Il cuore saggio
Ho sempre pensato che ogni esistenza a questo mondo, ogni essere vivente
abbia uno scopo. Che ci sia una logica, precisa e indissolubile cui tutti
siamo legati, il destino. Ho vissuto così, limitandomi ad accettare con
pazienza ciò che avveniva quotidianamente, tanto è il destino! Mi sono
spinto alla ricerca del senso della vita, del perché di tutto questo, ho
attraversato gli studi di fisica, metafisica, religione, simbolismo e
illusione, poi, sono tornato indietro ed ho trovato l'origine di questa
logica. È solo attraverso le misteriose trame dell'amore che noi esistiamo
attraverso le nostre azioni e le quotidiane scelte, scelte che ci portano
a vivere eventi piacevoli e spiacevoli, ricchi di gioia e dolore, ma
sempre pronti in qualsiasi modo a insegnarci il senso della vita stessa.
Il gioco del destino.
Guardavo fisso il pavimento scuro
del salotto, non avevo il coraggio di guardarla in faccia, mi faceva male,
oh sì, posso giurarlo, avevo un intero universo nel cuore pronto a
esplodere, che voleva liberarsi dalle prigioni mentali, dalla fortezza di
ghiaccio delle paure insensate infuse dall'educazione. Guardavo il
pavimento, tirai così un sospiro e dissi quello che dovevo <<Mi dispiace
Vissia...io non voglio stare più con te, nonostante provo amore per te, io
non posso..non è possibile.>> Il perché? Quello non l'ho mai scoperto,
forse per vigliaccheria o per paura d'amare, ma ogni definizione sembrava
uscita da una rubrica di psicologia da quattro soldi, il significato è che
l'amore a volte compie dei giri davvero lunghi, come quando il navigatore
satellitare ti porta per strade assurde fino a sbucare nel punto
prescelto, solo che potevi arrivarci più in fretta. La vedevo piangere, le
stavo dicendo addio, lei mi amava ed io, a modo mio le dicevo di non andar
via, che avevo solo paura. L'epilogo di queste storie lo conosciamo bene,
la porta di casa si chiude e invece del volto di chi amiamo, fissiamo la
porta color mogano. Addio Vissia, esci dalla mia vita, ora e per sempre,
via, va via che ho un destino da compiere come ogni uomo, il problema è
che questo destino mi ha portato a congetture e continue ricerche.
Conoscere, a me importava conoscere, certo, è ancora il cavallo che traina
il mio carro, ma all'epoca cercavo solo conoscenza. Ho visto cose strane
nella mia vita, quelle ai confini della realtà tanto per intenderci,
davvero l'amore era un intralcio, una vera palla al piede che mi avrebbe
portato all'esasperazione. No, no, Vissia doveva andar via da me, ormai
ero libero, casa vuota, io e i miei libri, i miei tramonti, i pensieri
folli, gli incubi, le premonizioni e i pianti inconsolabili. Chiusi
definitivamente con lei, la vita scorreva agiatamente, tutto era perfetto,
ormai non mi restava che coltivare i sogni e farli crescere, senza tener
conto che ogni sogno per crescere ha bisogno del fertilizzante giusto,
l'amore.
Proprio quell'amore mi aveva reso
cieco, portandomi sulle altezze vertiginose del vivere, tra le illusioni,
gli spettri del passato e futuro, tutto insieme come in una macedonia. La
sera mi ritrovavo lì, davanti al computer, cercando, cercando e cercando
ancora. Viaggi, misteri da scoprire e persone da incontrare, una sera il
destino aveva organizzato un appuntamento inaspettato, Vissia. Dopo un
anno preciso, anche se solo attraverso una tastiera e un monitor, io
l'avevo ritrovata, a mia insaputa qualcuno o qualcosa aveva tramato
affinché potessi parlare ancora con lei. Nelle antiche epopee degli eroi,
è spesso fatta distinzione tra destino e fato. Il destino è il volere
superiore, il fato è espressa opera dell’uomo e delle nostre azioni.
Possiamo spezzare le catene del fato, ma non quelle del destino cui siamo
legati saldamente. Io avevo spezzato le catene del fato alcuni mesi fa,
allontanandomi da lei, ma il destino mi aveva ricondotto al punto di
partenza. Nel cuore della notte presi il telefono e la chiamai <<Vissia>>
dissi solo una parola e lei si sciolse in lacrime, il mio cuore ritornava
a battere come non mai, rinvigorito di qualcosa di misterioso. Le lacrime,
la voce singhiozzante era per me, come una voce che s'insinua tra le
fronde degli alberi in una giornata ventosa. E mi parlava di amore, solo
di amore, quello necessario per vivere l'intera esistenza. Così appresi
della sua infelicità, di un fidanzamento riparatorio e del dolore di un
amore passato, legato alla gamba come un cilicio sanguinante. Chi siamo
noi per dichiarare che non c'è più amore tra due persone? E perché
cerchiamo di convincerci miseramente che la vita è bella finché viviamo da
soli? Senza obblighi e leggi, senza morale, sola adrenalina nelle vene,
decolliamo in alto, sempre più in alto e perdiamo il contatto con la
realtà, nelle vene scorre il sangue e basta, questa è la realtà. Da
bambino ero affascinato dai grandi dipinti che vedevo nelle chiese
barocche che ritraevano i santi, la mia catechista mi diceva che
sacrificarono tutta la vita terrena per cercare l'illuminazione attraverso
la fede in Dio. E se invece l'unica vera ragione di vita fosse stata solo
l'amore? Esso travalica la materia e il tempo, quell'amore che magnetizza
due esseri indissolubilmente. Ognuno di noi è un santo che cammina verso
l'illuminazione, c'è chi rinuncia e aspetta che passi il treno ad alta
velocità per il paradiso, e chi invece decide di viaggiare con un
interregionale, fermandosi a ogni stazione della vita con i propri
compagni di viaggio. Sentivo che lei, in quella notte, a quel telefono era
la mia compagna di viaggio, ascoltai il cuore, solo il cuore, misi un
cerotto sulla bocca del cervello, staccai il collegamento tra di essi,
"il cuore è momentaneamente assente, è impegnato nella vita, sta
costruendo la propria esistenza senza barriere e condizionamenti, lasciate
un messaggio dopo il segnale acustico beeeeeep." Questo stava
accadendo in me...e in lei.
Mi ha raccontato la storia di un
amore di plastica, di un uomo medio, con pensieri medi, una vita media e
senza sogni. Spesso ricadiamo su noi stessi, partiamo con grande slancio
verso nuove terre, poi l'uragano degli eventi ci riporta nel piccolo
porticciolo sicuro, dove attracchiamo la barca alla banchina della
sicurezza. Sì! Un bel porto sicuro, dove le cose sono modeste ma durature,
oltre la scogliera c'è la tempesta della vita, "forse la mia barca non
avrebbe resistito ed io sarei annegato" ecco cosa pensiamo! E' la
filosofia di vita della gente su questa Terra, vivere tiepidamente la
propria esistenza. Idolatriamo chi scala le vette del successo, beati
loro, noi che possiamo fare? Nulla, siamo nati sfortunati, disagiati e
forse con un marito o una moglie che un giorno a stento riconosciamo, un
pezzo d'antiquariato che gira per casa. Questi pensieri vorticavano nella
mia testa, il cuore faceva pulizia della mediocrità della vita, oltre quel
telefono c'era lei, sì lo ammetto, c'era mia moglie, la mia sposa, solo
che lei ancora non lo sapeva, in quel preciso istante vidi le nostre mani
con la fede nuziale al dito, io e lei.
La scelta.
Vissia ha due occhi verdi come il
mare dopo la tempesta, quando esso si riposa dall'enorme sforzo delle onde
frustate dal vento, lei è così, un mare ventoso con le sue onde lunghe a
riva, bello, chiaro e forte, di un verde profondo e agitato. In lei ho
visto la matrice dei miei sogni ed ho seguito tutto questo sentendo solo
la natura dei sentimenti. Lei ha lasciato l'amore di plastica, anzi,
gliel'ho chiesto io. Con forza ho assaltato la sua nave, issando la mia
bandiera, l'ho conquistata, la stavo salvando dalla bonaccia del mar dei
sargassi dov'era finita. Esistono delle realtà di vita che sono povere,
senza onore, senza amore, c'è solo il buio dell'insicurezza, ho avuto
paura di lei, di tutto quello che poteva rappresentare per me, per il
futuro e per quello che potevano pensarne gli altri. Gli altri, temiamo il
giudizio, il confronto, Vissia ha sei anni più di me, credevo veramente
inconcepibile vivere alla luce del sole con una donna più grande. La
cortina di nebbia ormai era svanita, tutto è esploso ed è scomparso in una
bolla di sapone, ho conosciuto la sua famiglia ben presto, portavo a loro
l'unico dono e richiesta, volevo Vissia come mia moglie e offrivo a lei il
mio cuore, senza riserva, senza i "vediamo come stiamo insieme, e se
funziona, ci sposiamo." Hanno detto che il paradiso è per i violenti,
per coloro che lo assaltano con determinazione, che lottano per arrivarci,
infischiandosene di tutti e di tutto. Io e lei abbiamo lasciato dietro di
noi molto del passato, delusioni, attese e idee deludenti, volevamo solo
vivere e viverci, via da tutto e tutti.
Mettemmo su una vita insieme, io già
vivevo da solo, essendo un nomade emigrante dal sud dell’Italia ho
lasciato presto casa per lavoro, ho vissuto per circa sei anni in silenzio
tra le mura di casa, e così le chiesi di venire a stare da me. Come un
gatto timido sull'uscio della porta che non vuole entrare, lei esitò
qualche giorno, alla fine divenne totalmente parte della mia esistenza
quotidiana ed io della sua. Ovviamente quando due correnti oceaniche si
scontrano, nasce una tempesta, come tutti gli esseri umani abbiamo vissuto
momenti splendidi dove ho trovato me stesso nei suoi occhi e momenti dubbi
e rabbiosi, dove avrei voluto accusarla come causa dei miei fallimenti.
Questa è la visione sbagliata che ci facciamo della vita, puntando il dito
alla ricerca di un colpevole, spesso siamo aguzzini di qualcuno, giusto
perché non riusciamo ad affrontare i nostri carcerieri che profanano i
sogni che abbiamo dentro, ed ecco che ci accusiamo a vicenda, o ci
sfoghiamo paurosamente con chi amiamo. Superammo la burrasca, ormai il
nostro universo girava bene, come una perfetta macchina celeste tolemaica,
la Terra al centro, e tutto il firmamento ruotava intorno a noi. Abbiamo
arato la terra arida delle nostre vite solitarie e l'abbiamo resa fertile
con l'amore, poi abbiamo seminato il futuro racchiuso in piccole gocce di
speranza, a guardia da uccelli approfittatori, ci siamo impegnati insieme,
costantemente affinché tutto potesse andar bene. Pioggia e sole, estate e
inverno, caldo e freddo, noi insieme, sempre insieme, a volte come amanti,
altre come amici di una vita, ma sempre e solo come anime speculari l'una
dell'altra, ci siamo divertiti e annoiati insieme.
Per chi non crede che esista un Dio
artefice delle esistenze, è difficile pensare che ci siano anche anime
destinate a vivere insieme, o meglio, che esista l'anima nel vero senso
della parola. La mia vita è farcita di sogni premonitori, visioni e fatti
che farebbero sorridere molte delle persone che ascoltano, ma non posso
fare a meno di negare quello che sento, quello che sono. Siamo abituati a
tramutare noi stessi nel corso degli anni, da bambini abbiamo i nostri
amici invisibili, il mondo è bello e innocuo, esistono eroi, mostri e
sirene. Poi cresciamo, ma questo non vuol dire dimenticare, cancellare con
un colpo di spugna quello che abbiamo scritto; in tanti secoli della
storia umana l'uomo ha sognato e seppur genuinamente ha formulato tesi
errate, queste comunque ci appartengono. Mai dimenticare chi siamo, mai
chiudere le porte del passato e tantomeno mai creare delle stanze cui
mettere le porte, noi siamo l'insieme delle esperienze e non siamo dei
monolocali, dove lo spazio è ridotto, ci sentiamo infiniti, immortali e
riusciamo a ricordare tantissimo della nostra vita, non ridete di voi
stessi, anche quando vi deridono, perché troverete chi vi leggerà il cuore
e lì, anche se non avete Dio nella vostra vita, almeno in quel momento
potete sperimentare un senso di appartenenza a chi vi scorge dentro. É una
specie di magia, non tutti se ne accorgono e spesso le relazioni finiscono
per stupidaggini, per gli spazi, la collezione di fumetti, la seduta
settimanale dall'estetista o per la partita di calcio. Chi si accorge di
essere letto nell'animo e di rimando legge l'anima della persona che ha
accanto, in quel momento scatta l'amore e non c'è nulla, nulla esistente a
questo mondo che possa annientarla.
Più vivevo la mia vita con Vissia e
più queste idee entravano in me, io e lei, due stelle binarie attratte
l'una dalla gravità dell'altra. I suoi occhi, specchio dell'anima, hanno
raccontato la forza trainante che la caratterizza, la profondità oceanica
della sua dolcezza e il dolore di un passato turbolento, ho sempre amato
il suo presente, il suo passato apparteneva a lei. Non ci restava che
vivere insieme e arrivare alla vecchiaia come due vecchie tartarughe
centenarie che passano le giornate al sole contandosi le rughe sulla
faccia. Molte coppie non credono più nel matrimonio, ormai logoro, abusato
e farcito d’inettitudine e artificiosità, poiché non credono che esista
una spiritualità. Gli uomini sono diventati sterili, esseri avvizziti che
rincorrono il sogno della giovinezza, l'importante è essere belli e
consumare il proprio tempo in quante più sciocchezze possibili. Decidemmo
così di celebrare il rito religioso, volevamo che la regalità di quel
giorno intriso di mistero, potesse amplificare un giuramento di parole
ripetute da secoli, ma sempre vibranti in chi crede nell'amore. Nel pieno
dell'enfasi, dei preparativi, la nostra vita scorreva veloce, almeno io
avevo l'impressione di arrancare dietro di lei, non riuscivo a starle
dietro. Lei correva veloce col tempo, prevedeva il nostro futuro di mesi e
di anni, siamo inclini a commettere l'errore di pianificare tutto della
vita, di programmarla in ogni piccolo dettaglio fino alla fine, come se
fosse un compito di matematica, basta seguire le regole, attenersi ai
piani e tutto filerà liscio. Ero anche capace di frenare la sua corsa,
credo che le relazioni umane vanno d'accordo quando c'è una certa sinergia
negli eventi, quando uno contrappone una forza uguale e opposta all'altra,
fino a creare l'equilibrio. Vissia mi ha aiutato a rimanere con i piedi
per terra, mi sono reso conto che oltre il mio mondo personale esisteva
anche quello in cui viviamo. Per quanto schifo possa farci, questo è il
nostro mondo, per merito o colpa nostra, nulla nasce a caso, c'è sempre
una causa e un effetto, bisogna fare interminabili file per ogni cosa,
tenere d'occhio l'orologio e rispettare gli impegni, siamo fatti anche di
carne oltre che di emozioni. Lei ha ancorato il palloncino dei miei
pensieri al suolo e questo mi permetteva di vivere abbastanza in
equilibrio. Io invece le ho insegnato a volare. L'ho trovata naufraga
nell'oceano delle passioni turbolente, nel rimorso e nella rabbia, le ho
insegnato a guardare le stelle, perché su nel cielo a volte troviamo
risposte che sul suolo polveroso non esistono, insieme abbiamo chiuso gli
occhi e respirato a fondo, sciogliendo i nodi del cuore, abbiamo camminato
a lungo in silenzi boscosi, in cima alle vette e visto tramonti di una
bellezza impareggiabile, perché? Perché lei merita i gioielli del cielo, i
tesori della terra e le trame del tempo, per lei ho aperto le vele del
cuore per navigare verso lidi lontani, giacché nessun uomo su questa terra
merita di soffrire e in un modo o nell'altro, che ci sia amore di coppia o
solo fraterno, noi dobbiamo impegnarci affinché tutti possano sognare.
Un giorno qualunque
<<Guarda qui, guarda com'è duro qui
il seno.>> disse una sera mostrandomi il suo piccolo seno perfetto, <<Pare
quasi che ci sia qualcosa che pulsa dentro.>> disse tastandosi il
seno destro <<Beh, saranno le solite cisti che
si sono infiammate, domani sera verrai in ospedale si da un'occhiata.>>
Lavoro come infermiere in un
ospedale, questo mi ha permesso di avere ben presto il quadro della
situazione. Sono sempre stato un tipo lascivo, spensierato, comprensivo
dei problemi altrui, ma alla fine del turno, tolta la divisa e rinchiusa
nel piccolo armadietto, non portavo a casa nessun problema lavorativo. Le
profonde emozioni che si possono provare in questo tipo di lavoro, alla
fine ti distruggono se non sei capace di mettere un freno all'emotività.
Questo spesso porta a un processo disumanizzante, dove molti svolgono
l'attività meccanicamente come se fosse una cosa normale vivere una
disgrazia o un dolore. Sì certo fa parte della vita, ma credo che le
figure come quella che rivesto, intrecciate quotidianamente con la salute
delle persone, debbano avere molto più cuore che mente. La tecnica a un
certo punto si ferma, è asettica, ha il fine a se stesso, ciò che guarisce
è il sapiente uso del cuore. Nei confronti di Vissia mi sono lasciato
travolgere dalle emozioni e questo ha annebbiato inizialmente la mia parte
di lucidità, una lucidità sconsiderata.
<<Vieni in ospedale, diamo
un’occhiata con l'ecografo, che vuoi che sia.>>
<<Questa cosa mi preoccupa, non mi
aveva mai dato fastidio in questo modo, sento che pulsa, è una cosa dura
come la pietra.>> Spazientito mi alzai dalla poltrona tralasciando il
libro, costatai effettivamente che era vero, non era la solita "pallina"
morbida e sfuggente di qualche mese fa, era duro, irregolare e
preoccupante. Ho imparato a nascondere determinate emozioni, l'ultima cosa
che una persona vuol sentirsi dire è qualcosa di spiacevole, nel mio
lavoro determinate informazioni, spettano al medico, seguiamo un
protocollo di privacy e di etica, con Vissia non sono stato sincero e
tanto meno lo sono stato col mio cuore. Avevo paura e la paura la leggevo
profondamente nei suoi occhi, poi l'atmosfera di casa cambiò, in altre
parole, cambiai argomento dirottando la conversazione sul tempo, sulla
nostra gatta che aveva disfatto per l'ennesima volta l'albero di Natale.
Era proprio una bella casa la nostra, un bilocale a piano terra,
circondata dal giardino. I vicini erano cordiali, la zona tranquilla e noi
l'avevamo arredata come uno di quei negozi di antiquariato, dove ogni
angolo del locale è pieno di chincaglierie: candele, foto, quadri,
raccolte di minerali, una decorazione fatta con delle pigne raccolte nel
bosco, il tappo di spumante della prima bottiglia stappata in quella casa
e tutti gli oggetti che nel rivederli ci riportavano a una data ben
precisa. Poche persone l'hanno vista, eravamo gelosi del nostro angolo di
pace, io avevo molto più tempo da passare in casa, lei lavora a tempo
pieno in ufficio, mattino e pomeriggio. Questo faceva di me la casalinga
ufficiale, anche se le sue lamentele spesso mi ricordavano che la mia
indole maschile, amante di quello strato di polvere che si depone sui
mobili, non sempre si sposava col ruolo che mi ero accaparrato. Passavo
molto tempo in solitudine e questo non mi dispiaceva, quindi continuavo a
leggere, scrivere, pensare, dubitare e tormentarmi l'esistenza con
congetture e teorie, una vita semplice, placida, filantropa, come il fiume
che scorre in pianura. Avevamo un matrimonio da preparare e un sognante
viaggio di nozze, il suo esame rientrava in una routine di piccoli
acciacchi e malanni, un’infiammazione ecco, nulla di che, ho scacciato via
l'idea più brutta a priori, era praticamente impossibile. E venne così il
mio turno di notte in ospedale, era una sera di dicembre, c'erano poche
persone in attesa, spesso l'ambiente è affollato e caotico sia mattino sia
la sera, ma in quel momento tutto era tranquillo. Fortunatamente il
radiologo che doveva eseguire l'ecografia era anche senologo, quindi ne
approfittai fissandole l'appuntamento alle ventuno. Vissia aveva la faccia
tesa, rigida, aveva edificato l'impalcatura dell'attesa sfibrante, conosco
bene la sua faccia di tensione, diventa una sfinge monolitica, immobile e
gli occhi, pare quasi che divengano azzurri e freddi. Nel buio del piccolo
studio, il dottore frugava con la sonda cosparsa di gel sul seno di Vissia,
dirigendosi direttamente sul punto interessato e devo asserire, in quel
preciso momento il rigonfiamento era vistoso e solido al tatto. Quello che
apparve nell'immagine fu qualcosa che almeno un infermiere deve saper
riconoscere, i punti neri sono zone vuote, ma le conformazioni bianche e
più dense del tessuto circostante riportano a qualcosa di organizzato e
anomalo. Serrai i denti nel vedere l'immagine, lei mi guardava, sapevo che
cercava il mio sguardo ma non la guardai, rimasi fisso con gli occhi sul
monitor e insieme al dottore, in silenzio, guardavamo increduli l'immagine
lattescente che cambiava continuamente forma, posso dire ora che
assomigliava a una piccola medusa. Quando attivò la funzione doppler
dell'apparecchio, per misurare la presenza di un flusso sanguigno, notammo
che quell'addensamento enorme, era anche vascolarizzato. Sentii
immediatamente i battiti accelerare, guardai Vissia che intuì la mia
preoccupazione, in quel momento nella testa balenò una sola parola,
cancro.
Il dottore si schiarì la voce, era
imbarazzato e anche lui basito, esiste una solidarietà tra colleghi, una
familiarità in effetti, passiamo buona parte della nostra vita a lavoro,
stringiamo a volte dei legami fortissimi che diventano amicizie di una
vita. Sfido chiunque che non abbia mai confidato a un suo collega i
problemi familiari, le gioie, i dolori della vita, tanti piccoli
confidenti, antipatici o simpatici che siano, loro sono le nostre valvole
di sfogo, sono tutti complici e partecipi delle vite altrui. Evidentemente
il mio collega ha avuto un colpo al cuore, misurò le dimensioni di quella
cosa che ci ha fatto palpitare, era un problema grande 3,5 centimetri, un
grosso problema.
<<Non sono cisti benigne,
quest'ultime si trovano qui.>> Il dottore aveva girato lo schermo per
mostrare l'immagine a mia moglie che singhiozzava e mi stringeva la mano,
non riuscì a dir nulla, guardava quell'immagine come una condanna a morte.
Il dottore si voltò lievemente verso
di me <<Fabio questo deve farlo controllare assolutamente, non voglio
affrettare i giudizi ma bisogna fare una biopsia del tessuto in urgenza.>>
Io annuii capendo al volo e come se ci fossimo letti nel pensiero io e il
dottore iniziammo a stemperare un po' l'atmosfera, prima che l'emozione di
Vissia divenisse incontrollabile. L'unico che si doveva controllare ero
io, abbracciai mia moglie, lei piangeva a dirotto, mi stringeva e
soffocava il suo pianto sul mio petto, con le lacrime parlava, chiedeva
aiuto, gridava e implorava che tutto quella faccenda fosse stata un grande
errore. Uscimmo dalla stanza e nel corridoio i colleghi che camminavano a
passo svelto, incrociavano lo sguardo mio e di Vissia, rallentavano e ci
guardavano con aria stupita e preoccupata, anche loro colpiti dal senso
comune delle emozioni. Era un luogo estraneo, avrei voluto portare Vissia
via con me, lontano da lì, ma non potevo, ero al lavoro. Camminavamo per
il corridoio e qualcuno ci confortava, ma camminavamo sotto la neve solo
io e lei, provavo la stessa sensazione di quando la lasciai per la prima
volta, l'universo intero stava per esplodermi dentro, continuava a
balenare la parola “cancro”.
<<Oh Dio Fabio, non è
possibile...non ci credo...>> Non dissi nulla, non una parola, parlava il
mio silenzio in quel momento. Fu fatto tutto alla svelta, la stampa
dell'ecografia, la richiesta per una biopsia in giorno dopo <<Tranquilla
amore, potrebbe essere anche un grosso nodulo infiammato, va soltanto
tolto.>> Riuscii a dire solo queste banali parole prima di lasciarla
andare a casa. La accompagnai all'automobile, lei se ne tornava a casa da
sola, nel nostro luogo segreto che non aveva visto nessuno. Adesso credo
che in quel momento non era sola, ma in compagnia della paura e quando
questa signora si siede accanto a te, silenziosa e scrutatrice, è capace
di non lasciarti solo neanche per un istante. Tornai in ospedale,
postazione di triage, seduto dietro una scrivania, svuotato, smembrato.
Era come in quei film di guerra che quando scoppia una bomba accanto al
protagonista, tutti i suoni divengono ovattati e le scene si svolgono a
rallentatore, così mi sentivo io, frastornato, era esplosa una granata
nella nostra vita. Chiusi gli occhi e raccolsi il viso tra le mani ma non
vedevo il buio, c'era un vortice ciclopico che mi risucchiava e dentro il
vortice stesso vedevo scene di una vita intera fino a quel momento, e ora
riuscivo a vedere quella cosa, l'immagine lattescente sull'orlo del
computer non andava via dalla mente e ancora quella parola, cancro.
Insieme per sempre.
