intensa felicità ed una conclusione che ha lasciato l'amaro in bocca ad entrambi; ci siamo lasciati in una fredda giornata di gennaio non perché non ci amassimo più, ma perché non ci sentivamo pronti ad affrontare insieme le incognite di una vita; forse è stata più colpa mia, all'epoca sempre insicuro, senza un lavoro, privo di mezzi di sostentamento, ma soprattutto incapace di credere nel futuro. Attendevo l'autobus che, dopo il lavoro, mi avrebbe riportato a casa quando, accanto a me, in attesa di un altro mezzo di trasporto, l'ho scorta, invecchiata come può esserlo una persona di cinquant'anni, ma ancora splendida nella sua maturità, gli occhi cerulei sempre vivi ed attenti, la bocca aggraziata, il naso a patatina, un corpo appesantito, ma sempre desiderabile. "Ciao, Erika" "Ciao, ma sei proprio tu; quanti anni che non ci si vede; non sei cambiato per niente" e mentiva, perché anche per me il tempo è trascorso. "Sei sempre uno splendore, Erika" "Sei troppo buono, cerco di mantenermi in forma; un po' di palestra, un po' di corsa, ma i fianchi, la pancia sono sempre lì a testimoniare che ho la mia età." "Ma che dici mai; mi ricordavo che eri una bellezza ed ora sei ancora meglio." " Parlami un po' di te; penso che avrai parecchio da raccontarmi." " Tutt'altro; ora lavoro, un buon posto, sono sposato ed ho due figli; il resto, è il solito tran tran." " Ne sono felice che tu ti sia sistemato in ogni senso.", ma si mordicchiava le labbra. " E tu?" " Mi sono sposata una quindicina di anni fa con un medico, ho un figlio e, per ingannare il tempo, lavoro in un ufficio, ma solo il pomeriggio." Non sapevo che dire; non erano due vecchi amici che si incontravano dopo tanto tempo che non si vedevano, era la donna che avevo amato forse più di mia moglie. Sono rimasto in silenzio, imbarazzato, mentre sentivo stringermi la gola; ah, Erika, se ci fossimo trovati ora, liberi, non avrei esitato ad abbracciarti, a stringerti a me, perché quell'amore dimenticato si stava riaffacciando prepotentemente e non riuscivo a far nella per fermarlo; lei mi fissava con uno sguardo interrogativo, mentre le si inumidivano gli occhi; anche lei provava quello che sentivo io, ma il tempo degli amori spontanei era passato per entrambi. E' stata una fortuna che arrivasse il mio autobus; l'ho salutata con un cenno della mano, quasi una carezza virtuale, poi sono salito sul mezzo e mentre partiva ho continuato a fissarla; poco a poco la figura è rimpicciolita, per poi sparire del tutto; non l'avrei più rivista. La vendetta E' trascorso ormai tanto tempo, ma non potrò mai dimenticare; certi avvenimenti segnano la vita di un uomo, modificano il suo carattere, gli rendono l'esistenza un tormento. Ero un uomo felice, innamorato, già prossimo al matrimonio quando avvenne il fatto. Occorre precisare che prima di me la mia fidanzata aveva avuto una relazione, peraltro di breve durata, con un altro uomo, finita per volontà di lei e per motivi che mai avevo voluto conoscere. Mancavano pochi giorni alle nozze, quando la mia lei fu trovata uccisa nei pressi della sua abitazione. La notizia mi sconvolse, fu come se mi fosse crollato il cielo addosso. I ricordi di quei momenti, benché forti, si appannano per effetto di quell'atmosfera di stordimento che mi colse, quasi una difesa della mia mente di fronte ad un avvenimento che poteva sconvolgerla; del giorno del delitto rammento sempre e chiaramente la brutalità con il quale fu commesso: 47 coltellate, 47 fendenti che straziano un corpo, che scavano nella carne, che spezzano una vita. Ho avuto la fortuna di non vedere il corpo, ma quel numero 47 mi si è impresso nella mente in modo indelebile, come se fossi io la vittima, ed in effetti lo sono anch'io; prima gli accertamenti dell'autorità giudiziaria che mi coinvolsero come possibile sospetto e la fortuna, nella disgrazia, volle che io avessi un alibi inoppugnabile, poi, una volta scoperto il colpevole, l'ex fidanzato, le maldicenze dei giornali sul conto della mia donna, ferite che si aggiungevano alle ferite. Penoso fu pure il periodo del processo, con il colpevole che professava continuamente la sua innocenza, ma non aveva alibi ed aveva invece il movente della gelosia; fu condannato a vent'anni di reclusione e fu una liberazione per me. Da allora, nel tempo libero, attuo un vero e proprio pellegrinaggio alla tomba della mia adorata, porto fiori, pulisco la lapide, parlo con il suo spirito. I tempi della giustizia sono lunghi, ma brevi sono le risultanze della pena; oggi, dopo soli dieci anni, quel criminale esce per buona condotta, mentre per lei non c'è buona condotta che tenga, irrimediabilmente legata al suo sonno eterno. Mi è stato detto, inoltre, che l'avvocato di quel disgraziato chiederà la revisione del processo; non sarà difficile che finirà con l'uscirne riabilitato, magari otterrà un bel risarcimento: se questa è giustizia, non posso accettarla, è troppo aberrante ed ecco infatti che mi trovo davanti al carcere in attesa dell'uscita; ho previsto tutto: in tasca ho una calibro 45, l'auto a due passi, quello che mi manca è l'alibi e non potrò ricorrere, come dieci anni fa, alla testimonianza del mio fedele amico Giuseppe, morto per un tumore appena ieri. Ma che importa, non mi farò vedere e poi, anche se mi scoprono, avrò tutte le attenuanti e me la caverò con una manciata di anni, che sono un nulla di fronte al tormento che mi corrode. Ecco, si apre il portone del carcere; mi guardo intorno: non c'è anima viva. Poso lo sguardo davanti a me e vedo il mio obiettivo: non mi ha riconosciuto, si ferma un attimo, guarda il cielo, spalanca le braccia all'aria libera; mio Dio, com'è invecchiato, il volto è segnato da lunghi solchi che leggono una sua tremenda sofferenza! Si incammina, barcollando, quasi mi urta; mi faccio da parte e lui mi chiede "Dov'è la fermata dell'autobus?"; ha gli occhi spenti, le parole sono biascicate. "In fondo alla strada, se desidera l'accompagno" e lui annuisce. Camminiamo insieme, quasi lo sorreggo e mi parla "Sa, è il mio primo giorno di libertà dopo tanti anni; sono stato condannato per un omicidio, ma non ho espiato la mia colpa con il carcere, l'unica condanna vera, concreta, la porto dentro di me ed è il rimorso per quello che ho fatto, per la pazzia che ho commesso; non c'è giorno, non c'è momento in cui la mia sofferenza mi abbandoni e poi c'è la consapevolezza, atroce, che non potrò mai rimediare; è meglio morire che vivere così, però è giusto che io continui su questa terra, che paghi in tal modo per il delitto che ho perpetrato per un insensato, assurdo senso di gelosia." Arrivati alla fermata dell'autobus, l'ho guardo negli occhi, gli do una pacca sulle spalle e torno a casa; non mi è passato il tormento, ma che strazio è il mio rispetto al suo, rispetto a chi prova il rimorso di aver soppresso una vita? Uno sguardo all'intorno Non passa giorno che non mi soffermi a riflettere su questo mondo di cui faccio parte. E' certo una visione dell'insieme del tutto soggettiva, ma resta il fatto che osservare, contrapporre, criticare è proprio di ogni uomo. E' bello questo mondo? Onestamente non ho mai inteso esprimere giudizio, perché ad aspetti sconcertanti fanno da contrappunto elementi ampiamente positivi. E basta una normale giornata per ben comprendere quello che sto dicendo; la visuale potrà apparire limitata, ma ovunque è possibile riscontrare questa varietà di sfaccettature. Esco, come al solito, per andare dal giornalaio a prendere il quotidiano locale, che nelle notizie riflette inevitabilmente quell'alternarsi di bene e di male proprio del mondo in cui viviamo. E' una giornata fredda e per strada ci sono pochi passanti, fra cui un uomo che si porta alla bocca una caramella, appallottola l'involucro di carta, si guarda intorno e poi lo butta a terra. Non lo sa, ma io l'ho visto; mi vien voglia di invitarlo a raccogliere quell'immondizia e di riporla nel cestino dei rifiuti poco distante, ma poi mi freno: tanto è fiato sprecato; proseguo pensando che avrei potuto chinarmi, allungare il braccio, raccattare e lasciar cadere al suo giusto posto: no, perché dovrei farlo? Io rispetto le leggi, sono educato, e quello no; io sono buono e lui è cattivo ed è quindi giusto che ognuno rispetti il suo ruolo; sono soddisfatto di questa grandiosa elucubrazione e non mi accorgo d'esser scivolato sulla classica buccia di banana, perché al pari dell'ignoto "mangiacaramelle" in tal modo ho mancato anch'io di rispetto per gli altri, lui per negligenza, io, peggio, per vanità. Il giornale, come era lecito attendersi, riporta una gran accozzaglia di chiacchiere, soprattutto a livello politico, sia nazionale che locale; è un vero e proprio sconcerto vedere chi rappresenta gli interessi di tutti litigare, accapigliarsi, sbraitare per cose senza senso, per problemi inventati, per i quali vengono proposte un'infinità di soluzioni, mentre per quelli veri, concreti, tangibili c'è l'abilità di sprofondarli poco a poco nell'oblio. Ed in questa farsa di attori consumati quello che ancor più stupisce è che gli spettatori, l'intero popolo, ascoltano, magari distrattamente, ma ascoltano e pretendono pure di essere partecipi alla recita, in tono minore, ma, comunque nella malcelata convinzione che tutte quelle chiacchiere abbiano un fondo di verità. Sono anni che si va avanti così, la gente mugugna, borbotta, assimila spesso i suoi rappresentanti ad una banda di ladri, ma poi li vota sempre, perché quegli "eletti" fanno quello che i più, in cuor loro, desidererebbero fare. Le uniche notizie del giornale che rispondono a verità sono quelle delle due ultime pagine: i necrologi. Ma anche in tal caso l'unica verità è il decesso di queste persone, perché gli annunci sono incredibilmente aulici, come le scritte sulle lapidi "Uomo fedele, pio ed onesto" "Madre premurosa, moglie devota". A volte mi chiedo come mai in questo mondo possano esserci così tanti farabutti ed allora concludo che i malvagi sono quelli che vivono, mentre i buoni sono i morti. Fa ancor più freddo di prima, ma decido, grazie anche al sole che si è affacciato e manda un illusorio senso di tepore, di fare un salto ai giardini pubblici, di sedermi, sia pur brevemente, su una panchina e di poter così sfogliare il quotidiano. Non è che leggere, oggi, mi interessi più di tanto ed allora, celato dietro le pagine, mi diletto a guardarmi intorno. Sulla panchina alla mia destra c'è seduta una giovane mamma con un bimbetto di tre-quattro anni che le gira intorno; la signora è in compagnia di un'amica e parlotta con lei a bassa voce, ma non tanto che mi sia impedito di ascoltare. Per lo più sono parole di nessun interesse, ma poi la conversazione finisce sulla chiacchiera e lì, vere o false che siano, se ne sentono sempre di belle; dal marito di un'altra amica, cornuta poverina da sembrare un capriolo, al figlio gay del vicino di casa, e, piatto forte del menù, una bella storia boccaccesca, i cui particolari non si riesce a capire come possano essere a loro conoscenza, visto non ne sono state protagoniste. "L'ho saputo dalla Mara, che glielo ha raccontato la Francesca", e già immagino che ogni concorrente di questa staffetta della maldicenza abbia voluto mettere qualche cosa di suo. Comunque, mai una volta, ripeto mai una volta, che le chiacchiere riportino notizie di persone che si sono distinte per le loro qualità, i loro meriti, le loro buone azioni. Eh, si vede proprio che di persone così non ne esistono; peraltro, che valido argomento di discussione potrebbe essere parlare del bene, quando è molto più attraente il male. Alla mia sinistra, la panchina è occupata da due giovani, un ragazzo ed una ragazza; li osservo bene e mi sembra che come due piccioncini stiano tubando, la qualcosa non mi dispiace: finalmente qualche cosa di autentico, di vero, di naturale. A dir la verità, forse stanno esagerando un po', perché la ragazza si china in avanti verso il basso ventre del ragazzo, muove il capo in su ed in giù, poi lo rialza di colpo con un'espressione stralunata. La cosa mi incuriosisce e mi scopro guardone, ma c'è qualche cosa che non mi convince ed è l'espressione impassibile del ragazzo. Mi alzo di scatto e cosa vedo mai: altroché attività orale; la fanciulla è sì chinata, ma con le dita tiene una cannuccia infilata nel naso con la quale aspira una certa polvere bianca contenuta in una bustina appoggiata sull'inguine del compagno. Provo un senso di schifo: sono giovani, sono due bei ragazzi, ma che bisogno hanno di sniffare cocaina. Me ne vado, perché non resisto oltre e sulla via del ritorno passo per il crocicchio ove stazionano pressoché permanentemente degli individui, per lo più donne, male in arnese, indaffarati a chiedere l'elemosina agli automobilisti costretti alla sosta dal rosso del semaforo. I più hanno un gesto di stizza e fingono di non vedere, ostentando un'indifferenza da esseri superiori; solo qualche guidatrice lascia cadere fuori dal finestrino poche monetine nelle mani di quei disperati; è che forse le donne sono più buone degli uomini? Non credo, a parte che nella fattispecie non si tratta di bontà, ma di un radicato concetto, più diffuso fra le femmine che nei maschi, che l'elemosina, specie quando è di poco valore, è un sacrificio da poco con cui ci si può mettere la coscienza in pace. Sono arrivato a casa e sono soddisfatto: ho tante cose da raccontare a mia moglie, tipo il salumiere che si è fatto la vicina di casa, no, meglio che si è fatto le vicine di casa…. Giorni felici Che cos'è la felicità? E' eterna? Mi sono posto spesso queste domande ed ogni volta ho trovato risposte diverse, perché differenti erano le situazioni. Ora, ammesso che non esista un concetto assoluto, eguale per tutti, di felicità, mi limiterò a delineare, almeno nel mio caso, che cosa intendo con questo termine. Ed ecco quali sono stati i miei giorni felici, almeno per quelli di cui ho memoria certa. Era uno splendido pomeriggio d'estate ed insieme con mia moglie abbiamo fatto una passeggiata sull'Alpe di Siusi; ad un certo punto, ad una curva del sentiero, ci siamo trovati dinnanzi un balcone naturale, che si affacciava su una piccola vallata. La visione è tuttora nitida: i contadini che rivoltavano il fieno messo ad asciugare, altri che lo raccoglievano e lo caricavano sui carri, il tutto con movimenti ritmici quasi rallentati; qua e là svolazzavano farfalle variopinte, in alto il cielo era di un azzurro appena punteggiato da qualche piccolo cirro ed il Sassolungo ed il Sassopiatto sembravano quasi dita protese a proteggere questo paesaggio meraviglioso. Di tanto in tanto i contadini intonavano nella loro lingua gutturale un canto popolare, semplice, ma perfettamente adatto alla scena, invero idilliaca. Ricordo che ad un certo punto io e mia moglie ci siamo guardati e ci siamo accorti di vedere con gli stessi sentimenti, le medesime emozioni, quella coreografia della natura, ed era tanto il grado di serenità che ci pervadeva che non proferimmo parola, quasi con il timore che i nostri suoni potessero rompere quel magico incanto. In altra occasione, la lettura di una poesia di un autore non famoso, di cui non ricordo neppure il nome, mi ha posto nella condizione di sentire un appagamento totale, di percepire con la mente il flusso del suo pensiero; era come se i versi entrassero nel mio animo, tanto le sensazioni che portava mi erano proprie, quasi una conferma indiretta dei miei reconditi pensieri e la certezza quindi che certe idee non erano solo frutto della mia immaginazione; in tal caso, l'emozione che si prova è talmente forte che ci si sente quasi librati nell'aria, una leggerezza che riviene unicamente dalla profonda sensazione di serenità. Dopo un periodo non certo breve di tristezze, dove la felicità poteva essere facilmente scambiata per lo stato d'animo sollevato di chi non ha una giornata peggio delle altre, dopo altre sensazioni, magari gioiose, ma che nulla avevano a che fare con l'essere felici, sono gradualmente andato incontro all'attuale periodo che, di tutto cuore, mi auguro mi accompagni sempre. Non è l'aver trovato, da vedovo non più giovane, la compagnia di una donna, non è l'amore che provo per lei, è qualche cosa di molto più complesso. La vita di ogni giorno insieme, un bisticcio, e poi l'immediata riappacificazione, i nuovi progetti, la continua ricerca di conoscersi meglio, due chiacchiere la sera a cena, il semplice bacio della buona notte, il caffè la mattina, insomma tante piccole cose che unite indubbiamente all'amore mi infondono un graduale senso di serenità, mi fanno ritrovare la gioia di vivere. Insomma, è lecito chiedersi se sono giorni felici e la mia risposta non può essere che sì, se, come nel mio caso, la felicità è rappresentata dalla serenità. Una domenica pomeriggio E' veramente un gran brutto tempo; freddo, pioggia, umidità assediano ormai da qualche giorno e siamo anche fortunati, perché, a differenza di altre zone d'Italia, da noi almeno non nevica. E' impensabile l'idea di fare un giro sui colli ed è senz'altro preferibile restare in casa, a godersi almeno il tepore domestico. Il problema è come passare il tempo; escludo senz'altro i programmi della televisione (qualche pellicola cinematografica più che obsoleta e comunque di scarso interesse, le solite tambureggianti notizie sportive, per non parlare del quasi centenario talk show). Decido allora di ascoltare un po' di musica buona, che mi consenta di evadere con la mente, ma restando ben abbarbicato a questa terra, dove, che lo vogliamo o no, dobbiamo vivere, e non solo di fantasie. Lei, invece, pur prestando orecchio alla musica, preferisce accomodarsi in salotto e ricamare; è un lavoro che le riesce molto bene e dire che è brava è dir poco, perché in questo non certo facile campo è una vera e propria artista; sotto le sue mani un pezzo di tela bianco a poco a poco si colora di mille fiori, di animali, di paesaggi, di icone sacre. E' un lavoro lungo ed anche faticoso, ma i risultati sono veramente sbalorditivi e non esito a definirli delle vere e proprie opere d'arte, al pari di certi arazzi cinquecenteschi presenti in bella mostra nel Palazzo Ducale di Mantova. Ecco, inserisco nel lettore un compact disk di musica classica, regolo il volume (mai troppo alto) e seduto sulla poltrona