Le diverse età della vita.
La passione per la montagna è entrata nel mio cuore fin dalla tenera età.
Coltivata per molto tempo con un’intensità tale che nei miei ricordi
riesco a vedere ancora oggi la frenesia nel raggiungere la meta agognata
senza essermi soffermato sugli aspetti che oggi con l’occhio attento che
soltanto il passare degli anni regala, mi permette di osservare il magico
gioco della natura su quegli stessi monti che sono stati in passato la
meta di tante escursioni.
Quante volte mi sono trovato a percorrere sentieri mentre la nebbia
copriva la scena del paesaggio, allora non mi ponevo nessun quesito. La
meta era l’obbiettivo.
Com’è cambiato il modo di vedere le cose con gli anni.
Proprio in questo periodo, quando insieme al mio socio di escursionismo
Gianni si è deciso di ripercorrere le antiche vie dei sentieri sui mostri
monti non avrei mai immaginato i curiosi effetti ottici che procura la
nebbia. Eppure in passato quante volte c’è stata questa particolare
condizione meteorologica.
Siamo saliti lentamente e la visuale non andava più in la che di pochi
passi. Questo vapore umido si muoveva lentamente, come il fumo di una
sigaretta che disegna cento forme strane in un raggio di sole. L’alito
diventa visibile come d’inverno, l’erba, i sassi, i tronchi sono pieni di
umidità che penetra nelle ossa. Durante la giovinezza questi effetto non
l’avevo mai provato. Il bosco sembra dormire e la sensazione di essere
molto in alto con poca visuale a questa età fa paura. Quando raggiungiamo
la vetta del mote Zuccone, là dove l’occhio dovrebbe dominare un’immensa
distesa di monti e di collina, quel velo di nebbia si mette in mezzo tra
noi e la scena.
E’ una sensazione curiosa osservare questo velo che ci toglie la veduta.
Fortunatamente la saggezza sell’età ci è venuta incontro facendoci
attendere che sparisse questa nebbiolina fastidiosa. Lo spettacolo
desiderato non si è fatta attendere. Rimango stupito nel vedere il magico
golfo, i monti circostanti ancora ammantati di neve.
Penso, come non mi era mai capitato in gioventù, a come l’uomo ha superato
gli ostacoli della natura per portare le comodità dove prima c’era
pericolo.
Questo è il meraviglioso regalo che ci è stato donato con l’avanzare
dell’età . Riscoprire aspetti, emozioni, sensazioni che prima erano
vissute con la giusta frenesia della gioventù che porta inesorabilmente a
conquistare mete e obiettivi.
Oggi possiamo soffermarci piacevolmente ad ascoltare la musica del mare,
il soffio del vento, a gustare il tepore primaverile senza l’affanno di
dover arrivare per forza a una meta. Abbiamo la fortuna di poter cogliere
gli aspetti migliori per qui valga la pena di invecchiare; senza paura,
con coraggio, perché quello che lasceremo sarà la migliore testimonianza
che
lasceremo alle generazioni future che potranno affrontare con serenità la
loro nuova età.
Che razza di ladro.
Capitolo 1
Il mio nome è molto più interessante del mio aspetto. Il mio viso è
piuttosto anonimo, il che nella mia professione è un vantaggio.
Pietro, il mio mentore era già anziano, faceva rutti alla cipolla,
scoreggiava, e fumava una pipa, inoltre passava le giornate a brontolare e
a scherzare.
Abitava vicino a casa mia. Io lo guardavo mentre attraversava
faticosamente la strada, avvolto in una nuvola di fumo, con le sue grucce.
Aveva perso la gamba in guerra.
Avevo tredici anni quando Pietro cominciò a interessarsi a me. L’artrite
lo faceva soffrire, impedendogli di lavorare, ma era un buon maestro,
certamente migliore di quello che io avevo alle elementari; molto preciso
ed esigente.
Nel paese lo chiamavano mano lesta. Quando ci incontravamo per strada, ci
scambiavamo sempre un giovale saluto. Eravamo bene educati.
Pietro mi faceva pratica nel suo appartamento. Sempre e soltanto nel
pomeriggio dopo aver frequentato la scuola. Imparavo i trucchi del
mestiere su un fantoccio che aveva costruito riempiendo con una coperta un
vecchi abito. Per farmi fare pratica indossava una vecchia giacca. Così
incominciai a fare pratica su di lui. Era molto critico. “ Devi imparare a
concentrarti!” mi rimproverava.
Capitolo2
Dopo alcuni mesi Pietro cominciò a farmi esercitarsi in pubblico.
Insistette perché gli rubassi il portafoglio sull’autobus di linea Riva
Trigoso – Chiavari, al mercato, agli angoli delle vie. Alla fine di tutte
le lezioni superai gli esami a pieni voti. Era l’ora di mettere alla prova
le mie abilità. Pietro me lo permise.
Tolsi il portafoglio a un uomo massiccio e muscoloso durante l’ora di
punta. Il teatro della mia prima era Riva Trigoso nei pressi della
fabbrica “ Cantiere Navale” nel momento in cui le maestranze uscivano
correndo, quasi a fare a gara per recarsi alla mensa per consumare il
pasto. L’operaio stava correndo, Pietro gli si piazzò davanti , proprio
nel mezzo del piazzale della chiesa parrocchiale di San Pietro.
