RICORDI |
Alla luna O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge l'anno, sovra questo colle Io venia pien d'angoscia a rimirarti: E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparia, che travagliosa Era mia vita: ed è, né cangia stile, O mia diletta luna. E pur mi giova La ricordanza, e il noverar l'etate Del mio dolore. Oh come grato occorre Nel tempo giovanil, quando ancor lungo La speme e breve ha la memoria il corso, Il rimembrar delle passate cose, Ancor che triste, e che l'affanno duri! (Giacomo Leopardi) |
Stanza Quatte le nevi si avvicinavano e rovente la stufa nell'angolo bolliva, tua madre il violino sognante suonava, tuo padre - che tutto ammirava - a quelle belle arance sulla tavola esclamava: "che rosso!". E c'era lo zio Pino così grosso che ridendo nel corridoio cascava, e più non si levava; e tu chino su storti disegni, i pensierini di gennaio o i re di Francia. Era in questa maniera che combaciava la sera. Pulita miniatura di una stanza e da non disistimare, perché la bellezza viene anche da distanza; e ciascuno - se tu guardi -è ancora là come pupazzo di stoffa stupito nella sua discreta eternità. (Tiziano Rossi) |
Amore di lontananza Ricordo che, quand'ero nella casa della mia mamma, in mezzo alla pianura, avevo una finestra che guardava sui prati; in fondo, l'argine boscoso nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo, c'era una striscia scura di colline. Io allora non avevo visto il mare che una sol volta, ma ne conservavo un'aspra nostalgia da innamorata. Verso sera fissavo l'orizzonte; socchiudevo un po' gli occhi; accarezzavo i contorni e i colori tra le ciglia: e la striscia dei colli si spianava, tremula, azzurra: a me pareva il mare e mi piaceva più del mare vero. (Antonia Pozzi) |
In me il tuo ricordo In me il tuo ricordo è un fruscio solo di velocipedi che vanno quietamente là dove l'altezza del meriggio discende al più fiammante vespero tra cancelli e case e sospirosi declivi di finestre riaperte sull'estate. Solo, di me, distante dura un lamento di treni, d'anime che se ne vanno. E là leggera te ne vai sul vento, ti perdi nella sera. (Vittorio Sereni) |
Ricordo di fanciullezza Le gaggie della mia fanciullezza dalle fresche foglie che suonano in bocca... Si cammina per il Cinghio asciutto, qualche ramo più lungo ci accarezza la faccia fervida, e allora, scostando il ramo dolce e fastidioso, per inconscia vendetta si spoglia di una manata di tenere foglie. Se ne sceglie una, si pone lieve sulle labbra e si suona camminando, dimentichi dei compagni. Passano libellule, s'odono le trebbiatrici lontane, si vive come in un caldo sogno. Quando più la cicala non s'ode cantare, e le prime ombre e il silenzio della sera ci colgono, quasi all'improvviso, una smania prende le gambe e si corre sino a perdere il fiato, nella fresca sera, paurosi e felici. (Attilio Bertolucci) |
Ora è un tempo che non mi basta. La tua fronte non è più cielo, da quel mio cielo sole non cade, da quel sole luce non prende e colore il mio giorno. A queste mani non sono più erba i tuoi freschi capelli nella siepe ove si andava per tenere strade in fondo al bosco degli occhi. Ora è un tempo che non dà pace. (Libero De Libero) |
Mi ricorderò di questo autunno Mi ricorderò di questo autunno splendido e fuggitivo dalla luce migrante, curva al vento sul dorso delle canne. La piena dei canali è salita alla cintura e mi ci sono immerso disseccato dalla siccità. Quando sarò con gli amici nelle notti di città farò la storia di questi giorni di ventura, di mio padre che a pestar l'uva s'era fatti i piedi rossi, di mia madre timorosa che porta un uovo caldo nella mano ed è più felice d'una sposa. Mio padre parlava di quel ciliegio piantato il giorno delle nozze, mi diceva, quest'anno non ha avuto fioritura, e sognava di farne il letto nuziale a me primogenito. Il vento di tramontana apriva il cielo al quarto di luna. La luna coi corni rosei, appena spuntati, di una vitella! Domani si potrà seminare, diceva mio padre. Sul palmo aperto della mano guardavo i solchi chiari contro il fuoco, io sentivo scoppiare il seme nel suo cuore, io vedevo nei suoi occhi fiammeggiare la conca spigata. (Leonardo Sinisgalli) |
