Racconti di Franco Pastore


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Annalisa
Avevo circa cinque anni, quando ebbi coscienza che i lamenti di mia madre non erano dovuto ad alcuna sofferenza, ma coincidevano con le visite di zio Pasquale o di qualche cugino, che veniva a farle visita, di tanto in tanto. A sette anni, frequentavo la prima elementare al Barra e mi veniva un nodo alla gola, quando tornavo da scuola e la mamma, in vestaglia, mi preparava in fretta un po' di pastina o un uovo strapazzato, accompagnato da una fetta di pane raffermo. Il letto grande sempre in disordine, veniva riordinato di sera, quando ci mettevamo a letto ed il tanfo di sudori diversi mi rimescolava lo stomaco, non sempre perfettamente sazio. Per anni avevo atteso una sua carezza, quando ancora pensavo che l'esser mamma voleva dire qualcosa di grande e di importante. Le speranze, purtroppo, svanirono sera dopo sera, col suo russare ed i miei lunghi dormiveglia, sui cuscini maleodoranti di tabacco.
Mia sorella, di tre anni più grande, era andata con zia Clara, subito dopo la morte di papà, io ero troppo piccola per essere affidata a qualcuno. Dopo le elementari, frequentai le medie e ricordo che mi faceva più male l'indifferenza di mia madre che le sue avventure, che, nel tempo, andarono sempre più a scemare. Finii le medie e mi convinsi di essere sola al mondo. Iniziai ad avere amiche ed amici, poi, alla fine, optai soltanto per gli amici. Subito dopo il diploma, pur di scappare di casa, mi sposai con Mario, un elettricista che diceva di amarmi follemente, ma mi trovai divorziata a 24 anni. Non potendo pagare l'affitto, mi rivolsi a mia madre perché mi venisse in aiuto, ma la pensione di reversibilità le bastava appena per tirare avanti, o almeno così mi disse. Dovetti arrangiarmi.
Riuscii a superare quel brutto momento e presi il diploma di infermiera, che mi permise una sistemazione decorosa presso l'Ospedale S. Leonardo. Ora abito al quarto piano, in un bel palazzo di via Carmine. L'appartamento è piccolo, ma è pulito ed ha un magnifico terrazzo, con vasi di rose e gerani. Stamani mi hanno chiamata per mia madre, pare che sia stata ricoverata nel reparto psichiatrico, forse dovrei andare a vedere come sta, ma credo sia meglio andarci tra qualche giorno, dopo che la terapia abbia avuto il suo effetto. La settimana scorsa ho sentito mia sorella ed è d'accordo a metterla in un ricovero per anziani. Andremo, così, a farle visita a turno, due a tre volte all'anno. Che scocciatura! Ora che la vita potrebbe essere bella, a due passi dalla laurea, si presenta questo problema, ma lo risolverò quanto prima, ho chi mi darà una mano! Con la moneta che mamma ha usato per anni, si arriva ovunque, basta saperla adoperare con classe, lucidità ed oculatezza. L'amore? Non è cosa che mi riguardi! Io non ne ho mai avuto, perché dovrei darne? Del resto, non ne sarei capace. Dal balcone sul terrazzo, un delicato profumo di gerani mi rinfranca, dopo una lunga giornata di lavoro, abbasso la persiana a metà corsa e la camera da letto, in penombra, diventa più intima ed accogliente. Mi distendo, nuda, sul letto, felice della mia vita senza preoccupazioni; tra poco suoneranno alla porta e Guido, il mio primario, sorridendomi dirà:
- Ciao Annalisa!-
- Ciao! - gli risponderò con voce bassa, leccandogli l'orecchio e schiacciando le mammelle profumante di Chanel sul suo petto villoso. Finisco appena di pensarlo e suonano alla porta. Vado ad aprire, ma non è Guido che mi prende tra le sue braccia, ma Carlo, il mio caposala, con l'alito profumato di menta ed un diavoletto nei pantaloni. Che importa? "Un uomo vale l'altro", mi ripeteva mia madre ogni giorno, mentre piangevo lacrime amare, sulle uova strapazzate.

Impatto mortale
Avevo salutato tutti, quando fui raggiunta da Rosaria:
- Anche se le cose sono cambiate fra di noi, non puoi farmi stare in pensiero con quel catorcio di macchina che ti ritrovi, tieni le chiavi della mia auto, è vecchiotta, ma va che è un piacere!-
Essendomi già rifiutata di dormire a casa sua, acconsentii e le sorrisi conciliante. Ero molto stanca e non avevo alcuna voglia di discutere alle due di notte. La serata, come avevo previsto, era stata un disastro, ma dovevo andare per Lui, per tutto quello che aveva rappresentato per me, fino a quel momento.
L’aria fresca del mattino era piacevole, ma nulla poteva contro quel cerchio alla testa che mi intontiva. Quella festa di compleanno si era protratta oltre ogni previsione e mi sentivo stranamente triste, come se quel mondo, che aveva lentamente sostituito quello delle mie radici, non mi appartenesse più. Pensai per un attimo ai miei genitori, ai miei fratelli, al mio lavoro, così intenso e ricco di relazioni, di amicizie, di affetti sinceri e non mi dispiacque, minimamente, allontanarmi da quel
falso diverticolo, che mi aveva fagocitato. La portiera della vecchia Renault si aprì senza alcuna difficoltà e mi accomodai pesantemente alla guida, dopo di aver lanciato sul sedile destro la borsa ed un pacchettino che mi aveva dato Alfonso. Avrei voluto già essere a letto. Partii di gran carriera ed al mercato ortofrutticolo di Pagani, girai a destra per S.Valentino. A quell’ora la strada non era affatto trafficata, a parte qualche camion, diretto al deposito per la sosta notturna. Mi sentivo lo stomaco in disordine, avevo fumato troppo. Quel giorno avevo lavorato fino a tardi e gli occhi mi si chiudevano per la stanchezza. Come Dio volle, raggiunsi via Zeccagnuolo, ancora poche centinaia di metri ed avrei raggiunto casa. Camminavo al centro della larga strada asfaltata e vedevo già le luci del mio paese, quando incrociai una grossa moto che sembrò venirmi addosso. Il raggio potente del faro mi abbagliò e cercai di sterzare sulla destra. Fu un attimo. Per la velocità eccessiva, persi il controllo della macchina e l’impatto fu inevitabile: l’auto prese in pieno il guardrail e fui scaraventata contro il metallo contorto, mentre la macchina continuò la sua corsa folle, schiantandosi contro il muro di cemento di un grosso deposito sulla sinistra. Continuavo a vedere le luci del mio paese, ma vedevo pure il mio povero corpo martoriato. Invano il custode accorse, con l’intento di soccorrermi, ma l’anima era già libera, con l’ultimo sussulto. E pensare che lì a due passi vi era la mia famiglia, che bel regalo di compleanno avevo fatto a mia madre.
Rimasi delle ore lì per terra, ma nessuno si fermò. Alla fine, furono i carabinieri ad occuparsi, pietosamente, dei miei resti.
Seguii il mio corpo fino a Sarno dove, al pronto soccorso, mi accomodarono su di un tavolo, per il medico legale. Una giovane infermiera, quando si accorse del taglio sull’occhio destro e delle arterie del braccio, che colavano quel poco del sangue, che era ancora rimasto, svenne. Volevo andar via, ma ero ancora misteriosamente legata a quelle povere spoglie. Fu allora che sentii la voce dei miei fratelli e li vidi, nel corridoio poco illuminato, erano pallidi ed agitati. Mio padre era con loro, povero papà! Zoppicava ancora per l’intervento al ginocchio e sembrava più sofferente che mai. Pasquale piangeva come un bambino; era buono il mio Pasquale e mi voleva tanto bene. Fortunatamente mia madre non era con loro, non avrei sopportato il suo dolore. Cercai di chiamarli, di rassicurarli, ma non mi sentivano, né mi vedevano; come li avrei stretti con piacere tra le mie braccia! Speriamo che lassù si decidano in fretta! Pensai rapidamente, non mi piaceva attendere in quel posto squallido. Ma il peggio doveva ancora venire.
Sentii, poco dopo, il pianto disperato di Angela, ma non la fecero entrare ed andò via senza che la vedessi. Solo più tardi, si aprì la porta e la rividi la mia sorellina, sempre disponibile ed ingenua come una bambina. Quanto dolore era sul suo viso. Aveva fatto l’impossibile per raggiungermi. Scoprì il mio povero involucro ed ebbe un brivido, ma si fece forza e mi ricompose con amore e dolore. Quante volte avevo pettinato i suoi capelli, ora era lei a rendermi presentabile per l’ultima scena. Fasciò la testa per nascondere il cranio sfondato ed il vuoto dell’occhio, lavò le mie membra dilaniate, nascondendo le ferite con ovatta e bende, poi, da non credere, mi mise l’abito da sposa, coprendomi con un candido velo. Avevo compreso. Lo aveva fatto, perché mia madre potesse guardarmi per l’ultima volta, senza inorridire. Ma quando mamma entrò, implorai Dio di portarmi via.
Nel pomeriggio, raggiunsi la casa di mio padre, passando per la piazzetta gremita di compaesani. Alcuni erano sbigottiti, altri silenziosi, ma i più curiosi facevano ipotesi sulle modalità del mio incidente. Certo, per gli habituès del Bar Rosa, sarei stata l’argomento principe per tutta la settimana. Ma le donne di via S. Maria delle Grazie correvano verso la casa di mio padre, per piangere con lui. Ero commossa. L’arrivo di Rosy e Sandra non mi distolse dal pensiero dei miei nipoti. Li consideravo un poco tutti figli miei e me li coccolavo come una seconda mamma. Entrai nella casa di Sandra e stavano tutti lì, più belli e vivaci che mai. La figlia di Rosy era già una signorina, ma tutti, perfino Giuseppe, sembravano più cresciuti. I miei gioielli, che dolore non poter più giocare con loro e viziarli un po’! Fui richiamata dalle urla di mia madre e corsi da lei, era già svenuta ed Angela cercava di rianimarla.
Mi avevano sistemata sul letto dei miei genitori, per la veglia funebre e per le visite di cordoglio di parenti e paesani, che vennero compatti a darmi l’estremo saluto. Rividi Rosaria e tutto il gruppo di amici, ma non provavo più alcuna emozione. Quante scelte sbagliate si fanno nella vita! Ma sono quelle che ci maturano e ci rendono consapevoli dei veri valori. Ad un tratto, scorsi tra la folla il volto di Nicola, il fidanzatino di tanti anni fa. Lo seguii. Entrò nella camera e guardò il mio corpo con l’abito da sposa, piangeva disperatamente. Fu l’unico a baciarmi la mano e, forse, era stato l’unico ad amarmi veramente. Venne il momento dei funerali e, mentre una folla immensa applaudiva la mia bara, una grande luce mi attrasse e volai verso la gloria del Signore.         

L'ira del Sud
Oltre le gole selvagge del monte Marzano, la valle del Sele si estende a triangolo tra l'Alburno ed i monti Picentini. Tra i lembi estesi di terrazze fluviali‚ il Sele si allarga ad irrorare la pianura, un tempo inospitale e malarica. La nostra storia si svolge‚ agli inizi del ventesimo secolo, in quella parte della valle chiamata "fémmena morta", in seguito al ritrovamento del cadavere di una donna che non fu mai identificata. A quel tempo, vaste masse di proletari, coloni e contadini, si addensavano là dove forme capitalistiche di conduzione si erano insediate in un contesto sociale dominato da "residui feudali" e dalla assoluta mancanza di una regolamentazione giuridica‚ che garantisse la tutela dei prestatori di opera,vittima dei caporali. Questi ultimi attuavano una vera mafia d'ingaggio, impedendo il contatto diretto tra padroni e lavoratori ed avvantaggiandosi, indebitamente, sul compenso del lavoro. Nel contempo, taglieggiavano le loro vittime, pretendendo utili per l'arruolamento. Su di un guadagno complessivo di venticinque lire, essi truffavano sino a sei lire, conti-nuando l'opera con atti di strozzinaggio ed imponendo prestiti iniziali a tassi impossibili. Altri ancora‚ contro ogni legge morale, pretendevano che le donne alzassero le gonne e soggiacessero alla loro voglie. Don Filippo Capo apparteneva a questi ultimi‚ e non perdeva nessuna occasione per trarre benefici economici e sessuali‚ in tutta la pianura.
I Farnesi ed i Casati era i più grossi latifondisti della valle ed egli era procuratore di entrambe la famiglie. Senza figli, aveva per moglie un curioso animale, che somigliava ad una donna per via di due grosse protuberanze, che le gonfiavano la veste nella parte alta del corpo. Angelina, così si chia-mava, spettegolava su tutti‚ compiacendosi del lavoro del marito e del timore che incuteva negli altri. Basso, tarchiato, con la barba rada, che si concentrava nella parte alta delle guance‚ portava a spasso un naso piuttosto grosso e sgraziato, sotto due occhi porcini. La pelle olivastra‚sudaticcia e maleodorante, si accompagnava ad una voce roca, bassa a volgare. Un ciuffo di capelli, lisci, unti e neri come il carbone, gli cadeva sulla fronte, segnata da una brutta cicatrice. Uomo di fiducia, don Filippo percorreva la lunga "carrara" (1), sul leggero calesse, tirato da "Diavolo", un cavallo snello a nervoso, e sorvegliava i lavoranti, da un capo all'altro del territorio, compiendo‚ ogni giorno‚ un lungo giro per Pagliarone e la zona collinosa a valle di Capaccio. Al suo passaggio,le donne si facevano il segno della croce, mentre gli uomini, fingendo di ignorarlo‚ stringevano i denti e sbiancavano le nocche sull'asta delle zappe dalle lame lucenti.
Erano circa la tredici, quando arrivò nella zona dei salici, che facevano da confine tra la terra buona ed il "deserto" : una lunga striscia di terra, oggi chiamata "Licinelle", bruciata dal sole a schiaffeggiata dal mare. Alcune donne si riparavano dal sole, sotto un grosso albero di gelsi rossi, tra esse vi era Nunziatina, una giovanetta di una bellezza esuberante: sedici anni‚ forse diciassette‚ con un casco di capelli neri‚ come i suoi occhi irrequieti‚ ma limpidi come l'acqua d'una fonte. La camicia leggera aderiva alla pelle sudata, mostrando l'abbondanza dei seni turgidi, sul ventre piatto. Una gonna a campana, che la leggera brezza incollava all'inguine, alle cosce ben fatte, metteva in risalto la figura agile a slanciata della giovane.Le donne si segnarono, la fanciulla scappò, scomparendo tra i cespugli ed i fichi d'India. Don Filippo spronò il cavallo e la seguì. Sudava, il fazzoletto, intorno al collo taurino, era bagnato e la camicia, aperta sul davanti, lasciava intravedere rivoli di sudore, tra i peli del largo torace. Ad un tratto, la vide. S'arrampicava sui sassi che delimitavano la terra dei Casati. La raggiunse. La fanciulla si girò pronta-mente‚ come una tigre che si prepara all'assalto: con la fronte corrugata, sugli occhi duri, fronteggiò l'uomo che, sceso da cavallo, si avvicinava lentamente a lei.
Con le spalle contro il muretto a secco‚ Nunziatina ansimava, cercando scampo con gli occhi. Le braccia tese artigliarono all'indietro due grosse sporgenze nel muro. Fece forza ed una di queste cedette. La fanciulla si sentì protetta. Lanciò la pietra ed il sangue sprizzò fuori velocemente dalla fronte dell'uomo che, con un urlo di rabbia, si lanciò in avanti, afferrandola nel punto in cui i due seni formano il lungo solco d'amore. Il tessuto cedette e la fanciulla coprì‚ con le mani‚ la pelle eburnea. Negli occhi dell'uomo una luce
torbida e cattiva. Intanto‚ l'altra mano artigliava le gonne che, strappate nella parte alta, si raccolsero ai piedi della fanciulla nuda e tremante.
Uno stormo di uccelli volò via in direzione della piana‚ mentre l'eco di uno sparo si infranse sul fianco della collina‚ tra gli ulivi ricurvi.
Le mani dell'uomo era d'acciaio, un rivoli di saliva scendeva, dall'angolo delle labbra a fessura, sul mento sudato. La terra secca graffiò le spalle delicate di Nunziatina che, esausta, abbandonò ogni resistenza. L'immagine del cielo divenne nebulosa e scomparve, mentre il membro dell'uomo le straziavano il ventre. Gocce di sangue bagnarono la leggera peluria‚mentre, sui seni martoriati, tracce di bava inumidivano i piccoli capezzoli rosei.
L'uomo si alzò, si chiuse i pantaloni‚ tolse con l'indice destro il sudore dalla fronte e sghignazzò:
- O lupe s'è futtùte 'a pecurèlla ... 'a notte nù durmìa pensànne a tè ! Ma‚ te lo giuro! (bacia le dita a croce e sputa a terra) Da oggi, ci sarà sempre lavoro per te a la tua famiglia -.
Salì a cavallo e scomparve. La fanciulla incominciò a riprendersi ed aprì lentamente gli occhi verso il cielo di un azzurro intenso. Un coro di cicale davano colore a quel maledetto pomeriggio. Nunziatina cercò di alzarsi, ma ricadde supina‚ con le mani sul ventre dolorante ed una sensazione di vomito l'assalì. Si girò di fianco a vomitò sulla terra bruciata. Si sentiva sporca insozzata ed aveva una gran voglia di morire. Si sentì chiamare, guardò giù verso il pendio e vide due donne, che venivano nella sua direzione. Non rispose. Raccolse accanto a lei quello che rimaneva dei suoi panni e cercò di coprirsi. La raggiunsero.
- Non vergognarti, figlia mia!-
- Dio lo punirà quel mascalzone! -.
Una della due, tolse dal capo il fazzoletto e cercò di pulirle le cosce, mentre l'altra le asciugava delicatamente i seni. Nunziatina singhiozzava. Dopo circa una mezza ora la fanciulla ripresasi alquanto, fu riaccompagnata a casa.