Ho passato un'infanzia solitaria,
non perché non avessi avuto amici, ma per il semplice fatto che adoravo
stare solo e spesso inventavo le mie storie, le mie avventure, la realtà
cambiava aspetto e vivevo nel regno di fantasia appena creato, spesso ho
giocato all'ultimo uomo sulla Terra. Immaginavo che tutti erano morti ed
io giravo indisturbato ovunque volessi, senza chiedere permesso a nessuno
per fare o non fare una determinata cosa. "Che bello se morissero
tutti" dicevo disteso sul prato a guardar le nuvole, da grande quel
gioco ha assunto i connotati reali di una malattia e il regno fantastico è
diventato un regno di paura e orrore, sarebbe stato la fine per me se
qualcuno a me caro si fosse ammalato. Pensieri, semplici pensieri di un
ego affannato dalla vita quotidiana, con la semplice differenza che il
regno di fantasia cercava di farsi spazio dentro di me, sembrava che il
destino volesse giocare ancora all'ultimo uomo sulla Terra, per me Vissia
era ed è ancora il mondo, immaginare una Terra senza di lei, significa
restare solo. Cercavo di convincermi e di convincere lei che tutto si
sarebbe risolto per il meglio, ma Vissia era cambiata, avevo notato in
passato quel suo comportamento arrogante di sfida, pronta sul piede di
guerra contro il mondo e involontariamente contro di me. Quando chiamai i
miei genitori che vivono a Procida, cercai come sempre di stemperare la
situazione, cauti, entrambi eravamo cauti, anche i genitori di Vissia,
cercarono di mantenere la calma, tutto apparentemente era sotto controllo,
la situazione doveva essere obbligatoriamente normale. Un altro controllo,
altre analisi, dobbiamo calmarci, essere cauti e respirare a fondo, il
fiume sotterraneo delle emozioni cercava un punto dove zampillare fuori
dal terreno della calma apparente, la biopsia era l'esame fondamentale.
<<Stia tranquilla signora, le faccio
prima un po' di anestesia, poi inserirò questa cannula per prelevare del
tessuto da analizzare.>> Semplice come bere un bicchier d'acqua, Vissia
per la seconda volta era a seno nudo davanti a molteplici occhi puntati su
di lei, occhi che sorridevano timidamente, un sorriso tirato, quasi da
protocollo. Anch’io avevo imparato quel sorriso, il sorriso da etichetta
di noi sanitari, chi è passato in prima persona sa a cosa mi riferisco.
Lei era diventata irrispettosa, a mio giudizio sgarbata, ma chi sono io
per dare questo giudizio? Sì, il suo compagno di vita, ma il dolore e la
paura che in quel momento stava provando io non potevo nemmeno sfiorarlo,
la sua paura era come l'impalpabile cenere di un fuoco spento, appena
tangibile ma presente <<Mi raccomando dottore non mi faccia male, ho paura
degli aghi.>> disse Vissia tra le lacrime, in effetti non era un ago, ma
un vero e proprio chiodo lungo dieci centimetri circa. Vedendolo pensai a
qualche sera prima, quando costatai la consistenza del nodulo e il dolore
che provava alla pressione, sì, avrebbe sentito dolore, non poco. Il
dottore serio e teso infilò senza esitare la cannula nel nodulo, Vissia
gemette e mi strinse forte la mano, implorava aiuto, mi parlava ancora una
volta solo con gli occhi, mi leggeva nell'anima "portami via da qui",
io avevo il battito accelerato, sotto il maglione di lana sudavo
copiosamente e la fronte si ricoprì di perline, mi sentivo debole, ecco le
vertigini, da lì a poco sarei svenuto. Mi divincolai dalla stretta della
mano di Vissia, smisi di preoccuparmi di lei e come se lo studio fosse la
mia residenza abituale, cominciai a girare intorno al lettino di visita
<<Prendo un po' di carta, dopo ti toglierai il gel appiccicoso.>> Espirai
a bocca aperta guardando in aria, le infermiere lì presenti si accorsero
del malore e mi davano un'occhiata di tanto in tanto. Stavo meglio,
dimostrai a me stesso che avevo la forza per fermare il treno in corsa
delle emozioni, pregai, pregai affinché tutto fosse finito alla svelta.
Vissia continuava a piangere, il trucco le colava sulle guance mentre
lasciava fare alle infermiere la medicazione. Salutammo il dottore e
uscimmo in silenzio, non ci guardammo in faccia, in auto si lamentava per
il dolore, le pulsava, le faceva male, arrivati a casa l'aria pesante
della tensione si sciolse in un profondo pianto liberatorio. Ce ne stavamo
seduti sul divano, Vissia accoccolata tra le mie braccia, raccolta e
indifesa, io in silenzio con gli occhi asciutti guardavo il vuoto, il mio
battito regolare, il respiro profondo, ero stranamente calmo. In quel
momento sentii qualcosa al petto, come un'apertura, capivo che io e lei
eravamo destinati a vivere insieme, non era più una questione di
attrazione ma c'era qualcosa di profondo e indefinibile, vasto come
l'oceano, io avevo ed ho ancora la certezza di aver scelto colei che mi
avrebbe riscattato, ed io l'avrei sorretta e amata per tutta la vita.
L'incantesimo infranto.
Nei momenti nefasti della vita di
una persona, emergono dalle profondità dal dimenticatoio sociale i famosi
amici. Un esercito di amici, ovviamente nulla togliendo alle intenzioni
dettate dal cuore certo, ecco tutti che si muovono all'unisono per
confortarti, come tanti anticorpi si scagliano contro di te a migliaia, in
quei giorni di attesa il suo cellulare ha squillato incessantemente, tutti
si sentono vicini, avrò letto e ascoltato decine di volte le frasi "se
hai bisogno, chiedimi qualsiasi cosa", "credimi vi ho nel cuore entrambi",
"io ci sono ok? Mi raccomando chiama, io ci sono mattina e sera".
Il mio giudizio a riguardo? Siamo tutti degli
ipocriti, me compreso, siamo tutti dei prodotti confezionati dalla società
con una bella etichetta conforme alle regole. Sentiamo l'obbligo morale di
congratularci, di augurare gioia e fortuna, di porgere le condoglianze,
sono proforma perché così vuole l'etichetta sociale. Nessuno agisce in
questi frangenti in malafede, ma non sentiamo quello che diciamo, è un
percorso automatico della nostra mente "eccì! Salute!" ecco il
classico esempio, a noi non interessa la salute della persona che ha
starnutito, ma così si dice e così si fa. Avevamo intorno a noi tante
persone, questo tranquillizzava Vissia per il momento, anche se l'onda più
dura doveva ancora abbattersi su di noi.
Esiste una banca conosciuta in tutto
il mondo, famosa a ricchi e poveri, probabilmente la più antica, nata
prima della moneta che tratta cambi e operazioni complesse, è la banca dei
favori. Ovviamente va usata nel limite della legalità, chiunque abbia un
minimo di potere o di conoscenza, lo mette a disposizione della banca dei
favori come titolo creditizio, il titolo è venduto a chi ne ha bisogno e
così si crea un debito, che è colmato con un altro favore. L'individuo che
si è presentato all'ufficio di mia moglie era un tecnico di microbiologia
dell'ospedale, tramite la banca dei favori riuscimmo a farci un’idea,
un'idea sconvolgente "signora io non posso dirle il risultato
dell'esame, ma le auguro davvero tanta fortuna". Un tiro basso, forse
inconsciamente l'uomo ha agito con cuore, ma questo ha generato un
terremoto in quella giornata nuvolosa. Ero a casa squillò il telefono,
all'apparecchio c'era Vissia con voce rotta dal pianto <<Oh dio Fabio,
vieni qua ti prego.>> Mi spiegò quello che era successo e mi precipitai
subito nel suo ufficio. Per la prima volta visitai il suo posto di lavoro
tanto odiato, c'era lei seduta alla scrivania in lacrime, una collega la
consolava, mi abbracciò continuando a piangere, in silenzio le misi il
cappotto e andammo via da quella scena surreale.
“Carcinoma duttale infiltrante al
terzo stadio”, bastava solo questa frase tra i tanti numeri e sigle per
capire che la situazione era peggiore del previsto, ed ecco che esplose
quel fiume sotterraneo di emozioni, trovò una linea di faglia attraverso
la rigidità della persona per erigersi potente come un geyser nell'aria.
Non potrò dimenticare la scena, Vissia seduta sul divano, le mani raccolte
sulla pancia e chiara in avanti urlava, urlava di dolore e piangeva. Era
un urlo straziante, mi lacerava dentro, era incontenibile, ebbi paura
persino ad avvicinarmi, orrore allo stato puro, intuivo nella sua persona
la paura della morte, la fine imminente dell'esistenza, l'inevitabilità.
Tutto era irreale, l'albero di natale luccicava, il gatto ci guardava con
aria interrogativa, sotto l'albero cesti e pacchi decorati con colori
sgargianti, divenne tutto cupo, grottesco e nauseabondo. Vissia mi
trasmise la paura e come un ariete sfondò la corazza dietro la quale mi
ero nascosto, m’inginocchiai davanti a lei e piansi, piansi lasciando
sciogliere i ghiacciai delle emozioni <<Fabio non voglio morire! Non
voglio morire!>> continuava a ripetere ad alta voce queste parole, la
distesi sul divano, sentiva freddo, tremava in preda al panico. Tante
volte a lavoro capita di trattare pazienti in preda al panico, bisogna
calmare i loro tremori convulsi, l'iperventilazione, le mani raccolte a
uncino come preda di una paralisi tetanica. Spesso mi domandavo come può
una persona giungere a una cosa simile, che emozione tremenda poteva aver
sviluppato un disturbo di tale portata. Un pensiero che scivolava accanto
senza toccarmi, un malato mentale da curare, niente di più. Mi resi conto
che tutti noi siamo in bilico tra l'ordinario e il follemente
straordinario, tutti potenziali pazzi, sul baratro degli attacchi di
panico, nessuno di noi è esente dal trattamento della paura, cercavo di
calmarla, ma tremava, forte, sempre più. <<Hey, se non ti calmi dovrò
darti del valium, così non si risolve nulla.>> Mi sedetti sul divano, le
feci poggiare la testa sulle mie gambe <<Respira con me, con calma, ti
prego respira insieme con me.>> Era l'unica cosa che potevo fare, il
controllo del respiro funziona sempre questo tipo di problemi, misi le mie
mani sulla pancia e sul petto di Vissia, all'unisono respirammo a fondo,
lei chiuse gli occhi iniziando a rilassarsi, ma io in silenzio piangevo,
all'improvviso tutto divenne fragile, etereo tremendamente lontano. Il suo
corpo il suo respiro, la paura del cancro, tutto divenne infinitamente
minuscolo fino ad affondare nel mio cuore, nell'abisso del dimenticatoio.
Come un proiettile di cristallo che si conficca in fronte, si conficcò un
pensiero preciso, l'amore è la forza più potente sulla Terra più della
gravità, che il destino di noi tutti è strettamente intrecciato non a caso
con le persone che incontriamo sulla nostra vita. Vissia aveva bisogno di
amore per guarire, per affrontare tutto quello che di lì a poco avrebbe
dovuto attraversare, ed io, attraverso lei, stavo imparando la lezione più
importante della mia vita, quella che non trovi nei libri di nessun
genere, nei film, negli scienziati e santoni, nessuna religione o credo
può afferrare l'infinito amore che ti sveglia come un terremoto dicendoti
<<Tu sei vivo, tu vivi questa vita per lei.>> Tutto appare semplice,
cristallino, definito, netto e allo stesso tempo universale e congiunto,
quello che avevo dentro e che nutrivo in quel momento è difficile da
spiegare ora, ma solo attraverso quel fotogramma di tempo sigillato, ho
smesso di aver paura della vita e ovviamente questo lo avrei dovuto
insegnarlo a Vissia.
Lo show delle marionette.
I giorni passarono in fretta, tra
lunghi silenzi, speranze, l'aria tesa che si respirava in famiglia e
ovviamente al lavoro, rendevano tutto ovattato. Un sogno, degli automi che
camminano nel sogno, questo eravamo diventati. Alla banca dei favori
chiesi il prestito più alto, bisognava fare in fretta, tracciare la
strategia e per questo mi appellai alla mia professione. Abbandonammo quei
rituali serali di rilassamento e pace, la nostra vita stava per
stravolgersi, il piccolo bilocale, silenzioso e pieno di oggetti deliziosi
stava per essere abbandonato, il matrimonio annullato, tutti i preparativi
minuziosi annullati. Sul computer avevamo una piccola cartella con spese,
invitati, fotografie di arredi, partecipazioni, un tempo ero nauseato da
quelle sciocchezze effimere, ora tutto acquistava importanza, anche la
polvere sui mobili, tutto era prezioso, utile, particolare, raro. Non
aveva più senso sfogliare gli annunci di appartamenti, le ricerche di
banca in banca per un mutuo sulla prima casa, buttai la pila di cataloghi
sul Messico, la cartina cui avevo dedicato ore per calcolate l'itinerario
di viaggio, quali tecniche fotografiche avrei utilizzato per catturare
degli scatti d'autore "prima che il 21 dicembre 2012 finisca il mondo,
dobbiamo vedere il Messico e le piramidi maya" scherzavamo così,
immaginando l'avventura, il mondo ruotava nella sua meccanica celeste, io
e lei eravamo il centro e tutto ruotava intorno a noi. Vissia dovette ben
presto fare i conti con punture e prelievi, nel giro di venti giorni
furono iniettate nel suo corpo sostanze radioattive per esami diagnostici.
Esami, esami, ancora esami del sangue, consulenze, le telefonate dei
vicini di casa “anche mio marito ha avuto il cancro, prendi questo
numero, chiama tizio e caio, vai in tal posto che sono davvero bravi.”
A volte la gente si trasforma in venditori ambulanti, ognuno di loro ha un
rimedio, ha qualcosa da darti, neanche avessero in tasca i segreti
dell'universo, fatto sta che la rubrica telefonica del mio cellulare e di
Vissia in quel periodo era pieno zeppo di numeri senza nome, dottori,
amici di amici, parenti e gente resuscitata da chissà quale oltretomba
della compassione. Io dovetti ben presto fare i conti con la nausea,
l’inappetenza e i chili che se ne andavano via uno dopo l’altro. Ogni
volta che facevo e che faccio ancora un prelievo del sangue a mia moglie è
un tormento, tachicardia, sudorazione, tensione, è come se stessi portando
in bilico sulla testa un vaso di cristallo mentre corro in motocicletta,
delicatezza, lei è l’espressione di ciò di più delicato che abbia al
mondo. Ricordo che alla sua prima Tac all’addome ho rischiato di svenire,
sono scappato via come un ladro in bagno, mi sono disteso sul pavimento
sudicio e con le gambe appoggiate al muro. Non aveva importanza l'enorme
carico di emozioni, io gioivo perché in Vissia stava nascendo qualcosa di
molto importante, la forza, la determinazione che moltiplica le sue forze
rendendola inflessibile. Restavo spesso in disparte a guardarla, ad
ammirarla, nonostante gli sforzi e le sofferenze lei andava avanti e
trascinava anche me. <<Tu mi dai la forza di andare avanti, se non avessi
te sarei già persa.>> Questo mi ripeteva spesso tra le lacrime, ma in quel
momento capivo quanto fragile possa essere un uomo, noi ammiriamo le
persone, alcune di esse diventano modelli esemplari, ma anche il nostro
eroe alla fine è fatto di carne, sangue e pensieri. Le nostre vite sono
piene di tabù “gli uomini non piangono, non si lamentano non soffrono,
stanno in silenzio con onore e rigano dritto.” Non è vero, tutti gli
esseri umani, e tutti gli esseri su questa terra soffrono, chi in
silenzio, chi ad alta voce e chi magari lo fa arrecando danni al prossimo,
ma tutti soffriamo, non esistono gli eroi, ma solo persone normali che
compiono gesta eccezionali in momenti del tutto straordinari. Pensieri,
torbidi e oscuri, il mese di gennaio è stato il “mese nero”, freddo,
piovoso e con tante cose da fare. Abbiamo inscatolato i nostri sogni con
tutti i soprammobili di casa, eravamo in trasloco, chiudevo quelle scatole
guardando con tristezza i ricordi materializzatisi in quei piccoli
oggetti, come navi che salpano dal porto della memoria per andare via
lontano. E’ strano come la vita di una persona possa riassumersi in
quattro scatoloni, sembra quasi che per tutta una vita abbia accumulato
chissà quali tesori e invece, tutto si riassume in qualche scatola. In
quel periodo parlavamo poco, ognuno di noi temeva di ferire o angosciare
l’altro, mi sono sforzato nel controllo di me stesso, quando finivano le
consulenze, iniziavano i periodi muti tra le mura domestiche, solo il
movimento sincrono degli orologi riusciva a rompere il torpore invernale.
Alla fine di dicembre ci siamo trasferiti a casa dei genitori di Vissia,
l’accoglienza è stata calorosa, ho preferito che qualcuno potesse badare a
lei quando io ero a lavoro. Arrivarono così le feste natalizie, i miei
genitori erano venuti a trovarci da Napoli, è stato un Natale teso ma
unito, dove i regali che ci siamo scambiati sono stati belli e semplici,
la sera io e Vissia dormivamo abbracciati, insieme pregavamo ed io le
insegnavo esercizi di rilassamento, la quiete, cercavamo solo quiete.
<<Secondo me un oncologo che non
prescrive la chemioterapia, dovrebbe essere indagato e messo in galera.>>
Lo sguardo arcigno del luminare in oncologia che si trovava dall’altra
parte della scrivania ci fece rabbrividire <<E aggiungo che in queste
circostanze, vanno fatti tutti i farmaci che abbiamo in nostro possesso
per avere una speranza di sopravvivenza, non mettetevi idee strane in
testa, questa è l’unica strada.>>
E’ stata l’ultima goccia che ha
fatto traboccare il vaso, da gennaio abbiamo iniziato il giro degli
oncologi e dei chirurghi, non passava un giorno settimanale senza che il
seno di mia Vissia fosse palpato, disegnato con pennarelli e discusso con
altri medici come se quello fosse solo un semplice mobile da restaurare. E
così arrivò il giorno in cui ci presentammo davanti ad una “commissione”,
se così la possiamo definire. Il chirurgo che si occupò del caso, ci aveva
detto di andare presso la clinica per fare un briefing con il team
oncologico, che belle parole, sembrava di assistere a una pantomima
americana dove c’erano sei camici bianchi seduti dietro questo enorme
tavolone. Io, Vissia e suo padre stavamo dall’altra parte del tavolo come
alunni all’esame di stato. Nessun briefing, parlavano tra di loro,
chiacchieravano con i loro bei termini scientifici, lasciandoci nella
totale oscurità di quello che stava accadendo. Vissia in quel momento era
una pentola a pressione pronta a esplodere e infatti esplose <<Ma si può
sapere qualcosa di quello che state dicendo? Siamo venuti qua per sapere
cosa bisogna fare con questo tumore.>> I signori medici si ricomposero e
prese parola l’arcigno oncologo con il viso da furetto <<Bisogna
cominciare dalla settimana prossima con la terapia neo-adiuvante per
ridurre la massa tumorale e poi tra sei mesi, se il tumore s’è ridotto,
possiamo operarla, in seguito lei dovrà fare altri otto mesi di
chemioterapia, è probabile anche che non possa avere più figli.>> Bravo!
Bravo! Applausi signori! Che recitazione! Vissia scoppiò in lacrime, suo
padre rimase muto più del solito ed io in quel momento incamerai il colpo,
cercavo in quei volti qualcuno che potesse dirmi altro, qualcuno che
magari dicesse “oppure possiamo fare in quest'altro modo.” No!
Tutti annuivano, come se il medico avesse letto il vangelo in quel preciso
momento. Una giovane psicologa lì presente prese parola con la sua
compassione professionale, l'ho vista più di qualche volta
quell'espressione menefreghista che cambia appena il paziente esce dalla
stanza <<Ti capisco...non ti preoccupare abbiamo un bel gruppo di donne
che fanno la chemioterapia, potranno esserti di supporto quando andranno
via i capelli.>> Vissia sprofondava sempre più nel baratro della
disperazione, raccogliendo le lacrime tra le mani, io annuivo, ma in cuor
mio odiavo quella psicologa profondamente, intervenne per ultimo il
chirurgo capo dell'equipe, un anziano pensionato che dopo aver operato per
una vita intera e giunto alla pensione, ha preferito continuare a operare
presso una clinica privata, forse perché quella era la sua missione o
forse perché non aveva altra vita all'infuori dell'ospedale. L'uomo
sorrise <<Coraggio cara, non si preoccupi, anzi le dico che una volta ho
operato una ragazza della sua età che si chiamava quasi come lei, Viska,
ma era un po' stramba non ha voluto fare la chemioterapia, ma ora sta
bene.>> Avevo sentito abbastanza, era come star davanti al televisore in
una serata da olimpiadi della noia, ti ritrovi inebetito cambiando in
continuazione canale, perché ovunque sintonizzi l’apparecchio c'è lo
stesso schifo.
Il furetto, così l'ho chiamato, era
già partito spedito, come se noi avessimo accettato per tacito consenso.
Ci congedammo con la frase classica “dobbiamo pensarci.” In auto
regnava il silenzio, non una parola per tutto il viaggio di ritorno,
l'inverno sferzava l'autostrada. Dalla radio il mondo continuava a
scorrere ignaro di una tragedia personale, pensavo a quante migliaia di
persone nel mondo stessero soffrendo per una malattia, pazzia, solitudine,
abusi, maltrattamenti, ferite di guerra, e noi eravamo l'ennesima
famiglia, che in quel momento era entrata nella vasta macchina articolata
dalle ruote dentate di medicina, chirurgia, psicologia, speranza, amore,
odio, rabbia e morte.
Il coraggio di parlare.
Le forchette e i piatti all'unisono
si organizzarono in un concerto monotono, nessuno parlava a tavola,
guardavamo la tv con sguardi vacui, poi mi decisi e ruppi il silenzio <<Io
non voglio vederti ridotta a un mucchio di ossa in un letto, ne ho visti
abbastanza di uomini e donne che nella speranza di guarire, hanno offerto
le loro vene per una terapia che li ha portati alla morte, preferisco che
tu muoia sotto un treno.>> I genitori di Vissia si guardarono in viso,
avevo trovato il coraggio di dire quello che pensavo e non m'importava se
a lei in quel momento facesse male, ma andava detto, perché lei se lo
aspettava. <<Dimmi allora cosa devo fare, aiutami.>> Una sola parola
chiara, aiuto, aveva bisogno di me, aveva bisogno di quella parte di cuore
che ci rende unici e indissolubili, lei stava pagando l'alto tributo ed
io, sarei diventato povero se fosse servito a qualcosa. La lista
settimanale degli appuntamenti era fitta, approdammo all'ennesima
scrivania, questa volta consigliata dai vicini di casa. Un uomo quieto,
dalle mani lunghe e affusolate, un chirurgo alla fine della sua carriera
che come molti altri continua imperterrito il suo lavoro. Una palpatina
qui, un'altra lì, due domandine, una sbirciatina agli esami, e la solita
risposta accademica del team precedente: neo-adiuvante, otto mesi di
chemioterapia e poi si sarebbero tirati i dadi. <<Dia questo alla mia
segretaria all'uscita.>> Ci disse porgendoci un foglietto di carta senza
neanche guardarci in viso, quel foglietto costava 250 euro. Cambio di
stanza, cambio di scrivania, ci trovammo davanti al furetto, caso volle
che nella stessa giornata e nella stessa clinica si trovasse l'ultimo
chirurgo consultato e l'ostico oncologo. <<Dottore, vorremmo sapere se la
terapia neo-adiuvante è davvero in grado di ridurre o far scomparire il
tumore, ecco sul piatto della bilancia vorremmo vedere i rischi e i
risultati, otto mesi di chemioterapia credo che devasteranno la mia
fidanzata.>>
<<Allora non ci siamo capiti, non
c'è alcuna sicurezza di guarigione con qualsiasi terapia, la neo-adiuvante
è una procedura che potrebbe permette di avere una riduzione della massa
tumorale per avere un impatto meno visivo dell'intervento.>> Avevo capito
bene? Potrebbe? Tutto questo carosello per fare di Vissia una cavia?
<<Quindi lei mi sta dicendo che
questa chemioterapia pre intervento potrebbe anche essere inutile.>>
<<I dati della sperimentazione ci
fanno sperare che ci potrebbe essere una riduzione della massa.>>
<<Quindi preferite provare a rischio
e pericolo dell'organismo?>> Dissi io inorridito, quella discussione mi
stava portando a osservare i due fronti diametralmente opposti, da una
parte gli occhi di Vissia che mi supplicavano affinché fosse trovata la
strada giusta, e dall'altra gli occhi clinici, dell'oncologo. Mentre
parlava snocciolando dati e statistiche smisi di ascoltarlo, immaginavo
lui seduto e annoiato su una poltrona mentre ascoltava un convegno
nazionale d'oncologia, dove è studiata a tavolino da un gruppo di vecchi
luminari la strategia migliore, tanto che fa, un mese in più un mese in
meno di chemioterapia, patate, cipolle, è sempre verdura. Parlano di
sopravvivenza a cinque anni, non importa a nessuno se i farmaci
devasteranno o no l'organismo, tanto è un rischio che va calcolato, come
gli effetti collaterali delle moderne guerre, dove qualche aereo può
bombardare per sbaglio dei civili, tanto che fa? Rientra nella percentuale
di rischio! <<Dottore se lei avesse una persona cara in queste
condizioni...>> Il dottore non fece neanche finire di parlare mia moglie
<<Ma lei pensa che casi del genere non mi stiano a cuore, qui non si
scappa dalla strada che bisogna scegliere ed è la sola, l'unica.>> Ci
congedammo dal nostro boia <<Grazie dottore le faremo sapere fra tre
giorni.>>
Ormai rassegnati ci recammo presso
l'ultima spiaggia, no, non un mago, nessun intruglio, abbandonammo la
strada delle cliniche del tutto, seguimmo il consiglio di una mia cara
collega di lavoro che ha attraversato la stessa strada. Ospedale pubblico,
appuntamento, trafila e colloquio col chirurgo. Dopo aver visto i volti
dei potentati della chirurgia, l'uomo che si presentò alla nostra vista
era semplice nel suo essere. Alto quasi due metri, magro, camicia a
quadri, sorriso benevolo e gli occhi, quelli che vedi nelle persone che
hanno cuore. Solita palpata di seno, qualche domanda, lettura dei dati, la
storia è sempre la stessa <<Signora non pianga.>> disse sorridendo e
stringendo la mano di Vissia, <<A mio giudizio non c'è bisogno di fare la
terapia neo-adiuvante, non ci dà nessuna certezza di riduzione del tumore,
lei è giovane, preferirei la rimozione definitiva della lesione, è
probabile che le tolga solo un pezzetto, una quadrantectomia, poi la
chemioterapia che farà dopo è solo a livello precauzionale. Gli esami che
ha fatto confermano l'assenza di metastasi.>> Sorrideva, la voce flebile e
gentile trasmise a Vissia la calma e la fiducia che cercava nella persona
cui doveva affidare il suo corpo. <<Mi piace, sarà lui a operarmi.>>
Questa è stata la prima frase che mi ha permesso di risollevarmi dal
baratro d’inutilità in cui ero sprofondato, lei stava muovendo il suo
coraggio verso la tempesta in arrivo, stavolta vestiva la corazza della
determinazione. La dose di coraggio fu rinforzata dal colloquio con
l'oncologa, una donna che a mio parere sa il fatto suo, professionalmente
e moralmente. Credo che Vissia l'abbia presa veramente a cuore, giacché
come donna è stata capace di carpire la sua paura principale, non quella
di morire, ma quella di non poter avere figli. Il piano terapeutico
prescritto le ha permesso di vivere normalmente fino a questo momento in
cui scrivo, accanto a me ho sempre la mia dolce canaglia, forte, testarda,
ostinata, insicura, leggera nel suo essere. Viviamo spesso nel nostro
piccolo universo personale di convinzioni, e devo confessare che avevo
negato fin dall'inizio la chemioterapia, ma credo anche di essere stato
abbastanza corretto nei confronti di Vissia. Ho proposto i pro e i contro
della terapia di quest'ultima dottoressa, a mio avviso, sì, potevamo
tentare e così è stato.
