Poesie di Davide Riccio


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Davide Riccio, di origini scozzesi, irpine e normanne, è nato nel 1966 a Torino, dove vive svolgendovi dal 1986 l’attività di educatore professionale in favore di disabili e in ambito psichiatrico presso una comunità alloggio di pronto intervento. E’ inoltre giornalista. Ha collaborato con il quotidiano “Torino Sera” (cultura in genere, recensioni) dal 1999 al 2001 e con “La Val Susa” nel 1998 (pagine musicali). Articolista e divulgatore per la rivista nazionale di turismo, arte, scienze e misteri “Oblò” dal terzo numero ad oggi (fondata nel 2000 con sede a Livorno). Dal 1994 al 2002 ha collaborato fin dal primo numero alla rivista nazionale di letteratura “Vernice” della Genesi Editrice. Collabora inoltre ad alcuni e-magazine. Musicista polistrumentista e cantante autore con diversi dischi e compilazioni a nome proprio e in gruppi. Insieme a De Caro, Pontillo e Avenati, è stato uno dei fondatori del “Gruppo Factory”, gruppo aperto di performance di poesia multimediale. Riccio è fra l’altro autore di una biografia storica (la prima e al momento unica) sull’omonimo Davide Riccio (1533-1566, musicista torinese, segretario personale e amante di Maria Stuarda brutalmente assassinato in un complotto di Stato in Scozia).



Per me solo
Quando sarò anch'io un apolide
Un ospite del mondo

Uno di quelli
Che avrà letto tutti i libri
Ma non tutti avranno letto i suoi

Che avrà parlato tutte le lingue
Viaggiando ovunque sulla Terra

Che si sarà offerto in sacrificio
Come una moderna guerra altruista
Dalle buone ingerenze umanitarie
Senza seconde confessate conquiste

E che non soltanto i figli
Lo avranno ucciso
In cuor loro
Per essere degni e poi migliori

Non resterà che scrivermi il segreto
Per me solo
Sulle pagine dell'ultima foglia
Nel poco tempo che cadrà sul pacciame
Perché li si decomponga
Ai piedi di una improrogabile
Genealogia

Settimane fa
Nel mare del tempo
Non prendo il largo mai

Sempre parto il lunedì
Un diportista non per sollazzo

Mi allontano dalle coste
Mai del tutto fino a mercoledì

Al giro di boa il dietro front
Stanco torno di venerdì

Rimango a terra due giorni
Per un riposo e quindi daccapo

Nel mare del tempo
Non prendo il largo mai

Blues
Il buon odore
di ferro rugginoso
della pioggia che inizia
mi dispone a una composta
tristezza tenera, memore.

Lo scroscio sfrigola
come un vecchio album
nel solco vuoto
tra un brano e un altro
che non comincia mai.

Ulisse
Mi svaga l'ora calma
del passeggio con Ulisse,
il mio cane che grufola

nei colletti dei lampioni
e in ogni altro dove
rigrufola presenze nuove

col suo lungo odore
come l'ulisside neoterico
quale io essere vorrei.

Mi allevia rincasare
sgambando anche se affranto
e sulle vecchie scale

quel già sentirlo guaiolare:
dietro la porta annaspa,
raspa la specchiatura

e non sta più nella pelle
al dindonare a distesa
in do diesis maggiore

quando così gli sciolgo
le campane alla sua voglia
di festa concitata

che mi oltreporta
dritto al cuore.
E addio ad ogni Santippe!

Prendere un treno
Prendere un treno
tra chi va e chi ritorna:
ginocchio contro ginocchio
in qualche vecchia carrozza,
aprirsi un po'.

Guardare di fuori
i pensieri che hai dentro.
La massicciata scorre
come scorre il passato,
ovattarsi un po'.

Conforta la memoria
il tatantatà che culla
e sostiene il fantasma
di una cara infantile
filastrocca.

Di stazione in stazione
sulle guide di acciaio
abbandonarsi finalmente
alla certezza di arrivare.
Dormire un po'.

Cardiaca contrazione
e arteriosa pulsazione
rotolano sul binario
e da ogni tunnel impavidi
rinascere

Notturno
Le stelle sono lanterne cieche
che nascondono Chi le porta
e soltanto più compagnia

mi fanno i nottuidi
e gli altri seccanti ronzoni
istupiditi che mai scaltriti

all'impazzata secchi
tonfano nella lampada.
L'orologio al muro ininterrotti

staccheggia passi gravi.
Languido, rivolgo nella mente
i miei fantasmi a mezzanotte,

e del tempo sento le catene.