Verso la otto di sera Felice‚ il fratello della ragazza, rincasò.La pallida luce del lume a petrolio rischiarava a mala pena l'ambiente‚ annerito dal fumo del focolare. In un angolo, un piccolo mucchio di legna secca, attendeva di essere acceso per la cena. Sulla spalliera d'una sedia impagliata, un asciugamano logoro gocciolava in una bacinella di acqua ed aceto. Felice entrò chiudendo la porta con un calcio all'indietro. Il saliscendi scattò. Andò verso la finestra aperta e fischiò, poi chiamò, con voce secca, ma non fredda: - Baró -. Il cane guardò verso di lui e si avvicinò, scodinzolando. Il giovane tolse la camicia, e prese a massaggiare, con la grossa mano, la braccia stanche. Di poi, chiamò:
- Mamma! -
- Nunziatina! -
Nessuno rispose. Bussò‚ poi spinse adagio la porta della camera da letto : la sorella giaceva in un bagno di sudore : il delirio alterava i lineamenti della giovane, che sembrava rivivere l'incubo di quel pomeriggio.
Una donna, sui cinquanta anni, alzò lo sguardo verso di lui:
-Figlio mio‚ disse con voce rotta dal pianto, il disonore a la morte sono entrati in questa casa ! -
Sul vecchio comò, un lume ardeva davanti al ritratto di un uomo, mentre, al lato destro della cornice, l'immagine della Madonna di Pompei formava un singolare altare di numi tutelari‚ che sintetizzava un unico grande rispetto per la morte e la fede. Felice strinse i pugni:
- Chi? - chiese, guardando con dolore la sorella;
- Chi è stato! - ripeté con voce alterata, stringendo i pugni ed imprecando tra i denti.
La donna non rispose, abbassò lo sguardo verso il fazzoletto che aveva in grembo e strinse tra le dita i nodi del Rosario.
- Ma', chi è stato ! - chiese ancora il giovane‚ provando una pena profonda per le lacrime della vecchia.
- Don Filipp'ò capurale...- rispose la donna, tutto d'un fiato, come se avesse voluto liberarsi di un grosso peso‚ ma perfettamente consapevole delle conse-guenze, che quella verità avrebbe avuto sul figlio Felice. Il giovane, uscì dalla stanza senza dire una parola‚ rimise la camicia, che aveva appena tolto e stava per varcare la soglia di casa‚ quando il grido disperato di sua madre‚ per un breve attimo, lo bloccò:
- Fìgliu mio, nunn'ascì, statte ccà cu' mamma toia!-
Felice, dopo un attimo di esitazione, sbatté la porta dietro di sé e si addentrò nella campagna. Rimasta sola, la povera donna si accasciò sulla sedia:
- Gesù e Maria, mò che succede? - quella accorata invocazione si trasformò in una preghiera che accompagnò il lento scorrere del rosario, tra le dita avvezze al duro lavoro dei campi.
Nell'altra stanza, Nunziatina, ripresasi, chiamò la madre; la donna accorse, mentre il cane lanciava lunghi ululati nella sera.
Felice‚ intanto‚ aveva raggiunto la casa del cugino Gaetano. Fischiò tre volte‚ dal lato della finestra sopra il pergolato e rimase in attesa.
Il cane, riconoscendolo, gli andò vicino, senza abbaiare, ma il giovane lo allontanò bruscamente:
- Va via‚ disse‚ la selvaggina di questa battuta va lasciata ai vermi! -.
Dieci minuti dopo‚Gaetano lo raggiunse. Si allontanarono, dirigendosi verso il
pozzo.
- Che succede, Felì ! - gli chiese il giovane‚ senza nascondere una certa apprensione.
- Succede che…-il giovane scoppiò in singhiozzi ed afferrando il cugino per le spalle aggiunse:
- 'Aimm'accìre chélla carogna! - (2)
- Chi?- chiedeva Gaetano, già in preda ad una agitazione profonda;
- Don Filippo 'ò capurale" ha sverginat'à Nunziatina, che sta murènne! -.
Gaeta portò entrambe la mani al viso e, dopo un lungo silenzio, disse:
- Calmate‚ giustizia sarà fatta, pàtreme ìsse l'ha accìse! -
Si avviarono verso l'interno della campagna‚ per decidere il giorno a l'ora della
vendetta.
Quella notte fu tremenda per Felice: i gemiti della sorella accrescevano in lui
un furore mai provato prima; la mamma vegliava la fanciulla senza concedersi
un istante di riposo. Nei momenti in cui il sonno distendeva i lineamenti della sventurata‚ la dita scorrevano i nodi del Rosario‚che accom-pagnava con penosi sussurri di preghiera. E venne l'alba.
L'aria fresca del mattino avvolgeva la natura ancora addormentata; piccoli
voli incoraggiavano i primi raggi del sole. Felice uscì sull'aia a si diresse verso il pozzo. Il secchio venne sù gocciolando acqua limpida e fresca. Vi immerse il viso, passando la mano bagnata sul collo e sui capelli scomposti. Si raddrizzò massaggiandosi il torace villoso e le braccia pesanti. Prese il secchio e lo svuotò in direzione del basso vigneto di uva fragola‚ ancora acerba.
Adagiò il secchio vuoto sul muretto del pozzo e‚ con passi lenti‚ guadagnò
l'uscio di casa. Mamma Rita aveva acceso il focolare ed aveva messo a bollire dell' acqua con delle piantine di camomilla.
- Ma'‚ come sta Nunziatina? - chiese il giovane sottovoce.
- Come deve stare, povera figlia mia! Sta riposando -
Giunse dalla carrara un lungo fischio: era Gaetano che chiamava il cugino.
- Ciao mà!-
-Buon lavoro‚ figliu mio!-.
Si recarono nei pressi della fontana‚ di fronte alla terra di compare Picariello‚ lì avrebbero atteso l'offerta di lavoro. Altri giovani aspettavano l'arrivo del Caporale, con la speranza di guadagnare qualche lira.
Il sole illuminava il bianco delle rade case‚ voli di passeri, tra gli alberi dalle fronde immobili. Un gregge s'arrampicava per la stretta mulattiera, che portava su in collina ed un grosso cane da pastore andava avanti ed indietro‚guidando le bestie al pascolo. Un rumore di zoccoli‚ avvertì gli uomini che don Filippo stava arrivando. Gaetano strinse il braccio del cugino per invitarlo alla calma. L'uomo arrivò e‚ senza smontare da cavallo:
-Oggi c'è lavoro solo per due! Tu e tu‚ disse, indicando Felice ed il cugino‚ venite nel fondo di compare Sabia, che c'è da zappare -.
Non ebbe il coraggio di guardarli in faccia, e non perse tempo ad allontanarsi‚ scomparendo‚ subito dopo‚ dietro il boschetto di salici. I due giovani si avviarono.
Sull'aia‚ tutto il paese attendeva che la bara uscisse. Sebastiano guardava il pozzo‚ come se l'anima di Nunziatina dovesse schizzare fuori da un momento all'altro. Gruppetti muti, soffrivano il caldo nei vestiti pesanti, altri commentavano il dramma, sottovoce. Dopo circa mezz'ora‚ dall'uscio spalancato‚ le lucide sfaccettature della bara brillarono al sole. Quattro uomini reggevano il feretro sulle spalle‚ con la tempia poggiata al legno lucido. La commozione prese tutti. Felice seguiva subito dopo‚ col bavero della giacca alzato e la barba sul viso stanco‚ tirato. Gaetano e l'amico Giuvanniello gli stavano a lato‚ tenendolo sotto braccio.
Cummare Rita‚ tutta vestita di nero‚ veniva avanti urlando al mondo intero il suo dolore :
- Figlia mia‚ t'ann'accisa!-
Il corpo le si piegava in due‚ nello sforzo di superare la grande sciagura. Rosa ed Ersilia‚ le due donne che avevano soccorso Nunziatina dopo li stupro‚ le stavano accanto‚ reggendola in tutto il suo peso. Il feretro si mosse lungo la "carrara". Il pianto disperato la vecchia risuonò nella piana‚ con i rintocchi della campana e gli ululati di Barone‚il cane di Nunziatina.
Sulla collina di "Spinazzo"‚ Don Filippo‚ dritto sul sul cavallo‚ seguiva la scena e non provava altri sentimenti, oltre la paura. Il sole‚ alle sua spalle‚ dava alla sua figura un non so che di irreale e di diabolico insieme. Felice‚ come attratti da una forza irresistibile‚ guardò nella sua direzione e lo scorse. Strinse gli occhi e mosse affermativamente il capo‚ giurando‚ su quel feretro‚ che gli avrebbe preso la vita. Anche Gaetano guardò ed un unico sentimento lo unì al cugino.
Nella piana non si lavorò quel giorno. Tutti avevano lasciato i campi‚ nelle prime ore del mattino e nessun sorvegliante aveva avuto il coraggio di intervenire. La ricchezza dei poveri è la solidarietà, che unisce gli animi nella cattiva sorte. Tutti i braccianti della "piana" avrebbero alzato volentieri la zappa contro l'ingiustizia‚ perché ci sono limiti‚ oltre i quali nessuno può andare: oltraggiare l'onore‚ quando questo è l'unico bene posseduto‚ è un delitto che si paga con la vita.
Don Filippo questo lo sapeva e se ne preoccupava‚ nell'attesa impaziente di Micheluccio‚ un tirapiedi‚ cui aveva dato l'incarico di vedere come stavano le cose. Si udirono dei passi fuori casa, trasalì. Si precipitò alla finestra e lo vide:
- Entra‚ fai presto! - gli intimò.
Il giovane entrò e, togliendosi il cappello:
- Brutto segno Don Filì‚ quando la gente non parla, è pericoloso avventurarsi nella piana -.
Il "caporale" si avvicinò alla finestra, fissò l'orizzonte‚ per un lungo instante e mille pensieri lo assalirono, mentre il sole dipingeva di rosso il tramonto. Poi‚ girandosi di scatto, disse:
- Sempre pècore sono! -
- Tieni cumpariè, bevi alla mia salute! -
Micheluccio vuotò in fretta il bicchiere di vino e si congedò. Il caporale lo vide correre come se fuggisse da un appestato.
- Schifosa carogna! -
L' insulto gli veniva dalla moglie, che ora vedeva in pericolo il suo futuro e la sicurezza economica. Don Filippo afferrò il fiasco ancora pieno e lo lanciò contro la donna‚ che si scansò appena in tempo, mentre il vino si sparse come una grossa macchia di sangue, sulla parete bianca. Angelina scappò più per superstizione‚ che per paura. Intanto‚ nella casa di Felice‚ il silenzio era totale. Donna Rita si riposava sul letto al posto della povera figlia e‚ nella cucina‚ il giovane si intratteneva con l'amico Giuvanniello ed il cugino Gaetano.
Il lume a petrolio‚ al centro del tavolo‚ illuminava scarsamente l'ambiente;
il cane‚ accucciato al lato della sedia del padrone‚ emetteva strani mugolii. Bussarono. Gaetano andò ad aprire; un ragazzino scalzo gli porse un cesto di taralli ed un fiasco di vino‚ la porta venne rinchiusa. Nessuno aveva voglia di mangiare‚ l'immagine della ragazza era ancora tra loro: l'avevano tirata su dal
pozzo‚ dove si era gettata con la forza della disperazione.
Era stato Giuvanniello a calarsi giù ed a legare la fune intorno al cadavere. Il capo‚ col collo spezzato, dondolava come quello di una bambola rotta. Gli occhi sbarrati sembravano guardare il muretto del pozzo. La lunga camicia da notte, attaccata al corpo fradicio di acqua gelida,gocciolava. Il piede sinistro era privo dell'alluce, troncati nella caduta, dalle pietra viva del pozzo. I bei capelli neri erano aggrovigliati come una informe matassa melmosa.
Felice aveva preso il corpo della sorella e l'aveva portato in casa adagiandolo sul letto intatto. Aveva pianto col capo poggiato sul ventre profanato ed aveva sentito il gelo della morte. Giuvanniello tolse dalla tavola i "taralli" e versò il vino nel bicchiere. Felice bevve tutto d'un fiato come per allontanare la scena di morte del giorno prima. Quel vino gli sembrava sangue che chiedeva altro sangue a bevve ancora, fino a stordirsi.
Nella piana il lavoro riprese con ritmo normale. Agosto volgeva a termine con i suoi giorni infuocati ed una strana calma sembrava aleggiasse nell'aria. Il sole era calato da circa un'ora‚ quando Felice si fermò poco più avanti del podere di compare Sabìa‚ sedendosi sul tronco di un salice. Accese una sigaretta guardando fisso verso l'incrocio‚ dove la carrara lasciava intravedere una strada più grande‚ percorsa da una lenta carovana che‚ dall'agro nocerino‚si avviava verso la salita di Ogliastro. Era tempo di mercato ed i commercianti‚ appisolati sul piano dei carretti‚ carichi di semenze‚si affidavano alla esperienza dei muli‚ che già conoscevano la strada.
All'imbrunire‚ arrivò Gaetano, reggendo, con ambi la mani. l'asta della zappa :
- Sera‚ Felì -
- Sera‚ Gaetà‚ rispose il cugino‚ è molto che aspetti?-
- No ! -
Seduti l'uno accanto all'altro‚ trascorse molto tempo prima che iniziassero a parlare "del fatto".
- Allora‚ quando?- chiese Gaetano‚ rompendo quel penoso silenzio.
- È per domani sera al tramonto‚ lungo la strada dei salici‚ dove inizia il canale dei Farnesi‚ lì la strada è piena di buche ed il calesse va piano -
- Va bene! -
Felice giunse a casa per ultimo‚ la madre sentì sbattere l' uscio a lo chiamò :
- Come stai, mà ?- le chiese il giovane‚ entrando nella stanza;
- Cumm'à nà vecchia, figliu mio! -
- Va a mangià‚ cà mamma tòia nun se sènte! -.
Felice‚ dopo essersi lavato‚ si accomodò‚ si versò da bere a poi scoperchiò il piatto‚ fissando i fagioli ancora caldi. Di mala voglia mandò giù una cucchiaiata ed allontanò il piatto; si avvolse una sigaretta‚ fissando il ritratti del padre‚ sulla parete di fronte. Sì alzò‚ si diresse verso la grossa cassapanca sotto la finestra a l'aprì. Prese il fucile‚ pulendolo col panno che l'avvolgeva; l'acciaio della canna lanciò un bagliore sinistro‚ mentre il freddo della bascula diede al giovane una sensazione di potenza e di morte.
Il sonno‚ quella notte‚ tardò a venire e‚ solo all'alba‚ vi fu un momento di pace‚ col canto del gallo‚ che annunziava un nuovo giorno.
Il sole stava tramontando sul mare tranquillo e gli ultimi raggi proiettavano lunghe ombre sul viale costeggiato dai salici immobili. Un fosso erboso accompagnava‚ a sinistra‚ la carrara sconnessa. Don Filippo seguiva‚ a testa bassa‚ il bianco della strada‚ gettando‚ di tanti in tanto‚ veloci occhiate alla ruota del calesse. Il cavallo avanzava lento sul terreno spaccato e quasi si fermò‚quando l'uomo tirò le briglie : qualcuno procedeva‚ a piedi‚ avanti a lui : era Giuvanniello‚ che tornava dal lavoro.
Il "caporale" spronò l'animale‚ che si portò al trotto‚ ed il giovane fece appena in tempo a saltare nel fosso‚ imprecando a denti stretti. Don Filippo rallentò‚ si fermò‚ e guardò con strafottenza il povero bracciante che chinò la testa in segno di saluto. Il calesse proseguì per la sua strada‚ sul viso del "caporale" un ghigno soddisfatto : era il più forte. Giuvanniello risalì sulla carreggiata a fissò con malumore il calesse che s'allontanava‚ scomparendo nella curva più avanti.
Erano trascorsi cinque minuti circa‚ quando si udì uno sparo‚ che si ripercosse sinistramente nella piana. Il giovane pensò a qualche cacciatore a tirò avanti. Dopo un quarto d'ora‚ giunse nella zona dei salici. Il sole era tramontato all'orizzonte ed una leggera brezza‚ che veniva dal mare‚ muoveva la cima dei grossi alberi. Ad un tratto udì un lamento ed istintivamente si girò verso il fosso indirizzando lo sguardo lì dove l'erba sembrava tinta di rosso. Si avvicinò‚ il corpo di don Filippo giaceva lungo disteso‚ col sangue che gli usciva dal petto squarciato. La mani destra artigliava l'erba, mentre premeva la sinistra sul petto straziato. L'uomo lo guardò sbarrando gli occhi: l'angoscia aveva cancellato la strafottenza abituale di suo viso:
- Aiutami Giuvanniè! -
IL giovane stava per chinarsi‚ poi‚ all'improvviso‚ si ricordò di tante sue perfidie‚ di Nunziatina‚ del funerale‚ degli infelici che‚ come lui‚ sudavano sangue per un tozzo di pane e scappò via. Correva come se avesse avuto le ali ai piedi‚ per soffocare quell'impulso, che spinge l'uomo ad aiutare l'amico‚ il fratello‚ chiunque si trovi in pericolo. Don Filippo non era un amico‚ né un fratello‚ ma la peggiore carogna che potesse venire fuori da un ventre di donna. Più avanti rallentò l'andatura‚ aveva sentito delle voci che gli sembravano note e‚ di lì a qualche istante‚ si imbatté in Felice a Gaetano. Li chiamò e, con voce concitata, esclamò:
- Hanno sparato a don Filippo!-
I due si guardarono e‚ senza una sola parola di commento‚ proseguirono.
Giuvanniello‚ che era un tipo sveglio‚ comprese all'istante ed aggiunse:
- Mi ha chiesto aiuto, è ancora vivo!-
Felice si fermò‚ sfilò il fucile dalla spalla e mise in canna un'altra cartuccia‚ avendo cura di riporre in tasca quella già sparata. Tornò indietro di corsa a guardò bene in faccia l'uomo che tentava di alzarsi:
- Questo, per la brava gente della piana!-
La canna sinistra del fucile tuonò ancora‚ lacerando la camicia giù verso la cintura dei pantaloni. Il corpo ebbe un sussulto e cadde all'indietro sull'erba‚ dove rimase immobile. Felice guardò il sangue che sgorgava copioso,facendosi strada tra la carne squarciata ed il pezzo di camicia bruciacchiata, resisté al forte impulso di vomitare e si allontanò rivolgendo un pensiero fugace alla sorella.
-La caccia è stata buona!- disse agli amici, fissandoli per un lungo istante.
Ripresero insieme il cammino e raggiunsero ciascuno la propria casa. Calavano le ombre della sera ed il cielo si dipingeva di rosso nel punti in cui il mare rifletteva gli ultimi raggi di un sole calante.