Cocotte I. Ho rivisto il giardino, il giardinetto contiguo, le palme del viale, la cancellata rozza dalla quale mi protese la mano ed il confetto... II. «Piccolino, che fai solo soletto?» «Sto giocando al Diluvio Universale.» Accennai gli stromenti, le bizzarre cose che modellavo nella sabbia, ed ella si chinò come chi abbia fretta d'un bacio e fretta di ritrarre la bocca, e mi baciò di tra le sbarre come si bacia un uccellino in gabbia. Sempre ch'io viva rivedrò l'incanto di quel suo volto tra le sbarre quadre! La nuca mi serrò con mani ladre; ed io stupivo di vedermi accanto al viso, quella bocca tanto, tanto diversa dalla bocca di mia Madre! «Piccolino, ti piaccio che mi guardi? Sei qui pei bagni? Ed affittate là?» «Sì... vedi la mia mamma e il mio Papà?» Subito mi lasciò, con negli sguardi un vano sogno (ricordai più tardi) un vano sogno di maternità... «Una cocotte!...» «Che vuol dire, mammina?» «Vuol dire una cattiva signorina: non bisogna parlare alla vicina!» Co-co-tte... La strana voce parigina dava alla mia fantasia bambina un senso buffo d'ovo e di gallina... Pensavo deità favoleggiate: i naviganti e l'Isole Felici... Co-co-tte... le fate intese a malefici con cibi e con bevande affatturate... Fate saranno, chi sa quali fate, e in chi sa quali tenebrosi offici! III. Un giorno - giorni dopo - mi chiamò tra le sbarre fiorite di verbene: «O piccolino, non mi vuoi più bene!...» «È vero che tu sei una cocotte?» Perdutamente rise... E mi baciò con le pupille di tristezza piene. IV. Tra le gioie defunte e i disinganni, dopo vent'anni, oggi si ravviva il tuo sorriso... Dove sei, cattiva Signorina? Sei viva? Come inganni (meglio per te non essere più viva!) la discesa terribile degli anni? Oimè! Da che non giova il tuo belletto e il cosmetico già fa mala prova l'ultimo amante disertò l'alcova... Uno, sol uno: il piccolo folletto che donasti d'un bacio e d'un confetto, dopo vent'anni, oggi ti ritrova in sogno, e t'ama, in sogno, e dice: T'amo! Da quel mattino dell'infanzia pura forse ho amato te sola, o creatura! Forse ho amato te sola! E ti richiamo! Se leggi questi versi di richiamo ritorna a chi t'aspetta, o creatura! Vieni! Che importa se non sei più quella che mi baciò quattrenne? Oggi t'agogno, o vestita di tempo! Oggi ho bisogno del tuo passato! Ti rifarò bella come Carlotta, come Graziella, come tutte le donne del mio sogno! Il mio sogno è nutrito d'abbandono, di rimpianto. Non amo che le rose che non colsi. Non amo che le cose che potevano essere e non sono state... Vedo la case, ecco le rose del bel giardino di vent'anni or sono! Oltre le sbarre il tuo giardino intatto fra gli eucalipti liguri si spazia... Vieni! T'accoglierà l'anima sazia. Fa ch'io riveda il tuo volto disfatto; ti bacierò; rifiorirà, nell'atto, sulla tua bocca l'ultima tua grazia. Vieni! Sarà come se a me, per mano, tu riportassi me stesso d'allora. Il bimbo parlerà con la Signora. Risorgeremo dal tempo lontano. Vieni! Sarà come se a te, per mano, io riportassi te, giovine ancora. (Guido Gozzano) |
Nel fumo Quante volte t'ho atteso alla stazione nel freddo, nella nebbia. Passeggiavo tossicchiando, comprando giornali innominabili, fumando Giuba poi soppresse dal ministro dei tabacchi, il balordo! Forse un treno sbagliato, un doppione oppure una sottrazione. Scrutavo le carriole dei facchini se mai ci fosse dentro il tuo bagaglio, e tu dietro, in ritardo. poi apparivi, ultima. E' un ricordo tra tanti altri. Nel sogno mi perseguita. (Eugenio Montale) |
La fornace Bambina, nelle sere di novembre poi che sui monti c'era la guerra e la legna costava assai - come il latte, come il pane - e la nebbia pesava gelida sulla terra, la mamma mi portava - per scaldarci - alla fornace. Riflessi di brace tingevano l'androne nero: rossa nel fondo divampava la cupola del forno. Dall'alto un vecchio scagliava fascine e fascine. Giù i tegoli in cerchio sembravano una ruota immota a cui fosse mozzo la fiamma. Si arrossava la creta al centro: verde era ancora al margine dove più lento arrivava il calore. Si sgranavano in uno stupore d'incanto - le pupille bambine. Il vecchio dall'alto scagliava fascine e fascine - Si ritornava per l'androne nero con un bruciore di vampa negli occhi. Fuori, un'immensa fontana nella nebbia lanciava il suo getto bianco e faceva rabbrividire - La casa pareva lontana, la strada sembrava non finire più. Era notte, era novembre, sui monti c'era la guerra - (Antonia Pozzi) |