sono pronto ad essere rapito dalle note melodiose. Si comincia con un pezzo "di stagione" (Le quattro stagioni) di quel gran genio italico che corrisponde al nome di Vivaldi; salto l'Estate, l'Autunno e l'Inverno e vado direttamente alla Primavera per quel desiderio sempre più forte di uscire dall'opacità di queste giornate fredde e grigie. Chiudo gli occhi e mi immergo nella musica; la fantasia galoppa e per la mia mente passano immagini già tante volte ammirate: alberi in fiore, cieli azzurri punteggiati da bianche nuvolette, uccellini che si rincorrono innamorati nel giardino, un gatto sornione che li osserva, un uomo, che dovrei essere io, anche se senza volto, che passeggia con il suo cane, due mani che si sfiorano, due sguardi che si incontrano, due corpi che si uniscono in un abbraccio tenero e dolce. Ogni tanto mi scuoto e vado in salotto: lei è là che ricama, mi guarda e non dice nulla, ma i suo sorriso esprime assai di più di tante parole. Adesso sto ascoltando uno dei miei brani preferiti: il Canone in re maggiore di Pachelbel. E' una musica semplicemente divina, con il motivo che si rincorre in un crescendo di strumenti, fra i quali, i violini, mi fanno venire i brividi. Mi sono chiesto tante volte come un essere umano possa comporre della musica così bella, una melodia soave che giunge dritta al cuore, e la risposta è sempre stata la stessa: c'è chi ha la grazia di allietare gli altri e fra gli altri c'è chi, come me, apre completamente se stesso alla musica, accoglie le note nel suo animo, cerca di far sì che possano diventare una fonte di ispirazione onde contraccambiare in altro modo l'immenso regalo offerto dal compositore. Ed ecco, allora, che quasi all'improvviso mi appaiono davanti agli occhi delle parole dapprima slegate, ma che poi gradualmente si associano dando forma a periodi, ad espressioni di sensazioni, a messaggi inconsci che finiscono con il costruire un breve componimento, una poesia, insomma una creazione, per quanto modesta se confrontata con la fonte ispiratrice. Già il grigio sta divenendo buio e la mia camera, con la poca luce rimasta, assume i contorni di un quadro di qualche autore fiammingo: è prossima la sera e decido di terminare in bellezza. Inserisco nel lettore il compact disk con il celeberrimo "Adagio" di Albinoni, alzo di poco il volume e vado in salotto ad ascoltarlo accanto a lei. La musica si diffonde soave ed appoggio il mio capo sulla sua spalla; ha smesso di ricamare e mi accarezza i pochi capelli; non sogno più, ma mi lascio semplicemente cullare dalle note e dalla dolcezza dei movimenti della sua mano. E' una sensazione meravigliosa, è la più bella delle poesie; di certo non potrò più dire " che noioso un pomeriggio di domenica trascorso in casa". L'annuncio Martina si interruppe e guardò il volto dei figli che la fissavano quasi increduli; ci fu un lungo silenzio, poi Claudio disse" E' una cosa seria, mamma? Sappiamo che ti sei tanto sacrificata per noi, ma siamo troppo abituati a vederti, e adesso il fatto che tu ne vada via, peraltro con un uomo, mi sconcerta; spero che tu ci abbia pensato bene, che quest'uomo non si riveli diverso da quello che dici; è però vero che ora noi abbiamo le nostre famiglie, la nostra vita, e non possiamo pretendere che la nostra mamma continui a vivere nella nostra ottica". "Mamma, sono contenta" disse semplicemente Angela. I tre si abbracciarono, poi Claudio, stringendo con le proprie le mani della madre, si sentì in dovere nuovamente di parlare "Chi è? Ce lo puoi dire?". " E' un uomo di poco più vecchio di me, vedovo senza figli, una persona dolcissima, che in parte già conoscete, perché le poesie che vi ho fatto leggere e che vi sono tanto piaciute sono opera sua" " Ce lo farai conoscere, spero?" esordì Angela. "Certamente" "Quando?" all'unisono i due figli. "Subito, è fuori che aspetta" Martina aprì la porta e fece accomodare l'uomo. "Ecco Giacomo" L'uomo guardò i ragazzi; sembrava impacciato, poi mettendo una mano sulla spalla di Martina, disse "Vedete, non mi è facile parlarne, non ho mai avuto figli; quello che vi posso dire è che io amo vostra madre e che lei ama me; le mie intenzioni sono serie; siamo verso la fine della nostra vita ed il nostro sogno è di viverla insieme, senza peraltro creare alcun pregiudizio a voi. Vostra madre verrà ad abitare con me, ma potrete vederla quando volete e sarete sempre i benvenuti. Poi verremo anche a trovarvi. Non chiediamo molto, chiediamo semplicemente di poterci rifare una vita; in fin dei conti, se fra di noi è sbocciato l'amore, è perché il destino, è perché Dio ha voluto così. La mamma si è tanto sacrificata per allevarvi, ha rinunciato alla compagnia di un uomo unicamente per voi, ma ora siete cresciuti, vi siete fatti una famiglia e di questo entrambi siamo contenti; ora però vorremmo farci anche noi una famiglia, della quale idealmente farete parte. Non potrò essere vostro padre, neanche quello putativo, ma di qualsiasi cosa abbiate bisogno, di qualsiasi problema vogliate parlare, rivolgetevi pure a me come un amico sincero e fidato, in modo che sia veramente una grande famiglia. Ho finito" Ci fu un lungo silenzio, poi Angela strinse la mano dell'uomo, seguita da Claudio. Il sole, nella breve giornata autunnale, stava già calando; gli ultimi raggi illuminavano a stento la camera, ormai semibuia. Giacomo guardò Martina; il suo volto, con la luce fioca, era in chiaro scuro ed a malapena si vedevano i delicati lineamenti, ma, per quanto fosse poca la luce, gli occhi, benché umidi, brillavano di felicità. Il rumore del silenzio "Vedi, se vieni a lavorare in città avrai un miglioramento economico che neppure te lo immagini; potrai vivere in un appartamento moderno, con lavastoviglie, televisore, e magari, se sarai parsimonioso nello spendere, potrai anche permetterti una bella auto" Pietro guardò perplesso il commerciante di legname, corrugò la fronte, strinse le labbra e poi disse "Va bene, ma lasci che ci pensi un po' e ne parli prima a mia moglie." "Non c'è problema, ma voglio una risposta entro la fine della prossima settimana; non preoccuparti, la città per chi non è abituato all'inizio fa un po' paura, ma poi, poi ti accorgerai di tutti i pregi che ha." Detto questo, il commerciante di legname salì sul suo superlussuoso fuoristrada e si allontanò in un turbinio di polvere. Pietro guardò l'orologio e vide che era il tempo di tornare a casa. Già il sole cominciava a scendere dietro le montagne e presto avrebbe fatto buio; era meglio partire, perché la strada da fare non era poca, specie se percorsa a piedi e dopo una giornata di lavoro trascorso a tagliar piante. Così si incamminò di buon passo lungo la carrozzabile polverosa che, un tornante dopo l'altro, scendeva a valle; quante volte aveva fatto quella strada Pietro non lo ricordava neppure; tante erano state che quel percorso era come diventato parte della sua vita; lo conosceva talmente bene che lo avrebbe potuto fare ad occhi chiusi. Mentre camminava, continuava a pensare a quell'offerta di lavoro così ben remunerativa che gli era appena stata fatta, alle tante comodità che mancavano a casa sua e che probabilmente avrebbe potuto avere in città; già si vedeva a bordo di un automobile, magari niente di speciale, ma pur sempre un veicolo a quattro ruote in grado di portare ovunque lui e la sua famiglia; eh sì, era proprio un'offerta allettante. Tuttavia, più ci pensava, più sentiva accrescere in sé un senso di vuoto; di tanto in tanto volgeva lo sguardo intorno: ecco là si intravedeva il candore del ghiacciaio del Lys, più sotto, seminascosta dal folto bosco di abeti, si scorgeva la cascata del Tudor; ma non era necessario spaziare con lo sguardo all'orizzonte per cogliere tanti segni che accrescevano la sua malinconia; era sufficiente guardare oltre il bordo della strada per sentirsi immersi in quella natura che ora gli sembrava ancor più bella. E poi il silenzio, un silenzio che non incuteva timore, perché era proprio delle cose. Si sentì stringere alla gola pensando di abbandonare tutto quanto, perpetrando così un tradimento nei confronti del mondo in cui aveva sempre vissuto, ed a poco si convinse che accettare sarebbe stato come tradire se stesso. La risposta, però, non doveva essere solo sua; sua moglie aveva forse più di lui il diritto di decidere, lei che mandava avanti la casa e che chissà quanto desiderava le comodità di una vita moderna. Ormai il buio era diventato profondo quando Pietro arrivò alla sua abitazione, una piccola modesta casa che gli avevano lasciato in eredità i suoi genitori. Spiegò brevemente alla moglie l'offerta e poi le disse "Che cosa ne pensi?" "Ma, mi sembra buona; ci permetterebbe di avere tante cose che ci mancano, ma…" e si fermò un momento, volgendo lo sguardo verso la finestra dove si intravedevano ancora i primi abeti del bosco. "Ma…, è poi vero che ci mancano tante cose? Quelli della città che vengono a villeggiare da noi d'estate dicono che viviamo in un paradiso. E forse è vero, perché nulla è più bello di quanto ha creato Dio e l'uomo ha lasciato intatto; qui siamo noi stessi, qui siamo come…, come non potremmo essere mai se andassimo in città in quel frastuono che nulla ha a che fare con il meraviglioso rumore del silenzio della natura, un brusio fatto dal vento fra le piante, dal gorgoglio dei ruscelli, dalle mille voci dei suoi piccoli e grandi animali, dal battito dei nostri cuori." Pietro non disse nulla e, abbracciandola, osservò sorridente il bosco illuminato dalla luna. Un giorno come tanti Era una brumosa giornata di novembre; già gli alberi avevano perso le foglie e gli ultimi migratori si erano involati verso calde mete lontane. Paolo procedeva spedito; non voleva far tardi al lavoro. Era un uomo metodico e pignolo, tutto ufficio e casa. La sua vita era una successione di eventi sempre uguali e questa monotonia, a cui lui non dava peso, aveva finito per incrinare il rapporto con la moglie; non che i due vivessero separati, ma quella gioia di vivere insieme che aveva caratterizzato i primi anni del matrimonio era lentamente scemata e la relazione era diventata una pura e semplice abitudine. Temeva di far tardi ed accelerò il passo, ma a sbarrargli la strada procedeva assai più lentamente dinanzi a lui una figura femminile; le fu in breve a tergo, ma non riusciva a sorpassarla, poiché il marciapiedi era stretto e scendere sulla strada, data l'ora di traffico assai intenso, era un rischio troppo grosso. "Mi scusi, si può far da parte; ho urgenza." La figura femminile si fermò, si volse all'indietro e… "Ma tu non sei Paolo?" "Sì, sono io, e forse tu sei Giulia." Era proprio Giulia, un'amica della prima gioventù, già allora bella ed ora, con la maturità, ancor più bella. "Quanto tempo che non ti vedo, Paolo; saranno almeno vent'anni." "Purtroppo di più, ma per te il tempo non sembra essere trascorso; ti trovo in splendida forma e, se mi consenti, sei sempre bellissima." "Sei troppo buono; gli anni sono passati anche per me. Come va? Sei sposato?" "Sì" "Anch'io; hai figli? Io non ne ho." "Pure io senza figli." E sentì la fretta gli stava passando, anzi non desiderava più andare al lavoro per quel giorno, o meglio, desiderava una sola cosa: cedere all'irresistibile attrazione per Giulia. Tuttavia, pensando alla moglie, gli occhi divennero malinconici, nel contrasto fra il desiderio ed il venir meno alla sua fedeltà. "Che hai Paolo? Non mi sembri felice; hai qualche problema?" "No, il problema sono solo io, questo mio carattere che mi ha imposto di condurre una vita piatta al punto tale da non provare più emozioni." "Se è per questo, si può cambiare, basta che tu lo voglia." "Dici bene, ma sono ormai anni che vivo così, non sono più giovane e non vedo come potrei." "Se stai andando al lavoro, oggi non andarci, ma passiamo la giornata insieme; due passi, un caffè, il pranzo ed un giro al parco dei divertimenti; vedrai che forse ti cambierò, ti darò quella gioia di vivere che hai perso per strada." "Ma, sarà, ma ci credo poco; parli così perché probabilmente tu sei felice." "Sì, sono felice, amo mio marito e lui ama me." Come da programma, presero il caffè, andarono a zonzo per la città. Ad ogni ora che passava Paolo sentiva uno strano rimescolamento, un crescente desiderio di novità, di aprirsi ad ogni esperienza della vita. A pranzo, poi, nel ricordare la gioventù, prese coscienza di come erano stati belli quei tempi e sentì accrescere l'attrazione per Giulia; la fissò più volte per scorgere in lei un analogo sentimento verso di lui, ma sempre la donna evitò, volutamente, gli sguardi. Il pomeriggio al parco dei divertimenti fu l'apoteosi della giornata; Paolo si scoprì a ridere sulle montagne russe e, con la scusa della velocità, abbracciò Giulia che, tuttavia, non contraccambiò. Alla fine della giornata, sempre nebbiosa, Paolo si sentì trasformato, avvertì chiaramente la voglia di vivere che era ritornata in lui. Sapeva anche che da lì a poco si sarebbero lasciati, ma cresceva la speranza, quasi la certezza, di rivederla. "Grazie per la stupenda giornata; a quando la prossima?" Giulia si irrigidì all'improvviso "Paolo, questa è stato un giorno trascorso da amici, e nulla più. Ti ho già detto che amo mio marito e se sono stata con te è esclusivamente perché ti voglio bene; ricordo ancora quando mi aiutavi a scuola, quando eri così allegro e spensierato, ben diverso dal Paolo che ho incontrato questa mattina, ma che ora mi sembra ritornato quasi quello di un tempo. Adesso ti lascio, come si lascia un vecchio amico e tu farai altrettanto." La donna si volse ed iniziò a camminare con passo veloce. Paolo la seguì con lo sguardo finché poté, poi si avviò verso casa. Alla moglie che gli chiese come era andata la giornata, rispose "Un giorno come tanti", ma sapeva che non era così. L'inverno dentro Più il tempo passava, maggiore era il desiderio di rivederla. Da quando lei lo aveva lasciato, Giovanni era diventato un cane randagio, senza più amici, privo di scopi e di motivazioni. Era stato quello che si dice un grande amore, ma il sentimento si era affievolito con il trascorrere dei mesi, così che arrivati all'inverno aveva finito con l'avvizzirsi ai primi freddi. Nonostante l'evidente impossibilità di una prosecuzione, nessuno dei due aveva in animo di prendere una decisione, ma poi lei aveva conosciuto un altro uomo ed una sera aveva detto "Basta, non ti voglio più". All'inizio a Giovanni parve di avere riacquistato la libertà dello scapolo, ma fu una soddisfazione di breve durata; con le festività del Natale si accorse che lei gli mancava e da allora si sentì il più infelice degli uomini. Passava il tempo libero in casa a commiserarsi, a sperare in una sua improbabile telefonata; un altro si sarebbe messo il cuore in pace, ma lui no, perché con la lontananza era ritornato in lui l'amore nel ricordo dell'iniziale passione travolgente quando tutto sembrava meraviglioso e nulla lasciava presagire l'esito della storia. Dei giorni di noia, di intolleranza non voleva serbare ricordo e così non si domandò il motivo per il quale tutto era finito, o meglio gli sembrò una ragione insignificante. Eppure, l'amore iniziò a cessare quando lui lo considerò un qualche cosa di acquisito, una routine quotidiana al pari di preparare il cibo. Non fu un atto di volontà, ma si arrivò ad un giorno in cui la paura inconscia che tutto potesse finire scomparve dal suo animo, e con essa le attenzioni, la gestualità dolce, le parole sussurrate; aveva dimenticato le parole del suo vecchio padre "L'amore cresce senza che ce accorgiamo e poi esplode; ed altrettanto in silenzio si spegne senza che lo vogliamo; l'unico modo per mantenerlo è di coltivarlo, di alimentarlo, di sentirlo come se fosse la prima volta che resti affascinato dalla tua donna." Il tormento di quell'amore finito era diventato per Giovanni una vera ossessione e, sebbene si fosse in primavera, sentiva l'inverno dentro di sé; quanto aveva voglia di vederla, di parlarle, di cominciare di nuovo come se nulla fosse accaduto. Alla fine prese una decisione; le avrebbe telefonato e così fece. "Pronto, Sonia, sono Giovanni, come stai?" "Bene, e tu?" "Bene fuori, male dentro; non riesco più a stare senza di te, la vita senza la tua presenza non è vita." "Mi dispiace, Giovanni, ma è tutto finito; per un po' è stata una bella storia d'amore, ma poi ci siamo distanziati, ed abbiamo inconsciamente preso due strade diverse." "Uniamo queste due strade e proseguiamo insieme." "Non è possibile, e lo sai." " Sei insieme a quell'uomo?" "No" "E allora, che problemi ci sono?" "Il problema siamo noi, tu ed io; vedi, il nostro amore non è finito quando ti ho lasciato, ma prima, quando tu ti sei lentamente stancato." "Ma ora mi sento di ricominciare con tutte le mie forze." "Però, c'è un però; quando ti sei allontanato da me, io non ho fatto nulla per ravvivare il nostro rapporto, perché…perché mi sono accorta che l'uomo che avevo amato non era quello che avevo sognato; vedi, nonostante tutto, ti voglio bene, ma niente di più. Ora metto giù il telefono, perché è inutile continuare questa conversazione. " "Aspetta, lasciami spiegare…" Un click segnò il termine della telefonata. Giovanni ripose la cornetta, unì le mani e con disperata certezza capì che Sonia aveva ragione. A futura memoria E' passato ormai tanto tempo, quasi un secolo, e quei nomi incisi nella lapide sul frontale della chiesa del villaggio, a futura memoria di chi è caduto per la patria, non sono altro che lettere sconosciute ai più. Vado spesso in quel dolce paese di montagna, ai piedi delle dolomiti, sia per il clima mite che per il paesaggio di una bellezza indescrivibile ed un giro per le strade a curiosare la merce esposta nelle vetrine ormai è divenuto un obbligo. Il borgo, cent'anni fa invero di modeste dimensioni, si è notevolmente ampliato in forza del crescente afflusso turistico, ma le caratteristiche dei suoi abitanti sono rimaste immutate ed ancor oggi la domenica non è difficile vedere qualche coppia avviarsi alla messa nel tradizionale costume tirolese. La chiesa, con retrostante cimitero, è nella piazza del paese e le riservo sempre una visita, per la sua innata austerità; non manco di soffermarmi davanti alla lapide e leggi oggi e leggi domani quei trenta nomi ivi impressi