Restare bambini
Il più bel complimento che abbia ricevuto in questi giorni sotto forma di
rimprovero:
"Ma quando cresci? Ragioni sempre come un bambino di 5 anni".
E chi mi ha fatto questa osservazione è una persona che di anni ne ha 37 e non
si è accorta di essere già vecchia, molto più vecchia di me".
Che felicità riuscire a ragionare a 84 anni come un bambino di 5!
E sì, conferma il giudizio che mi era stato espresso dal mio amico Luigino di
Aosta quando nel corso degli anni '80 mi lamentavo di sentirmi vecchio e lui mi
disse: "Tu non invecchierai mai"!
Ed il commento di questa giovane conferma le sue previsioni!
(Boccheggiano 19.1.2023)
Bustina di zucchero (ovvero “Ad occhi aperti”)
È un fine pomeriggio qualsiasi. La gente si affolla lungo la passeggiata del
centro storico di Piombino e sembra ignara al contagio, al virus che tuttora
si aggira tra di noi e che non è stato ancora sconfitto.
Tanti con la mascherina a mezz’asta, tanti altri proprio senza che ti fissano
provocatoriamente quasi a cercare la lite, una camionetta dei carabinieri
appare appena all’inizio del viale. Mi aspetto che qualche militare scenda a
riportare ordine e far rispettare le regole del distanziamento, ma mi ero solo
illuso che questo avvenisse.
La camionetta fa inversione di marcia davanti al torrione del castello di
Piombino e scompare.
In giro ostentazione di benessere di gente seduta al bar. Si parla di crisi,
di gente senza lavoro, di famiglie in miseria, di disperazione.
Niente di tutto questo.
Sfilano belle donne con vestitini attillati che mettono forzatamente in mostra
le loro forme appena contenute in vestitini balneari, che a mala pena coprono
i glutei, con qualcuna pudica che ogni tanto cerca di sistemare la gonna che
sale troppo in alto, rischiando di scoprire il sedere, e che ripetutamente
scivola sulle chiappe attirando gli sguardi golosi di qualche maschio residuo
che ancora è sensibile alle forme femminili, ormai maschilizzate, senza più la
grazia ed il decoro delle donne di un tempo che pur indossavano vestitini che
mettevano in risalto le loro forme, ma con buon gusto, con grazia, senza la
volgarità attuale di una donna che rivendica la parità ma che fa tutto il
possibile per ricordare che è diversa dall’uomo e che sente ancora l’istinto
di esporre i colori che la natura le ha regalato per attirare i maschi e per
garantire all’infinito la riproduzione della prole e della vita.
Guardo e medito su quei glutei esposti, su quella pia illusione che quel pasto
ingordo lo possa condividere da solo l’accompagnatore provvisorio che sfila al
suo fianco, interiormente rassegnato che prima o poi quel pasto lo debba
condividere con altri, ma intanto viaggia fiero al fianco di cotanta bellezza
che è desiderio osceno dei tanti maschi che con indifferenza lanciano una
sbirciatina a quei glutei ondeggianti, a quelle forme invitanti.
Troppe mosche volano nel passeggio serale e quasi tutti posano lo sguardo su
quei glutei ondeggianti, su quelle forme provocanti e ben esposte, su
quell’invito silenzioso a farsi guardare, ammirare, desiderare.
E sì il desiderio sopravvive sempre, quel desiderio che una volta si esprimeva
magari teatralmente con frasi ed esclamazioni sgraziate di compiacimento, oggi
si esprime in silenzio in uno sguardo alla sfuggita, per non farsi notare, da
chi ha piacere comunque di accorgersi di essere notata, per evitare solitarie
reazione estemporanee di qualche femminista che sta esagerando con
l’esposizione della sua femminilità, che sa che rimane comunque l’oggetto del
desiderio dell’uomo che, tuttavia, è rassegnato a possederla per un breve
periodo e poi condividerla con futuri bavosi commensali che gustano un piatto
di spaghetti allo scoglio senza badare al sugo che gli insudicia il mento e la
camicia.
Ed il futuro si trasforma in relazioni instabili che durano il tempo
necessario agli ormoni di esercitare il loro ruolo e poi una corsa continua al
cambiamento con i maschi che non fanno più caso alla verginità, un tempo
ricercata e necessaria in una coppia, e che oggi a nessuno più interessa
perché il sesso non è più un tabù e non fa più neppure scandalo incrociare per
strada due omosessuali che si scambiano effusioni pubbliche e due lesbiche che
slinguazzano sedute alla panchina.
E si questo è il mondo nuovo della precarietà, delle coppie senza futuro,
della scomparsa della famiglia tradizionale, che nessuno più conosce, della
dissoluzione delle coppie che si accoppiavano per tutta la vita e che non
vanno più di moda, sostituiti da amori che variano con il variare del vento
che a Piazzale Bovio, a Piombino, è ben rappresentato sulla passeggiata da una
scultura che descrive la direzione dei venti sul promontorio.
In mezzo a questa ostentazione si nota anche quella silenziosa della miseria
umana, rappresentata dagli immigrati e dai loro bambini dignitosamente
vestiti, che mi guardano con insistenza mentre gusto un gelato seduto alla
panchina esterna della gelateria presso la quale in genere mi reco ad
acquistare un cono quando vado a passeggiare nel centro storico di Piombino, e
che mi scavano dentro quasi a volermi rubare quel cono dalle mani e facendomi
sembrare un privilegiato che può buttar via due-tre euro per un gelato senza
tanti problemi, mentre quella famiglia, al loro bambino, appena riescono a
garantire una bustina di zucchero del caffè.
E mi colpisce quel bambino, che avanza sicuro e disinvolto davanti ai suoi
genitori, forse dei cingalesi e comunque di quella zona dell’India, con la sua
bustina di zucchero che cerca di succhiare attraverso l’involucro e con il
genitore che poi cerca di sfilare dalla mano per scartarla e deporgli un poco
di prodotto sulla mano che il bambino lecca ingordo, felice di quel regalo che
i genitori gli possono garantire e che probabilmente non gli è costato nulla.
Ed io, nella mia opulenza, mi sento sprofondare sotto terra. Guardo intorno a
me lo spreco, la gente seduta al bar che ostenta benessere e continua ad
ordinare nuove bevande da gustare mentre osserva con noncuranza le forme
esposte dalle donne di passaggio e neppure si accorge della miseria umana che
gli sfila davanti.
Salvatore Armando Santoro
Piombino 5.6.2021 (h 19 circa)
Docenti e lezioni
Quando arrivai ad Aosta nel
1963 avevo cominciato anche ad insegnare nei corsi organizzati dallo IAL
(Istituto addestramento lavoratori) e mi ero accorto che riuscivo a
coinvolgere i ragazzi nelle materie che curavo. In genere il metodo adoperato
è stato quello del coinvolgimento spingendo i ragazzi a porre domande
piuttosto che a farle, ma utilizzando un po' di retorica per spingerli a
discutere.
Poi smisi ma è stato un errore perché ero portato all’insegnamento e di questo
mi sono convinto negli anni scorsi quando sono stato coinvolto da qualche
insegnante nella propria classe e l'esperienza più bella l'ho avuta in una
scuola media di Taurisano (Lecce) dove ero stato invitato a fare una lezione
sui sonetti.
Ai ragazzi, all'inizio, avevo posto delle domande circa l'attualità, il valore
etico ed il loro gradimento verso la la poesia, ma molti, tanti, si erano
dimostranti indifferenti e tentennavano a dare una risposta.
Con un po' di pazienza ho aggirato la domanda ed ho chiesto se amavano le
canzoni.
I ragazzi si illuminarono e risposero in coro di sì.
Chiesi allora come fosse composta una canzone, guidandoli nella risposta e
anticipando che una canzone era composta da una parte musicale e da una parte
poetica e chiesi, infatti, chi scrivesse il testo di una canzone.
I ragazzi si illuminarono ancora di più e risposero in coro: "Sì, i poeti"!
Il gelo si sciolse tra il docente ed i discenti e la discussione si sviluppò
piacevole e con molte curiosità al punto che i ragazzi rinunciarono
all'intervallo per continuare la discussione ed alla fine (ci rido ancora) mi
pregavano di restare nell’ora successiva (quando sarebbe arrivata l’insegnante
di matematica) per continuare la discussione.
Cosa voglio dimostrare con questo?
Che il discorso sviluppato da Temporelli regge ed anche bene. Il buon pastore
può imporre o coinvolgere. Ritengo che coinvolgere sia il sistema migliore
perché crea interesse ed attenzione.
E per coinvolgere oggi gli insegnanti hanno un nuovo strumento di lavoro che
potrebbe aiutarli. La LIM (Lavagna interattiva multimediale).
Alcuni insegnanti l'hanno rifiutata subito e sono entrati in crisi, io ho
approfondito la materia ed a qualche insegnante titubante ho spiegato che tale
strumento potrebbe diventare un mezzo formidabile per coinvolgere gli allievi
e trasformare l'insegnante dal solito pastore dux in un pastore che agisce per
meglio rapportarsi e socializzare con la sua classe e far diventare più
partecipata una lezione che potrebbe essere anche noiosa se ricca di nozioni
ripetitive.
Ma non solo questo: dal momento che i giovani sono più portati all'elettronica
rispetto alla generazione passata, ed hanno più facilità alla navigazione sui
social e su internet, penso che coinvolgere i ragazzi potrebbe tornar loro
molto utile per chiedere agli allievi di "costruire" insieme le lezioni e
lasciando ad essi la ricerca individuale di argomenti in rete compatibili con
il programma scolastico ed il loro approfondimento collettivo in classe.
In questo modo l’informazione diventerebbe circolare e non unidirezionale e
sono certo che l'attenzione degli allievi aumenterebbe e calerebbe la noia ed
il disinteresse di alcuni di essi che spesso creano tensioni, conflitti ed
inagibilità nell'aula a causa della loro intolleranza che spesso è causata
proprio dalla noia.
https://www.andreatemporelli.com/2016/04/29/il-peccato-originale-di-luzi/
Il pianto dei bambini
(Racconto breve)
Due amici si ritrovano in chat dopo tanto tempo e ricominciano un discorso
interrotto diversi anni prima.
Una dei due scrive: - “Che fai, piangi?” -
E l'altro risponde: - “No, non piango. A volte mi commuovo ma su chat, messaggi,
esternazioni amorose e su foto e filmati del passato. Io penso a te com'eri fino
al 7 agosto 2010. Poi ti sei scoperta essere un'altra persona. Ed a me
interessava quell'altra persona, quella con difetti e pregi ed esternazioni di
quel tempo. E' quella persona che quando la ricordo mi fa commuovere. Ma tu hai
ribadito più volte che sei cambiata e che io sono rimasto bambino e che sarebbe
l'ora di diventare adulto. E su quest'ultimo punto ti do ragione. Non mi accorgo
che il mondo cambia e neppure che io sia cresciuto. In fondo la persona da
curare sono io. Ma forse mi sono chiuso nel mondo dei bambini perché i bambini
dicono sempre la verità e spesso piangono anche per niente. Ovvero noi pensiamo
che piangano per niente. Ma loro attraverso il pianto lanciano un messaggio che
gli adulti spesso non riescono ad interpretare e pensano che loro facciano le
bizze.
Invece, loro cercano amore. Siamo noi adulti che siamo diventati aridi e non
riusciamo più a leggere i sentimenti dei bambini!” -
Boccheggiano 13.1.2018
Alle origini della nascita
della Lingua Italiana e la Scuola Siciliana
Federico II di Svevia
Qualche giorno indietro mi ero svegliato con la
curiosità delle origini della lingua italiana ed in rete che trovo?
L'articolo, che riporto nel link in calce a queste mie note, che mi sembra
molto interessante per chi avesse la mia stessa curiosità e volesse cercare
delle risposte su questo argomento.
Dando per scontato che la prima Scuola di Letteratura italiana sia nata in
Sicilia alla corte de Normanni intorno all'anno 1.166, confermato che altri
documenti della scuola siciliana siano stati trovati sparsi un po' qua ed un
po là per l'Italia, ed alcuni manomessi e trasformati dai copisti toscani
successivi, considerato che probabilmente Dante sia nato nel 1.265, ma può
darsi anche dopo, ovvero 100 anni dopo la nascita della Scuola Siciliana,
anch'io concordo con l'autore della ricerca, sostenendo che probabilmente con
il tempo altre scoperte potrebbero sconvolgere le sicurezze di date certe
sulle origini della lingua italiana.
Intanto è certo che il "Placito Capuano" o la "Carta Capuana" cassinese, sia
il primo documento in volgare italiano, ed abbia la data del 960 ma si ha
conferma che un altro documento in volgare, “L'indovinello veronese"
(collocato intorno all'VIII°- inizio IX° secolo), abbia una data ancora
anteriore (e questo proverebbe la "vicinanza" della lingua veneta alla lingua
siciliana).
Non è finita qui.
Nel comune di Montieri, dove possiedo un appartamento, esiste un documento in
volgare "La Guaita di Travale" (con contenuti simili alla Carta Capuana) che
porta la data del 1.158 e, sempre nel comune d Montieri esiste un altro
importante documento in volgare, il Breve di Montieri, datato 1.219, che
regolarizzava la vita all'interno del castello ed era prevalentemente legato
all'estrazione e fusione della pirite.