Appunti bruciati
Bello è vedere bruciare i fogli
Di un quaderno nel caminetto
Si accartocciano s'increspano
In un grande garofano nero
Con le ultime screziature rosse
Che si spengono

Gli appunti e gli sbagli
Scarabocchi correzioni scempiaggini
E altro tempo perso ancora
Lo scrittore si purifica e gode
Cancella per sempre i percorsi
A volte imbarazzanti

In amore c'è lo stesso fuoco
Alla memoria.
Poi si accartoccia s'increspa
In un grande garofano nero
Con le ultime screziature rosse
Che si spengono

Gli ulivi
Cammino nel mio oliveto

Si contorce il corpo degli olivi
Protesi in ogni spazio
Con rami capaci di ogni angolo

Cambiano
Ripensano si corrugano
Si espandono ritornano
Si avvitano a volte

Combattono gli olivi
Tra diversi infiniti modi
Di essere e di crescere
Di andare o tornare

Più che un simbolo di pace
A me pare dell’inquietudine

Talvolta
Invecchiano le foglie
S’inargentano canute
Alla luce

E le piccole drupe ovali
Dei loro frutti
Già sanno dell’unica pace
Di un’estrema unzione

Souplesse
Sottozero,
sono le dieci e mezzo di sera;
fra poco andrò nel letto,
sotto la trapunta nuova.

Come ogni notte
disteso sul ventre
chiuderò gli occhi
nel nero niente del sonno.

E’ vero quel che si dice:
ho dormito un terzo
di mia vita, almeno,
ed ogni notte -

per tredicimila notti -
mi sono allenato
a un’idea di morte
che a questo somigli.

Eppure, dopo tanto
esercizio appropriato,
ancora non sono sicuro
di essermi abituato

la mente ancorché il corpo
al supremo ultimo sforzo.

A mia madre
Io so perché mi ammalia
il mare. Tu inspiravi,
e i frangenti sulle rocce
sciabordano schiumando.

E poi che l’onda si è
franta, lenta e costante,
e scemando la cresta
respinta si ritira,

pacifica tu espiravi.
E lo sciacquio fievole
e ipnotico, amniotico,

mi riavvolge di nuovo.
E vorrei non finisse
mai, ma senza erosione.
 


Semplicemente in bicicletta
Domenica andremo al parco

La mia verde bicicletta d’antan
La tua inglesina bianca con il cestino
Saranno macchine del tempo
Fino a sentirci primo Novecento

E di questo soltanto saremo contenti
Pedalando
Tu ed io un altro giorno equilibrando
In equinozio di primavera

La tua stanza
L’aria è colma di favolose
irraggiungibili sostanze:
anch’io ti amai
e non lo dissi mai.

Per te sarei passato
anche tra i duri marmi:
svogliatamente ora
non servo più a niente.

Siamo dentro un cristallo
incorporeo stranamente incrisalidati:
anch’io ti volli
e non lo volli mai.

Per te avrei attraversato
anche sabbie mobili
in punta di piedi.
Dov’è ora la tua stanza?

E sempre l’oscuro senso
dei marinai quando annotta
il mare in calma e tutto
resta ancora al suo posto.


Ciò che ugualmente passa
Fatue palle piumose
dei soffioni di tarassaco
ho riscoperto in giardino

Uno ne ho reciso
e come non facevo più
sui pappi ho soffiato lieve

Sono senza soldi abbastanza
per cambiare casa più grande
sposarti, e quindi fare un figlio

Ma, vedi, una volta anch’io
alla disseminazione ho contribuito
di ciò che ugualmente passa

Piurt-a-beul
Mouth Music
Martelletti rullano, tambureggiano.
Ho buon trinciato da rollare a mano
e Scozia per parte di antico sangue,
fierezza non ritrosa al contraccambio.
Guardatemi ora nell’iride verde
di acque stagnanti e pagliuzze di vivido
neuston, le nostalgie a volo d’uccello,
fumo che scrocchia lieve ad ogni nota.
Ho una danza di dita sulla tastiera
e sulla barra spaziatrice, tartan
in festa di chiazze e righe di ampiezza,
quadrettate quartine su ternarie
terzine, ciocche di tabacco fulvo,
chioma della mia compagna roteante.

Poesie zen
Quanti ragni
appesi a un filo
sembrano volare!

Trasmettono sempre:
ho nostalgia di monoscopi
e di effetto neve.

Scale archeggi staccati tremolo e cavata.
Perché alla mia età imparo il violino?
Proprio perché non servirà a niente!

Fuochi d’artificio
e puzza d’insettifugo:
tutto ha un nesso.

Mai un equilibrio,
ma eterno librarsi che mai si arresta.
Oscillano le maschere riappese.

Crepitio di foglie al vento;
chiudo gli occhi ed è fuoco, è pioggia,
è carta, è applauso. Cos’è?

Silenzio dell’albero:
dove sono nel suo profondo
i rami e le radici?

Foglie cadute,
giaciglio antico della terra
o è come se lo fosse.

Al risveglio,
com’è irreale il mondo
dopo aver sognato!