hanno finito per rimanermi nella mente, in particolare uno: Alfred Meister. Perché questa preferenza? Perché è morto l'ultimo giorno della prima guerra mondiale all'età di ventidue anni. Ho chiesto in giro se aveva ancora dei parenti, anche alla lontana, ma tutti hanno scosso il capo; poi un giorno, mentre sedevo su una panchina della piazza, ho visto il parroco uscire dalla chiesa e mi è balenata un'idea. L'ho avvicinato e accennando alla lapide gli ho chiesto se qualcuno sapeva di questo Meister. E' rimasto un attimo assorto, poi mi ha pregato di seguirlo in canonica, dove ha frugato fra libroni vecchi e polverosi, trovandone alla fine uno. L'ha consultato a lungo, poi con un sorriso di compiacimento mi ha detto che ero fortunato, e nello stesso tempo sfortunato, perché Meister era un orfanello, o meglio ancora un trovatello, e che quindi non aveva già all'epoca parenti. Proprio per questo i suoi effetti personali erano stati inviati alla parrocchia e probabilmente si dovevano trovare lì. Avrebbe provveduto a cercarli e poi si sarebbe fatto vivo con me. Uscii in verità un po' disilluso, sia perché temevo che il parroco sarebbe riuscito a trovarli, sia perché non mi aspettavo nulla di interessante nella visione di quelle poche cose. Ed invece mi sbagliavo, perché già il giorno successivo il sacerdote si mise in contatto con me e potei così aprire una piccola cassetta polverosa, dove fra poveri indumenti trovai un libricino che, esaminato, si sarebbe rivelato per un diario di incredibile interesse. Molte pagine riportavano eventi comuni, o comunque di scarsa importanza, ma alcune furono un'autentica rivelazione che mi permisero di conoscere Alfred Meister, benché non l'avessi mai visto e ne ignorassi le sembianze. Fu un lavoro difficile, e per la calligrafia minuta, e per la diversità della lingua, ma alla fine ogni sforzo fu ampiamente ricompensato. In particolare, alla pagina 10 Meister scriveva " Non so se gli italiani sono così cattivi come li descrive il tenente, ma di una cosa sono sicuro: questa guerra fa paura a loro come a noi. Prima di ogni attacco non pochi disertano e ci chiedono di essere fatti prigionieri; non ignorano che non possiamo dar loro da mangiare, perché non ne abbiamo neppure per noi, eppure preferiscono la morte per fame all'orrore della guerra; li chiamano disertori, ma hanno più coraggio di chi resta al suo posto, anche se forse è il solo coraggio che viene dalla disperazione." Alla pagina 35 "Oggi è morto Fritz, il mio più caro amico; era accanto a me nella trincea e stavamo parlando, quando si è sentito un colpo di fucile; è scivolato a terra senza un grido, un lamento, mentre un rivolo di sangue gli usciva dalla fronte; è da tre anni che faccio questa guerra e di amici ne sono rimasti pochi; Fritz era l'ultimo. A che serve un sentimento come l'amicizia, a sopportare meglio i patimenti della guerra o a disperarsi quando uno di noi se ne va?" Pagina 47 "Domani dovremo attaccare il nemico; non l'ha detto nessuno, ma hanno fatto una distribuzione straordinaria di grappa; sempre così quando ci si deve preparare a morire; l'alcool ottenebra i sensi, toglie ogni volontà." Pagina 48 "Abbiamo attaccato, siamo stati respinti, siamo ritornati all'assalto e ci hanno ricacciato indietro. Abbiamo avuto perdite pesantissime: siamo rimasti in quindici di un'intera compagnia. Anche gli italiani hanno avuto molti morti; questa è una guerra che viene vinta solo da chi ha più soldati da gettare allo sbaraglio e chi trionferà rischia di far più facilmente la conta dei sopravvissuti che non quella dei morti." Pagina 61 " La vita in trincea è un inferno tale che non mi importa più di vivere o di morire, anzi quasi invidio chi mi ha già lasciato ed ha quindi posto fine alle sofferenze." Pagina 65 " E' settembre e la guerra è già persa; tutti lo sanno, anche se nessuno lo dice; che senso ha continuare." Pagina 71 "Sono arrivate le nebbie di ottobre e con queste la certezza della sconfitta; migliaia di morti per niente e chi è rimasto vivo e sopravviverà non sarà più lo stesso, perché l'orrore è entrato in noi; siamo ormai nient'altro che dei morti viventi." Pagina 92 "E' il 3 novembre e si è sparsa la voce che domani vi sarà l'armistizio; non mi importa che questo macello finisca; dalla vita non ho avuto niente, nessun affetto; gli anni in cui speravo di poter conoscere l'amore mi sono stati sottratti da questa guerra; sono diventato vecchio prima del tempo e la vita per me non ha più senso." Pagina 93, riporta poche righe e si interrompe nel mezzo di una frase "Oggi finirà; è un'umida giornata di novembre, uguale a tante altre. Non so che farò dopo, se ci potrà essere un dopo, ma…." Allegata agli effetti personali ed al diario c'era una lettera del Ministero della Guerra ove si diceva, fra l'altro "Il soldato Alfred Meister è deceduto il 4 novembre 1918 sul fronte meridionale, colpito dal proiettile di un cecchino mentre incautamente si ergeva per guardare il cielo". Non avrei potuto conoscere Alfred Meister in modo migliore neppure se fossi sempre stato accanto a lui. Una bellissima giornata di febbraio Tutto il paesaggio era avvolto dalla nebbia ed a stento si indovinava il profilo delle colline, ricoperte da una spessa coltre di neve. Il tempo era ormai così da giorni; ad una iniziale abbondante nevicata, erano seguiti giorni in cui la nebbia era tanto fitta che la luce del sole non riusciva a passarla. La temperatura non era comunque così rigida dall'impedire una passeggiata e così Pietro, ben coperto, seguiva la strada che portava alla Pieve camminando sul ciglio. Il silenzio, pressoché assoluto, era interrotto solo dal crepitio dei suoi piedi sulla candida coltre, ormai gelata. La solitudine, l'assenza di rumori e la più che imperfetta visibilità gli permisero di fare il punto della situazione su quanto gli era accaduto il giorno prima. Aveva conosciuto una donna quale non gli era mai capitato di vedere; un essere dolce, sensibile, dalla conversazione fatta di poche mirate parole e di significativi silenzi, ed inoltre era bella, di una bellezza non appariscente, ma totalmente appagante. Se ne sentì subito attratto, ma si frenò nel manifestarlo; dalla vita aveva avuto troppe delusioni in campo sentimentale e non voleva che potesse accadere anche questa volta. Se lei provasse la stessa sensazione nei suoi confronti non riusciva a capirlo, perché la donna mascherava abilmente le sue eventuali emozioni; non che fosse un tipo freddo, ma probabilmente era cauta quanto lui e forse anche lei era reduce da esperienze non positive, e per questo dolorose, perché non c'è di peggio di illudersi di amare e di essere riamato, quando poi la realtà si abbatte su di te come un maglio. Mentre camminava continuava ad affacciarsi l'immagine di lei e sentiva crescere dentro di sé la fiducia nel suo sentimento; non era ancora amore, ma ormai era ben oltre l'attrazione; era un desiderio pressante di rivederla, di poterle parlare, di abbracciarla. "Troppo, presto; pensaci bene, usa la testa e non solo il cuore" diceva fra sé, ma si accorgeva che ormai il cuore stava prendendo il sopravvento. Passo dopo passo, pensiero dopo pensiero, si accorse di essere arrivato alla Pieve, una povera, ma incredibilmente sublime chiesetta di campagna, lontana dai clamori del mondo, ma proprio per questo il luogo ideale per stare con se stessi, per pregare in silenzio con parole mute che arrivavano più direttamente a Dio. Aprì la porta: un piccolo altare, un crocefisso e tre panche era tutto l'arredo, poco, ma anche molto, perché c'era l'indispensabile e non il superfluo per mettersi in contatto con il cielo. Si accomodò su una panca ed in silenzio si rivolse a Dio. "Che faccio, come posso essere sicuro che questa sarà la volta buona; non voglio soffrire ancora, né far soffrire; chiedo solo di amare e di essere riamato; desidero solo che la mia vita abbia finalmente un senso, uno scopo che mi distolga dalla solitudine del mio cuore. Tu che sei l'amore in persona sai cosa voglio dire, mi puoi capire; ti prego dammi un segno, una prova, una risposta all'angoscia che provo da ieri." Il silenzio era sempre assoluto; nella scarsa luce si intravedeva il crocefisso di legno appeso al muro. Pietro lo fissò quasi a cercare quella risposta che non venne. Rimase assorto ancora qualche minuto, poi decise di ritornare sulla via di casa, ma mentre si alzava dalla panca la porta si spalancò come per effetto di un colpo di vento. Pietro si volse a guardare di fuori e notò subito che la nebbia si era dissolta, giacchè ora si vedevano benissimo le colline e la stradina che portava alla Pieve. Su quest'ultima avanzava una figurina esile. Cercò di vedere chi fosse e la riconobbe. Si mise sulla porta ad aspettarla e quando arrivò non disse nulla; la strinse semplicemente a sé e chiaramente avvertì il calore con il quale quell'abbraccio veniva contraccambiato in quella bellissima giornata di febbraio. Lo straniero E chi non la conosceva, la Palmira? In paese era ormai diventata una vera e propria istituzione, desiderata dagli uomini ed odiata dalle donne; non c'era un maschio, forse ad eccezione del prete, che non avesse trascorso una notte con lei; per i più giovani rappresentava l'occasione del primo rapporto d'amore, mentre per i più vecchi restava solo il ricordo della "prima volta". Non lo faceva per mestiere, ma per vocazione; si sentiva un'eletta, colei che era stata chiamata ad essere la dispensatrice dell'amore. Religiosa, non mancava di confessarsi ogni settimana ed il prete aveva così la conta di quanti se ne era portati a letto in quei sette giorni; l'assoluzione, dato anche il caso, era un obbligo e le penitenze tenevano conto più che delle colpe del numero delle stesse. Non era una bellezza la Palmira, ma il fatto di essere così disponibile la rendeva irresistibilmente attraente, al punto che le mogli, pur disprezzandola, si erano rassegnate a considerarla parte del menage familiare. Chi aveva buona memoria ed un'età non più giovane ricordava che era sempre stata così, fin da ragazzina; strano a dirsi, ma si era sposata, trovando come marito un uomo insignificante, innamorato più dell'alcool che della moglie. Ovvio che da tutti fosse considerato "un becco", ma questo non sembrava dargli fastidio, anzi ne andava quasi orgoglioso. La coppia, per fortuna, non aveva avuto figli, come non ne erano venuti dagli amanti, perché la Palmira prendeva le sue buone precauzioni, e d'altronde allevare dei bambini avrebbe costituito un problema, dato che il marito non lavorava e che l'unica che provvedeva al sostentamento era solo lei con la sua attività di ricamatrice, un lavoro in cui, a detta di tutti, era veramente brava. Così, fra un amplesso e l'altro, da quelle mani uscivano delle bellissime lenzuola, delle tovaglie delle grandi occasioni, che venivano commissionate dalle future spose, ben sapendo che i prossimi mariti avrebbero fatto di tutto per conoscere da vicino l'artefice di quelle vere e proprie opere d'arte. Tutto procedeva con regolarità fino al giorno in cui in paese comparve lo straniero, un uomo di normalissimo aspetto, ma che emanava un fascino del tutto particolare: quello dell'ignoto. In un luogo dove tutti sapevano vita, morte e miracoli, gli uni degli altri, ignorare chi fosse effettivamente quest'uomo costituiva una curiosità irresistibile, cosicché tutti cominciarono a parlarne, dando per certe ipotesi del tutto inattendibili, ma senza mai pervenire alla verità. La Palmira finì con il passare, nel chiacchierio, in secondo piano; ma la donna si dimostrò più interessata dei suoi compaesani e fece di tutto per attirare l'attenzione dello sconosciuto, ma questi sembrava insensibile alle moine, ai sorrisi, agli accenni, perfino alle trasparenze dei vestiti appositamente indossati. Era un atteggiamento che alla Palmira non poteva andar giù; era un uomo nuovo, lo voleva, ma lui restava freddo, inerte. La cosa andò avanti per un po' di giorni, mentre accresceva il nervosismo della Palmira; arrivò al punto di dirgli apertamente che voleva portarselo a letto, ma questi accennò un sorriso e chiuse il discorso con un "Non ho sonno". Peraltro, quelli del paese si auguravano che l'azione avvolgente della donna avesse successo, sperando così di poter poi avere notizie certe da eventuali dialoghi nel talamo, soprattutto i maschi, che si vedevano preclusa la possibilità della solita avventura; eh sì, perché la Palmira non aveva più occhi per loro. Poi, un giorno, all'improvviso come era arrivato, lo sconosciuto se ne andò. La faccenda sembrò avviata al dimenticatoio quando qualcuno cominciò a notare un progressivo ingrossamento dell'addome della Palmira, prima appena accennato, poi sempre più pronunciato; insomma la donna era inequivocabilmente incinta. E quando dopo nove mesi nacque un bel maschietto, si fece alla svelta a fare i conti: andando a ritroso, guarda caso, il concepimento doveva essere avvenuto proprio durante il soggiorno dello straniero. La Palmira fu stretta d'assedio; tutti volevano sapere chi era lo sconosciuto, ma non ebbero risposte; forse l'unico che potè conoscere la verità fu il prete, ma si sa che ciò che viene detto in confessione è segreto. Il bimbo crebbe e diventò un bell'uomo; la Palmira, che dopo il concepimento non ebbe più rapporti con i maschi del paese, invecchiò oltre misura e morì anzitempo. Il prete, durante la cerimonia funebre, disse queste parole: " So che voi tutti volete sapere chi fosse lo straniero, ma non ve lo dirò; vi basti sapere che lo ignoro pure io, perché la Palmira in confessione mi ha solo detto che in vita sua non aveva mai conosciuto una persona così umana, così sensibile, così diversa dalle altre e che lei se ne era innamorata a tal punto che solo a seguito delle sue preghiere aveva avuto un rapporto con lui; non aveva usato precauzioni, al solo scopo di poter conservare sempre qualche cosa di lui; chi era quest'uomo? Era uno meglio di voi, uno che è riuscito a ridare la dignità ad una donna che chiamavate "la puttana", ma con la quale andavate a letto". La pesca miracolosa Jacopo faceva il pescatore da tanti anni che neppure lui si ricordava da quando; era un lavoro che gli aveva sempre fornito di che sfamarsi, ma da un po' di tempo ritornava sempre con le reti vuote, senza neppure un pesciolino. Dava la colpa di questa sfortuna all'incapacità di poter remare fino al largo a causa della sua età ormai avanzata, aggravata dagli stenti dell'ultimo periodo. Del resto, non se la passavano meglio gli altri abitanti del villaggio: una carestia aveva colpito l'intera regione ed il cibo era ormai diventato una rarità. Ovunque si vedevano facce smunte, corpi scheletriti che si trascinavano penosamente alla ricerca di qualche erbaccia, anche questa diventata una rarità. Quella mattina Jacopo era andato a pesca; era talmente stremato che per spingere in acqua la barca si era dovuto far aiutare da alcuni suoi vicini di casa, mentre gli altri attoniti osservavano l'operazione. E quando aveva iniziato a remare penosamente, quei poveri esseri, con un filo di voce, gli avevano quasi sussurrato "Cerca di prenderne, fai il possibile". Dopo un ora si era allontanato dalla riva di appena una cinquantina di metri; calare le reti fu uno sforzo sovrumano; Jacopo vacillava e, se non si fosse legato all'imbarcazione, sarebbe caduto certamente in acqua. E poi ci fu il non meno estenuante lavoro di tirarle a bordo; il pescatore guardava le reti affiorare dall'acqua e con sgomento vide che anche questa volta erano vuote. Solo quando l'ultima fu caricata sulla barca scorse fra le maglie un piccolo pesciolino, quasi un'inezia, ma Jacopo sentì venirgli l'acquolina in bocca. Se lo pose sul palmo della mano ed avvertì la forte tentazione di inghiottirlo, ma poi concluse che per lui non avrebbe significato un gran che, mentre invece avrebbe potuto calmare i morsi della fame di qualche bambino. Tornò a riva sconsolato ed alla folla che l'attendeva fece vedere la minuscola preda, dicendo "E' talmente piccola che può solo soddisfare un bimbo di pochi anni, il più giovane, e dargli la speranza di poter vivere ancora un giorno, e forse, se sarà fortunato, di vedere altri giorni." Parole assennate, ma la fame è fame e, nonostante l'apatia e la rassegnazione che nascono da uno stomaco vuoto, la vista di qualche cosa di mangiabile altera la mente e fa sorgere una forza inaspettata. La folla circondò Jacopo minacciosamente, tutti cercarono di afferrare il pesciolino, ma il pescatore lo teneva ben stretto in pugno; fu spintonato, gettato a terra, si infierì su di lui. Benché ormai agonizzante, comprese che chi avrebbe avuto quella preda avrebbe fatto subito la sua stessa fine ed allora decise, con le ultime forze, di gettarla in acqua. Questo gesto calmò la ferocia della folla, che si allontanò di qualche passo, vedendo quel povero corpo martoriato supino. Jacopo, con gli occhi annebbiati, li guardò; li conosceva tutti uno ad uno, non erano cattivi, erano semplicemente in preda al delirio della fame e, nel raccomandarsi l'anima a Dio, invocò l'onnipotente "Oh Signore, li perdono, perché hanno fatto tutto questo senza volontà. Perdonali anche tu e fa che non possano commettere altre cose sconsiderate; dà a loro un segno della tua presenza, fa che essi possano vivere." E fu allora che le acque si mossero in un turbinio di schiuma e migliaia di pesci ne uscirono saltando sulla riva; la gente li prendeva con le mani, si riempiva la bocca, saziava finalmente i morsi della fame; poi, si misero in ginocchio dinanzi al corpo esanime di Jacopo ed in silenzio gli chiesero perdono, ringraziandolo per il suo sacrificio. Sono da allora passati tanti anni, dei secoli, il villaggio è diventato una cittadina con una bella chiesetta che ha un unico affresco: quello di un vecchio pescatore che stringe in pugno un pesciolino; sotto ardono le candele che la devozione dei fedeli fa accendere. Jacopo non è diventato santo, ma il ricordo perenne di quello che fece si tramanda da generazioni. Il tempo andato Massimo gettava di tanto in tanto sassolini nello stagno ed osservava i cerchi che si andavano allargando per poi andare a smorzarsi contro le sponde; il tempo non passava mai, le lancette dell'orologio sembravano andare a rilento. Era arrivato in