Non era un caso la scelta del posto. La scena esigeva questo copione.
L’operaio inciampò e cadde bestemmiando. Prontamente, come avevamo
stabilito, lo aiutai a rialzarsi ma lui mi spinse via con rabbia. Il gioco
era fatto. Gli avevo sfilato il portafoglio.
Andai nella toilette del bar Lungomare, situato nei pressi del cantiere
navale. Assicurandomi di aver dato due giri di chiave alla porta aprii il
portafoglio. Trovai ottantamila lire ( moneta in uso in quei anni ), i
documenti, una foto di una donna giovane, una rubrica telefonica. Tenni
tutto, tranne il portafoglio e la foto della donna. Questo successe molto
tempo fa.
Capitolo 3
Con il denaro sono sempre stato oculato, sicuramente più di tanti altri
che conducono una vita così detta normale. La mia vita è assai monotona.
Sono sposato, ho due figli. Sono molto egoista. Faccio vacanza in
montagna, amo viaggiare, a proposito, quando sono in ferie non esercito
mai. Mangio leggero, e per tenermi in forma vado a fare delle belle
camminate. Mi piacciono il buon vino e la bella musica. Tutto sommato
conduco una vita tranquilla. Non mi aspetto molto dagli altri, così non
corro il rischio di rimanere deluso. La mia è una vita ordinaria da tutti
i punti di vista. La mia professione è interessante.
Il modo in cui provvedo al mantenimento della mia famiglia incuriosisce la
gente del paese. Vorrebbero conoscere i dettagli. Io sto attento a non
scoprire la mia vera natura.
Tempo fa, in un portafoglio che ho preso ai giardini pubblici di Chiavari,
nei pressi della stazione ferroviaria, ho trovato una bustina di eroina,
finita insieme al portafoglio nel bidone delle immondizie, a Genova presso
il museo della navigazione sono rimasto di stucco quando mi sono accorto
di aver rubato la tessera di identificazione di un agente di polizia. Ho
lasciato immediatamente il museo.
Un’altra volta alla Conad sempre a Genova mentre salivo con la scala
mobile ai piani superiori, ho allungato una mano in una tasca e ho trovato
una pistola. Pure in quella occasione mi sono ritirato prontamente. So
calcolare i rischi. Contrario alla violenza. Tranne i soldi, tutto finisce
nel bidone della spazzatura.
La lezione l’ho imparata quel primo giorno a Riva Trigoso, quando ho
tenuto la rubrica telefonica. Credi che ti verranno a fare visita in
prigione? Mi redarguì Pietro. Abbi un po’di buon senso! Da quel giorno, i
bidoni della spazzatura ricevettero tutto, ovviamente tranne i soldi.
Era un comportamento che non mi piaceva.
Le persone che perdono il portafoglio subiscono un grave danno, non tanto
per i soldi, quanto dover rimpiazzare i documenti. E’ una seccatura che fa
perdere un sacco di tempo. Però, farsi prendere dalla compassione ed
evitare di farli sparire significa invitare a nozze il fallimento
dell’impresa.
Capitolo 4
Sestri levante, cinema teatro Ariston:
entrai nella sala cinematografica quando lo spettacolo era già iniziato.
Mi guardai confusamente intorno, vidi una figura di un uomo abbastanza
giovane, mi sedetti a due file di distanza continuando a fissare i suoi
movimenti. Sembrava agitato, quasi che il film non lo interessasse.
Nell’intervallo, quando le luci illuminarono la sala cinematografica mi
alzai per andare a svuotare la vescica; quando ripresi il mio posto nella
fila, notai che il giovane uomo doveva essersi alzato, perché ora si
trovava inspiegabilmente vicino alla mia poltroncina. Avvertii subito quel
piacere pruriginoso, il gusto, il godimento di quella piacevole sensazione
che si prova quando si scarica l’adrenalina dal nostro corpo. Infilare le
mani nella giacca dello sconosciuto era proprio quella bellissima
sensazione.
Con la mia consueta abilità riuscii a tirare fuori dalla giacca del
malcapitato una busta dal contenuto pesante. Continuai come se niente
fosse a guardare lo spettacolo che ora cominciava a piacermi. Attesi la
fine del film con molta pazienza. Non uscii dalla sala cinematografica,
come lo sventura appena derubato che si avviava con passo indeciso verso
l’uscita. Rimasi in attesa del secondo spettacolo. Dopo una buona mezzora,
la mia curiosità di vedere il contenuto della busta superava quella, di
veder finire la trama del film.
Mi alzai e mi diressi nuovamente nella toilette ma questa volta solo per
appagare la mia curiosità. Estrassi dalla tasca dei pantaloni la busta che
avevo prelevato dalla giacca dello sconosciuto per esaminarne il
contenuto. Non stavo più nella pelle.
Come sempre avrei tenuto i soldi e buttato il resto. Non fu così.
Quando vidi il contenuto, ci rimasi male. Duemila lire soltanto, fogli
stropicciati di medicinali, indirizzi di medici specialistici in
oncologia, il libretto della mutua, la carta d’identità e una lettera.
Rimasi deluso del bottino. La vista di quegli appunti aveva scosso la mia
curiosità. Così, quasi meccanicamente aprii la busta.