Ma non è ancora finita qui: il francescano Andrea da Grosseto, nato a Grosseto
a meta del 1200, che insegnò a Parigi letteratura ed arti poetiche, è
considerato uno dei primi scrittori in lingua italiana avendo utilizzato un
volgare purificato dai termini toscaneggianti e comprensibile in tutta la
penisola per tradurre dal latino i "Trattati morali" di Albertano da Brescia,
fornendo un primitivo esempio di prosa letteraria in italiano ed il suo
contributo nella letteratura italiana è molto importante, poiché è considerato
da alcuni studiosi come il primo scrittore in lingua italiana in una città a
carattere prevalentemente agricolo, in cui le lettere fiorirono solamente a
partire dal XVIII secolo.
Con molta probabilità Andrea fu influenzato dalle continue frequentazioni con
la corte imperiale di Federico II di Svezia, il quale raggiungeva Grosseto,
ospite degli Aldobrandeschi per tantissimi anni, per la caccia con il falco in
Maremma.
Tutte queste date, però, alla fine confermano che la lingua volgare italiana
fosse già ampiamente in uso in varie parte d'Italia anche prima della nascita
della Scuola Siciliana, anche se i Normanni hanno il merito di aver dato
sistematicità e prestigio alla lingua italiana cominciando ad impiegarla
ufficialmente in letteratura nelle loro composizioni e nei loro incontri
poetici.
Furono loro, infatti, a far arrivare in Sicilia il fior fiore dei poeti
verseggianti sia italiani che stranieri (i cosiddetti Trobador provenzali in
lingua d'Oc della Francia meridionale) e sancendo ufficialmente la nascita del
sonetto e delle prime forme liriche che applicavano ritmo e metrica ai loro
versi e dando l'avvio ufficiale ad una vera e propria scuola di letteratura.
Ma quello che molti ignorano o trascurano è che il merito principale della
nascita della nuova lingua spetti al popolo, a quella massa informe,
vituperata ed emarginata, che cominciando a parlare in massa un volgare a loro
più congeniale, rispetto al latino, costrinse poi anche la classe dominante e
colta a parlare ed accettare quel linguaggio come mezzo di comunicazione
comune se volessero essere capiti dal popolo.
https://www.balarm.it/articoli/magazine/dante-canziati-l-italiano-e-nato-alla-scuola-siciliana-11437#.WZVHoSkzbu8.facebook
Il suicidio
Aveva deciso di togliersi la vita.
Armando ci stava pensando da tanto tempo. Considerava tale evento come un gesto
di grande coraggio. Non valutava quell'azione come un segno di viltà, anzi. Dal
momento che aveva raggiunto la consapevolezza interiore che era arrivato il
momento di lasciare questa terra, si stava organizzando per farlo nella massima
consapevolezza e nella maniera migliore. Con raziocinio, quindi, e non con
disperazione.
Un suo zio si era tolta la vita con grande dignità e lui lo ripeteva spesso a
tutti che il suicidio è un atto di coraggio e non di viltà se eseguito
razionalmente e non sulla spinta dell'emotività della disperazione. Lo zio aveva
finanche collaudato il trave che avrebbe dovuto sostenere il suo corpo. Era
andato a colpo sicuro. Per giorni aveva trascinato in soffitta secchi di sabbia.
I suoi non avevano sospettato nulla. Era solito fare dei lavori in soffitta e a
nessuno passava per la testa quello da tempo stava prospettando. Ma quella terra
non serviva per impastare del cemento, ma per riempire il sacco che avrebbe
dovuto simulare il peso del suo corpo. Quando fu sicuro che il trave avrebbe
retto, passò il cappio attorno al collo e lo trovarono appeso a tarda notte
quando andarono in soffitta a vedere se era successo qualcosa, preoccupati che
non fosse sceso neppure a cenare.
Per la religione tale azione é giudicata come un atto sacrilego e di viltà ed
un'offesa a Dio. Per la psiche dell'uomo è tutt'altra cosa. Ma se Dio c'entrava
in questa storia, ebbene questa fine l'aveva già scritta da qualche parte anche
lui ed i conti tornavano.
Armando aveva anche acquistato una corda già qualche anno prima. Amava tanto la
natura e le querce gli ispiravano la potenza e la forza ma, soprattutto la
robustezza di sostenere il suo corpo che sfiorava il quintale.
Morire circondato dal verde e dai fiori, baciato dal sole e con il cielo terso
era anche una evenienza che aveva più volte valutato.
In altri momenti che la disperazione l'aveva assalito per un amore finito male
aveva anche pensato un salto dal Ponte Romano di Pont St. Martin in Valle
d'Aosta. "Il ponte del diavolo" si prestava anche bene alla scelta del suo
trapasso. Ma dopo aver guardato giù le acque scorrere in modo tumultuoso gli era
sorto il dubbio che poteva anche non morire e restare invalido. E la cosa lo
preoccupò. Scartò, quindi, questa ipotesi optando per l'altra forse più facile
da eseguire e con risultato certo.
Ma i suoi problemi erano tanti e tutti abbastanza conflittuali e l'idea della
morte lo accompagnava in ogni momento della giornata.
A volte percorrendo le grandi arterie aveva pensato anche di infilarsi a tutta
velocità sotto uno di quei tir che incrociava sulle strade. Anzi questa era una
seconda idea che accarezzava come alternativa all'impiccagione. Spingere la
vettura a tutta velocità e poi andarsi ad infilare sotto uno dei tanti mezzi
pesanti che incrociava durante i suoi spostamenti. L'impatto, pensava, avrebbe
posto fine ai suoi giorni senza dover troppo soffrire.
Ed un giorno che la disperazione aveva prevalso sulla ragione e vide arrivare a
tutta velocità un grosso mezzo dalla direzione opposta, senza pensarci su due
volte, sterzò di colpo e andò sbatterci contro urlando, con tutta la rabbia che
aveva dentro, un sonoro "affanculo" al mondo.
------oooOooo------
Si risvegliò abbagliato da una luce intensa in una stanza tutta bianca. Nei
momenti di serenità mentale era convinto che la morte fosse la fine di tutto.
Ma evidentemente si sbagliava. Non riusciva a capire dove fosse. Al momento
avvertiva una profonda beatitudine interiore e non si rendeva conto di essere
ancora vivo. Pensava di essere già morto e stesse pregustando quello stato di
benessere che tante volte le persone che erano state in coma descrivevano
avvertissero nell'incoscienza.
Ma lui non lo sapeva. Era stato imbottito da sedativi. Il colpo era stato
tremendo, ma lui ne era uscito illeso anche se un po' maltrattato per
l'impatto.
Insomma, non si era fatto proprio nulla. L'airbag si era aperto per tempo, la
carrozzeria si era piegata nei posti prestabiliti dal costruttore e lui era
rimasto incastrato nella sua vettura un po' malconcio ma vivo.
Sorte peggiore era capitata al conducente dell'altro mezzo, ignaro del matto
che stava incrociando sul suo percorso.
Questi, quando si accorse che la piccola auto che procedeva in senso contrario
stava per andare a sbattere a tutta velocità contro il suo mezzo cercò di
evitarla sterzando disperatamente. Il mezzo era andato a schiantarsi contro
uno dei piloni del ponte che stava attraversando ed il tremendo urto aveva
schiacciato tutta la cabina di comando incastrandolo tra le lamiere della
carrozzeria.
Il suo risveglio era stato più traumatico. Avvertiva chiaramente una
insensibilità agli arti inferiori. Cercava di tirare su le gambe nel lettino
del reparto ortopedico dove era stato ricoverato, ma le sue sensazioni motorie
si fermavano al cervello. L'impulso partiva lucidamente ma le gambe non
rispondevano.
Il referto fu drammatico per lui: paralisi agli arti inferiori.
Come avrebbe potuto fare adesso? La sua vita era completamente cambiata in una
frazione di secondo per colpa di un matto incosciente che aveva perso il
controllo della sua vettura a causa dell'alta velocità a cui l'aveva spinta.
Non immaginava minimamente che quell'impatto era stato ricercato e voluto,
anzi studiato forse anche nei particolari già tanto tempo prima.
Il finale, però, doveva essere completamente differente per colui che aveva
organizzato lo scontro. A morire, o restare invalido, ci doveva essere stato
lui e non un'altra persona.
Al camionista neppure ci aveva pensato. Al sicuro in alto nella sua cabina
avrebbe avuto al massimo solo dei danni al mezzo e qualche contusione
guaribile in pochi giorni. Per il resto l'assicurazione avrebbe risolto i
problemi del risarcimento dei danni.
Questi, stava viaggiando abbastanza tranquillo, ascoltando delle canzonette
alla radio e canticchiava allegramente alla guida del suo mezzo ignaro del
dramma che da li a qualche secondo avrebbe sconvolto la sua vita e quella
della sua famiglia.
La giornata era bella, vi era una buona visibilità e la musica aiutava ad
ingannare le lunghe ore di guida che lo aspettavano. Invece! Aveva percorso
forse 100 o 120 km ed ecco che un pazzo gli va a sbattere contro
scombussolandogli la giornata.
I giorni passavano. Armando era migliorato ed era stato dimesso. L'aver visto
la morte negli occhi avevano ridestato in lui la voglia di vivere.
"Il diavolo non mi ha voluto - ghignava - dovrò starmene in questo inferno
ancora per chissà quanti anni a continuare a patire".
Aveva accantonato l'idea di ripetere quel gesto. Aveva ormai deciso di
convivere con le disgrazie del mondo. E poi in quell'ospedale di disgraziati
che volevano vivere ne aveva visti tanti. E se della gente che stava peggio di
lui aveva tanto desiderio di vivere, perché morire?
Poi le sorse la domanda: "E l'altro?"
Già, l'altro, il conducente del mezzo pesante. Come stava?
Appena si era ripreso dal colpo aveva chiesto di lui e gli avevano risposto
che era stato ricoverato, in pessime condizioni, prima nel reparto di
rianimazione a Torino e dopo in quello di ortopedia.
Quando le sue condizioni glielo permisero decise di recarsi a fargli visita in
ospedale. Cosa gli avrebbe raccontato? Gli avrebbe inventato di un malore
improvviso o detta la verità?
Non aveva deciso nulla.
Aveva acquistato delle buone bottiglie di barbera e si era presentato nella
sua camera di ospedale alle Molinette di Torino!
"Accidenti com'è messo male" borbottò dentro di se vedendolo tutto ingessato e
con dei pesi che gli tiravano le gambe. Un profondo senso di colpa lo assalì.
In fondo quell'uomo se ne andava tranquillo per la sua strada, stava
guadagnandosi il pane per se stesso e per la sua famiglia, forse quel mezzo,
ora mezzo scassato, le era costato un patrimonio, forse aveva ancora le rate
da pagare, forse era profondamente preoccupato per il suo futuro e, cosa
alquanto più grave, le sue condizioni fisiche non sembravano eccellenti e
chissà quali tristi pensieri gli frullavano per il cervello per il suo futuro.
Stava pensando di tornarsene indietro, ma ormai era giunto davanti
all'ingresso della camera e non poteva tagliare la corda come un vigliacco
qualsiasi, lui che aveva sempre dimostrato un grande coraggio finanche a
programmare la sua morte.
La notizia che quell'uomo aveva perso la funzionalità delle gambe, che non
avrebbe più potuto guidare un mezzo lo aveva profondamente turbato. In fondo
lui era in pensione da qualche anno. Il suo reddito non era niente male,
c'erano milioni di persone che stavano peggio, ma molto peggio di lui, altri
milioni e milioni che pativano la fame, la sete, la miseria. Ma che cazzo
voleva dalla vita alla fine?
Queste considerazioni lo stavano combattendo psicologicamente ed il fatto di
rendersi consapevole che era stato lui la causa principale di questo casino e
della prostrazione fisica e morale di un'altra persona e della sua famiglia lo
sconvolgevano ulteriormente.
Si avvicinò al letto e si presentò senza esitazione e senza più pensarci
sopra.
"Mi dispiace - esclamò - non è stato un incidente causale. Io stavo cercando
di togliermi la vita"
L'uomo rimase profondamente turbato nell'apprendere la verità. Era dibattuto
tra un sentimento di rabbia e di pietà e guardava quell'uomo, che aveva
cercato lucidamente la morte, perfettamente in salute e lui, che pensava solo
alla sua vita, a guadagnarsi il pane per la sua famiglia ed al suo lavoro, si
trovava ora ridotto in quelle condizioni a causa di un matto esaurito ed
insoddisfatto della vita.
"Ormai è andata così - esclamò rassegnato - non ci possiamo fare più nulla".
Armando capì, invece, che lui non poteva lavarsi le mani e far finta che nulla
era accaduto. Sarebbe stato troppo facile. Lui aveva causato quella situazione
e non poteva dire soltanto "mi dispiace" e "arrivederci".
Cominciò a frequentare giornalmente l'ospedale. La continua vicinanza e le
discussioni stavano facendo nascere un rapporto più intenso e cordiale tra i
due. Armando aveva capito che il suo gesto aveva rovinato la vita di un'altra
persona ed a questo punto si doveva assumere fino in fondo le proprie
responsabilità e riparare il danno subito.
I continui contatti ormai avevano approfondito la conoscenza reciproca. Il
camionista ormai conosceva ogni angolo nero della vita di Armando e, questi, a
sua volta, aveva acquisito informazioni sufficienti per capire la storia
dell'altro. Ormai erano diventati due amici come se si conoscessero da
lunghissimi anni.
Anche per i parenti del camionista le visite giornaliere di Armando e la lunga
permanenza in corsia erano diventate così talmente familiari che ormai i
parenti lo consideravano una persona di famiglia ed avevano addirittura
ridotto la loro presenza in reparto in quanto Armando aveva dato tutta la sua
disponibilità ad assistere il camionista.