I lumi già rischiaravano di luce pallida l'interno della casa, annerita dal fumo, e l'odore di legna bruciata si diffondeva nella campagna. Sui focolari i contadini approntavano il pasto‚ tra la voci dei bimbi a l'abbaiar dei cani alla catena. Le donne stanche rassettavano gli umili ambienti‚ mentre gli uomini si ripulivano dalla terra a dal sudore. I vecchi, seduti sull'aia‚ pensavano agli anni trascorsi e, stringendo tra le mani callose la scura creta della pipa, aspettavano silenziosi la cena‚ tra una boccata e l'altra dalla canna ricurva. Scene antiche quando il mondo sul palcoscenico della "piana"‚ dove la vita continuava la sua lenta rappresentazione.
La campagna andava impreziosendosi del silenzio della sera‚ quando spuntò un carretto‚ che avanzava macinando la terra con il ferri della grandi ruote. Il cavallo‚ sudato‚ tirava stancamente il carico di letame per la terra dei Casati e Pasquale tratteneva le redini‚ serrandole tra l'indice ed il medio. All'inizio del lungo canale‚ incominciò a fischiettare un motivetto inesistente‚ pensando al piatto di minestra che avrebbe mangiato tra breve. Un lamento‚ seguito da un lungo rantolo‚ attirò la sua attenzione. Fermò il carretto a stette più attento. Poco più avanti‚ gli sembrò di vedere una mano che si muoveva sul ciglio del canale. Scesa e corse in quella direzione.
- Gesù,don Filippo!-
Due occhi spenti si girarono a guardarlo‚ implorando aiuto‚ con la bocca che si muoveva‚ senza che ne uscisse alcun suono. Pasquale lo tirò fuori dal fosso, senza sforzo eccessivo‚ data la sua mole e la sua forza. Lo adagiò lentamente sul caldo letame ed il puzzo del "concime" copri l'odore del sangue. Il carretto si incamminò col suo carico umano. Al villaggio‚ girò a sinistra‚ verso la casa del caporale e si fermò sull'aia‚ dopo un lungo corridoio tra i vigneti. Il cane abbaiò‚ poi corse scodinzolando verso la coda del carretto. Angelina aprì l'uscio:
- Buona sera, Pasqualì!-
Il giovane non rispose e‚ scendendo dal carretto‚ prese il corpo di don Filippo Capo e si diresse verso la casa. La donna avanzò di un passo e lanciò un urlo. Il cane accompagnò il corpo del padrone. Micheluccio‚ il tirapiedi‚ udì l'urlo dalla stalla e si precipitò in casa". Adagiarono il "caporale" sul divano.
Nella propria dimora‚ il ferito aprì gli occhi quando la moglie cercò di ripulirgli il viso con un panno bagnato.
- Pasqualì‚ andate a chiamare il dottore‚ correte‚ fatelo per i morti vostri!-
L'uomo risalì sul carretti a si avviò verso il paese. Don Filippo cercò con gli occhi Micheluccio a gli fece cenno di avvicinarsi; il giovane abbassò il capo quasi fin sopra le labbra di lui:
-.. Il maresciallo... va a chiamare il maresciallo!-
Micheluccio uscì dalla casa e corse verso il paese pigliando la scorciatoia‚ giù per la piccola scarpata‚ attraverso il vigneto di compare Albino. Angelina tolse le scarpe al marito‚ coprendo con un lenzuolo gli squarci che l'uomo aveva nel petto e nell'addome. La puzza del letame‚ unita all'odore del sangue‚ le dava il voltastomaco‚ ma si faceva forza. Chiamava il marito‚ tra un singhiozzi a l'altro‚ sentendosi impotente‚ finita.
- Chi e stato, Felì-
- Dillo ad Angelina toia!-
L'uomo non rispose‚ girò gli occhi verso la porta ed aspettò.
E' incredibile la forza di volontà che spinge l'uomo‚ assetato di vendetta‚ a ritardare la propria morte‚ anche se nel corpo non scorre più una sola goccia di sangue.
La porta si aprì ed il maresciallo si diresse verso l' uomo‚ che sbarrò gli occhi nell'ansia di parlargli. La mano destra di don Filippo gli artigliò il braccio ed egli si chinò per ascoltarlo. Non vi fu bisogno di domande‚ il "caporale" raccolse la poche forza che gli restavano e disse‚ piuttosto chiaramente:
- M'hann'accise! Tutt'è ttre m'hanno sparate!-
- Chi?- chiese il maresciallo;
- Felice Marra, Gaetano Galdi e Giovanni Falcone. . . -
Con l' ultimo cognome‚ il corpo giacque e gli occhi rimasero sbarrati‚ come in una eterna denuncia‚ mentre la mano si bloccò intorno al braccio del militare‚ che si liberò dalla presa‚ aprendo‚ una ad una‚ le dita rigide di morte. Entrò il dottore ed abbassò la palpebre di quel cadavere martoriato.
Il cane ululò tre volte‚ sull'aia illuminata dalla luna. Angelina‚ chiusa nel suo dolore‚ non piangeva‚ né urlava‚come è consuetudine della donne meridionali‚ ma rimase immobile presso del suo uomo‚ provando per lui una pena immensa. Quella era la vendetta della "piana". Nel frattempo sopraggiunsero alcuna donne e‚ dopo numerosi a doverosi commenti‚ si diedero da fare nel preparare la salma per la veglia funebre.
In un 'altra zona del paese‚ intanto‚ qualcun altro‚ dimentico dei fatti della giornata‚ coglieva quei frutti che allietano la vita a la giovinezza‚ rendendole più belle. Il bacio di Mariuccia era stato dolcissimo‚ Giuvanniello ne conservava ancora il calore. Con le mani in tasca‚ il sorriso dei diciotto anni ed il capo che ondeggiava‚ seguendo il ritmo dei passi‚ il giovine ritornava verso casa.
La luna gli illuminava la strada ed il profumo della campagna gli entrava nei polmoni‚che respiravano soddisfatti. Era contento‚ né l'episodio del pomeriggio lo aveva eccessivamente turbato. Prese a calci un sasso‚ che rotolò sulla strada polverosa‚ fermandosi più il là‚ nel buio della carrara‚ che portava alla fattoria di compare Albino‚ il cacciatore.
Giunse nei pressi di casa sua ma nessun chiarore veniva dalle imposte chiuse. Sono andati a letto‚ pensò tra sé‚ rallentando il passo. Entrò in casa adagio‚ senza far rumore e‚ nel chiudere la porta‚ trattenne il saliscendi‚ per lasciarlo cadere lentamente. Accese il lume‚ ancora caldo‚ e sbirciò sulla tavola, aspettandosi di trovare la cena. Non c'era nulla. Si meravigliò‚ ma sedette ugualmente‚ per richiamare alla mente gli avvenimenti della giornata. Ad un tratto‚ una voce inconsueta risuonò nella stanza‚ alle sue spalle: - Giuvanniè sei in arresto! -
Il giovane impallidì‚ cercando di rendersi conto della situazione. Ora udiva il pianto della madre‚ mentre il padre‚ alle spalle del maresciallo‚ aveva una espressione che non gli aveva mai visto. Non disse una parola‚ quando le manette gli stritolarono i polsi. Guardava muto i suoi genitori‚ fissando a lungo le lacrime sul volto della madre.
- Marescià n'àggio fatto niente! -
-Cammina guagliò‚ cà pò se vede -
Si allontanarono tra i singhiozzi della donna sull'aia‚ mentre la luna disegnava lunghi fantasmi tra la casa a gli alberi‚ muti spettatori di quella tragedia. E tutto tacque‚ i grilli ripresero il concerto‚ tra la fronde immobili.
Nelle prime ore del mattino‚ anche Felice venne arrestato e‚ nei pressi del pozzo‚ si fermò per guardare la madre un'ultima volta. I carabinieri lo spinsero in avanti con una sorta di delicatezza e di rispetto: avevano compreso che quello era l'epilogo di un dramma iniziato qualche tempo prima‚ in un pomeriggio di sole a di miseria. Il giovane si allontanò a testa alta‚ salutando i suoi campi‚ la casa di sui padre e la mamma‚ vestita di nero‚ che non avrebbe più rivisto. Era già lontano‚ quando sentì abbaiare alle sue spalle.
Si fermò e fissò a lungo il fedele compagno di tanti giorni di caccia‚ quando l'alba colorava i cespugli e la collina si apriva al canto degli uccelli ed al volo dei merli‚ che planavano giù a valle sulle piante di fichi. La bestia scodinzolò‚ annusandolo e leccandogli le mani ammanettate‚ poi tornò indietro‚ verso il fantasma di una donna che‚ molto presto‚ non avrebbe più dato da mangiare alla galline.
Gaetano stava "curando" i conigli dietro la stalla‚ quando il fratellino Carminuccio lo raggiunse di corsa:
- Ci soni due carabinieri che vogliono parlarti - gli disse tutti d'un fiato.
Forse dovrò partire militare commentò il giovane‚ senza tradire alcuna emozione. Girò intorno alla casa‚ mentre il padre invalido‚ seduto sulla sedia‚ guardava i due figli più piccoli che giocavano sull'aia. Una donna anziana‚ la madre di Gaetano s'asciugava le mani con un lembo del grosso grem-biule che aveva davanti. I due carabinieri‚ sotto il pergolato‚ aspettavano pazienti né si mossero‚ quando il giovane venne verso di loro con un'aria strana‚ tra il rispetto e la paura. Uno dei due‚ quelli più alto‚che s'asciugava i baffi con un fazzoletti colorato‚ dal grosso orlo ribattuto a mano‚ gli chiese:
- Sei tu Gaetano Galdi? -
- Per servirvi! - rispose il giovane‚ con un filo di voce che quasi gli moriva in gola‚intanto‚ l'altro carabiniere gli si portava alla spalle‚ dicendogli:
- Sei in arresto! -
I bambini smisero di giocare‚ un urlo di dolore giunse dalla porta socchiusa‚ il povero vecchio padre protese la braccia verso la finestra spalancata‚ mentre la labbra gli tremavano sotto la barba incolta. Mamma Filomena strinse il grembiule‚ maleodorante di aglio e di miseria‚ tra la mani ossuta ed il viso.
I tre s'allontanarono‚ seguiti‚ a distanza‚ da Carminuccio che‚ scalzo‚ li guardava in silenzio‚col viso rigato di lacrime e la mani ficcate nelle grosse tasche del pantaloncino sfilacciato‚ lacero e non adatto alla sua età.
- Gaetà! -
- Vatténne a casa e pensa a papà! -
- Gaetà! -
- Vatténne guagliò e fatte omme ambrèsse! -
Il ragazzino‚come se in quell'istante avesse compreso la gravità dell'evento‚si fermò:
- Gaetà; nce pense ìe! -
S'allontanaro‚ mentre Carminuccio tornò indietro‚ a testa bassa‚ nettandosi il naso sul dorso della mano, sporca di terra.
La piana era in subbuglio. Da Battipaglia ad Ogliastro non si parlava d'altro che dell' "atto di giustizia" compiuto in difesa dell'onore e dell'onestà. La notizia dell'arresto si diffuse con una rapidità incredibile‚ per quei tempi‚ tanto che nella " taverna" i carrettieri del nocerino commentavano il fatto‚ tra una zuppa di soffritto ed una porzione di baccalà "arrecanato".
I caporali covavano un odio impotente‚ ma nei loro atteggiamenti bruschi‚ traspariva una sorta di un "rispetto"‚ per i lavoratori della terra‚ mai provato prima.
Razza di vipere! Rinvigorivano le loro file macinando vite ed ingrassando con il lavoro delle raccoglitrici di fragole‚ di carciofi e di pomodori. Procuratori senza scrupoli‚ se ne infischiavano della istituzioni e della morale‚ pescando nel torbido di una politica irresponsabile ed avvantaggiandosi del fallimento di quella agraria.
Nel carcere di Salerno‚ i tre attendevano di essere giudicati a l'attesa‚ nella celle‚ aveva un sapore di angoscia : chi li avrebbe difesi? Carminuccio intanto manteneva la promessa fatta al fratello Gaetano e "crebbe" all'istante‚ dimenticandosi persino di giocare a "spaccastrummolo"(3). Accudiva gli animali e lavava la gamba morta del padre‚ con una rassegnazione che lo rendeva più grande di quel che era. Le donne nella "piana" non cantavano più‚ lavoravano in gruppo‚ senza allontanarsi l'una dall'altra. E venne il tempo della vendemmia. Anche Nunziatina‚ se non fosse morta‚ avrebbe colto i grappoli maturi‚ per il vino dei Casati.
Gli altri anni‚ quelli era stati giorni di festa‚ ma quell'anno perfino l'uva faceva resistenza alla dita delle raccoglitrici. La moglie di don Filippo lavorava ora con le altre‚ ma nessuno le rivolgeva la parola. Con i capelli raccolti in una lunga traccia‚ arrotolata dietro il capo‚ evitava che il suo guardo ne incrociasse un altro ma‚ quando era sicura di non essere scorta‚ "guardava storto" e coglieva pure l'uva "puttanella"(4). La veste nera‚ unta e grigiastra per lo sporco‚ per nulla addolciva la linea pesante del corpo, piuttosto massiccio. I peli sul grossi cece‚ al lato sinistro del naso‚ erano più irti del solito‚ tanto da darle un'aria tra il coniglio ed il topo.
L'atmosfera nella piana stava cambiando‚ mentre un vago senso di dignità si faceva strada negli animi‚ troppi assuefatti a servire.
Mariuccia si era rinchiusa in sé‚ ricordando i momenti belli in compagnia del suo fidanzato": quanta nostalgia e quanta angoscia. Quell' ultima sera‚ Giuvanniello era stato particolarmente caldo‚ l'aveva baciata con un desiderio struggente‚ carezzandole le guance e la schiena delicata. La ragazza aveva sentito il sesso di lui premerle sul ventre ed aveva desiderato ardentemente che, libero dalla prigione‚ le avesse carezzato la parte alta della cosce. Per la verità il giovane cercò di forzare la resistenza dell'innamorata, ma fu lei a dirigere altrove il sesso caldo dell' uomo, con mille proteste tra le labbra umide di piacere represso :
- No, nnu' voglio! -
- Ma ... - cercò di convincerla Giuvanniello. La giovane fu irremovibile, poi, baciandolo con le labbra calde, cercò di svuotare l'oggetto del desiderio, con mille movimenti della mano inesperta. Forse avvertendo inconsciamente il dramma dei prossimi giorni‚ il giovane desiderò amarla di più e sbottonandole la camicetta, liberò le mammelle dai piccoli capezzoli scuri : gemiti di piacere tra momenti di smarrimento. La mano, lasciata la pelle eburnea del seno, si infilò sotto la gonna larga‚ carezzando le cosce di fuoco e, quando rag-giunse l' incavo dolce ed irrequieto, Mariuccia si sentì svenire, cedendo appena sulle gambe tremanti. Un unico sussulto li avvinse, mentre le loro lingue s'incrociarono, per sublimare quell'attimo. Anche Giuvanniello ricordava quei momenti dolcissimi‚ fissando la tenue luce che filtrava dalla piccola finestra della cella. Tra qualche qualche giorno ci sarebbe stato il processo e sperava in una pena mite‚ non avendo preso parte al delitto.
Felice non sperava più in nulla‚ chiuso in sé stesso‚ era sempre più convinto che "l'atto di giustizia" andava fatto. Gaetano pensava ai suoi vecchi‚ al fratello Carminuccio e sperava che il ragazzo fosse cresciuto in fretta‚ tanto più che aveva la strana sensazione‚ che non avrebbe rivisto più la sua casa.
Era il 15 marzo del 1908¸ quando il giudizio iniziò nel Tribunale i Salerno e gli imputati ebbero una difesa d'ufficio. Dopo giorni di interrogatori‚ di arringhe e di false speranze‚ fu pronunciata la sentenza‚ dura e spietata : ergastolo.
Era il tempo in cui in Italia del nord iniziava la lotta sindacale del mondo operaio e contadino; al ponte di Berra i soldati sparavano contro i lavoratori della terra‚ mentre il sud lottava con la fame a la miseria. Era quest' ultima che armava il coraggio dei nostri emigranti. Quelli che rimanevano, venivano tenuti nell'ignoranza e nella superstizione‚ alimentata da visioni apocalittiche, di retaggio feudale.
In questi clima sociale si trovarono a vivere i nostri protagonisti; ecco perchè vendicarono l'unico affronto, che mai avrebbero potuto sopportare.
Giuvanniello‚ alla Gorgona di Livorno‚ rigirava, tra le mani sudate, l'ultima lettera di Mariuccia‚ trattenendo a stento le lacrime‚ con l'angoscia che ti rode nelle situazioni di impotenza.
La ragazza prometteva di attenderlo a gli giurava quell'amore che tutte le innamorate‚ a diciotto anni‚ giurano al loro fidanzato. Le parole di Mariuccia erano sincere‚ accorate e mostravano tutto il dolore di chi viene privato dell'unico bene che dà uno scopo alla vita. Fu allora che il giovane capì di dover chiudere per sempre quel capitolo della sua vita. Scrisse alla fanciulla‚ che la liberava da ogni impegno e che‚ se gli voleva bene‚ doveva pensare a sposarsi con chi avrebbe potuto ridarle il sorriso e quei figli che avrebbero allietato la sua casa di donna e di sposa felice.
I giorni trascorrevano lenti nella piana a Mariuccia aspettava con ansia la risposta alla sua ultima lettera. Finalmente‚ quel lunedì mattina‚ sentì il fischio del postino e si precipitò sull'aia. Corsa verso il calesse‚ asciugandosi sul grembiule la mani bagnata di bucato. Prese la lettera e corse verso la campagna‚ seguita dagli sguardi pensierosi della madre. Si addentrò nel vialetto‚ tra la vigna ed i salici‚ sedendo‚ affannata sull'erba. Per un lungo istante‚ il cuore smise di battere a gli occhi fissarono lucidi quello scrigno di speranze‚ prima che lo aprisse con la mani tremanti e nervose. Estrasse il foglio lentamente‚ poi‚ d'un tratto‚ lo aprì a lesse. Le lacrime di Mariuccia scesero copiose, fino al cuore. Riattraversò‚ di corsa‚ la campagna‚ coprendo in breve tempo di spazio dal vigneto alla casa; sull'aia‚ le galline lasciarono i chicchi di grano e scapparono dividendosi in due gruppi disordinati.