Lo scritto era una raccomandazione della moglie, malata di cancro perché
il marito affrontasse in modo dignitoso quel triste momento della vita.
Nel momento in cui finii di leggere fui soprafatto dal rimorso. Le mie
mani incominciarono a sudare e a tremare, mi sedetti sulla tazza e mi misi
a fissare la firma. La lettera andava consegnata al proprietario. La
ripiegai con cura e me la misi in tasca. Quello che avrebbe dovuto essere
semplicissimo divenne improvvisamente maledettamente complicato.
L’uomo non viveva più all’indirizzo che era scritto sul documento
d’identità, Lavagna via Devoto. Mi feci passare per un suo amico e un
vicino mi diede il suo nuovo indirizzo. Mi recai in quel quartiere
popolare di Lavagna “ Corea”; purtroppo si era nuovamente trasferito. Alla
fine ottenni un altro indirizzo. Era stata una donna anziana a darmelo,
diceva di conoscere bene quella sfortunata della moglie. Si era trovato
una sistemazione economica, un monolocale in affitto nella periferia di
Lavagna. Quando mi aprì, senza lasciargli il tempo di proferire parola gli
dissi di aver trovato la lettera. Sembrava importante e molto personale,
vedendo l’intestazione dell’ospedale gli spiegai che mi ero dannato
l’anima per rintracciarlo. Quando prese la lettera dalle mie mani, scoppiò
in un pianto. Si strinse al petto la lettera e gridò : grazie! Grazie. Io
ero fermo sulla porta, imbarazzato.
Mentre la lettera della moglie mi aveva commosso, il suo dolore, come
tutti i dolori che non sono affrontati con dignità, mi sembrava patetico.
Sua moglie, gli aveva chiesto di essere coraggioso. Invece eccolo lì, un
uomo a pezzi. Senza aggiungere una parola, girai sui tacchi e me ne andai.
Avevo bisogno di aria fresca.
Mi resi conto che la mia abitudine di buttare tutto nella pattumiera dopo
un borseggio era da coltivare. Quello che si conserva diventa sempre fonte
di preoccupazione.
Capitolo 5
Nel millenovecentoottantatre, a Genova è stato attivato il collegamento
sotterraneo funzionale all’incremento del traffico metropolitano, è
realizzata la nuova fermata sotterranea chiamata “ Genova Principe
sotterranea” dotata di due soli binari di corsa. L’accesso alla fermata
sotterranea è possibile sia attraverso delle scale mobili, poste
nell’edificio della stazione ferroviaria, sia dall’esterno, in una zona
posta di fronte alla stazione marittima, fra piazza del Principe, via
Fanti d’Italia e via Bersaglieri d’Italia, dove avviene lo scambio fra
treno, autobus e metropolitana. Non è un posto allegro, ma era il mio
nuovo territorio di lavoro. All’epoca avevo appena compiuto trentasei
anni.
La vita sotterranea non ha niente in comune con quella che si stende in
superficie. Pendolari che entrano ed escono correndo per recarsi al
lavoro, studenti vociferanti vestiti con abiti sportivi. E’ un posto dove
si può osservare con attenzione che chi passa il tempo lì sotto assomiglia
quasi a un topo. Anziani, barboni, giovani senza dimora che si precipitano
da un vagone all’altro per raccattare poche briciole. I passeggeri passano
veloci cercando di evitarli.
A volte però quasi per magia quel posto si trasforma. Musica allegra e
chiassosa che echeggia nei corridoi. Fisarmoniche, chitarre, sassofoni,
trombe, suonano insieme. I nordafricani vendono ogni genere di mercanzia;
mendicanti senza gambe che agitano i piattini per le elemosine; gente
improvvisata a vendere castagne e noccioline nella stagione invernale, poi
fiori e bigiotteria. Lì sotto non c’è violenza. Quando comincio a provare
fastidio, quando gli occhi mi si offuscano, esco in cerca di luce. Vado a
lavorare nelle vie dove si trovano le banche e dove passeggiano i turisti.
A proposito, ho già scritto dei musicisti che si trovano nei sottopassi,
il che mi spingere a scrivere di un altro episodio.
Capitolo 6
Come i venditori ambulanti, questi musicisti sono dappertutto: nelle
stazioni, nei corridoi, sulle strade. Alcuni sono straordinari. Un vecchio
signore elegante suona il violino nella stazione di principe, una giovane
donna con un vestito di seta rosso sta fissa e immobile sotto i portici
del teatro Carlo Felice.
Altri sono terribili, penso a un uomo che suona la fisarmonica nelle
vicinanze del supermercato coop di Sestri Levante che tormenta i passanti
con stonature allucinanti, la gente si avvia velocemente all’ingresso del
supermercato.
I musicisti di cui scrivo sono un gruppo di cui scrivo sono un gruppo
d’indiani. Suonano quella bellissima musica andina che sembra portata dal
vento. Due flauti, una chitarra, un mandolino e due tamburi. Si esibiscono
nelle ore di punta del tardo pomeriggio quando i soldi affluiscono con più
facilità.
La prima volta che gli ho ascoltati, ero con mia moglie e i miei due figli
a una fiera che si svolgeva e tuttora continua la sua tradizione a
Chiavari. La musica era dolce, triste e gioiosa allo stesso tempo. Ne ero
attratto. I miei famigliari volevano girare tra i banchi della fiera,
insensibili a quella dolce melodia. Con malavoglia li segui nella ressa
della fiera.