Arrivò anche il giorno delle dimissioni ed Armando pensò che fosse giunto il
momento di chiarire quale fosse stato il suo ruolo futuro nei confronti del
nuovo amico di sventura.
Avrebbe preso il suo posto nella conduzione della piccola attività di
autotrasporto e nell'attesa che il giovane figlio raggiungesse l'età per poter
conseguire la patente di abilitazione alla guida dei mezzi pesanti, si
sottopose a dei corsi e poi ad esame per ottenere lui stesso l'abilitazione
necessaria alla guida di un automezzo pesante.
Si stabilì nel paese di residenza del camionista e contribuì alle spese di
riparazione del mezzo incidentato e, dopo un breve periodo di prove pratiche
guidando il mezzo per brevi percorsi, iniziò l'attività che il camionista non
avrebbe più potuto svolgere.
Armando mai avrebbe potuto pensare che dopo dieci anni che era andato in
pensione avrebbe dovuto di nuovo ricominciare a lavorare. Ma questa volta non
lavorava per se stesso ma per il nuovo amico.
Tra i due si stabilì un rapporto affettivo molto forte ed intenso. Armando nei
momenti di libertà aiutava l'amico a fare delle lunghe passeggiate spingendo
la sua carrozzella a rotelle. La sua vita ormai era tutta per l'altro, alla
morte non ci pensava più.
Anzi, pensava di molto alla vita ed ogni volta che accusava un qualche
acciacco si preoccupava moltissimo, non certamente per lui, ma perché voleva
essere in perfette condizioni fisiche per non dover creare problemi all'amico
facendo mancare il suo aiuto giornaliero.
La sua fatica si concluse quando il più giovane dei figli conseguì la patente
di guida ai mezzi pesanti.
Da quel momento Armando poté ritornare a fare il pensionato e questa volta per
sempre. Ma il suo rapporto con la famiglia del camionista divenne a questo
punto solidissimo, anzi sembrava ormai uno della famiglia. E, soprattutto
ormai non pensava più alla morte.
Aveva capito che la sua vita poteva essere preziosa ed utile agli altri.
La morte? Ma dove stava? Neppure più ci pensava anzi cercava di esorcizzarla
perché adesso ne aveva davvero paura. E poi doveva pensare ai suoi nuovi
nipoti dal momento che i figli del camionista da un pezzo avevano preso il
vezzo di chiamarlo zio.
A questo punto la sua esistenza era tutta per l'amico, ormai aveva davvero
trovato non solo un amico ma anche una famiglia. E una simile rapporto non
poteva concludersi ma era destinato a rafforzarsi nel tempo.
Armando, però, pensava ai suoi anni e non voleva far trasparire i suoi
pensieri, ma ogni giorno che passava sentiva che le sue forze cominciavano a
venir meno. Sottoponeva il suo fisico a grandi sforzi per spingere la
carrozzina, ma non voleva far mancare quell'aiuto al suo amico e, soprattutto,
voleva dimostrare che continuava a possedere la prestanza fisica di un tempo.
Decise, perciò, di nascondere le sue preoccupazioni, ostentando ancora la
prestanza di un tempo e continuando a tirare avanti fin quando le forze
l'avrebbero sorretto.
Ma fino a quando tutto ciò sarebbe potuto durare?
Donnas 11/8/09 15,54
Perché la Chiesa non chiede scusa a
don Milani?
(Ed a me che in quegli anni lo sostenevo?)
Qualche settimana indietro ho inserito sulla mia pagina di FB un post su Don
Milani e la sua formidabile esperienza educativa a Barbiana.
Domenica scorsa, 5 Marzo 2017, “Il Sole-24 Ore”, a pagina 28 e 29
dell'inserto culturale della “Domenica”, Carlo Ossola (titolo di spalla a
destra) ed altri autori, analizzano in profondità la rivoluzionaria
esperienza del prete scomodo fiorentino per arrivare a sostenere che il
volume di Don Lorenzo Milani, “Lettera ad una professoressa”, ha contribuito
a “scardinare la scuola italiana e la sua tradizione di formazione”.
Tutti conosciamo ormai Don Milani ed una sintesi dell'articolo apparso
domenica sul “Sole” sarebbe riduttivo e non darebbe il senso del contenuto
dell'articolo, per cui invito chi abbia interesse ad approfondire la cosa di
andare in biblioteca e visionare direttamente l'ottimo servizio offerto.
Quello che voglio evidenziare, però, è che negli anni di Don Milani (siamo
alle origini del movimento del '68 italiano) i giornali benpensanti, “Sole”
compreso, non sono stati teneri con le idee di Don Milani e di coloro che lo
sostenevano.
Ma la mia denuncia di oggi è rivolta in prima persona contro l'apparato
conservatore della Chiesa che ha emarginato questo splendido prete
mandandolo in esilio in una comunità sperduta e senza strade, Barbiana, dove
i santissimi cardinali pensavano non avesse potuto dare fastidio. Ed,
invece, Barbiana è stato un terremoto e le scosse sismiche continuano ancora
oggi al punto che chi allora lo criticava e lo perseguitava adesso ne esce
umiliato e sconfitto perché Don Milani è vivo e vegeto e fa ancora tremare
la terra, e coloro che l'hanno perseguitato sono serviti solo da pasto ai vermi e le loro
tracce si sono perse coperte dalla polvere del tempo.
Bene, se le cose stanno così non sarebbe giunta l'ora che la Chiesa
chiedesse scusa a Don Milani e perdono a Dio per averlo perseguitato,
emarginato, umiliato e mandato in esilio?
Caro, Francesco, tu che hai scritto una enciclica (Laudato sii), esaltando
l'opera ambientalistica di quell'altro gruppetto di perseguitati ed
emarginati che negli anni '70 portavano avanti la loro osteggiata battaglia
per le energie alternative, per il rispetto dell'ambiente ed il recupero
differenziato dei rifiuti, non credi sarebbe giunta l'ora che a Don Milani
sia fatta giustizia (e santificato) e la sua opera rivalutata?
Donnas 7.3.2017
Presentazione di Santoro Salvatore Armando al 1° incontro dei poeti
salentini
a Patù – Palazzo Liborio Romano – 24.11.2013
Perché scriviamo poesie?
Le poesie si scrivono per dare sfogo alle passioni che fermentano continue
dentro di noi e che ci fanno vivere. Si scrivono per comunicare emozioni (ed
il genere umano è ricco di passioni che generano le emozioni) e spesso
incontriamo anche anime pure che socializzano queste nostre emozioni e le
condividono. E tutto ciò è condizionato dal fatto che le emozioni variano da
individuo ad individuo. Ma quando riusciamo a socializzare proviamo
gratificazione e siamo spinti a continuare a scrivere perché in fondo la
poesia regala pace e serenità all'anima, ci fa credere nella possibilità di un
mondo migliore e, come sosteneva Mario Luzi, nella certezza che serva ad
eliminare la guerra dal cuore dell'uomo e dal mondo e, soprattutto, di poter
diventare, in questo modo, anche noi migliori.
Anch'io stamattina appena mi sono svegliato ho analizzato i miei sentimenti, e
i miei comportamenti anche passati, ed ho considerato che l'unico errore che
fa l'uomo è quello di pensare che i propri sentimenti siano condivisi al 100%
dalle persone che incontriamo. E lo stesso errore si verifica anche in amore.
Ma non bisogna mai stancarsi di amare gli altri ed io non mi stanco di farlo
e, da quello che ho capito, lo stanno facendo anche tante persone qui
presenti, che si dedicano al volontariato. E, questa voglia di amare l'ho
notata anche in molte delle poesie che hanno scritto i giovani scolari che
oggi sono qui tra noi, ed anche numerosi, e questo mi riempie di gioia perché
sono certo che lasceremo il testimone della poesia, e dell'amore che la poesia
racchiude, in ottime mani.
Da queste considerazioni traggo le conclusioni dicendo che molti di voi siano
migliori di me perché io non trovo più il tempo per fare altro, in quanto per
me la poesia è come una droga e mi avvince e coinvolge totalmente al punto che
"perdo tempo" a sognare e non mi accorgo che il tempo passa e con il tempo
vanno via velocemente anche i miei anni e ritengo, razionalmente parlando, che
il mondo abbia anche bisogno di testimoni d'amore reali e non di sognatori.
Ma io sono pascoliano e quindi appartengo a quella razza di poeti che ondeggia
tra crepuscolarismo e decadentismo letterario ed alla mia età, ormai, non
riuscirò più a cambiare. Ma il mio impegno l'ho dato anch'io nel sindacato,
con oltre trent'anni di attività sindacale alle spalle e di dedizione completa
agli altri, trascurando anche, e soprattutto la mia famiglia, e questo non è
stato né buono e neppure giusto perché poi si paga sempre un prezzo. Ma con il
senno del poi non si riparano le cose. Ma questo è un altro errore che
bisognerebbe evitare e che spesso prende la mano, forse per una sorta di
esibizionismo infantile che sopravvive in molte persone che pensano che senza
di loro il mondo precipiti nel baratro e si fermi. Ma non è così e molti,
tanti direi, non se ne accorgono e pensano di essere eterni, insostituibili,
indispensabili ed unici.
Purtroppo in Italia di veri poeti ne sono rimasti forse meno di dieci, visto
che sono scomparsi da non molto tre ultimi testimoni, Mario Luzi, Ada Merini e
Andrea Zanzotto* (che ho avuto la fortuna di ascoltare per l'ultima volta al
telefono pochi mesi prima che morisse perché eravamo stati inclusi dalla
Regione Toscana nell'antologia** “Pater” sulla figura del padre dove c'erano
due nostre poesie), e quelli che sono rimasti viaggiano in ordine sparso e
senza coordinarsi tra loro e, qualcuno, ed evito di fare il nome, si è dato al
"commercio della poesia" inondando i portali di "annunci promozionali",
illudendo migliaia di persone buone ed ingenue, solo per fare affari alle loro
spalle. Ma queste persone illudendosi da certe valutazioni non veritiere, e
distribuite ad arte ed a pioggia, a volte pensano di poter diventare veri
poeti ed investono e sprecano quattrini in pubblicazioni che in fondo
dovrebbero servire solo per socializzare sentimenti e suscitare emozioni ma
non sposta di una virgola la propria condizione sociale o professionale.
E forse è anche per questo che la poesia non riesce più a trovare terreni
fertili come ai tempi della mia generazione che usciva fuori da un conflitto
che aveva disumanizzato il mondo.
Per certi versi, allora, dovremmo ringraziare Benigni, che non è un poeta ma
uno che ci fa affari con la poesia, che sta tentando di rilanciarla. E
dovremmo ringraziare prima di lui Paolo Limiti, che nessuno ricorda più, che
in una sua vecchia trasmissione televisiva “Ci vediamo in TV” di qualche anno
indietro, ci aveva inserito un bel capitolo sulla poesia utilizzando un
bravissimo poeta e declamatore eccezionale, Alessandro Gennari, che poi è
deceduto, anche in età molto giovane, per un male incurabile.
Tutti gli altri poeti che affollano anche la rete sono, e siamo, soltanto o
dei poeti mediocri o dei dilettanti, disposti in ordine gerarchico vario, ma
sempre compresi in questa categoria, anche se poi tra questi magari si
nascondono poeti anche validi, ma che non sono né massoni e neppure amici
degli amici di certe case editrici e di certi critici letterari, che ormai non
fanno più letteratura e cultura ma commercio.
A molti di questi poeti piace anche una certa poesia particolare (ma forse non
più di moda perché troppo complessa a comporla) e l'approfondiscono leggendo
testi e manuali pesanti e noiosi per cercare di perfezionarsi (senza
presunzione di diventare maestri), ma questi, se avranno fortuna, saranno
scoperti qualche centinaia di anni dopo la loro morte. Ma l'unica azione buona
che avranno fatta sarà stata quella di tenere viva la passione per la poesia e
di cercare di trasmetterla agli altri, come stiamo facendo noi, senza
aspettarci ricompense o prebende, anzi spesso esponendoci anche economicamente
in prima persona e dimostrando, però, che non è vero il vecchio detto che dice
che "neppure i cani muovono la coda per nulla".
A queste condizioni, la poesia potrà vivere in eterno in noi senza bisogno che
altri valutino i nostri scritti e non dovremo mai stancarci di scrivere,
stroncando la possibilità di trasmettere ai nostri figli, o nipoti od amici,
le nostre emozioni, o pensare che la valutazione altrui su quello che
scriviamo sia un incentivo o meno (e determinante) per poter continuare o
smettere di scrivere poesie.
Spesso non uso l'ipocrisia per valutare gli altrui lavori anche perché il
sentimento non può essere pesato o valutato da entità estranee alla nostra
ragione ed al nostro cuore. Lo faccio quando sono costretto a "selezionare"
dei testi nelle Giurie di diversi Bandi Letterari dove mi hanno voluto
immeritatamente inserire. Ma in quel momento non giudico i sentimenti ma
effettuo una analisi del testo, cerco le eventuali novità in esso nascoste, la
forma ed il contenuto della lirica e la sua composizione in particolare,
avendo sempre presente che da oltre 2600 anni si scrivono poesie e già i
Lirici greci hanno detto tutto quello che nell'animo umano matura anche ai
giorni nostri e che oggi è difficile scrivere altro e, chi riesce a farlo, è
davvero un poeta ma neppure lui lo sa.
* Andrea Zanzotto è deceduto il 18.10.2011 a Conegliano Veneto
** Pater, Edizioni Morgana – 2007 – Firenze
http://www.morganaedizioni.it/default.asp?sec=34&ma1=product&pid=148
Scrivere poesie
Ho letto per puro caso una sintesi molto interessante delle interviste fatte
da Renzo Montagnoli a diversi autori che ospita nel suo portale
www.arteinsieme.net.