<<Buongiorno signorina, chiamo dalla
preospedalizzazione dell'ospedale, l'intervento è fissato per il 27
gennaio.>> Un sussulto nei nostri cuori, ma eravamo felici, se così
possiamo dire, fino a qualche giorno prima brancolavamo nel buio, in
totale balia di burocrati più che medici, e ora eravamo sollevati, era
come uscire dalla coltre di nuvole in alta montagna, in quel momento
riesci a vedere solo il suolo, poi la nebbia si dirada e tutto si
trasforma in vetro argentato, tutto appare chiaro, riprendiamo così il
nostro cammino.
Uniti per sempre.
La mattina era soleggiata, il cielo
terso, classico dell'anticiclone artico, col suo freddo pungente e il sole
che baciava la terra, guardavo lontano il paesaggio mentre l'auto
sfrecciava sull'autostrada di ritorno da Firenze <<Ora possiamo anche
sposarci, abbiamo rinunciato al matrimonio in chiesa, alla cerimonia, al
viaggio di nozze e a tutti i preparativi, ma non rinuncio ad averti come
moglie.>> E così avvenne, nella stessa giornata fissammo l'ampia sala
storica del comune di Pistoia, il fioraio, e le fedi <<Per quando vi
servono?>> disse l'orefice incurante dei nostri sguardi <<Veramente per
venerdì prossimo, poiché ci sposiamo sabato.>> Disse Vissia con
naturalezza, giusto per vedere l'effetto sul piccolo uomo dietro al
bancone. Infatti, sollevò lo sguardo dalla scatola di gioielli, pensava a
uno scherzo, mi era capitato di vedere spesso giovani coppie passare ore e
ore davanti a file di anelli, quello sì, questo no, è fuori moda, troppo
grosso, troppo caro, non s'intona col vestito. É proprio così, rendiamo
difficile e dubbiosa la cosa più facile, l'amore. La fede, ovvero l'anello
che sancisce l'unione di una coppia, s’indossa all'anulare della mano
sinistra, perché c'è la credenza che da lì passi un’arteria che arrivi
direttamente al cuore, visto che l'oro è il metallo che ricorda la purezza
e la spiritualità, essa dovrebbe nutrire il cuore di un amore puro verso
il proprio coniuge. Quante volte abbiamo visto persone anziane indossare
due anelli d'oro, il proprio e quello del coniuge scomparso, credo che
quando qualcuno d’importante nella nostra vita viene a mancare, in questo
caso marito o moglie, quell'anello è l'ultimo simbolo che ci collega a chi
è scomparso. Proprio così, passando per l'arteria dell'anulare che giunge
direttamente al cuore, la persona che li indossa entrambi potrà sentire
che il loro amore esiste ancora, nonostante l'inevitabilità del tempo.
Quella che indosso è una fede classica, semplice, scelta con un sì
congiunto, avevamo fissato e organizzato il matrimonio nel giro di tre
giorni, non c'era nessuna lista d'invitati, nessun viaggio ai confini del
mondo, nessuna villa da addobbare per il ricevimento. Io e Vissia ci siamo
scambiati gli anelli la mattina del 22 gennaio, è arrivata in piazza su
una carrozza trainata da due cavalli bianchi come una principessa. Non
dimenticherò mai i suoi occhi, umidi del pianto, di un verde acceso e
vivo, portava i capelli raccolti con fiori e nastri cremisi. Come avviene
nelle favole mi avvicinai alla carrozza e la feci scendere porgendole la
mano e baciando la sua, aveva un vestito come le viole primaverili, il suo
viso radioso mi parlava ed era felice, era il nostro giorno, iniziava la
nostra vita insieme. Ci siamo goduti quei giorni di pace e serenità, la
casa era piena di fiori, e regali, le persone andavano e venivano con
sorrisi e frasi d'affetto, lei era determinata e sorridente, era ritornata
la belva bionda di un tempo.
Eclisse.
<<Aiutami.>> mi disse Vissia una
sera davanti al piatto fumante di tagliolini, il viso raggiante del
matrimonio aveva fatto posto a quello stanco e gonfio di pianto, i suoi
capelli raccolti ora erano corti e spinosi, aveva preferito tagliarli per
abituarsi prima del tempo nel vedersi senza capelli. Il giorno
dell'intervento si stava avvicinando e tutti noi eravamo in tensione, lei
mi chiedeva aiuto ed io non sapevo cosa rispondere, la stringevo a me con
tutte le mie forze per farle sentire il mio calore, nonostante il mio
silenzio di queste situazioni io le parlavo, io c'ero, ci sono sempre
stato e ancora oggi è così. Decidemmo di concederci anche un piccolo
viaggio di nozze, un fine settimana a Venezia, delle tante fotografie che
ho scattato ne ho una in particolare, di lei che sorride, ed è un sorriso
enigmatico, come quello della Gioconda, ancora oggi non riesco a capire se
sorrideva per amore e serenità di quel momento o per rassegnazione. Spesso
sento dirmi che sono il suo angelo, quando mi guarda dritto negli occhi e
tende quel sorriso mi fa star bene, anche se non riuscirò mai a
decifrarlo, ma riempie l'animo di pace.
Quei giorni passarono, ora la nostra
barca stava per essere risucchiata nella tempesta oceanica, ammainammo le
vele dei sorrisi spensierati, indossammo gli impermeabili della tensione e
dell'ansia e via verso l'ignoto. Dopo interminabili ore di attesa in una
saletta per la preospedalizzazione, Vissia indossò il pigiama e s'infilò a
letto <<Prendi la fede, se dovesse accadere qualcosa...>>
<<Non accadrà nulla, questa fede me
la chiederai appena uscita dalla sala operatoria perché sono un testone, e
me ne sarò già dimenticato di averla in tasca.>> La vidi andar via per il
corridoio su una barella, piangeva e aveva paura, lei piangeva ed io
sorridevo, l'accompagnai col sorriso finche potei, poi mi rinchiusi in
bagno e piansi anch'io seduto sul pavimento contro il muro, qualcuno bussò
ripetutamente imprecando alla porta di quel cesso lurido, pieno zeppo di
annunci sessuali scritti sulle pareti, era il luogo meno indicato per
aprirsi alle emozioni, ma l'importante era stato accompagnarla col
sorriso.
<<Dai non piangere, che vuoi che
sia, sai quante volte l'ho fatto in ospedale.>> Le dicevo mentre la
lavavo. Il suo torace era fasciato, le avevano detto di non muovere il
braccio, a sinistra portava sul dorso della mano una cannula con una
batteria di flebo attaccate tramite raccordi, ovviamente l'igiene intima è
una cosa personale, ma non mi sono nemmeno posto il problema <<Mi dispiace
Fabio, tu non meriti tutto questo...mi dispiace.>> Lo ripeteva spesso,
rimasi due giorni in ospedale accanto a lei, avevo bisogno di una doccia,
di biancheria pulita, ho dormito su una sedia e quando la schiena
reclamava il suo riposo, all'insaputa di Vissia mi stendevo a terra su un
lenzuolo, ma sono rimasto accanto a lei. La guardavo e avevo dentro una
grande tensione, fragile come il cristallo, in quel momento temevo per
qualsiasi cosa, come se da infermiere non sapessi i vari problemi di
routine nella convalescenza post chirurgica, ma era diverso, era mia
moglie, giocherellavo spesso con il nuovo anello d'oro, lucido e liscio,
lo guardavo e ripensavo al giorno del nostro matrimonio, perché l'ho
fatto? Direi che l'ho fatto per amore, compassione, ma in effetti l'ho
fatto perché ho ascoltato il cuore senza indugi, era la cosa più semplice
e ovvia da fare, non c'era nulla su cui riflettere, era così e basta.
Spesso ci troviamo sul filo del rasoio, scegliamo sempre tra il peggio e
il leggermente meno peggio, non siamo mai felici, raramente seguiamo il
cuore. Svolgiamo lavori che non vogliamo fare, con famiglie che non
volevamo e viviamo in appartamenti sub urbani sognando per tutta la vita
una casa in campagna. Questo siamo, degli insoddisfatti cronici. Ci
sforziamo e alla fine, quando ormai l'età ha indurito la corteccia
dell'anima, crediamo di aver vissuto una buona vita di aver fatto le
scelte giuste, votando sempre lo stesso partito, versando regolarmente la
questua in chiesa, e pagando le tasse fino a toglierci il pane da bocca,
perché quella era l'unica cosa giusta che potevamo fare. I nostri occhi
portano il velo della cateratta e questa è l'illusione dell'inevitabilità,
citando Primo Levi nel suo “Se questo è un uomo”, alcune persone prima
della cattura e della deportazione in Germania da parte dei soldati
dell'Asse, abbandonarono le abitazioni, rifugiandosi nei boschi, sui
monti, in scantinati, come topi in fuga. Solo alcuni si consegnarono
spontaneamente alla polizia, per il semplice motivo che lo imponeva la
legge. Seguiamo ciecamente la legge, mentre il cuore grida e ci fa cenno
della sua presenza, ma fingiamo di non vederlo, di non ascoltarlo. La
notte passò silenziosa e tranquilla, io avevo la schiena a pezzi ma quando
i primi raggi di sole illuminarono il viso dormiente di Vissia, allora
sorrisi, perché quella era la mia scelta, la scelta giusta, oltre ogni
aspettativa io ero lì accanto alla persona che c'è sempre stata e ci sarà
sempre. Aveva il torace fasciato stretto, osservai accuratamente il suo
respiro, i seni compressi dalle bende erano simmetrici, il destro
leggermente più piccolo, ma in sostanza non era cambiato nulla, gioii io
per Vissia, immaginandola allo specchio e piangere di gioia alla vista dei
suoi due piccoli seni perfetti. <<Buongiorno amore.>> Mi disse con la voce
roca <<Buongiorno, hai dormito bene?>> Le accarezzai i suoi capelli corti
baciandola sulla bocca, aveva il sapore di medicinale, ma era la sua dolce
bocca. <<Tu invece non hai dormito bene, mi dispiace ancora per stanotte
quando mi hai accompagnata in bagno...>>
<<Shhhhh, già sei sveglia e già
rompi le scatole.>> Ridemmo insieme, poi le consegnai la fede e la rimisi
alla sua mano, la giornata era bella e piena di sole, in quel momento io e
lei navigavamo a vele spiegate, la tempesta era passata, il mare era
ritornato calmo.
Una doccia fredda.
<<Ho i risultati dei linfonodi
sentinella che sono stati prelevati durante l'intervento, ci vederemo
domani mattina qui in ospedale.>> Il gigante buono, ovvero l'altissimo
chirurgo dal sorriso solare che aveva operato Vissia, ci richiamò per i
risultati dei linfonodi ascellari. I giorni di convalescenza erano passati
noiosi e a volte tesi. Vissia è la classica persona che fa tutto da sé,
riesce a gestire il dolore e la sofferenza in un modo incredibile, le
raccomandarono di non fare sforzi col braccio destro, io le cambiavo
quotidianamente le medicazioni e spesso la riprendevo come si fa con i
bambini piccini <<Ma che stai facendo?>> Tutti i vestiti dell'armadio
erano disposti in pile sulla scrivania, sedie e poltrone. <<Metto in
ordine l'armadio, guarda che casino.>> Chi ha vissuto almeno un trasloco
nella sua vita, sa che è una vera tortura, fino ad ora ho dovuto
affrontare tre traslochi, a ogni cambio di abitazione aumentavano le
scatole, poi si aggiunse una poltrona, due scrivanie e una marea di
cianfrusaglie ornamentali, infatti nell'ultimo trasloco dalla nostra
abitazione a quella dei suoi genitori c'era il tocco femminile e questo
significava decine di scatole in più. Cosa ti hanno raccomandato i medici?
Ma non riesci a star ferma un attimo? Leggi, ci sono tanti libri, guarda
la televisione, ma non fare le pulizie di primavera!>> Alla fine di ogni
giornata le massaggiavo il braccio, Vissia eseguiva quotidianamente gli
esercizi per riacquistare la motilità dell'arto e per questo posso
ringraziare la sua mente selettiva e ben organizzata. Ho sempre avuto la
testa tra le nuvole, un sognatore ecco, lei riesce a farmi stare ancorato
al suolo, bisogna guardare la realtà prima di sognare, in effetti aveva
trasformato la sua malattia come l'attività d'ufficio che svolgeva
quotidianamente. C'erano appunti, raccoglitori, cartelline organizzate per
data e importanza di esami, agenda di appuntamenti, calcoli mensili per le
chemioterapie, tutto in ordine e catalogato. Se fossi stato nei suoi
panni, mi sarei ritrovato a passeggio nei boschi in cerca del senso della
vita, avrei lasciato i documenti buttati sulla scrivania, come qualcosa di
gretto e inutile, tanto a chi interessano quei quattro fogli. In lei come
allora anche oggi c'è la voglia di guarire, di vivere, di credere, e
questo desiderio è potente in ognuno di noi, quadruplica le nostre forze
rendendole visibili nei piccoli gesti quotidiani. Vissia stava sbocciando
di nuovo, passata la fase tetra del dubbio sulla propria esistenza, si era
armata di tutto punto per combattere la propria battaglia per la vita. La
telefonata del chirurgo non ci fece presagire niente di buono e infatti
quello che ci disse fu come una doccia fredda <<Come vi ho detto.>>
Rivolgendosi a entrambi <<I linfonodi che abbiamo prelevato sono stati
marcati con un liquido radioattivo, e questi campioni servono per vedere
se il tumore ha colonizzato altri distretti con delle metastasi. Nell'area
circostante la lesione, il tessuto è sano, come ha visto il seno è rimasto
invariato di forma e struttura, è andato meglio del previsto, la grossa
massa che lei sentiva in buona parte era tessuto infiammato.>> Il chirurgo
fece una pausa e poi riprese <<Ma abbiamo visto che i due linfonodi
risultano positivi, cioè presentano delle metastasi tumorali al loro
interno. Signora mi dispiace dirlo, ma è necessario rimuoverli tutti,
bisogna fare uno svuotamento del cavo ascellare, se non fermiamo ora il
cancro nei linfonodi, è probabile che in poco tempo possa attaccare altri
organi più importanti, bisogna intervenire tempestivamente.>> Chiaro e
gentile allo stesso tempo, a differenza degli anziani chirurghi della
clinica, quest'uomo non giocava con la vita delle persone, aveva
rinunciato alla Porsche parcheggiata nella sua villa, per venire a lavoro
con una semplice utilitaria, era un chirurgo della sanità pubblica in uno
dei tanti ospedali di provincia. Nessun Veronesi, nessun polo oncologico
europeo, nessuna star della medicina, seguendo la strada del cuore credo
che abbiamo trovato sul nostro cammino le persone giuste nel momento
giusto, persone che parlano e lavorano con cuore. Nonostante ciò, Vissia
dovette sottoporsi a un nuovo intervento chirurgico, ho sofferto molto in
quel periodo per la sua irascibilità, d'altro canto era comprensibile, il
terreno era franato ad un passo dalla conquista. "passerà, tutto passa
col tempo, le nuvole passano e cambiano forma in continuazione, passerà
anche questa cosa come le nuvole”. Ogni volta che succede qualcosa di
spiacevole nella mia vita, ripeto a me stesso questa frase, perché l'unica
certezza che possiamo avere in questa vita è che il sole brilla sempre,
sono cinque miliardi di anni che illumina la Terra, mentre le nuvole che a
volte lo nascondono, hanno vita di pochi giorni e poi svaniscono.
L'esistenza è il sole, imperterrito lui splende, immutabile, potente ed
eterno, solo che noi riflettiamo la nostra esistenza nelle nubi minacciose
che si susseguono giorno e notte, quindi pensiamo che la vita sia misera,
schifosamente breve, è il ghetto dove ci hanno recluso dall'infanzia. No,
non è un postaccio, siamo noi a trasformare il giardino dei pensieri in
una discarica a cielo aperto, solo noi e nessun altro ha il potere di
cambiare questa condizione.
Altro intervento, altri drenaggi,
nuovo accampamento sul pavimento, questa volta per due notti, i chirurghi
hanno prolungato la prima ferita chirurgica fin sotto l'ascella destra,
era un vero e proprio colpo di spada. La seconda convalescenza è stata più
estenuante della prima, tutti in casa la tenevamo d'occhio sui suoi
movimenti, stavolta non poteva per nulla sollevare pesi. Mi adoperavo
quotidianamente nel massaggio linfodrenante, svogliatamente faceva gli
esercizi con una pallina di gommapiuma, ribelle e testarda Vissia voleva
uscire dalla gabbia della propria abitazione, ci sono stati momenti che
avrei voluto spaccare tutto quello che mi capitava davanti, ho avuto dubbi
sull'amore, paure e spauracchi di un tempo si riaffacciavano in quei
giorni difficili. Siamo cavalieri erranti in cerca della nostra leggenda
personale, sulla strada siamo spesso accompagnati non da persone, ma dalle
nostre paure, indecisioni, sofferenze, cambiano volto di volta in volta,
ora sono fratelli, padri e madri, poi sono mariti e mogli, oggetti di
desiderio, stati sociali che rivestiamo, ma sono sempre le nostre paure
che ci accompagnano fino alla fine. Vissia aveva tanta rabbia racchiusa in
sé, la lasciavo fare, diventavo il suo spettatore, me ne stavo lì sotto il
portico aspettando che smettesse di piovere e quando passava il temporale
della sua furia, lei si scioglieva in pianto e allora in quel momento lei
trovava la mano ad asciugar le lacrime, infondo come ho sempre detto, la
pioggia dura poco tempo, il sole durerà per millenni. Passato un mese dal
secondo intervento Vissia ritornò a lavoro, parlava di progetti, viaggi e
shopping, aveva fame di vita, di riempire le borse con cose futili, di
andare al cinema, al ristorante, di saltare, correre, ballare e
ubriacarsi, sì voleva vivere, toccare la terra con i piedi nudi.
La lunga marcia.
<<É maleducato, non si è nemmeno
presentato.>> il viso paonazzo di Vissia presagiva la sua rabbia, nei
confronti dell'oncologo che aveva preso in carico le terapie
farmacologiche. Infatti, la sua amata dottoressa, le aveva consigliato di
fare le terapie a Pistoia, non c'era bisogno di viaggiare inutilmente ogni
volta a Firenze per fare la stessa terapia. La cosa ottima dell'oncologia
è l'organizzazione, i piani terapeutici sono molteplici ma pressoché
standard, uguali a livello internazionale.
<<Beh non siamo tutti uguali ognuno
ha il suo carattere, secondo me sono affidabili, fanno il loro lavoro, e
non stanno qui per leggerti le poesie, oppure vuoi che ti tengano per mano
ogni volta che fai la chemio?>> La mia ironia graffiante in alcuni momenti
era l'unica arma per spezzare i suoi conflitti interni, che vuoi che sia!
É umorismo nero! Scherzare sui problemi e sofferenze, sì è la vita che ti
sfreccia accanto a 150 all’ora! <<Non sei te a dover fare ogni settimana
prelievi di sangue e non sei te a dover perdere i capelli!>>
<<In effetti è vero, però voglio
farti notare che i tuoi capelli tra qualche mese ritorneranno a crescere,
mentre io li sto perdendo e basta. Guarda qui, si sta aprendo una
piazzetta.>> Indicavo la sommità del capo.
<<Lo sai che sei scemo vero?>>
<<Certo! Se fossi stato sano di
mente, non ti avrei sposato!>> Bastava poco per ridere e tornare di buon
umore, conoscevamo i meccanismi l'uno dell'altro, sapevo come stuzzicarla
per farla reagire, o come ignorarla per farla scalciare. A volte mi
allontanavo da casa per passeggiare in solitario nei boschi, anch'io avevo
bisogno di disintossicarmi dalla chemioterapia settimanale, la sua era
fisica, la mia mentale. Dopo la prima settimana di chemio Vissia tirava i
suoi capelli davanti allo specchio <<Guarda non cascano, sono ancora
ancorati alla testa, forse sono una di quelle persone che non perderanno i
capelli!>> Potevo solo incoraggiarla, ma in cuor mio sapevo che da lì a
pochi giorni li avrebbe persi a chiazze e così accadde dopo la seconda
chemio. Quando ricoprii la sua testa con la schiuma da barba, lei pianse,
sua madre spiava dalla porta del bagno, la sentivo singhiozzare, ogni
settimana rapavo a zero mia moglie. Nello spogliatoio dell'ospedale
sentivo i miei colleghi scherzare e ridere <<Hai visto ieri la partita?
Che vittoria!>> <<Ieri ho ha mangiato una bistecca da un chilo, i bambini
hanno giocato tutta la sera e non ci hanno dato problemi!>> oppure
<<Accidenti mi tocca pagare 300 euro di bollo, non potrò mettere i cerchi
in lega all'automobile!>> Bella la vita vero? Ripetevo tra me, in fondo
non potevo biasimarli, loro vivevano la vita che fino a qualche mese fa
vivevo anch'io, ora mi trovavo a rasare la testa di mia moglie, a reggerle
la testa mentre vomitava fino a strabuzzare gli occhi, sì i primi cicli di
chemio sono stati orrendi. Cominciai a informarmi accuratamente sulle
molecole utilizzate per la lotta al cancro, metodo Di Bella, l'ascorbato
di potassio, le ricerche di frontiera, in qualche angolo sperduto di mondo
un ricercatore aveva scoperto una solitaria molecola capace di sconfiggere
il cancro, parole, parole, inganni e ancora parole. Avevamo scelto insieme
questa strada, ma la decisione finale è spettata a Vissia, in fondo il
corpo che doveva ricevere queste sostanze era il suo, sarebbe egoistico
scegliere per un'altra persona. I genitori scelgono per i figli, una
moglie sceglie per il marito quello che deve indossare, il dittatore
sceglie la tortura per la propria popolazione, perché nella sua mente
malata è l'unico metodo per garantire la sicurezza dello stato. Despoti e
tiranni, facilmente in nome dell'amore costringono altri a scegliere tra
la padella e la brace. Vissia ha accettato la terapia che ancora oggi sta
facendo e ringraziando il cielo, cammina con le sue gambe, camminiamo
insieme sui crinali di montagna, andiamo al cinema, cenando dopo al
miglior ristorante della zona, ho accanto a me la compagna di sempre.
Avevo letto esperienze personali di donne che al primo ciclo di chemio
hanno perso unghie e denti, con tutto l'amore e il cuore, la forza e la
dolcezza che dono a queste donne, posso dire che Vissia non ha patito
nulla del genere, abbiamo scelto la strada del cuore, sono abituato a
seguire i segnali che ci mostra la vita, qualcuno chiama tutto questo,
provvidenza, miracolo, Dio, destino, ma io la chiamo vita.
Quattro cicli di ciclofosfamide
hanno debilitato Vissia. Non so da dove ha attinto per quattro settimane
la forza per andare a lavoro il giorno seguente, dopo aver passato tutta
la sera precedente abbracciata al water in preda al vomito. Quando
tornavamo a casa dopo la chemio, ogni cosa che infilava in bocca, anche se
fosse stato un seme di girasole, dopo un sonno profondo di cinque ore, lei
lo vomitava. Non passava nulla oltre lo stomaco <<Non ce la faccio...>> Fu
l'unica volta che la vidi in seria difficoltà, quel pomeriggio aveva avuto
diarrea e vomito, la trovai distesa sul pavimento con la mano appoggiata
sul water <<Andiamo a letto...>> Quelle sono state le uniche parole che
riuscii a dire, soffocavo le lacrime mentre le rimboccavo le coperte, con
odio ripensavo alle pesanti giornate lavorative del pronto soccorso, tra
finti malati, approfittatori e agitatori di folle, in quel momento odiavo
le persone, l'umanità e tutto ciò che rappresentava, avevo bisogno di
sfogarmi, di prendermela con qualcuno ma con chi? C'era solo il silenzio
in casa, potevo rifugiarmi tra quelle nuvole dove spesso vivevo, lontano
dal puzzo di questa vita e dai sorrisi di rame di attori televisivi. Anche
questa tempesta sarebbe passata, ma in quel momento desideravo che la
pioggia allagasse tutto il mondo e annegasse i suoi abitanti.