La seconda volta che ebbi l’occasione di ascoltarli ero solo a Genova, sul
lavoro. Mi misi ad ascoltarli per più di un’ora. Verso la fine mi scostai
per accostarmi alle prime file. Notai che davanti ai piedi dei musicisti
giaceva la custodia di una chitarra zeppa di monete e di banconote, in cui
misi io stesso una banconota. Uno del gruppo, un uomo con i capelli lunghi
legati in una coda di cavallo, si diresse in mezzo alla folla per
raccogliere le offerte. Mi accorsi che teneva un rotolo di banconote nella
tasca della giacca. Si fermò accanto a me. D’istinto gli parlai dicendogli
quanto fosse bella la loro musica. Lui annuì con una naturalezza che mi
mise a mio agio. Qualcuno gli tocco il braccio e lui andò oltre. In quel
frangente con la mia consueta abilità gli avevo sfilato il malloppo. Era
stato un gioco da ragazzi. Mi dileguai tra la folla e me ne andai.
M’incamminai lungo via Andrea Doria mentre le note della musica mi
risuonavano in testa. Quando mi fermai a mangiare un panino in uno dei bar
lungo la via, entrai nella toilette per contare i soldi. Era stato un buon
colpo. Mi chiesi se quel giovane musicista avesse perso il suo contegno.
Sperai che non fosse così. D’altronde era stato così incauto e la mia
tentazione troppo forte. Avrebbe dovuto essere stato un po’ più accorto.
Capitolo 7
Mi ricordo un giorno che avevo lavorato tra la folla di turisti che si
recavano a visitare l’acquario, sempre a Genova. Nella maggior parte dei
casi, i turisti sono bersagli facili. Il giorno di cui parlo era stato
particolarmente positivo. La stagione turistica era nel pieno. I
marciapiedi lungo via Gramsci erano gremiti. I portafogli sembravano
balzare fuori dalle tasche per conto loro. I miei diti non mi erano mai
sembrati così agili, passavo da un bersaglio all’altro, era come
raccogliere le more. A una certa ora tornai alla mia postazione
provvisoria, che avevo scelto con cura, per svuotarmi le tasche e
nascondere il malloppo. Avevo bisogno di staccare. Dopo circa una mezzora
andai di nuovo in strada. A metà pomeriggio le cose stavano andando bene,
ma io ero nervoso e avevo bisogno di calmarmi un po’. Quando mi rimisi al
lavoro, scoprii con piacere che non era cambiato niente, ero al massimo
della forma, come se i miei polpastrelli avessero gli occhi. All’inizio
tra piazza Acqua Verde e via Andrea Doria vidi un ragazzo che stava
tentando goffamente di rubare un portafoglio. Il bersaglio era un turista
grande e grosso. Questi scostò con uno strattone la mano del ragazzo. Era
il tipico incidente che capita ai principianti. Mai fare affidamento sulla
prevedibilità di un borseggio. L’uomo fece un balzo all’indietro e
strillò. Il ragazzo era scomparso velocemente. Lo seguii per il
marciapiede per parecchi isolati. Girò a destra in vico Chiabrella, si
appoggiò al muro e si accese una sigaretta. Gli tremavano le mani. In
questo dimostrò di avere giudizio, i suoi timori erano giustificati,
avrebbe potuto finire in prigione. All’orecchio sinistro portava un
orecchino. Ero attratto dalla sua insolenza. Venne fuori che era di
Caltanisetta, era arrivato da poco in città ed era assolutamente deciso a
non finire in una fabbrica a timbrare il cartellino per tutta una vita. Mi
spiegò che aveva intenzione di diventare ricco rapidamente. Era
assolutamente seri; voleva vivere su una barca e starsene sdraiato tutto
il giorno a bere e a caccia di donne. In questo mestiere una cosa
pericolosa è l’avidità. Una persona avida si assume dei rischi assurdi,
corre pericoli eccessivi e alla fine si fa prendere. Mi accorsi che il
punto debole del ragazzo, era proprio questo. Quando si è troppo
ambiziosi, si può anche non raggiungere la maturità. Tenni i miei pensieri
per me e gli augurai buona fortuna. Ci separammo all’altezza di via San
Lorenzo. Io prosegui verso la stazione di Genova Brignole per salire sul
primo treno che mi avrebbe portato a casa. Mi accorsi di essermi
dimenticato di passare dalla mia postazione a ritirare la refurtiva che
avevo recuperato quella giornata.
Era la prima volta che avevo quel tipo di dimenticanza. Quindi ritornai
indietro a prelevare il mio piccolo tesoro. Ripresi la strada per recarmi
in stazione in compagnia dei miei pensieri. Non avevo fretta, era stata
proprio una gran giornata. In quanto al ragazzo, non mi ero lasciato
trasportare dai sentimenti. Avevo preso una saggia decisione. Fischiettai
per tutta la strada che mi separava dalla stazione. Presi il primo treno
per Sestri Levante e dopo circa un’ora e mezza arrivai a casa. Era tardi.