anticipo all'appuntamento e l'ora concordata era ormai assai prossima senza che lei apparisse. L'aveva conosciuta tanti anni prima, in gioventù; non era stata più nulla che una semplice amicizia, né gli era mai passato per la mente di innamorarsene. Si erano poi persi di vista; erano trascorsi almeno vent'anni, poi una sera, alla fermata dell'autobus, si erano incontrati per caso e si erano riconosciuti. "Mi scusi, ma lei non è Massimo?" "Sì, sono Massimo, e lei non è Cinzia?" Due semplici frasi di due amici che si rivedevano dopo tanti anni, un abbraccio, qualche accenno alla gioventù; un evento del tutto normale che quasi sempre si sarebbe chiuso lì, ma non in questo caso. Massimo si era accorto che gli occhi della Cinzia brillavano, che sembrava incantata dinanzi a lui, che lo ascoltava senza sentirlo, e fu quasi senza pensarci che le aveva proposto di rivedersi il giorno dopo per un caffè e lei aveva accettato. Non ne era innamorato, ma si sentiva lusingato del sentimento che la donna provava per lui; gli era subentrato una sorta di narcisismo di cui non aveva mai avuto conoscenza, lui che a cinquant'anni si sentiva già vecchio e che con la moglie conduceva ormai una vita coniugale più fatta d'affetto che di passione. A quel caffè ne seguirono altri e Massimo ebbe modo di sapere che la Cinzia non si era mai sposata, ma lui si guardò bene dal dirle di essere coniugato. Non era male la donna, niente di particolare, minuta, ma non scialba. Massimo cominciò ad essere attratto dalla sua vitalità che la faceva sembrare più giovane e lentamente si convinse di esserne innamorato. Forse non era proprio amore, era il gusto di qualche cosa di nuovo nella sua vita piatta che gli faceva ricordare il brio del tempo andato e che lo illudeva di arrestate l'inesorabile corsa delle lancette; cominciò a pensare che forse non era poi così vecchio e che la vita aveva ancora qualcosa da dargli, qualcosa che lui avrebbe afferrato per il puro piacere di provare a se stesso di essere un uomo ancora nel pieno delle forze e con un futuro tutto diverso dall'attuale. Si decise così di compiere il grande passo e offrì alla Cinzia di passare due giorni insieme, con il pretesto di una gita in montagna; e lei accettò. Con la moglie si giustificò per l'assenza di quel paio di giorni adducendo un improvviso impegno di lavoro che lo vedeva convocato dai suoi superiori a Roma. Fu fissata la data e l'ora dell'appuntamento, nonché il luogo: il laghetto dei giardini pubblici prossimo alla fermata dell'autobus. Massimo guardò l'orologio: la Cinzia era in ritardo; erano già passati quindici minuti dall'orario concordato; poi ne passarono trenta, quarantacinque, sessanta, novanta. La donna non si presentò e Massimo mestamente si riavviò verso casa, pensando al motivo per quel ritorno ingiustificato che avrebbe dovuto produrre alla moglie. Da quella data passarono ancora alcuni anni e Massimo non ebbe più modo di vedere la Cinzia; benché ferito nel suo orgoglio, finì con il dimenticare l'episodio ed a rassegnarsi alla sua solita vita, divenuta ancor più piatta da quando era andato in pensione.
Una luce nel buio. Mirko Dani non sapeva capacitarsi da dove venisse tutta quella gente, radunata a crocchi nei pressi di casa sua, e poi c’era quel carro funebre, nero, lucido che sostava proprio davanti all’ingresso. Provò allora a chiedere chi fosse il morto, ma non ottenne risposte, perfino dai vicini di casa con i quali aveva rapporti sostanzialmente ottimi. Si sentì triste, ignorato, al pari e forse peggio di uno sconosciuto; quella che però fu una vera sorpresa era sua moglie, con il volto tirato, le lacrime che segnavano il volto e che a passi lenti, quasi barcollanti, seguiva per prima il feretro. Le si avvicinò, le sussurrò qualche cosa all’orecchio, ma non ottenne nessun segno: sembrava non vederlo, non sentirlo, come tutti gli altri. E lui invece vedeva e sentiva, anche troppo. Fra tanti commenti in ordine alla persona del defunto, concordemente più che positivi, ci furono accenni, ben poco velati, ad una presunta relazione della vedova con un coinquilino; non gli piacevano queste chiacchiere in un momento simile e sentì una sorta di pietà nei confronti del defunto, già infelice per il trapasso e, se lo avesse saputo, ancora di più per le corna che si portava appresso. Il percorso per andare al cimitero era breve e, considerato che nessuno gli prestava attenzione, rimase buon ultimo nel corteo, osservando le prime foglie gialle d’autunno cadute sul selciato; gli ricordavano la genesi della natura, la nascita, una breve e forse felice vita ed infine la morte. Forse il defunto era stato anche felice, forse non sapeva delle corna e questo ignorare un fatto così importante poteva avergli assicurato una vita serena, oppure lo sapeva, e per lui la morte era venuta come una liberazione. Fra una divagazione e l’altra s’accorse d’essere arrivato al cimitero e che ormai le spoglie erano pronte per la tumulazione. Ah, veniva sepolto in terra e quindi ci sarebbe stata una croce, e se c’era una croce, avrebbe riportato impressa su di essa le generalità del morto. Ecco, bastava sporgersi un po’, fare capolino fra la gente e la sua curiosità sarebbe stata appagata. Scivolò fra i vari crocchi, apparentemente senza che se ne accorgessero, e finalmente arrivò davanti alla fossa, nei cui pressi era già pronta la croce. Sì, c’erano le generalità; cominciò a leggere e sentì un brivido percorrere il suo corpo; sul legno c’era scritto: Mirko Dani, nato il… e morto il…..; non riuscì a leggere le date, un senso di angoscia lo attanagliava; non poteva essere possibile, era un brutto sogno, un incubo, colpa del cotechino con polenta ingerito la sera prima. Sì, era indubbiamente un incubo che gli faceva venire una sete tremenda; adesso avrebbe acceso la luce, si sarebbe alzato, sarebbe andato a bere un bicchiere di acqua fresca. Che strano, tutt’intorno si era fatto buio, non si vedeva neanche la luce riflessa del lampione attraverso le fessure delle persiane; allungò il braccio, ma, per quanti sforzi facesse, non gli riuscì di trovare l’interruttore della luce. Sudava, sudava continuamente mentre il buio si faceva sempre più fitto; poi, come in una galleria, scorse sul fondo una luce vivida, abbagliante, che sempre più gli si avvicinava. Allora comprese e urlò con quanto fiato aveva in gola, ma dalla sua bocca non uscì nulla e rimase solo un lungo, lunghissimo silenzio. Il ritorno Paolo guardava scorrere la campagna attraverso i finestrini; già stavano calando le prime ombre della sera ed il treno non sarebbe arrivato a destinazione prima di un paio d’ore. Riflesso nel vetro semiappannato scorse il suo viso; i capelli incolti si arruffavano sulla fronte, la barba lunga ed incolta lo rendeva pressoché irriconoscibile; nessuno avrebbe potuto mai dire che quel clochard rannicchiato nell’ultimo sedile della carrozza era stato un tempo una persona come tutte le altre, un uomo rispettabile e rispettato, amato ed anche invidiato. Erano passati quasi tre anni da quando, uscito da casa per andare al lavoro, non si era presentato in ufficio, né aveva fatto ritorno alla sua dimora. Come era stato trascorso questo lungo periodo? A zonzo, di qua e di là, sempre più lontano, senza una meta, senza uno scopo se non quello di dimenticare, di cancellare dalla mente il ricordo di una vita serena e felice fino al tragico evento della morte dell’unico figlio, un bel bambino di otto anni, stroncato da un male che non perdona. Quell’evento, così doloroso, così drammatico, anziché rinsaldare il rapporto con la moglie lo aveva spezzato; era stato se come la vita vissuta insieme fino a quel momento non avesse più avuto senso, come se la sua vita fosse divenuta improvvisamente vuota ed inutile. E pensare che l’aveva amata così tanto! Ma già alla nascita del bimbo, il sentimento si era affievolito e lui aveva riversato tutto il suo amore su quella piccola creatura, la cui scomparsa aveva segnato indelebilmente la sua vita. Aveva provato un dolore indicibile e gli era sorto un rifiuto per ogni essere vivente, compresa la moglie. Non riusciva a spiegarsi questo atteggiamento così drastico, ricordava solo che provava un dolore lancinante che lo portava ad isolarsi; la moglie non l’aveva capito o forse aveva compreso, ma non era riuscita a lenire la sua disperazione. Erano passati quasi tre anni, senza aver mai dato notizie di sé, ed ora faceva ritorno a casa, ancora angosciato, ma terribilmente conscio di ciò che gli era accaduto; la morte non è che una fase, l’ultima, del ciclo vitale e nel caso del suo bimbo si era presentata solo troppo presto. Che cosa avrebbe detto alla moglie? Non lo sapeva e non riusciva a pensare; si guardò intorno; nella carrozza non c’era che un’altra persona, un uomo distinto, ben vestito con un abito nero che, di tanto in tanto, sollevando gli occhi dal taccuino che stava leggendo, gli volgeva lo sguardo, uno sguardo inespressivo, quasi bovino. Il tempo passava; una stazione dopo l’altra ci si avvicinava alla meta; ecco, la prossima sarebbe stata la sua. Il treno rallentò sferragliando, per poi fermarsi; Paolo scese dalla carrozza, seguito dallo sconosciuto. L’aria fresca lo stordì; aspirò forte a sentire il profumo di casa ed uscì dalla stazione. Si avviò, quasi barcollando, verso la sua abitazione. Ma che stava facendo? La consapevolezza di quello che gli era accaduto non giustificava il suo comportamento di tre anni prima, l’abbandono della moglie e del lavoro; si rese allora conto che la tragica scomparsa del figlio non aveva che fatto emergere il suo carattere di perdente, la sua insoddisfazione di fondo, l’assenza di un vero scopo nella vita, la mancata conoscenza del vero senso della parola amore, quell’amore che è dato soprattutto dall’offrirsi, dal saper ascoltare, dal riuscire con un solo sguardo a spiegarsi; lui, invece, aveva sempre chiesto affetto, ricambiandolo troppo poco. Anche l’amore per il figlio era stata una semplice ancora di salvezza, un senso unico ed eccessivo della sua vita; più che amare il bimbo vedeva in lui se stesso, quello che avrebbe potuto essere e non sarebbe stato mai. Calde lacrime gli solcarono le guance, mentre si apprestava ad attraversare il ponte sul fiume;quello che non aveva capito in tre anni di lontananza ora gli era chiaro; lui non era quello che pensava, che sperava, era semplicemente un uomo che non sapeva amare. Si appoggiò al parapetto e guardò l’acqua scura. “E’ ora”. Qualcuno aveva parlato; si volse e vide l’uomo del treno. “E’ ora, che tu voglia o no; non essere scontento di quella che è stata la tua vita che non hai di certo apprezzato; però ti sei reso conto di esistere, hai compreso le tue manchevolezze ed alla fine hai capito che cos’è l’amore, il suo significato, la sua essenza, la vera ragione per la quale miliardi di esseri umani hanno potuto essere consapevoli di far parte di un disegno preordinato e non di una casualità.” Paolo guardò l’acqua torbida che si avvicinava sempre di più e che si aprì, per poi richiudersi subito. L’uomo del treno fece una spunta sul suo taccuino, poi a passi lenti attraversò il ponte, scomparendo nell’oscurità. L’uomo di latta Paolo camminava rasente i muri delle case, quasi appoggiandosi agli stessi; con la barba incolta, i capelli arruffati, trasandato, era ormai l’ombra contorta di quello che era stato una persona rispettabile, conosciuta e stimata. Gli occhi ormai si erano infossati e fissavano vuoti il marciapiedi. Eppure, fino a poco tempo fa non era stato così, fino a qualche mese prima era stato un uomo al colmo della felicità. Tutto era iniziato nel febbraio dello stesso anno, allorché, a seguito di caute pressioni di amici e parenti, si era proposto alla Maura, una signora vedova di una cinquantina d’anni, ma ancora assai piacente; anche Paolo era rimasto vedovo l’anno prima ed era così iniziata per lui una vita vuota, senza figli, senza scopi. A chi gli voleva bene era quindi apparso più che opportuno trovargli una compagnia; invero, la Maura era un po’ chiacchierata, era, come dire, considerata una donna libera, ma per il resto era quanto di meglio si potesse desiderare: molto giovanile, un corpo snello, dinamica nel condurre il negozio di merceria ereditato dal defunto marito. Quando la Maura accettò l’invito a cena, a Paolo parve di toccare il cielo con un dito, e dopo il pasto vi fu il tradizionale immancabile bacio ed anche qualche cosa di più, una sorpresa gradita ed inaspettata da chi, come Paolo, era a digiuno di sesso da ormai troppo tempo. I giorni seguenti videro l’esplosione di una passione travolgente, contatti sempre più frequenti, gite nel circondario, cene a lume di candela, progetti di un futuro insieme. Poi, all’improvviso, vi fu un afflosciamento, un pressoché repentino disinteresse della Maura per Paolo, che ne soffrì in modo indicibile. A più richieste di chiarimenti, la signora rispondeva evasivamente adducendo ora una motivazione, ora l’altra, finché una sera Paolo non la vide con un altro. Il giorno dopo si recò nel negozio della Maura ed una volta che tutti i clienti furono usciti Paolo le disse chiaramente quello che pensava di lei, del suo comportamento non sincero e quindi esecrabile, ed infine concluse con un secco “addio”. Riprese la sua vita di solitudine, ma nei lunghi giorni il ricordo di quelli trascorsi così felicemente continuava ad assillarlo; era ormai diventato un tormento al punto che cominciò di nuovo a passare più volte dinanzi alla merceria e, passa oggi, passa domani, venne il momento che la Maura si affacciò e lo chiamò dentro. A Paolo sembrò che la donna avesse avuto un ripensamento, si fosse pentita del suo comportamento e la Maura fece di tutto per lasciarglielo credere; la relazione, quindi, riprese, ma più che di un normale rapporto finì con il diventare il motivo di un tormento continuo, perché la donna non troncò con l’altro uomo, anzi finì con il proporre ad entrambi un avvicendamento secondo la sua logica. Andò avanti così per circa due mesi, allorché l’incontentabile Maura si trovò un terzo uomo. E Paolo che fece? Chiuse un occhio, anzi li chiuse entrambi pur di mantenere i contatti ed ogni giorno che passava piano piano si accorse di non essere altro che la pedina di un gioco di potere di quella donna. Soffrì nel decidere di abbandonare quella relazione così multipla, ma ci riuscì, a prezzo però di perdere la fiducia in se stesso; cominciò così un periodo di frustrazione, di nullità che lo accompagnò fino alla passeggiata senza meta di un giorno come tanti altri. Raggiunse la stazione ferroviaria e si mise a guardare i treni in arrivo ed in partenza, un modo come un altro per passare inutilmente il tempo. Stava appoggiato ad un lampione, quando sentì una voce a lui ben nota “ Paolo, ma che cosa fai qui?”. Eh sì, era proprio la Maura, che non vedeva da mesi. “ Paolo, come sei conciato! Tu hai bisogno di me! Ricominciamo da capo” Non rispose, guardò il treno che arrivava sferragliando, fissò le grandi ruote che si avvicinavano e seppe cosa fare. La gente vicino lanciò urla di orrore mentre le ruote passavano sul corpo. La Maura non urlò e a chi le chiedeva se conoscesse quell’uomo rispose” No, l’avevo scambiato per un altro”. Indi, nell’avviarsi all’uscita, lanciò uno sguardo invitante ad un signore brizzolato che contraccambiò di cuore. La donna venuta da lontano Irina camminava svelta per non tardare il primo giorno di lavoro; era arrivata in Italia, dalla lontana Siberia, solo una settimana prima, chiamata da un’amica, che viveva nel nostro paese già da alcuni anni e che le aveva prospettato la possibilità di un’occupazione dignitosa ed abbastanza remunerativa. Irina aveva accettato; in Siberia riusciva a malapena ad arrivare alla fine del mese e fra tante privazioni; quel posto da badante, che le avrebbe consentito di pagarsi l’alloggio, il vitto, il vestiario e qualche piccolo divertimento l’aveva attratta irresistibilmente, insieme al desiderio di vedere qualche cosa di nuovo, e poi, al suo paese, non aveva motivi per restare: vedova da diverso tempo, senza figli e senza parenti stretti, aveva vissuto per diversi anni in modo incolore, senza un uomo che le facesse compagnia, senza uno scopo. Giunta all’angolo della via, girò veloce, ma impattò un uomo sulla cinquantina, cioè più o meno della sua età. Nel suo italiano stentato mormorò delle scuse, che probabilmente l’altro non capì; questi la guardò e le disse semplicemente, ma con voce rassicurante”Mi scusi”. Irina rimase un attimo stupita e vide gli occhi dell’uomo, bellissimi, grigi che si riempivano di luce. Poi affrettò il passo ed arrivò al suo luogo di lavoro. Durante la giornata, mentre accudiva un anziano infermo, si sorprese più volte a pensare a quell’uomo e si disse “ L’ho interessato? Gli posso essere piaciuta? No, non è possibile, sono straniera, sono una donna normalissima, forse ancora piacente, ma gli anni che porto si vedono tutti. Chissà se avrò modo di incontrarlo nuovamente?” Ritornata a casa alla sera, non fece parola dell’accaduto all’amica, ma stanca si addormentò con il pensiero rivolto a quell’uomo e le sembrò di essere meno straniera in un paese ancora a lei sconosciuto. I giorni passarono, venti, trenta, forse anche di più ed il ricordo dell’avvenimento, sia pur sempre presente, finì a poco a poco con lo sfumarsi; la vita era sempre la stessa, vale a dire otto ore al lavoro, due chiacchiere con l’amica e l’unico elemento di svago finì con l’essere rappresentato dalla messa settimanale presso la chiesa ortodossa. Un giorno, in cui le strade erano particolarmente affollate, ebbe un colpo al cuore perché gli sembrò di rivederlo, ma se era lui non lo seppe mai, perché l’immagine nel suo cervello, il ricordo era rappresentato solo da quegli occhi, e la figura fra la folla era purtroppo di spalle. Cominciò a pensare di essersi innamorata di un sogno e che forse era il momento di conoscere, qualora ve ne fosse stata l’opportunità, qualche uomo, quella compagnia maschile da tanto tempo assente e di cui sentiva sempre più la mancanza. Con l’amica prese ad andare a ballare e lì di uomini ce n’erano, ma a lei non andavano mai bene, perché nessuno aveva quegli occhi splendidi. Ormai Irina si era rassegnata e smise anche di uscire con l’amica; stava