Nella penombra della camera da letto‚ il materasso di spoglie accolse i penosi singhiozzi della giovane‚ con un brusio di foglie secche. Alla spalle‚ un'ombra osservava in silenzio: era Assunta che assisteva alla disperazione della figlia‚ anche a lei sarebbe piaciuto che Giuvanniello fosse entrato in casa sua‚ quella casa che‚ da tempo‚ mancava di un uomo‚ dopo la morte del marito Nunzio. La donna prese la lettera sgualcita dalla mani della figlia a lesse faticosamente tra la righe‚ comprendendo più per intuito‚ che per espe-rienza di lettura. Sedette sul bordo del letto accarezzò il capo della sua creatura‚ come faceva un tempo. Stettero a lungo l'una vicino all'altra‚ senza dire una parola. Di fronte al letto‚ una specie di armadio senza specchi custodiva il misero corredo di Mariuccia‚ mentre‚ sul vecchio comò‚ la fotografia di compare Nunzio troneggiava al centro delle altre fotografie di defunti‚ messe lì come lari protettori. La giornata si spense lentamente e la notte sopraggiunse sulla casa‚ sugli animali e sui sogni della ragazza.
Gaetano‚ a Portolongone‚ iniziò la sua vita di recluso‚ spegnendosi giorno dopo giorno‚ con gli occhi fissi sulla piccola finestra della cella umida ed angusta. Per circa cinque anni‚ visse nell'attesa della lettera che gli inviava Carminuccio‚ ma quando apprese della morte del padre prima e della madre poi‚ si lasciò andare. Morì il 20 febbraio del 1913‚ all'alba del primo conflitto mondiale. Era il periodo della guerra balcanica e di mille illusioni di conquista. La pace di Losanna dava all'Italia il possesso della Libia‚ la cui conquista fu possibile solamente molti anni dopo. Il nazionalismo si andava affermando come movimento letterario e politico‚ Gabriele D'Annunzio inneggiava alla forza a al dinamismo. Quanto ai socialisti‚ la guerra libica aveva riportato in auge la corrente massimalista e rafforzata quella rivoluzionaria‚ ove militava Benito Mussolini che‚ insieme all' allora repubblicano Pietro Nenni‚ aveva organizzato manifestazioni di protesta‚ violentissime‚ a Forlì. Ad Ancona‚ la polizia sparava su di una manifestazione socialista‚ ammazzando tre dimo-stranti; lo sciopero era proclamato in tutta Italia ed il paese veniva scosso da violenze ed atti di teppismo. La settimana rossa rappresentava l'epicentro di tutta una serie di sommosse nella Marche ed in Romagna‚ nonché l'inizio della crisi profonda del movimenti operaio italiano. IL Sud era pressoché assente‚ come assente era qualunque tentativo di riforma agraria‚ dal momento che la legalità era nella mani dei latifondisti a della piccola borghesia. I caporali fissavano le condizioni con i padroni e ciò significava miseria‚ per i lavoratori della terra, quella che impediva la loro emancipazione e favoriva l'emarginazione del sud. Nel 1906 la Società Umanitaria‚ in concomitanza con la Federterra, riusciva a fare i primi passi contro il caporalato e la disoccupazione‚ portando l'assise del primo congresso internazionale a votare per la istituzione degli uffici interregionali di collocamento. Ma gli imprenditori padani ed i caporali del sud‚ vinsero la battaglia‚ perchè appoggiati dalle forze patronali e dallo stesso stato. Invano il Giolitti ‚ allora Presidente del Consiglio‚ appoggiò il disegno di legge, che prevedeva la fine della mafia d'ingaggio. Era anni difficili. Sembrava‚ infatti‚ che il mondo fosse sopra una grossa polveriera e Prencip‚ lo slavo irredentista‚ ne accese la miccia che incendiò‚ in breve tempo‚ il furore degli uomini.
L'Italia‚ incerta a dubbiosa‚ cercava una sua linea di condotta‚ sballottata‚ come sempre‚ da molteplici forza politiche; finché non vinsero gli interventisti a fu la guerra. Era il 24 maggio del 1915. Povera Italia! Mal governata e sedotta‚ come una bella donna‚ dal gioco di forze più grandi di lei.
Il 6 aprile del 1917‚ gli Stati Uniti entravano in guerra e Wilson presentava l'intervento come una lotta per la democrazia‚ per la libertà a per un'egemonia universale del diritto. Sul fronte occidentale‚ seguì la famosa ritirata di Caporetto.
Sia Giuvanniello che Felice‚ nella loro celle‚ non seppero che poche notizie di questi eventi storici. I giorni passavano lentamente e gli anni era secoli. La vita del carcera era dura ed i problemi più semplici si ingigantivano fino ad assumere proporzioni assurde. Il sesso diveniva il pensieri dominante e generava manifestazioni innaturali che rendevano la fantasia fervida di espedienti. Nella lunga attesa di niente‚ la dita veloci impastavano la mollica del pane‚ che‚ lentamente‚ assumeva la forma del sesso femminile: la massa molle riproduceva le grandi labbra‚ dove il sesso turgido andava ad infilarsi nelle lunghe notti insonni. Anche Giuvanniello‚ dopo mesi di astinenza‚ volle illudersi di essere con la sua donna.
Mariuccia attese‚ per sette lunghi anni‚ il ritorno di Giuvanniello‚ poi‚ la lettera del giovane e la convinzione che la domanda di grazia non sarebbe mai stata accettata‚ maturarono nella donna la decisione di fidanzarsi con un bravo giovane‚ Pasqualino quello stesso che aveva raccolto il corpo morente di don Filippo ò capuràle.
Nel maggio del 1914‚ i due si sposarono ed andarono a vivere nella casetta della madre di lei. Mamma Assunta era morta l'anni prima‚ con una gran pena nel cuore‚ e fu in quella casa che i due sposini iniziarono la loro vita di sacrifici.
Quando Giuvanniello seppe‚ tramite Carminuccio‚ del matrimonio della sua fidanzata‚ tra le lacrime‚ approvò quella decisione. Quell'evento causò nel giovane un atteggiamento nuovo‚ infatti decise di apprendere un lavoro che gli permettesse di sopravvivere. Iniziò a frequentare la grossa falegnameria del penitenziario‚ specializzandosi in ebanisteria. Apprese quest'arte sotto la guida di un altro detenuto‚ un vecchio catanese che gli fece da maestro.
Carminuccio‚ nel frattempo‚ era cresciuto ed ora aveva quasi vent'anni. Alto‚ agile e sicuro di sé‚ parlava del fratello Gaetano come di un eroe‚ che aveva sistemato le cose della piana. Effettivamente la situazione era di molto migliorata; non che fossa finita la miseria‚ ma almeno i caporali l'avevano smesso con lo strozzinaggio ed i ricatti.
Intanto‚ il dopoguerra preparava nuove pagine di storia. Il partito socialista si dilaniava nelle lotte interne‚ mentre un certo movimento nasceva con carattere di elìte: Benito Mussolini dava l'avvento al fascismo.
Era il 1919. Nel settembre del 1920‚ operai e sindacalisti socialisti occuparono le fabbriche‚ chiedendo il rinvio del contratto ed aumenti salariali‚ ma i risultati furono deludenti. Nel gennaio del 1921‚ a Livorno‚ la corrente che faceva capo a Gramsci decisa di staccarsi dal partito socialista e fondare un nuovo partito : il partito comunista Italia. Mentre nel nord il contadino cessava di essere un salariato e diveniva socio d'azienda‚ nel Mezzogiorno‚ dove il latifondo era ancora radicato‚ non si verificò alcuna riforma agraria‚ soffocando il grido - La terra ai contadini!- e deludendo la speranza delle masse.
Gli eventi precipitarono‚ le squadre fasciste aumentarono la loro forza e‚ col beneplaciti dell'esercito e della polizia‚ organizzarono spedizioni punitive. Il 24 ottobre del 1922‚ le forze fasciste‚ concentrate a Napoli‚ iniziarono la marcia su Roma‚ ove entrarono il 28 ottobre. Quattro giorni dopo‚ Mussolini ebbe dal Re l'incarico di formare il nuovo governo. Seguirono le elezioni che determinarono la maggioranza parlamentare del fascismo e l'assassinio di Matteotti.
Il 31 ottobre del 1926‚ Zaniboni attentava alla vita di Mussolini che‚ nel novembre dello stesso anno‚ deliberava lo scioglimento di tutti i partiti e l'istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Dal 29 al 36‚ il regime conobbe i suoi anni migliori; in questo periodo sorse il mito del Duce‚ sotto l'azione della propaganda per l'incremento demografico‚ della politica agraria a con la battaglia del grano. Era il tempo in cui l'Italia si sentiva realmente fascista‚ né si sognava tanti antifascisti‚ quanti sostengono oggi di esserlo stato. Era tempi brutti che dovevano servire da insegnamento‚ non da spauracchio di comodo.
Il 5 maggio del 1936, si concludeva l'impresa Etiopica, con l'occupazione di Addis Abeba e Vittorio Emanuele II diveniva imperatore. Il 15 maggio, Giovanni Falcone veniva messo in libertà dopo 2 anni di reclusione. Alla stazione di Napoli, incominciò a respirare l'aria della sua terra.
Nell'animo, i sentimenti più contrastanti si alternavano ad una gioia immensa. Il treno si mosse a l'ansia crebbe con la stessa velocità della campagna che gli veniva incontro.
La piccola stazione di Capaccio Scalo era gremita: Carminuccio, vestito a festa, andava su e giù, sorridendo a tutti coloro che si rallegrava per l'arrivo del compaesano Era come se aspettasse il fratello, quello che aveva perso nel carcere di Portolongone. Pochi erano rimasti della vecchia guardia, ma tutti sapevano del fatto accaduto ventotto anni prima.
Compare Albino era stato tra i primi a recarsi alla stazione‚ partendo di buon mattino col suo abito buono ed il mezzo sigaro in bocca. C'era pure Micheluccio‚ l'ex tirapiedi di don Filippo. Finalmente‚ il fischio del treno ruppe l'ansia di tutti e la piccola folla si accalcò nei pressi dei binari.
- Eccolo‚ eccolo! - qualcuno gridò‚ ma il treno era ancora distante e si scorgeva solo la testa del macchinista‚ che guardava preoccupato la folla. Il treno sbuffò‚ rallentò‚ si fermò con un lungo sibilo. La folla assaltò i primi due vagoni, qualcuno gridò in corrispondenza dei finestrini :
- Giuvanniè‚ Giuvanniè! -
Per cinque lunghi minuti nessuno scese‚ nessuno si mostrò.La piccola folla ondeggiò‚ mentre il mormorio si fece sempre più forte. Qualcuno chiese :
- Carninuccio‚ si sicuro ch'è chìsto 'o treno? -
Il giovane non rispose a si spostò lungo i Vagoni‚ verso destra. Nel quarto‚ lo sportelli si aprì. Carminuccio accorse‚ si fermò e guardò nel vano: Giuvanniello era là‚ con due valige in mano ed il volto rigato di lacrime. Un modesto vestito blu‚ a righe bianche delineava il corpo ancora snello, ma come era diverso al giovane che era partito tanti anni prima. I capelli brizzolati con due grosse ciocche bianche alla tempie‚ mettevano in risalto le rughe del viso scavato dalla sofferenza. Scese due gradini del treno e si fermò lasciando cadere la valigie. Si strinsero in un abbraccio senza parole, mentre il treno ripartiva con un lungo fischio. La folla attese‚ pazientemente‚ che si salutassero‚ poi‚ con grida festose‚ corse verso di loro, con una generosità che è tipica dei meridionali :
- Giuvanniè‚ salute! -
- Ben tornato Giuvanniè! -.
L'uomo si fece largo ringraziando e si diresse verso l'uscita‚ dove compare Albino aspettava. Il vecchio lo guardò‚ con le mani che gli tremavano ed una lacrima‚che subito asciugò con l'indice destro.
- Giuvanniè!..- mormorò, con un filo di voce, che era un singhiozzo. L'uomo abbracciò quel povero vecchio ed insieme uscirono fuori sulla strada‚ dove Carminuccio attendeva con il calesse‚ già carico delle due valigie. Salirono e si allontanarono‚salutati calorosamente dalla folla. Nessuno dei tre parlò‚ nel lungo tragitto verso casa. Il mattino era pieno di sole e gli alberi ombreggiavano silenziosi e tranquilli.
Per qualche chilometro‚ la strada continuò diritta a polverosa‚ poi‚ uscirono all'aperto‚ tra due ali immense di campi‚ con lunghi filari di salici all'orizzonte. Una leggera brezza‚ da sinistra‚ portava il profumo del mare. Giuvanniello chiuse gli occhi a respirò a pieni polmoni l'aria della "piana". Una grossa mandria di bufali si godeva il sole‚ nell'ultimo tratto della terra dei Casati‚ quando il calesse rallentò. Giuvanniello fissò Carminuccio‚ quasi a chiedergli il perché‚ il giovane guardava verso una piccola fattoria‚ con l'entrata rivolta verso il mare ed un vialetto‚ costeggiato da gerani a rose‚ che immetteva sulla strada. Una donna‚non più giovane guardava verso di loro‚ si alzò‚ fece un passo avanti e si fermò incerta. Giuvanniello si accorse di lei e la fissò finché il calesse non si fermò completamente‚ a pochi passi da lei. Il volto stanco mostrava le rughe del tempo‚ gli occhi tristi avevano qualcosa di familiare:
- Giuvanniè! - I singhiozzi della donna erano penosi‚ ma li soffocò in un grosso fazzoletto colorato. L'uomo si sentì turbato e‚ reggendosi sul ginocchio del giovane amico‚ scese dal calesse:
- Mariu'! -
Si abbracciarono. Dov'era finita la sua meravigliosa freschezza! In quell' ab-braccio vi era il dolore di trent'anni. Giuvanniello l'allontanò con garbo e guardò con tristezza la casa solitaria‚ desolata‚come la povera donna‚ vestita di nero‚ che gli stava di fronte.
- E tuo marito? -
- È morto l'altr'anno -
- Come è andata l'annata scorsa -
- Quest'anno andrà meglio - gli rispose‚alzando le spalle con una rassegnazione,
che Giuvanniello non ricordava.
-Vienimi a trovare‚ quando avrai un poco di tempo -
- Verrò! - rispose l'uomo‚ guardandola allontanarsi per lo stretto viale‚ verso la casa grigia. Risalì sul calesse‚ che riprese la sua corsa verso "femmena morta".
Le prime case gli venivano incontro‚ con quell' aria tra il triste ed il dormiente‚ mentre i raggi del sole‚ mettevano in risalto il giallo delle facciate‚ sotto gli spioventi di tegole cotte. Non era poi cambiato molto il suo paese‚ pensava Giuvanniello ed aveva la piacevole sensazione di non essersi mai allontanato dalla sua terra. Ed i caporali ? Quelli avevano finito di stuprare e schiavizzare‚ ma c'erano ancora e ci sarebbero sempre stati‚ finché ci sarebbero stati loro : i padroni e la povera gente‚ quella che non ha altro che due braccia per lavorare‚ con la schiena ricurva e le mani deturpate dai calli‚ con le macchie delle piante ruvide dei carciofini.
I caporali‚ razza dura a morire‚ indistruttibili come la gramigna‚che spunta ovunque e non si distrugge mai. Cambiano i tempi a cambia il loro approccio con il mondi del lavoro‚ ma in sostanza il risultati è il medesimo: lo sfruttamento delle masse‚ un dissanguamento costante‚ parassitario‚ volto alla speculazione.
Forse‚ anche essi servono‚ come servono gli ignoranti e gli sciacalli‚ servono al gioco dei potenti per creare nuove forme capitalistiche poggiate sull'illegalità.
Felice‚ scarcerato‚ un anno prima non era andato alla staziona per ricevere l'amico. Forse per un sensi di colpa verso il fratello di sventura‚ che aveva pagati per il suo delitto. I due si incontrarono due giorni dopo‚ in quella stessa campagna che era stato il teatro della loro impresa.
- Siamo dei sopravvissuti - iniziò Felice‚ parlando a testa bassa e con le mani in tasca‚ come per prendere coraggio.
- Quel che abbiamo fatto‚ andava fatto! E' la legge della vita!- aggiunse Giuvanniello‚ appoggiandosi sulla gamba buona‚ quella che non aveva subito le conseguenze dell'anello della prigione. Il discorso andò avanti per un bel pezzo e si concluse con un abbraccio e qualche lacrima amara.
Il sole tramontava all'orizzonte e la piana andava riempiendosi della voci della sera‚ del fumo dei focolari a del latrati dei cani sulla aie. Nulla era cambiato e la nuova generazione era forse più vivace‚ ma con lo stesso sguardo deciso‚ quello che scruta la terra‚ ma sa opporsi alle ingiustizie dei caporali.
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(*) Al mio caro amico Franco Angrisano, il celebre Padre Tobia della Rai degli anni 60 e validissimo attore della
compagnia Di Eduardo De Filippo.
(1) Carrara, carraia, strada per carretti.
(2) Dobbiamo uccidere quella belva.
(3) Spaccastrummolo: antico gioco campano, fatto con una trottolina di legno con punta metallica ed uno spago.
(4) Uva puttanella: uva selvatica, piccola ed amara.      

Don Giuliano di Terramezzana
Erano le otto di sera, quando Lorenzo e don Fernando bussarono alla porta del casolare, dove Giuliano, parroco di Terramezzana, stava vivendo le gioie del paradiso terrestre, tra le braccia di Maddalena, una intraprendente biondina del suo paese. Saltò sul letto, come se gli avessero punto il didietro con un punteruolo ed avrebbe voluto non rispondere, ma la macchina, parcheggiata sotto il pergolato di uva fragola, denunciava inequivocabilmente la sua presenza.
- Un momento !- sbiascicò con voce chioccia, saltellando nudo per la stanza;
- Sto dormendo!- continuò, come a prendere tempo;
- Ora metto la vestaglia!- gridò, cercando di essere il più naturale possibile.
Aprì l'anta del grosso armadio, che occupava tutta la parete di fronte al letto, e vi nascose la Maddalena, sussurrandole:
- Zitta!-
- Non fiatare!-
- Per amor di Dio!-
Infilò la vestaglia di seta e si diresse verso la porta, che quel sempliciotto di Lorenzo, suo cognato, sembrava avesse in animo di scardinare.
- Siììì! - chiese ancora, aprendo lentamente, come se si fosse svegliato in quel momento.