I miei famigliari erano già a letto. Nonostante l’ora accesi lo stereo, mi
misi le cuffie e un cd di musica classica. Aprii una bottiglia di
prosecco, accesi una sigaretta e mi coricai sul divano. Appena mi
rilassai, mi sentii invadere da una sensazione stranissima. Mi alzai e
andai verso la giacca che avevo buttato sullo schienale di una sedia.
Infilai una mano nella tasca della giacca, dove avevo messo da parte
l’ultima fetta dell’incasso della giornata. La tasca era vuota. Accidenti!
Fui così sconvolto che sarebbe bastato niente a farmi crollare. Avevo le
vertigini, quasi mi dimenticai di respirare, mossi un passo di lato,
barcollai, poi mi ripresi. Cominciai a camminare avanti e indietro come un
forsennato. Bestemmiavo. Che oltraggio. Maledii il ragazzo, poi me stesso.
Presi a calci la porta, il divano, le sedie; arrivai persino a mordermi le
mani dalla rabbia che avevo in corpo. Era proprio in bello spettacolo,
anche mia moglie e i miei figli si gustavano la scena senza capire.
Volevano spiegazioni. Alla fine mi calmai. Per un attimo restai alla
finestra scuotendo la testa per il disappunto, guardavo la strada
desolatamente vuota. A quel punto cominciai a ridere. Era meraviglioso! Mi
aveva davvero fatto fesso il ragazzo. Con una prestazione davvero
magistrale. Fu allora che invitai mia moglie e i figli a andare a letto e
tornai a sdraiarmi sul divano. Finii il mio vino e mi misi ad ascoltare la
musica. Avevo perso una buona parte delle entrate di quella giornata. Che
cosa ci potevo fare? Il mondo è pieno di ladri.
Una giornata goliardica.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando in compagnia di Massimiliano,
Franco, Vittorio e altri ci si è recati in un paesino della val di Vara per dare
sfogo ai nostri giochi goliardici. Volevamo prenderci gioco del prete del paese.
Il nome non lo nomino per ovvie ragioni. Se avrete la bontà di leggere la storia
comprenderete.
Arrivati in questo piccolo paese ci recammo alla parrocchia che sorgeva con la
sua chiesa nella parte nord. Entrammo rispettosamente in chiesa, bussammo in
sacrestia per colloquiare con il prete. Nessuna risposta! La porticina che dava
accesso alla sacrestia era chiusa. Uscimmo dalla chiesa quando una signora
piuttosto anziana ci venne incontro presentandosi come la perpetua del prete, o
meglio come governante. Noi ci presentammo come i responsabili di un’emittente
televisiva che doveva svolgere un’inchiesta sul convento dei padri Passionisti.
Sentendo queste parole, l’anziana signora fattasi subito premurosa e meno
arcigna, abbassò le sue difese, ci disse che il reverendo stava riposando e che
sarebbe stata sua premura informarlo della nostra presenza in paese e dove ci
avrebbe potuto trovare. Io ero il regista di quella scena, quindi presi la palla
al balzo e risposi che il reverendo ci poteva trovare nell’osteria del paese che
avevo adocchiato quando eravamo arrivati.
Così, ci avviammo verso l’osteria, dove consumammo uova bollite e una bottiglia
di vino rosso. Il locale era caratteristico così come l’oste, un omone grasso
con un naso sporgente e bitorzoluto, rosso come il vino che ci aveva servito. A
differenza dei miei amici che si erano ringalluzziti, io ero leggermente
intontito e assopito dal caldo. L’ora e la distensione dei nervi che succede
dopo aver segnato il primo punto della partita, una calma stupida ma piacevole.
Questa sensazione piacevolissima durò fin quando l’oste non ci informò che il
reverendo voleva incontrarci. Era un uomo robusto, bruno di pellame e di
capelli, lucido in faccia come se fosse unto. Si avvicinò sorridendo, e al mio
invito di accomodarsi al nostro tavolo, rispose con un gesto negativo, risoluto
e forte come la sua personalità.
Il collo taurino e le spalle quadrate indicavano che il sacerdote non era
avvezzo a usare la zappa e i muscoli oltre alle parole. In piedi davanti al
tavolo, il reverendo ci rese dotti spiegandoci che era il reggente della
parrocchia da venticinque anni e, che prima di allora era stato curato in una
parrocchia che si trovava nelle vicinanze del paese, un tempo antica sede
vescovile e avrebbe risposto volentieri ai nostri quesiti circa il convento dei
“padri passionisti”.
Mi guardava fisso negli occhi, non degnava di uno sguardo i miei soci, il suo
viso era penetrante. Aveva un vocione robusto come le spalle e, un timbro di
voce che faceva vibrare la vetrata. La salute e la vita traboccavano in quel
prete e non l’avrei consigliato per confessore a tutti quelli che soffrono di
debolezze. Sicuro di se, dopo due minuti di conversazione, piantato
energicamente sulle gambe muscolose e sui piedi da montanaro, gestiva senza
imbarazzo la discussione. Sicuro come chi non teme ostacoli e non sa che cosa
sia la paura del ridicolo.
In quel momento mi resi conto che ero io il vero ridicolo. Il regista e, i miei
soci, i comprimari. Comunque era tardi per ritirarmi dalla scena, dovevo andare
avanti nella sceneggiata, anche perché avevo capito che il sacerdote aveva
compreso le nostre intenzioni goliardiche e ora era lui che dirigeva il gioco,
per giunta giocava in casa.