Confessione Una volta, una sola, dolce e amabile donna, al mio braccio il vostro tornito si appoggiò (sul fondo oscuro dell'anima quel ricordo non è impallidito); era tardi; la luna piena si stagliava come una medaglia nuova lucente e la solennità notturna scivolava, come un fiume, su Parigi dormiente. Lungo le case, nel buio degli androni gatti passavano furtivamente, le orecchie tese, o, come care ombre, ci accompagnavano lentamente. A un tratto, nell'intimità così libera schiusasi a quella pallida luce, da voi, ricco e sonoro strumento, in cui non vibra che la gaiezza radiosa, da voi, chiara e festosa come una fanfara nel mattino scintillante, un nota querula, una nota dissonante sfuggì, avanzò vacillando come una grama, orrida, triste, immonda bambina che la famiglia avesse lungamente tenuto, per vergogna, chiusa in qualche cantina per nasconderla alla gente. Povero angelo, cantava, quella nota stridula: <<Che quaggiù niente è sicuro, che sempre, benché si mascheri con cura, l'egoismo umano si tradisce; che essere una bella donna è un duro mestiere, è il lavoro quotidiano della ballerina gelida e folle, rapita in un sorriso meccanico; che costruire sui cuori è tempo perso, che tutto si sgretola, amore e beltà, fino a quando l'Oblio li getta nel suo cesto per restituirli all'Eternità!>> Ho spesso rievocato quella luna incantata, quel silenzio e quel languore, e quell'orribile confidenza sussurrata al confessionale del cuore. (Charles Baudelaire; trad. Luciana Frezza) |
Uno spicchio di pera Raramente mia madre buttava via una pera fradicia. Riusciva sempre col suo coltelluccio che aveva la punta ricurva e serviva a scappucciare le orecchiette a salvarne almeno uno spicchio. (Leonardo Sinisgalli) |
Ricordo Ricordo una chiesa antica, romita, nell'ora in cui l'aria s'arancia e si scheggia ogni voce sotto l'arcata del cielo. Eri stanca, e ci sedemmo sopra un gradino come due mendicanti. Invece il sangue ferveva di meraviglia, a vedere ogni uccello mutarsi in stella nel cielo. (Giorgio Caproni) |
Idillio Per una stradetta ombreggiata fra due muri di pietre rugginose da cui spuntavano pampini soleggiati, vidi un giorno, in Liguria, (oh incontro inatteso!) una giovane contadina ritta sul limite del suo vigneto. Era la via romita, l'ora estuosa. Mi guardò, mi sorrise, la villanella. Ed io le dissi, accostandomi, parole che udivo salire dal sangue, da tutto il mio essere, in lode di sua bellezza. Sotto il rossore del volto imperlato dall'interrotta fatica la bocca sua rideva luminosa. Era scalza. Una scaglia d'argilla dorata rivestiva i suoi piedi usi ai diurni lavacri della fonte. Gli occhi, infocati e lustri, di gioventù brillavano, solare e profonda. E dietro a lei, così terrosa e splendida, l'ombre cognite e fide della domestica vite parevan vigilarla. Tutto era pace intorno e silenzio agreste. (Vincenzo Cardarelli) |
Un ricordo Io non sapea qual fosse il mio malore né dove andassi. Era uno strano giorno. Oh, il giorno tanto pallido era in torno, pallido tanto che facea stupore. Non mi sovviene che di uno stupore immenso che quella pianura in torno mi facea, cosí pallida in quel giorno, e muta, e ignota come il mio malore. Non mi sovviene che d'un infinito silenzio, dove un palpitare solo, debole, oh tanto debole, si udiva. Poi, veramente, nulla più si udiva. D'altro non mi sovviene. Eravi un solo essere, un solo; e il resto era infinito. (Gabriele D'Annunzio) |