- Don Giuliano!- esclamò il giovane, sorridendo come un ebete e lanciando fugaci occhiate nel casolare piuttosto buio;
- È stata tutta idea mia, quella di farvi una sorpresa, con don Fernando vostro padre, siete contento? Ho pensato che eravate qui, tutto solo, e vi poteva far comodo un po' di compagnia. Eh!…La solitudine dei preti!...-
- Bravo, bravo! - lo interruppe, con ironia, don Giuliano,
- Sei proprio un bravo figliolo, ti ricorderò questa sera nelle mie preghiere! -
Lorenzo notò qualcosa di minaccioso nelle ultime parole, ma non vi fece caso e continuò:
- Non ci fate entrare? Posso ordinarvi la camera da letto, mentre voi ci preparate un buon caffé -
Al prete stava per venire un accidente, ma si frenò ed esclamò prontamente:
- Il caffé è finito, mi dispiace, ora mi vesto ed andiamo a prenderlo da qualche parte!-
- Che peccato, il vostro è così buono!- commentò Lorenzo;
- Che peccato! - ironizzò, con stizza, Giuliano.
Scomparve in camera da letto e chiuse a chiave la porta, per prudenza. La Maddalena uscì, appena in tempo, per riprendersi da una sorta di soffocamento e si distese sul letto, con le mani sulle grosse tette e gli occhi che le erano usciti fuori dalle orbite.
- Dentro l'armadio non ci entro più!- sussurrò tutto d'un fiato, con il petto che le scoppiava.
- Don Giuliano, vi serve aiuto?- gridava, intanto, Lorenzo dal soggiorno.
- Li mortacci tua!- disse, a voce bassa, don Calandino,
- Come dite!- replicò Lorenzo,
- I campanacci, li senti i campanacci delle pecore?-
Come Dio volle, il parroco, dopo di aver cacciato la donna sotto il letto, riuscì a portar fuori il padre e quel maledetto impiccione, che gli aveva rovinato un momento di meraviglioso piacere. Nei giorni che seguirono, si guardò bene dall'andare al casolare, accontentandosi delle affettuose attenzioni della signora Maria, una devota parrocchiana, un po' gelosa, ma molto alla mano.
L'abile donna lo prendeva per la gola, con gustosi manicaretti, intervallati da pratiche molto distensive, che facevano bene al corpo ed all'animo ingordo del sacerdote. Certo, Maria era piuttosto in carne, ma la strada si trovava comunque, per approdare con soddisfazione, fin sulla spiaggia del piacere, mentre il marito preparava il caffè, convinto che la moglie, brava massaggiatrice, fosse occupata in una delle solite sedute. In tal guisa, don Giuliano trascorse tutto il mese di giugno.
Luglio era arrivato e la notte era dolcissima. Un lungo sospiro tradì la profonda nostalgia del suo grande amore: la dolcissima Monica, fresca e profumata come una rosa di maggio, il suo sogno proibito, la sua "Lulù",con i capelli alla francese e le cosce lunghe. Se l'era cresciuta "con le formichelle", fin dall'età di quindici anni, da quando la piccola credeva che i bastoni fossero quelli, che usavano i vecchi per camminare. Ma aveva imparato rapidamente tutte le arti della seduzione ed infatti, rifiutava al momento giusto e cedeva, quando bisognava mettere un altro punto fermo, nella dinamica delle cose. Sapeva mordere senza far male la bambina, ed era capace di trasformare la bocca in un piccolo paradiso, impastato di peccato e voluttà. Don Giuliano credeva di saperla gestire, ma era pilotato come un bambino, che cerca il calore della mamma ed il latte del suo seno.
- Non mi chiede mai nulla la mia piccola! - soleva dire, in confidenza, a qualche amico fidato. Ma cosa doveva chiedere, dal momento che era lui a darle tutto? Forse che la casa nuova, la macchina ed il posto di lavoro non bastavano? Chi provvedeva all'intera famiglia? Ed ai pranzi delle ricorrenze?
L'astuzia di Monica era condita di belle frasi, di un pizzico di gelosia e della certezza di una disponibilità totale, oltre ogni limite di tempo, come potrebbe fare una moglie con il suo sposo. Ma le cose non stavano così: la partita era condotta su di un terreno, poco vantaggioso per il nostro don Giuliano: il tempo, un alleato prezioso, che avrebbe sistemato le cose per benino.
La fanciulla che cominciava ad apprezzare il benessere, presto capì che non aveva più bisogno di protezione: la sua nuova condizione poteva offrirle molto di più di un prete anzianotto. Occorreva, per ora, agire con tatto e lasciare che le cose facessero il loro corso, senza forzature e senza fretta. In fondo, quell'uomo meritava pure qualcosa che somigliasse, sia pure lontanamente, alla riconoscenza. E poi, provava per lui uno strano sentimento, una sorta di compatimento, che solo un cattivo cristiano avrebbe definito pietà. Ella preferiva chiamarlo affezione e, con le lacrime agli occhi, si commuoveva tutte le volte che pensava alla sua solitudine, o ad una eventuale malattia. Quasi ci si vedeva, col grembiulino da infermiera, a curarlo come se fosse uno zio, a cui doveva badare per forza di cose.
Il distacco, per andare a lavorare a Milano, forse, capitava come il cacio sui maccheroni: era il destino che le veniva in aiuto, avviando, naturalmente, una strategia di separazione efficace e sicura. Per i primi tempi, si sarebbero visti spesso, poi, lui si sarebbe scocciato di salire su e lei sarebbe scesa giù, sempre più di rado, finché la dicotomia non sarebbe stata definitiva. Per intanto, si vedevano e c'era quasi un certo gusto a godere di quell'uomo, che correva da lei come se fosse la femminilità personificata e l'unica dispensatrice di gioie e lussurie. Don Giuliano godeva fino a tre o quattro volte e, quasi ci rimaneva, tanto erano le energie profuse. Poteva anche quella essere una soluzione, pensava la bella Monica, però sarebbe stato imbarazzante, dopo, dover spiegare e chiarire tante cose. Preferì non pensarci oltre, nell'attesa dell'intercity dalla Calabria.
Come l'altoparlante avvertì che il treno era in arrivo al terzo binario, incominciò a ravviarsi i capelli ed a ritoccarsi le labbra: era perfetta. L'abitino scollato, che aveva comprato la settimana prima, evidenziava il seno, che il prete, a dire il vero, sognava di baciare tutte le notti, profumato appena di chanel.
L'intercity entrò in stazione e lentamente si arrestò. Monica guardò tra la folla, ma era difficile orientarsi, in quella marea di persone. Un ragazzino la urtò e venne subito ripreso dalla madre. Ad un tratto, le sembrò di vederlo e corse in quella direzione, ma non era lui, gli somigliava soltanto e nemmeno troppo, tutto sommato, con la camicia aperta avanti e gli occhialini dai vetri scuri.
La folla scemò e di don Giuliano nemmeno l'ombra. Che avesse deciso di troncare la relazione? Disse a se stessa, ma era ancora troppo presto per una tal decisione e si recò al bar per un caffè. Lo vide. Era in prossimità della cassa e si avvicinò per salutarlo.
- Dolcissima !- le sussurrò abbracciandola, appena si accorse di lei;
- Mi fai compagnia per un caffè?-
- Certo, caro!- rispose la ragazza con un sorriso.
Di lì ad un'ora erano l'uno nelle braccia dell'altro, in un discreto alberghetto di periferia.
- Ho deciso, iniziò il prete con voce grave, verrò pure io a Milano!-
- Magari, rispose Monica, sarebbe bellissimo!- intanto era impallidita, nel mentre che continuava l'amplesso, muovendosi sull'uomo con le grosse tette, che ballavano davanti ai suoi occhi stralunati.
- Devo scacciare questa solitudine che mi opprime!- continuò Giuliano, e raggiunse l'orgasmo per la seconda volta.
- Io cerco di esserti vicina, non puoi lamentarti di me!-
- Certo, a mille chilometri di distanza!- commentò il parroco di Terramezzana; poi, chiuse gli occhi e si abbandonò al piacere intenso che la ragazza gli dava, muovendosi su di lui, come una forsennata.
- Ti amooo!- gridò Monica, al suo ennesimo orgasmo.
- Continuarono in quella guisa fino alle quattro del mattino, finché la ragazza, esausta, cessò la sua frenetica galoppata e si abbandonò al sonno ristoratore:
- Buona notte, amore!- mormorò al suo uomo, che le rispose con una tenera carezza sui glutei.
Anche don Giuliano era stanco, tanto quanto non lo era mai stato; eppure era avvezzo a quel tipo di fatica e non ne capiva il motivo, ma era felice e chiuse gli occhi con un leggero sorriso sul volto, come a dire:
- Questa si che è vita!-.
Erano circa le nove, quando la fanciulla si svegliò. Scese dal letto tutta nuda, come si trovava ed andò a spalancare le ante dell'unica finestra della camera. Si diresse in bagno ed aprì la doccia, e con voce sostenuta chiamò:
- Giuliano, tesoro!- ma non ebbe alcuna risposta.
- Caro!- chiamò, ma l'uomo non corse, come faceva sempre, per godere ancora, sotto la carezza dell'acqua, della sua bella Monica. La ragazza chiuse la doccia e rientrò in camera da letto. Il prete era lì, rigido come un blocco di marmo, col volto sorridente e la parte ancora tesa, come se fosse pronto a fare l'amore. L'amante lo chiamò ancora, lo scosse, poi si accasciò piangendo ai piedi del letto e lì rimase a lungo, mentre la città si svegliava, per prepararsi a vivere un nuovo giorno di lavoro.   

Pazzia d'ammùri
Castello è un paesino arroccato su un monte dell'Appennino campano, un piccolo centro alle porte del Cilento. Costruito, nel 1144, intorno al monastero di S. Lorenzo de Strictus è strutturato, come un gigantesco presepe, tra gli Alburni ed il Tirreno della piana del Sele. Un posto splendido, al riparo dagli orrori della guerra e dal caos di un dopoguerra lungo e difficile. Una lunga serie di fertili terrazzi, ricchi di fichi e vigneti, offrono, ancora oggi, ai più esigenti cultori del vino, un barbera doc, dove si armonizzano eccezionalmente colore, gusto e profumo.
È qui che si svolge la nostra storia, negli anni cinquanta, quando, all'età di quindici anni, mio padre volle che andassi ad imparare il mestiere da mastro Antonio Iannuzzi, un imprenditore di Vallo, che si era sposato a Castel San Lorenzo.
Angela Morra, una splendida donna di ventisei anni, viveva in una modesta abitazione del corso, nel lungo tratto di strada, che accoglieva i carretti dei "semenzari", che ritornavano da Piaggine e da Laurino, prima di perdersi nelle curve scavate nella boscaglia, che, sinuose, precipitavano a valle, verso il lungo rettifilo di Capaccio Scalo.
Alta, ben fatta, dal seno esuberante, i glutei sodi e ben disegnati, percorreva il paese a testa alta, come chi non ha nulla da spartire con nessuno. Gli occhi verdi e grandi, i capelli castano chiaro, con riflessi rossi evidenziavano le labbra piene e ben disegnate, una bellezza inconsueta, tra la miseria e l'ignoranza superstiziosa del luogo.
Era una ragazza madre, ma il figlio si diceva l'avesse affidato ad un istituto di religiose, sapeva che sarebbe stato impossibile tenerlo con lei, in paese, e lottare per sopravvivere. Da sola poteva affrontare la vita, non le mancava il coraggio, ne aveva più di dieci uomini messi assieme.
- Domani vengo a lavorare! - disse a mastro Antonio Iannuzzi, con le mani ai fianchi e le gambe dritte e leggermente aperte, come usano dalle nostre parti gli uomini di principio.
- Vedi che cominciamo alle sette e la manovalanza si butta! - replicò mastro Antonio.
- Tatò, alle sette, sarò già ad attendervi da mezz'ora - concluse Angela, scappando via dal cantiere, come se si fosse ricordata di un impegno improvviso. Sculettando vistosamente, salì lungo la mulattiera che portava su, al castello; il vestitino di stoffa, piuttosto malandato, le aderiva come fosse una seconda pelle, tanto che sembrava fosse nuda, con i glutei che davano forma alla stoffa ed il seno, fermo e compatto come marmo di Carrara, che sfidava l'aria, ancora tiepida, di quel caldo tramonto di fine maggio. A metà strada, fischiò forte, a guisa dei caprai, quando richiamano il gregge, tra i pascoli dell'Appennino, ed un volpino a coda mozza accorse cerimonioso al suo richiamo.
- Zuzù, vieni cu' me !-
Il volpino cominciò a precederla, su per la irta mulattiera, fermandosi, di tanto in tanto, ad abbaiare festosamente. Giunsero ad una radura, dove il sole giocava con le foglie dei castagni e l'erba sembrava più fresca e più verde che altrove. Esausta, Giulina si fermò. Sedette sul prato, poggiando la schiena al tronco di un vecchio albero, e tirò su l'orlo del vestito, fin oltre le ginocchia. Ora, si sentiva libera. Ad un tratto, sospirò profondamente, prese il medaglione che le pendeva al collo e guardò la foto di un bambino di tre o quattro anni, che le sorrideva. Baciò d'impulso l'immagine, ripetute volte, poi, facendosi seria, scoppiò in un pianto dirotto. Il cane smise di farle festa e si accomodò ai suoi piedi, col muso tra le zampe anteriori e non si mosse più.
Sul cantiere di compare Cosmo non vi era ancora nessuno, ero stato il primo ad arrivare quella mattina. Fischiettavo di buon umore, quando la vidi arrivare, seguita dal fedele volpino. Si fermò e guardando il cane gridò:
- Zuzù, vatìnni!- Il cane, l'ascoltò subito e scomparve rapidamente nella campagna circostante.
- Tu si' Cosimo di compare Danisi? -
- Si - risposi
- Si' crisciuto in fretta, sembri 'n'òmmo -
- Certu chi so' n'òmmo, 'nu mi vìri?-
Mi guardò con attenzione e sorrise maliziosamente, poi, non mi degnò più di uno sguardo.
Quando iniziammo a lavorare, era sempre la prima a correre e ad eseguire gli ordini di mastro Antonio, né si faceva mai riprendere per qualche mancanza, anzi, faceva il lavoro di dieci uomini, senza mai lamentarsi. Tre mesi dopo, la casa era già terminata.
- Domani cambiamo cantiere! - disse mastro Antonio, alla sera del primo sabato di settembre.
- A mettere i pavimenti alle tre camere di sopra resteranno solamente Cosimino e Giulina. Appena avranno finito, ci raggiungeranno all'altro cantiere!-
- Come voi dite, Tatò !- rispose Angela con accondiscendenza.
Il volpino era già ad attenderla nel viottolo ed ella lo raggiunse, camminando allegramente, come se si fosse riposata tutto il giorno. Gli uomini si girarono a guardarla, ma lei, senza curarsi di nessuno, corse incontro al cane, fischiandogli da lontano. La vidi scomparire in lontananza, ed i miei compagni fecero commenti, che mi mandarono il sangue alla testa:
- Hai vistu? Tenu 'nu cùlu ch'è nu zùccheru!-
- 'E mastu Tatonno ci ha datu 'stù scarcillu!-
- 'E vùi vi futtìti, signuri miei !- risposi con rabbia-
Quel lunedì mattina, alle quattro ero già sveglio. Mi lavai e mi lustrai, come per andare ad una festa ed alle sei e trenta ero già sul cantiere. Lei era lì e si dava da fare con gli arnesi per impastare e trasportare il malto per le mattonelle.
- Giorno!- sbiascicai, rosso in viso e lo sguardo vergognoso ed imbranato di adolescente-
- Giorno!- mi rispose, sorridendomi per la prima volta.
Lavorammo per tutto il giorno, tranne una breve pausa per il pranzo, ed all'imbrunire, ci salutammo davanti casa sua:
- Dimàni ti portu ìe lu pane !- disse, sfiorandomi la mano e scomparendo
rapidamente dietro l'uscio.
Dormire era oramai impossibile, già da qualche notte. Il buio alimentava piacevolmente i miei sogni, con mille disegni che, incredibilmente peccami-nosi, si affacciavano nella mente stravolta da una passione nuova, per l'età. Le avevo già strappato i panni di dosso, così come avevo già immaginato i suoi baci e le mie carezze audaci. Anche quella notte, feci, ripetutamente, all'amore con lei, col desiderio che mi faceva battere forte, forte il cuore.
Alle sette, ero lì ad attenderla, con una strana febbre addosso che mi faceva tremare le mani e le gambe. Il sole illuminava i tetti rossi delle case e la campana della chiesa annunciava la fine del rosario mattutino.
- Vieni, Zuzù!- la sua voce mi sembrò musica di violino, in quella splendida mattinata di settembre. Guardai l'orologio di mio padre, erano le sette in punto. Venne verso di me, senza l'ombra di un sorriso e mi guardava fisso negli occhi, come a tirarmi l'anima; aveva gli occhi stanchi ed i capelli tirati all'indietro. Mi si piazzò davanti, a gambe larghe e mi sfiorò le labbra con il pollice della mano destra, mentre carezzava il mio viso di fuoco.
- Sei caldo, cùmme si tinìssi la febbre - disse con una voce, che era nuova per me-
- Zuzù, vavattìnni! - Il cane andò via di corsa e scomparve rapidamente nel viottolo.
- Andiamo a faticàri! - disse ad un tratto e si avviò dentro la casa, mentre seguivo allucinato i suoi passi e le forme vive del suo corpo.
La prima camera era già completa e la seconda era pronta per essere pavimentata. Tutto il materiale era nel terzo vano, insieme ad un gran mucchio di segatura, per la pulizia e l'asciugatura dei pavimenti. Vi entrai e la vidi. Era bellissima. Il seno mi guardava intrigante e prepotente, mentre il corpo sinuoso si reggeva su due gambe lunghe e diritte, come colonne di alabastro.
- M'hai stregata, mi disse, so' dòie notte ca nu' dormo -
Mi rifugiai tra le sue braccia, emettendo una sorta di invocazione, che sembrò un singhiozzo, ed incominciai a prendere tutto di lei: i suoi baci, il suo profumo, il suo calore, senza mai stancarmi di carezzarla.
- Pianu, pianu…còre mio! -
- Quanti anni tieni?-
- Sedici…quindici- mi corressi, arrossendo.
- Madonna! Si piccirìddu, cumme posso fari?-
- Te voglio bene assai! - mormorai delirante
- Lu sacciu, figliu bello, anch'io ti vogliu un bene d'anima!-
- Aspetta…- si chinò e mi spogliò con grande dolcezza, guardandomi attentamente, con i grandi occhi verdi.