Doveva essere un buon prete, ma, a prima vista non mi ricordava le sembianze dei
perfetti servi di Dio. Dopo i primi complimenti tirati a bruciapelo, parlò del
convento dei Passionisti, ruvidamente con reminescenze fatte di retorica, poneva
l’accento non sulla storia ma al contrario sullo spirito con una schiettezza che
non avevo mai ascoltato in precedenza. Raccontava della verità eterna e di tante
altre cose che ora non si raccontano più e, di quando in quando poggiava le mani
aperte sul tavolo con certi “ che ne dici tu ragazzo?” baritonali e sonori,
senza attendere la mia risposta. Poi continuava con i suoi ragionamenti e tirava
fuori qualche idea bizzarra o ingenua, con una foga di uomo convinto delle sue
idee che mi meravigliava. Mi meravigliava e nello stesso tempo capivo che
m’imbrogliava. Mi riusciva difficile ammettere che un prete e, per giunta di
campagna mi prendesse in giro e mi mettesse alla berlina dei miei amici.
Gli offrii da bere, ma egli, senza interrompere il discorso, fece il suo solito
segno di negazione con la mano e, continuò a parlare d’idealismo e di realismo.
Io cominciavo a riflettere seriamente in quale guaio intellettuale mi ero
cacciato. Inoltre pensai: un prete di quella mole non si può lasciare senza
risposta come una lettera!
Presi spunto dalle sue parole che incontravano Dio, la Madonna, le campane, il
purgatorio e tante altre cose ancora, per dirgli che in mezzo a quelle
argomentazioni, c’era molto di più di un amore, perché riusciva difficile almeno
in quegli anni ascoltare un prete che si poneva nei confronti della vita e degli
argomenti, con una tale disponibilità al confronto.
Ancora più raro, e questo non se lo sarebbe mai aspettato nessuno, era furibondo
contri i seminari.
Continuò in quello che ormai sembrava essere uno sfogo:- ci prendono che siamo
bambini, c’imbottiscono di sciocchezze, ci tengono chiusi come frati in
un’atmosfera artificiale e, un bel mattino ci intingono come un paio di scarponi
e ci mandano per le campagne, per i monti, per la riviera. Arriviamo nel mondo
con le idee del seminario e scopriamo con amarezza che non sono altro che
bufale. Tentiamo di cambiarle, di studiare, di capire il mondo in cui dobbiamo
vivere e operare, ma abbiamo sempre un filo legato al piede, siamo sempre tenuti
d’occhio come fa l’arbitro in una partita di calcio con chi è ammonito.
Continuò, sempre con lo stesso piglio di uomo che sa dove vuole andare a parare,
e per la prima volta, rivolse lo sguardo semplice e allo stesso tempo
autoritario ai miei amici dicendo: “Ragazzi, le stigmate del seminario non si
cancellano più dalla nostra fronte”. Quando la chiesa ha afferrato la sua preda,
non la lascia più. Ci destiamo un bel mattino, di fronte ad un bivio, essere
odiosi a tutti, o essere ipocriti per essere accettati da tutti. Purtroppo i più
scelgono quest’ultima strada, quella dell’ipocrisia.
Per Dio! Disse proprio così: è dura percorrerla e, la colpa è tutta di quelli
là.
Il prete tese il braccio in direzione sud, dove si trovava il convento che un
tempo era stato il seminario della sua gioventù.
Il sacerdote aveva spiegato le vele a tutti i venti. Franco, il mio compagno
d’avventura rideva come un matto nel sentire parlare il prete in un modo così
liberamente colorito; gli troncò il discorso a metà e gli tese il bicchiere
colmo di un vino rosso che sembrava sangue.
Il parroco rimase col discorso a metà, esitò, poi scosse la testa come per dire,
mi decido! Afferrò il bicchiere con la mano destra e alzò il pugno sinistro in
aria.
Con la fronte corrugata e i denti stretti brontolò. Salute! Avete terminato
l’intervista birbanti!
Bevve il vino che Franco gli aveva offerto gustandone il sapore di ciliegio fino
all’ultima goccia. Tutti ci alzammo dal tavolo in segno di congedo, si capiva
che il sacerdote voleva ritornare alla sua chiesa, forse per chiedere un perdono
del quale non aveva bisogno.
Ci strinse forte la mano e se ne andò calandosi il copricapo sulla testa.
Mai fu così gradita una stretta di mano. Una giornata che nelle premesse voleva
essere goliardica per tutti noi, è stata al contrario una lezione di vita.
Non tutti i preti sono uguali.
Ricordi.
Il ricordo di mio padre si rende ancora più costante e intenso nel momento
in cui affiorano alla mente le “storie” di guerra che mi narrava. Io lo
sollecitavo ma lui ne parlava con malinconia e tristezza. Gli si leggeva
nel viso tutta la sofferenza per quegli anni passati a bordo, nel bel
mezzo della seconda guerra mondiale. Non comprendevo appieno i suoi
racconti e le sue parole. Ci sono voluti molti anni per capire quando
citava la parola “convogli” e “battaglia amara”. A distanza di molti anni
ho scoperto che la battaglia dei convogli, fu certamente la più disperata
e amara fra quante ne combatterono gli italiani nell’ultima guerra.