chiusa in casa, nei momenti di libertà, a ricamare e ad ascoltare dei dischi di musica classica. Si arrivò al giorno di Natale e a malincuore, data la festività, Irina dovette andare ad assistere l’infermo, nel frattempo particolarmente aggravatosi. Faceva freddo e la donna camminava veloce lungo la strada, ma la temperatura era troppo pungente e decise che era una buona idea entrare in un bar per bere un caffè caldo. Si mise a sorseggiare la bevanda bollente, quando si accorse di essere osservata; si girò e vide che al suo fianco stava un uomo; il cuore cominciò ad impazzire mentre alzava lo sguardo per osservare il volto di quella persona e quando arrivò al viso vide gli occhi di uno stupendo colore grigio. “ Mi sembra che ci siamo già incontrati” le disse l’uomo e lei rispose con un “sì” tremante. “ Mi chiamo Paolo, sono vedovo, purtroppo, e senza figli e per me il giorno di Natale è il più brutto dell’anno in una casa vuota”. “ Irina, mi chiamo Irina, e sono vedova anch’io” “Le chiedo troppo se questa sera possiamo cenare insieme?” “ Ne sarei felice” si sorprese a dire Irina. Concordato il luogo dell’incontro serale, ognuno se ne andò per la sua strada. Irina affrettò il passo e si accorse che stava volando. Due giorni al mare E’ ormai autunno; la temperatura già annuncia l’inverno; foglie gialle ed avvizzite coprono i marciapiedi. Nonostante ciò, abbiamo deciso di concederci un fine settimana al mare, più che altro per cogliere in tal modo la possibilità di conoscerci meglio, di vivere insieme un paio di giorni lontani dalla solita vita, due giorni solo per noi. Spende il sole a Riccione, ma fa freddo; il mare è mosso e le onde limano la spiaggia. I nostri piedi affondano nella sabbia umida, mentre passeggiamo tenendoci per mano; è una sensazione strana, come un ritorno alla nostra gioventù; le mani si stringono e quella stretta trasmette le sensazioni dei nostri cuori. Parliamo poco, ogni tanto i nostri occhi si incontrano e dicono molto di più di una conversazione. Come ci siamo conosciuti? Non importa, quello che conta è che ora siamo insieme; altri passeggiano vicino a noi, ma è come se non ci fossero, sono ombre che appena scalfiscono il nostro mondo popolato solo da noi due. Ogni tanto un abbraccio, un tenero bacio; per noi non è autunno, è primavera. Lasciata la spiaggia, le nostre impronte che presto il maestrale cancellerà, ritorniamo nel traffico della cittadina; è un richiamo alla realtà, ma che di poco intacca la magica sfera entro cui ci siamo calati. E così la conversazione, prima rada, diventa continua; abbiamo tanto da dirci, tanto da raccontarci: vicende belle, vicende tristi di chi ha già tanto vissuto. Ci amiamo? Non so, di certo ci vogliamo bene e penso che prima o poi all’improvviso sboccerà l’amore. Ormai il sole sta calando e ci avviamo verso il nostro albergo. E’ la prima volta che dormiamo insieme ed in noi c’è una certa apprensione, che cerchiamo di celarci. La camera calda, il letto morbido ci accolgono; proviamo pudore a spogliarci, ma poi restiamo nudi sotto le coperte. Dapprima un bacio, poi una carezza, indi un abbraccio; i nostri corpi si incontrano e senza che lo vogliamo, senza che lo pensiamo, pure i nostri sessi si incontrano. E’ un amore dolce, un piacere sereno che ci avvolge e che ci trascina piano piano, con delicatezza, all’estasi. Ecco, abbiamo finito, abbiamo ultimato il nostro atto d’amore; ci guardiamo ansanti, ci assale di nuovo il pudore, ma quegli occhi che si incontrano, quel bacio che ci scambiamo sono i prodromi di quanto più bello ci possa essere ed infatti le mie labbra si aprono per dirle “Ti amo!” e quasi contemporaneamente le sue si dischiudono per dire la stessa frase. Non esiste più nulla, non c’è la più la camera, il letto è sparito ed il mondo siamo solo noi due, due persone non più giovani che ancora credono all’amore, ai sentimenti, a quel dare senza pretendere, alla sincerità dei propri cuori. Quando il giorno dopo ripartiamo, lei mi guarda e mi dice: “se torneremo, mi piacerebbe avere la stessa camera”; sì, perché non è una normale camera d’albergo, è il luogo dove ci siamo innamorati, dove abbiamo dato una svolta alle nostre vite, dove ci siamo sentiti orgogliosi di esistere, dove un sogno è diventato realtà. Domani, riprenderà la vita di tutti i giorni, ma non potrà più essere la stessa; anche se lontani l’una dall’altro i nostri cuori saranno vicini nella malinconia che ci avvolge quando non siamo insieme. Nel giorno del Signore Era domenica, una domenica come tante altre. Simona si spazzolò i lunghi capelli davanti allo specchio; si interruppe bruscamente e si guardò: “stai invecchiando” si disse “ hai quasi cinquant’anni e non hai mai conosciuto l’amore di un uomo, la compagnia costante di un essere dell’altro sesso; si, hai avuto qualche avventura, faccende da letto, e mai comunque un amore sincero; non sei brutta, hai un bel viso, un corpo gradevole; che cosa c’è che non va?”. E con la mente corse a ritroso nel tempo, rivedendosi giovane; tutta un’altra cosa di adesso, con quello sguardo di zitella inacidita, con le prime rughe che affioravano sul viso. Pensò a lungo e concluse che non aveva avuto un uomo fisso solo perché non aveva voluto, solo perché le era parso troppo impegnativo impostare una vita con un’altra persona. Invero, c’era stata qualche anno prima un’occasione: un uomo, una persona seria, anche bello che discretamente l’aveva corteggiata; le sovvenne il nome: Pietro, un vedovo di circa cinquant’anni che l’aveva anche invitata a cena, senza poi portarsela a letto, un uomo che intendeva amarla come aveva amato la moglie defunta. Qualche altra cena, un fugace tocco di mano, un bacio appena abbozzato, l’insistenza di Pietro di avviare una relazione solida; aveva troncato lei, era qualche cosa di troppo impegnativo. Sorrise a pensarci, ma il sorriso si smorzò sulla bocca e l’immagine nello specchio le ricordò che il tempo passava. Da un po’ di tempo dormiva poco e pensava molto; a letto, nel buio, la sua mente correva e l’esame della sua vita dava un esito sempre più impietoso; sì, era un’ottima impiegata, aveva tanti colleghi, ma nella vita privata si sentiva una nullità, provava un vuoto mai avvertito prima; ogni sera le stesse cose, nessuno con cui parlare, nessuno con cui ridere o scherzare, insomma una vita inutile ed anche noiosa. Doveva cambiare a tutti i costi, ma quale uomo trovare alla sua età. O erano tutti già sposati con prole, oppure erano degli impenitenti solitari come lei. Le ritornò allora in mente Pietro; chissà se nel frattempo aveva trovato un’altra e magari si era sposato. Scacciò quest’ultima idea, perché in tal modo sarebbe stata preclusa ogni possibilità. Provò a telefonare a Pietro, ma senza ottenere risposta, ed allora si ricordò del giorno di festa e della religiosità dell’uomo. In tutta fretta, si truccò, si mise il vestito più bello, uscì di casa quasi correndo ed arrivò sul sagrato della chiesa prima che cominciasse la funzione. C’era diversa gente, ma Pietro non era fra questi; si mise ad attendere, mentre la campana chiamava i fedeli; passarono i minuti inutilmente ed allora entrò in chiesa. Si sedette in uno degli ultimi banchi, con nessuno intorno; non seguì la funzione, provava un’angoscia indescrivibile, un dolore mai avvertito prima ed allora iniziò a pregare; era una preghiera tutta sua e più che una preghiera era una supplica a Dio perché desse un senso alla sua vita; biascicava le parole e cominciarono a sgorgarle le lacrime. “ Fa che non sia vissuta inutilmente, fa che anch’io conosca l’amore e possa darlo ad un’altra persona, fa che possa darlo a Pietro; che vita è senza amore, senza una carezza, senza una voce amica; non voglio che il mio cuore si inaridisca; voglio essere orgogliosa dell’ultima parte della mia vita”. Intanto, la funzione era finita e Simona non si accorse di essere rimasta sola. Ogni tanto si asciugava gli occhi con il fazzoletto, ormai zuppo; stava per alzarsi, quando sentì una mano sulla spalla; pensò fosse il sacerdote, ma quella mano le ricordò qualche cosa, una leggera carezza sulla sua di alcuni anni prima, ed il cuore impazzì; alzò lentamente gli occhi velati dalle lacrime e lo vide; Pietro era lì con lei che le porgeva un fazzoletto. Non disse nulla, l’aiutò ad alzarsi ed insieme uscirono dalla chiesa; sul sagrato volse lo sguardo verso l’uomo che le sorrideva dolcemente e che le disse, stringendola a sé “Andiamo Simona, andiamo insieme; siamo stati troppo tempo soli”. Si incamminarono e fu solo l’inizio di un lungo percorso insieme, di una nuova vita. Il parroco chiuse la porta della chiesa osservando i due che si allontanavano e disse sommessamente “ E dopo qualcuno ha il coraggio di dire che Dio non c’è”. Il sussurro dell’anima Irina guardava l’orologio; l’appuntamento era per le venti ed ormai mancavano solo pochi minuti. Era in piedi, davanti al ristorante fissato per l’appuntamento; faceva freddo e la donna batteva i piedi, nell’attesa dell’uomo dai meravigliosi occhi grigi, ma questi sembrava tardare; a poco a poco, come il tempo passava, alla gioia subentrò l’angoscia, il timore che non sarebbe venuto. Guardò l’orologio e vide che erano le venti e dieci minuti; la gente passava in fretta, accennava appena uno sguardo a quella donna con gli occhi ormai pieni di lacrime. Che giorno di Natale, prima la felicità, l’illusione, poi la tristezza. Decise di tornarsene a casa, mestamente, poiché la realtà era apparsa troppo diversa dal sogno. Fece pochi passi, quando sentì dietro di lei una voce “Irina, credevo non venissi più”. Si volse e vide sulla porta del ristorante quei bellissimi occhi grigi, resi perlacei da alcune lacrime. “ L’appuntamento era dentro il ristorante, non fuori, sai…, con questo freddo!” Irina non riuscì a rispondere, sentì le lacrime salire dentro di lei ed abbracciò l’uomo. Questi, dapprima stupito, contraccambiò di cuore. Entrarono nel locale e sedettero al tavolo loro riservato. Irina non seppe mai se le pietanze servite fossero state buone; mangiò poco e senza appetito; i suoi occhi non erano per il cibo, ma per l’uomo che le stava davanti. Osservò con attenzione i capelli quasi grigi, le rughe intorno al contorno degli occhi, per non parlare di questi, più belli che mai. L’uomo parlava e lei ascoltava, o meglio faceva finta; quella voce, qualunque cosa dicesse, riempiva il suo cuore, era come uno strumento, un violino che provocava un fremito inaspettato. Disse fra sé “ Che bella voce, calda, sensuale, è il sussurro dell’anima”. Rispondeva a monosillabi, quasi balbettando. Verso la fine del pasto, quasi per caso, la mano di lui sfiorò la sua e lei sentì un brivido percorrere tutto il suo corpo. Se lui se ne accorse, di certo non lo dimostrò; finita la cena, uscirono dal locale. Era il momento più brutto: che cosa sarebbe accaduto? L’uomo si passò una mano fra i capelli, poi l’attrasse a sé e le disse”Irina, ti amo”. La donna non disse nulla; era troppa l’emozione; dischiuse solo le labbra ad aspettare il bacio di lui, che venne subito, tenero ed appassionato. Poi l’uomo le chiese “Possiamo vederci domani? Sono felice, ma mi sta assalendo la malinconia, a ritornare nella mia casa vuota. Ti prego, dimmi se vuoi vedermi ancora”. Irina prese fiato e guardò il suo uomo, poi si sorprese a dire “Certamente, ma è brutto passare il resto del Natale da soli; se vuoi, potremo stare insieme anche questa notte”. L’uomo non disse nulla, le diede il braccio e si incamminarono verso la sua abitazione. Irina si appoggiava alla sua spalla e si chiese se ancora stava sognando. L’uomo senza domani “Al bando il lavoro, la carriera; voglio vivere prima che sia troppo tardi” si diceva Paolo, mentre si recava all’appuntamento. Una bella posizione economica, conosciuto e stimato, nonché un bell’uomo, Paolo era quello che si sarebbe detto un buon partito, ma a parte qualche relazione saltuaria non c’era mai stata una donna, per così dire “della vita”, nell’esistenza di questo magistrato, cordiale, scherzoso, ma inflessibile ed integerrimo. E così era arrivato a superare i cinquant’anni, avvicinandosi ormai pericolosamente alla soglia dei sessanta senza la compagnia costante ed attenta di una donna. L’appuntamento era stato fissato fuori città ed alle 14, un’ora insolita, ma le precauzioni non erano mai troppe, atteso che la donna che doveva incontrare era una testimone a discarico in un’importante procedimento penale presieduto proprio da Paolo. Era vero che aveva già reso la sua deposizione, peraltro non del tutto convincente, ma il giudizio non era ancora concluso. Isabella si chiamava la signora e bella lo era veramente; alta, slanciata, un fisico ben modellato nei punti giusti, uno sguardo intenso, una bocca perfetta. Aveva quarantaquattro anni, quindi né troppo giovane, né troppo vecchia per lui; divorziata da tempo, senza figli, una buona posizione economica, la si sarebbe detta più che un buon partito. Come si era giunti a fissare l’appuntamento? L’aveva incontrata casualmente tornando a casa una sera e lei lo aveva salutato con un sorriso che gli aveva rimescolato il sangue; Paolo aveva risposto con il suo più cordiale “Buonasera” e poi le aveva stretto la mano, una mano tenera, calda; erano andati al bar a prendere un aperitivo e fra una parola, uno sguardo, un sorriso, a Paolo era venuto quasi spontaneo chiedere di vederla di nuovo, in un luogo più appartato, la sua casetta di campagna, ereditata dal padre, a suo tempo presidente del locale tribunale. La strada saliva su per la collina e Paolo mise al bando la prudenza, accelerando, ed in pochissimo tempo arrivò alla meta; lei era già là, indossava un vestitino a fiori che le arrivava appena sopra le ginocchia, con una generosa scollatura sul davanti, che lasciava ben intravedere un seno pressoché perfetto. “Porta una terza” pensò Paolo. Le porse la mano, poi entrarono in casa e, senza perdere altro tempo, andarono in camera da letto. Consumarono l’atto d’amore nel migliore dei modi, con un piacere così intenso che Paolo non aveva mai provato, né immaginava potesse esistere. Isabella si pettinò i lunghi capelli, poi chiese “Sei sposato?” “No, perché?” “Perché, amore mio, ti voglio sposare”. A Paolo sembrò di vivere in un sogno, troppo bello per essere vero. Aveva bisogno di una donna più che mai ora che cominciava ad invecchiare troppo e più volte si era detto che si sarebbe accontentato di una signora qualsiasi, purché lo amasse; ed ora invece la vita gli offriva una donna splendida, eccezionale. La guardò, l’attrasse a sé, incollò le sue labbra su quelle di lei, poi, prendendo fiato, mormorò, ma avrebbe voluto urlare “Anch’io ti voglio sposare, Isabella, appena finito il processo, e quello che mi spiace è che fino alla sentenza non potremo che vederci di nascosto ed anche poche volte, ma dopo sarà un’altra cosa; chiederò di andare in pensione e potremo essere felici”. Il procedimento durò ancora tre mesi, tre lunghi mesi di un inverno freddo che gelava perfino i cuori, tutti, tranne uno, quello di Paolo. La sentenza fece un po’ scalpore, in quanto l’imputato fu assolto grazie alla testimonianza dell’Isabella, apparsa poco convincente a tutti, ma non a Paolo, che la prese a giustificazione della sua decisione. Come promesso, chiese di lasciare il lavoro per godersi la meritata pensione. E dopo soli sessanta giorni Paolo uscì per l’ultima volta dal Tribunale e corse, libero, a casa dell’Isabella. Gli batteva forte il cuore, le avrebbe rinnovato la proposta di matrimonio. L’Isabella lo accolse con garbo, ma non con calore e Paolo ebbe il presentimento che qualche cosa non andava. La donna non disse di no alla sua offerta, ma indicò dei tempi molto vaghi, giustificandoli con le cattive condizioni di salute dei suoi genitori. Paolo si morse le dita, scrollò la testa e sbottò “Dimmi la verità, dimmela; non mi vuoi sposare”. L’Isabella prese fiato, prima guardò il soffitto, poi, fissando il pavimento, rispose lentamente “Vedi Paolo, ti voglio bene, te ne voglio tanto; sei un bell’uomo, una persona seria, gentile, simpatica, a cui non si può che voler bene, ma l’amore è un’altra cosa; in questo tempo ho creduto di amarti, ma era solo attrazione; il matrimonio è troppo importante perché si basi solo su un reciproco apprezzamento e poi ho sbagliato una volta e non voglio ripetere l’errore; se vuoi, possiamo restare amici, qualche volta uscire insieme per andare a cena, per vedere una bella commedia”. Paolo sentiva e non sentiva, le parole gli giungevano ovattate alle sue orecchie, ma lo ferivano egualmente; era la fine di un sogno, era l’inizio di una vita senza domani. Uscì, corse a casa e, per la prima volta, dopo tanti anni, pianse; trascorse una notte insonne, poi verso l’alba si addormentò. Si svegliò verso il mezzogiorno e, ripensando all’accaduto, si accorse di essere stato giocato, di essere stato lo strumento per assolvere un imputato probabilmente colpevole; era la rovina di una carriera senza macchia che si univa alla tragedia di essersi innamorato della donna sbagliata. Sapeva che cosa doveva fare, non per vendetta, ma per coscienza; le conseguenze sarebbero state nefaste per lui, forse lo avrebbero anche imputato per la sua condotta. Iniziò a scrivere la lettera “ Al Presidente del Tribunale” Era quasi arrivato a metà, dopo aver descritto con dovizia di particolari l’accaduto, quando si fermò e stracciò il foglio; il problema era che lui l’aveva amata e che anche ora, nonostante tutto, era innamorato di lei; con la lettera avrebbe rovinato Isabella e se stesso, quel poco di amore, anche non sincero, che aveva ricevuto sarebbe stato distrutto. Più ci pensava, più gli si stringeva il cuore pensando alla donna, alle poche ore di felicità trascorse insieme, all’inutilità dei giorni a venire, e decise che la conclusione doveva essere quella che si era prefissato, senza la lettera accusatrice. Appoggiò la schiena alla poltrona, aspirò l’aria della stanza, guardò il sole che illuminava una bellissima giornata di primavera… Lo trovò la domestica il giorno dopo, il capo chino sul tavolo e la pistola nella mano destra. La notizia fece scalpore e trapelò immediatamente; l’Isabella sorrise dicendo fra sé “Anche l’unico rischio che la verità venga fuori in tal modo è cessato”. Ma il foglio di carta