Le risposte fornite dalle persone intervistate, pur nella loro essenzialità e
diversità anche professionale, sono risultate abbastanza in linea con il
progetto che il Webmaster ha costruito nelle sue interviste.
Forse la penserò in modo differente rispetto ad alcune sue conclusioni sul
metodo di comporre poesie, e rispetto chi non condivide i miei punti di vista,
ma ritengo che la poesia sia arte pura e di veri poeti sui portali ce ne sono
pochi. Se fossero in tanti sicuramente sarebbero coinvolti in progetti più
ampi e non avrebbero tempo a sufficienza per coltivare anche le relazioni con
i tanti dilettanti che affollano i portali di poesia.
Davanti ad un foglio di carta tutti siamo capaci a scrivere qualcosa, ma una
cosa è scrivere un'altra è comporre.
La poesia, mettiamocelo bene in testa, è un'arte complessa ed ha le sue regole
che sono tantissime e non facili da digerire. Basta approfondire qualche
manuale di metrica o di composizione poetica per accorgersi dell'enorme
ignoranza che ci accompagna. A volte metaforicamente esterno qualche battuta e
ripeto sorridendo che a suonare la chitarra tutti siamo capaci ma alcuni
producono soltanto vibrazioni altri, e pochi, musica pura.
Forse per questo alcuni rinunciano ad approfondire la tematica ma non è il mio
caso. In questi ultimi tempi sto cercando di digerire alcuni volumi molto
interessanti e che suggerisco a chi volesse scrivere poesia pura.
Oltre ai classici sulla storia della letteratura (in primis Francesco De
Sanctis o Natalino Sapegno), consiglio anche il dotto Profilo Storico della
Letteratura Italiana di Claudio Marazzina (ordinario di Storia della lingua
italiana nell'università "A.Avogadro" di Vercelli) che dovrebbero essere le
basi indispensabili per costruire un percorso ed un progetto minimo di
approccio alla letteratura italiana.
Per i più esigenti propongo anche "La letteratura italiana" raccontata da
Giuseppe Petronio (già docente di letteratura italiana a Cagliari e Trieste),
Mondadori, 1995, ma trattandosi di 5 volumi penso sia una indicazione
azzardata e, forse, poco percorribile.
Per coloro che, poi, vogliono approfondire il metodo di composizione delle
poesie indico tre volumi abbastanza corposi nei contenuti ma non voluminosi e
di facile lettura (anche se per certi versi noiosi per i non addetti ai
lavori). Sono volumi indispensabili per coloro che vogliono rendersi conto che
l'arte della composizione poetica non è così semplice come si penserebbe e
richiede conoscenza ed applicazione perchè è vero che poeti si nasce ma è
anche vero che specialisti nell'arte di comporre poesie si diventa con letture
e studi approfonditi.
I volumi che suggerisco sono: "Scrivere in versi" di Gabriella Sica (docente
di letteratura alla Sapienza di Roma), "Leggere Lirica" di Angelo Roncoroni
(studioso di retorica, stilistica e composizione presso diverse università
italiane) e "La poesia - come si legge e come si scrive" di Alberto Bertoni
(docente di letteratura contemporanea presso l'Università di Bologna). E poi
ce ne sarebbero tanti altri ma per iniziare basta ed avanza con quelli
indicati in queste note.
Iniziando a leggere alcuni di questi testi ogni persona, amante convinta della
poesia e non semplice esibizionista, può costruirsi un bagaglio minimo di
conoscenze (il massimo si potrà ottenere dopo anni di studi davvero
approfonditi) e poter così riuscire ad apprezzare la lettura delle liriche dei
maestri della poesia italiana e comprendere i vari metodi di composizione e le
strutture più o meno complesse del modo di scrivere poesie.
Uno sguardo oltre la finestra
Ogni giorno che passava la vita gli diventava sempre più difficile.
Alberto, dopo aver smesso di fare il boscaiolo, aveva lavorato sempre alla
catena di montaggio con enormi difficoltà per via della sua invalidità.
A dire il vero le deformazioni alle dita della mano non erano state dovute ad
un infortunio sul lavoro, ma gli erano state procurate molti anni prima, nel
corso dell'ultima guerra mondiale, in conseguenza della sua passata attività
di antifascista.
In fabbrica, nonostante avesse diritto ad un posto meno faticoso, scelse di
lavorare alla catena di montaggio, vicino ai suoi compagni di lavoro, visto
che l'attività che doveva svolgere poteva eseguirla lo stesso nonostante le
mani rovinate.
Il compito di guardiano, proprio, non lo riteneva appropriato. Gli sembrava di
dover svolgere un ruolo di controllo dei suoi compagni ed immaginarsi che
qualcuno avesse potuto appioppargli l'epiteto di spia proprio non gli andava
giù. Così con grande spirito di sacrificio, ma con grande ammirazione da parte
degli altri addetti alla catena, aveva voluto fare l'identico loro lavoro.
Ad ogni cambio di stagione, però, avvertiva tutti i dolori di questo mondo e
sovente era costretto a restare a casa in malattia. E questo gli pesava tanto.
"Non ti preoccupare - si sentiva ripetere dai colleghi che andavano a fargli
visita - l'azienda è grande ed una persona in più o in meno nessuno la nota".
Ma ad Alberto non piaceva mangiare a sbafo. Da vecchio compagno stalinista
soleva sempre rispondere: "chi non lavora non mangia"; e ce la metteva tutta a
recarsi al lavoro quando altri sarebbero rimasti a casa per molto meno.
Ma quel giorno se fosse rimasto a casa forse sarebbe stato meglio. La mano gli
faceva troppo male: non era concentrato ed in un attimo la pressa fece il
resto.
Con la mano maciullata fu portato rapidamente in ospedale e si avviò una
impossibile ricostruzione di un arto che già aveva subito in passato altre
mutilazioni.
L'avevano sistemato da solo in una stanza bianca con una finestra dalla quale
poteva scorgere la montagna. Era il minimo che si potesse fare per un
ex-partigiano insignito con la medaglia d'oro della Resistenza.
La solitudine ed i boschi che intravedeva in lontananza gli riportarono
ricordi lontani e tutta la sua vita cominciò a scorrere come su uno schermo.
Ogni tanto si appisolava, ma il dolore improvviso che l'incidente gli aveva
procurato lo svegliava di soprassalto e provava un senso di paura e ti terrore
accorgendosi di non essere a casa sua.
Il pensiero andava all'ultimo rastrellamento eseguito dai nazi-fascisti sull'appennino
tosco-emiliano molti anni indietro.
L'avevano beccato come un merlo mentre si dissetava ad una fonte dopo essere
riuscito, insieme ad altri compagni, a liberare una diecina di ebrei che erano
stati rinchiusi in una scuola in disuso in attesa di essere trasferiti nei
campi di sterminio in Germania.
Inutilmente cercò di dimostrare di essere un boscaiolo, esibendo un
certificato fittizio di lavoro. Fu tutto inutile perché un fascista locale
l'aveva riconosciuto e per lui era iniziato il calvario.
Quasi subito fu sottoposto ad uno stringente interrogatorio teso ad
estorcergli la località dove gli altri suoi compagni erano riparati.
Chiaramente Alberto non era disposto a tradire e dovette subire una serie di
pestaggi bestiali che gli fecero perdere i sensi.
Si era risvegliato in una stanzetta di tre metri per tre. Appena riusciva a
muoversi. Sanguinava abbondantemente dalla bocca, dal naso, dalla testa.
L'odore del sangue lo stordiva. Ad ogni movimento avvertiva dolori lancinanti
in tutto il corpo e poi aveva sete, tanta sete, ed un languore tremendo allo
stomaco. Aveva perso la nozione del tempo. Sentiva solo le conversazioni nelle
stanze vicine tra i tedeschi ed i fascisti. Conversazioni miste ad
imprecazioni e a perentori ordini.
Anche per i fascisti non doveva essere un bel momento. Abituati come erano con
la loro arroganza e prepotenza ad infierire su chi non la pensava come loro
doveva essere umiliante dover subire la strafottenza e gli insulti dei
tedeschi circa la inettitudine dei soldati italiani.
Alberto aveva già compiuto numerose operazioni. Tre quattro volte si erano
concluse con la liberazione di altri ebrei o antifascisti destinati ai campi
di concentramento, ma molte altre volte con l'assalto alle caserme dei
carabinieri o a presidi di nazi-fascisti, sparsi alle pendici dell'appennino,
con lo scopo di recuperare armi e munizioni e spesso anche generi alimentari.
Scatolette e gallette erano le derrate più ambite. Non pesavano molto e
potevano conservarsi a lungo anche celati in nascondigli improvvisati che solo
Alberto e compagni sapevano al momento opportuno trovare.
Si muoveva con facilità in quei luoghi. Lui era davvero un boscaiolo e della
montagna conosceva asperità e sentieri e sapeva come dileguarsi facendo
sparire anche le tracce del suo passaggio .
Ma quella volta gli era andata male. Quella sosta gli era stata fatale e per
giunta aveva perso un po' di tempo per darsi una rinfrescata. Era convinto che
i nazisti non sarebbero stati in grado di organizzare il rastrellamento in
tempi così rapidi. Ma aveva fatto i conti senza considerare che qualche
fascista locale potesse anche lui essere un buon conoscitore della montagna e
dei suoi sentieri e questa leggerezza gli era costata molto cara. I suoi
compagni, pur essi assetati, avevano preferito proseguire e si erano salvati.
La stanza si illuminò d'un tratto di una luce intensa.
Aveva gli occhi gonfi e quella luce lo tormentava. Non riusciva a vedere chi
avesse intorno ma chiaramente capiva che era circondato da tedeschi e diversi
sicuramente componenti dei reparti speciali delle famigerate SS.
Aveva già messo in conto che da quella stanza non sarebbe uscito vivo ed il
pensiero era corso alle discussioni che spesso si svolgevano tra i compagni
prima di ogni operazione.
In caso di cattura di qualche compagno occorreva resistere alle torture per
qualche ora. Il tempo necessario per consentire al gruppo di disperdersi e
cambiare località. Se un compagno non si ricongiungesse al gruppo nel giro di
mezzora era un segnale evidente che qualcosa fosse andata male e bisognava
disperdersi per non rischiare di restare intrappolati nel corso dei
rastrellamenti.
Quindi, sapeva che avrebbe dovuto tacere, ma comprendeva anche che il dolore
fisico a volte diventa insopportabile e la tentazione di parlare possibile.
Ma in lui era forte anche il ricordo dei tanti partigiani catturati che erano
stati poi impiccati sulle piazze dei paesi e che presentavano evidenti i segni
delle torture subite. Questo gli faceva capire che, comunque, la sua fine
ormai era segnata.
"Morire per morire - pensava - tanto vale la spesa provare a resistere".
E questo era anche il sistema migliore per garantire ai compagni di
disperdersi il più lontano possibile.
Gli fu portata dell'acqua, lo fecero bere, lo fecero lavare. Un ufficiale
nazista cercò di convincerlo a parlare. Aveva portato una carta topografica
della zona, ma Alberto aveva gli occhi troppo gonfi e non riusciva a vedere.
Cercò di spiegare queste cose intercalando qualche espressione in tedesco e
l'ufficiale diede alcuni ordini perentori che Alberto non riuscì a capire e
dopo tutti uscirono dalla stanza lasciandolo nuovamente solo.
Era contento: pensava che forse lo stratagemma stesse funzionando. Intanto i
suoi compagni potevano essere già in salvo ed anche se l'avessero maciullato a
quel punto era contento di aver salvato almeno la vita dei suoi amici.
Un paio d'ore più tardi un ufficiale medico entrò nella stanza e cominciò a
medicarlo. Le ferite furono ripulite e collirio e pomate cercarono di
rimediare i danni che le brutali percorse avevano provocato agli occhi e alle
altre parti del corpo.
Gli portarono anche una tazza di minestra che Alberto riuscì a bere perché a
masticare non ne avrebbe avuto la forza per via del forte dolore che provava
ogni volta che muoveva le mascelle. Ma la fame era troppa ed in qualche modo
bisognava fermare i crampi allo stomaco che lo tormentavano.
Un paio di giorni dopo, si era alquanto ripreso. Lo prelevarono per
trasferirlo in un'altra località. Riconobbe il paese perché l'appartamento in
cui era stato condotto era proprio sopra un bar che ogni tanto frequentava nei
periodi di riposo dalla sua attività di boscaiolo.
Fu certo che il titolare che era sulla porta l'avesse riconosciuto, ma questi
fu subito allontanato con urla sgraziate ed imperiose da parte dei soldati
tedeschi.
L'interrogatorio riprese qualche ora dopo. Prima i tedeschi si dimostrarono
gentili rassicurandolo che se avesse indicato i rifugi dei ribelli sulla
montagna l'avrebbero lasciato andare libero; ma di fronte alla
indeterminazione ed alla reticenza dimostrata da Alberto, che asseriva di non
conoscere le località che i tedeschi gli indicavano sulla cartina,
l'atteggiamento di chi conduceva l'interrogatorio cambiò radicalmente e quasi
subito le violenze ripresero in modo sempre più inaudito e spietato.
Dopo circa due ore era nuovamente irriconoscibile. Aveva perso i sensi più
volte, ma l'avevano sempre rianimato intercalando momenti di gentilezza a
nuovi soprusi. La mano destra era ormai una poltiglia informe.