Disperata e amara perché mentre i mezzi degli inglesi, che in quel periodo
storico erano nemici dell’Italia, progredivano di mese in mese, quasi di
giorno in giorno, le armi, le apparecchiature e le stesse concezioni
tattiche della Regia marina italiana restarono in parte per l’intera
durata del conflitto al grado in cui erano agli inizi delle ostilità.
Amara e disperata raccontava mio padre perché a mano a mano che il tempo
passava appariva evidente che la “battaglia dei convogli” non poteva
essere vinta dall’Italia. Qui entra in gioco la filosofia del marinaio,
perché lo spirito di coloro che andavano per mare mai si piegò. Anzi, le
volontà si tesero all’inverosimile pur di difendere i convogli che
dovevano arrivare a destinazione per poter rifornire i nostri soldati di
medicinali, vestiario, calzature, e generi di prima necessità. Questa era
la loro guerra. Raccontava mio padre che quello in cui operavano era uno
specchio d’acqua al cui centro capeggiava l’isola di Malta. L’isola era la
base di partenza durante tutto il corso della guerra di aerei,
sommergibili, e navi di superficie inglesi a caccia di convogli italiani.
Bastava che un paio di aerei dotati di radar sorvolassero per due o tre
ore lo specchio d’acqua dove navigavano le navi italiane ed era un gioco
da ragazzi per gli inglesi manovrare opportunamente qualche sommergibile o
spedire degli aerei da combattimento a fare il tiro assegno contro il
convoglio avvistato. Gli inglesi per battersi contro la marina italiana
che era sprovvista di radar, preferivano attendere sempre la notte che
permetteva a loro di sparare e di vedere, senza che i marinai italiani
potessero né vedere né sparare. Quello che a distanza di anni mi è rimasto
impresso nella memoria è il racconto che il direttore di macchina di nave
Italia ha raccontato a mio padre e a tutti i suoi ragazzi. Io lo riporto
fedelmente così come mi è stato raccontato da mio padre senza romanzare i
fatti. Si tratta dell’affondamento della petroliera inglese British Fame,
che costituì il primo successo atlantico dei sommergibili Italiani. La
distruzione della nave inglese diede origine a una manifestazione di
solidarietà umana che ha onorato altamente i marinai Italiani. Ecco il
fatto: occorsero due ore di tempo e altri due siluri a segno oltre a
quelli già lanciati in precedenza, prima che la nave inglese andasse a
fondo. Quasi improvvisamente ci trovammo davanti le imbarcazioni di
salvataggio con l’equipaggio della petroliera inglese salvatosi quasi al
completo. Che fare? Questa era la domanda ricorrente in quelle ore. Alla
sensibilità degli equipaggi italiani, al loro senso di umanità, alla loro
generosità, ripugnò sempre l’idea di abbandonare alla deriva esseri umani
che, nel momento stesso in cui avevano perso la possibilità di difendersi,
avevano cessato per l’equipaggio italiano di essere nemici, per ridivenire
soltanto fratelli, anzi marinai. La solidarietà per l’uomo in mare, per il
naufrago, per il caduto è fortissima nel marinaio raccontava l’ufficiale
di macchina ai suoi ragazzi, è insita nella sua natura, radicata nel suo
spirito, parte integrante del suo cuore. Non era possibile che la guerra
riuscisse a spogliare il marinaio in genere, e in specie il marinaio
italiano di questa particolarissima natura. Perciò a noi ufficiali e in
particolare al comandante del sommergibile il problema dei naufraghi
inglesi s’impose subito angoscioso, e non deve stupirvi che il Malaspina
abbia preso a rimorchio le lance di salvataggio della petroliera inglese
che era colata a picco e navigando a galla per un giorno e una notte se le
sia trascinate dietro fino alle Azzorre e le abbia poi lasciate unicamente
quando noi marinai e ufficiali fummo sicuri che l’equipaggio inglese si
sarebbe salvato. Questo episodio, che il direttore di macchina ha
raccontato ai suoi ragazzi è stata a parere di mio padre una grandissima
lezione di vita, di lealtà e generosità alla quale mi diceva mio padre i
marinai italiani non sono mai venuti meno, rendendoci meno pesanti gli
anni a venire sia di guerra che di prigionia.
Capitolo 2
Un altro episodio di quegli anni strappato a fatica dai tristi ricordi di
mio padre fu il momento in cui l’otto di settembre a La Spezia
l’ammiraglio Bergamini riunì gli ammiragli e i comandanti dipendenti e
parlò loro in due rapporti tenuti a bordo della corazzata Roma. “ La nave
ammiraglia”. Il comandante di nave Italia riferì all’equipaggio, in
particolare comunicò che le clausole armistiziali prevedevano il
trasferimento di tutte le navi Italiane sotto il controllo degli alleati.
Escludendo tassativamente che la Bandiera potesse venire ammainata.
Aggiunse che nessuna unità navale avrebbe dovuto finire nelle mani dei
militari di altre nazioni. Qualora comandi e equipaggi che non fossero
stati in grado di opporsi ad un’azione del genere, avrebbero dovuto
affondare le navi piuttosto che cederle al nemico. Per il momento tutta la
squadra navale non avrebbe raggiunto nessun porto nemico, bensì l’isola
della Maddalena, dove avrebbero atteso nuovi ordini. Continuava così nel
suo racconto mio padre: dopo aver ricevuto queste comunicazioni nella
notte fra l’otto e il nove di settembre del 1943 lasciammo l’ormeggio e
ordinatamente a fanali oscurati salpammo per raggiungere le unità navali
provenienti da Genova e come previsto dal piano di navigazione, la
formazione riunita al completo ci dirigemmo in linea di fila per entrare
come era stabilito all’isola di Maddalena.