stracciato fu ritrovato; si stese un velo pietoso sulla vicenda di questo magistrato, ma il pubblico ministero in appello smontò, quasi con soddisfazione, la falsa testimonianza della donna. Il viaggio Giacomo guardava il paesaggio attraverso il finestrino del treno. Quanto tempo era che mancava dal suo paese, quanti anni; forse tutto era cambiato, forse non lo avrebbe riconosciuto o, forse, era rimasto come ai tempi della sua gioventù, con il bar della Lilia sotto i portici, l’odore del caffè, il fumo delle sigarette, il biliardo nell’altra sala. Arrivò e la stazione era la stessa con le pensiline annerite dalla fuliggine ed i marciapiedi sbrecciati. Messi i piedi a terra, non gli sembrava vero: era tornato. S’avviò, volgendosi intorno, ma i radi passanti non lo riconoscevano: troppo giovani o forestieri. Ecco i portici, in fondo ai quali ci sarebbe dovuto ad essere il bar della Lilia; si sporse, accelerò il passo ed il bar c’era ancora. Entrò e si avvicinò al banco, diverso da quello originario. “Un caffè macchiato, per favore” “Subito” gli rispose la commessa. “Scusi, dov’è la Lilia?” “ E chi è la Lilia?” Un vecchio si alzò dal tavolo” La Lilia è morta diversi anni fa” “ E suo marito Luigi?” “ Morto pure lui, ma, mi scusi, mi sembra di conoscerla, certo, più vecchio, con i capelli grigi, assai smagrito, ma lei non è Giacomo? Io sono Piero, il figlio del sagrestano” “Piero, ah, quante partite a biliardo insieme, quante steccate; sì, sono Giacomo; vieni vicino a me, raccontami un po’ di quello che è rimasto della nostra gioventù” “Francesco e Giovanni, i nostri avversari a biliardo, se ne sono andati da parecchio tempo, andati definitivamente; li puoi trovare al cimitero; Sergio, il figlio del dottore, ha sposato una belga ed è andato a vivere in quel paese; Riccardo aveva fatto fortuna come avvocato, ma l’anno scorso un infarto ed anche lui non c’è più; è un paese di morti, Giacomo, c’è più gente al cimitero; ah, la Cinzia è viva, vedova, con tre figli, ma viva; scusa se te lo dico, ma so che avevi una certa simpatia; e tu?” “ Sono venuto a morire in un paese di morti, beh, più che a morire, a cercare il mio passato; la Cinzia dove abita?” “A neppure cinquanta metri dal bar; se vai a casa sua, di certo la trovi”. Giacomo pagò ed uscì; gli tremavano le gambe al solo pensiero di rivedere la Cinzia; quanto la aveva amata; lei se n’era accorta, ma aveva preferito Riccardo, il suo primo ed unico amore. Arrivò davanti all’abitazione e stava per suonare il campanello quando una donna gli si affiancò ed infilò la chiave nella serratura. Giacomo si volse; i lunghi capelli biondi si erano imbiancati, il corpo esile si era leggermente appesantito, ma la riconobbe. “Cinzia!” “Giacomo” Fu un abbraccio spontaneo, poi entrarono in casa. “Giacomo, quanto tempo! Sei sempre tu, forse ancora meglio” “ Sei meglio tu, sei come il vino, più il tempo scorre, più migliori”. “Lo sai che sono vedova?” “ Sì, me l’ha detto Piero” “ Non posso crederci, davanti a me c’è Giacomo, l’uomo che di più mi ha amato in vita sua” “E che ancora ti ama” “Hai intenzione di fermarti? Resti a cena questa sera? Se vuoi c’è anche posto da dormire” “No, è una visita breve; riprendo il treno delle 16” “Scusa se insisto, ma ci sono tante cose da dire, tanto da raccontarci; ah, ti sei sposato?” “Sì, ma ho divorziato anni fa; non andavamo d’accordo, eravamo troppo diversi” “Allora, ho qualche speranza?” Giacomo guardò il pavimento, poi lentamente “No, c’è già un’altra donna” “Definitivamente?” “Penso proprio di sì” “C’è sempre la possibilità che tu ci ripensi; ti aspetterò” “Sì, c’è sempre questa possibilità” si alzò e si avviò verso la porta, ma poi, voltatosi all’improvviso, l’abbracciò ed appoggiò le labbra sulle sue. Fu un bacio breve, ma intenso e Giacomo quasi corse fuori verso la stazione, anche se era in anticipo. Attese il treno, che arrivò, strano a dirsi, in orario. Iniziò il viaggio di ritorno; Giacomo guardava il paesaggio, i lunghi filari di pioppi, i campi di mais, le mandrie al pascolo ed i suoi occhi erano pieni di lacrime. Si asciugò con il fazzoletto e si mise a pensare; aveva mentito, non c’era un’altra donna, ed oggi come tanto tempo fa gli era mancato il coraggio di confessare il suo amore, di esternare pienamente i suoi sentimenti; era una sorta di amore il suo che si concretizzava solo nell’amare in silenzio, un amore sterile, un atto individuale. Si morse le nocche delle dita; ancora una volta aveva rinunciato. Non era possibile che il suo amore consistesse solo nella gioia di provare interesse per un’altra donna; si prese il capo fra le mani, se lo scrollò e si disse “Basta, ora o mai più”. Il treno fermò in una stazione intermedia e scese solo un passeggero. “A che ora il prossimo in senso inverso?” “ Fra mezz’ora” rispose il capostazione. “Lo attendo anche se dovesse arrivare fra ventiquattro ore” si disse Giacomo. Nuvole nel cielo Era venuto il momento della memoria; tutto era iniziato al risveglio, in un’uggiosa mattina di novembre, piena di nebbia che smorzava perfino i rumori della strada. Paolo, nell’aprire gli occhi, ripensò al sogno della notte e si chiese se era stato veramente un sogno. Camminava in un prato dall’erba gialla e rinsecchita, così, senza meta; all’intorno nulla, se non un cielo di un azzurro intenso punteggiato da candide nuvole. E mentre camminava, affioravano dall’inconscio immagini da tempo dimenticate: un bambino che correva a scuola stringendo nella mano destra la cartella dei libri, un militare ritto sull’attenti, una cerimonia nuziale, una gita in campagna, la carezza di una mano femminile, le lacrime dell’ultimo commiato, la tristezza della solitudine. No, se era stato un sogno, erano tutte cose che lui aveva provato ed il ricordo non faceva che acuire il profondo senso di malinconia che aveva caratterizzato il suo risveglio; da tanto tempo solo, la vita scorreva piatta, senza futuro, ed a poco a poco gli sfuggiva di mano. Si guardò allo specchio e vide il volto di un uomo ormai più che maturo, con la barba incolta e gli occhi quasi spenti. Si chiese ancora una volta se valeva la pena di vivere e si rassegnò a trascorrere una lunga, inutile, vuota giornata. Si rase e si vestì un po’ meglio del solito, perché doveva andare in città, in banca, a trovare i suoi vecchi colleghi di lavoro, un modo come un altro per non seppellirsi. Non fu facile trovare da parcheggiare l’automobile, ma poi vide un inaspettato e quanto mai gradito posto fra due automezzi; stava per infilarsi, quando, con una rapidità quasi incredibile, fu preceduto da un’altra vettura; rimase allibito, abbassò il vetro del finestrino e si accinse a protestare, ma il suono della sua voce venne ricacciato in gola. Dall’auto parcheggiata scendeva una figura femminile, una donna che esteticamente non si sarebbe detta né brutta, né bella, ma a che a Paolo parve semplicemente stupenda. La donna allargò le braccia, come per dire “Mi spiace, ma c’ero prima io”. Il destino volle che l’auto a fianco se ne andasse, creando così l’opportunità del parcheggio per Paolo. Sistemata la sua vettura, Paolo si affrettò a seguire la donna che stava già allontanandosi; non gli sembrava possibile, ma lui pedinava una sconosciuta, forse sposata, e che comunque non sembrava avere avuto lo stesso interesse. Dopo un centinaio di metri, arrivato all’angolo di una strada, dove lei aveva svoltato, se la trovò improvvisamente davanti. “La smetta di seguirmi; al parcheggio sono arrivata prima io” Paolo balbettò “Non la seguo, è questa la strada che devo percorrere” La donna riprese il suo cammino e Paolo la vide allontanarsi sempre di più. Allora ritornò al parcheggio ed attese; passarono alcune ore, interminabili, e la sconosciuta riapparve; Paolo, nascosto dietro una colonna, la osservò a lungo, poi, prima che salisse sull’auto, si fece avanti. “Mi scusi, non intendevo seguirla, né volevo rimproverarla per avermi preceduto; mi scusa, vero?” La donna, volgendo gli occhi illuminati da un’improvvisa luce che Paolo scorse subito, rispose “ A dir la verità, c’era prima lei e sono io pertanto che devo scusarmi” “Ma no, non mi deve nulla, anzi, sa cosa facciamo, se lei è d’accordo, le offro un caffè” “Volentieri, in giornate come queste si dormirebbe continuamente” Presero il caffè seduti ad un tavolino e Paolo scoprì che la donna era vedova e che anche lei si sentiva sola. Si lasciarono con la promessa di rivedersi nello stesso posto il giorno dopo. La nebbia stava salendo e piano piano si dissolse, lasciando chiaramente intravedere un magnifico cielo blu senza neppure una nuvola. L’alba di un nuovo giorno Enrico si svegliò quasi di soprassalto, investito dai raggi di luce che si infiltravano fra le fessure della tapparella. Rimase un attimo come intontito, poi si girò su un fianco e gli venne spontaneo di pensare a quanto gli era fino ad ora accaduto. Aveva attraversato un lungo periodo di dolore, di disperazione, prima per la lunga malattia della moglie, poi per la morte della stessa, ed infine i tremendi giorni successivi, solo peggio di un cane; un barlume di speranza era sorto con la relazione con una donna, rapporto chiusosi anche troppo alla svelta per acclarati motivi di infedeltà. Nell’occasione gli era sembrato di impazzire, si era quasi convinto di portare indosso una maledizione che gli impediva qualsiasi forma di vita normale; erano passati altri giorni, eguali l’uno all’altro, vuoti e senza significato. Ormai si era rassegnato e quasi stava morendo di inedia quando avvenne il miracolo, un incontro tanto inatteso quanto desiderato. Aveva dovuto andare per lavoro a Roma ed appena giunto in albergo era salito in ascensore con una delle ospiti, una bella signora più o meno della sua stessa età. “A che piano va?” “Non ca...pisco, no italiana, mexicana” Iniziò così la conoscenza, fatta di parole interrotte, di sforzi linguistici ed, a poco a poco, di sorrisi e di sguardi furtivi. La donna, così gli disse, era vedova da diverso tempo, senza figli ed era a Roma per turismo. Inutile dire che la vocazione turistica prese Enrico, a dispetto degli impegni di lavoro. E la conoscenza divenne in breve tempo amicizia, poi amore ed infine passione. A Enrico non sembrava vero: aveva trovato una donna come voleva, che sapeva ascoltarlo quando parlava, quasi in estasi di fronte a lui. Le raccontò di tante cose e della sua grande passione: la collezione di orologi, di notevole valore, che teneva in casa dentro la cassaforte. Questo aspetto non interessò proprio la signora che, ripetendogli il suo amore, gli chiese di conoscere meglio l’Italia, a cominciare dalla sua città. Inutile aggiungere che ripartirono da Roma insieme e che la donna divenne ospite, graditissima, di Enrico nella sua bella casa; furono giorni meravigliosi, notti d’amore infuocate; si promisero persino di sposarsi di lì a qualche mese. Ancora addormentato Enrico si volse per accarezzare la donna, allungò la mano, ma invano: non era a letto. “Ramona, dove sei?” Non venne nessuna risposta; preoccupato Enrico si alzò, andò a cercarla in tutte le camere e nello studio vide quello che mai avrebbe voluto vedere: la cassaforte aperta e gli orologi spariti. Rimase attonito, non tanto per la perdita della sua collezione, ma per l’inganno subito perché quel furto non poteva essere stato compiuto che dalla Ramona; si avvicinò al telefono per chiamare la Polizia, ma presa in mano la cornetta si fermò: sul tavolo c’erano il passaporto ed il portafogli della Ramona. Come poteva averli dimenticati? Erano indispensabili per lei. In quel momento si aprì la porta d’ingresso ed entrò la Ramona, con in mano dei cornetti appena sfornati. “Amore, sono andata a prendere la nostra colazione” “Scusa, sono venuti i ladri?” “Ah, che sciocco che sei; non ti ricordi che ieri sera, quando hai aperto la cassaforte per farmi vedere la tua collezione, non sei riuscito a chiuderla per un guasto ed allora, non fidandoti di me, mi hai fatto uscire dallo studio per metterli in un nascondiglio sicuro?” “E’ vero, ho poca memoria, guarda sono nascosti nello schienale del divano; scu….”, ma non riuscì a finire la frase, perché il sangue gli inondò la gola e mentre rantolava soffocando vide la Ramona con in mano uno stiletto, poi tutto divenne buio. “Delitto orrendo a scopo di rapina” titolarono i giornali; la polizia avviò le indagini e solo il caso volle che la Ramona venisse scoperta, allorché ai controlli doganali della Malpensa le apparecchiature a raggi X evidenziarono nella sua valigia ben 50 orologi, troppi per una turista al ritorno di un esclusivo viaggio di piacere. Il mormorio della foresta La serpe strisciò veloce nello stagno in mezzo ad un assordante gracidio di rane. La foresta inglobava all’interno il piccolo specchio d’acqua torbida, a cui venivano spesso a dissetarsi i suoi abitanti, dal piccolo scoiattolo all’irsuto cinghiale. All’improvviso, il gracidio cessò e fu silenzio, un silenzio pressoché assoluto, salvo un lieve calpestio che si avvicinava sempre più allo stagno. Venivano avanti nel bosco due persone anziane, un uomo ed una donna, lui con il passo incerto, quasi barcollante, lei che lo sosteneva a fatica. “Ci siamo quasi, Maddalena; non è cambiato nulla; tutto è rimasto come cinquant’anni fa” “ Fermati Paolo, riposati un po’; fatico a sostenerti, fallo per me” L’uomo si fermò ansante, si asciugò con la manica della giacca il copioso sudore che gli copriva il viso e si appoggiò ad un albero. “Ricordo tutto come fosse ieri; era la nostra prima scampagnata e tu eri anche timorosa; splendeva il sole ed illuminava il tuo volto. Quanto eri bella e quanto sei bella ancora. Manca poco, riprendiamo il cammino.” I due sbucarono in una piccola radura verdeggiante, incorniciata da alberi secolari, le cui chiome quasi si incontravano. L’uomo si mise seduto sull’erba, affondò le mani nel terreno soffice ed umido e si volse verso la donna. “E’ questo il posto; in questa radura ti ho baciato per la prima volta; mi tremava il cuore, avvertivo un fremito che mi percorreva tutto il corpo, poi, impacciato, ho preso l’iniziativa ed abbiamo fatto l’amore, con l’orecchio attento, timorosi dell’arrivo di qualcuno. Anche se sono passati tanti anni, è come se fosse stato ieri. E’ stato semplicemente meraviglioso e non immaginavo che fosse così bello.” “Sì, mi ricordo tutto; era la prima volta anche per me ed è stata la più bella. Non stancarti, amore mio; lo ha detto anche il medico, non devi affaticarti; è un malanno passeggero che presto passerà.” “ Non sei mai stata capace di dire delle bugie, lo sai che non è vero, ma ti ringrazio ugualmente; non ho paura della morte; quello che temo è la sofferenza mia e, di riflesso tua; intanto che ho un po’ di forza ho voluto ritornare in questo posto stupendo, silenzioso, ove l’unico rumore presente, sommesso e ovattato, è il mormorio della foresta; non è un vero e proprio rumore, è il suono della natura, la voce della vita, quella vita che ora sento che per me sta sfuggendo.” All’intorno non si udiva nulla, se non il brusio delle foglie sotto l’incalzare del vento e qualche isolato, timido cinguettio. I due si abbracciarono, si strinsero forte; il loro era un amore che durava da mezzo secolo; non erano nati figli, con dispiacere di entrambi, ma questo non aveva incrinato il loro rapporto, l’aveva forse rafforzato; anche se vecchi, anche se stanchi, e nonostante la malattia di lui, nel loro cuore era rimasto quel fremito, quell’anelito del primo giorno d’amore. Osservarono a lungo il bosco, il cielo terso che traspariva fra le chiome verdeggianti; rimasero muti per almeno dieci minuti, mano nella mano, poi lui le disse “Sei sempre dell’idea? La tua mancanza lassù non mi sarebbe troppo gravosa; ti guarderò dal cielo, sarà come se fossi sempre accanto a te” “No, ho deciso, abbiamo deciso, in questo posto è nata la nostra vita ed in questo posto la stessa finirà”. La donna estrasse dalla tasca della sua gonna una boccetta, se la portò alle labbra, bevve un sorso, poi la porse all’uomo che fece altrettanto. Il giorno ormai volgeva al termine e la luce diventava sempre più fioca; era calato il vento, ma era sempre presente il mormorio della foresta, sempre più tenue, più soffocato. Quel che rimaneva dei due fu trovato per caso alcuni anni dopo da un cacciatore che rimase sgomento nel vedere due scheletri abbracciati. Il capello dell’angelo Verso sera iniziò a nevicare, prima qualche rado fiocco, poi, nel giro di pochi minuti, una vera e propria tormenta, che accelerò i passi della gente che affollava le strade il giorno della vigilia di Natale. Giacomo alzò il bavero del cappotto, cercando anche di togliersi di dosso la neve, ma era inutile, tanta ne veniva; a differenza degli altri, certi della loro meta, proseguiva lentamente, gettando ogni tanto un’occhiata distratta alle vetrine sfavillanti. Pensava a tutta quella gente che tornava a casa con i regali, che di lì a poco si sarebbe messa a tavola per l’immancabile ed opulenta cena della giornata forse più importante dell’anno, e si sentì ancor più solo, lui che non era atteso da nessuno, se non da una casa vuota e fredda nonostante il calore del camino. Non voleva rincasare, non poteva neppure immaginarsi seduto ad una tavola senza commensali se non se stesso; da quando gli era morta la moglie, aveva trascinato un’esistenza svilita di ogni emozione, di ogni sentimento, se non il ricorrente e tambureggiante ricordo di un passato sereno e felice. Le ore passavano ed ormai si avvicinava la mezzanotte; di gente per la strada non ve ne era più. Giacomo andava su e giù, senza più pensare, senza alcun senso ed allora si chiese se valeva la pena di vivere, non riuscendo a trovare un motivo che potesse giustificare un suo ulteriore permanere in questo mondo che tanto lo aveva dimenticato. “Buona sera e Buon Natale” risuonò una voce alle sue spalle; si volse, ma non gli parve di vedere nulla nel fitto nevischio. “Buona sera e Buon Natale” e gli parve, dato il tono forte, che chi pronunciava quell’augurio inaspettato gli fosse più vicino di quanto non pensasse. Si stropicciò gli occhi, guardò a lato, spostò anche lo sguardo in alto, ma fu solo quando volse il viso verso il basso che la vide, che vide o pensò di intravedere un volto minuto, dalla capigliatura