La sinistra era stata torturata in modo selvaggio. Non riusciva più a restare
seduto e scivolava in continuazione sul pavimento e la sofferenza che provava
quando lo tiravano su per proseguire nell'interrogatorio era insopportabile.
Il gerarca fascista che assisteva all'interrogatorio non aveva partecipato al
massacro. Alla fine però era intervenuto minacciando di coinvolgere i suoi
familiari.
"Sappiamo dove abiti e conosciamo la tua famiglia - aveva aggiunto - cerca di
evitare delle sofferenze ai tuoi cari".
E per rendere credibile la minaccia si era rivolto ad un subalterno
ordinandogli di andare a prendere il padre.
Alberto, a questo punto, aveva compreso che non c'era più nulla da fare.
Voleva assolutamente evitare le stesse sue sofferenze anche ai componenti
della sua famiglia e, soprattutto, non voleva che suo padre lo vedesse in
quelle condizioni.
Era sul punto di parlare e svelare tutto quello che sapeva.
Ma in quel momento si avvertirono all'esterno dell'edificio una serie di
esplosioni ed alcune scariche di mitra spappolarono le persiane
dell'appartamento.
Urla indistinte arrivavano da ogni parte accompagnate da deflagrazioni di armi
da fuoco e da urla lancinanti di moribondi.
Perse i sensi. Si risvegliò alcuni giorni dopo in un letto d'ospedale
circondato da un gruppetto di partigiani armati fino ai denti.
"Coraggio Alberto, resisti - si sentì dire - sei al sicuro. Il barista ci ha
avvisati subito della tua cattura. Gli alleati stanno risalendo lo stivale. Ti
abbiamo portato nella zona già liberata. Le tue sofferenze sono finite"
Alberto non credeva di essere in salvo. Un sonno lieve lo avvinse e nel
dormiveglia fu tormentato da orrendi incubi. Vedeva il sangue scorrere
abbondante dalle sue ferite e questo gli impediva di respirare. Si sentiva
soffocare e s'agitava scompostamente nel lettino.
Un medico gli praticò un'iniezione e Alberto si senti trasportare leggero
sulle nuvole. Una sensazione di liberazione e di tranquillità lo avvolse e
sprofondò in un sonno profondo.
Si risvegliò attorniato dai suoi cari, che non avevano ancora compreso quale
pericolo avessero schivato, ed una ragazza del paese, a cui faceva la corte ma
alla quale non aveva mai avuto il coraggio di svelare il suo amore, lo
accarezzava dolcemente.
La medaglia d'oro arrivò molto tempo dopo. Si era ormai dimenticato anche del
bene fatto portando in salvo tante famiglie di ebrei e aiutando altri
deportati a fuggire. Un riconoscimento tardivo anche per la sua partecipazione
alla lotta contro l'oppressione nazi-fascista. Quello che ricordava spesso era
di aver contribuito alla liberazione del suo paese e sottolineava che i
giovani avrebbero dovuto apprezzare il suo sacrificio e quello di tanti altri
partigiani e non permettere più in futuro che la libertà venisse negata ai
popoli.
Era un invito che ripeteva spesso anche se era convinto che quanti non
avessero vissuto quei brutti momenti sicuramente non sarebbero stati in grado
di comprendere pienamente il senso del suo messaggio.
******************
Ormai era trascorsi quasi trenta giorni dal suo ricovero. Per la sua mano non
c'era stato nulla da fare. Cercarono solo di ricostruirgliela come meglio
possibile per evitare di dovergliela amputare. Per il resto era già tanto
malmesso prima, in conseguenza dei colpi ricevuti con il calcio dei fucili che
gli avevano rifilato i tedeschi durante gli interrogatori, ma in queste
condizioni un suo impiego in attività produttive che richiedessero l'uso delle
mani era diventato praticamente impossibile. Non accettando di vivere con la
sola rendita di invalidità, agli amici che venivano a trovarlo, ebbe ancora la
forza di sorridere ed affermare: "Alla fine dovrò proprio rassegnarmi di fare
il guardiano visto che non ho altre possibilità di svolgere lavori più utili
ed io resto sempre con le mie convinzioni che chi non lavora non mangia".
Riappropriarsi della parola attraverso la rete
Se la poesia é espressione e sintesi di un sofferto rapporto interiore che
l'artista, poeta o narratore che sia, traduce poi in elaborati (poesie o
racconti) che egocentricamente produce e diffonde, sbalordisce il fatto che
molti critici si sforzino, oggi, di imprigionare la produzione letteraria
moderna all'interno degli schemi e delle correnti letterarie esistenti
ricercando una loro collocazione nei vari movimenti espressivi e poetici che
si sono succeduti nel tempo in Italia e nel mondo.
Questa distinzione (Italia-mondo) a mio avviso non può essere ignorata e
costituisce la base di partenza di ogni dibattito culturale che critici,
associazioni o gruppi spontanei dovrebbero tenere ben presente prima di
emettere "sentenze" e "giudizi"
Chi scrive generalmente esprime emozioni. Queste sono generate e legate ad
avvenimenti reali, a situazioni di disagio interiore dell'uomo, a crisi
collettive, a esplosioni di speranza.
Sì, la speranza é il motore che spinge l'uomo della strada, e quindi non
necessariamente il poeta dei circoli letterari, a prefigurare un mondo
migliore, una vita più vivibile, migliori rapporti tra le persone e la fine
degli egoismi.
Le parole dell'uomo qualunque sono infarcite di sogni, di amore, di speranza.
Le parole del poeta quanto e come si distinguono da quelle dell'uomo di
strada?
Certamente il senso intrinseco di comunicare é identico. Il primo
nell'esprimere un concetto ricama intorno i suoi sogni, le sue repressioni, le
sue insoddisfazioni, le sue preoccupazioni, la sua speranza.
Ma l'uomo di strada non esprime le identiche preoccupazioni?
Probabilmente, sì. Ma il poeta dipinge le sue emozioni e li colora con il
sentimento che il cuore gli suggerisce ed i suoi pensieri cessano di essere
espressioni comuni e correnti e si trasformano in poesia, in lirica.
Ecco la differenza.
Ed allora bisogna partire da questi presupposti e dal bisogno di comunicare
certe emozioni che sono comuni ad un esercito composito di persone che, oggi,
riescono attraverso la rete virtuale a confrontarsi ed a scambiare i loro
pensieri al di fuori di schemi letterari predefiniti e senza imprigionare
questi sentimenti e le loro liriche in un contesto accademico da catalogare
per correnti o per periodi storici a cui loro, nel momento in cui sviluppano
le loro emozioni, neppure pensano.
Forse la rete, con il suo esercito di individui che si muove scompostamente al
suo interno, dovrebbe essere la base di partenza di ogni critica.
In rete vengono immessi ogni giorno centinaia di emozioni sotto forma di versi
e racconti.
Molti di quelli che scrivono, con molta probabilità conoscono appena il
Carducci e la sua opera od il Pascoli ed i suoi versi, non sanno neppure come
e quando si sia sviluppato il filone letterario del verismo o del decadentismo
e quali autori ne hanno fatto parte, non conoscono forse neppure Ungaretti o
Montale e sicuramente ignorano l'esistenza degli altri poeti della corrente
dell'ermetismo. Giorni indietro ad un mio interlocutore ho dovuto spiegare chi
era Luzi e cosa ha rappresentato il suo "poetare" per la poesia italiana e per
il pensiero culturale moderno.
Coloro che scrivono lo fanno per una sorta di bisogno interiore di liberarsi
di pensieri che li opprimono e che poi cercano di condividere, attraverso la
rete, con un esercito di persone che si esprimono con il linguaggio universale
della poesia che non può essere assolutamente catalogato per correnti perché
sarebbe fuorviante e incomprensibile per loro.
E poi che senso può avere questa folle corsa alla catalogazione dal momento
che coloro che seminano i loro pensieri e le loro emozioni in rete lo fanno
indipendentemente dal fatto che un ristretto circolo di accademici possa poi
catalogare quei pensieri e quelle emozioni come appartenenti ad un preciso
periodo o filone letterario quando il loro intento si limita solo a lanciare
un segnale, a liberare un pensiero, ad esprimere una motivazione o un momento
di disagio del proprio essere?
Insomma é più interessante la necessità di dire qualcosa oppure di catalogare
questo qualcosa in una determinata corrente letteraria, imprigionando i
concetti espressi negli schemi di un determinato periodo storico per
confrontarne stile e metodo letterario a cui l'autore, nel momento in cui ha
espresso certi suoi pensieri, neppure pensava?
L'esercito dei dilettanti che affolla la rete spesso esprime convincimenti ed
opinioni che sono slegati da qualsiasi schema letterario. La metrica, la
composizione, l'estetica, la corrente artistica, sono teorie che non li
riguardano. Per certi versi é una sfida alla "burocrazia letteraria" che
consente ad alcuni "eletti" di affermare il proprio potere di "supervisori"
per catalogare, criticare, giudicare, distruggere, esaltare, ecc... e poter
dimostrare così che senza la loro opera la letteratura non potrebbe più
esistere.
Ma se la rete mette in discussione o, addirittura, ignora questo intermediario
che si ritiene legittimato a giudicare il pensiero altrui, il critico
letterario e gli accademici entrano in crisi e si scoprono come un esercito di
individui in ombra ed i loro giudizi o le loro critiche lasciano completamente
indifferenti la maggioranza dei navigatori dilettanti che ogni giorno si
materializzano in rete per comunicare i loro pensieri, le loro emozioni od i
propri disagi interiori certi che troveranno altri navigatori che
condivideranno ed apprezzeranno questo loro modo di porsi in discussione e di
comunicare, senza doversi preoccupare di dover rispettare certi metodi di
composizione letteraria o necessariamente essere intruppati in questo o quel
filone letterario, in questo o quel determinato periodo storico della
letteratura italiana o mondiale che, sicuramente, interessa solo questa
ristretta cerchia di "burocrati letterari" che parlano un linguaggio
incomprensibile alla grande massa dei cultori della poesia che affollano la
rete e che sono spesso oggetti inconsapevoli di speculazione proprio da parte
di alcuni di questi pseudo-accademici che sfruttano le ambizioni e le
debolezze umane per concretizzare i loro affari che, sovente, si traducono in
ambigue operazioni commerciali che con la cultura e la diffusione del pensiero
nulla hanno da spartire.
Sotto questo aspetto sicuramente la rete sta livellando e ridimensionando
queste figure.
Per qualcuno può sembrare motivante e gratificante il premio conquistato in
uno dei tantissimi concorsi letterari che giornalmente vengono organizzati in
Italia.
Impressionante, infatti, é il numero delle persone che vi partecipano e
spropositato é anche il giro di affari che alcuni speculatori locali, che
giocano sui sentimenti umani, realizzano.
E questi profitti sovente sono sottratti anche ad ogni controllo fiscale e
producono anche ricchezza a molte case editrici che proprio attraverso la rete
lanciano proposte allettanti per pubblicizzare spesso opere prive di qualsiasi
contenuto culturale e che non verranno mai lette da nessuno se non da colui o
da coloro che si sono fatti abbindolare e convincere a stampare.
La rete, invece, si sottrae a questo turpe mercato. Pubblica i tuoi pensieri,
diffonde il tuo grido di dolore o la tua denuncia sociale e poi aspetta che
qualcuno si impigli e si ritrovi in quello che tu hai scritto o hai voluto
comunicare.
E qual è, dunque, la necessità di classificare tutto ciò in un determinato
periodo storico o in una definita corrente di pensiero? Interessa il contenuto
di quello che si esprime oppure la classificazione epocale o scolastica del
cattedratico?
Certo ascoltare il letterato su una cattedra fa piacere. Sentirsi dire che
anche il Carducci ha espresso certi concetti ci coinvolge. Acquisire che quel
metodo di scrittura é tipico del periodo rinascimentale o illuminista può
riempirci di orgoglio. Il fatto che quei quattro versi buttati in fretta e
senza senso preciso, se non la convinzione che in quel momento esprimono un
disagio interiore, possono essere catalogati nella corrente del misticismo di
Yeats o di Eliot degli anni '30 o in quella dell'ermetismo italiano degli anni
'30 e '50 (che ebbe poi in Sereni e Luzi gli ultimi rappresentanti italiani di
questo filone letterario) ci può riempire di soddisfazione.
Ma nei comuni dilettanti resta la convinzione reale che le motivazioni di
quello che abbiamo scritto, o voluto comunicare, rimangono slegate da
qualsiasi proponimento di volerci collocare in questa o quella corrente
letteraria, di volerci accreditare come seguaci o cultori di questo o quel
preciso stile letterario di composizione.
Quello che conta è il bisogno di scrivere e di comunicare e l'ermetismo
sicuramente rappresenta la corrente storica e culturale in cui molti a loro
insaputa si ritrovano perché espressione proprio di questi valori: il rifiuto
della classificazione scolastica ed accademica ed il trionfo della poesia come
espressione del linguaggio anche se il rischio di staccarsi troppo dalla
realtà può produrre poi il risultato di restare indifferenti alle
degenerazioni della società civile rifiutando anche di esprimere le proprie
opinioni politiche che, in certi particolari momenti, sono invece necessarie
per fermare la deriva populista o conservatrice che certi movimenti politici
racchiudono in grembo.
Significativa sotto questo aspetto è stata la denuncia dei poeti del periodo
post-bellico (che si riconoscevano nel filone dell'ermetismo come cultura più
che come corrente ben definita). Questi avevano preso coscienza che l'aver
sottovalutato con il disimpegno culturale il pericolo che il fascismo avrebbe
potuto rappresentare per la libertà di espressione nel nostro paese era stato
un prezzo troppo alto che era stato pagato da molti intellettuali democratici
che erano stati privati dal regime di ogni possibilità di esprimere in piena
libertà idee e concetti se non funzionali alla cultura dominante e tale errore
non bisognava più ripeterlo in futuro.