A cosa serve l’erba esplosa da un marciapiede?
Intrecci di nuvole
che guardiamo e dimentichiamo.

Scaglio il giornale sul soffitto:
il moscone è morto stecchito
mentre in cortile miaula l’estro venereo.

Arachidi tostate giganti:
potessi anch’io preferibilmente consumarmi
entro la data sopra indicata!

36 metri quadrati
Ho 36 anni e un minialloggio.
Ingresso tinello e cucinino
una camera con divano letto
un bagno cieco e due balconi,
36 metri quadrati calpestabili in tutto
insopportabili ormai, un metro quadro
per ogni anno di mia vita.

Non è nemmeno detto
che per la stessa misteriosa legge
100 metri quadrati
li avrò almeno a cent’anni.
A cent’anni poi mi basteranno
due metri di lunghezza
per novanta centimetri di larghezza.

Un giorno a Procida

Tu sei delusa dall’isola di Arturo
in questo giorno meno azzurra
della tua bibita preferita
al lampone blu in ergonomica bottiglia

Sulla scura spiaggia Chiaia
non ho pensieri variopinti
da distinguere lontano, ma uno soltanto
intorno all’ossimoro all’apparenza

Posi tra i bianchi corimbi di oleandro
e qualcosa io non sono che vorresti
se non la stessa Terra Murata
in qualche prossima poemessa

A te che piacciono i forti
gli uomini arditi e spregiudicati
da quel duro bagno penale
avrei saputo evadere come in un film?

Pensandoci due tipi snob
mangiamo il pesce alla Coricella
e non c’è cosa più profonda
che io potessi smettere di dire

Le 10 e 10
Non sono le braccia aperte
all’abbraccio delle 10 e 10.
Non è il trionfo
di una “V” di vittoria.

Non sono le belle gambe
divaricate e accoglienti,
le sfere aperte
nell’asimmetria simmetrica

di una positività all’insù
delle 10 e 10
non ci appartengono.

Il mondo è ancora fermo
alle 8 e 16 e 8 secondi
di Hiroshima.

Ulisse
Mi svaga l’ora calma
del passeggio con Ulisse,
il mio cane che grufola

nei colletti dei lampioni
e in ogni altro dove
rigrufola presenze nuove

col suo lungo odore
come l’ulisside neoterico
quale io essere vorrei.

Mi allevia rincasare
sgambando anche se affranto
e sulle vecchie scale

quel già sentirlo guaiolare:
dietro la porta annaspa,
raspa la specchiatura

e non sta più nella pelle
al dindonare a distesa
in do diesis maggiore

quando così gli sciolgo
le campane alla sua voglia
di festa concitata

che mi oltreporta
dritto al cuore.
E addio ad ogni Santippe!

Salva con nome
Col vento di belle giornate fredde,
strano come lo sterco di vacche lontane
odori nella metropoli…
e sa di buono in confronto.

Senza nuvole, a somigliarvi
nell’azzurro uniforme,
solo scie di Tornado
e i Ghibli di supporto.

Anche dell’alto e potente
si sfilaccia e svapora
il segno d’ogni passaggio.
Non mi consola né mi compunge.

Sul divano, scaldato da una lama di sole,
alla mia mano abbandonata
il cane fa testine e naso umido.
E c’è ancora vita.

Ciò che ugualmente passa
Fatue palle piumose
dei soffioni di tarassaco
ho riscoperto in giardino

Uno ne ho reciso
e come non facevo più
sui pappi ho soffiato lieve

Sono senza soldi abbastanza
per cambiare casa più grande
sposarti, e quindi fare un figlio

Ma, vedi, una volta anch’io
alla disseminazione ho contribuito
di ciò che ugualmente passa

1
(a T.S. Eliot)

La mia forza vitale viene meno
come i capelli si fan più radi,
e brizzolati e grigi… prematura
caratteristica familiare costituzionale
… si dice
… eppure invecchio, ecco, invecchio.

Cos’è la Nolontà? E cosa il Samadhi?
Non porto più lunga la capigliatura
castana, ondulata,
con la frangia alla Sylvian,

il germanico segno dei nati liberi
o di medievale voluttuosa lussuria,
né chioma incolta dei penitenti anacoreti
e dei profeti aspiranti alla purezza

… e non più mi ribello o contraddistinguo.
Io sono infine un borghese.

Nolente.

Soltanto il taglio a spazzola ormai mi dona,
perché solo si è fatto dignitoso
e insieme giovanile.
Quasi il mio capo sembra rasato
come agli antichi schiavi condannati.

Schiavo della mia fisiologica natura
che pure accelera la desquamazione
del cuoio capelluto,
e non c’è nolontà, non c’è Samadhi:

al problema della forfora
non ho che lo shampoo antiforfora
agli estratti ayurvedici o meno
ma che sia regolarmente usato.