Nelle ore di silenzio pomeridiano
durante il riposo dalle chemioterapie “pesanti”, leggevo il suo diario, un
documento scritto sul computer, prescrittogli dallo psicologo nei primi
giorni della malattia, giusto per trovare un canale di sfogo. Lei dormiva
ed io temevo che il mio respiro potesse disturbare quella tensione
surreale, come quando c’è silenzio nell’aria e il cielo incombe prima
della neve, ecco, solo silenzio. In quelle pagine c’era Vissia, con la
paura della morte, dell’intervento, della chemioterapia, il nostro
matrimonio e il destino crudele. La cosa che mi colpiva di più non erano
le sue paure umane, ma il dispiacere, lei soffriva per il forte dispiacere
che aveva dato a tutti noi. In lei era presente una bestia nera, selvaggia
e indomita, una rabbia atavica che irrompe e spacca tutto, e questa “cosa”
la accusava di creare solo dispiacere gettando fango sulle persone a lei
care. Quando abbiamo paura della morte, o quando per nefasto volere ci
approntiamo a essa, la prima cosa che ci fa sobbalzare è quella di dover
lasciare persone e cose di questo mondo. Non è la paura di non esistere
più, in fondo non ci ricordiamo nulla prima della nascita, non ricordiamo
tutti i secoli che sono passati e neanche la paura di non essere
ricordati, nonostante lasciamo tracce del nostro passaggio, la paura è di
non poter avere accanto le persone che amiamo. Lo leggevo tra le righe del
diario, il mio nome si ripeteva in ogni paragrafo, sono il suo angelo
caduto, la sua speranza, la sua vita, la sua essenza e lei hanno paura ed
ha rabbia. Il percorso è semplice e lineare, la paura porta all’odio,
l’odio porta all’ira e quest’ultima a volte porta al lato oscuro di noi.
Depressione profonda e suicidio spesso vanno di pari passo. Non mi ritengo
un angelo, un essere speciale, ma sono un uomo come tutti, che piange ride
e si arrabbia, sogna, mente e vigliaccamente scappa, allora cos’è che ci
rende unici? E’ solo l’amore.
Messaggeri dall'infinito.
Cicli di chemio, esami del sangue,
ecografia del fegato <<Come stai? Gli esami vanno bene, non ti
preoccupare.>> Frasi di routine dell'oncologo, terapia di routine e le
solite quattro ore in attesa che la pompa peristaltica finisca il suo
lavoro. L'unico cambiamento era dentro di lei, una sostanza altamente
tossica e cancerogena, capace di ustionare la pelle, l’era sparata
ripetutamente in vena, delle mini bombe atomiche una volta a settimana
distruggevano, così dicono, le famose cellule ribelli dell'organismo, da
qualche parte nel suo corpo era in atto un colpo di stato contro il regime
cellulare. E l'esplosione atomica era l'arma per eccellenza, spazzava via
il male e miliardi d’inermi abitanti del corpo umano, debilitando la
catena di montaggio del midollo osseo. Guardavo pazientemente ogni volta
le gocce di liquido scendere una a una, scandivano il tempo macabro fino
alla prossima chemio. <<Fa un bel respirone.>> Le dicevano ogni volta che
infilavano l'ago nel Port sottocutaneo. Durante le interminabili sedute,
Vissia si addormentava e mentre lei dormiva io la guardavo, ovviamente la
mia mente cominciava a vagare in teorie e supposizioni. Adoro la logica,
ascolto ovviamente il cuore, ma a ogni gesto, relazione, impressione,
visione, di tutto ciò che mi circonda cerco una spiegazione. Forse è
dovuto alla passione per le scienze in generale, mentre gli altri vedono
solo la sagoma bidimensionale della realtà io, immagino gli atomi che
vorticano e si saldano in legami chimici, poi penso alle stelle che
esplodono in remoti angoli della galassia e alle cellule che lavorano
freneticamente nel corpo umano, immerse nel buio e alle molecole di
chemioterapici che approntano legami con le strutture di membrana delle
cellule tumorali. Forse è un bene che riesca a pensare in questo modo, mi
aiuta a vedere le cose da un punto distaccato e unitario, per quanto siano
belle le emozioni, non bisogna mai dimenticare che facciamo parte di un
vasto oceano di atomi organizzati, questo modo di vedere l’esistenza mi
aiuta a sminuire le ansie e le paure, siamo materia e ultramateria,
facciamo parte di un tutto. La questione del cancro non l’ho mai capita
fino in fondo, le cellule tumorali per natura propria sono immortali, non
vanno incontro al processo di morte programmata della cellula, il corpo
muore perché si svolge la battaglia titanica tra questo “essere che vuole
spazio” e noi che siamo limitati nella forma. Ricordo un racconto
fantascientifico di Roberto Vacca, dove afferma che miliardi di anni fa,
gli alieni arrivarono sulla Terra, alcuni approdarono nei bagni solfurei
dei vulcani, altri nelle profondità oceaniche o nei ghiacci delle vette.
Luoghi troppo inospitali perché crescano e si sviluppino, hanno deciso
così di cambiare strategia, l’unico modo per sopravvivere sul mondo alieno
era la simbiosi. Così si trasferirono nel nostro corpo e in quello di
tutti gli esseri viventi, ma erano piccoli, troppo piccoli perché possano
manifestarsi e rendere nota la propria presenza, allora ecco che iniziò il
“programma di contatto”. Solo modificando le catene di DNA gli alieni
poterono avere un po’ di attenzione, non hanno mai abbandonato l’uomo,
vivono in lui da sempre e per sempre, scelgono per qualche misterioso
motivo che sfugge, un determinato individuo e attuano il programma di
contatto. Allora in quel caso la persona si accorge di loro, ma sono
ancora troppo piccoli, infinitesimali, nessuno si cura del loro messaggio.
Inizia così il periodo di gradi speranze, c’è solo il profondo desiderio
di arrestare l’invasione dell’ultracorpo. Gli alieni sfortunatamente hanno
trovato l’unico modo di comunicare con noi, ci dicono che sono immortali e
si espandono all'infinito, questo processo di crescita e rivelazione
spesso porta alla loro fine e a quella dell’ospite, a questo essere alieno
abbiamo assegnato un brutto nome, è il cancro.
Illumina l'oscurità.
Ricordo di aver scritto su facebook
una frase che accompagnava una nostra foto del matrimonio, parlavo di
momenti bui, sì posso dire che quelli sono stati momenti bui, momenti in
cui temevo ogni giorno di non farcela, di non reggere, di dover dire addio
a mia moglie prima di aver visto ancora tanti tramonti in riva al mare,
senza visitare i luoghi leggendari dei nostri desideri, oppure di aver
bevuto un vino costoso in una serata speciale. Tutto era ed ancora é
importante, ogni piccolo gesto, ogni frase detta o solo pensata, alla fine
sarà scritta affinché uno di noi due la legga. Ora la vedo ogni santa sera
davanti allo specchio, passa strati di crema su una vasta cicatrice, e
ogni volta che la guardo e ovviamente che lei la guarda nello specchio,
nessuno di noi due può fare a meno di ripensare al teatro grottesco di
quei mesi. La vita cambia lo dicono tutti, ogni volta che accade qualcosa
di eccezionale, la vita cambia. Non cambia essa, il mondo vive come ogni
giorno mutando lentamente, nonostante Vissia abbia il cancro e ancora
porta avanti il vessillo della speranza, questo non ha impedito alla Terra
di girare.
Questa estate abbiamo deciso di
passare una settimana in montagna davanti alle pale di San Martino, in
vita mia non ho mai visto montagne così alte, essendo vissuto per una vita
intera su un’isola ad appena 20 metri sul livello del mare. Nonostante la
globalizzazione, nonostante che l'immagine di un contadino in India
rimbalzi in ogni parte del mondo grazie ai satelliti, noi abbiamo bisogno
di vivere l'esperienza sensoriale per crescere. E proprio davanti a quelle
montagne immense, irte come una cattedrale dove il sole tende i suoi raggi
nelle prime luci del mattino, in attesa che la lesta aurora sveli il
segreto millenario del suo silenzio, ho appreso che tutto quello che
viviamo, gioie, dolori, emozioni, nascita e morte, sono solo un battito di
ciglia, un granello di polvere posatosi sulla nostra pelle, la quale non
dà sensazione, questo siamo noi nei confronti della Terra. Quando accade
un evento che ci cambia la vita, dal primo bacio, all'orgasmo, alla prima
volta in bicicletta, alla tesi di laurea, al matrimonio, alla morte del
gatto o del cane, alla malattia del padre o di un fratello, alla morte
della compagna e alla nascita di un figlio; ogni cosa, ogni terremoto nel
nostro universo personale non causa un bel niente a ciò che ci circonda.
Siamo noi, siamo solo noi che al mutare della nostra realtà siamo capaci
di cambiare anche il mondo, solo noi. Il pianeta se ne sta lì, buono buono
e guarda tutti noi che viviamo le nostre brevi esistenze.
<<Vuoi tornare indietro? Possiamo
andare al rifugio e poi tornare giù con la cabinovia.>>
<<No! Ora sono arrivata quassù e
voglio arrivare in cima.>> Aveva l'affanno, l'aria di alta montagna è
incredibilmente sottile, ogni dieci passi Vissia si fermava, si sedeva e
respirava a fatica. Allora mi sedetti accanto a lei <<Ti ricordi la
respirazione completa? Riempi prima l'addome e poi espandi il torace,
facciamolo insieme.>> Respirare è sempre stato il miglior metodo per
calmare l'ansia, scacciar via le preoccupazioni e riempire i polmoni ad
alta quota, arrivati in cima, potevamo vedere tutta l'ampia vallata e il
complesso montuoso della Marmolada. L'aria frizzante, la leggera brezza,
il sole maestoso e benevolo su tutto l'altipiano, facevano risplendere le
rocce di dolomia, scattai una foto a mio parere memorabile. Rifacendomi a
uno spot televisivo adesso posso dire che dopo cinque mesi di
chemioterapia, vedere tua moglie che si arrampica a 3000 metri sulle
Dolomiti, che si aggrappa alle rocce e tenta di catturare tutta l'aria
possibile col respiro, beh, non ha prezzo. Quella era una conquista, anzi
la conquista, ho appreso così una lezione importante dalla vita, la
volontà, solo con essa l'essere umano riesce nelle sue sfide, anche quando
siamo distrutti e dilaniati nel corpo e nell'anima, in alcuni sorge
qualcosa di tenace, come le stelle alpine che resistono alle intemperie su
dirupi impervi. Vissia aveva dentro l'energia giusta per andare avanti e
questa energia compressa è stata liberata solo grazie all'amore, io ho
scoperto il nuovo mondo, sono cadute vecchie credenze dell'inevitabilità,
del destino e della rassegnazione. Sì è solo l'amore, come forza
preponderante in natura a legare gli esseri e tutto ciò che ci circonda in
intricati arabeschi di vita ed esperienze. Misteriose equazioni detengono
i segreti dell'universo, ma la variabile dell'amore è quella che decide
l'andamento dell'equazione stessa. Guardavo da lontano quella misteriosa
variabile vibrare come una fiamma che resiste al vento, Vissia stava
illuminando l'oscurità, quel momento preciso era l'inizio del suo
rinascimento.
Il cuore saggio.
<<Eppure è passato tanto tempo e
sono accadute tante cose.>>
<<Sì, ricordo quando temevi tutto
quello che doveva succedere, l'intervento, gli esami, la chemioterapia e i
tanti dubbi. Credo che l'unica terapia sia stata il tempo e la pazienza,
solo in questo modo possiamo andare avanti, è inutile affannarsi,
programmare giorni e giorni avanti, bisogna solo aspettare e sforzarsi di
vivere il presente.>>
Vissia non parlava, guidava in
silenzio e quando alla fine di ogni mio discorso non diceva una parola,
era il segnale che stava pensando accuratamente su ciò che avevo detto. Mi
sforzo quotidianamente per insegnare qualcosa di buono quando è possibile
e se questo rientra nelle mie capacità, non sono un dispensatore di perle
di saggezza, ma posso ascoltare ciò che bisbiglia il cuore e dirlo, anche
se questo è tremendamente difficile e non sempre fattibile. Il cuore è un
saggio, un vecchio saggio che se ne sta lì seduto, nel suo giardino e cura
con pazienza i suoi fiori apprezzandone la bellezza e ogni minimo
particolare, contempla i colori e aspetta prima di parlare, attende che la
visione si presenti mentre noi attendiamo i suoi consigli. A volte
sbattiamo forte il cancello del giardino, lasciando che il vecchio saggio
ci guardi affranto ma senza dire una parola, perché sa che torneremo.
Ritorneremo a esso, quando il nostro ego avrà deciso di divorziare e se ne
andrà via di casa urlando e piangendo, noi torneremo a trovare il nostro
vecchio amico Cuore, piangeremo tra le sue braccia e lui ci darà un lembo
della sua veste per asciugare le lacrime. A lui non interessa se
accarezzandoci, verranno via i capelli nel palmo della mano, se vomiteremo
o se non potremo alzarci dal letto per salutarlo, a lui non interessa la
paura della morte, i progetti e i sogni rinchiusi in un vecchio baule
polveroso. Il vecchio Cuore se ne sta lì, legge i messaggi dei fiori è il
guardiano dell'anima che profuma di pace. Possiamo vivere insieme con lui
ogni volta che vogliamo e solo allora, solo nel momento in cui sceglieremo
di vendere l'appartamento in condominio al sesto piano della strada
trafficata dei caotici pensieri, quando decideremo di trasferirci nelle
campagne immutabili e silenziose dell'amore per noi stessi, in quel
momento noi possiamo rinascere, vedremo così le ansie, le paure, i
tormenti e gli affanni, andar via come bolle di sapone.
Epilogo.
Vissia si guarda allo specchio, ha
il viso tondo e sbuffa perché ha messo su dei chili, ma i suoi capelli
sono tornati a crescere, la nausea, il vomito, la stanchezza cronica ha
lasciato il posto alle serate a lume di candela mentre beviamo un vino
costoso e guardiamo le fotografie scattate per l'intera giornata. C'è
ancora da fare, ma il fuoco che arde dentro di noi ha illuminato la
grotta, e questa non è soltanto fredda e buia, ma ha anche pareti
costellate di scintillante quarzo, tutto risplendente come un cielo
stellato. C'era bisogno della luce per renderci conto che il buio è solo
un’illusione, esso non si può misurare, mentre la luce sì, ed è proprio la
luce del cuore che ci permette di misurare l'intensità e la profondità
della vita, dipende cosa scegliamo di vedere.
A voi tutti che attraversate la
stretta gola della malattia, delle pene, dei dolori e delle morti, dico
questo: la vita è un soffio di vento leggero sulla pelle, vale la pena
viverla con amore e con coraggio. Ponete la luce al centro del vostro
cuore affinché essa possa illuminare la caverna e mostrare quanto sia
scintillante la roccia che lo contiene, quando è il cuore a parlare, vi
rendete conto che esso ha più di mille anni, è saggio, semplice e ancora
bambino nel suo essere. Supera le congetture e vi dice la scelta giusta,
la mente consiglia attraverso i suoi molteplici dubbi, il cuore invece,
non ha bisogno d'inganni, esso ama.
I giorni del silenzio
Il passo cadenzato delle esequie riecheggiava nel piccolo cimitero di comunità, il cielo era terso, il mare faceva sentire i suoi frangenti sulla riva e tra le folli insenature tufacee. Una piccola folla raccolta, senza lacrime, intonava un canto delizioso appena sussurrato sulle labbra. La giovane Maya stringeva tra le mani delle margherite appena colte che vennero sepolte insieme al corpo, non racchiuso in una bara, ma adagiato nella terra grassa, coperto da un semplice panno di lino bianco. Petali di rosa dei presenti e le margherite di Maya, poi la sepoltura composta accompagnata dalle parole di conforto del prete, parole lontane un tempo, adesso presenti nei cuori più che mai. L'inverno era finito, finalmente, era come se dopo tanti sforzi, qualcuno avesse aperto il serraglio della tagliola per volpi e liberato la gamba accidentalmente caduta dentro. Il caldo leniva i dolori e i bruciori della carne e della coscienza, un inverno era passato e ancora altri sarebbero giunti. Smottamenti, alluvioni, tempeste, interi paesi ghiacciati da metri di neve. Quanti eventi sono passati nell'inverno appena trascorso? Disse tra se Maya. Non lo sapeva, nessuno lo sapeva, le notizie arrivavano sporadiche, lente come le carovane d'intrepidi viaggiatori, con le notizie dei temerari arrivavano anche le lettere, qualcuno ancora scriveva. Maya era abituata alle lettere commerciali, quelle scritte col sottile inchiostro dalle stampanti laser, scritte con regole inventate da etichette ormai dimenticate, la lettera che giunse tra le sue mani invece era chiusa non in una busta, ma in un altro foglio di carta, ripiegato affinché ne contenesse un'altro.
L'omelia terminò, i presenti ricoprirono il tumulo con fiori di campo, quelli acquistati dai campi incolti e non dai fiorai, nessuno aveva portato, crisantemi, garofani, orchidee e rose blu. Solo margherite e bocche di leone, avevano quelle e basta <<Andiamo mia cara.>> disse sua nonna cingendole il fianco, sorrideva la donna pur sapendo che suo marito era sepolto, sorrideva con una dolce malinconia, di chi sa che un giorno le toccherà la morte con suo fare silenzioso ed inevitabile. <<Il nonno ha trovato un po' di pace, mi dispiace però che non sia riuscito a vedere la primavera.>> disse Maya guardando lontano, mente risalivano la stradina in pendenza che riportava al piccolo borgo. <<Lui avrebbe voluto essere cremato, ma non so come si brucia una persona e quanto tempo ci vuole per bruciarla, nessuno ha voluto farlo, in qualche modo seppellirlo così è stato più umano, tuo nonno ha provato un po' del tepore di stagione>> Nonna Amelia si appoggiava con tutto il suo peso alla nipote, zoppicava e le sue gambe erano sempre più gonfie, spesso dovevano fermarsi mentre camminavano, l'asma cardiaco era un vero tormento e senza medicine non restava altro che affidarsi alla sorte o a quelle frammentarie notizie della farmacopea naturale. La donna aveva gli occhi asciutti, aveva pianto tre giorni e tre notti per la perdita di una parte della sua vita, Amelia decise di guardare avanti, alla fine l'avrebbe raggiunto, lo credeva con tutto il cuore, doveva essere così, altrimenti era vana tutta l'esistenza.
Mezzogiorno, l'ora più bella quando il sole splende alto, Maya e nonna Amelia si sedettero per riposare sulla via del ritorno, la vecchia prendeva fiato e chiudeva gli occhi verso il sole, la luce calda le illuminava il viso, fu allora che la ragazza uscì dalla sua borsetta la lettera <<Domani la carovana partirà di nuovo, ancora non ho scritto nulla....>> la guardava e la rigirava, l'aprì e rilesse alcune parole nella sua mente, come se la coscienza andasse a cercare automaticamente quelle parole che evocano le emozioni del primo momento. Di solito ricevere lettere rievoca la curiosità infantile, la voglia di sapere cosa c'è nella busta, le e-mail rientravano nella routine della sua vecchia scrivania, e le buste delle bollette erano spesso angoscianti, le cartoline dei paesaggi esotici le mettevano un po' di buonumore ma quella lettera la faceva piangere, era di suo padre.
<<Credo che dovresti rispondere Maya, tuo padre è vivo, dopo quest'inverno mortale è ancora vivo, te l'ho sempre detto che mio figlio era un uomo che sapeva cavarsela.>> La donna sorrise e diede due buffetti sulla guancia dell'adolescente, quante notti passate insonni, a lume di candela nella sua stanza umida. Maya guardava e riconosceva a memoria i poster dei personaggi che ormai appartenevano ad un passato lontano, finto come i fiori di stoffa <<Sarebbe bello scriverla insieme a mamma, è via già da due settimane.>> <<Tornerà tranquilla, tante donne sono partite per i monti, presto torneranno con la lana, tua madre sa badare a se stessa.>>
Maya si stese col viso sulle gambe della nonna, sentiva l'odore di sapone a mano e di foglie di lavanda <<Perchè dobbiamo soffrire così tanto nonna? Perché è successo d'inverno? Perchè....>>
<<Perché così doveva andare.>> la interruppe <<Perché prima o poi doveva finire, era veramente troppo, il silenzio s'è ripreso il sonno che abbiamo rubato alla terra.>> Maya ascoltava sempre sua nonna, dogmatica e forte in qualsiasi evenienza, se un corpo potesse esprimere la sua tempra, sarebbe quello di una statua possente, ma anche lei stava attraversando il suo tempo finale, doveva resistere, finche suo padre e sua madre non fossero tornati, allora lei poteva congedarsi dall'adempire la sua vita, come ha fatto suo marito Edoardo prima di lei. <<Credo che tu debba scriverla lo stesso la lettera, Lorenzo ha bisogno di sapere se siamo vivi, deve avere una speranza per tornare qui, ci vorranno mesi lo sai.>>
Le vie erano deserte e nell'arteria principale del paese le persone camminavano e chiacchieravano tra loro, ovunque si udiva battere martelli su chiodi, il fracasso delle pale graffiare l'asfalto nell'impastare il cemento, con l'arrivo della primavera tutti erano diventati come piccole api industriose. Le saracinesche dei negozi erano aperte e vendevano alimenti di giornata, qualcuno aveva avuto l'idea di scendere in strada, dagli appartamenti dei palazzi, strumenti musicali e grammofoni d'epoca ed anche il grosso pianoforte del maestro in pensione Michele Alfieri. Musica, la musica riprese a suonare tranquilla e melodica, i bambini ridevano e come nugoli d'aerei da caccia scemavano tra i passanti e cantavano, l'inverno era finito. Maya e nonna Amelia ritornarono in casa, la vecchia si precipitò alla cucina, versò dell'acqua dal grosso contenitore di plastica nella pentola, prese una delle tante zuppe precotte e accese i batuffoli di cotone impregnati d'alcool, li poggiò su una pirofila d'argento elegantemente cesellata, la pentola poggiava sul telaio dei fornelli da cucina <<Tra un'ora a tavola Maya.>> disse la nonna alla nipote nell'altra stanza. Maya era seduta alla sua scrivania, lo schermo ultrapiatto del computer era spento e nella sua camera c'era il silenzio, aveva spostato la scrivania sotto la finestra per sfruttare la luce del giorno fino al tramonto, fissava il foglio bianco e la penna giaceva immobile su di esso, in attesa d'essere posseduta dalla forza delle dita e del polso. La ragazza fissava quel soldatino immobile, la sua mente era distratta dal rumore della strada, dagli schiamazzi dei bambini, dal profumo di bollito delle massaie al lavoro in cucina. Aveva la mente svuotata da ogni pensiero, era concentrata altrove, nonostante la morte di nonno Edoardo lei pensava al sole della giornata triste e delicata, appena sussurrata e fragile come una porcellana antica. Pensò poi a suo padre Lorenzo, nel nord Europa, era un navigante su una porta macchine, scarrozzava a bordo di quelli che sembravano dei palazzi immensi tra le onde, alte decine di piani e colmi nel ventre d'automobili, ogni tipo di automobili. Poi la nave si fermò e non c'era più scopo stare lì, sul gigante di ferro di migliaia di tonnellate e per di più, con un carico privo di valore, l'automobile. Una volta suo padre la portò a bordo di uno di questi giganti, ed era bello vedere come affrontavano il mare aperto e la furia delle onde senza problemi. Dalla plancia di comando vedeva grandi spruzzi d'acqua contro la prua, mentre una nuvola di schiuma inondava il ponte deserto. Le navi ora giacevano silenziose nei porti dall'inizio dell'inverno, il più duro in assoluto, il mondo era stato preavvisato con largo anticipo dagli scienziati e nonostante le precauzioni, non c'è stato nulla da fare, l'impero dell'energia elettrica era crollato come un castello di carte su se stesso, un gigante dai piedi di balsa.
Maya aveva passato un inverno di speranze e sospiri insieme a sua madre Sabrina, oltre alla vita difficile, oltre a dover pensare quotidianamente a cose che ormai davano per scontato, c'era la morbosa speranza del ritorno di un marito ed un padre, chissà dov'era. L'ultima volta che lo sentirono telefonicamente fu verso la fine d'ottobre <<Siamo arrivati ad Arcangelo, in Siberia. Sentissi che freddo!>> e poi più nulla, improvvisamente il silenzio alla cornetta e via la luce nella stanza, spenta la televisione, computer, radio e forno a microonde. La luce dalla strada svanì come inghiottita da un manto di notte, Maya lo ricordava bene, il 25 ottobre alle 19.43 tutto si spense, come si spegne una giostra, tutto. Al solo pensiero di quei momenti, un brivido le fece venire la pelle d'oca, suo padre aveva scritto una lettera a tutta la famiglia "Sono vivo", due parole ed otto lettere, un modo inusuale per iniziare una lettera. Sabrina e sua figlia piansero abbracciandosi, quando ricevettero dalla carovana di speziali quella lettera, la gente aveva ancora il buon cuore di curare gli affetti del prossimo, nonostante tante avversità, quel foglio di carta era giunto a loro da Holwerd in Olanda "C'è voluto un po' per capire che non era un guasto alla nave e che non era un black-out momentaneo al porto della città, la nave è stata abbandonata in rada ad'Arcangelo e dopo pochi giorni è stata imprigionata dal ghiaccio, noi siamo giunti a terra in scialuppe a remi e da lì insieme, uniti abbiamo cercato riparo…" Le mani di Maya stringevano ancora quel foglio e rileggeva le frasi dure e quasi impossibili "il comandante è morto dopo pochi giorni, sono finite le sue medicine per il cuore" oppure "ci siamo rintanati in un magazzino, fa freddo, abbiamo bruciato quello che poteva ardere, ogni notte girano i lupi per la città, si sentono degli spari." Alla fine erano riusciti ad uscire dall'inferno di ghiaccio, attraversando la costa del baltico a piedi, come nomadi in marcia nella gran migrazione della loro vita, fino ai paesi bassi. Lorenzo era ancora lì, lavorava spalando carbone e spaccando legna per poter acquistare un cavallo, che valeva più di un'auto di lusso, sarebbe ritornato a casa, prima della fine dell'estate sarebbe ritornato dalla sua famiglia.
Maya sospirò e istintivamente la penna prese a muoversi sul foglio bianco.