Un rimorso I O il tetro Palazzo Madama... la sera... la folla che imbruna... Rivedo la povera cosa, la povera cosa che m'ama: la tanto simile ad una piccola attrice famosa. Ricordo. Sul labbro contratto la voce a pena s'udì: "O Guido! Che cosa t'ho fatto di male per farmi così?" II Sperando che fosse deserto varcammo l'androne, ma sotto le arcate sostavano coppie d'amanti... Fuggimmo all'aperto: le cadde il bel manicotto adorno di mammole doppie. O noto profumo disfatto di mammole e di petit-gris... "Ma Guido, che cosa t'ho fatto di male per farmi così?" III Il tempo che vince non vinca la voce con che mi rimordi, o bionda povera cosa! Nell'occhio azzurro pervinca, nel piccolo corpo ricordi la piccola attrice famosa... Alzò la veletta. S'udì (o misera tanto nell'atto!) ancora: "Che male t'ho fatto, o Guido, per farmi così?" IV Varcammo di tra le rotaie la Piazza Castello, nel viso sferzati dal gelo più vivo. Passavano giovani gaie... Avevo un cattivo sorriso: eppure non sono cattivo, non sono cattivo, se qui mi piange nel cuore disfatto la voce: "Che male t'ho fatto o Guido per farmi così?" (Guido Gozzano) |
Davanti San Guido I cipressi che a Bólgheri alti e schietti Van da San Guido in duplice filar, Quasi in corsa giganti giovinetti Mi balzarono incontro e mi guardâr. Mi riconobbero, e - Ben torni omai - Bisbigliaron vèr me co 'l capo chino - Perché non scendi? perché non ristai? Fresca è la sera e a te noto il cammino. Oh si èditi a le nostre ombre odorate Ove soffia dal mare il maestrale: Ira non ti serbiam de le sassate Tue d'una volta: oh, non facean già male! Nidi portiamo ancor di rusignoli: Deh perché fuggi rapido così? Le passere la sera intreccian voli A noi d'intorno ancora. Oh resta qui!- - Bei cipressetti, cipressetti miei, Fedeli amici d'un tempo migliore, Oh di che cuor con voi mi resterei - Guardando io rispondeva - oh di che cuore! Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire: Or non è più quel tempo e quell'età. Se voi sapeste!... via, non fo per dire, Ma oggi sono una celebrità. E so legger di greco e di latino, E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù; Non son più, cipressetti, un birichino, E sassi in specie non ne tiro più. E massime a le piante. - Un mormorio Pe' dubitanti vertici ondeggiò, E il dì cadente con un ghigno pio Tra i verdi cupi roseo brillò. Intesi allora che i cipressi e il sole Una gentil pietade avean di me, E presto il mormorio si fe' parole: - Ben lo sappiamo: un pover uomo tu se'. Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse Che rapisce de gli uomini i sospir, Come dentro al tuo petto eterne risse Ardon che tu né sai né puoi lenir. A le querce ed a noi qui puoi contare L'umana tua tristezza e il vostro duol; Vedi come pacato e azzurro è il mare, Come ridente a lui discende il sol! E come questo occaso è pien di voli, Com'è allegro de' passeri il garrire! A notte canteranno i rusignoli: Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire; I rei fantasmi che da' fondi neri De i cuor vostri battuti dal pensier Guizzan come da i vostri cimiteri Putride fiamme innanzi al passegger. Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno, Che de le grandi querce a l'ombra stan Ammusando i cavalli e intorno intorno Tutto è silenzio ne l'ardente pian, Ti canteremo noi cipressi i cori Che vanno eterni fra la terra e il cielo: Da quegli olmi le ninfe usciran fuori Te ventilando co 'l lor bianco velo; E Pan l'eterno che su l'erme alture A quell'ora e ne i pian solingo va Il dissidio, o mortal, de le tue cure Ne la diva armonia sommergerà. - Ed io - Lontano, oltre Appennin, m'aspetta La Tittì - rispondea -; lasciatem'ire. è la Tittì come una passeretta, Ma non ha penne per il suo vestire. E mangia altro che bacche di cipresso; Né io sono per anche un manzoniano Che tiri quattro paghe per il lesso. Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! - - Che vuoi che diciam dunque al cimitero Dove la nonna tua sepolta sta? - E fuggìano, e pareano un corteo nero Che brontolando in fretta in fretta va. Di cima al poggio allor, dal cimitero, Giù de' cipressi per la verde via, Alta, solenne, vestita di nero Parvemi riveder nonna Lucia: La signora Lucia, da la cui bocca, Tra l'ondeggiar de i candidi capelli, La favella toscana, ch'è sì sciocca Nel manzonismo de gli stenterelli, Canora discendea, co 'l mesto accento De la Versilia che nel cuor mi sta, Come da un sirventese del trecento, Piena di forza e di soavità. O nonna, o nonna! deh com'era bella Quand'ero bimbo! ditemela ancor, Ditela a quest'uom savio la novella Di lei che cerca il suo perduto amor! - Sette paia di scarpe ho consumate Di tutto ferro per te ritrovare: Sette verghe di ferro ho logorate Per appoggiarmi nel fatale andare: Sette fiasche di lacrime ho colmate, Sette lunghi anni, di lacrime amare: Tu dormi a le mie grida disperate, E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. - Deh come bella, o nonna, e come vera è la novella ancor! Proprio così. E quello che cercai mattina e sera Tanti e tanti anni in vano,è forse qui, Sotto questi cipressi, ove non spero, Ove non penso di posarmi più: Forse, nonna,è nel vostro cimitero Tra quegli altri cipressi ermo là su. Ansimando fuggìa la vaporiera Mentr'io così piangeva entro il mio cuore; E di polledri una leggiadra schiera Annitrendo correa lieta al rumore. Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo Rosso e turchino, non si scomodò: Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo E a brucar serio e lento seguitò. (Giosuè Carducci) |
L'aquilone C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d'antico: io vivo altrove, e sento che sono intorno nate le viole. Son nate nella selva del convento dei cappuccini, tra le morte foglie che al ceppo delle quercie agita il vento. Si respira una dolce aria che scioglie le dure zolle, e visita le chiese di campagna, ch'erbose hanno le soglie: un'aria d'altro luogo e d'altro mese e d'altra vita: un'aria celestina che regga molte bianche ali sospese... sì, gli aquiloni!è questa una mattina che non c'è scuola. Siamo usciti a schiera tra le siepi di rovo e d'albaspina. Le siepi erano brulle, irte; ma c'era d'autunno ancora qualche mazzo rosso di bacche, e qualche fior di primavera bianco; e sui rami nudi il pettirosso saltava, e la lucertola il capino mostrava tra le foglie aspre del fosso. Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino ventoso: ognuno manda da una balza la sua cometa per il ciel turchino. Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza, risale, prende il vento; ecco pian piano tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza. S'inalza; e ruba il filo dalla mano, come un fiore che fugga su lo stelo esile, e vada a rifiorir lontano. S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo petto del bimbo e l'avida pupilla e il viso e il cuore, porta tutto in cielo. Più su, più su: già come un punto brilla lassù lassù... Ma ecco una ventata di sbieco, ecco uno strillo alto... - Chi strilla? Sono le voci della camerata mia: le conosco tutte all'improvviso, una dolce, una acuta, una velata... A uno a uno tutti vi ravviso, o miei compagni! e te, sì, che abbandoni su l'omero il pallor muto del viso. Sì: dissi sopra te l'orazïoni, e piansi: eppur, felice te che al vento non vedesti cader che gli aquiloni! Tu eri tutto bianco, io mi rammento. solo avevi del rosso nei ginocchi, per quel nostro pregar sul pavimento. Oh! te felice che chiudesti gli occhi persuaso, stringendoti sul cuore il più caro dei tuoi cari balocchi! Oh! dolcemente, so ben io, si muore la sua stringendo fanciullezza al petto, come i candidi suoi pètali un fiore ancora in boccia! O morto giovinetto, anch'io presto verrò sotto le zolle là dove dormi placido e soletto... Meglio venirci ansante, roseo, molle di sudor, come dopo una gioconda corsa di gara per salire un colle! Meglio venirci con la testa bionda, che poi che fredda giacque sul guanciale, ti pettinò co' bei capelli a onda tua madre... adagio, per non farti male. (Giovanni Pascoli) |
C'era C'era, un po' in ombra, il focolaio; aveva arnesi, intorno, di rame. Su quello si chinava la madre col soffietto, e uscivano faville. C'era nel mezzo una tavola dove versava antica donna le provviste. Il mattarello vi allungava a tondo la pasta molle. C'era, dipinta di verde, una stia, e la gallina in libertà raspava. Due mastelli, là sopra, riflettevano, colmi, gli oggetti. C'era, mal visto nel luogo, un fanciullo. Le sue speranze assieme alle faville del focolaio si alzavano. Alcuna -guarda!-è rimasta. (Umberto Saba) |