Capitolo 3
Un radio messaggio ricevuto da un radiotelegrafista informò l’ammiraglio
che i tedeschi avevano già messo i piedi nell’isola. Iniziò così il dramma
delle navi italiane. Precluso il porto dove eravamo diretti, l’ammiraglio
diede ordine a tutta la squadra navale di rimettere la prora verso il
largo. Proprio nell’istante in cui tutta la squadra virava di bordo
appresso alla nave ammiraglia Roma comparvero all’orizzonte cinque aerei
diretti sulle tre corazzate della squadra navale, la Roma, nave Italia e
la Vittorio Veneto. Erano aerei in picchiata e armati con bombe razzo
radiocomandate. Svolsero l’attacco con decisione estrema. Reagimmo con
tutte le artiglierie contraeree disponibili. L’ammiraglio sulla Roma alzò
i segnali di accostata urgente per provare a disorientare il nemico e
impedirgli la punteria. Nonostante questa decisione fummo colpiti seppur
non gravemente e, tutti noi di macchina fummo impegnati a domare le fiamme
divampate nei locali di apparato motore. Rischiando la nostra vita
riuscimmo a domare l’incendio e a limitare i danni. Nel momento in cui
tutti concitati ma felici per il pericolo scampato ci radunammo assieme al
nostro ufficiale di macchina che aveva diretto personalmente le operazioni
antincendio sul ponte poppiero. Il nostro entusiasmo non durò molto. Venne
colpita la Roma. La prima volta in un locale caldaie, una seconda volta
fra la torre prodiera da 381 tonnellate. A questo punto la voce di mio
padre si spezzava per l’emozione e, continuava nel suo racconto: una bomba
normale si sarebbe probabilmente fermata sul ponte corazzato dopo aver
perforato il ponte di coperta e quello di batteria. Quella dannata bomba
speciale esplose nel più intimo recesso dell’unità, in un deposito di
munizioni, provocandone lo scoppio. Ora il racconto diventa drammatico .
Leggo nei suoi occhi tutta la sua disperazione e, solo a distanza di anni
comprendo il perché fosse così restio a raccontare e ricordare quegli
avvenimenti. Mi disse che da dove si erano riuniti videro il torrione
crollare e al suo posto levarsi una fiammata altissima, e impietriti senza
poter intervenire vedemmo la Roma arrestarsi, sbandare, spezzarsi in due
tronconi che affondarono in pochi minuti, dopo essersi levati
verticalmente sul mare. Scomparsero circa 1500 uomini. Subentrò al comando
di quello che era rimasto della squadra navale l’ammiraglio Romeo Oliva,
il quale dispose che un numero di incrociatori rimanessero sul posto per
raccogliere i naufraghi. Alle altre navi compresa la nostra ordinò
soltanto “ rotta a sud”. Il 10 settembre 1943 trasmise l’ordine di
eseguire lealmente le clausole dell’armistizio che escludevano la cessione
delle navi a stranieri. Raggiungemmo Malta l’11 settembre 1943 e il giorno
dopo scortati dagli inglesi giungemmo al porto di Alessandria d’Egitto il
mattino del 16 settembre 1943. Restammo senza comunicazioni, con i cannoni
disattivati sotto la sorveglianza armata dei marinai inglesi. Dal 23
settembre non potemmo mai scendere a terra. Il 18 ottobre fummo trasferiti
nel Grande Lago Amaro per ben tre anni sotto la sorveglianza degli
inglesi. Rientrammo in Italia il 9 febbraio 1946. Questi fatti così come
mi sono stati raccontati da mio padre rimangono una memoria viva nel mio
animo per il sacrificio compiuto da giovani marinai chiamati a combattere
una guerra che non avevano voluto. Ho omesso volontariamente il racconto
di altri particolari dolorosi di quei anni per un profondo rispetto della
riservatezza di mio padre nel parlare di questo periodo di guerra e
prigionia che lo rese orfano dei suoi genitori all’età di ventuno anni. A
distanza di anni non posso fare a meno, avendo trovato il suo libretto
personale di rendere in questo mio breve racconto l’onore di quei anni a
tutti i marinai di nave “ ITALIA”.
Fedelmente dal pugno del comandante in seconda di nave ITALIA capitano di
fregata A. Bardi quanto segue: Il fuoch. Art. Rossi Ernesto matr 67625,
agli effetti della mobilitazione fino ad ulteriori comunicazioni e in ogni
caso fino a un massimo di due anni dal congedamento, ha l’onore di essere
prescelto a far parte dell’equipaggio RN Italia. Durante tale periodo egli
deve essere pronto ad accorrere agli eventuali richiami del Commando della
nave. A tale comando dovrà sempre comunicare qualunque cambiamento di
residenza anche se temporaneo. Alla fine di questa speciale assegnazione,
egli, agli effetti della mobilitazione, passerà a disposizione della
capitaneria di porto di iscrizione” |