Caro papà,
in quest'inverno buio appena passato, la tua lettera è il primo raggio di sole di questi giorni, qui abbiamo passato questi mesi duri tutti insieme, tutti uniti a casa nostra. Nonno Edoardo ci ha lasciato quattro giorni fa, era molto malato, aveva preso la polmonite dopo un forte acquazzone, era rimasto nei campi per finire l'aratura, il nonno s'è spento tra noi, l'abbiamo seguito fino ala fine, con amore .Nonna Amelia e mamma stanno bene, degli zii, cugini, amici, non abbiamo più notizie, nessuno viaggia senza uno scopo, le giornate sono abbastanza fredde per viaggiare giorni e giorni attraverso l'Appennino. Papà mio, ho le lacrime agl'occhi scrivendo, devo fermarmi spesso per sospirare e nascondere il viso tra le mani, non accetto ancora questa realtà assurda. Una tempesta solare, non sapevamo neanche com'era fatta una tempesta solare, e poi un pomeriggio di fine ottobre vedemmo i colori più belli del cielo, pareva che una grande tenda da salotto colorata sventolasse sopra di noi e poi il buio. Nessuno nel mondo immaginava che il fenomeno avesse spento totalmente tutta l'elettricità del mondo, dopo pochi minuti dall'apparizione dell'aurora, nella centrale elettrica in fondo alla valle, s'accesero delle scintille e lampi di luce blu .Udimmo così esplosioni e boati e l'aria si riempì di un odore acre di plastica bruciata. Chiunque avesse un trasformatore attaccato alla rete elettrica, andò in frantumi e venne così improvvisamente buio. Ero in strada quando è successo, insieme a Gianna e Miriam nel parco, guardavamo il cielo a bocca aperta e le persone si fermavano guardando il cielo anch'essi stupefatti, e rimasero ancora più stupefatti quando si guardarono attorno vedendo le auto ferme, immobili e l'improvviso silenzio, si udiva il vento tra le fronde dei platani accompagnato da un brusio crescente e da qualche urlo. Papà ti giuro, è stato come un istinto improvviso, l'ultimo raggio di sole stava per tramontare e il viale Marconi, sempre trafficato, si riempì di persone, tutti scesero dalle auto e parlavano tra di loro, nel brusio s'udiva la parola "sole", "eruzione solare", "tempesta magnetica". Come dei burattini ci siamo diretti tutti verso le nostre case, in preda al panico, come se l'aurora del cielo potesse avvilupparci nei suoi colori, tutti avevano un improvvisa paura di morire, io Miriam e Gianna ci tenemmo per mano silenziose e ci avviammo a casa insieme alla folla, cresceva come un fiume, dalle traverse uscivano persone sbigottite e turbate, il viale divenne un fiume di gente. Ho accompagnato le mie amiche a casa e poi ho fatto una corsa da mamma, mi aspettava sull'uscio della porta preoccupata e mi abbracciò forte quando entrai dentro. I primi giorni sono stati i più difficili, poi rileggo la tua lettera e capisco che a confronto dei nostri problemi i tuoi sono stati di gran lunga peggiori. Il nonno ha tirato giù dalla soffitta quei vecchi pacchi di candele e da una cassa di legno prese anche dei grossi ceri che gli aveva dato il sagrestano, se non erano per le candele, potevamo stare perennemente al buio. In casa non funzionava praticamente nulla, mamma buttò i piccoli trasformatori bruciati, e l'acqua usciva dal rubinetto sempre più poca, allora ci siamo affrettati a riempire tutto quello che la poteva contenere, dopo un ora l'acqua non uscì più, per tutto l'inverno. Sembrava che ci fosse il coprifuoco, la mattina la gente scemava senza meta per le strade, alla ricerca di cibo, vestiti, legna e acqua. Sono morte tante persone i primi giorni, nessuno costruiva più le bare, le segherie erano ferme e immobili, abbiamo avuto tanto dolore qui in paese, anche l'ospedale rimase deserto una settimana. I dottori trovavano difficoltà nel curare le persone senza le apparecchiature elettriche, laboratori d'analisi fermi, TAC, risonanza magnetica, radiografie, elettrocardiografi, defibrillatori, tutto fermo le scorte di farmaci finirono in fretta. Ci volle un po di tempo, l'unica intelligenza non è quella artificiale, ma la nostra, e grazie all'ingegno la medicina ritorno ad arrancare verso un'accettabile stato di salite. Mal di denti, coliche, il cuore affaticato della nonna, le malattie venivano curate con una buona riserva di fortuna. Le persone sapevano, anche io sapevo come funzionavano le cose, le avevo studiate, tutti le avevamo studiate, ma nessuno sapeva ricrearle. Così ci fu l'assalto ai negozi, andammo anche io e mamma ad arraffare quello che si poteva mangiare, tante persone si avventarono sui cibi freschi, all'inizio in pochi presero cibi in scatola e liofilizzati. Io e la mamma abbiamo portato via di tutto, ho avuto vergogna in quanto ci siamo trasformati in bestie fameliche in poche ore, guardavo le persone e molte le conoscevo, tutti affannati e decisi a rubare più dell'altro, senza guardarsi in volto. Papà qui c'è stato un periodo di vero terrore, chi possedeva un'arma dettava legge su poche rumasuglie di viveri. All'inizio di novembre è arrivata la neve, tantissima neve, le notizie che giungevano fuori città dicevano che tutto il continente era sepolto sotto pioggia e neve. Il torrente qui è straripato tre volte, le case nella zona degl'argini sono state abbandonate per sempre, le persone giravano e ancora girano per strada fino al tramonto, poi c'è il silenzio assoluto, a volte sento dei lamenti, qualcuno che sta male di notte, oppure dei pianti e delle urla lontane. Queste cose sono andate avanti per tutto l'inverno, i primi a morire dal freddo sono stati gli anziani, stipati in appartamenti dal riscaldamento elettrico. Chi aveva delle bombole di gas era un signore, riusciva a cucinare e riscaldarsi, anche se qualcuno rimaneva ucciso dalle esalazioni. Nonno e nonna sono stati una vera benedizione per me e mamma, in breve riuscirono a riparare la vecchia stufa di ghisa, quella stipata in garage dietro la lavatrice, abbiamo impiegato un'intera giornata a portarla su. Ha fatto bene mamma a non fartela buttare, ora qui non buttiamo nulla, non si spreca proprio niente, mangiamo tutto quello che si può mangiare anche se ha un saporaccio.Il nonno era ritornato in campagna, s'alzava prima dell'alba e insieme con altri uomini e donne si dirigevano alle campagne nelle fattorie. Ti ricordi quel ragazzo che venne a casa nostra?Il mio amico di classe Matteo?Tutti lo prendevano in giro a scuola, perché la sua famiglia era ignorante e campagnola, un giorno mentre nevicava, io e il nonno eravamo andati alla sua fattoria per elemosinare qualcosa in cambio di manovalanza. Vivevano come se non fosse accaduto nulla, a parte il buio in casa però, c'era il tepore del camino con grossi ciocchi di legno e qualcosa bolliva sul fuoco. La famiglia di Matteo dopo un mese prese fiducia nel nonno e poi a scuola ero stata l'unica a non prenderlo in giro, siamo vivi grazie a loro papà, nonostante il vento gelido e la neve alta, loro continuavano a crescere gli animali da cortile, e a lavorare nelle loro serre al tepore. Tutti gli altri li faceva lavorare e in ogni caso li ricompensava bene, sempre in natura. Qui scambiamo tutto, tutto quello che possa servire, le automobili sono state sventrate da lamiere e sedili caldi, i centri commerciali sono diventati rifugi per animali, grossi spettri troneggianti nelle campagne, circondate da autostrade che ormai, restano spesso deserte. Sembra strano dirlo, ma tutti vanno in chiesa, è un piacere sentire le campane che sono state mute per giorni interi, suonavano tutte con un motore elettrico, don Luigi accoglieva ogni giorno affamati e disperati, faceva quel che poteva per tenerli buoni. Il vescovo non si vide più qui da noi e non venne nessun altro prete o monaco. Buona parte delle chiese sono state chiuse i loro curanti sono spariti, molte sono state depredate dalle statue per poterle bruciare nei camini. Solo ora capisco l'importanza della terra coltivata, dei boschi, dei fiumi, delle giornate di sole e pioggia, non possiamo vivere senza il nostro suolo, la nostra aria. Da quando s'è spento il computer ho ripreso a leggere tutti i vecchi libri in soffitta, ho scoperto che leggere è una delle cose più belle che possa fare una persona per sognare ad occhi aperti. Ci siamo abituati al silenzio, dolce, sacro e piacevole, la signora Marisa che soffriva d'insonnia e attacchi di panico ora dorme beatamente, senza più il traffico sotto casa. A dicembre c'è stato un grande fermento, il sindaco e le persone più importanti del paese sono scesi nelle piazze per indire una grande assemblea cittadina. Non siamo mai state bestie e la barbarie doveva cessare, ci voleva un ordine e lavorare insieme. Tutti lavoravano per la comunità, ogni comune aveva la sua comunità, chi se la sentiva di arare i campi o spaccare la legna nel bosco faceva quel lavoro, buona parte delle donne presero a filare, cucire e tessere. I negozi derubati furono risistemati e riadattati come delle vecchie mercerie dell'ottocento. La saggezza giungeva dagli anziani e dai libri nelle biblioteche, i soldi ci sono serviti per il fuoco, i banchieri e i politici ora si rendono utili alla comunità. Non so che fine hanno fatto le star della televisione e tanti personaggi che vivevano da nababbi, non m'interessa. So solo che il sole brilla e quando lo fa per un bel po' di giorni è una gran festa, infatti le sagre di paese, un tempo denigrate o trasformate in discoteche di piazza, sono vere toccasana per il cuore delle persone. In paese abbiamo scavato molti pozzi pubblici e anche tanti servizi igienici da usare sempre in comune, questa è l'unica cosa che non sopporto. Non so lì cosa è successo alla struttura nazionale, se esiste più una nazione, ma qui non sentiamo più parlare di politica da un po' di tempo, l'inverno è stato duro papà mio, davvero intenso, spesso ho pensato di morire di stenti insieme con tutti, anche le fattorie si sono trovate in difficoltà, verso la metà di gennaio c'è stato quasi il tracollo della nostra comunità. Nessuno era preparato ad un simile evento, abbiamo dato tutto per scontato, come se l'acqua uscisse dal rubinetto magicamente, e che un interruttore accendesse obbligatoriamente una lampadina, un forno, una televisione, un asciugacapelli. Il frigorifero l'abbiamo usato come credenza, i cellulari se ne stanno zitti in un cassetto, insieme a macchine fotografiche, lettori musicali, orologi digitali, torce elettriche e lampade a led, tutto inutile. Abbiamo provato a costruire dei semplici circuiti elettrici, non funziona nulla, è come se la fisica dell'elettricità non fosse mai riuscita, non funzionano neanche i vecchi accumulatori dei musei di fisica, nulla, non c'è fenomeno elettrico che avvenga, tranne che per i fulmini. Ho scoperto una cosa papà, che sono felice, anche la mamma che ora è in viaggio con la carovana della lana, anche il nonno prima di morire era felice, aveva visto tante famiglie sparse per migliaia di chilometri ed ora sono riunite. Ogni figlio è tornato a casa, in ognuna di essa ci sono tante persone, siamo ritornati a parlare, a guardarci in faccia, ad usare carta e penna, andiamo in bicicletta e a cavallo, sì, i cavalli sono tornati a moltiplicarsi per nostro volere. Dicono che in chiesa le persone pregano dio col cuore, le liturgie si sono abbreviate in parole di conforto, tutto ciò che facevo quotidianamente appartiene ad un sogno, lentamente abbiamo scoperto come ci venivano naturali cose impensabili in passato e come appaiono ridicole alcune fissazioni quotidiane. La mamma si lamentava dei soldi, "che fine avranno fatto i nostri risparmi in banca?" Tutti scomparsi, come i bit di molti computer, infatti quando assaltarono la banca del paese, nella sua cassaforte c'erano appena che poche migliaia di euro, il resto del patrimonio di tutti noi era svanito. Qui è ricco chi produce e lavora per la comunità, tutti partecipano in qualche modo, ho creduto fin dall'inizio che ci saremmo ammazzati in breve, invece siamo scesi nelle strade e ci siamo abbracciati aiutandoci a vicenda, all'inizio è stato tutto difficile, fino alla fine di gennaio le persone si ammalavano e morivano facilmente, almeno l'abbondanza di neve ci ha permesso di avere acqua e le carni degli animali potevano essere conservate nel freddo, il natale è stato magico. La nonna e la mamma mi hanno regalato due libri usati e una sciarpa calda, fatta da mastro Nanni, ti ricordi di lui? Aveva chiuso la bottega per fallimento e lasciato lì il vecchio telaio, a nessuno più interessava un vecchio tessitore avvizzito dietro una macchina arcaica, ora ha tre allievi che imparano il mestiere. Credevo che la scuola fosse finita finalmente, invece dopo un po' di caos le lezioni sono riprese, per insegnare non importa tanta tecnologia, gessetto e lavagna, i libri passano di classe in classe. Non so cosa accadrà a chi voglia pubblicare e scrivere cose nuove, o la stampa come funzionerà, per ora legna e carbone, ma qualcuno sta usando i pannelli solari per sfruttare il vapore dell'acqua.
Manchi molto a mamma, veramente tanto, manchi a tutti noi, mancano i pomeriggi insieme, posso solo rivederti nelle fotografie fatte in posti ormai irraggiungibili, più passano i mesi e più ti sento lontano, ma adesso nel cuore ho la certezza della tua presenza, sempre accanto annoi, anche in questi giorni silenziosi. Ogni giorno faccio le cose con serenità e dedizione, quelle poche cose che possiamo fare le facciamo bene, con calma e silenzio. Non c'è più bisogno di controllare e-mail, delle previsioni del tempo, del telegiornale, dei film, dell'estratto conto, della benzina all'automobile e delle tasse, l'unica tassa che le comunità chiedono e la collaborazione per il bene e la sopravvivenza di tutti. Anche se sei lì lontano e aspetti che la prossima carovana parta per raggiungerci, anche se sono morti in tanti ed anche il nonno se n'è andato, anche se la nonna è malata, io sono felice. Sono felice che tutto stia ricominciando daccapo, coloro che erano cattivi hanno dovuto fare i conti con l'approviggionamento e questo avviene solo con la collaborazione. So che tra i valichi di montagna, nei boschi e nei luoghi isolati si annidano bande di ladri, ma stanno scomparendo lentamente, perché la merce di scambio non è la ricchezza delle pietre preziose o dell'oro, ma del lavoro stesso. L'ordine è mantenuto da cittadini volontari e la legge è semplice, appunto perché semplici sono diventate le persone. Di quello che una volta era il mondo articolato e complesso, difficile e disumanizzato, ci resta solo la complessità d'idee di tutti noi. Siamo ritornati al settecento, ma abbiamo la crescita della coscienza diversa da quell'epoca, spero che tu venga presto qui papà mio, abbiamo tutti voglia di ricominciare, ti aspettiamo a braccia aperte. Ogni viaggiatore porta la sua esperienza di silenzio dei viaggi, io non vedo l'ora di ascoltare i tuoi nel silenzio della mia camera. Non ha più senso, veramente tutto quello che facevamo è diventato inutile, l'unica cosa utile e bella è quella di essere uniti, insieme come una vera famiglia e correre d'estate sulle spiagge silenziose. Ti amo papà, tanti padri stanno tornando dopo viaggi estenuanti, aspetterò il tuo ritorno qui sull'uscio di casa, in questo mondo silenzioso accarezzato dal vento e dal sole.
Un bacio e un abbraccio da tutti noi,
Maya
Lorenzo asciugava le lacrime copiose e sorrideva alle parole di sua figlia, le giornate si stavano allungando e la bruma tardava a coprire i sentieri della foresta nera. Alla fine del mese di aprile molti uomini, chi a piedi, in bicicletta o a cavallo, presero la lunga strada verso il sud Europa. Anche Lorenzo era diretto a sud insieme alla fiumara di gente, aveva patito freddo e fame, guerriglie urbane e poi un improvvisa rinascita, come se i cuori di tutti gli uomini all'unisono avessero preso a battere in coro, tutti insieme, la natura è più furba di quanto l'uomo crede. Qualcuno lo chiama destino, o Dio, Lorenzo non è mai stato un grande frequentatore di chiese, eppure scorgeva in quell'evento planetario una trama silenziosa e invisibile, appunto il destino o Dio. In quell'inverno ormai passato, il pianeta venne investito da una grande ondata di radiazioni magnetiche, esse penetrarono la magnetosfera e distrussero tutti gli apparecchi elettrici e derivati da essi, il mondo in pochi istanti tornò ad alcuni secoli addietro. Nessun proclama od emergenza nazionale, tutto fermo in un solo istante, nessuno sapeva quando sarebbe durata l'interferenza, ma tutti sapevano che quando l'elettricità sarebbe tornata, avrebbe trovato un umanità cambiata, forse con una coscienza più attenta a se stessa. La lettera di Maya era una delle tantissime lettere che circolavano nel mondo e attraversavano i mari, mai le emozioni furono così intense e vere, tutti i pensieri archiviati in terminali elettronici scomparvero, un foglio di carta proveniente da lontano, che odorava di casa, era il miglior ricordo che un uomo potesse avere nella sua esistenza.
Figlia della luna
<<Una sola condizione figlia mia, in cambio voglio che il tuo primo figlio
venga a stare con me.>> Sereide in ginocchio sollevò il viso che guardava
il freddo pavimento marmoreo <<Ma…mia signora io….>> L'anziana
sacerdotessa dall'identità ignota la guardò con maestosa dignità e ferma
risolutezza <<Puoi sempre tornare nella cupa disgrazia della tua vita
insozzata di calunnie e bassezze.>> Allora Sereide guardandola con gli
occhi pieni di lacrime, annuì in silenzio, ripensando al turbine degli
eventi infausti accaduti nella sua vita. Il tempio della luna sorgeva
sulla collina di Naghar tra le impervie montagne della Macedonia del terzo
secolo avanti cristo, splendido e ammirevole il bellissimo calcare,
porfido, piperno e marmo venato adornavano l'ampia terrazza di cinquecento
colonne e al centro del quadrilatero c'era un cerchio d'oro enorme dove la
sacerdotessa della luna, in eremo silenzio, riceveva i suoi fedeli
singolarmente per elargire aiuti dalle avversità terrene. Proprio in quel
plenilunio di una notte di giugno, Sereide, la casta figlia del principe
Atuasio, reggente delle frontiere greco-macedoni, era accorsa per chiedere
del suo destino e del più grande incantesimo elargito al contatto divino.
L'amore, eccolo il sentimento che discerne dal comune raziocino e da ogni
meticoloso intento di bloccare od arginare almeno, l'impulso quasi
animalesco di versarsi nel cuore del proprio amato. La sacerdotessa della
luna lo sapeva bene, quanti uomini in pena aveva visto in ginocchio
davanti a lei, in lacrime, feriti a morte e ansimanti "Vi prego, fate che
lei o lui mi ami per sempre", ecco la richiesta gravosa di responsabilità,
non per la sacerdotessa, ma per il singolo mortale, perché la Candida
chiedeva sempre qualcosa in cambio, il tributo in oro massiccio, forgiato
in una piastra circolare in cui era inciso il volto della donna, dell'uomo
o dell'azione da compiere. I capi di stato e gli uomini di guerra andavano
da Apollo e inneggiavano nelle strade il possente Eracle per il propizio
esito della battaglia e lei, la Luna se ne stava lì solitaria, fragile e
quasi evanescente tra i drappi bianchi accarezzati dal vento della prima
sera, proveniente dalle coste dell'Esperia.
Sereide scese dalla collina prendendo il sentiero buio, era possibile
ammirare la grande luna piena e il circondario stellato sulla valle
silenziosa. I campi di grano maturi splendevano tenuamente sotto la luce
sottile di luna e lei, accarezzava il suo grembo, immaginando che il primo
figlio doveva diventare un servitore della luna. <<Quando sei colpito da
una freccia>> le diceva il padre Mendocle <<non sai se fa più male il
dolore lancinante che dura un batter d'occhio, oppure la carne calda che
deve subire il freddo del metallo che entra violento. Potrebbe essere una
sola sensazione invece no, perché c'è sempre un dolore nascosto, uno
sottile e silenzioso che fa male per molto tempo e tu devi scegliere
immediatamente quale dei due mali devi eliminare.>> Sereide capiva sempre
quando suo padre affettuosamente le parlava, seduta su una sua gamba da
bambina le spiegava il mondo, il perché delle guerre e del'ira degli dei.
Marce nei deserti e imponenti eserciti si sono scontrati sulle terre
greche e anche i macedoni hanno fatto la loro parte nella difesa del mondo
libero, della nascente e fragile legge democratica. Ora lei, adulta e
bellissima aveva mancato fedeltà al giuramento fatto a suo padre e alla
sua gente, il giuramento di difendere con cuore anima e sangue i confini
contro un solo invasore l'invasore persiano.
Erano barbari per gli illirici, sgraziati conquistatori assetati di acqua,
sangue, terre e ricchezze, credevano nell'esistenza e nel potere assoluto
di un unico dio incarnato nella figura del re. Persiani, orrendi e
puzzolenti, vestivano con pelli di serpente e mantelli di vacca, prima del
fendente della spada si veniva colpiti dal puzzo pestilenziale, dai
pidocchi e dalle malattie che essi trasportavano. No, non era così, lei
aveva visto, era stata lontana, lungo le coste dell'Anatolia e aveva visto
il fiore candido della civiltà persiana, silenziosa, immensa e serena,
proprio come gli occhi del principe Argor, figlio di Mircador, generale
dell'elite militare degli immortali.
L'amore, lo stesso che trafigge e insanguina il pavimento del tempio della
luna, che versa lacrime amare di disperazione e capelli strappati dalle
teste delle vedove che piangono in convulsi movimenti del corpo, lo stesso
amore crudele dilaniante, ha cucito in silenzio una trama fitta e
complessa del segreto sogno di matrimonio tra Sereide e Argor. Non sarebbe
bastato scudo e lancia per difenderli dall'ira invincibile dei rispettivi
popoli, se avessero scoperto una cosa del genere, ovviamente in nessun
posto del mondo sarebbero stati al sicuro dai segugi persiani e dalle
infallibili spie dei greci, che bisbigliavano ovunque, in silenzio
nell'ombra di luoghi anonimi, li avrebbero scoperti. Ma il loro, sì che
era amore, forse il più stupido di tutti, il più irrazionale dei
comportamenti di innamorati, ma, il loro era una comunione umana, oltre il
confine della sconosciuta barbarie di altri popoli, solo un silenzioso
amore.
La vecchia sacerdotessa della luna, sorrise guardando la ragazza scendere
dal colle del tempio recandosi speranzosa in riva al lago, di quest'amore
non vi è traccia in canti e leggende, forzato dalle potenze celesti una
vicenda umana non può far altro che soccombere ed anche questa vicenda
umana sarebbe crollata inesorabilmente. Il principe Argor aveva notato
Sereide cavalcare un pomeriggio tardo su dei bassi crinali erbosi, sulle
isola di Crima, una delle piccole calcaree bianche che cingono l'Anatolia.
Indossava vesti bianche e turchesi, la sua pelle ambrata metteva in
risalto sulle forme bianche la parte delicata del corpo scoperto, Sereide
cavalcava quando s'accorse di essere osservata da un giovane uomo bardato
con pelli e corazza pettorale, appoggiato ad una lunga lancia con una
piuma rossa al vento. Il muto sguardo, non c'è raziocinio che possa
reggere allo sguardo fulmineo di un uomo e una donna, il tempo e lo spazio
deflettono le loro leggi a quello degli occhi, a un miglio di distanza, o
in un quadro dipinto da secoli, gli occhi si cercano incontrandosi nella
comunione dei ricordi. Argor e Sereide scrutavano ognuno nei corpi
dell'altro alla ricerca dell'anima. Fermato il cavallo, solo il ronzio di
insetti nell'erba alta bisbigliava incomprensibili messaggi e il sole
dietro Argor ne raccoglieva la sua figura nel rosso acceso di un tramonto
senza pari. Volle il caso che qualcosa disturbò il cavallo marezzato di
Sereide, lanciandolo inaspettatamente ad una galoppata sferzante per la
giovane ragazza, la furia sembrava non placarsi e Argor scattò
immediatamente intuendo il pericolo, lanciandosi a galoppo col suo cavallo
dietro Sereide. La raggiunse per un soffio, afferrando le redini del
marezzato e bloccandolo a poca distanza da una ripida scarpata che
terminava con denti aguzzi di roccia vulcanica. Sereide inebriò il suo
respiro con l'odore forte delle pelli e della corazza di Argor e fu
proprio in quel momento che ne accolse in se i lineamenti netti e delicati
del viso color fumo, tra una capigliatura nero corvino e liscia, non aveva
nulla a che fare con i riccioluti e barbuti persiani. Argor era un figlio
del vento, che si distingueva in battaglia per la personale e singolare
espressione di se stesso. E tantomeno il persiano non poté fare a meno di
notare la carezza leggera del mantello turchese sul suo braccio nudo, oli
profumi e strane fragranze piacevoli avvolgevano Sereide <<Dovresti fare
attenzione al tuo cavallo, a quanto pare è stanco di cavalcare.>> Argor
sorrise strizzando un occhio accecato dal tramonto abbagliate, trattenendo
con mano ferma il cavallo di Sereide <<Sulle mie terre i cavalli sono
liberi di andare dove vogliono e di portare chi vogliono, non ho mai avuto
timore del temperamento di Itios.>> accarezzava il cavallo senza guardare
Argor negli occhi, ma in cuor suo sentiva la sensazione della quiete e
della serenità interrotta a tratti dall'ebrezza veloce del più recondito
istinto passionale.
<<Beh se queste allora sono le tue terre, io sono un invasore, a
considerare dalle tue vesti ioniche, sei greca, anzi credo te tu sia
macedone da come parli.>>
<<Le mie terre, hai detto la cosa giusta ed è vero anche che sono
macedone, tu invece sei il mio salvatore e d'altronde nemico persiano.>>
<<Argor, per te sono solo Argor, sì principe persiano, ma non voglio
esserti nemico.>>
<<Voglio fidarmi della tua parola principe Argor e del resto hai il dovere
di accompagnare la principessa Sereide al porto dell'isola, visto che
appresta ad imbrunire.>>
Risero insieme e si avviarono costeggiando la scogliera di ponente,
lontano all'orizzonte c'erano le coste greche, il sole le illuminava da
dietro con i suoi ultimi raggi, il villaggio dei pescatori costellato di
piccole e bianche casette, iniziava ad accendere i fuochi serali e le
lucerne, tre navi greche erano ancorate in porto e la brezza morente del
maestrale disegnava chiazze crespe sulla superficie liscia del mare.
