LA POESIA PER I POETI |
Congedo Il poeta, o vulgo sciocco, Un pitocco non è già, che a l'altrui mensa Via con lazzi turpi e matti Porta i piatti Ed il pan ruba in dispensa. E né meno è un perdigiorno Che va intorno Dando il capo ne' cantoni, E co 'l naso sempre a l'aria Gli occhi svaria Dietro gli angeli e i rondoni. E né meno è un giardiniero Che il sentiero De la vita co 'l letame Utilizza, e cavolfiori Pe' signori E viole ha per le dame. Il poeta è un grande artiere, Che al mestiere Fece i muscoli d'acciaio: Capo ha fier, collo robusto, Nudo il busto, Duro il braccio, e l'occhio gaio. Non a pena l'augel pia E giulía Ride l'alba a la collina, Ei co 'l mantice ridesta Fiamma e festa E lavor ne la fucina; E la fiamma guizza e brilla E sfavilla E rosseggia balda audace, E poi sibila e poi rugge E poi fugge Scoppiettando da la brace. Che sia ciò, non lo so io; Lo sa Dio Che sorride al grande artiero. Ne le fiamme cosí ardenti Gli elementi De l'amore e del pensiero Egli gitta, e le memorie E le glorie De' suoi padri e di sua gente. Il passato e l'avvenire A fluire Va nel masso incandescente. Ei l'afferra, e poi del maglio Co 'l travaglio Ei lo doma su l'incude. Picchia e canta. Il sole ascende, E risplende Su la fronte e l'opra rude. Picchia. E per la libertade Ecco spade, Ecco scudi di fortezza: Ecco serti di vittoria Per la gloria, E diademi a la bellezza. Picchia. Ed ecco istorïati A i penati Tabernacoli ed al rito: Ecco tripodi ed altari, Ecco rari Fregi e vasi pe 'l convito. Per sé il pover manuale Fa uno strale D'oro, e il lancia contro 'l sole: Guarda come in alto ascenda E risplenda, Guarda e gode, e più non vuole. (Giosuè Carducci) |
| La poesia I Io sono una lampada ch'arda soave! la lampada, forse, che guarda, pendendo alla fumida trave, la veglia che fila; e ascolta novelle e ragioni da bocche celate nell'ombra, ai cantoni, là dietro le soffici rócche che albeggiano in fila: ragioni, novelle, e saluti d'amore, all'orecchio, confusi: gli assidui bisbigli perduti nel sibilo assiduo dei fusi; le vecchie parole sentite da presso con palpiti nuovi, tra il sordo rimastico mite dei bovi: II la lampada, forse, che a cena raduna; che sboccia sul bianco, e serena su l'ampia tovaglia sta, luna su prato di neve; e arride al giocondo convito; poi cenna, d'un tratto, ad un piccolo dito, là, nero tuttor della penna che corre e che beve: ma lascia nell'ombra, alla mensa, la madre, nel tempo ch'esplora la figlia più grande che pensa guardando il mio raggio d'aurora: rapita nell'aurea mia fiamma non sente lo sguardo tuo vano; già fugge,è già, povera mamma, lontano! III Se già non la lampada io sia, che oscilla davanti a una dolce Maria, vivendo dell'umile stilla di cento capanne: raccolgo l'uguale tributo d'ulivo da tutta la villa, e il saluto del colle sassoso e del rivo sonante di canne: e incende, il mio raggio, di sera, tra l'ombra di mesta viola, nel ciglio che prega e dispera, la povera lagrima sola; e muore, nei lucidi albori, tremando, il mio pallido raggio, tra cori di vergini e fiori di maggio: IV o quella, velata, che al fianco t'addita la donna più bianca del bianco lenzuolo, che in grembo, assopita, matura il tuo seme; o quella che irraggia una cuna - la barca che, alzando il fanal di fortuna, nel mare dell'essere varca, si dondola, e geme -; o quella che illumina tacita tombe profonde - con visi scarniti di vecchi; tenaci di vergini bionde sorrisi; tua madre!... nell'ombra senz'ore, per te, dal suo triste riposo, congiunge le mani al suo cuore già róso! - V Io sono la lampada ch'arde soave! nell'ore più sole e più tarde, nell'ombra più mesta, più grave, più buona, o fratello! Ch'io penda sul capo a fanciulla che pensa, su madre che prega, su culla che piange, su garrula mensa, su tacito avello; lontano risplende l'ardore mio casto all'errante che trita notturno, piangendo nel cuore, la pallida via della vita: s'arresta; ma vede il mio raggio, che gli arde nell'anima blando: riprende l'oscuro viaggio cantando. (Giovanni Pascoli) |
Le làmine de 'l verso aurëe batto |
Poesia è come a un uomo battuto dal vento, accecato di neve - intorno pinge un inferno polare la città- l'aprirsi, lungo il muro, d'una porta. Entra. Ritrova la bontà non morta, una dolcezza di un caldo angolo. Un nome posa dimenticato, un bacio sopra ilari volti che più non vedeva che oscuri in sogni minacciosi. Torna egli alla strada, anche la strada è un'altra. Il tempo al bello si è rimesso, i ghiacci spezzano mani operose, il celeste rispunta in cielo e nel suo cuore. E pensa che ogni estremo di mali un bene annuncia. (Umberto Saba) |