Cos’è la melaleuca? E cosa l’Ayurveda?
Andrò da un tricologo?
Userò la Crescina con le ciclodestrine?

Bella magia popolare,
se vorrà infondermi ancora un po’ d’amore
non più alla ragazza riuscirà
di fare un nodo ai miei capelli.

Come i capelli mi si fanno radi!
Delila sensuale mi ha ingannato,
i Filistei mi sono addosso:
girerò la macina conformista
imprigionato così in attesa del Giudizio,
quando non io butterò giù le colonne
che reggono il mondo.

Vanità delle vanità, tutto è vanità,
dico basta agli esosi barbieri.
Ho comprato un tagliacapelli elettrico
in bel materiale cristal trasparente.
Ha i pettini distanziatori
e molti accessori in dotazione…

Mi taglio i capelli da solo,
in drammatica religiosa
tonsura, rinunzia al mondo,
davanti allo specchio
che eccede la pura e semplice funzione.

E se il taglio è imperfetto e si vede
che si veda:
possa questo eccentrico fare a qualcuno
un po’ di tenerezza.

2.
Di nuovo la barba mi si è fatta incolta
a conferirmi l’aspetto trascurato
(pars pro toto)
di un avulso intellettuale di sinistra.

Io mi rado circa ogni tre giorni,
in modo che sia
un omologarsi mai del tutto
al bello e buono
di faccia così com’è
e così com’è si mostri
e viceversa.
Mantengo il dubbio e la pluralità.

Mi rado le guance e il mento
e la gola e il baffo,
senza più compiuta virilità antica
degli eroi, degli dei e dei re,
in decadenza vanitosa di Creta minoica
Roma e Bisanzio.

Levigo la ruvidezza
per un bacio ben dato
se capiti al bendato Cupìdo
di coglierci entrambi.

Radersi
costringe allo specchio
di un camerino
dove mi spalmo schiuma da barba
come il bianco cerone del clown
prima della clownerie,
la pubblica performance,
in tristezza riflessiva ormai vuota.

Sarà una rasatura accurata,
da glabro manager vincente,
il radi e getta
muoverò con mani d’artista,
e per ultimi ritocchi
la matita emostatica,
poi la muschiata frescante
lozione del dopobarba.

Ugualmente però non raderò
i peli neri delle parole
da pagine che bianche non so lasciare,
anzi coltivandovi barbe
sempre più lunghe, fitte e nasconditrici.

3. A Henryk Mikolaj Gorecki
Io sono il tossitore,
già malato di asma atipica.
Ho la tosse dei fumatori,
quella persistente
che assume il suo decorso
in cronica bronchite
e perenne inverno.

Senza pensare alle future
complicanze
fumo le mie ultra lights
tra cielo e terra –
calumet vieppiù solingo.

La posa elegante delle dita
io l’ho imparata presto,
e così il mio cammino dell’anima
verso l’alto mai soddisfatto.
Oh, santità dei vizi!

Ma ecco, a sera mi manca l’aria
che tutto contiene:
pianeti, stelle, universo
e gli dei e le schiere celesti,
l’origine e la fine.

L’aria mi manca,
dove tutto può esistere e succedere,
la meta trascendente…
mi manca.

E come la sera s’inoltra,
la tosse si fa più intensa e frequente,
profonda inspirazione
all’espulsione violenta
- oh quale divina contraddizione!
come amare tanto la vita
e quanto odiarla
di pari intensità
totale
totalizzante!

Vorace e ascetico al contempo io mi rivelo.

Io amo così com’è vero
che amore tosse e fumo
non si possono nascondere a nessuno.

4.
Così bevo alla bottiglia

un’altra birra bionda,
capezzolo bruno
che non è petto materno
eppure vi assomiglia.

Ne bevo finché ne ho il tempo.

Quando liberi dal corpo
- secondo il Libro dei Morti -
dovessimo vivere ancora
non l’acqua, l’aria, il sesso
(ma neanche i miei dischi),
bensì la trasfigurazione ignota,
e invece di pane e birra
(e point de brie
e le briciole sulla cerata)
sarà solo pace nel cuore
in eterno uguale a se stessa
come lobotomia,
come l’oppiomania.

Prima di una eternità
senza mai un cattivo piacere
bevo alla bottiglia
un’altra fresca birra bionda,
capezzolo bruno
che non è petto di Maria,
seno al sapiente
e latte spirituale,
ma che più della salda sobrietà
appassita e a suo modo più folle
vi assomiglia.

Sfumerò nel fruscio
alla fine del nastro
non più registrato
e registrabile,
un disciogliersi di compressa
effervescente
nel bicchiere d’acqua
della creazione
per dissoluzione del mondo.

Incrodato alpinista sulle parole,
qui giunto
non posso più salire
né ridiscendere.



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