Sereie e Argor parlarono ben poco, non c'era il confine, la diversità, la
lingua, la cultura, gli antenati a dividerli, solo un ultimo sole che li
illuminava, esponendoli ad occhi indiscreti.
Accadde che le questioni politiche non sempre sposano la ragione dei
sentimenti, la bella isola di Crima venne attaccata dall'esercito persiano
e la piccola cittadina colonica rasa al suolo, rappresaglia giustificata
dal fatto che i greci attaccarono un villaggio in riva all'estuario del
fiume Arcadios, roccaforte dello sconfinato impero persiano. Dopo cruente
battaglie, toccate e fuga tra manipoli di uomini ed eroi solitari, Argor
scomparve dalle linee dei soldati. Omicidi, stupri, rapine e torture, la
sua giornata iniziava col sangue e finiva col sangue, ma la notte al
calare delle palpebre, Sereide, bellissima, seduta in un campo di grano
tra veli cremisi accarezzati dal vento. Non ci volle molto per convincere
Argor a partire nel cuore della notte, trafelato, senza armatura vestito
alla meglio come un pastore, con se portò la sua formidabile spada, un
pugnale e delle provviste. Non volle sapere nulla di suo padre ubriaco e
folle, della sua gente, del suo impero, voleva invece conoscere a fondo
l'amore. Lo stesso che lo ha folgorato quel giorno sul crinale erboso di
Crima, e gli occhi di lei profondi e limpidi, no, non sanno le malefatte
di una guerra lontana in nome di un bene supremo intangibile, che qualcuno
chiama volontà di Dio. Conservava un pezzo di stoffa lilla avvolto intorno
ad una ciocca di capelli castani, legati da un nastrino bianco
intrecciato, unico ricordo di Sereide.
<<Mi dispiace Sereide, ma…non posso disonorare gli dei, il popolo e mio
padre. Da persiano odio quello che voi greci avete fatto, ma…come tuo
servitore del cuore mi rammarica doverti lasciare e lasciare questo posto
magnifico tra le alture di casa tua.>>
<<Tieni, ricordati Argor che io sarò qui ad aspettarti, e questa ciocca di
capelli ti farà capire che io ci sono sempre, sono vera e viva e ti
aspetto, capisci Argor? Io ti aspetterò.>> Cinque anni, cinque lunghi anni
lontano da queste ultime parole di Sereide, lui la immaginava seduta sul
muretto tra le due colonne rovinate da malva selvatica, sulla sommità di
una piccola collina a un centinaio di passi da casa sua, la immagina
guardare lontano oltre la leggera bruma del mattino all'orizzonte, tra le
pianure che terminavano sotto le alture del monte Olimpo. Una sola
settimana di viaggio e sarebbe ritornato per sempre da lei, da disertore,
da vigliacco ma innamorato, devoto e affrancato della pienezza delle
parole di Sereide.
Il voto alla luna
<<Oh luna, fa che il mio Argor ritorni indenne da me, tu che guardi con
occhio lucente nella notte e squarci le tenebre del cuore degli uomini. Tu
luna, portami lontano con i tuoi occhi, mostrami Argor, è l'amore che ci
lega.>> Così dicendo la sacerdotessa della luna, avvolta perennemente nel
suo delicato velo di lino bianco e dal volto coperto, agitò le acque della
vasca circolare al centro del tempio, proprio l'acqua in cui Sereide aveva
parlato invocando l'aiuto della luna. Quando le acque si calmarono apparve
l'immagine di Fiamme e persone in preda al terrore, soldati, cavalli e
spade. Il suo Argor guidava uomini all'attacco, trucidando file di soldati
greci. Sereide si coprì il volto piangendo, la sacerdotessa immobile
sentenziò <<L'amore è la causa della sofferenza di tanti esseri umani e tu
ragazza mia sei già caduta in disgrazia dalla morte di tuo padre in
battaglia, trucidato dallo stesso uomo che ami e la tua gente implora la
pietà degli dei, mentre un mostruoso ed oscuro imperatore avanza a grandi
balzi verso di noi.>> Infatti la sventura era piombata nella vita di
Sereide, scoperta la clandestina relazione con un principe persiano suo
padre la allontanò dalla vita di corte, confinandola al tempio della luna,
in affidamento alle vergini. Raramente vedeva la sacerdotessa, ma quando
ne parlava con le altre ragazze, queste la descrivevano diversamente da
lei <<Ma no Sereide, come fa ad essere una donna giovane, è gobba e le sue
vesti sono quasi consunte dal tempo, credo che non abbia poi tanti abiti a
disposizione.>> Lei non capiva, chi era allora che la notte la istruiva
sul cielo e le mostrava il suo uomo? Non aveva comunque importanza, lei
voleva solo Argor e scappare via da una terra ormai avversa, lontano dalla
guerra e dall'orrore degli uomini.
Come l'ultima immagine apparse nell'acqua, così apparve Argor un giorno
nel villaggio di Gamiante, aveva raccolto le informazioni e la storia
sulla sventura della principessa Sereide e la morte di suo padre, lui lo
aveva ucciso nel furore della battaglia, senza prestare attenzione agli
occhi di quell'uomo in pensiero per sua figlia e speranzoso di un ritorno
a casa. Doveva dire tutto a Sereide e dopo la passione commossa del
ritorno e del ricongiungimento, Argor raccontò della guerra e della morte
di suo padre <<Lo so Argor, so tutto, ho visto con gli occhi della luna,
non è stata colpa tua, amo mio padre come amo la mia terra, ma quello che
fa di me un essere umano non è il pensiero che occupa la testa di altre
persone. Io credo in noi, nel nostro futuro e nella nostra vita.>>
Commosso dalle parole sagge e amorevoli di Sereide, Argor l'abbraccio
piangendo e sotto le stelle consacrarono il loro amore avvolti nelle
lenzuola della notte.
La vita breve della felicità fa capire agli esseri umani di quanto sia
ancor più breve e mortale la stessa esistenza. Sereide venne promessa in
sposa da un suo parente e rettore, ad un giovane principe di Sparta, un
temerario condottiero di battaglia, ricoperto di cicatrici sul corpo, ma
non certamente indegno dell'autorevole maestosità di portamento.
L'autoritario Artikos esigeva da Sereide la totale sottomissione di donna,
in quanto futura sposa. <<Mi ucciderà Argor, non capisci e ucciderà anche
te! Io lo so tenere a bada, ma non voglio che ti faccia del male, ti
raggiungerebbe in capo al mondo.>>
Argor strinse i pugni, non riusciva a capire, la rabbia e il tradimento lo
trafissero più del metallo pungente di mille lance <<Tu avevi promesso di
essermi a fianco, di passare tutta la vita insieme e invece, sei stata
promessa in sposa e tu, non hai detto nulla per impedire che ciò
accadesse. Scappiamo ora Sereide…ora via lontano, nel cuore del'Europa.>>
Ormai farneticava, mischiava repentinamente, il disprezzo alla voglia di
evadere per sempre con Sereide, follia pura. Sereide convenne a nozze due
giorni dopo, lei era morta, affranta dal dolore e dal dilaniato amore, dal
fendente inferto da Artikos al suo cuore e dalle percosse all'anima con le
parole di Argor. Fuggì di notte, mentre suo marito dormiva profondamente,
prese un cavallo di soppiatto e cavalcò veloce verso la collina del
tempio, seminava lacrime al vento durante il tragitto, avrebbe pregato la
dea Luna, perché tutto fosse stato messo a posto, voleva divenire
invisibile e apparire ad Argor nei suoi sogni e stringerlo forte a se, sì
avrebbe chiesto che il suo unico amore fosse tornato da lei.
<<Oh madre abbracciami ti prego! Stringi forte che ho tanto freddo madre
mia!>> Sereide abbraccio forte il bacino poggiando il viso sul ventre
della sacerdotessa della luna piangendo a dirotto <<Voglio morire, ho
tradito Argor con quell'uomo, ho ceduto alla tentazione di una vita sicura
e protetta, ho avuto paura di una vita da fuggiasca con l'uomo che amo, e
non posso avere figli madre mia.>> La donna le accarezzo il capo <<Cosa
chiedi piccola Sereide?>>
<<Voglio che Argor si leghi di nuovo a me, voglio avere dei figli da lui,
voglio solo lui.>>
Dall'amore, all'odio, dall'odio alla follia e poi la superbia, ecco la
superba richiesta umana "a tutti i costi fa che torni da me" quante volte
la luna aveva concesso la grazia con prevedibili conseguenze umane,
omicidio, violenza, gelosia erano tutte sfumature dello stesso colore
della passione. Infondo come dire di no ad un essere umano, nella pietà
del momento di massima devozione al cielo, divengono così devoti ed
austeri, proiettati totalmente nel centro del pensiero spirituale che li
congiunge con i loro creatori. <<Una sola condizione figlia mia, in cambio
voglio che il tuo primo figlio venga a stare con me.>> Sereide alzò
incredula lo sguardo e guadò il velo coprente il viso della sacerdotessa,
cercava di scorgere lo sguardo voleva vedere il volto di quella donna che
cinicamente stava chiedendo il tributo più alto, donare un figlio e
rinchiuderlo alla clausura di un tempio. Non avrebbe avuto neanche il
tempo di allattarlo e crescerlo quanto basta, perché questo sarebbe stato
prelevato dalle vergini del tempio. Sereide chinò lo sguardo e guardò a
terra, sospirò e mise il cuore in pace. Scesa dal tempio montò in sella al
suo cavallo e galoppò nella notte mentre la luna maestosa s'ergeva dalle
montagne lontane, travolgendo immediatamente le pianure sottostanti con la
sua luce argentea. Guardava lontano davanti a se e giunse ad un piccolo
specchio d'acqua, dove usava rifugiarsi da bambina quando scappava di
casa, si sedette sul prato e guardava le foglie leggermente adagiate
sull'acqua, pensava alle criptiche parole della sacerdotessa e alla
richiesta meschina. Oro terre, ricchezze qualsiasi cosa, lei avrebbe fatto
di tutto per ricoprirla di bene e invece le ha chiesto il bene più
prezioso. Sentì dei passi sull'erba e si voltò di scatto posando
rapidamente la mano sul pugnale in vita <<Chi…chi sei?>> disse alzandosi
all'impiedi ed estraendo il pugnale <<Guarda che non scherzo, mio padre mi
ha insegnato bene ad usare la lama.>> La figura avvolta dall'ombra
procedette veloce verso di lei e all'improvviso senti un tuffo al cuore,
credendo che sarebbe stata aggredita da uno sconosciuto. Non ci pensò due
volte, afferrò saldo il pugnale e iniziò a correre spedita contro il suo
aggressore, questo si fermò di scatto lasciando che Sereide vibrasse il
fendente, improvvisamente il braccio delicato della ragazza fu stretto
nella mano forte dell'uomo misterioso, lei si ritrovò ben presta
prigioniera di quella statua immobile <<Lasciami! Ti ho detto lasciami!>>
Poi, diradatosi le nuvole, un raggio di luna investi in pieno il viso del
misterioso uomo, era Argor che la guardava commosso <<Vuoi che io muoia?
Davvero desideri che io muoia amore mio?>> Sereide sgomenta lasciò cadere
il pugnale dalla mano destra e i suoi occhi si ricoprirono di lacrime, si
abbracciarono baciandosi in preda ad una convulsa passione, era finita,
l'amore alla fine aveva trionfato.
Sacrificio
Era di maggio, nella tiepida primavera macedone, le pianure si riempirono
di semi e pollini sparsi al vento, mentre gli aratri dei contadini
disegnavano le geometriche delle nuove arature dell'estate. Sereide
accarezzava la sua grande pancia protesa in avanti e sorrideva, vivevano
isolati dalle città, ma d'altronde era un vita serena e piacevole, Argor
pascolava bestiame, coltivava e batteva il ferro, Sereide curava un
bellissimo roseto e le aiuole intorno la loro casa, un antico bastione
ristrutturato nel tempo adattandolo alle loro esigenze. Artikos furioso
dell'abbandono del tetto coniugale, confiscò tutte le terre della moglie
fuggiasca, unica erede. Li cercò in lungo e in largo ma Argor si
pavoneggiava per la sua destrezza alla fuga, quando poi Sereide sapeva che
era la dea Luna a nasconderli al furioso spartano. Quella notte di maggio
iniziarono le doglie, il tanto atteso nascituro, quante volte coccolato
tra vezzeggiamenti e sorrisi alla luce di un focolare. Argor lasciò la sua
donna e cavalcò veloce dalla levatrice che viveva in un piccolo villaggio
a poco tempo di cavallo. La donna quando giunse da Sereide, l'aiutò
facilmente a partorire, ma restò sgomenta da quello che vide. Certo due
braccia e due gambe, una bella bambina, ogni cosa al suo posto, ma aveva
la pelle bianca come il latte e anche i capelli e la peluria del corpo era
bianca, e incastonati nel viso c'erano due occhi color cobalto, profondi e
bellissimi che scrutavano sua madre. <<Mia signora…devi nascondere questa
bambina, il tuo uomo…>>
<<No, il mio uomo capirà.>> Dopo che si riprese, Sereide la levatrice fu
congedata e nella tenda entrò Argor sorridente. Prese il fagotto dalle
mani di Sereide e uscì fuori alzandolo al cielo sereno, la bimba piangeva
a squarciagola, ma quando la scoprì per guardarla meglio, vide il colore
della sua pelle, allora si avvicinò ad una lucerna, sì, bianca come la
luna, una figlia pallida nata da un padre nero come il fumo. Lui un
persiano discendente delle popolazioni nomadi degli altipiani, che avevano
lineamenti si delicati ma la pelle era scura come la cenere, i capelli
nero corvino e i loro occhi erano come dipinti con un carboncino carico.
Argor guardò la bimba e poi Sereide che aspettava il suo consenso <<Beh…è
bellissima…questa è mia figlia…>> Consegno la bimba nelle mani della sua
donna e con un timido sorriso uscì fuori dalla tenda.
Il Persiano folle di dolore, fu colpito proprio al centro del suo onore,
tradito, quello non era frutto della sua carne. <<Lo spartano, Artikos, è
figlio suo.>> disse a voce alta, cercò di trattenersi, strinse i pugni e
respirò a fondo, nulla, sentiva la violenza bestiale ribollire nel suo
sangue. Lei lo aveva mentito, era ritornato da lui, invocando il perdono
con la storia della fuga dal marito, Sereide aveva trovato l'oasi
protettiva di Argor, solo perché non aveva mai alzato la voce contro di
lei e tantomeno le aveva mai chiesto qualcosa per lui. <<Dopo tutto questo
tempo…quella bambina…non è mia figlia.>>
Quella notte Argor dormì nella stalla su un giaciglio di paglia, la
piccola bimba Esperia dormiva serene tra le braccia di sua madre, mentre
Sereide aveva paura, di quello che ora sarebbe accaduto, quell'esserino
era un fiocco di neve, in tuta la Grecia non erano mai nati bambini così e
ovviamente temeva la reazione di Argor, che era sì il suo uomo, ma anche
padre e ovviamente, quello non era il tipo di bambino che si aspettava che
nascesse. Argor udì dei passi fuori la stalla, si alzò di scatto, ma
rimase paralizzato quando vide la figura candida velata alla luce della
luna, la sacerdotessa del monte era lì, come li aveva trovati non si sa
<<Tranquillo Argor, sono qui per omaggiare tua figlia bianca come il
latte.>>
<<Tu..che ne sai! Sei solo la serva di una statua!>> Argor raccolse tutta
la sua rabbia, era stanco di divinità, incantesimi e profezie ed ora la
sacerdotessa della luna era lì davanti a lui incurante delle sue azioni
<<A quanto pare gli dei non ti sono stati propizi, dopo tanta fedeltà,
dopo tanto amore e devozione nei confronti di Sereide, dopo che hai
commesso atti impronunciabili e percorsi migliaia di miglia per tornare da
lei, cogli il frutto di un tradimento…spartano.>> Argor odiava la gente di
sparta, poderoso esercito davvero, ma brutali assassini che non
conoscevano altro che guerra, anche nelle loro case erano bestie
schiaviste, non conoscevano onore se non quello per la lancia. <<Chi dice
che lui non è mio figlio?>>
<<Lo dicono i suoi occhi giovane persiano, anche suo padre è un albino,
comanda una delle falangi spartane, e poi il blu degli occhi appartengono
a Sereide.>> Udite le ultime parole dalla sacerdotessa Argor scappo via
correndo lungo il sentiero e fu allora che la donna velata entro nella
tenda dove Sereide e la piccola Esperia stavano lì accucciate nel tepore
familiare <<Mia signora….>> Sereide sapeva il perché della visita della
donna, ella s'inginocchiò e sfiorò delicatamente con un dito il viso
placido della dormiente <<E' una bella bimba figlia mia, bianca come il
viso della luna e incantata dalla serena saggezza della vergine.>> La
madre iniziò a piangere, doveva dire addio a sua figlia, sapeva che
l'amore di Argor le sarebbe costato caro e ora oltre a sua figlia stava
per perdere tutta l'esistenza. <<Tu hai partorito Esperia la vergine,
benedetta dalla dea Luna, maledetta da chi ti ama, inseguita da chi ti
odia. Sereide, il momento in cui mi hai chiesto un sacrificio d'amore, ho
capito subito che il tuo cuore era ormai colmo di passione, mentre il
semplice e sconfinato amore universale era già stato scacciato via dalla
tua vita, ora, come hai vissuto il turbinio della passionale vita, vivi
anche il resto che il destino ti ha preposto. Mi dispiace figlia mia, ma
la vita degli uomini è imperfetta, il giorno in cui capirete come
discernere l'amore dalla passione che vi consuma col suo ardere, gli dei
scenderanno sulla terra, donandovi il segreto dell'universo.>> Sereide
rimase a guardare immobile, mentre la donna velata si allontanava da lei
con in braccio la bambina, finche scomparve dietro la tenda.
Argor sentì in se crescere l'esplosiva rabbia, le lingue di fuoco del
passionale e insano gesto che si apprestava a compiere, lo avviluppavano
facendolo fremere in un orgasmico atto impulsivo. Tornato a casa, afferrò
la lama del pugnale in vita e guardò Sereide negli occhi, piangevano
entrambi, s'accorse che la figlia non c'era più, nella sua testa le parole
della sacerdotessa "..figlia di uno spartano.." incurante della follia
omicida impossessatosi di lui, afferrò Sereide per la vita e affondò la
lama fino all'elsa. Sentì il corpo accasciarsi senza un gemito sulla sua
spalla sinistra, lui la adagiò dolcemente a terra e ne baciò li occhi
inespressivi. Sereide era morta, il ventre suo ancora rigonfio dal parto
aveva ospitato per tanto tempo il frutto del loro amore, non avrebbe mai
immaginato che quel frutto non gli apparteneva. D'un tratto il velo ottuso
dell'odio svanì davanti i suoi occhi e lì, in quel momento si accorse di
quello che aveva fatto, aveva ucciso la sua donna amata, per sempre. Non
poté far altro che lacerarsi il cuore col dolore, la prese tra le braccia
e uscì fuori dalla tenda, alzò gli occhi al cielo e guardò la luna
<<Perché…perché maledetta luna! Cosa abbiamo mai fatto di male?>> Cadde in
ginocchio col corpo esangue di Sereide, la sua pelle stava diventando
pallida come quella della luna, i riccioli castani si disposero lungo la
linea del viso delicato, le labbra un tempo rosse divennero pallide e
fredde. Argor vide che dalla strada sterrata che si arrampica in collina,
avanzava una colonna di cavalieri armati di torcia, lui già sapeva il
destino che gli aspettava.
Artikos giunse matido di sudore, cinto di corazza e sporco di terra, la
rabbia e la meraviglia del viso erano illuminate dalla torcia, vide seduto
a terra, nel cortile dell'isolata casa, Argor che accarezzava dolcemente
Sereide. Gli spartani si raggrupparono famelici e silenziosi intorno a
loro e Artikos si fece spazio tra la folla giungendo davanti alla scena.
Vide sua moglie col ventre macchiato di sangue caldo e quell'uomo
impassibile alla sua presenza, del tutto dedicato ad accarezzare i capelli
e il viso di Sereide <<Sei tu Argor figlio di Mircador principe
persiano?>>
<<Sì sono io e questa è Sereide la donna della mia anima, ora fa presto.>>
Gli uomini incitarono il guerriero a decapitarlo, ma lui rimase
impassibile e dopo molti minuti di silenzio sfilò il pugnale e lo porse ad
Argor. Diede segnale ai suoi uomini di montare a cavallo e ripartirono giù
a valle. Argor guardava il bronzo scintillante alla luna <<Questo è il
prezzo da pagare sulla terra, per vivere a pieno una vita ecco cosa
bisogna fare, nessuno ce lo dice alla nascita, almeno sussurrarcelo alle
orecchie, no. Vivere, amare e morire, di queste tre massime non so quale
sia meno crudele. Arrivo Sereide.>> Pose la punta dell'affilato pugnale
lavorato sullo sterno e con forza si trafisse sbarrando incredulo gli
occhi, guardò per l'ultima volta la donna greca, che un giorno sull'isola
di Crima lo fece innamorare, inebriandolo con profumi di fori selvatici e
oli delicati. Chiuse gli occhi anche lui, il silenzio ne era testimone.
Figlia della luna
I passi leggeri della donna velata salivano sul monte, la piccola Esperia
dormiva serena tra il morbido lino della sacerdotessa che scoprì il volto
e alzò gli occhi alla luna. Giunse al tempio e posò la piccola tra vesti
calde sull'altare cerimoniale, l'accarezzò un ultima volta sorridendo e
baciandola sulla fronte, poi, le sue mani che accarezzavano il piccolo
viso divennero trasparenti e scomparve a poco a poco raccolta da un raggio
di luna.
Ancora oggi narra la leggenda, di una donna che pregò la luna, e la luna
scese dal cielo per cullare sua figlia nato dal ventre umano, e generato
dal vento divino, per divenire poi figlia della luna.
Le ali di un angelo
Nella guerra dei cieli, un terzo delle legioni celesti furono precipitate
sulla terra. Coloro che si allontanarono perdutamente dalla grazia di Dio,
furono chiamati Caduti. Ed ora vagano sulla Terra, dannati dalla notte dei
tempi, alcuni sprofondarono nelle ferite del mondo, attraverso gli oceani,
fino al centro fuso. Coloro che furono presi dal rimorso del gesto
ripararono tra i monti ghiacciati, per nascondersi all'occhio di Dio. Ma
solo pochi di loro, decisero di vagare sulla Terra, ed essere perseguitati
dall'occhio vigile del cielo, per intere Ere hanno viaggiato da un
continente all'altro, tra i popoli, mischiandosi tra la gente. In questi
caduti la voglia di redimersi era sempre forte e viva, nascosero fin
dall'inizio le loro ali per non mostrarle agli uomini. Poi, per la
misericordia della luce, nei confronti dei suoi figli, venne stretto un
giuramento con gli Arcangeli, la redenzione in cambio della rettitudine
degli uomini. I caduti avrebbero fatto da sentinelle agli esseri umani, in
lotta perenne con i loro fratelli dannati e nascosti infondo al baratro.
Questa è la storia di un angelo caduto, di una sentinella che da tempo
immemore vaga sulla Terra buia, in cerca della luce, che redimerà la sua
anima.
La rinascita
<<Cosa cerchi?>> disse l'uomo all'angolo della strada, da come appariva
poteva passare per un povero diseredato, ma anche lui aveva la sua fetta
di potere nel quartiere. <<Dammi un pò di roba.>> Joey afferrò la piccola
bustina dalle mani sporche dello spacciatore, il rapido scambio dei soldi
e si avviò lungo la strada dagli angoli fumanti. La tristezza che
rifletteva sulle pareti appena illuminate, da fiochi lampioni di
periferia. Sentiva il gelo dell'inverno sul viso, le nocche delle mani
bruciate dal freddo pungente, in quel tempo infausto la sua figura,
nonostante la tristezza e la pesantezza della vita, andava lentamente a
casa.
"Che stanchezza", ripeteva tra se, una giornata passata da un palazzo
abbandonato all'altro alla ricerca di una dose, un pezzo di pane, un
disegno sul muro. La sua vita passava in continuazione da un evento
all'altro della storia umana, che poteva fare la sua serenità quanto il
suo dolore. Toccava stavolta al lento declino in un baratro profondo, che
le impedì di ricordare la sua vera essenza, infatti lei non era umana.
Aprì la porta sprangata di quella che si può chiamare casa, vuota, una
branda, qualche mobile e tanta solitudine. La cosa più bella della casa di
Joey era l'ampia finestra che le permetteva di vedere un cielo limpido, e
quando pioveva, sembrava quasi che i grattacieli potessero fendere il
cielo greve con le loro antenne.
Era una nomade, insieme a migliaia di nomadi sparsi per il mondo, per anni
interi avevano percorso le strade lunghe che si perdevano all'orizzonte.
Joey aveva deciso di sistemarsi in città, lontano dal silenzio delle
strade anonime, sentiva che era la fine del suo viaggio.
<<Buon compleanno Joey, nessuna torta per te oggi?>> Disse quell'uomo dal
viso pulito, dai dolci lineamenti, fluenti capelli castani, e dagl'occhi
del blu eterno. Passeggiava sul parapetto dell'alta palazzina mantenendo
l'equilibro a braccia aperte, Joey saliva lì a volte per guardare tutta la
città e le colline lontano.
<<Ringrazia che non ti butti di sotto, lasciami stare almeno oggi, vattene
via.>> disse lei raggomitolata sul muretto sfidando il vuoto.
<<Andarmene via? Lo farei volentieri, la forma umana è troppo pesante e
goffa, guardali, creati a sua immagine e somiglianza e sono così
impacciati, magri, grassi. Sporcano la loro pelle con marchi per animali,
indossano oggetti assurdi all'inverosimile. Che assurdità tutto questo,
infondo li voglio bene.>>
<<Bene, quando pronunci quella parola sei sempre così magnanimo, quasi
facessi una carezza al cane appena bastonato, certo che secoli tra di loro
mi hanno fatto capire la vera natura di quelli come te.>>
<<Ah, ah, attenta a come parli caduto, devo ricordarti ogni volta quel che
sei, perché fai così con me? Guardami negl'occhi quando parlo, ti prego.>>
Joey aveva un viso anch'esso dolce, ma solcato dalla vita terrena degli
umani, a differenza dell'uomo che aveva di fronte, lei poteva esprimere
sul viso le sensazioni, in quanto le provava. Questo contribuiva a
deturpare col tempo l'espressione pura dell'inizio dei tempi.