Questi concetti li ritroviamo di scottante attualità anche in molti scritti di
Mario Luzi ed in certe sue denunce recenti, espresse anche a livello politico
nel corso della sua investitura a Senatore della Repubblica, che hanno fatto
arricciare il naso ai politici del centro destra attualmente al governo in
Italia.
Forse, involontariamente, anche noi esprimiamo delle rappresentazioni
concettuali di parte e rischiamo di farci catalogare. L'unica differenza sta
nel fatto che quello che noi manifestiamo è frutto della nostra spontaneità e
le teorie che sosteniamo non hanno un retroterra filosofico o una matrice
politica o culturale ben definita.
Per certi versi sono figli dello spontaneismo e dell'esistenzialismo che
caratterizzano soprattutto i poeti non professionisti e non cattedratici che,
comunque, non si accorgono di collocarsi in questo o quel determinato filone
letterario in quanto il pensiero che li anima è quello di dare spazio alla
parola come mezzo di comunicazione slegata dagli schemi di catalogazione dei
letterati di professione.
E l'ermetismo vuol dire anche questo.
Pertanto, la convinzione della necessità dello svincolo del poeta da ogni
schema concettuale e la necessità di una libertà incondizionata ad esprimere
compiutamente il proprio pensiero e le proprie emozioni deve partire
unicamente da questa condizione. Solo casualmente, poi, potrà essere
catalogato nel branco di coloro che certe convinzioni le hanno trasformate in
correnti di pensiero politico oppure in un preciso stile o filone letterario. Morire ancora bambina L'odore dell'acetilene é ancora forte nell'aria. I pomodori maturano più in fretta al caldo, almeno esternamente perché il calore crea una patina rosata che li fanno sembrare già pronti per il consumo. Ma tagliandoli ci si accorge della manipolazione e della forzatura operata dall'uomo perché i semi sono una poltiglia incomposta in quanto non sono ancora giunti a maturazione completa. Ma tanto va bene così. Al Nord li comprano lo stesso e non sanno quanta fatica é costata ed anche quando dolore hanno lasciato alle loro spalle. Ed é proprio così la verità! E a Condofuri*, intanto, é rimasta solo una lapide appoggiata al muro della casa che sorge nel quartiere popolare dove quella ragazzina abitava. Ignoro se sia rimasta ancora collocata al solito posto oppure se sia stata rimossa, e se qualcuno ancora ricorda gli avvenimenti ed il dolore di quel lontano fine anni '50. Il sangue dei lavoratori non ha storia e la memoria delle vittime cadute sul lavoro é corta. Nessun Presidente della Repubblica porge le condoglianze e neppure i deputati della circoscrizione si prendono la briga di aprire un'inchiesta per scoprire quello che é successo. E' stata una disgrazia, si sussurra in giro, e nessuno paga per l'ennesimo omicidio sul lavoro che in quegli anni insanguinava in modo costante le contrade del Sud. Il prete continua a veder affollata la chiesa accogliendo i corpi delle vittime ed il dolore dei loro parenti e degli amici, e le parole continuano a suscitare indignazione ed esecrazione, ma poi tutto si conclude con la solita solfa della rassegnazione, della volontà divina che così aveva stabilito, delle prove a cui gli umani vengono sottoposti per meritarsi il paradiso ed altre amenità che, tuttavia, non servono a risolvere certe situazioni che continuano, poi, a ripetersi immutabili nel tempo. Tanto i voti arrivano lo stesso e se quella famiglia vota per i partiti di sinistra, tante altre, o per timore, o per pressioni, o per comparaggio, o per scrupolo religioso, continuano a votare i soliti noti, che in fondo vengono considerati come persone "perbene" perché sono riusciti a costruirsi una fortuna pagando per quattro soldi la manodopera, molte volte non assicurandola, ma frequentando con assiduità e continuità tutte le funzioni religiose della parrocchia. Ma quella ragazzina, carina, ben fatta, con i seni appena accennati, di cui forse mi ero segretamente innamorato, intanto era saltata in aria insieme al forno che veniva impiegato per far maturare artificialmente la frutta e gli ortaggi ed i suoi capelli lunghi e mossi coprirono teneramente quel viso sfigurato e pieno di sangue e non ondeggiarono più al vento e neppure il suo riso riecheggiò più davanti alla fabbrica, che era stata costretta a fermarsi per il funerale solo per il motivo che non era più agibile. Tutto é finito tanti, molti anni indietro. Adesso il tempo ha cancellato dolori e pianti ed anche il ricordo si é sbiadito, come forse si é sbiadita quella lapide a cui nessuno farà più caso o che nessuno più noterà. Ma il nome di quella vittima é ancora vivo nella mia memoria e sovente provo la stessa disperazione del giorno in cui quella lapide fu scoperta alla presenza dei lavoratori della zona e dei parenti e con le bandiere rosse, insieme a quelle del mio sindacato, che ondeggiavano al vento. Quella manifestazione mi si ripresenta a tratti, e mi tormenta: unico testimone di un dramma lontano ma ancora presente nel mio ricordo. E rammento anche la mia sofferenza, quella vera, sofferta silenziosamente per non scoprire i miei sentimenti, che forse qualcuno aveva già notato, ma che io dovevo per forza celare, per il mio ruolo e perché le convenienze ed i conformismi del tempo me lo imponevano. Neppure poter dare sfogo all'affetto che racchiudevo nel cuore; e questo per non rischiare di dare esca ai commenti maliziosi del tempo e compromettere, così, la memoria di una innocente, immolata troppo presto sull'altare dei caduti sul lavoro. Ed allora non avevo ancora vent'anni ed ero carico di entusiasmo, ed anche di incoscenza perché non valutavo la pericolosità degli avversari contro i quali mi battevo, e non riuscivo neppure a prevedere che quel dramma si sareppe riproposto altre volte nel tempo e che il mio incitamento alla protesta ed alla ribellione a certe condizioni di vita e di lavoro, inaccettabili ai giorni nostri o nella realtà industriale del Nord, potevano causare le più varie ritorsioni, non solo da parte del padronato che controllava la collocazione della mano d'opera, ma anche da parte del clero del paese che gestiva le varie opere caritatevoli che poi si trasformavano, al momento delle elezioni, in efficenti punti di raccolta di voti a sostegno dei candidati che, una volta eletti, avrebbero continuato a fare gli interessi dei notabili locali. E non c'era nulla da fare: o accettare certe condizioni e soffocare il dolore o emigrare. I più coraggiosi legavano poche cose in una valigia di cartone e partivano verso l'ignoto. Spesso non ritornavano perché precipitavano da un grattacielo o morivano dentro una miniera, ma tante altre volte riuscivano a cambiare la loro vita e quella delle loro famiglie e ritornavano saltuariamente nei loro paesi con una coscienza nuova e con una maggiore consapevolezza e convinzione che le cose potevano cambiare con l'unità del popolo e con la lotta per rivendicare sviluppo e lavoro nei loro paesi. Ho perso i contatti con la mia realtà di provenienza ed anche con i problemi della mia terra d'origine. Ogni tanto, però, seguo in televisione gli avvenimenti che periodicamente i servizi giornalistici trasmettono. Non sembra che le cose siano poi tanto mutate rispetto ai miei tempi. Forse é cambiata la consapevolezza nei giovani del proprio diritto di vivere nella loro terra e della esigenza di far rispettare la loro dignità, che solo il lavoro e lo sviluppo possono assicurare. E spero ardentemente che questa aspirazione possa realizzarsi e che anche certe sciagure non debbano più ripetersi. Forse solo così il mio cuore potrà acquietarsi e quella bella ragazzina dai capelli lunghi e mossi, saltata in aria in un lontano giorno di maggio di tanti anni indietro nel fiore dei suoi anni, possa dolcemente uscire dalla mia mente e trovare le condizioni per poter finalmente riposare in pace. * Condofuri é un ridente paese agricolo che sorge sulla costa jonica della provincia di Reggio Calabria Una strana coppia Ogni giorno alla solita ora, nella tarda mattinata, Tito arrivava scodinzolando davanti alla porta di un piccolo Bar sulla statale che da San Marcello Pistoiese porta all'Abetone ed aspettava che il gestore gli porgesse un po' di cibo. Il nome Tito gli era stato imposto per caso, o forse in memoria del defunto presidente della Jugoslavia. La montagna Pistoiese ha sempre avuto amministrazioni di sinistra e tale condizione forse ha influenzato la scelta del nome. Tito era un incrocio con un cane da caccia. Di taglia media e con un bel mantello color crema con una grossa macchia più scura sul dorso. Era un randagio che da anni si aggirava per il paese dove tutti gli volevano bene e nessuno gli dava fastidio. Il gestore del Bar fu il primo a fornirgli assistenza la prima volta che lo vide aggirarsi nei dintorni del suo bar ed annusare vicino ai bidoni dell'immondizia. Gli offrì una ciotola di pane e latte e da quel giorno, alla solita ora, ricompariva davanti al bar, si accucciava a fianco alla porta ed aspettava. Col passare del tempo le sue apparizioni si erano fatte più frequenti: si era abituato alle carezze dei clienti, che sovente gli allungavano un pezzo di brioche, e spesso si divertiva a giocare con i bambini che, data la sua mitezza, gli ronzavano sempre intorno. Nei pressi del bar scorreva il fiume Lima che dall'Abetone scende verso la piana di Bagni di Lucca. Nel periodo estivo i ragazzi si divertivano a fare il bagno nelle pozze che il fiume formava tra i massi che nel corso dei secoli si erano staccati dalla montagna ed erano piombati nell'alveo. Un giorno un ragazzo del paese si era recato a pescare e per un movimento brusco scivolò e cadde proprio in una di queste pozze d'acqua. Tito gli era andato dietro e l'aveva seguito mentre si spostava da una pozza all'altra gettando l'amo divertendosi a scavar buche o cercando di tirar pezzi di rami incastrati tra le rocce. Quando sentì l'urlo del ragazzo si buttò in acqua e cercò di tirarlo fuori agguantandolo per un braccio. Ma la pozza era profonda e circondata da massi e, nonostante gli sforzi, la bestiolina non riuscì nel suo lodevole intento anche perchè il ragazzo si era lussato una caviglia e non riusciva a tirarsi fuori o cercare di aiutare gli sforzi di Tito. Tito gli abbaiava dall'alto di una roccia quasi a dirgli "vieni fuori" , ma il ragazzo continuava a lamentarsi anche perchè con il passare dei minuti cominciava ad avvertire brividi sempre più intensi di freddo dovuti all'immersione nella gelida acqua della Lima. Il pericolo non era solo quello. Sul fiume Lima vi è uno sbarramento dell'Enel e spesso le paratoie vengono aperte per dei lavori o per delle manovre che vengono eseguite sull'impianto. In tale occasione il livello dell'acqua in quel tratto di fiume aumenta e per questo motivo una fitta segnaletica lungo la riva avverte i pescatori del pericolo di piene improvvise. Tito, logicamente non sapeva leggere i cartelli e non poteva prevedere tale evenienza. Capiva però che il suo amico si trovava in difficoltà e non riuscendo da solo a risolvere il problema si arrampicò di corsa lungo le ripe scoscese del fiume e corse abbaiando davanti al bar. Lì per lì nessuno riusciva a capire lo strano comportamento del cane. Poi qualcuno che già aveva avuto un cane in casa s'insospettì e vedendolo andare avanti ed indietro abbaiando provò ad alzarsi e seguirlo. Subito Tito corse verso il fiume ripercorrendo a ritroso il cammino fatto e portando il soccorritore là dove vi era il ragazzo ferito. Quel ragazzo se la cavò con una bronchitaccia e qualche settimana di immobilizzazione della gamba. E gli andò veramente bene in quanto qualche ora dopo il suo ricovero in ospedale le paratoie dell'Enel furono aperte per una manovra di emergenza e se si fosse trovato ancora nel fiume non ne sarebbe uscito fuori vivo. La storia si sparse anche per i paesi vicini e molti curiosi arrivarono a vedere Tito facendo la felicità anche del gestore del Bar che realizzò dei buoni guadagni con le consumazioni. A volte quando il locale era poco frequentato ed il gestore era nel retrobottega a preparare dei panini o rasettare tazzine e cucchiani, se arrivava qualche cliente di passaggio Tito cominciava a mugolare e grattare la porta del retrobottega avvisando il gestore dell'arrivo dei clienti. Questi si divertivano ad osservare i movimenti del cane e ne esaltavano le doti di intelligenza al gestore. "Vede - osservava il gerente - gli abbiamo dato qualcosa la prima volta che si aggirava intorno al locale e da quel giorno non se ne più andato. Non dà fastidio a nessuno. La notte dorme sotto la tettoia e se si ferma qualche macchina comincia ad abbaiare. Non per cattiveria, s'intende, ma quasi per gioia che arriva gente. Ma tale comportamento ci avverte anche della presenza di malintenzionati. Non ha mai voluto la catena. Ha preferito la sua libertà. Va e viene. Nel periodo degli amori sta via anche una settimana; poi ricompare affamato e qualche volta con qualche ferita conseguenza degli scontri per il possesso della femmina. Lo curiamo, lo sfamiamo e lui ci ricambia il servizio come può". E nell'esaltare le doti del cane non poteva mancare il racconto del salvataggio del ragazzo