rossa, che sbucava da una finestrella rasente il marciapiedi. Era una donna e che donna, come mai gli era capitato di vedere. Chinò il capo, si inginocchiò ed il suo viso quasi sfiorò quello di lei; potè così osservare i suoi lineamenti perfetti, il nasino leggermente all’insù, la piccola bocca incorniciata da due sottili labbra rosa e, soprattutto, gli occhi grandi di un incredibile colore azzurro. Fu un attimo, quasi un battito d’ali il bacio che si scambiarono, poi la figura si ritrasse dalla finestrella e sparì. “Dove sei? Perché te ne vai?”, ma non ottenne risposta. Allora volse lo sguardo all’intero caseggiato e si accorse che era una chiesa. Trovò l’ingresso, camminando rasente il muro, ed entrò. Non era ancora la mezzanotte e la gente doveva ancora arrivare; si inginocchiò di fronte al presepe ed osservò le figure di cartapesta, la capanna con il bambino, Giuseppe e Maria, i pastori all’intorno e i due angioletti che quasi proteggevano la nascita del figlio di Dio. Si ritrasse sgomento, guardò meglio, ma non c’erano dubbi: uno degli angioletti aveva il volto inconfondibile della sconosciuta incontrata poco prima. Rimase a lungo attonito ed intanto la chiesa si riempì di fedeli. La Messa stava volgendo al termine, quando udì nuovamente quella voce “Buona sera e Buon Natale”; istintivamente guardò il presepe e noto immediatamente che dei due angioletti sopra la capanna ne mancava uno. Corse fuori ed in affanno si diresse verso casa; ogni tanto sentiva, o gli sembrava di sentire quella voce, ora più vicina, talvolta più lontana. Arrivato a casa, non si spogliò neppure e si buttò sul letto, preso da una sonno incontrastabile. E sognò, sognò un prato verde con tante margherite in fiore, una donna che lo chiamava e lui che a larghi passi, quasi saltellando, le si faceva incontro, un cielo terso, una luce accecante, un lontano suono di violini. Fu ritrovato da un parente nella tarda mattinata; giaceva sul letto immobile e completamente vestito. Si parlò di un colpo apoplettico, ma il medico che visitò il cadavere non potè fare a meno di osservare la straordinaria serenità del volto, l’espressione invero felice degli occhi spalancati e, quasi per caso, notò un lungo capello rosso sulla guancia sinistra. Giacomo guardava il mondo dall’alto e sorrideva tenendo per mano la moglie, i cui capelli emettevano ampi riflessi rossastri sotto la calda luce dell’eternità. Nebbia Scendeva la nebbia, avvolgendo tutto all’intorno; a poco a poco i monumenti si sfumavano, gli alberi, già bianchi per il gelo, sparivano nel generale grigiore di una tetra e fredda giornata di fine autunno. Anche i rumori si attutivano e le voci sembravano ovattate, tanto che Marco non si accorse del saluto di una persona incrociata e che camminava sul marciapiedi opposto; ma anche se ci fosse stato un sole splendente, nulla avrebbe sentito e tanto meno niente avrebbe visto. Era ormai da tempo che si sentiva avvolto da una caligine oscura, da un gelo dell’animo che a poco a poco gli aveva raffreddato il cuore; eppure, non era sempre stato così e gli anni belli e sereni ormai apparivano come un lontano e sfocato ricordo. Nulla, si sentiva più nulla del nulla, percepiva quel senso devastante di inutilità; e tutto perché, giunto ormai ad una certa età, si era accorto con disperazione di essere solo, nonostante le amicizie che un tempo gli erano parse il sale della vita e che ora invece apparivano come fenomeni episodici senza senso. Camminava lentamente nel parco, lo sguardo a terra, il passo incerto e quasi indolente, senza una meta ed uno scopo ben preciso, commiserandosi del suo stato e ritraendo dai suoi pensieri quasi un senso di sollievo, benché attutito dall’angoscia di quella solitudine che gli era stata sempre propria, ma che non aveva mai avvertito. Sentì approssimarsi il suono soffocato di passi lievi sulla ghiaia del vialetto ed alzò il viso; aguzzò la vista e vide il progressivo focalizzarsi di un’immagine esile, che gli sembrò essere quella di una donna. Ansante, la figura femminile si fermò a pochi passi da lui; la osservò e notò che si trattava di una donna non più giovane di lui, magra e slanciata. Rimase sorpreso quando udì il saluto, un semplice “Buon Giorno” pronunciato da una voce argentina e dolce. Contraccambiò a bassa voce e vide il volto della sconosciuta illuminarsi di un largo sorriso; non era proprio una bellezza, ma quel sorriso così spontaneo gli arrivò fino al cuore, che cominciò a sgelarsi, ad accelerare i suoi battiti, a pompare nuova linfa. Si accinse, un po’ impacciato, a presentarsi quando la donna riprese il suo cammino, gli passò accanto, quasi sfiorandolo e ne avvertì il profumo, un aroma di muschio frammisto a violette, un profumo che cercò di trattenere il più possibile dentro le narici. Si inebriò, irrigidendosi e sollevando il volto verso il cielo; si volse, ma già la figura si perdeva nella nebbia. Si accorse di essere pervaso da un profondo turbamento, da un desiderio infinito di rivederla; sentì, per la prima volta, di essere meno solo. Si scosse, ma non poteva fare a meno di continuare a pensare alla donna e piano piano riebbe voglia di vivere, di sognare, di sperare. La nebbia continuava ad avvolgere ogni cosa, fuorché il suo cuore. Un mondo perfetto Faceva veramente freddo e Giacomo pensò che quello sarebbe stato senz’altro il giorno più freddo della sua vita; camminava adagio e tardava volontariamente il suo ritorno a casa; come avrebbe potuto dire a sua moglie ed ai suoi figli che in mattinata a lui ed ai suoi colleghi era stata consegnata la lettera di licenziamento. Trent’anni aveva trascorso in quella ditta, trent’anni della sua vita durante i quali aveva lavorato nella certezza che un giorno avrebbe lasciato il suo posto per il meritato pensionamento e quante aveva vagheggiato l’emozione e la soddisfazione di quell’evento, con i colleghi all’intorno a festeggiarlo, l’immancabile brindisi, il regalino di commiato. Era stata una gran bella ditta, florida e stimata, ma negli ultimi anni molto era cambiato ed ora era sull’orlo del fallimento; avrebbe preferito che anziché con una lettera gli fosse stato comunicato verbalmente, ma evidentemente i padroni avevano altro a cui pensare. Giacomo si trovava così ad oltre cinquant’anni senza lavoro e senza pensione, ma soprattutto senza una via d’uscita: chi mai avrebbe assunto uno della sua età? Come avrebbe potuto mantenere la sua famiglia, come avrebbe potuto pagare le rate del mutuo? Per la prima volta in vita sua si sentì impotente, incapace di affrontare una situazione apparentemente senza via d’uscita. Immerso nei suoi pensieri non si accorse di urtare un altro uomo, un vecchio dall’aspetto gracile e malfermo. Questi borbottò qualche cosa e Giacomo si scusò subito; il vecchio tuttavia continuava a borbottare e a Giacomo parve di capire che si lamentava. Benché non facilmente comprensibili, si ripetevano queste parole: “Sono vecchio, solo, malato e senza casa”. “Ecco uno che è più disgraziato di me in un mondo perfetto che non accetta chi non gli è più utile” si disse Giacomo e, prendendo per un braccio l’uomo, imboccò la strada di casa. Era la vigilia di Natale e nella sera sempre più buia e fredda i passanti erano rari e frettolosi. Dinanzi alla porta di casa Giacomo pensò che non avrebbe detto nulla alla moglie del licenziamento e che avrebbe giustificato la presenza del vecchio come l’occasionale incontro di un ex collega che, solo, la vigilia di Natale aveva bisogno del calore di una famiglia. Entrarono, alla moglie stupita per la presenza dell’altro fu fornita questa spiegazione; la donna accolse con calore l’estraneo, così come i due figli, due bei ragazzi di tredici e quindici anni. Indi, si sedettero tutti a tavola; il vecchio, mentre mangiava, raccontò dei lunghi anni di lavoro talmente bene, con dovizia di particolari, di fatti realmente accaduti che a poco a poco convinsero Giacomo di trovarsi veramente davanti ad un ex collega. Lo ascoltarono rapiti; le sue non erano parole, ma sembravano la lettura di un libro della loro vita, dove gioie, dolori si mescolavano con incredibile tempismo e calore; c’erano i desideri di quello che si sarebbe voluto essere, di quello che si sarebbe voluto fare, ma non era stato fatto; era insomma un’analisi sincera, a volte anche impietosa, ma utile perché il ricordo è il tesoro di ogni uomo. Finita la cena, accomodarono per la notte il vecchio sul divano; Giacomo e la moglie andarono a letto, ma nessuno dei due riusciva a dormire, ripensando al loro passato, e fu proprio il ricordo della loro prima notte d’amore che li spinse l’uno nelle braccia dell’altro; si amarono come da tempo non facevano ed alla fine esausti li colse il sonno. La luce del giorno, che filtrava attraverso le persiane, inondò la camera da letto e svegliò i due coniugi; Giacomo pensò che fosse il momento di dire alla moglie del licenziamento, ma non trovando le parole giuste preferì consegnarle la lettera. La donna lesse, le si inumidirono gli occhi, poi abbracciò il marito. “Amore mio, perché non me lo hai detto ieri sera? E’ una notizia troppo bella che mi riempie di gioia sapere che ti hanno promosso alla carica di direttore generale”. Giacomo la guardò sbigottito, prese in mano la lettera e lesse ad alta voce “Abbiamo il piacere di comunicarLe che, con decorrenza odierna, Le è stato conferito l’incarico di Direttore Generale”; prese per mano la moglie, colto da un improvviso lampo di luce, ed insieme andarono in soggiorno; il divano era vuoto, del vecchio non c’era nessuna traccia, ma solo un biglietto con poche parole “Il mondo può essere perfetto, solo che noi lo vogliamo”. Ritorno al passato Davide si accorse improvvisamente che il tempo trascorreva troppo in fretta e che ormai aveva già superato la cima della collina della vita, scendendo molto più alla svelta di quanto era salito. Si girò a lungo nel letto, incapace di prendere sonno, con il pensiero fisso al suo passato, la cui memoria sembrava diventata più pressante. Alla fine, dopo aver cambiato più volte posizione, riuscì ad assopirsi od almeno così gli parve, perché ebbe la strana sensazione di andare a ritroso nel tempo. Rivide brevemente gli anni della fanciullezza, della quale nulla aveva da rimproverarsi, poi più nitida gli apparve l’immagine della pubertà, dei primi sogni, dei primi impudichi desideri e sorrise. Aveva provato tanto timore per il sesso, gli era sembrato qualche cosa di esaltante, ma di cui vergognarsi, e invece da tempo lo considerava come un fenomeno del tutto naturale, anche se gli era rimasto uno strano senso di pudore che permeava ogni suo rapporto. Non era più che un retaggio di quel periodo e che comunque gli pareva benefico, eliminando quella sensazione di abituale che la frequenza dei rapporti tendeva ad indurre. In particolare, rivide il suo primo amore, i primi approcci, risentì l’emozione a suo tempo provata e provò dispiacere a pensare come la relazione fosse terminata altrettanto velocemente come era iniziata. Chissà come era ora la Caterina, forse anche lei appesantita dagli anni e non con quella freschezza sempre presente nel ricordo. Eh sì, l’aveva amata, se amore si poteva chiamare quel senso di trepidante attrazione che aveva provato per lei, perché l’amore era tutt’altra cosa. L’amore sarebbe venuto in seguito ed era un sentimento che nasceva a poco a poco, senza quasi accorgersi, dapprima un tenue ruscello che, ingrossandosi lentamente, diventava un grande fiume placido e costante. Era sbocciato con la Marianna, che poi sarebbe diventata sua moglie, una donna tanto bella quanto sfortunata. Non avevano potuto conoscere le gioie di un figlio e forse questo aveva impedito al loro amore di diventare un grande fiume tranquillo; lentamente il corso d’acqua aveva perso parte della sua forza, per riprenderla solo quando le prime avvisaglie della malattia di lei avevano fatto comprendere ad entrambi quanto fossero indispensabili l’uno per l’altro. Troppo tardi, però, perché in una grigia d’ottobre lei lo aveva lasciato per sempre, solo, con il suo dolore ed il dubbio che la loro vita avrebbe potuto essere diversa, solo se l’avessero voluto. Gli anni successivi, di cui non avrebbe voluto serbare il ricordo, erano storia più recente; lunghi giorni di solitudine, eguali l’uno all’altro e senza senso, alla disperata ricerca di un po’ d’amore, ma, tranne qualche avventura del tutto insignificante, non era accaduto proprio nulla. E fu solo quando cominciava a disperare che Davide rivide, ancora nitido, l’incontro, casuale, con una donna meravigliosa che neppure poteva immaginare potesse esistere se non nelle sue fantasie. Si era aggrappato a lei come un naufrago abbraccia una zattera e la donna lo aveva stretto a sé. Da quel giorno, il ruscello era cresciuto velocemente ed in poco tempo era diventato un grande fiume tranquillo, infondendogli quel senso di serenità che da tanto tempo, forse da sempre, andava cercando; era un amore maturo, ma non per questo meno bello, anzi gli pareva invero meraviglioso per la consapevolezza di esservi giunto sia con il cuore che con la mente. Perché preoccuparsi allora del passato? Perché dunque pensare a quanto, poco o tanto, gli sarebbe rimasto da vivere? Sì, era vero che la discesa della collina era diventata veloce, ma era pure altrettanto vero che per la prima volta si sentiva in vita sua leggero, quasi etereo, ed al di sopra delle umane vicende, una sensazione che gli infondeva fiducia nell’avvenire per la consapevolezza di avere fatto una scelta giusta, per la certezza che il tempo non avrebbe avuto più alcun significato. Davide si risvegliò di colpo, si girò su un fianco ed abbracciò la sua donna, che, insonnolita, gli chiese “Che cosa c’è, mio caro Davide?” “ Nulla, c’è solo che ti amo” E le due bocche si incrociarono in un lungo appassionato bacio. Quella primavera Roberto guardava attraverso il vetro della finestra il paesaggio ingrigito dall’autunno, fradicio dell’acqua che continuava a cadere da giorni, e lentamente sentì nascere in lui il desiderio della primavera, di quella primavera da non molto trascorsa. Era stata senz’altro la più bella, la più esaltante della sua vita, e non solo per la mitezza del clima e le numerose giornate di sole, ma per un fatto che gli era accaduto e che pensava non fosse più possibile alla sua età. Ricordava come fosse stato ieri, le immagini gli scorrevano dinanzi agli occhi, provava la stessa emozione di allora. Insomma, per farla breve, si era innamorato di una donna, anche lei non più giovane, e libera come lui. Avevano trascorso insieme dei giorni bellissimi, avevano fatto anche l’amore con un ardore mai provato; per quanto fossero fatti l’uno per l’altra, tuttavia, ad un certo punto si erano lasciati per l’incapacità da parte di Roberto di assumersi gli oneri di un impegno duraturo. Era stato troppo tempo solo e l’idea di vivere insieme ad un’altra persona per lungo tempo lo aveva spaventato e così, inconsciamente, giorno dopo giorno, era calato in lui il desiderio. Lei se n’era accorta, aveva chiesto spiegazioni, e lui le aveva mentito, dicendo che il suo era solo un amore primaverile e nulla più. Si erano così lasciati, ma ogni giorno in Roberto cresceva il rimpianto per quell’occasione fallita, per quell’amore di cui avvertiva tanto la mancanza; non la vedeva ormai da più di sei mesi, né sapeva se fosse ancora libera. Sentiva freddo in tutto il corpo, ma soprattutto nel cuore; non era mai stato così solo in vita sua come allora, le giornate sarebbero state tutte grigie come quella, né la prossima primavera, per quanto dolce, avrebbe potuto alleviare quell’acuta sensazione di dolore e di rimorso che da tempo lo aveva assalito. Respirò profondamente, si asciugò gli occhi lucidi, poi decise che forse si sarebbe potuto tornare indietro, che sarebbe stato possibile rivivere quella primavera anche in autunno e per tutte le stagioni successive. Corse fuori verso la casa di lei, mentre il cuore gli tremava. E se ci fosse stato già un altro? E se lei non avesse voluto? Ma ormai la decisione era stata presa e qualunque fosse stato l’esito non avrebbe potuto fare altrimenti. Suonò il campanello, si aprì la porta ed apparve il volto stupito di lei. Roberto, i capelli e l’abito bagnati dalla pioggia, la guardò estasiato; voleva parlare, spiegare, scusarsi, ma non ci riuscì. L’abbracciò e la baciò e lei contraccambiò ansante, richiudendo la porta alle sue spalle. L’appuntamento Carlo attendeva impaziente, un’occhiata all’orologio, l’altra alla strada. Il tempo sembrava non passare mai; per sicurezza era arrivato in anticipo, ma ora erano passati già circa dieci minuti dall’orario fissato. Continuava a pensare, stringendo in una mano un mazzo di fiori. “Verrà o non verrà”; si erano conosciuti per caso ad una festa di comuni amici, una di quelle feste alle quali veniva invitato nel tentativo di smuovere la sua naturale timidezza. Anche quella sera si sentiva impacciato, soprattutto perché lui era solo, mentre gli amici, o erano da tempo sposati, o erano in compagnia di donne che gli sembravano bellissime. Stava in piedi nell’angolo della camera, occupata al centro da diverse coppie che danzavano teneramente abbracciate; ogni tanto accennava all’uno o all’altra un sorriso di saluto, le mani in tasca, cercando di assumere un atteggiamento di uomo vissuto che non gli era proprio. Era una serata noiosa, almeno per lui che ad un certo punto accennò ad uno sbadiglio; fu così, con suo grande stupore, che richiudendo la bocca e riaprendo gli occhi si accorse di avere a fianco una figura femminile. Rimase come folgorato, perché la donna lo guardava e sorrideva. Piccola, con gli occhiali, lo guardava dal basso verso l’alto e sorrideva a lui. Una vampata di calore lo colse, sentì chiaramente il volto arrossarsi e cercò di aspirare più che aria che poteva. “Mi scusi se ho accennato ad una risata, ma è stato veramente buffo il suo tentativo di soffocare lo sbadiglio” esordì la sconosciuta. A Carlo uscì dalla bocca un flebile “Che serata noiosa!” “Sono d’accordo, forse loro si divertiranno, perché non sono soli, a differenza di noi” poi si zittì ed abbassò lo sguardo. Carlo la osservò bene e notò che, senza essere una bellezza, era un tipo veramente carino, con i capelli rossi, il viso quasi