<<Di tutti gli arcangeli, proprio in grande Michele doveva capitarmi.>>
Disse guardando fissa in avanti cercando di non calcolare lo sguardo
penetrante dell'angelo <<Proprio te che ci hai preso uno ad uno, sei
venuto a prendere anche me, devo chinarmi e mostrarti il collo?>>
<<Hey ma quanta rabbia abbiamo oggi, comunque i tuoi fratelli hanno fatto
una scelta, non hanno tenuto fede al giuramento.>> Michele si avvicino a
Joey l'afferrò per le
braccia e la voltò verso di lui <<Guardati, guardati come ti
sei ridotta, le tenebre scorrono in te, di tutti i caduti te sei quella
che ha la possibilità di farcela, la prima tra tanti altri, ma capisci che
sei l'unica Joey?>> Joey la guardava con aria attonita, come se dalla sua
bocca uscissero solo suoni incomprensibili, mentre si perdeva negl'occhi
profondi e vasti di Michele.
<<Lasciami Michele, non ce la faccio io, non doveva essere così.>> Pianse,
gli occhi gonfi di lacrime e la vergogna nei suoi confronti, Joey non
riusciva a vincere il suo rimorso. Michele la guardò con uno sguardo
compassionevole, lasciò le sue braccia e s'allontanò da lei.
<<Non posso obbligarti a scegliere, ma sappi che sceglierò io per te.>>
L'arcangelo scomparve nell'ombra della sera e Joey scoppiò in lacrime. Non
sapeva cosa fare, tanti pensieri s'affollavano nella sua mente insieme ai
ricordi di migliaia di anni insieme agli uomini. Interi periodi dedicati a
singole persone, quante vite salvate, quanti omicidi scongiurati solo con
la parola e con la compassione. Ora era stanca, quanti altri compiti,
quante altre gesta, o quante persone ancora doveva salvare? La vita umana
era difficile, dopo tanto vagare ancora non riusciva a capirla, anche se
ne apprezzava le sue sfumature, quelle più belle. Un essere umano a
differenza di un angelo può scegliere, se salvare la sua scintilla o
dannarla per sempre. Così almeno hanno creduto per tutto questo tempo,
sempre alla ricerca del loro creatore ricercandolo nei templi, sempre alle
prese con l'interrogativo della creazione e della loro presenza al mondo,
gli uomini sono alla costante ricerca dell'equilibrio del corpo e
dell'anima. Joey invece lo sapeva benissimo,
aveva vissuto l'appagamento eterno, l'equilibrio dell'intero universo
espresso in nella singola scintilla e condivisa col l'oceano di anime.
L'umanità cercava Dio nei templi, costruendoli più alti possibili da
sfiorare il cielo, ma i suoi messaggeri già camminavano sulla terra.
Decise quella notte di non tornare a casa, ma di girare per le strade, le
parole di Michele risuonavano nella testa, era finita anche per lei, non
c'era scampo, come poteva una razza così imperfetta non poter essere
governata con la forza, i caduti avrebbero potuto usare la loro forza
attingendola dalla luce per rettificare gli uomini. Forse Dio non era così
saggio come molti uomini credevano, oppure era solo lei ad essere
annebbiata dall'orgoglio più basso, nato dal seme della paura e cresciuto
innaffiato dall'acqua dell'ignoranza, sapeva bene che fine avevano fatto i
suoi fratelli ribelli. Ecco, dopo lo slancio iniziale e dopo aver visto
insieme alle schiere dei caduti convertiti, il patto siglato dagli
Arcangeli, ora stava scivolando tutto nel dimenticatoio. Il giorno
dell'alleanza, non quella narrata tra Dio e l'uomo dopo il diluvio, ma
quella ancestrale, quando l'umanità era appena che neonata. Erano giorni
di speranza, mentre la Terra tornava a germogliare di nuovo dopo la guerra
dei cieli e la perversione dei più ostici ribelli sprofondava nelle
profondità bollenti della terra. Un giorno di luce dopo la guerra
infinita, doveva essere il primo di una nuova era, a caso era stato scelto
quel pianeta, come accade ad alcuni luoghi anonimi che all'improvviso
prendono valore a causa di una poderosa battaglia. Gli uomini non
avrebbero conosciuto il male se il loro pianeta non fosse divenuto teatro
di guerra. Era dovere quindi degli
Arcangeli rimediare alla devastazione, l'alleanza poneva una via d'uscita
per i caduti pentiti e per gli uomini sedotti dal male.
I ricordi quella sera si perdevano nelle pozzanghere ai margini della
strada, tra i rumori delle auto, tra la vita grigia e l'esplosione di
colori. Tra il miserabile, il conquistatore, il confessore, il ladro e
l'uomo mite c'è un filo conduttore, e lei doveva scoprirlo, altrimenti il
paradiso come lo ricordava, sarebbe divenuto così lontano che a confronto
l'angelo Lucifero lo avrebbe ricordato con un pensiero ben più vivido.
Prese l'autobus dalla periferia, adorava fare il lungo giro sulla linea
nove, per l'intero perimetro esterno cittadino, dal finestrino guardava la
sua vita terrena scorrere, leggeva le anime degli uomini seduti accanto a
lei era possibile scorgere la grigia malinconia quotidiana di un'esistenza
sofferta. Quando capitava che tipi loschi e poco rassicuranti si
presentavano a bordo nel giro notturno, lei non faceva altro che svanire,
guardo con invisibile sguardo il baratro profondo al posto del loro cuore.
Non ce la faceva più, non riusciva più a guarire nessuno, aveva fallito la
sua missione di caduto, l'umanità era cresciuta, moltiplicatasi su una
terra un tempo florida, e viveva continuamente sull'orlo della barbarie.
Joey tutto s'aspettava in quel momento, meno che sentire la forte
sensazione, perduta da molto tempo, l'impulso vibrante attraversargli il
cervello, bruciando con onda di luce ogni pensiero e imponendole
l'attenzione della sua essenza divina, su quello che stava accadendo. Era
una richiesta d'aiuto. Fu assalita dalla sorpresa, dalla paura, non sapeva
quasi come agire, fu talmente presa dalla vibrazione che gli occhi
divennero neri, senza iride, segno dello stato di trance e del
collegamento diretto con la fonte di luce. Tra lo stridore dei freni
dell'autobus alla fermata di percorso, Joey si riprese, fiondandosi
rapidamente giù dal mezzo poggiandosi al muro di fronte. <<Non è
possibile….da quanto tempo…>> Ripeteva a bassa voce fissando l'asfalto,
non se lo fece ripetere due volte, un altro acume d'energia le trafisse il
cuore, qualcuno era davvero in pericolo, qualcuno invocava l'aiuto di un
angelo. S'infilò tra alcuni vicoli bui di un complesso di edifici, era la
periferia e dopo qualche minuto la strada diede spazio a viali sterrati,
in lontananza l'autostrada veloce. Tra la vegetazione rada e incolta, in
mezzo ad un gruppo di alberi sistemati in cerchio, alcune ombre si
agitavano. Joey corse col fiato in gola, sentiva dopo anni l'aurea delle
sue ali dispiegarsi dietro le spalle e divenire immense esprimendo la loro
grandezza, sentiva pulsare in lei un'energia assopita, strano, avveniva
tutto così rapidamente all'improvviso. Sentì odio, paura e delirio
vorticare tra gli alberi, una scena delittuosa era pronta a per
consumarsi, arrivata ad una decina di metri dalla scena, vide le ombre
scure voltarsi di scatto verso di lei e sgattaiolare oltre gli arbusti,
svanendo misteriosamente nella notte. Si avvicinò con passo deciso e
svelto tra gli alberi scarsamente illuminati dalla luce fioca della
periferia, c'era una ragazza, accucciata a terra stringendosi le gambe e
la bocca sanguinante. Joey s'avvicinò lentamente a quel corpo indifeso e
rannicchiato, s'inginocchiò e racchiuse se stessa e la vittima trovata, in
un guscio protettivo delle sue invisibili ali.
<<Hey…sta tranquilla, andrà tutto bene.>> Joey le mise la mano sulla
fronte e con l'altra la sollevo da terra, leggera e fredda, ricoperta di
terriccio ed erba, sentiva mugolare sotto i capelli arruffati sul volto,
molti dei quali raccolti in grosse ciocche miste a sangue. Una giovane
ragazza di circa vent'anni, il suo maglioncino beige strappato ed un paio
di jeans slacciati appena, i suoi aggressori non avevano fatto in tempo a
consumare la scelleratezza. Joey teneva tra le sue braccia caritatevoli
l'essere umano, ricordando subito la sua vera natura, il suo corpo era
solo un guscio che a stento, tratteneva l'immensa energia divina. Mentre
cullava istintivamente la povera anima, si sentiva viva, anche se era un
caduto, un dannato del paradiso che per scelta aveva desiderato l'esilio e
la tortura della vergogna eterna al cospetto di Dio, lei si sentiva felice
e viva. Assorbiva il dolore terreno e donava amore, come in un
indissolubile connubio o quanto meglio, una perfetta osmosi.
<<Chi sei?>> disse la ragazza guardandola allibita e dall'espressione
pietosa allo stesso momento <<Grazie comunque, ho pensato di morire per
sempre…mio Dio ti ringrazio.>>
<<Non sono Dio, infatti lui manda i suoi angeli, non sopporteresti la sua
luce>> rispose Joey accarezzandola.
<<Cosa…>> cercò di ribattere la ragazza, ma fu subito interrotta dal suo
soccorritore <<Ti porto al sicuro, sento il buio scorrere in te.>> Joey
prese in braccio la ragazza, e senza sapere chi fosse, la portò via con
se, ovunque, ma tranne che in quel posto.
Aveva la vista debole, solo ombre opache davanti a lei, Joey non era piena
delle sue forze, aveva consumato buona parte della sua forza vitale per
sciogliere il veleno nel
sangue di quella povera ragazza. Dormiva su un materasso consunto vicino
al muro, in quella che un tempo era stata una grande cattedrale. La
guardava e sembrava quasi di vivere in un sogno, "perché non l'ho portata
in ospedale? Perche non ho chiamato un soccorso…qualcuno, la polizia?
Perché proprio in questo posto adesso?" Domande senza risposta la
tormentavano, infondo aveva agito solo d'istinto, anche se il suo corpo
materiale era rimasto giovane, sentiva dentro di se il peso dell'eterna
vita di punizione. Una volta Michele giocando a scacchi con lei e indecisa
sulla mossa da compiere, le disse che poteva aspettare senza fretta, fino
alla fine delle stelle. Joey la prese come una battuta, ma infondo era la
pura verità, le fece ricordare di quanto eterna fosse la vita degl'angeli,
di quanto eterna era la sua agonia, in un mondo difficile. Davvero, la
vita umana è una cosa assurda, fatta di atti orrendi e impronunciabili, ma
anche di un tale amore sconfinato e proprio loro, anime perfette, non
potevano far altro che invidiare agli uomini.
Sentì un gemito, ecco, era la ragazza che si stata svegliando, l'aveva
avvolta in alcune coperte calde. Joey si avvicinò accarezzandole il viso
come una mamma farebbe a suo figlio <<Tranquilla, qui sei al sicuro, io mi
chiamo Joey, non devi aver paura.>>
<<Io…io mi chiamo Aisha, dove mi hai portata? Che posto è questo?>> disse
Aisha guardandosi intorno.
<<E' una vecchia chiesa abbandonata, certo forse t'immaginavi un ospedale,
ma hai bisogno di un altro tipo di aiuto, non di cure mediche.>> Joey
s'appollaiò come un uccello su una panca, con il viso poggiato sulle
nocche delle mani, e fissava Aisha. Sentite queste parole Aisha tolse le
coperte da dosso e si mise seduta sul giaciglio fissando il vuoto <<Non
capisco cosa intendi dire...>>
<<Intendo dire che c'è buio in te, troppo buio, diverso da quello degli
uomini. Non sei quello che vorresti essere, vero Aisha?>> La ragazza
fissava ancora il vuoto, Joey poté osservare sulla sua tempia un rivolo di
sudore, anche se faceva abbastanza freddo. L'aria sembrò quasi congelarsi,
il silenzio strinse con le sue catene le due persone e le statue immobili
da anni, non facevano altro che rendere ancora più surreale quella scena.
Joey sentì dentro di se la paura crescere, in Aisha un'ombra nera si stava
muovendo era pronta ad esplodere verso di lei e tutto intorno.
Aisha dall'espressione seria e attonita passò immediatamente a quella
sadica con un ghigno tagliente, irreale per chiunque potesse osservarla.
Guardava ancora dinanzi a se, Joey aveva già un'idea di quello che stava
per succedere, infondo non avrebbe potuto negare aiuto ad un essere umano,
anche se al suo interno era presente il male assoluto. <<Brava Joey, vedo
che sei sveglia, infondo non potevi essere da meno.>>
Joey era in preda ad un terrore acuto <<Dimmi chi si nasconde in…>>
<<…in me? Credi che mi sia dimenticato dei miei legionari? Credi che tra
tutti quelli che vivono sulla Terra e sotto di essa io mi sia dimenticato
di uno di loro? Ciao tesoro, Lucifero è venuto per portarti all'inferno.>>
L'espressione di Aisha era orrenda, il suo corpo marionetta del caduto più
pericoloso dell'intero pianeta. Il suo Capitano era tornato per portarla
nell'ombra. Joey non poté far altro che mostrare lo sgomento e il profondo
orrore nel cuore e nell'anima, avrebbe voluto volare via lontano ma non
poteva. Accadeva raramente, un duello di anime e Joey non l'aveva mai
fatto, specialmente contro colui che un tempo era stato il primo serafino
di Dio, quello più vicino alla luce. <<Lo sapevo che prima o poi sarebbe
successo, é per colpa tua se siamo tutti qui a marcire sulla Terra e…>> Si
sentì bloccata, paralizzata da capo a piedi, Aisha era in piedi dinanzi a
lei, la sua espressione deformata dal male <<Cosa c'è non riesci più a
parlare piccolo angelo? Mi si spezza il cuore, anche se quello, l'ho
colmato di odio. Comunque se pensi di potermi battere eroicamente ti
sbagli.>> Finì l'ultima parola e Joey venne avvolta dal buio e cadde a
terra priva di sensi. Aisha, ovvero, quello che era rimasto di lei, si
avvicinò alla sventurata e le mise la mano sulla fronte sorridendo
malvagiamente.
Quando Joey rinvenne nei sensi, s'accorse di sentirsi molto strana, più
pesante del solito, ma non poté fare a meno di notare quel brivido del
tutto umano di terrore, correre lungo la sua schiena. Due occhi rossi la
fissavano nel buio della cattedrale, lei si guardò le mani e strinse i
pugni, due lacrime rigarono il suo viso <<Cosa…mi hai fatto…>> disse a
bassa voce <<Dimmi cosa mi hai fatto angelo deforme!>> ripeté con forza
divenendo rossa in viso e guardando ovunque intorno a se.
<<Deforme, non lo sono mai stato, sono sempre stato il perfetto, l'angelo
con dodici ali più vicino alla verità di quanto tu ti possa immaginare.
Cosa credi che sia uscito pazzo in quel tempo? Io ho visto i suoi pensieri
e noi non facevamo parte della sua grazia.>> Lucifero uscì lentamente
dall'ombra, Joey vide Aisha a terra con gli occhi chiusi priva di sensi.
Il caduto era un ombra dalle sembianze umane, delle sue dodici ali erano
rimaste solo dodici avvizziti scheletri per le piume, sembrava un orrenda
vedova nera. Joey capì in quel momento che il male era uscito nella sua
piena forma, da migliaia di anni aveva combattuto contro quelli che un
tempo erano stati fratelli, ne aveva visti tanti, ma Lucifero possedeva un
potere magnetico sulle sue vittime. Demoni, possedevano i corpi degli
uomini traviandoli dalla luce, mostrando loro una via diversa da quella
della rettitudine.
Infondo Lucifero anche se perse la battaglia dei cieli, non smise mai di
combattere per il dominio sulla terra, una delle tante cornucopie di vita
sparse nel cosmo, che il creatore proteggeva con infinito amore. Joey per
la prima volta vide cos'era il male, un'ombra che non rifletteva luce, un
buco nero che risucchiava intorno a se la luce, un baratro per ogni sorta
di sentimento, ai suoi antipodi solo l'odio, il terrore più infinito che
angelo ed uomo non avrebbero retto allo sguardo.
<<Hai paura di me? Non devi mezzo umano, prima ti ho stretta tra le mie
braccia perché ti voglio più bene di Gesù.>> Camminava lentamente tra le
rovine di quello che una volta era stato un altare al centro della navata
principale, poi si sedette sul tavolato di marmo. <<Penso che tu ora ti
stia chiedendo perché ti senti così pesante, perché ti strappato le ali.
Ti fai chiamare Joey, un banale nome come sono banali gli uomini, giusto
per sembrare più umano. Tu lo sai che non hai un nome, sei solo un verme
ragazza e te ne vai strisciando insieme a quei vermi traditori, che
personalmente di tanto in tanto, vado a stanarli bruciando loro le ali.>>
Era vero, la sensazione della presenza delle ali era svanita, per la prima
volta non sentiva più l'aura delle sue ali sulla schiena, Lucifero le
aveva strappate, ora, era diventata una semplice anima racchiusa in un
corpo umano. <<Mi hai uccisa…>> Portò le mani al viso singhiozzando,
disperata di quella assurda situazione. <<Mi hai strappato le ali, non
potrò…>>
<<Cosa!>> Tuonò la voce oscura nella sala, <<Cosa non puoi più fare!
Salvarti?! Sei solo un'anima in pena ora, come sei miliardi di anime in
pena che affollano questo sasso.>> Lucifero rise sonoramente, Joey strinse
i pugni e diede uno sguardo ad Aisha a terra, ma sentiva che non era
morta, solo che l'angelo del male la teneva invisibilmente stretta a se.
Anche se non aveva più le ali, sentiva in se la stessa forza divina, aveva
la forza per sfidare il male, come del resto hanno fatto tutti gli angeli
prima di lei. Lucifero d'un tratto parlò con voce drammaturgica <<Vorresti
sfidarmi vero? Ma non sono venuto qui per combattere, vedi, i caduti come
te sono pochi sulla terra, parlo di quelli che godono della protezione
degli arcangeli. A questo punto non posso pietrificarti il cuore, ma puoi
star ben certa che ti lascerò vivere per l'eternità senza ali.>>
<<Che sarebbe a dire?>> disse Joey aggrottando la fronte <<Significa che
sei meno di un angelo caduto, meno della luce, sei solo un'anima racchiusa
in un guscio di carne, oh sì…sentirai tutti i dolori degli uomini, la tua
scintilla è pari a quella di un cane o di un vegetale, ho le tue ali,
aspetterò la fine del mondo per riscuotere anche la tua anima.
Salutami il vecchio Michele, un giorno gli strapperò quegl'occhi blu.>> Un
mormorio ovunque e poi tante voci ridere all'unisono, l'ombra orrenda del
primo caduto divenne enorme, coprendo interamente la vetrata della chiesa,
Joey ebbe paura perché vide il diavolo diventare un enorme ragno nero e le
sue zampe s'agitavano ovunque, poi l'ombra s'assottigliò riempiendo gli
spazi bui dell'edificio. Era finita, se n'era andato, corse da Aisha e
vide che dormiva profondamente, Lucifero l'aveva lasciata. Era finita
davvero, sentì un tuffo al cuore, ormai era morta nell'anima. Sentì la sua
testa vorticare, in preda alle vertigini e lasciò Aisha che si stava
riprendendo da un profondo sonno, uscì dalla chiesa e corse finche il
cuore non sembrò scoppiare. Vedeva la realtà in modo offuscato, era
debole, la testa continuava a girarle, l'ultima cosa che udì prima di
fiondarsi in mezzo alla strada trafficata dalle auto, fu la voce di
Lucifero ripetersi chiara nella sua mente <<Ti lascerò vivere per
l'eternità senza ali>>. Sentì forte il clacson dell'auto che le veniva
veloce incontro , un tremendo dolore e poi il buio, molto di più, del buio
dell'anima del diavolo.
Lontano dalla memoria di quel giorno.
"Sembrava quasi irreale il sole di quella giornata, tiepido e bello come
non mai. Henry baciò sulla fronte Jasmine, era un devoto bacio d'amore."
Joey chiuse il libro e guardo alcuni bambini che ridevano e giocavano
sulla neve del parco, la giornata era tiepida come quella del romanzo che
stava leggendo. Sorrise e socchiuse gli occhi, era serena, in
pace con se stessa, poi il buio all'improvviso, delle mani le coprirono
gli occhi e lei rimase immobile. <<Sento l'odore del tuo odioso profumo da
un miglio.>> Sorrise divertita e tolse le mani dagl'occhi, era David che
nel frattempo già aveva poggiato le labbra sulla guancia liscia di Joey
<<Guarda un pò è proprio il profumo che mi hai regalato.>> rispose David.
Joey era felice, anche se aveva perso le ali in quel giorno lontano e per
poco non aveva perso anche la vita nell'incidente mortale subito dopo
l'incontro con Lucifero, venne soccorsa da un angelo e questa volta non
aveva le ali sulle spalle. Le ali di David erano cucite sulla sua divisa,
insieme ai serpenti intrecciati al centro dello stemma. Il soccorritore
dell'ambulanza l'aiuto a rimanere in vita, Joey voleva morire ma delle
forti scosse la riportavano indietro dal tunnel buio, non era ancora tempo
di morire. Per la prima volta un angelo caduto, dopo migliaia di anni,
sperimentava la salvezza dalla morte. Lei, che aveva salvato innumerevoli
vite ed è stata consigliera di uomini saggi e di molti potenti, aiutandoli
a guidare gli uomini in ere di luce e tranquillità. Lei quel giorno non
vide Michele correre in suo soccorso, ma un essere umano, l'essere conteso
tra cielo e terra, la pedina di un grande gioco, imparò infatti ad amarli
e provando per la prima volta l'amore per uno di essi.
Prima che il cielo bruciasse e che molti angeli venissero trafitti dai
dardi di luce, conosceva l'appagamento eterno, immenso e senza fine. Ma
l'amore umano, terreno, era particolare, nulla di che se paragonato
all'eternità, agli spazi siderei e gli orizzonti del tempo, ogni angolo
degli infiniti universi avevano le sembianze del suo creatore e lei,
un tempo entità asessuata, poteva respirare l'amore infinito e la
perfezione del creato. E poi il giorno della guerra dei cieli, le alabarde
issate alte, i vessilli di rivolta e il sangue dei puri versato sulla
terra incontaminata, in lei il rimorso dell'ingenuo errore di aver creduto
ad una falsa voce di libertà, troppo tardi s'accorse dell'inganno e
neanche le sue ali veloci poterono portarla lontano dai vortici di vento
causati dagli arcangeli, molti precipitarono come comete su un pianeta
silenzioso, che divenne improvvisamente teatro dei destini dell'universo.
Un vento impetuoso, il soffio di Gabriele e Michele all'unisono, poi il
buio e poi…
<<Cosa c'è Joey? Ti vedo turbata?>> disse David tenendola dolcemente per
mano. David era per Joey il paradiso perduto <<Nulla amore mio, un leggero
capogiro.>> Sorrise carezzando le sue labbra, David aveva un viso dolce,
diverso da molti umani che aveva incontrato, o forse era perché aveva
perso l'inibizione dell'onnipotenza di messaggero divino, vedeva in lui
una bontà unica, il primo viso che vide una volta riaperti gli occhi in
ambulanza. Dolce e caritatevole, la sua voce eterea "Guardami, resta
sveglia, continua fissarmi" sentiva il suono intermittente delle
apparecchiature mediche e sapeva che la sua vita era appesa ad un filo.
Immortale, Lucifero aveva profetizzato la sua immortalità ma il suo
fragile corpo in quel momento, non aveva saputo accoglierla. <<Oggi mi
sono mancati particolarmente i tuoi occhi lo sai?>> disse Joey lanciandosi
addosso a lui e cingendo le braccia al collo, David perse l'equilibrio e
stava quasi per cascare dalla panchina <<Hey ma che hai! Sembra quasi che
non mi veda da un millennio! Dai andiamo devo
mostrarti una cosa.>> David prese per mano Joey, poi l'abbracciò e si
avviarono lungo il viale del parco al tramonto, camminando lei vide dei
bambini stesi a terra che agitavano le braccia nella neve ridendo,
disegnavano le ali di un angelo, Joey sorrise e distolse lo sguado.