La poesia I L'angosciante questione se sia a freddo o a caldo l'ispirazione non appartiene alla scienza termica. Il raptus non produce, il vuoto non conduce, non c'è poesia al sorbetto o al girarrosto. Si tratterà piuttosto di parole molto importune che hanno fretta di uscire dal forno o dal surgelante. Il fatto non è importante. Appena fuori si guardano d'attorno e hanno l'aria di dirsi: che sto a farci? II Con orrore la poesia rifiuta le glosse degli scoliasti. Ma non è certo che la troppo muta basti a se stessa o al trovarobe che in lei è inciampato senza sapere di esserne l'autore. (Eugenio Montale) |
La poesia Appena se ne va l'urtima stella e diventa più pallida la luna c'è un Merlo che me becca una per una tutte le rose de la finestrella: s'agguatta fra li rami de la pianta, sgrulla la guazza, s'arinfresca e canta. L'antra matina scesi giù dar letto co' l'idea de vedello da vicino, e er Merlo furbo che capì el latino spalancò l'ale e se n'annò sur tetto. - Scemo! - je dissi - Nun t'acchiappo mica...- E je buttai du' pezzi de mollica. - Nun è - rispose er Merlo - che nun ciabbia fiducia in te, ché invece me ne fido: lo so che nu m'infili in uno spido, lo so che nun me chiudi in una gabbia: ma sei poeta, e la paura mia è che me schiaffi in una poesia. è un pezzo che ce scocci co' li trilli! Per te, l'ucelli, fanno solo questo: chiucchiù, ciccì, pipì... Te pare onesto de facce fa la parte d'imbecilli senza capì nemmanco una parola de quello che ce sorte da la gola? Nove vorte su dieci er cinguettio che te consola e t'arillegra er core nunè pe' gnente er canto de l'amore o l'inno ar sole, o la preghiera a Dio: ma solamente la soddisfazzione d'avè fatto una bona diggestione. (Trilussa) |
Fu questo un poeta - colui che distilla un senso sorprendente da ordinari significati, essenze così immense da specie familiari morte alla nostra porta che stupore ci assale perché non fummo noi a fermarle per primi. Rivelatore d'immagini, è lui, il poeta, a condannarci per contrasto ad una illimitata povertà. Della sua parte ignaro, tanto che il furto non lo turberebbe, è per se stesso un tesoro inviolabile al tempo (Emily Dickinson, trad. Margherita Guidacci) |
La poesia Accadde in quell'età... La poesia venne a cercarmi. Non so da dove sia uscita, da inverno o fiume. Non so come né quando, no, non erano voci, non erano parole né silenzio, ma da una strada mi chiamava, dai rami della notte, bruscamente fra gli altri, fra violente fiamme o ritornando solo, era lì senza volto e mi toccava. Non sapevo che dire, la mia bocca non sapeva nominare, i miei occhi erano ciechi, e qualcosa batteva nel mio cuore, febbre o ali perdute, e mi feci da solo, decifrando quella bruciatura, e scrissi la prima riga incerta, vaga, senza corpo, pura sciocchezza, pura saggezza di chi non sa nulla, e vidi all'improvviso il cielo sgranato e aperto, pianeti, piantagioni palpitanti, ombra ferita, crivellata da frecce, fuoco e fiori, la notte travolgente, l'universo. Ed io, minimo essere, ebbro del grande vuoto costellato, a somiglianza, a immagine del mistero, mi sentii parte pura dell'abisso, ruotai con le stelle, il mio cuore si sparpagliò nel vento. (Pablo Neruda, trad. Roberto Paoli) | |
Il poeta dedicato ad Hilde Schoeck Solo a me, il solitario, luccicano le infinite stelle di notte, mormora la fonte di pietra il suo magico canto, solo a me, a me il solitario, le ombre colorate delle nuvole passeggere, muovono come sogni sopra la campagna. Niente mi è dato: né casa, né campo, né caccia, né bosco, né mestiere, mio è solo ciò che non è di nessuno, mio è il ruscello che precipita dietro il velo del bosco, mio è il mare terrificante, mio il garrire del gioco dei bimbi, lacrime e canzoni di chi ama, solo, nella sera. Miei sono pure i templi degli dei, mio il venerabile giardino del passato. E non meno la volta celeste e luminosa del futuro è la mia patria: spesso nei voli del desiderio la mia anima s'innalza e rimira il futuro d'un'umanità beata, amore che trionfa sulla legge, amore da gente a gente. Tutti io ritrovo nobilmente mutati: contadini e re, mercanti e solerti marinai, pastori e giardinieri e tutti festeggiano grati la festa universale del futuro. Solo il poeta manca, il poeta contemplatore e solitario, portatore ed immagine sbiadita dell'umana nostalgia. Per compiersi né il mondo né il futuro hanno bisogno di lui. Molte corone appassiscono sulla sua tomba, ma la sua memoria è già svanita. (Hermann Hesse, trad. Brunamaria Dal Lago Veneri) |
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Vola alta parola Vola alta, parola, cresci in profondità, tocca nadir e zenith della tua significazione, giacché talvolta lo puoi --sogno che la cosa esclami nel buio della mente-- però non separarti da me, non arrivare, ti prego, a quel celestiale appuntamento da sola, senza il caldo di me o almeno il mio ricordo, sii luce, non disabitata trasparenza... La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza? (Mario Luzi) |