- Si, si' proprio crisciùto in fretta !- esclamò, sorridendo e baciandomi ripetutamente sulla pancia, appena sotto l'ombellico. La mia parte, rigonfia fino allo spasimo, le sfiorò il seno ed ella abbassò le palpebre, per un lungo attimo.
Aveva gli occhi torbidi e la voce era particolarissima, mentre mi carezzava per tutto il corpo e mi baciava delicatamente, come si fa con un fiore, per non sciuparlo. Di tanto in tanto mi alitava in un orecchio, sussurrandomi :
- Cusimino, sei la vita mia!-
Mi sentii in paradiso.
La campana suonò dodici rintocchi e Giulìna saltò sul giaciglio improvvisato:
- Ammòri, dobbiamo mangiàri!-
Aprì un fazzoletto di bucato, bianco come la neve, e comparvero dei biscotti dolci con polpa di fichi. Li mangiammo tutti. Alle otto di sera, andammo via tenendoci per mano, finché non pigliammo la strada del corso. All'incrocio, mi lanciò un bacio e scappò via, dirigendosi verso casa.
Continuammo a mettere pavimenti in quella guisa, per altri due giorni, finché mastro Antonio non ci separò, abbinandola ad un altro muratore.
Il sabato successivo, mi attese fuori al cantiere e con gli occhi seri mi disse:
- Sùlu cu' tìa feci all'amore, pecché te vogliu bène! -
- T'aspetto 'a la casa, vièni staséra?- aggiunse dopo una lunga pausa.
- Vengu, vengu!- risposi, rassicurandola con lo sguardo. Mi sorrise e scappò via come una cerbiatta.
Così, tutte le sere, dopo il lavoro, raggiungevo di nascosto la sua abitazione, scavalcando il muro dell'orto, per vivere e morire tra le sue braccia.
- Tengu nù figliu, sai?-
- Veramente?- dissi, fingendo di ignorare quello che in paese si diceva.
Si chiama Cusimino, cùmm'a te - aggiunse, raccontandomi dell'istituto ove lo aveva messo e che era bello, che cresceva a vista d'occhio, e senza di lui si sarebbe sicuramente ammazzata, come le pecore, quando si precipitano nel burrone. La strinsi forte e la baciai con passione.
- Tu invece, si' la terra, cu lu sole e le stelle!- sussurrò stringendomi convul-samente, come se avesse paura di perdermi, in quel momento.
Per più di un anno, io e Giulina continuammo a vederci, tutte le volte che potevamo, ed il suo amore era totale ed incondizionato, pieno di quelle piccole attenzioni, che ti riempiono la vita. Ora era felice, aveva perfino ripreso a salutare la gente, a passeggiare per il paese ed a mettere il vestito buono, per la messa della domenica.
Quel sabato di ottobre, mi recai da lei mezz'ora più tardi. La trovai dietro il muro del giardino, che mi attendeva in ansia:
- Perché facesti tardi? È successo qualcosa?-
- Niente!- le risposi con gli occhi bassi, senza avere il coraggio di guardarla.
- Dimmi la verità, mi fai murìri! -
- La lettera…-
- Quale lettera?- mi chiese spasmodicamente.
- Partu… pe fa lù carabinière!- le dissi tutto d'un fiato, mentre il viso mi si rigava di lacrime-
- Parti, cùmmu parti?-
- Nfàmu, vita mia, cùmme facciu 'a campari?-
- Nunn'è colpa mia, pàtrimi fece la domanda, che posso fari?-
- Hai ragione, còri mio, nu' puoi fa 'u fravicatòri pe' tutta la vita, devi partì ed io …me ne mòri!-
- No, tu non devi muriri!-
Mi abbracciò e mi tenne stretto a lungo, gemendo senza lacrime, o piangendo senza gemiti. Ad un tratto:
- Quànno parti?-
- Tra dieci iuòrni!-
- Vieni tutte le sere, vogliu stamparti dentro st'anima mia!-
- Certo che vengo, ammòri!- le risposi, carezzandola teneramente.
I dieci giorni volarono e quel venerdì di ottobre facemmo all'amore, l'ultima volta, poi, ci salutammo con mille promesse assurde ed impossibili. Entrambi sapevamo che il nostro bel sogno era finito.
I miei mi accompagnarono alla stazione di Capaccio Scalo, vi erano pure i nonni ed i miei cugini con gli zii. Mia madre mi raccomandava di stare attento, mentre mio padre, commosso, non diceva una parola. La nonna, abbraccian-domi, mise nella mia mano cento lire ed il nonno esclamò:
- Attèntu alle male femmine!-
Alle undici, il treno arrivò e vi salii, stanco di tanti abbracci ed addii.
Le carrozze si mossero, ma io pensavo ad Angela, al nostro amore, ai nostri incontri, ed avevo una gran voglia di pingere. Ad un tratto, mi sembrò di sentire la sua voce:
- Cusimìno, Cusimìno!-
Mi affacciai con il cuore in gola, era lei che, a piedi nudi, davanti alla gente, correva, disperatamente, verso di me.
- Nu' mi dimenticàri, Cusimìno…nu' mi dimenticari!-
IL treno si allontanò rapidamente ed lei rimase lì, piegata in due per lo sforzo, piangendo e ridendo insieme, col suo dolore, mentre stava perdendo il mondo, il sole e le stelle del firmamento:
- Io sto qua, Cusimìno, sto qua a chiàgniri ed a murìri ! -    

Metamorphosis
-Mara ! - chiamò, con voce imperiosa, mio padre, un novantenne stanco e con tanta paura della morte. Percorsi, rapidamente, il lungo corridoio e lo raggiunsi in camera da pranzo, dove imperava, nella sua poltrona, filosofeggiando sulle trasformazioni sociali, che avevano mutato il mondo nella "monda", dominato da donne virago ed uomini evirati.
- Mettimi qualcosa in bocca - era il suo modo di chiedere il dolce. Andai in cucina e recuperai un frolletto alla crema del giorno prima, aveva divorato tutto il vecchio patriarca golosone.
Mancavano cinque giorni al Natale e non vi era la possibilità di festeggiarlo degnamente, nell'allegria e nell'abbondanza. Il povero Matteo mi aveva lasciata troppo presto ed ero sola, ora, a combattere per i miei figli e quella pellaccia dura che aveva ancora tanta voglia di vivere. Mia madre riviveva, tra le sue piantine, il suo sogno d'amore, tra le braccia di Gaspare, un brillante ufficialetto di marina, che la guerra aveva fagocitato, con tante altre cose..
Mio figlio passava il tempo disegnando donne nude, dai seni scandalosi e dai glutei tondeggianti, mentre mia figlia Paola si divertiva ad inventare storie particolari sul suo personaggio preferito: Mozza di Biancofiore.
Mi rinchiusi in camera e piansi a lungo, sulla mia immatura vedovanza, su quello che avevo irrimediabilmente perduto. Mi vennero in mente le lunghe notti d'amore e la mascolinità prorompente del mio uomo, le sue mani agili e tenere, sul corpo nudo, che si apriva e si offriva alle carezze più ardite ed intriganti.
Mi mossi improvvisamente ed aprii lentamente il cassetto, tirando fuori una scatolina rossa, che avevo riposto con cura un anno prima. Sciolsi il fiocchetto dorato e la aprìi religiosamente. Un nodo alla gola mi impedì, per un lungo istante, di respirare, era lì, lucida e luminosa, che mi fissava silenziosa: la sua dentiera. La baciai una, due, cento volte, rabbrividendo al contatto con quella che non era più una protesi, ma un simbolo d'amore, tutto ciò che restava del mio uomo. Mi sdraiai sul letto, avevo voglia di chiudere con la vita ed il mondo.
Pregai a lungo, per i miei figli, per mio padre e mia madre, per me, che volevo essere libera da quella angoscia che mi prendeva alla bocca dello stomaco e premeva come un grosso macigno .
Toccai il cuscino di Matteo e mi appisolai sognando di lui, di mio padre, del- le figure agili e snelle che disegnava mio figlio, delle piantine di mia madre, che, in sogno,divennero carnivore e la divorarono, lasciando sul balcone la mano destra, che si muoveva mostrando un grosso anello di oro rosso. Mi sentii più piccola e desiderai per sempre quella stupenda sensazione di leggerezza e di serenità.
Mi svegliai e vidi, con sorpresa, che la dentiera aveva le mie stesse dimensioni e non ci volle molto per comprendere, che mi ero trasformata in una splendida protesi, leggermente più piccola di quella di Matteo, ma perfettamente in sintonia. In quell'istante, entrò mamma, che non era stata affatto divorata dalle piante carnivore, e vedendo le due dentiere, le prese adagio e le sistemò nel cassetto del comodino, una accanto all'altra, mormorando:
- che schifo!-
Il cassetto fu rinchiuso ed io rimasi lì,al buio, accanto alla protesi del mio cuore, e non mi sentìi più sola.    

O munaciello
Nelle campagne del sud, dominate un tempo dalle angherie dei caporali, dall'ignoranza e dalla miseria, era frequente, nei discorsi di tutti, fare riferimento a questo personaggio simpatico e burlesco, che aiutava e scherniva a seconda delle circostanze. 'O munaciello, infatti, soccorreva le famiglie in miseria a patto che si conservasse il segreto del suo intervento. Sovente lo si trovava nella stanza dei bambini, con i quali giocava vestito da folletto con un berretto rosso e l'aria da birichino. Altre volte sedeva dispettoso sullo stomaco di chi aveva mangiato bene.
Credenze fasulle o realtà? La superstizione è la forza dei poveri e forse la saggezza di generazioni che si materializza e si fa personaggio, intervenendo là dove la giustizia del mondo maggiormente tace.
In un piccolo paesino del Cilento: Santa Marina di Orria, viveva una famigliola di tre persone che campavano vendendo le poche uova delle sette galline del pollaio, costruito a ridosso del muro a secco, dell'unica stanza della casa. La costruzione si ergeva alquanto fuori del centro abitato, dopo la breve discesa che, dalla chiesa, portava all'inizio della stretta mulattiera che conduceva ai campi fiancheggiati da spuntoni e scoscesi valloni. Uno stretto ponticello di assi di legno univa il ciglio della strada a ciottoli con l'entrata della casa, che prendeva luce dalla unica finestra sul fosso erboso, che serviva da scolo per l'acqua piovana dell'inverno.
Comare Assunta, sui quarant'anni, mandava avanti la casa ed accudiva la figlioletta Mena di undici anni ed il marito Dionigi che trascinava, fin dalla infanzia, una gamba deforme. Anche a proposito di questa infermità, la gente del paese fantasticava attribuendola ad un calcio del demonio deriso dal nonno mentre il piccolo Dionigi stava per venire alla luce.
Un giorno, Assunta si recò, come di consueto, nell'unico negozio di alimentari, per scambiarvi le poche uova con un chilo di pasta ed un pacco di sale. Don Alfredo, un uomo che la sapeva lunga e curava bene i suoi affari, in presenza di altre comari, prese in giro la donna dicendo:
-Beata voi comare, che avete o' munaciello che vi aiuta -.
All'istante, la donna si sentì guardata con invidia dalle paesane e scappò via tutta rossa in viso. Tornata a casa, ella non fece che pensare alle
parole dell'uomo e decise di sperimentare quella credenza che si tramandava da generazioni. Due sere dopo, poiché era avanzato un bel piatto di minestra, all'ultima ora, senza che alcuno la vedesse, si recò sulla soffitta sconnessa e vi depositò il piatto dicendo:
-In nome di Gesù e di Maria màngete stù piatte e riéste rind'a casa mia! -
il mattino successivo la donna, di buon ora, salì sul soffitto e nei piatto vuoto trovò trecento lire. Con le mani che le tremavano, si fece il segno della croce e scese col piatto che era talmente pulito che sembrava nuovo. Quella mattina, oltre alla pasta, comprò dello zucchero e della farina, intenzionata a fare uno di quei dolci che ricordava di aver mangiato una volta, da bambina. A pranzo, Dionigi rimase á bocca aperta quando la moglie pose, sul tavolo senza tovaglia, un bel dolce profumato di scorza di limone e coperto di zucchero.
- Assu' si pazza! e dimàne cùmme mangiàmme?- (1)
- Cull'aiuto do' Signore- rispose tranquillamente la donna, dopo aver conser-vato una fetta abbondante di quel dolce. A sera, mentre il marito russava e la piccola dormiva, sognando il sole dell'estate, la donna portò sulla soffitta lo stesso piatto, contenente la grossa fetta di dolce che aveva conservato. All'indomani, nel piatto trovò cinquecento lire, delle quali ne conservò la metà.
Nei giro di due anni, fece un discreto gruzzoletto, quel tanto che le
bastò per aggiustare la casa ed iniziare il corredo di Mena.
Nei paese non si parlava d'altro che della fortuna di compare Dionigi, che aveva la casa più bella e mangiava la carne due volte al mese.
Mena era già una signorina, quando i genitori decisero di mandarla a Policastro per apprendervi il mestiere della sarta e la fanciulla partì con un bel vestito nuovo e le scarpette col mezzo tacco, come la figlia del sindaco. Tutto il paese accorse per vederla e stettero lì a guardarla, finché non scomparve dietro la curva, dopo la piccola piazza. Lo scandalo fu completo quando Dionigi fece l'abbonamento mensile col barbiere ed Assunta si riparò dal freddo con un pesante cappotto con i bottoni grandi.
- 'O munacielle sàpe ccà ddà…fa!- (2) qualcuno mormorava invidioso di quella grossa fortuna. Intanto, la donna continuava le sua notturna salita sulla soffitta, riservando le cose migliori per il suo ospite misterioso.
Le galline presero á fare più uova, facendo prosperare sempre più quella casetta dalle mura senza intonaco.
Trascorsero altri due lunghi anni e Mena ritornò da Policastro. Prese a cucire i vestiti per conto suo, guadagnando discretamente ed acquistandosi la stima della moglie del sindaco e di qualche altra famiglia benestante. Passarono altri mesi e la casetta faceva bella mostra di sé con un bel ponticello in muratura e le tendine alle finestre dagli infissi riverniciati. Comare Assunta girava vestita decentemente e perfino Dionigi aveva comprato un vestito ed un bastone nuovo.
Una sera di dicembre, la buona donna aveva conservato il solito piatto di minestra ed aspettava che tutti dormissero, per riporlo segretamente al solito posto. Il vento soffiava tra le case e le tegole si muovevano sul tetto. Dionigi russava nel suo letto e Mena ribatteva l'ultima cucitura, alle luce debole della lampada a petrolio. Uno sbadiglio e la giovane lasciò tutto per mettersi á letto. Fu allora che Assunta prese il piatto di minestra e si avvio verso la scala.
Un tuono assordante fece tremare i vetri della finestre e Dionigi apri gli occhi proprio nel momento in cui la moglie si accingeva á salire i primi gradini della scala, che portava in soffitta.
- Dove vai con quel piatto? - le chiese con curiosità e fermezza.
-Ma io.., veramente..- balbettò la donna, che non voleva assolutamente svelare il segreto, per non perdere i benefici che il suo ospite le elargiva.
- Porta 'o mangià o' munaciello!- intervenne Mena per trarre d'impaccio la madre, la quale continuò, suo malgrado, a salire, riponendo, oltre la botola della soffitta, il piatto pieno. L'interrogatorio durò tutta la notte, o quasi: l'uomo doveva essere sicuro della fedeltà della moglie e si acquietò soltanto quando, tradendo il segreto, gli fu svelata ogni cosa.
Al mattino, Assunta si recò sulla soffitta per raccogliere l'offerta del munaciello; il marito attendeva ai piedi della scala, aspettando che la moglie gli mostrasse il piatto con i soldi, ma le cose andarono diversamente. Era un piatto pieno quello che la donna gli mostrava, ma era colmo di escrementi di capra. La poveretta, sgomenta e disperata, corse fuori dello uscio gridando:
Segreto svelato, furtùna ittàta…-(3)
- Zitta, per carità…- le intimava Dionigi, ma la donna sembrava come impazzita e continuava a ripetere:
-Pe' 'nu marìte sciancàte, 'o munacielle m'ha abbandunàte… 'o segrète 'agge svelàte e a furtùna 'agge 'ittàte. Tu marìte disgraziàte a furtùna t'ha iucàte, 'o fuculàre nunn'appìcce, mo' te mànge stu' sasìcce, pure si 'e corne null'avùte, si nu' piéchere curnùte!- (4)
Sono passati molti anni da allora‚ ma molti affermano che‚ nelle notti invernali‚ sentono ancora la voce della donna che rimprovera al marito la sua dannosa gelosia.
(1) " Assunta, sei pazza! Domani come mangeremo?"
(2) - Il munaciello sa quel che deve fare - è un'allusione alla fortuna improvvisa.
(3) "Segreto svelato, fortuna buttata!"
(4) "Per un marito zoppo, il munaciello mi ha abbandonato…ed anche se non gli ho messo
le corna, rimane comunque un cornuto, per quello che ha causato"   

Sogno
Ero stanco e fortemente depresso quando l'inserviente chiuse la porta alle sue spalle.
- Buona notte signore -
- Buonanotte! - risposi piuttosto bruscamente, come a dire: - Sei ancora qua?- Diedi un rapido sguardo alla stanza e mi diressi verso il balcone, piuttosto ampio e quasi spropositato rispetto alle dimensioni dell'ambiente. Un terrazzino, pavimentato con piccole mattonelle rosse, si affacciava sull'ampia piscina dell'hotel, mentre, più lontano si godeva l'ampia distesa del magnifico mare di Porto Cervo, oltre la stradina che portava a San Pantaleo. Il Country Sporting Club dominava dall'alto il porto vecchio e guardava, a sinistra, verso un ampio tratto di costa, caratterizzata da una generosa insenatura, dal mare di un azzurro intenso.
Bussarono alla porta. Mi seccai e non mi mossi. Bussarono ancora e fui costretto ad aprire.
- Sono il tecnico dell'Hotel, le chiedo scusa ma dovrei controllare l'impianto di aria condizionata-
- Se è proprio necessario !- risposi piuttosto alterato.
- Avrebbero dovuto già provvedere, lo so, ma mi sbrigherò subito signore, mi scusi tanto-
Ritornai sul terrazzino e mi accesi una sigaretta, pensando rapidamente a tutti quelli che non potevano provare quel tipo di piacere.