nel fiume accompagnato dalla visione dei ritagli dei giornali incorniciati e messi in bella vista in una parete del Bar, dove anche il gestore appariva a fianco di Tito. Tito a differenza di tutti gli altri suoi simili non aveva mai dato fastidio agli altri cani che capitavano nei pressi del bar e neppure aveva mai rincorso i gatti. Questi, forse comprendendo che Tito non li molestava, sovente andavano a mangiare nel suo tegamino sotto la tettoia ed un giorno i clienti del bar lo trovarono sdraiato con addosso quattro gattini che si divertivano a rincorrersi ed a giocare con la sua coda. La risata era d'obbligo ma divenne collettiva quando trovarano Tito che mangiava con a fianco una gallina che a tratti gli portava via gli spaghetti dalla ciotola. Insomma Tito, a differenza del dittatore jugoslavo, era un buono ed il nome che gli era stato imposto non era proprio appropriato. Forse gli calzava meglio un nome del tipo di "Fido" che senz'altro sarebbe stato più aderente alla sua mitezza. E che fosse una "Fido" lo dimostrò un'altra storiella, finita anche questa sulle pagine di un giornale locale con tanto di foto e di titolo in grassetto. Un giorno Tito arrivò nel locale addirittura in compagnia di un.... cinghiale. Certo era solo un piccolo di cinghiale che probabilmente si era perso nel bosco, ma era pur sempre un animale selvatico abituato per sua natura ed istinto ad aver paura sia del cane che dell'uomo. Tito arrivò nel locale con il suo strano compagno che l'aveva seguito forse pensando di trovare la sua mamma. Tito si sdraiò sotto la tettoia ed il cinghialino gli si avvicinò cercando le mammelle per rifocillarsi. Purtroppo Tito non poteva offrirgli il pasto che questi avrebbe preferito. Ma una tazza di latte con biscotti non si nega a nessuno neppure ad un piccolo cinghiale. E come sempre fu offerta dai gestori del Bar. Dopo essersi rifocillato il cinghialino, grugnendo soddisfatto, se n'era poi ritornato nel bosco in cerca della mamma. La storia sarebbe stata poco credibile se i gestori del bar non si fossero premurati di documentarla facendosi fotografare insieme a Tito ed al cinghialino mentre consumava la sua tazza di latte e biscotti. A questo punto i titolari del bar cominciarono a prepararsi ad altre sorprese. E considerando l'evolversi degli avvenimenti si cominciò a scommettere su quale sarebbe stata la futura possibile sopresa che avrebbe offerto occasione alla borgata di essere al centro della cronaca giornalista e che potesse dare spunto agli abitanti delle frazioni vicine per sviluppare nuove argomentazioni, diverse dai soliti pettegolezzi che animano le discussioni in una piccola comunità di uno dei tanti paesini della montagna pistoiese. Al santuario dell'Eremo Il mese di settembre ai giorni nostri per molti rappresenta la fine di tutto. Per chi lavora la fine delle ferie, per chi va a scuola l'inizio dei tormenti, per tanti l'arrivo dell'autunno con gli alberi che si spogliano e le giornate che diventano sempre più corte. Eppure, un tempo, quando le scuole iniziavano il primo di ottobre, il mese di settembre rappresentava la possibilità di vacanze a basso costo, la ricerca di tranquillità per i tanti anziani che odiavano la congestione delle spiagge estive e per noi ragazzi l'impaziente attesa della festa patronale della Madonna della Consolazione. La festa era anticipata da una liturgia particolare che prevedeva il triduo o novena con pellegrinaggi mattutini al santuario dell'Eremo, dove una congrega di frati cappuccini custodiva per tutto l'anno l'immagine sacra della Madonna della Consolazione e che consegnava, appunto nel mese di settembre, alla Curia di Reggio Calabria che la custodiva e la onorava per tutto il mese nel Duomo cittadino. Ogni mattina ci si alzava di buonora, quasi sempre prima del levare del sole, per penitenza dicevano i vecchi, per evitare il troppo sole che picchiava ancora in modo pesante anche in settembre, pensavamo noi e ci si incamminava verso il Santuario. Per strada se ne vedevano di tutti i colori: gruppi di persone che recitavano il rosario o che pregavano invocando le grazie della Madonna, donne che camminavano scalze, altre che indossavano il saio dei frati cappuccini. Ed era tutta una coreografia legata a voti o promesse di voto da adempiere per cui sovente non era raro incontrare anche dei bimbi vestiti con il saio dei francescani o di Sant' Antonio da Padova. E ci facevano tanto ridere quei bambini, goffi in quei costumi da religiosi, che piagnucolavano perché si sentivano ridicoli e non li volevano indossare e altri che ne andavano fieri, quasi sfoggiassero una divisa dei corazzieri del Quirinale. Lungo la strada si trovava di tutto: vi erano banchi di dolciumi locali dove abbondavano in prevalenza croccanti di mandorle e noccioline, mostaccioli e "nzuddhe", tipici dolci ad impasto duro a base di miele, che noi ragazzi frantumavamo felici quasi a dimostrare ai più anziani la robustezza delle nostre dentature ancora intere. Vi erano poi altri banchi che esponevano altre mercanzie ed alcuni anche giocattoli e palloncini. Ricordo che la nostra curiosità raggiungeva il massimo della frenesia quando si incrociava qualche venditore di palloncini che si serviva, per gonfiarli, non della forza dei propri polmoni ma utilizzando una bombola di gas. Allora si faceva a gara, con pianti o schiamazzi, per possederne qualcuno per farlo svettare, come uno stendardo, sopra le nostre teste tenendolo stretto per il filo che lo sorreggeva per non farcelo sfuggire di mano. Quando, accidentalmente, qualcuno di questi urtava le spinose piante di un fichidindia, o di qualche pianta di agave, ed esplodeva con un botto sordo e rumoroso, esplodevano urli di disperazione in quanto sapevamo che i nostri genitori difficilmente ce ne avrebbero comprato un altro. Ed eravamo raggianti di felicità ad osservare ogni tanto qualche palloncino che sfuggiva di mano a qualche disattento bambino e che si innalzava velocemente verso il cielo, indifferenti alle urla di disperazione di quel bimbo che si buscava, fra l'altro, anche qualche scappellotto per la sua distrazione. Non volevamo perdere i nostri, ma si restava incantati a guardare quelli degli altri volare verso le nuvole e diventare sempre più piccoli fino a sparire dalla nostra vista. Allora si fantasticava sul viaggio che quei palloncini avrebbero fatto e ci si immaginava di essere anche noi attaccati a quel filo e, come nelle favole, andare in giro per il mondo per vedere terre e popoli sconosciuti. "Va a Torino" - urlava qualcuno. "In Africa" - aggiungeva qualcun altro -. "Si, in Africa" -urlavano in coro altri bambini -, anche perché a volte il vento soffiava verso il mare e noi sapevamo che le coste africane non erano molto distanti dalla Sicilia che si trovava proprio di fronte alla nostra città. Dal nostro fantasticare ci distraeva il vociare dei venditori di fichidindia e gli urli dei ragazzi che ci precedevano e che li notavano per primi: "Mamma comprami i ficarazzi, voglio i fichidindia", urlavamo in coro. Ed a rafforzare il nostro desiderio di gustare quei freschi frutti si aggiungeva con intenzione l'urlo dei venditori " Ficarazzi freschi, appena raccolti, dieci una lira". Ci si innamorava davanti alla carriola del contadino carica di fichidindia freschi e saporiti, che erano un po' la frutta dei poveri per il suo costo contenuto e per la sua abbondanza nel mese di settembre. Questa pianta grassa, infatti, cresce spontanea un po' dappertutto nel mezzogiorno e spesso è utilizzata anche come siepe di recinzione dei campi. Noi si restava ammaliati a vedere il contadino prendere con le mani quei frutti spinosi e sbucciarli con una velocità incredibile uno dietro l'altro. Avevamo un timore immenso delle spine. E' vero che erano piccole ma quando qualcuna si piantava in un dito o sulle labbra ne seguiva un fastidioso prurito in quanto si avvertiva la sua presenza sulla pelle ma si faceva fatica ad individuarla e, sovente, quando si spezzava nel tentativo maldestro di estrarla, ne facevamo un dramma per farcela togliere. Il venditore maneggiava quei frutti con disinvoltura come si trattasse di pesche o susine e noi lo guardavamo ammirati, quasi una sorta di soddisfatta rivincita su quel frutto temibile le cui spine non erano capaci di penetrare nelle mani callose del contadino e che rappresentava, ai nostri occhi, una sorta di eroe omerico che riusciva a sconfiggere il ciclope. Nel giro di un'ora della montagna dei fichidindia in vendita non restava che un mucchietto di bucce che, accuratamente raccolti nei secchi, venivano poi riutilizzati, mescolati ad altri avanzi alimentari, nel beverone per il maiale. Settembre era anche il tempo dell'uva, delle prime uve per l'esattezza. E noi tante volte passando lungo i vigneti, incuranti dei richiami delle nostre madri che volevano evitare le ire dei contadini, ne raccoglievamo qualche grappolo ancora mezzo acerbo. "Non mangiatelo insieme ai fichidindia"- si raccomandavano dopo che i loro urli non avevano sortito l'effetto sperato- "altrimenti poi vi dovremo dare l'olio di ricino per farvi andare di corpo". Il pensiero dell'olio di ricino o delle purghe di magnesia San Pellegrino, ci riportavano improvvisamente alla realtà e si smetteva di mangiare quell'uva di cui eravamo tanto golosi. Ma non finiva lì. Ogni tanto, al di là delle siepi che cingevano i fondi agricoli, sporgevano dei rami di fichi stracolmi di frutti maturi e dolcissimi. Il fico è la seconda pianta che cresce sovente spontanea un po' dappertutto nel mezzogiorno e, in quel periodo, rappresentava un alimento fondamentale della dieta giornaliera di molte famiglie. I primi erano quelli che godevano di più in quanto raccoglievano i frutti più maturi. Gli altri si dovevano accontentare di quelli meno maturi o fare delle acrobazie per arrivare ai rami più alti che i primi non erano riusciti a raggiungere. "Mangiateli con il pane" - ci consigliavano le nostre madri. Noi lo sapevamo che i fichi mangiati al mattino a digiuno potevano provocare effetti lassativi e, per questo, li spalmavamo sul pane come una marmellata e li gustavamo con avidità. Questa sceneggiata si ripeteva tutte le mattine con monotona puntualità fino a quando non si arrivava al Santuario dell'Eremo della Madonna della Consolazione. Qui si faceva a gara a raccogliere dai frati Cappuccini le immagini sacre della Madonna che poi scambiavamo con le più disparate mercanzie con i nostri compagni di giochi che non partecipavano a quel pellegrinaggio mattutino. Gli anni sono passati e per molti è passato quell'entusiasmo ed è venuta meno anche quella devozione religiosa che alimentava, in quel periodo, la speranza di un futuro migliore per molte famiglie. Tanti altri, me compreso, si sono trasferiti in altre regioni e città molto distanti dalla propria terra di origine. Ma tutti gli anni, quando ritorna il mese di settembre, i ricordi di quei giorni si fanno più vivi ed in fondo all'animo si risveglia una dolce sensazione di vuoto, quasi una necessità di ritrovare per un istante le forti sensazioni adolescenziali che accompagnavano quel rito giornaliero. Ed il bisogno di ritorno ad un passato ricco di cose semplici, in cui l'amicizia e la solidarietà avevano un significato pieno e completo, bussa più forte che mai alla porta dei miei desideri . E rivedo quella processione mattutina di intere famiglie, con tanti bimbi chiassosi, snodarsi lungo una strada bianca di terra battuta, odorosa di fieni appena tagliati ed allietata da un concerto di cicale e dal cinguettio melodioso dei passeri e dei cardellini; e mi sembra di udire le voci, anche di quelli che non ci sono più, che mi chiamano sommessamente risvegliando nel mio inconscio il senso di appartenenza ad un mondo ormai finito e ad un periodo spensierato della mia infanzia dove la felicità non era rappresentata dalla merce che oggi puoi acquistare senza problemi nei supermercati ma dalla conquista di qualche palloncino e di un paio di fichidindia. Tra gli abeti di Pian di Giuliano Chi percorre la strada che da Pistoia va all'Abetone, appena fuori dell'abitato della frazione di Le Piastre, trova alla sua sinistra l'alveo del fiume Reno, che sorge ad una manciata di chilometri più in su quasi nel centro del paese di Prunetta, una delle frazioni di Piteglio. Qualche chilometro prima di giungere a Ponte Petri si incontra, sulla destra, un bivio con una strada quasi tutta sterrata, che si riallaccia, dopo 7-8 chilometri, alla strada nazionale per Bologna nei pressi di San Mommè. Tale stradina attraversa una frazione di Pistoia, dove vivono tuttora alcuni nuclei abitativi, detta Pian di Giuliano. Sovente ho l'abitudine di lasciare la macchina nei pressi di tale bivio, in una delle tante piazzole adoperate dai boscaioli per accatastare la legna, e mi inerpico a piedi nel bosco, ricco di abeti, castagni e querce, dove nel periodo estivo è facile effettuare raccolte generose di funghi porcini. In queste escursioni mi accompagna una fedele cagnetta, piena di paure quando passeggia nei centri abitati, ma che manifesta la massima tranquillità tutte le volte che può liberamente scorrazzare nel bosco. Arrivati in cima alla collina si può godere