La sera avanzava inesorabile e la giornata di sole dava spazio al
crepuscolo all'orizzonte, Joey e David entrarono nel palazzo dove vivevano
e lei scriveva racconti storici per un quotidiano, mentre lui continuava
la sua vita di medico. <<Allora adesso chiudi gli occhi e non aprirli per
nessuna ragione al mondo.>> disse David, lei rimase in silenzio e con gli
occhi chiusi in attesa, sentiva David trafficare vicino la porta e poi
l'accompagnò sull'uscio. <<Ora li puoi aprire.>> le candele soffuse
rischiaravano appena le pareti spoglie del loft, dalle ampie vetrate la
luce della luna alta nel cielo, disegnava arabeschi sul pavimento. Joey
aveva vissuto per molti secoli alla luce di candele, nei tempi in cui il
fuoco illuminava le piccole case con le lucerne e le grandi sale dei
palazzi reali con centinaia di lumi. Ma quella scena, così dolce e
trasognata, accompagnata da un profumo denso e dolce, riempiva il cuore di
Joey di commozione e profondo amore. <<Vieni joey, mettiti qui.>> David
era abbastanza imbarazzato e impacciato, sapeva diventare un uomo sicuro
di se quando si apprestava a salvare le vite, ma in quel momento era
totalmente imbevuto d'amore per Joey. Si misero uno di fronte all'altro al
centro del salone <<Come sei bella amore mio, dalla prima volta che hai
aperto gli occhi in ambulanza, non ho potuto fare a meno di perdermi nel
tuo sguardo, come del resto ho fatto ogni giorno fino ad ora.>>
David la prese per le mani e aspettava che lei dicesse qualcosa <<Amore
ma…tutto questo è bellissimo, ma dimmi perché questa sorpresa?>> Joey si
guardava intorno meravigliata, come quando entrò per la prima volta nell'
Eden preistorico, aveva perso le ali, ma i suoi sensi ancora riuscivano a
leggere i cuori degli uomini, e se spesso aveva visto un buco nero al
posto del cuore di molte persone, in David poteva vedere chiaramente il
sole brillare dentro di lui, se non fosse stato un essere umano, sarebbe
stato uno degl'angeli messaggeri. <<Perché questa sorpresa? Per te farei
questo ed altro Joey e quindi io…io..>> David si toccò le tasche della
giacca e poi il retro dei pantaloni, sembrava quasi avesse perso qualcosa
<<Allora tesoro, adesso aspettami qui torno tra un attimo, tu non muoverti
ok?>> David baciò sulla bocca Joey, che rimase lì impalata e meravigliata
e vide uscire dall'appartamento David di tutta furia, di sicuro era
qualcosa che aveva a che fare con la sorpresa che le doveva fare e forse
lei aveva anche una piccola idea in mente. Joey si guardò intorno, il loro
appartamento non sembrava lo stesso, era tutto così dolce ed ogni giorno
che passava tutto il mondo diventava più bello. Una volta perse le ali e
c'è mancato poco che perdesse anche la vita, Joey uscì da un tunnel lungo
anni e anni. Aveva visto tante persone morire ma non aveva mai amato
nessuno di essa, era un amore diverso quello di un angelo, tiepido e
infinito se paragonato a quello intenso degli uomini, ed è talmente grande
che può travolgere e distruggere, le forze del male fanno appello su
questa debolezza umana, per traviarli dall'appagamento eterno. Se vissuto
con equilibrio poteva essere una sensazione stupenda, che Joey stava
vivendo in quell'arco di tempo.
Sorrideva e passeggiava tra le candele sfiorandone la fiamma e sentendo il
calore tra i palmi delle mani, ma un improvviso soffio di vento freddo le
spense. Ad un tratto una voce distinta in un angolo buio della casa
<<Piccolo angelo.>> Appena un sussurro, ma bastò infatti a farle tremare
le gambe ed un brivido gelido le percosse la schiena come una frusta di
ghiaccio, Joey assunse un espressione di impotenza ed immensa paura
<<Lu..lucifero..>> ed era proprio lui dopo sette anni ritornò a percepire
il respiro del diavolo, ciò voleva dire che come un tempo s'era preso le
ali, questa volta si sarebbe preso ancora una parte di se stessa. Non
poteva chiamare nessuno, neanche gli arcangeli, essi l'abbandonarono dal
momento che perse le ali, non più un caduto ma molto meno. Appena un anima
con qualche consapevolezza in più, un immortale, ma pur sempre un'anima.
Questa volta Lucifero non si mostrò, rimase una voce intorno a lei
<<Quante belle candele e immagino che il tuo David le abbia accese tutte
per te, per Joey, il suo angelo.>>
<<Cosa vuoi da me! Sparisci nel tuo infermo! Hai le mie ali, mi hai
castigato all'eterna presenza, cos'altro vuoi?>> Urlò Joey intorno a se,
nel buio rischiarato dalla luna, visto che tutte le candele erano spente.
<<Vedi, forse un concetto non ti è tanto chiaro, con o senza ali,
appartieni alla razza dei caduti. Avresti potuto servire la causa, invece
ti sei piegata alla menzogna di Dio, gli Arcangeli vi controllano, ma
infondo nessuno di loro alzerà mai la spada contro uno di voi. Quindi per
tacito consenso, mi sono preso io la briga
di annientarvi. Tu mi appartieni Joey, le tue ali, la tua anima e la
sapienza divina è solo mia. Avrei potuto spazzarvi tutti dalla Terra molto
prima di quanto tu pensassi, ma dovete soffrire prima di perire
eternamente.>> Il monologo di Lucifero lasciò Joey senza parole e poi
riprese <<Pensi di poter amare, provare l'amore terreno, ma è così
sconsiderato che è la mia arma migliore contro gli stessi umani che lo
provano e sai che un giorno il tuo David dovrà morire, ma già so cosa hai
in mente. Vorresti portarlo sul monte Erebus in Antartide vero? Dove si
trovano gli esuli, e magari vorresti renderlo immortale donando le tue
lacrime fatte cristallo, un bel gesto d'amore, un amore eterno.>> Lucifero
prese forma umana ed usci dal buio rischiarato dalla luce, era nudo e
asessuato, un corpo statuario e perfetto e il suo viso liscio. Ne bocca,
occhi, naso, nulla, un volto vuoto. <<Cosa c'è non parli più? Orrendo
essere inferiore che non sei altro, oggi non sono venuto a prendere nulla
da te, ma per punirti della tua insolenza, quello che avrebbe dovuto fare
Michele lo farò io stesso, David ha acceso tutte queste candele per te, fa
una cosa, prendine una e portala sulla sua tomba.>> Gli occhi di Joey si
colmarono di lacrime e la sua bocca iniziò a tremare e le guance furono
solcate dal dolore <<No….non lui…>>
Strano che la portiera della sua auto non si aprisse, tentava e ritentava
ma la chiave non entrava del tutto <<Ma dannazione! Entra dai che sta
aspettando.>> David era troppo impaziente, e quel momento di certo non era
uno dei più calmi, aveva lasciato l'anello in macchina nel cruscotto.
Voleva sposarla, chiedere la sua mano e almeno una volta nella vita,
voleva che tutto si fosse svolto come in un fiaba.
Joey era la sua vita, il suo faro nella notte, la sua stella del mattino,
uno strano ed unico amore piombato all'improvviso nella sua vita. Quando
la guardò per la prima volta nell'ambulanza, certamente non poteva
immaginarsi che se ne sarebbe innamorato, infondo i suoi occhi non avevano
nulla di speciale, al primo impatto erano occhi sofferenti come quelli di
chiunque, ma quando si fermç a fissarli nell'intento di controllare le
pupille, si perse al suo interno e sembrò quasi poter ammirare la bellezza
dell'anima di Joey. Fece di tutto per mantenerla stabile, poi il coma, le
giornate passate accanto a lei, il miracolo della guarigione e Joey
aprendo gli occhi gli sorrise, innamorandosi per sempre. Quella sera era
l'apice di un amore, David voleva sposarla e sapeva che lei non avrebbe
desiderato altro, riuscì ad aprire la portiera e prese la scatoletta
chiusa nel cruscotto, stava per ritrarsi dal sediolino uscendo all'esterno
dell'auto, ma sentì una gelida fitta nel fianco destro e quella voce
meschina <<Mi dispiace amico, ma quell'anello lo prendo io.>> L'individuo
voltò David come una marionetta ed andò ad accasciarsi privo di forse
addosso a lui, un volto duro, scarno con occhi malvagi e poi un ghigno
poco rassicurante che David aveva visto più volte nei centri psichiatrici
<<Anzi sai che ti dico? L'anello tienitelo, quello che mi interessa è
vedere l'orrore nei tuoi occhi.>> Lo baciò sulla fronte, e un rivolo di
sangue scese dall'angolo della bocca di David, l'assassino se lo scrollo
di dosso e lo gettò a terra, David lo vide sorridere ancora con quel
ghigno assurdo e gli occhi malvagi fissi su di lui, poi venne il buio.
Joey s'accorse di essere sola, Lucifero l'abbandonò con le ultime parole
su David, sentì improvvisamente il dolore nel cuore ed era fin troppo
conosciuta quella sensazione, senza pensarci due volte uscì fuori
dall'appartamento e si diresse in strada, guidata dall'istinto attraversò
la strada scansando sconsideratamente le auto in corsa, si diresse nella
stradina dove di solito David parcheggiava la sua auto e vide la scena.
Sotto il lampione l'auto aperta e David a terra in una pozza di sangue
scuro <<Nooooo! David nooo!>> Le urla squarciarono la sera umida, quella
stessa sera che era iniziata con la magia di soffuse candele, la stessa
sera che David era impacciato e divertiva Joey, quella sera David stava
esalando i suoi ultimi respiri. Si precipitò accanto a lui, non sapeva
cosa fare, delicatamente lo raccolse da terra portandolo tra le sue
braccia e anche lei si ricoprì di sangue. David era ancora cosciente,
sentì infatti dolore nell'essere sollevato, era debole e perdeva molto
sangue, aprì appena gli occhi e vide Joey piangere in silenzio e i suoi
occhi erano tristi, sembravano quasi sciogliersi dal volto
<<David….amore…>> lui tossì e dalle labbra insanguinate fluì la debole
voce <<J..Joey….mi dispiace…>> aprì la mano e le mostro la scatoletta di
velluto rosso, fece scattare il sigillo ed uscì uno splendido anello
sormontato da un'ametista che brillava di violetto alla luce <<Avrei
voluto sposarti amore….ma temo che non accadrà…il…il mio fianco….il
fegato, ho un emorragia grave.>> Joey ritrasse la mano dal fianco caldo e
fradicio di sangue, era proprio vero ancora qualche minuto e sarebbe morto
<<Ascoltami David! Guardami! Io…io ti salverò tu non morirai capisci? Tu
non morirai!>> Lo baciò sulle labbra e lavò il sangue con le lacrime in un
sommerso pianto
disperato <<Stasera il mio angelo custode…non mi ha protetto.>> David
sorrise e strinse la medaglietta che aveva al collo regalata da Joey,
raffigurava l'effige di un angelo <<Ti sbagli amore mio, staserà il tuo
angelo custode ti salverà.>> Detto questo lo sguardo di David divenne
vitreo, sentì il cuore rallentare ed il sangue coagularsi nel cuore, il
respiro ormai bloccato, ecco, che un uomo muore. Joey rimase pietrificata,
sentì il suo cuore implodere e il corpo bruciare, la sua anima s'espanse
intorno, gli occhi divennero tutti neri come la pece, era l'aumentata
percezione delle cose che la trasformava. Aveva perso le ali, ma a
Lucifero aveva anche nascosto l'illimitata fonte d'energia concessa ai
caduti e solo pochi di essi avrebbero potuto usarla, in tanti secoli non
l'aveva mai fatto, perché ciò avrebbe consumato se stessa.
La terra intorno prese a tremare, Joey alzò gli occhi ciechi al cielo, in
un lampo di luce incredibile lei sparì insieme a David. A terra rimase
solo del sangue rappreso.
Altrove
La fiamma ardeva al centro dell'antro di ghiaccio, i cristalli
smerigliavano la luce intorno, rendendo l'atmosfera eterea e surreale, il
corpo esangue di David giaceva su un catafalco anch'esso di ghiaccio e lo
stesso s'era intriso di sangue. Joey era seria, illuminata da una nuova
aurea, dolce e bella come una dea, ma anche enormemente triste. L'uomo che
teneva le sue mani fisse sul petto di David aveva un'espressione
concentrata, i suoi occhi verde smeraldo sembravano quasi penetrare il
corpo senza vita <<Avrei potuto fulminarti appena giunta qui, questo lo
sai?>>
Joey rispose <<Ero pronta a correre il rischio, so perfettamente che mi
sono spinta oltre i confini dell'alleanza.>>
Il monte Erebus svettava sull'aspra pianura ghiacciata dell'Antartide. Il
luogo più inospitale della Terra, il rumore del vento era l'unica cosa che
correva indisturbato nelle piane desertiche e in alcune notti ululava tra
le gole del massiccio montuoso. Joey era arrivata alla velocità del
pensiero in un luogo sconosciuto a tutta l'umanità, ma solo i caduti
conoscevano bene, nessuno di loro ha mai osato giungerci, perché lì
dimoravano gli esuli. Quando venne pietrificato il cielo, con esso
precipitarono i caduti, i più saggi ripiegarono nel sottosuolo delle
montagne al riparo dalla furia delle armate celesti, i giorni della
battaglia erano indescrivibili e innominabili, Lucifero in persona guidò
ancora molti dei suoi fedeli all'assalto finale e loro nelle viscere della
terra poterono sentire i terremoti squarciare il pianeta, le grida
disperate, le imprecazioni, urla di vittoria e poi il silenzio. Quando
uscirono allo scoperto, il mondo era ricoperto di cenere e braci ardenti,
intere pianure erano coperte di corpi di angeli e solo allora Alamir capì
che era finita. Dio non avrebbe mai più concesso loro la salvezza e per
tanto neanche volevano seguire la folle dottrina di Lucifero, troppo
sapere c'era nelle loro menti e i demoni senza scrupoli avrebbero potuto
usarli per sconfiggere la luce sulla Terra. Alamir e molti suoi fratelli
decisero quindi di restare nelle montagne ghiacciate in attesa della fine
delle stelle. Ed ora, la loro silenziosa esistenza era stata interrotta da
un bagliore di luce sul monte, la luce di un angelo e non altri. Alamir
corse in cima alla montagna
immersa nella notte stellata frustrata da raffiche di vento e ghiaccio,
vide a terra esausta una ragazza che stringeva tra le sue braccia un uomo
"non avevo mai visto una cosa simile" penso tra se. Ordinò di portarli al
riparo nella grande sala, lei si riprese rapidamente, spiegando chi era e
cos'era successo, i suoi fratelli ascoltarono in silenzio, alcuni erano
contrariati sulla sua presenza in quel luogo sacro, ma altri
l'abbracciarono e accolsero un altro fratello, dalle ali recise, ma pur
sempre un triste angelo caduto dal cielo.
Almir sollevò le mani dal corpo esangue di David <<Ascolta, io non posso
portarlo in vita, non perché non mi è in potere, ma perché vi è il sigillo
alla vita.>> Joey lo guardò con meraviglia che ben presto divenne rabbia
<<Che vuol dire? Tu..tu sei un caduto esule, hai conservato l'energia
primitiva degli angeli, non sei contaminato dalla vita umana, solo tu
puoi…>>
<<No Joey, io non posso farlo, perché il suo cuore è pietrificato e ti
assicuro che questo è solo opera di qualcuno che ha più sapienza di noi,
che ha il dono di trasmutare la materia in vita, sai bene di chi sto
parlando.>>
<<Lucifero.>> Rispose tenendo gli occhi fissi su David, lei, che voleva
donare l'immortalità alla persona amata, se solo gli avesse detto la
verità, se solo lo avesse portato prima in quel luogo, ma non da morto,
ormai la sua anima era già lontana da lui. Il cuore pietrificato, il
sigillo messo sul centro della vita di un essere umano. Solo il Serafino
più vicino a Dio aveva il potere di trasmutare la materia in vita e
viceversa, parte del potere divino scorreva ancora in Lucifero, solo che
lo usava per affliggere la già difficile
vita umana, ed ora, anche quella di Joey. Ovunque fosse andata, qualsiasi
cosa avesse fatto, lei era perseguitata, Michele non si fece più vedere da
quella volta sul palazzo. Era scomparso ma sapeva bene che la osservava da
lontano. Nel silenzio della sala, Joey prese tra le braccia David ed uscì
fuori con gli occhi bassi, gli esuli restarono a guardare. Almir non disse
niente, infondo sapeva cosa succedeva nel mondo e seguiva da lontano le
vicende degli uomini e dei caduti. Ma quell'angelo senza ali l'avrebbe
stupito incredibilmente.
Il vento fece oscillare Joey una volta uscita dalle viscere della
montagna, non piangeva più, non aveva più quell'angoscia, del disperato
tentativo di salvezza, ma era determinata. Salì fino in cima, sul picco
del monte Erebus e dopo alcuni metri sotto di esso sulla piana ghiacciata,
il corpo di David era freddissimo. Lo posò dolcemente a terra, alzò lo
sguardo al cielo e i suoi occhi divennero neri ed emise un acutissimo
sibilo con la bocca, talmente acuto che risuonò per l'intera pianura sotto
il monte e il vento cessò di colpo. Dopo un interminabile silenzio sentì
la voce familiare <<Alla fine, tra tutte le soluzioni a tua disposizione,
ha scelto quella più difficile.>> L'immagine di Michele la sovrastava,
appollaiato su una roccia la guardava con i suoi occhi profondi, la luna
alta proiettò la luce sulla scena, rendendo congelato nel tempo
quell'evento. Michele si avvicino a Joey e poi diede uno sguardo a David a
terra <<Sapevo che saresti stata travolta dagli esseri umani alla fine.
Non ho potuto far a meno di udire il richiamo di un angelo, ricordi la
guerra dei cieli? Tutta la terra era piena di quel suono.>>
<<Sai perche ti ho chiamato, ti prego Michele io…sto impazzendo di dolore,
cerco di non pensare che David è steso dietro di me senza anima e col
cuore pietrificato.>> La faccia di Joey traviata dalla sofferenza, dalla
stanchezza, le labbra bruciate dal freddo, ad ogni parola la sua voce era
tremante incerta. Non aveva mai provato quelle emozioni così forti, aveva
ceduto alla solitudine al vizio della droga, all'invidia, all'orgoglio,
piccole cose se paragonate all'amore. Michele si fermò a pochi centimetri
da suo viso, poteva sentire il respiro ansimante di Joey, poi pigiò le
mani sulla fronte e sugl'occhi di Joey e s'avvicino lentamente al suo
orecchio <<So tutto di te, ma hai bisogno di vedere.>> Nella testa Joey
sentì come un esplosione e poi la sensazione di precipitare in un baratro.
Riaprì di scatto gli occhi e accanto a lei c'era Michele, si trovavano in
un immenso deserto di sale bianco <<Dove..>> <<Siamo?>> Terminò Michele la
frase <<Guarda il cielo, sta cadendo è tutto in fiamme e parte di esso è
pietrificato.>> Il deserto tranquillo si riempì di fuoco, meteore che
scavavano enormi crateri sollevando il terreno, il cielo turchino parve
staccarsi come intonaco dalla volta e gli angeli caddero al suolo, a
migliaia, milioni uno dopo l'altro. <<Ricordi questo giorno? Non credere
che sia stato fiero ad alzare la spada contro i miei fratelli, non
possiamo piangere, ma possiamo provare dolore e questo è stato un dolore
immenso.>> L'ambiente circostante cambiò all'improvviso si trovavano su un
enorme grattacielo e la città immensa distendersi sotto <<Da un certo
punto di vista vi ammiro, provate emozioni come gli uomini, guarda
cosa hanno fatto, sembrava ieri quando vivevano nell'Eden
e a desso rischiano di distruggere se stessi e tutto il pianeta.>> Joey lo
guardò con aria interrogativa <<Perché siamo qui? Cosa centra tutto
questo?>>
<<Centra ragazza mia, perché voglio farti rendere conto che questa razza è
imperfetta, Dio ha dato loro un immenso dono, loro avrebbero dovuto essere
il frutto perfetto. E non è stato certo Lucifero a traviare la loro
esistenza dalla retta via, ma è stato il libero arbitrio stesso a farli
arrivare a questo punto. Ricordi l'alleanza? Beh temo che abbia fallito e
voi caduti potete fare ben poco per tenerli a bada, scusami, non avete
fatto proprio nulla per guidarli, siete stati solo osservatori silenziosi
e molti di voi si sono resi ridicoli scendendo nelle bassezze delle
emozioni. Avete avuto la vostra possibilità di redenzione e siete divenuti
facile bersaglio del male, vi siete fatti corrompere.>> Michele parlava
guardando lontano all'orizzonte, Joey ascoltava in silenzio, ma aveva già
capito le intenzioni dell'Arcangelo <<Il tuo è stato un caso particolare,
perche sei il primo caduto che ha provato l'amore per un singolo essere
umano, non l'amore misericordioso, ma l'amore che provano solo tra di
essi, il timore più grande è che questa cosa possa espandersi come un
cancro, deviando gli altri caduti e persino i Custodi. Non ti è permesso
di amare Joey.>>
Si sentiva tradita, nel cuor suo aveva provato l'amore, la rabbia, il
dolore e adesso l'odio seguito dalla forma sopraffine del disprezzo <<Temo
che tu ti sbagli Michele, se sono arrivata a questo punto è perché
qualcuno mi ha ingannata, mi ha violentata nell'anima, ha strappato le mie
ali e le ha bruciate nell'infermo, tutto questo è solo la
conseguenza di azioni accadute. Ma non mi pento delle mie scelte, affatto,
anzi da un certo punto di visto sono grata a Lucifero per avermi permesso
di provare l'amore, che per quanto breve sia la vita degli uomini, lo
provano molto più intensamente di te, degli Arcangeli e di tutte le
schiere celesti insieme. Questa è la sola disperata conseguenza dell'atto
misericordioso dell'amore, io voglio sacrificarmi.>> Piombò il silenzio,
nonostante tutto Michele si sentiva sconfitto, infondo spettava a lui
giustiziare i caduti che avevano violato le leggi del giuramento, ma la
parola sacrificio lo colpì nel centro dell'anima e verosimilmente provò
una sensazione molto umana, la stessa sensazione che logorò Lucifero anzi
tempo. Uno scatto rapido e abbracciò Joey, si fiondarono insieme giù dal
grattacielo, istantaneamente si ritrovarono sul monte Erebus, nella fredda
notte antartica.
Joey corse dal suo David, ormai un guscio freddo e vuoto, pianse
disperatamente perché sapeva bene a cosa andava incontro <<Perdonami amore
mio, non potrei vivere senza di te, ma non riuscire lo stesso a vivere
pensandoti morto per sempre>> Michele rimase stupito di tanta devozione
per un essere umano, era espressa prerogativa degli uomini sacrificarsi
per un suo simile, ma mai un angelo, un figlio della luce, mai si sarebbe
aspettato da uno di essi il sacrificio mortale. Il pianto di Joey
s'espanse nell'aria come un dolce lamento e gli esuli uscirono dalle
viscere della montagna, silenziosamente si raccolsero intorno alla scena.
Michele gonfiò il suo cuore di misericordia e lacrime, anche se un angelo
non può piangere, dentro di se provava una commozione unica. S'inginocchio
posando il palmo della mano destra a terra e da essa uscì un'aguzza e
scintillante spada, la lama del giudizio, Joey sentì il suono del metallo
scindersi dal ghiaccio e capì che era giunto il momento, Michele si
avvicinò e posò la mano sulla guancia di Joey <<Oggi non vengo al mondo da
giustiziere, oggi, spoglio il mio corpo dall'armatura. Noi siamo angeli,
servi della luce, ma siamo anche spiriti solidali e non c'è più grande
solidarietà di quella provata tra due angeli. Oggi, non vengo da te come
tuo capitano, ma come fratello ad esaudire un tuo desiderio, perché
dell'umana sorte il tuo cuore s'è fatto carico, più di ogni altro angelo
caduto, non hai salvato il mondo o la razza questo è certo, ma hai salvato
uno dei suoi appartenenti. Una goccia nell'oceano fa la differenza, domani
il mondo si sveglierà cambiato.>>
Joey si mise in ginocchio dinanzi a Michele, scoprì il suo collo delicato
e bianco come il latte <<Dono la mia anima per un solo mortale, perché
solo madre Morte può accogliere il mio sangue e portarlo in dono al
creatore. La vita umana è molto difficile da viere, ma l'unica vera
speranza per questa razza non sono i caduti, gli esuli, gli arcangeli,
nessuno di loro. L'amore stesso laverà le loro anime da tutti i peccati.>>
Si voltò guardando tristemente David <<Muoio per te amore mio, muoio per
renderti libero dalla morte e dalla sorte del male che ti ha avvolto. Non
ti ho servito come ho fatto a molti, ma ti ho amato e ti amo ancora, avrai
dentro di te la mia vita, la dono a te David, l'intera anima è più
importante delle ali di un angelo.>> Detto questo Michele pose la punta
della spada sulla schiena di Joey, risparmiò il collo, perché la
decapitazione era il segno del castigo, la trafisse al cuore affondando la
lama fino all'elsa. Joey emise appena che un gemito, si accasciò al suolo.
Istantaneamente David prese a tremare come in preda alle convulsioni ed
urlo portando le mani al petto, era possibile udire crepitii provenire dal
suo interno, era il suo cuore che sbriciolava la pietra e tornava di nuovo
in vita. E poi ricadde a terra avvolto dal buio di un sogno.
Le labbra calde di Joey sfiorarono la fronte di David, steso sull'erba
sotto un chiaro cielo turchino <<Do…Dove siamo?>> disse frastornato e
meravigliato di vedere Joey avvolta in una veste bianca <<In un sogno
amore mio, e questa volta è la principessa a svegliare il principe. Vorrei
vivere tutta l'eternità insieme a te ma non è possibile, ho poco tempo,
devo andare…>> David non capiva, ma si sentiva strano, ricordava
precisamente quello che gli era successo, il buio ed ora la luce che
permeava ogni cosa e fu in quel momento che la simbiosi delle loro anime
li portò a comprendere tutto l'uno dell'altro, gli occhi di David erano
lucidi e colmi di lacrime <<Perché non l'hai mai detto? Io ti avrei
creduto amore mio, sarei stato pronto a vivere col mio angelo. Adesso te
ne vai, dovrò aspettare l'eternità per poterti riabbracciare.>>
<<L'eternità sarebbe appena che un secondo, paragonata alla mia esistenza
senza di te. Vivrò in te, mi troverai sempre accanto perché io ti amo e ti
amerò anche oltre la fine delle stelle. A presto amore mio.>> Il viso di
Joey fu avvolto dalla luce e tutto divenne bianco.
David si svegliò di soprassalto al centro del salone del suo appartamento,
le candele spente erano ancora tutte lì. Portò la mano al fianco e la
ferita era scomparsa, si mise una
mano sulla bocca per soffocare una smorfia di dolore e pianto. Joey non
c'era più, era morta per lui. Non sapeva quasi nulla di lei, della sua
vita misteriosa, a parte l'amore sconfinato. Si alzò dal pavimento e andò
alla vetrata, fuori cadeva la neve, posò la mano sul vetro e con sguardo
attonito fissò il balcone ricoperto dai fiocchi leggeri. Una tortora
solitaria lo riportò alla realtà, andava tubando avanti e indietro sul
parapetto, David sorrise ingenuamente, aprì la finestra e stese la mano
alla tortora, lei vi salì sul palmo accovacciandosi, dopo un po spiccò il
volo e David restò a guardare il suo amore volare alto nel cielo con le
ali spiegate, le ali di un angelo. |