La Sardegna, quella vera, stava al di là dei giardini lussureggianti e delle gigantesche piscine. Quel paradiso artificiale nascondeva antiche e nuove miserie, ulivi contorti e terreni aridi, bruciati dal sole di luglio.
Con questi pensieri mi accomodai sulla sdraio e, mentre un coro di cicale inseguiva il vento tra le rocce ed il mare, senza che me ne accorgessi, mi addormentai, sotto il benefico effetto della calda carezza del sole al tramonto.
Mi svegliai di soprassalto al trillo del citofono, era la direzione che mi chiedeva se desiderassi la cena in camera.
Guardai l'ora: avevo dormito parecchio!
Decisi di fare una doccia, nell'attesa che mi portassero la cena e mi diressi verso il bagno, sperando che tutto fosse a posto.
L'acqua mi massaggiava le spalle e la nuca, procurandomi un piacere sottile ed un leggero brivido lungo la spina dorsale; sembrava che anche i miei pensieri si stessero sciogliendo sotto il potente getto della doccia. Il viaggio sul traghetto era stato snervante, anche se piuttosto veloce per quel tipo di imbarcazione, ma l'arrivo ad Olbia fu addirittura allucinante, per il caos e la disorganizzazione nella gestione degli arrivi e delle partenze. Un mezzo giro della manopola e l'acqua divenne più fredda, portando via tutto il torpore del riposo pomeridiano.
Mi asciugai rapidamente ed uscii sul balcone scalzo e con i capelli ancora umidi. Un accappatoio intorno ai fianchi copriva le mie nudità. Accesi una sigaretta e guardai verso la piscina: le coppie più anziane, in galleria, ascoltavano la musica, mentre altri passeggiavano nell'ampio parco dell'hotel. Una splendida luna lasciava intravedere i contorni frastagliati delle alture, mentre in lontananza si distinguevano nettamente le luci dei lussuosi panfili che si accostavano per ormeggiare.
Bussarono. Era la mia cena: ostriche, bottarga ed una buona bottiglia di vermentino . Erano circa le ventitré quando bevvi l'ultima goccia. Dal salone mi giungevano le note di "L'emozione non ha voce" di Celentano, mentre una coppia di spagnoli stava bisticciando nella stanza accanto. Ebbi voglia di uscire. Scesi rapidamente gli scalini che contornavano la piscina e mi ritrovai nel salone quasi vuoto, ad eccezione di quei pochi che sedevano al bar per le ultime consumazioni. Attraversai la hall pressoché deserta e mi immisi sulla strada che portava al porto vecchio, costeggiando un centro commerciale ed un villaggio. Lì, a sinistra, dopo un'ampia curva, una siepe di oleandri mi separava dalla parte alta del molo. Scesi rapidamente le scale che, attraverso un parcheggio privato mi portavano alla grande piazza; la raggiunsi. Guardai distrattamente le numerose boutiques che esponevano marchi prestigiosi, fermandomi allo sportello elettronico per un piccolo prelievo. Attraversai la piazza e mi fermai, sedendomi sul muretto che guardava il mare: sotto era ancora un brulichio di persone, mentre un odore intenso di pesce fritto saliva dai ristoranti sul molo.
Una trentina di grosse imbarcazioni riposavano dolcemente sul mare tranquillo, che, al largo, diventava d'argento, mentre le bandiere carezzavano le aste per l'assenza del vento, ma l'aria era fresca e leggera. Mi alzai e mi diressi verso uno dei due bar, accomodandomi pesantemente. Venne il cameriere. Chiesi un liquore tipico della Sardegna, una sorta di rosolio ai mirtilli, speciale se servito con ghiaccio. Sorseggiai lentamente e mi riconciliai con il mondo intero.
Erano circa le due, quando mi misi a letto e mi addormentai di lì a poco, contemplando quel paesaggio lunare che generosamente mi mostrava il balcone completamente spalancato.
Mi svegliai di soprassalto: rumori piuttosto violenti provenivano dalla stanza accanto. Guardai l'ora: erano le quattro e trenta del mattino.
Ora mi giungevano distintamente suoni concitati e grida soffocate, come se si stesse compiendo un delitto. Ad un tratto, un tonfo, qualcosa si ruppe e una donna gridò:
- Maldito, me muero! -
Mi alzai in fretta, uscii sul pianerottolo e bussai alla porta accanto. Nessuna risposta. Passi frettolosi fecero eco al mio secondo tentativo; poi, la porta si spalancò improvvisamente e ne uscì un uomo sulla trentina, dal viso sconvolto. Arretrai di un passo e lo seguii con lo sguardo, mentre scompariva rapidamente dietro l'angolo del corridoio scarsamente illuminato. Un lungo gemito mi scosse, senza altro indugio entrai. Chiusi la porta alle mie spalle.
Giaceva nuda a destra del letto, le lunghe gambe, piegate, nascondevano i piedi sotto il letto, mentre il lenzuolo, di lato, copriva una gran parte dei glutei. Un grosso livido sul fianco destro, all'altezza dell'ombelico, mostrava chiaramente l'azione devastante di un calcio. Un rivolo di sangue, all'angolo della bocca, evidenziava un marcato ematoma sulla mascella destra, che deturpava vistosamente le belle labbra carnose. Mi avvicinai, respirava a fatica. Presi un piccolo cuscino rosa dal divano e glielo misi con garbo sotto il capo. Entrai in bagno e presi due asciugamani. Li inumidii e delicatamente cercai di curarle le tumefazioni. Cominciai a parlarle con calma, con la speranza che mi comprendesse, per rassicurarla. Il respiro divenne più regolare. La coprii con il lenzuolo del letto, asciugandole le lacrime che le bagnavano il bel viso. Lentamente girò lo sguardo verso di me e mi fissò con i grandi occhi verdi: era stupenda.
Mi guardò e sorrise. Fu allora che mi ricordai che ero in mutande.
Ritornai dopo una diecina di minuti, avevo indossato in fretta un paio di pantaloncini ed una camicia a righe verdi. La donna andava riprendendosi rapidamente. Cercò di mettersi a sedere, ma si arrese subito, toccandosi con la mano il fianco destro. La presi con dolcezza e l'adagiai sul letto; tremava. Ritornai in camera, avevo delle aspirine in valigia, le presi. Aprii il frigo, presi del ghiaccio e ritornai da lei: aveva la fronte sudata. Misi il ghiaccio in un asciugamano e lo adagiai sul fianco dolorante, le feci capire che doveva mantenere l'impacco sulla parte. Feci sciogliere l'aspirina e le feci bere tutto il contenuto del bicchiere.
Finalmente, si addormentò. Chiusi la porta e rimasi a guardarla. Sicuramente l'uomo non sarebbe più ritornato, ma la cosa non mi preoccupava affatto, ero arrabbiato: come si poteva fare del male ad una creatura così bella? Erano circa le dieci del mattino quando uscii dalla stanza; la donna dormiva tranquillamente ed i suoi lineamenti erano distesi.
Mi feci rapidamente la barba, cambiai camicia e mi diressi al bar per un buon caffè. Solamente quando mi accinsi a rientrare nella sua stanza mi accorsi di essere ritornato indietro: nella penombra, il suo viso aveva qualcosa di irreale; il corpo, nell'abbandono del sonno, era stupendo. Si mosse leggermente ed un seno venne fuori con la grazia di un fiore, profumato di una sensualità quasi primordiale. Rinchiusi la porta e mi diressi nella mia stanza: il respiro era rapido come i battiti del mio cuore. Presi il citofono ed ordinai il pranzo per due, raccomandando di preparare il tavolo sulla mia terrazza.
Ritornai da lei ed attesi pazientemente che si svegliasse. Aprì gli occhi come se avesse avvertito la mia presenza; mi guardò come se allora mi vedesse per la prima volta e mi sorrise. Due grosse lacrime rigarono il suo volto, capii la sua infelicità. - Mi lasci un po' da sola, por favor - mi dileguai con rispettosa sollecitudine.
Nella mia stanza tutto era in ordine: avevano rifatto il letto ed avevano preparato per due, sul terrazzino del mio balcone. Avevo bisogno di una buona doccia. Il getto mi prese in pieno viso e, per un momento mi mancò l'aria; spinsi la testa all'indietro e l'acqua mi rinfrescò il petto. Mi girai lentamente e la scorsi: Era lì che mi guardava col sorriso più bello del mondo. Si tolse la vestaglia e quasi venni meno, tanto era bella: le lunghe gambe sostenevano un corpo perfetto, lunghi capelli neri corvini evidenziavano le spalle ben disegnate ed i glutei alti e sodi; il seno armonioso, appena coperto da due grosse ciocche nere, era la proiezione sensibile della dolcezza; mentre la bocca, senza parlare, parlava d'amore. Tesi la mano verso di lei, si buttò tra le mie braccia, tutta tremante.
Dimenticai il mondo e ringraziai Dio per avermi dato la vita!
Ad un tratto, dopo di aver sofferto lungamente, ci sembrò morire. Felici ed appagati, rimanemmo abbracciati sotto l'acqua per molto tempo ancora, poi, la presi tra le braccia e la portai sul letto ed iniziai ad asciugarla con tenerezza, come si avessi avuto paura di portarle via il suo profumo di donna. Era lì, reale, viva e non mi sembrava vero. Lentamente percorsi tutto il suo corpo, ma, quando raggiunsi il suo ventre rugiadoso, allora desiderai ancora morire con lei e fummo una cosa sola.
Il sole era appena tramontato quando iniziammo a pranzare; un venticello fresco ci portava il profumo del mare ed i suoi capelli neri giocavano con gli occhi, le belle labbra carnose ed i seni dai capezzoli turgidi. Una leggera fossetta, all'angolo sinistro della bocca, le impreziosiva il sorriso, aumentando il fascino della voce leggermente graffiante e sensuale. Brindammo all'amore e divenne improvvisamente seria, non aveva compreso che sarei stato suo per tutta la vita. Mi fissò intensamente, carezzandomi col piede l'interno delle cosce, poi, con dolcezza infinita:

Sto impazzendo d'amore - mi sussurrò, accendendo il verde dei suoi occhi splendidi.
Ci addormentammo esausti verso le due del mattino, mentre la luna disegnava un lungo triangolo a strisce, proiettando nella stanza le canne antisole del terrazzo. In lontananza, il canto di un pescatore dava colore ai nostri sogni; allora, chiusi gli occhi e mi lasciai cullare dal morbido abbraccio del suo seno.
La vecchia sveglia suonò impietosa e sobbalzai. Un rantolo prese il posto di una imprecazione. Cercai di farla smettere, non vi riuscii: cadde dal comodino e sentii il vetro andare in mille pezzi, con le immagini del mio bellissimo sogno. Tossii violentemente, ma non riuscii a liberare i bronchi otturati. Il panico mi spinse ad alzarmi: ansimavo. Afferrai il bracciolo della sedia a rotelle, per avvicinarla al letto, ma mi scappò. Mi sporsi, in uno sforzo supremo, e caddi miseramente sul pavimento. Il pappagallo si rovesciò ed un mare di urina mi inumidì la spalla ed i fianchi: desiderai morire: non vi era qualità nella mia squallida solitudine di handicappato.
Una mano mi strinse la gola ed i polmoni malati smisero di funzionare; invocai Dio e chiamai mia madre, il suo fantasma si chinò su di me e con lei scomparvi nella luce.    

Scrivere per non morire
Il pendolo, nel salone, batteva l'ultimo rintocco della mezzanotte, quando mi alzai dal letto con la fronte imperlata di sudore ed una sete tremenda. Mi mossi adagio per il lungo corridoio, raggiunsi la cucina. Barcollai, sfiorai il muro e la litografia di Puccini oscillò lievemente. Presi la bottiglia dal frigo e bevvi avidamente acqua gassata. Le bollicine mi solleticarono la gola e ruttai rumorosamente.
Un ronzio insopportabile sembrava nascere dal centro del cervello ed i suoni mi giungevano ovattati, per i densi muchi catarrali, che mi affiggevano da tempo. Respiravo a fatica, con lo stomaco gonfio, che nemmeno l'acqua riusciva più a digerire, mentre un prurito tremendo mi costringeva a grattare violentemente la testa, piena di croste rosse e squamose. Lentamente, mi portai nello studio, dove mi accomodai davanti al computer già acceso. La sedia scricchiolò, quando il fondo schiena occupò il verde cuscino di morbida lana e gli occhi, per un brevissimo istante mi si chiusero, prima di divenire lucidi e vivi, come quelli di un bambino irrequieto, che si apprestava ad iniziare un nuovo gioco.
Le dita rapidamente si mossero sulla tastiera e trasformarono ciò che restava di un uomo, in qualcosa di strabiliante, un formidabile interprete dei suoi sogni, capace di vivere tutte le fantasie che riusciva a scrivere e memorizzare sul word di quel magico pc. Mi fermai un istante, tossii penosamente liberandomi la gola, poi, ripresi celermente il viaggio, senza consentire altri indugi.
La spiaggia era splendida, baciata dal sole del primo mattino. Lei era lì, come una calda venere di bronzo, incredibilmente vera, col suo sorriso morbido ed accattivante, col corpo mozzafiato ed intrigante; era lì, bella e disponibile, che mi tendeva le braccia. Il mio sogno si stava concretizzando.
Respirai a pieni polmoni e mi sentii forte, giovane e fortunato, mentre il suo seno s'avvicinava danzando, sul corpo scolpito. Ecco, le sue braccia mi cingevano il collo, mentre le labbra morbide e salate carezzavano le mie, in un bacio lungo, tenero ed appassionato, che continuò sulla sabbia, in una girandola interminabile d'amore.
Un dolore lancinante al petto mi costrinse ad uscire dal sogno e rividi le mani rugose sulla tastiera. Tossii violentemente e respiravo a fatica. Presi la bottiglia che avevo sistemato tra il tavolo ed il fax e bevvi abbondantemente, bagnandomi la ma-glietta di lana. Mi sentivo meglio. Ripresi a scrivere e, nel medesimo istante, decisi che non sarei più tornato indietro. Le dita volavano sui tasti di plastica grigia e lentamente rientrai nel mio sogno. Lei era lì ad attendermi e sorridendo mi prese la mano:
- Sono io il tuo sogno Dimitriu Nicolaos - mi disse con dolcezza.
Le dita continuarono a battere con regolarità, mentre il corpo, lentamente si stava smaterializzando, per materializzarsi in un'altra dimensione.
Intanto, la spiaggia, al tramonto, si colorava di rosso; il mio corpo abbronzato profumava di mare e la donna, al mio fianco, mi stringeva il braccio, come per impedirmi di scappare via. Mi giunsero echi di voci lontane, con il ritmo incessante dei tasti, ma non vi prestai molta attenzione. Un colpo di tosse cercò di prendermi, ma lei, il mio sogno, strinse il braccio più forte e rimasi sulla spiaggia, che le prime ombre della sera rendevano suggestiva e misteriosa .
Rimanevano solo le mani sulla tastiera, pensai di avere la situazione in pugno. La luna era alta nel cielo e l'acqua una tavola luccicante. Ci immergemmo ed iniziammo a baciarci con passione. Il seno era sodo ed alto, come se volesse baciare la luna e mi solleticava con i capezzoli, che giocavano con i peli del mio torace. Mi succhiò dolcemente il lobo, mordendomelo, alla fine, senza farmi male.
Era solo la mia volontà che continuava a scrivere sul Word processor . I tasti si muovevano da soli, avevo sconfitto la mia sorte. Intanto, non mi giungeva più alcuna voce, ero salvo ed il mio sogno era stato scritto per intero. La presi tra le braccia e la distesi sulla sabbia ancora calda. Entrai in lei dolcemente, mentre si aprirono le porte del paradiso e vidi l'empireo, mentre una musica angelica mi sconvolse l'animo. Piansi di piacere, mentre la gioia si aprì, inondandomi della sua essenza più sublime.
Mi giunse un vocio indistinto. Qualcuno gridò che ero scomparso. Sorrisi tra me e me, per essere uscito di scena in quel modo. Mi cercarono a lungo, guardando giù nella strada, nel caso fossi volato dal decimo piano, ma, in quelle ore di primo mattino, la città si svegliava lentamente e tutto era tranquillo ed uguale a mille altri giorni passati. Passarono alle mie carte, nel disperato tentativo di una traccia scritta, che dipanasse l'arcano. Verso le nove e trenta, Elsa, una stupida cameriera filippina, notò il computer acceso e lo spense. Fu come se non fossi mai nato, il nulla mi inghiottì per sempre. Non lo avevo salvato, il mio sogno.    

Radici
Cercavo disperatamente di dormire, ma non riuscivo a tenere la testa sul cuscino, forse per il lieve russare di mio figlio o per i movimenti bruschi di mia moglie che si agitava nel sonno. Un cane abbaiò nella notte e guardai l'ora: erano le due del mattino. Mi alzai dal letto come un automa ed attraversai stancamente la biblioteca. Il televisore era acceso e mia figlia dormiva abbracciata al cuscino rosa; non mi andava di svegliarla.
Come al solito, le vecchie mattonelle, presso la soglia, si mossero, causando un rumore sordo. Presi le sigarette sullo scrittoio e mi diressi verso il balcone‚ l'aprii. L'aria fresca della notte mi fece rabbrividire: sembrava autunno inoltrato, eppure eravamo al venticinque giugno.
Aspirai avidamente una boccata di fumo, fissando l'asfalto della strada sottostante, quella strada che mi aveva visto bambino, tutta lastricata di basalto, riscaldata dal sole della mia fanciullezza e percorsa dai pesanti carretti, che portavano famiglie intere di contadini in campagna. Avevo le lacrime agli occhi. Rientrai e cercai di dormire.
Un suono di campane accolse il mio risveglio: era domenica mattina e la casa era satura di sole. Sempre piena di gente era la mia casa, al centro di un piccolo universo creato da mio padre, un uomo dinamico, disponibile ed incredibilmente onesto. Nessuno pagava mai niente per i suoi piccoli servigi, ma a Natale ed a Pasqua avevamo tanta verdura che non sapevamo come smaltirla.
Era buona la gente del mio paese, semplice e modesta e sana. Quando mio padre era affacciato al balcone, tutti coloro che passavano gli davano cenni di saluto, per una sorta di rispetto. Volevo bene a quell'uomo burbero, che per moglie e figli aveva un amore incredibile. E pensare che volevano farne un prete e quasi ci riuscivano se non avesse dovuto osservare il voto di castità.