ovale macchiato dalle efelidi, due occhi castani molto vivaci, un nasino delicato ed una bellissima bocca, sostenuta da un mento appena pronunciato, ed anche il corpo, benché minuto, non era niente male. Insomma, si accorse di esserne colpito e fortemente attratto; fu così che osò quello che non aveva mai osato. “Soli, no, non siamo soli; al mio fianco ci sei tu e solo che lo vogliamo possiamo dare un’impronta diversa alla nostra serata; proviamo a ballare? Non sono molto bravo, però….” “Neppure io sono una ballerina, ma mi va, entriamo nella serata” Danzarono a lungo, fra lo stupore degli amici, frammisto ad una certa ilarità, perché la coppia non era certo una degna allieva di Tersicore, per non parlare della evidente disparità fisica: al corpo minuto di lei si contrapponeva la statura sopra la media di Carlo ed una certa abbondanza di corporatura che lo rendevano alquanto impacciato. Tuttavia l’applauso che li salutò al termine dell’esibizione fu sincero e dovuto alla soddisfazione di vedere un caro buon amico finalmente insieme ad una donna. Ritornati nell’angolo, ansanti, ma soddisfatti, avviarono una conversazione conoscitiva, al termine della quale Carlo, dopo non poche esitazioni, propose alla Miriam (questo il nome della donna) di andare a cena insieme il giorno dopo. Dopo alcuni istanti di riflessione, la risposta fu positiva; l’orario fu fissato per le 19,30, l’incontro nei pressi di un noto ristorante della città. Carlo quella notte non dormì e più cercava di prendere sonno più si accorgeva di sentirsi irresistibilmente attratto da quella figurina femminile; non aveva mai provato nulla di simile: un’immensa felicità accompagnata dall’angoscia del pensiero che lei non avesse per lui lo stesso sentimento. L’alba lo colse insonnolito, con il chiarore del giorno che lo rinfrancò. Fu un’intensa giornata di preparazione: dopo una doccia accurata, la mattina fu trascorsa dal barbiere che brigò non poco per cercare di nascondere l’incipiente calvizie; il pomeriggio invece fu occupato dalla scelta dell’abito e dei dettagli (una camicia sembrava poco in tinta con la giacca, una cravatta era perfetta, ma il nodo non era irreprensibile). Il problema più grosso lo assalì mentre finalmente si vestiva: come avrebbe potuto manifestarle i suoi sentimenti? Quali parole usare? Meglio ancora, come farle capire che si sentiva attratto così tanto? Come non pregiudicare tutto quanto con una frase sbagliata? Uscì di casa, con un campionario di idee incredibilmente folto, senza che, tuttavia, una fosse, a suo avviso, migliore dell’altra; poi gli balenò il significato di un oggetto ed in breve si trovò da un fioraio a fare ulteriori scelte, decidendosi poi per un mazzo di rose rosse, di un colore assai simile a quello dei capelli di Miriam. Ed eccolo, fermo in piedi ad attendere, con stretto nella mano destra un mazzo di bellissime rose. Di tanto di tanto si mordicchiava le labbra, battendo il piede sinistro. Aveva appena dato un’occhiata all’orologio, che segnava le 19,45, quando ebbe la chiara ed emozionante percezione di una mano lieve sulla spalla destra. Si volse e la vide: anche lei si era agghindata nel migliore dei modi ed i suoi occhi brillavano di una luce viva e dolcissima. Non seppe mai il perché, ma lasciò cadere il mazzo di fiori e l’attrasse a sé, poi d’impeto appoggiò le labbra sulle sue. La donna contraccambiò, poi staccandosi delicatamente da lui disse solo “Oh Carlo, quanto ho desiderato questo momento”. Carlo sorrise impacciato, ma fiero, poi la prese sottobraccio e si avviarono al ristorante. Non aveva appetito, ma per la prima volta in vita sua si accorse di esistere e di vedere il mondo sotto una luce diversa; no, non gli era passata la timidezza, gli era invece sopravvenuta un’incredibile voglia di vivere. Incontro nel parco Il vento freddo, tagliente, sibilava nel parco deserto e sollevava in un turbinio la neve farinosa caduta da poco. Alcuni passerotti saltellavano qua e là alla ricerca di un po’ di becchime, osservati da un gatto sornione nascosto dietro un albero. Un uomo passeggiava fra la neve tenendo al guinzaglio il suo cane, entrambi incuranti del tempo così avverso. Dalla parte opposta venivano un altro uomo ed il suo cane. Si incrociarono, si guardarono un attimo e mentre le bestie si annusavano si riconobbero. “Ma tu non sei Pietro?” “Sì, Giovanni” “ E’ una vita che non ci si vede;come stai?” “ Bene, e tu?” “ Non c’è male, anzi non potrebbe andare meglio; è passato tanto tempo, ora sono in pensione e le giornate sono lunghe; ci sono ore ed ore in cui non si fa altro che pensare e, scusami, ma non riesco a togliermelo dalla testa, anche se è accaduto tanti anni fa; è che mi ritorna sempre in mente l’Annalisa e di come tu me l’hai portata via; è stato un dolore incredibile che neppure mia moglie è riuscita a lenire.” “ Ma allora, dopo, ti sei sposato!” “ Sì, e posso dire di amare mia moglie, anche se nella mia mente c’è sempre presente il ricordo dell’Annalisa, di quello che è stato il mio primo amore, forse il più bello.” “Scusami, ma sai che anch’io l’amavo, ed in tutta sincerità non ho fatto nulla per portartela via; è lei che ti ha lasciato, come dopo pochi anni di matrimonio ha abbandonato anche me; vedi, tu non l’hai ancora capito, ma io che ho potuto vivere un po’ insieme a lei ho compreso che dietro quell’apparenza di dolcezza, di tenerezza si cela un’altra Annalisa, una donna per la quale il concetto di un amore duraturo è impensabile, una persona che ha bisogno di sentirsi sempre desiderata da qualcun altro; è un tipo fragile e forse anche immaturo, e questa è l’analisi che ho fatto di lei nei miei lunghi anni di solitudine; tuttavia, Pietro, l’amo ancora, al pari di te; mi riesce inspiegabile questo sentimento e forse l’unica spiegazione è data dal fatto che cerco di rimproverarmi di aver sbagliato, o forse questo motivo è una scusa che la mia mente cerca per soffocare le ragioni del cuore.” “Ti capisco bene; io invece ho cercato un’altra spiegazione per questo ricordo che non è amore, ma è invece l’affetto per un tempo passato, per un’epoca che ancora mi illudo fosse felice; vedi, più ci penso più credo di non averla mai amata veramente; sì, ne ero fortemente attratto, ma questo non è amore; più che lei mi piaceva il modo di vivere che avevo con lei, la spensieratezza, il non pensare mai al domani, un impegno non finalizzato nell’immediato ad un’unione più duratura; era come se vivessi fuori dal mondo, nel pieno di una gioventù che mai più ritornerà; in questo senso ho scoperto che l’Annalisa nel mio ricordo non è più che un simbolo, è l’emblema del passato che riaffiora negli anni come un palliativo per la certezza del futuro di un povero vecchio. A proposito, sai dov’è ora l’Annalisa?” “Sì, vado ora a farle visita; è morta circa dieci anni fa e non passa giorno che non mi rechi sulla sua tomba al cimitero” “ Chissà se avrà avuto tempo di ricordare il passato; no, non credo, per lei non esistevano né il passato, né il futuro, ma solo il presente, alla continua ricerca di un amore che già sapeva non avrebbe mai trovato, perché per lei l’amore era solo un mito.” “Ora ti saluto; sulla tomba le parlerò del nostro incontro; che vuoi che le dica da parte tua?” “Nulla, semplicemente nulla; se potesse sentirti, non ascolterebbe; se potesse vederti, guarderebbe altrove all’inutile ricerca di un altro mito. Arrivederci, vado a casa, vado da mia moglie, vado da chi mi ha saputo dare l’amore e che ora sento di amare come non mai.” Confessione Quando leggerete queste mie righe, non sorridete, ma pensate a quest’uomo che in preda all’angoscia più profonda spera di trovare sollievo in una confessione; sarete i testimoni di un evento che verrà raccontato anche nei secoli a venire, di un crimine che non avrei voluto commettere, ma che ho perpetrato solo perché così era scritto… Ho tradito il mio migliore amico, ma che dico, il migliore amico di tutti noi, un uomo come mai si era visto ed il cui verbo incanterà le genti fino a che su questa terra ci sarà un barlume di vita. Lui ci ha dato la spiegazione di perché viviamo e di perché moriamo, lui ci ha dato la speranza di un’esistenza diversa, lui ci ha portato l’amore; ne sono stato soggiogato anch’io e mi sono sentito partecipe commosso ed entusiasta di un avvenimento che ha rivoluzionato il mondo, questa terra che calpestiamo, che malediciamo, che si apre solo per accogliere il nostro corpo nell’eterno riposo. Moltitudini lo hanno ascoltato e seguito ed infinità di genti vivrà nel suo significato, non tutti, comunque, perché l’amore per il prossimo è innanzitutto la rinuncia all’amore per se stessi, alle proprie vanità, ai soverchianti interessi personali. La tentazione di pensare alla felicità materializzata nella ricchezza, nel potere, sarà sempre forte e ci sarà sempre chi cederà, nonostante le sue parole, nonostante la certezza di un’esistenza infinita anche oltre la morte; ed anch’io ho ceduto, non volevo, ma come in un copione di una storia meravigliosa ho dovuto improvvisamente recitare la parte del cattivo, e devo dire che mi è riuscita bene; mi hanno dato trenta denari per tradirlo e li ho accettati, ma ora la mia coscienza si rivolta, perché ho tradito anche me stesso, io che mi sentivo un privilegiato a stargli accanto e che avrei dato la mia vita per lui, quella vita che fra poco darò inutilmente. L’unico dubbio che mi resta è che ho dovuto farlo, perché tutto era stato predisposto nel libro del tempo; ma l’angoscia che provo è perché non mi sono opposto al destino e questo è tanto vero che la mia coscienza mi contorce lo stomaco e la mente; anche se ho commesso un crimine, non mi sento un delinquente, ma un essere che forse più di tutti ha bisogno del suo amore e spero che mi abbia perdonato, lui che sapeva che sarebbe stato tradito e da chi, ma che non ha fatto il mio nome, perché ha capito che ero solo il mezzo di un disegno più grande e che la mia infedeltà sarebbe stata per me una croce ben più grande di quella portata da lui. Provo vergogna per la colpa, ma ritengo giusta una condanna che mi liberi dal male che c’è in me e mi consenta un giorno di assurgere ad una nuova vita; già fuori una corda ed un ulivo mi aspettano. Ora vado e che quello che è stato scritto avvenga; a lui chiedo perdono ed a voi che leggerete solo un po’ di compassione. Neve dorata Paolo arrancava su per la salita, sprofondando fino alle anche nella coltre di neve soffice; era una fatica improba, ma si era più volte ripromesso di raggiungere il Santuario della Madonna delle Nevi non per la comoda carrozzabile, ma per l’impervio sentiero che giungeva sin lassù dalla valle sottostante. Era un voto solenne che aveva prestato alcuni mesi prima: se avesse trovato ciò che da tempo cercava, sarebbe andato a pregare nella chiesetta per la via più scomoda. Più si avvicinava alla cresta, maggiore era la quantità di neve che doveva solcare e lo sforzo di avanzare passo passo diventava sempre più logorante, ma Paolo stringeva i denti, con il sudore che scendeva lungo tutto il corpo fino a ricongiungersi all’umido freddo e pungente che ormai aveva impregnato i pantaloni. L’ultimo tratto, benché di una sola decina di metri, gli sembrò un autentico supplizio, ma Paolo inarcò la schiena, si aggrappò ai massi affioranti, strabuzzò gli occhi e finalmente fu in cima. Quivi si gettò a terra ansante ed esausto, inspirando l’aria a pieni polmoni, fino a quando la respirazione divenne regolare ed il tremito che scuoteva il corpo finì con il cessare. Si rialzò e si guardò intorno; il panorama era di una bellezza sconvolgente: verso est la scarpata profonda da cui era venuto, ad occidente alcune guglie rocciose protese verso il cielo, a sud un bosco di abeti di un intenso verde scuro chiazzato dal bianco della neve ed a settentrione la piccola, incantevole chiesetta della Madonna delle Nevi, verso la quale prese ad avviarsi. Entrò nel Santuario con passo barcollante, si inginocchiò e non ebbe più la forza di alzarsi. La luce filtrava attraverso le vetrate dipinte e rischiarava l’interno con un gioco di ombre che sembravano accrescere le dimensioni dell’unica piccola navata. Paolo ripensò al motivo per cui adesso si trovava lì, a quel voto al quale ormai dava un significato ben più grande di un giuramento; eh sì, era accaduto un miracolo, uno di quegli eventi che, sebbene non rari, quando ti interessano personalmente non sai spiegarti. Solo da anni, vedovo con un dolore costantemente presente, aveva per caso conosciuto una donna che gli era subito apparsa un sogno meraviglioso e che, come tale, non avrebbe mai sperato potesse concretizzarsi. In lei c’era la dolcezza che tanto gli mancava, la fermezza che gli serviva per uscire dal torpore della solitudine inquieta, la bellezza esteriore ed interiore che la collocava sul gradino più alto del desiderio. Non osava sperare e proprio per questo aveva chiesto l’aiuto a Dio, una richiesta tanto accalorata e sentita che era schizzata verso l’alto dei cieli, ed ora quel voto aveva assunto il significato di un ringraziamento. Si rialzò a fatica ed uscì; la luce del sole l’abbagliò, ma non tanto da non poter scorgere dinanzi a lui l’immagine della donna amata, giunta fin lì per la carrozzabile. Chiuse gli occhi mentre l’abbracciava e la baciava; poi, quando li riaprì, volgendosi intorno, gli parve che il candore della neve intorno a loro lasciasse il posto al giallo dorato, o forse era proprio così, perché il sole prese a girare vorticosamente intorno a due esseri avvinti nello splendore di una prorompente felicità. Il cavaliere errante Già cominciavano a calare le ombre della sera e la luce si affievoliva rendendo uniforme il colore del paesaggio. Il cavaliere arrancava lungo il sentiero nel bosco, scosceso ed appena tracciato, tenendo per la briglia il suo fidato sauro. Giunto ad un tratto pianeggiante si fermò e decise che era il posto adatto per passare la notte; legò il cavallo ad una quercia, si tolse l’armatura e si sdraiò sul suolo umido. Il buio era ormai diventato fitto ed il cavaliere chiuse gli occhi, ma per quanti sforzi facesse non riusciva a prendere sonno. Volse lo sguardo in alto e fissò l’unica stella presente nel riquadro di cielo non coperto dalle chiome degli alberi; luccicava come un miraggio di un posto tanto desiderato e dove non avrebbe mai potuto andare. Erano anni che vagava su questa terra alla ricerca di una pace interiore che tanto agognava per vincere quel rimorso che gli torceva lo stomaco, per dimenticare tutti quegli uomini infilzati dalla sua spada e che presenziavano, muti ed attoniti, ai suoi sogni sempre uguali, laddove gli sembrava di poter finalmente afferrare la fune della salvezza eterna, ma poi all’ultimo momento la mano scivolava e lui ricadeva nel suo mondo di orrori. Le palpebre cominciarono ad appesantirsi, il sonno si apprestava ad invadere la sua mente, mentre nell’oscurità iniziavano a prendere corpo le immagini sfocate delle sue vittime. Quanto dormì? Tre ore, quattro ore? Non lo sapeva; il suo risveglio coincise con il primo chiarore del nuovo giorno; si drizzò, più stanco di quando si era coricato; si trascinò fino al cavallo e, sciolte le briglie, riprese il suo cammino errante. A chi incontrava non chiedeva dove si trovasse, ma se conosceva il posto della serenità; molti restavano muti, qualcuno rispondeva che questo luogo non esisteva, ma lui continuava la ricerca e così per anni, attraverso le torride giornate dell’estate, i piovosi mesi autunnali, le fredde ore dell’inverno e le dolci brezze primaverili. Cominciava a disperare, quando un giorno fece la conoscenza di un essere umano che avrebbe avuto una risposta per tutte le sue domande. Stava facendo delle abluzioni in uno specchio d’acqua quando osservando la superficie appena increspata vide l’immagine di un uomo vecchio, la barba incolta, i capelli ingrigiti dal tempo. Osservò bene, si toccò le guance, si passò le mani in testa e si riconobbe; ebbe un momento di sgomento: in tanti anni della sua ricerca non aveva mai pensato al tempo, invece sempre presente; gli era sempre sembrato che nel suo continuo errare lo spazio fosse costituito solo dalle miglia percorse e che per lui non esistesse altro che l’eternità. E se si fosse sbagliato? Se il posto della serenità non fosse di questo mondo? Ma allora, come avrebbe potuto porre fine ai suoi tormenti? Gli pervennero da lontano i rintocchi di una campana e, irresistibilmente attratto, si avviò verso quei suoni, giungendo alle porte di un monastero. Un frate era sulla porta e, guardando il cavaliere, gli disse ”Amico mio, sei il benvenuto; chiunque tu sia sappi che questa campana suona anche per te; ti prego di ascoltarla, di guardare dentro di te e per quanto il tuo animo possa essere angosciato ricordati che solo tu puoi sanare ciò che ti affligge, solo tu puoi sapere il perché dell’origine del tuo male, come solo tu puoi farlo cessare; non è semplice, ma nemmeno tanto difficile; pensa solo che un atto di violenza può essere rimediato solo con un atto d’amore.” “Ma padre, io ho ucciso; come posso far tornare in vita le mie vittime?” “Vedi il mondo solo dal tuo ristretto punto di vista; noi siamo minuscoli, siamo parte di un disegno molto più grande, dove per comprendere che cos’è l’amore bisogna conoscere che cos’è la violenza e così è possibile avvicinarci a Dio; le tue colpe non potranno mai essere cancellate, ma la tua vita potrà avere un senso solo se prenderai coscienza delle tue colpe, solo se ti sentirai di espiarle non con il rimorso che ti corrode, ma accogliendo l’amore in te per trasmetterlo agli altri” Il cavaliere scese da cavallo e si mise in ginocchio; le lacrime scendevano lungo le guance, mentre si strappava di dosso l’armatura e spezzava la spada; sentì un calore che lo avvolgeva e che penetrava nel suo corpo per giungere fino al cuore. “Figliolo, vedo che hai capito; vieni con noi, c’è tanto da fare per alleviare le sofferenze di questa umanità; il mondo non è brutto, è solo così e noi quel poco che possiamo fare per migliorarlo lo dobbiamo fare”. Il frate aiutò il cavaliere a rialzarsi, lo abbracciò e lo fece entrare nel convento. Per lui il lungo errare era ormai terminato ed ora avrebbe intrapreso un viaggio ben più importante: quello verso l’amore. |