Certo, dovevano essere anni proprio difficili, con il lutto nelle case ed i paesi mortificati dalle macerie e dalla miseria. Si soffriva un disagio profondo, mentre una sorta di impotente rassegnazione spingeva la gente ad una vita assurda, dove il lavoro era l'unica ricchezza, che ti permetteva di sopravvivere. La vita era fatta di lunghe giornate nei campi, dove i contadini lavoravano dall'alba al tramonto e l'unico riposo veniva preso a settembre, alla festa della Madonna Addolorata.
Allo spuntare dell'alba, li vedevi tutti lì, in piazza, con mutandoni e maglie vecchie, ad attendere dal caporale l'incarico della giornata. Sereni, con la barba in viso e la zappa sulla spalla, erano pronti a sfidare i raggi del solleone, per poche centinaia di lire ed una porzione di pane biscottato, accompagnato da qualche buon pomodoro maturo.
Di domenica, c'era la partita a carte, presso l'unico bar del paese, dalle pareti annerite e dagli scaffali semivuoti, dove faceva bella mostra di sé qualche sparuta bottiglia di "caffè sport" o di anisetta. Il suono delle campane era l'unico segno di festa. Esse diffondevano la loro voce grave, dal vecchio campanile della chiesetta medievale di S. Maria delle Grazie. (1)
Monsignore, don Cesare Quadrino, recitava la messa in latino e tutte le vecchiette lo seguivano esprimendosi in una strana lingua, frammista a forme arcaiche di dialetto campano.Quanti piedi nudi sul basalto‚ che lastricava la strada principale del paese. Luigi " ò scullino" aveva una cura particolare nel pulire quei grossi lastroni che, d'estate‚ si facevano di fuoco: si alzava all'alba e scopava meti-colosamente ogni foglia, ogni più piccola cosa, che riponeva sul carrettino, spinto a braccia.
I bambini, quelli si che erano in festa! Si rincorrevano dai cortili alla strada, facendo i giochi più antichi del mondo: la settimana, a nascondino, lo strùmmolo e tutto ciò che la loro creatività riusciva ad inventare. (2) .Di sera, quando a malapena si distingueva il contorno delle case, tornavano i carretti dalle campagne, con le loro ruote cerchiate ed i muli stanchi per il faticoso lavoro dello " 'ngégno". (3)
Dietro ogni carretto vi era un lume a petrolio acceso e, quasi sempre, seguiva un cane che, abbaiando, segnava l'andatura del mulo. Erano serate particolari, con la spossatezza che univa le famiglie intorno alla tavola e l'odore di minestra o di pasta e fagioli, che, per la colazione del mattino, avrebbero cambiato sapore. (4) Le ore trascorrevano lente e venivano "sgraziatamente" annunciate dal martelletto dell'orologio della piccola piazza, l'unica, dove i cani abbaiavano e si annusavano prima di rincorrere qualche gatto grigio, per le stradine buie del paese.
A quel tempo, trascorrevamo le ore intorno al braciere, attendendo che si indorassero le sottili fette di pancetta, che avremmo mangiato nel pane caldo.
Altre volte, quando mamma ne aveva il tempo‚ ci friggeva delle gustosissime zeppole, che consumavamo per cena, ben zuccherate ed insaporite con cannella.
era una famiglia di tipo patriarcale la mia, che si riuniva‚ in tutte le occasioni più importanti‚ nella casa del nonno, un omone completamente calvo, onesto e sincero, come il vino che bevevo con disinvoltura.
Don Ciccio, così lo chiamavano, sorrideva sempre, con i grossi baffi che puntavano in alto e la mania di esprimersi con i proverbi: tira più un pelo di donna che cento paia di buoi ed ancora, la botte si risparmia quando è piena, buttati lì nel mezzo di ogni discorso, coniugato in una stana lingua, una sorta di dialetto americanizzato, a causa di una lunga permanenza in America. Il Natale era indescrivibile: si accendevano i forni per gli arrosti e le lasagne, mia madre preparava i dolci, mia zia l'agnello ed il tacchino, zia Mariella, monaca di casa, offriva‚ per l'occasione‚ il vino fragola. Era una gioia collettiva, che faceva impazzire tutti noi bambini. La tavolata era superba: diciannove persone che mangiavano scherzando, ridendo e divertendosi a fare piccoli dispettucci: l'acqua nel bicchiere del nonno, "le coccole" lanciate a noi bambini, come segnale di una libertà senza condizioni, lo spago nella zeppola di zia Mariella e altro, un tesoro perduto negli anni, che dava un senso alla nostra vita "paesana".
La morte della nonna non cambiò di molto le cose: la famiglia rimase unita ed io continuai a compiere le mie gesta in giardino, con i miei cugini ed i miei fratelli.
Eravamo alla fine degli anni cinquanta e si respirava ancora un'aria di semplicità, nelle campagne assolate dell'agro. I miei zii, tornati da poco dalla prigionia, parlavano talvolta della guerra e mio padre di Mussolini. La radio trasmetteva ancora canzoni degli anni quaranta e quelle voci sottili, quasi bianche, esercitavano un certo fascino sulla mia personalità di fanciullo delle scuole elementari. Non è che prestassi poi tanta attenzione ai discorsi dei grandi, ma piccoli elementi e brevi racconti mi permettevano di ricostruire, a modo mio, tutta una realtà fino ad allora sconosciuta.
La credenza del nonno, sui ripiani più alti, custodiva un tesoro che eccitava enormemente la mia fantasia di bambino. Un giorno riuscii a mettervi le mani e mi riempii le tasche del giubbotto: erano proiettili assortiti, da quelli più piccoli di pistola, a quelli di fucile e Dio sa cos'altro. Per mia disavventura, e non solo mia, mi bagnai il giubbotto‚ per un canale di acqua piovana alquanto dissestato. Mia zia Mariella, con amorevole sollecitudine, cercò di asciugarmi l'indumento sul braciere e, nel girarlo‚ in modo che l'umido venisse a contatto con il caldo della brace‚ un numero imprecisato di proiettili finirono nel fuoco. Le urla che seguirono al primo scoppio non fermarono mia zia Mariella‚ che‚ con perfetto tempismo‚ lanciò fuori il braciere, che si spense sotto l'abbondante pioggia di quel giorno. Qualche mese più tardi, l'episodio perse tutte le caratteristiche di un dramma e tutti risero dei mutandoni bruciacchiati di mia zia e della sua accorata invocazione:- Vade retro satana!-
Mi sentivo importante con il mio primo vestito nuovo, il giorno della mia prima comunione. Sul muretto antistante alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, feci la mia brava fotografia ricordo ed il tutto fu solennizzato da un buon pranzetto di mia madre.
A quel tempo non avevo molto appetito, ma la carne la mangiai, sia per il profumo dell'arrosto che era invitante, sia perché la mangiavamo soltanto di domenica.
Gli anni dopo le medie videro una totale trasformazione della mia casa che perse il suo bel balconcino ottocentesco e quell'armonia tipica delle case di fine ottocento. La lavatrice fece scomparire certi odori di liscivia, che caratterizzavano i cortili del mio paese, dove le donne stendevano il bucato, bianco, come neve al sole. Benedette donne, che odoravano di casa, nel silenzio della loro miracolosa rassegna-zione.
Con i miei cugini torinesi ci vedevamo ogni anno. Venivano d'estate a villeggiare e mio padre organizzava allegre gite nella nostra stupenda costiera.
Era una sorta di rituale che si ripeteva ogni anno, d'estate. Era allora che si mobilitavamo tutti i parenti, per offrire la migliore delle ospitalità: dormivano da mio zio Vincenzo, pranzavano da noi, cenavano a turno dai Trione e dai De Colibus.
Allora, ero fidanzato con Anna, una tenera ragazzina che abitava ai Carresi, di poco più piccola di me, ma sapeva incantarmi come la più esperta delle sirene. Bionda, alta e sottile come un tenero alberello di pesco, aveva due labbra calde e rosse come due ciliege di fine giugno. Dolce e disponibile, Anna montava sulla mia motocicletta e raggiungevamo in fretta la parte alta di Sarno, dove mi donava tutte quelle dolcezze, che la gioia di vivere e l'età ci permettevano di cogliere a piene mani.
Una cinquecento blu, di terza mano, stravolse la mia vita, alle soglie degli anni settanta. Si viveva discretamente, allora, aggrappandosi ai sogni di un'epoca che prometteva cose spettacolari.
Riuscivo a recuperare i soldi della benzina con qualche lezione privata ai ragazzini delle scuole medie e, nei periodi di magra, ricorrendo a mia zia Mariella. Bastavano cinquecento lire per raggiungere la periferia di Salerno, dove mi attendeva Ines, una mia compagna di università. Contro ogni mia volontà, mi innamorai pazzamente di lei, tanto che la presentai ai miei e ci fidanzammo ufficialmente.
Fu in quel tempo che la mia famiglia si trasferì a Salerno, dove mio padre aveva comprato un bell'appartamento alla Via Sorgenti, una zona splendida, con la montagna di Croce alle spalle ed il mare davanti, in quel lungo tratto che forma il golfo e si va ad infrangere sulla marina di Vietri. Al mattino, i gabbiani salivano su con la brezza del mare ed al tramonto e le rondini salutavano il sole morente, con voli sempre più rapidi, tra i palazzi del rione. Salerno‚ a quel tempo‚ era una tranquilla cittadina di provincia: calda e pulita.
La mia partenza per il servizio militare offrì una parentesi di riflessione alla mia storia d'amore, che si sarebbe concluse definitivamente di li a qualche mese.
Una fastidiosa bronchite asmatica‚ mal curata, abbreviò il mio ultimo periodo di
naia. Ritornai in caserma solo per ritirare un premio letterario‚che mi fu assegnato per una raccolta di poesie. Durante una manifestazione davvero imponente, con tutte le dodici compagnie della mia caserma schierate, fu un generale con le stellette rosse
a consegnarmi il diploma con medaglia, ma ciò che mi commosse maggiormente fu la presenza di mio pare in tribuna. Fu allora che partecipai, per volontà di mio padre, al concorso magistrale che vinsi, con mia grande sorpresa‚ senza avere alcuna preparazione pedagogica, avendo frequentato il liceo classico. A Serre‚ iniziai a fare il maestro elementare, nell' aprile dei 71, e fu lì che conobbi colei che sarebbe diventata la mia prima moglie. Iniziai a viaggiare con lei e, di li ad un mese, facevamo pure all'amore.
Ci sposammo un pomeriggio di giugno, a fine anno scolastico, e fuggimmo per il viaggio di nozze, disertando il banchetto nuziale. A Pienza, comprammo le bomboniere, che avremmo poi distribuito ad amici e parenti. Tutto sembrava procedere nel migliore dei modi, quando fui costretto a rientrare a Salerno per la improvvisa malattia di mia madre. Nello spazio di qualche anno il nostro rapporto degenerò a tal punto che il divorzio sembrò l'unica soluzione.
Fu così che, nell'estate del 1983 mi ritrovai da solo in quello stesso piccolo paese di provincia dove ero nato‚ con l'ingrato compito di ridisegnare la mia esistenza. Fu Angela che, qualche anno dopo, mi strappò alla mia vita di single, divenendo la mia nuova compagna.
In questa nuova condizione, cercai di ripristinare quei rapporti affettivi che avevano riempito il mio universo di fanciullo; incominciai così a frequentare zii, cugini, amici d'infanzia ed ex compagni di scuola, in un contesto fatto di piccoli impegni sociali . Fu durante uno di questi pranzi che accadde qualcosa che non avrei mai più dimenticato.
La sala da pranzo rintronava di voci generose, che, nel giardino attiguo giungevano come un fastidioso e caotico frastuono. Il forte accento sarnese(5) di Alfredo, il marito di mia cugina indispettiva mio zio, che si chiamava allo stesso modo. Mia moglie Angela sembrava perfettamente a suo agio, in quella miscellanea di dialetti e discorsi ad alta voce. Annamaria‚ mia cugina‚ lanciava significative occhiate al marito, che aveva tutto l'aspetto di chi preferiva all'acqua un buon boccale di vino, mentre mia zia gradiva con soddisfazione tutto quel ben di dio che avevano preparato in grande abbondanza. Eravamo oramai al dolce, quando mi venne l'idea di sublimare quella celebrazione con un tocco finale: burlarci della supersti-zione dei parenti limitrofi, con un falso rito satanico.
- Perché non prepariamo‚ una " fattura" per i nostri amati parenti? -
Ma che bella idea! - disse subito mia cugina Dora;
Mia Zia‚ che era una sempliciona‚ incominciò già a ridere ‚ al solo immaginare le reazioni‚ che avrebbero avuto le quattro sorelle Vistola‚ al nostro macabro scherzo.
Mio zio non sembrava troppo convinto della cosa‚ anche perché aveva un una sorta di rifiuto per ogni forma di superstizione e non era il solo‚ ma per non guastare il movimento che si era venuto a creare intorno alla cosa‚ acconsentì. Si misero tutti
in movimento. Mia zia prese un pezzo di stoffa‚ Annamaria procurò degli spilli e Do-ra‚ l'ultima delle mie cugine‚ un nastro nero. Da parte mia feci lavorare la fantasia e venne fuori una sorta di bambola rudimentale‚ alla quale disegnai occhi e bocca. Gli spilli li infilai un po' dovunque. Per rendere più verosimile la " fattura"‚ sull'orlo della veste disegnai le iniziali del "fatturati" ed iniziai con una bella "M"‚ iniziale di Maria‚ che‚ tra l'altro‚ era anche il nome di mia zia. Alfredo‚ il marito di Dora‚ si incaricò di lanciare nel giardino dei nostri superstiziosi parenti la scherzosa "fattura". Continuammo il pranzo‚ mangiando il dolce‚ prendemmo del buon caffè e ci ripro-mettemmo di ripetere quell'incontro mangereccio di li a qualche mese.
Due sere dopo‚ il marito di mia cugina mi comunicava ridendo di aver effettivamente lanciato la bambolina di pezza nel giardino dei parenti‚ ma che non aveva notato nessuna reazione.
- Avranno capito che era un nostro scherzo - risposi tranquillamente.
Passò tutta la settimana e decisi di trascorrere quella domenica in città‚ presso i miei parenti di Salerno e così feci. In serata‚ ci mettemmo in macchina e facemmo ritorno al paese. Dalla piazza premei il telecomando‚ così potei entrare facilmente in garage‚ senza problemi di traffico. Avevo appena spento il motore‚ quando vidi mia cugina Dora che correva verso di me piangendo:
-Franco, corri, mia mamma sta male! -
-Chiudi tu il garage - dissi ad Angela
Corremmo al capezzale di mia zia.
- Zia, zia Maria! - la chiamai scotendola: era in precoma.
Chiamammo la guardia medica e ci confermarono la gravità del malore. Attivammo rapidamente il trasporto al pronto soccorso, dove i medici diagnosticarono emorragia cerebrale. Per tutta la notte, mia zia lottò contro la morte ed al mattino sembrò che ce l'avesse fatta, tanto che scherzò con mio zio dicendo:
- Potevo morire! Non ti avevo nemmeno salutato! - Si baciarono. La giornata era splendida ed il sole alimentava l'ottimismo. Portai a casa mio zio, con la certezza che tutto era ormai superato.
La notte successiva‚ purtroppo‚ chiuse definitivamente l'esistenza di mia zia, tanto che, al mattino, entrò nel portone di casa il suo cadavere. Mio zio era su e sapeva che di li a poco sarebbe arrivata sua moglie, l'attendeva, come lei aveva atteso lui per tutta la vita.
Il suo corpo era in mezzo al giardino, sopra una vecchia sedia di legno. La testa, reclinata all'indietro‚ mostrava i grandi occhi chiusi e la bocca aperta, mentre le braccia pendevano lungo il corpo che già incominciava ad irrigidirsi. Indossava il medesimo vestito della domenica precedente, quello che l'aveva vista allegra e di buon appetito. Mio zio‚ dalle scale‚ chiamava:
- Marì! - e la voce era tra la preghiera ed il pianto.
Noi stavamo cercando di organizzarci per trasportala su‚ attraverso la rampa di scale‚ piuttosto appesa. Era un donnone mia zia, alta e ben messa ed ora costituiva un grosso problema.
-Marì- implorava mio zio - Femmena mia! - e la sua voce si amplificava nella tromba delle scale‚ assumendo toni drammatici. La prendemmo. Io presi il lato posteriore della sedia e Franco‚ il marito di mia cugina Annamaria‚ quello anteriore. Ci avviammo, attraversammo il giardino ed arrivammo alle scale. Iniziammo a salire. Il macabro corteo procedeva lentamente, mente il cadavere muoveva braccia e testa.
La mia spina dorsale fece uno strano rumore, ma non potevo fermarmi: lacrime e dolore mi accompagnarono fino alla sommità. Mio zio, sul ballatoio, sembrava impazzire‚ come in un incubo ad occhi aperti:
Femmena mia -
- E' morta Maria mia?- mi chiese, non risposi e continuai, mentre il povero vecchio inconsapevolmente stava compiendo una danza macabra. Pensai al peggio.
-A femmena mia- ripeteva continuamente, finché non adagiammo sul pavimento del ballatoio la sedia con mia zia morta.
A questo punto, mio zio si inginocchiò e mise la sua testa in grembo alla moglie, le abbracciò le gambe e pianse senza lacrime, come un bambino impazzito. In quel momento capì di essere rimasto solo, ci guardò, guardò la moglie e chiuse con il mondo e la vita
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1) Costruita dai principi Capece Minutolo, duchi di S. Valentino Torio,
2) La settimana consisteva nel saltare con un piede solo tra sette riquadri disegnati a terra. Lo strummolo, invece, era un pezzo di legno conico appuntito, che veniva fatto girare con uno spago.
3) Lo 'ngègno era un pozzo artesiano, dove, attraverso un congegno a nastro di catòse (termine dialettale di origine greca, che significa : che prende acqua dal fondo); esso serviva ad attingere acqua che, versata in una grande vasca di raccolta, serviva ad irrigare i campi. Il mulo o l'asino avevano il compito di far girare il congegno camminando a ruota intorno al pozzo.
4) Le contadine, quando avanzava la pasta e fagioli, la conservavano per il mattino successivo. La riscaldavano, insaporendola con peperoncino, e la servivano al mattino a colazione.
5)Sarnese, della città di Sarno, a due km da S. Valentino ed a quattro km da Nocera Inf., nell'agro nocerino-sarnese, in provincia di Salerno.


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