il doppio spettacolo che la natura ti regala: a sinistra la valle del Reno, con il fiume, quasi un rigagnolo nei mesi estivi, che scorre lentamente verso il borgo di Ponte Petri, ed a destra il bosco che degrada, ricco di vegetazione, verso l'abitato di Ciricea e che fornisce il bellissimo panorama della pianura di Pistoia che, di notte, annega in un vastissimo mare di luci che si perdono in distanza fin oltre la città di Firenze. Al ritorno di una di queste passeggiate, proprio all'inizio della discesa che riporta verso la valle del Reno, avevo avvertito, frammisto all'ululato del vento, quasi un vocio confuso che proveniva dal fitto degli alberi di abeti che in quel tratto coprono abbondantemente i fianchi della montagna. "Ovvia - dicevo quasi parlottando tra me - ma che fantasie ti passano per la testa di pensare che le piante possano parlare. Ma cosa vuoi che una pianta abbia da dire?" "Fermati e ascoltami - mi parve di udire, proveniente da un abete che dimenava i rami come qualcuno che saluta agitando una mano - guarda sono io, sono qua". Ma subito, di converso un altro abete, scuotendo le foglie e facendo quasi a spintoni con i rami degli alberi vicini, mi urlava: "Dopo, ascolta me, che ho anch'io qualcosa da dirti". Il chiacchierio arrivava confuso, e tutti i rami degli abeti vicini s'agitavano e facevano a picche tra loro cercando di parlare prima degli altri. "Abbiate pazienza - commentavo - se parlate uno per volta forse riuscirò a capire meglio quello che avete da dirmi". "Allora parlo per primo io - disse un abete quasi al mio fianco - così è anche più facile che tu mi possa sentire. Tu passi sovente a noi vicino; t'abbiamo visto più volte fermarti accanto ai nostri fusti e guardare l'ondeggiare dei nostri rami scossi dal vento". "Abbiamo ascoltato anche i tuoi discorsi più volte e t'abbiamo capito più di quanto tu possa immaginare. Non pensare che le piante per il solo fatto di essere sempre immobili siano anche insensibili e non capiscano nulla". "Oh Dio, quanto siete piccini e stupidi se pensate che noi non abbiamo nulla da dire" - commentò un vecchio pino che aveva perso da un pezzo la chioma più alta per via del bruscello. "Anch'io ho qualcosa di dire", si sforzava a dire una betulla vicina ed agitava i suoi rami frignando come un bimbo capriccioso quando vuole richiamare l'attenzione su di se. "Anch'io voglio dire qualcosa", urlava un altro grosso abete poco distante ed agitava le cime baciate dal sole facendosi spazio tra gli abeti vicini quasi a dire: "Sono qua". "Tutti abbiamo da dire qualcosa", aggiunse subito un vecchio tronco ormai secco ed interamente coperto da una pianta d'edera che lo avvolgeva e sommerso dalla vegetazione degli alberi circostanti. "Un tempo anch'io spaziavo al di sopra di tutti gli alberi qui attorno; sui miei rami gli uccelli deponevano nidi ed erano sicuro rifugio quando la burrasca infuriava sul bosco". "Al mattino vetteggiavo l'alta cima smossa dal vento che si piegava quasi facesse un gioco armonioso e i rami più alti per primi coglievano la carezza dei raggi del sole che spuntava". "Poi una mattina d'inverno mi svegliai tutto ghiacciato dal bruscello ed i miei rami sembravano placcati d'argento. Certo senza aver visto non puoi neppure immaginare quale processione di persone andava e veniva per fotografarmi coperto da quel vestito d'argento. Eh, si, ho vissuto veramente ore di gloria e sono stato gratificato per le adulazioni e per le espressioni di meraviglia per la mia bellezza e lucentezza". "Ma il bruscello - proseguì l'abete - mi seccò il cuore e con il cuore la linfa. I miei rami caddero a pezzi; si sfaldarono come briciole di un pane mal lievitato e quando tutto finì era ormai troppo tardi per me. Rimase in piedi un tronco con qualche ramo scarnito. La linfa cessò di scorrere e lentamente gli ultimi rami verdi smisero di vivere". "Ora io sono vivo solo nel ricordo della gente che ricordano la mia maestosità grazie alle foto scattate dai fotografi dalle quali hanno ricavato centinaia di cartoline bellissime. Ma non pensare ch'io non abbia più nulla da dire". "Il tronco caduto è stato recuperato ed è servito per scaldare le sere d'inverno di intere famiglie e nel tronco rimasto formiche hanno scavato cunicoli e deposto le loro pupe. Devo dire la verità a volte mi fanno anche un po' il solletico quando si spostano sue giù dentro il mio tronco. Come vedi, anche stronco, non mi sento per nulla inutile in quanto continuo a servire a qualcosa". "Sei sempre il solito pettegolone - esclamò l'abete più alto che aveva parlato per primo - non pensare che solo tu hai qualcosa da dire. Dai miei rami più alti i falchi ogni giorno osservano l'ampio territorio che li circonda per individuare le proprie prede. Anch'io ho qualcosa da dire, anch'io servo a qualcosa". "Nessuno voleva offenderti - sussurrò un abete vicino che aveva più di cent'anni - ognuno di noi ha qualcosa da dire". "Vedi - borbottò mentre gli passavo vicino - tu hai visto più volte questo squarcio cicatrizzato sul mio tronco. Più volte ti sei fermato ed hai quasi accarezzato la resina che ancora oggi si rapprende su questa ferita mai cicatrizzata. Qualche volta ti sei divertito a bruciarla per annusare il forte odore che si sviluppava, ma non hai mai pensato cosa mi fosse veramente successo e chi mi avesse prodotto un simile sfregio sul tronco". "Ebbene, tu devi sapere - proseguì l'abete - che quasi cinquant'anni or sono nei nostri boschi si nascondevano i partigiani che lottavano per sconfiggere i tedeschi che occupavano il nostro paese". "Un giorno, sul far della sera, uno di loro fu catturato e fu fucilato proprio vicino al mio tronco. Fu la scarica dei fucili che mi causò questa grossa ferita ed ancora dentro il mio tronco sono infisse le pallottole che ferirono a morte quel giovane partigiano". "Era un ragazzo di circa vent'anni che noi avevamo visto tante volte aggirarsi nel bosco o mentre stava di vedetta nelle gelide nottate dell'inverno del 1943. Era tanto allegro e pieno di vita. Ma quella notte, solo io raccolsi il suo pianto. Solo io fui testimone del terrore che lo pervase di dover morire". "Ma è morto bene, per Dio! Ti posso assicurare che è morto veramente bene. Solo io fui testimone della sua paura; ma al nemico dimostrò fierezza e coraggio e morì da eroe urlando la sua rabbia all'invasore e la sua speranza nel trionfo della libertà e nella fine delle oppressioni". "Io raccolsi il suo ultimo respiro, quando le pallottole lo colpirono a morte, e le sue invocazioni le ho racchiuse nella mia ferita e le ho fatte riascoltare alla sua mamma, quando era ancora in vita, tutte le volte che veniva a deporre mazzi di fiori sul mio tronco ed a pregare per la tragica fine del suo giovane figlio. E se tu tendi l'orecchio, la prossima volta che mi passerai vicino, forse riuscirai ancora a sentire qualche volta la sua voce ed il suo lamento". "Non pensare che non abbiamo nulla dire perché siamo immobili nel terreno", aggiunse una vecchia radice che costeggiava un rigagnolo a fianco il fosso. "Guardami bene e ricordati che non sono stata sempre così come oggi mi vedi. Un giorno ero anch'io un cerro rigoglioso e tra i miei rami saltellavano merli e pettirossi". "Ma se pensi che adesso non servo più a nulla ti sbagli di grosso - continuò -; se osservi alla base della mia grossa radice vedrai che la volpe ha scavato un cunicolo che porta alla sua tana. Io la osservo all'imbrunire sortire per andare a cercare il cibo per i suoi piccoli nascosti nel mio ventre". "A volte li sento guaire e chiamare la mamma perché hanno paura, ma dentro il mio ceppo sono al sicuro ed io li nascondo così bene che difficilmente qualcuno li potrà trovare". "Ora puoi andare - concluse un larice quasi ai limiti della radura - ma tutte le volte che ci passerai vicino rallenta il tuo cammino e prova a prestare l'orecchio quando il fragore del vento scema d'intensità. Forse riuscirai ad ascoltare i messaggi che ci scambiamo tra i rami e che il vento trasporta un po' a destra ed un po' a manca. E può darsi che riuscirai forse a capire che anche le piante del bosco possono avere qualcosa da dire o qualche storia da raccontare e non sono, come tante volte hai pensato, dei fusti insensibili ed indifferenti alla vita che li circonda". Storia di due tute Le piantine di cotone ondeggiavano al vento nelle immense coltivazioni del Sud America. "Ieri sono stati raccolti tutti i fiocchi delle piante vicine a noi - diceva una pianta di cotone ad un altra a lei vicina - oggi toccherà a noi. Chissà dove andremo a finire e se ci troveremo più". l giorno dopo due operai cominciarono a raccogliere i fiocchi sulle piante e fu così che quelli delle due piantine si ritrovarono stretti stretti in una grossa balla di cotone bianco. "Siamo ancora insieme - dissero con un fil di fiato tanto erano stretti tra loro - perlomeno per un po' staremo ancora insieme". Nei giorni successivi la balla fu caricata su un grosso camion e fu imbarcata, insieme a tante altre balle di cotone, in una stiva di una grande nave. Certo il clima era irrespirabile, ma i fiocchi non si lamentarono più di tanto per tutto il viaggio. Dopo diverse settimane di viaggio, arrivarono a Genova, Qui, rividero la luce del sole quando vennero caricati su altri camion che li trasportarono in una grande industria di tessitura in Piemonte. Arrivate in fabbrica le balle furono aperte e gettate in una grossa vasca di lavaggio. Cercarono i fiocchi di stare più vicini possibili, ma molti di loro furono divisi dagli altri dal turbinare della centrifuga e non si rividero più. Alcuni si ritrovarono al momento dell'asciugatura, poi subirono la cardatura e, quindi, li trasportarono in un reparto di tessitura per essere trasformati in cotone. Speravano di poter restare abbracciati tutti insieme, ma le macchine che torcevano il filato le allungarono e le trasformarono in un lungo filo, per cui molti di questi furono nuovamente separati. Dopo qualche giorno furono raccolte in matasse e portati in un altro reparto dove furono immerse in grosse vasche contenente liquidi di colore diverso e furono prima colorate, poi asciugate e quindi riportati sui telai dove furono raccolti in enormi rocchetti e trasformati, infine, in rotoli enormi di tessuto variopinto. Durante le lavorazioni alcuni fiocchi persero gli amici nuovi che avevano conosciuto, e con i quali erano rimasti ancora per giorni abbracciati, e ne conobbero degli altri. Alcuni furono ancora separati con la tessitura ma altri si ritrovarono vicini e ne seguirono abbracci e tanta gioia. Ma non era ancora finita. I grossi rotoli di stoffa furono ancora una volta caricati su dei camion e furono portati in uno stabilimento di confezione per ricavarne delle tute. Grande fu la disperazione quando la stoffa fu tagliata ed i fiocchi si trovarono nuovamente separati. Alcuni piansero disperatamente, altri si rassegnarono tanto non c'era nulla da fare. Una volte che tutte le tute erano state confezionate vennero inscatolate alle aziende che le avevano ordinate. Alcuni fiocchi si ritrovarono affiancati, anche se inglobate in due tute diverse; fecero anche conoscenza di altri fiocchi cresciuti nello stesso campo dove questi erano state raccolti e durante il viaggio ricordarono le belle giornate, quando ondeggianti al sole, erano accarezzate dalla calda brezza che soffiava sui campi sudamericani. Arrivati a destinazione gli scatoloni furono aperti e le tute cominciarono ad essere distribuite ad operai e tecnici di una grossa ditta di costruzione. "Addio", dissero i fiocchi di una tuta alla compagna che avevano avuto vicina per tutto il viaggio, "questa volta è davvero finita: non ci rivedremo più. Buona fortuna". Passarono gli anni e le tute seguirono destini diversi. Alcune furono affidate ad operai che ogni giorno lavoravano in mezzo alla calce, al cemento, alla polvere. Dovettero subire l'azione dell'acqua e del vento, del caldo e del freddo. Altre, invece, furono affidate a dei tecnici che solo rare volte le indossavano per andare a controllare o vedere i lavori in cantiere. Un giorno in una mensa di cantiere due di queste tute, quella di un operaio e quella di un tecnico, si ritrovarono vicine in un appendiabiti. "Guarda chi si rivede" , esclamarono alcuni fiocchi della tuta dell'operaio. "Chi sei?", fu la risposta dei fiocchi della tuta del tecnico. "Toh, non mi riconosci più?", rispose una vocina dalla prima tuta; ma se siamo stati insieme sullo stesso fiocco". "Oh, Dio come ti sei sciupata", disse mortificata un'altra vocina dalla tuta del tecnico, non ti riconoscevo proprio più". E furono abbracci e baci e tante lacrime di commozione per essersi ritrovati ancora insieme dopo tanti anni e poter ancora una volta ricordare il caldo sole del Sud America ed i giorni in cui assaporavano la dolce linfa della loro piantina prima che i fiori si fossero trasformati in cotone. "Ti trovo bene - continuò la vocina dalla tuta dell'operaio - i tuoi fiocchi sono ancora freschi e mi fa anche piacere poter avvertire che sei rimasta vaporosa e delicata come un tempo". "Purtroppo - continuò - chi mi ha indossata è stato costretto ad un duro lavoro. L'acqua ed il vento non ci hanno risparmiato. Abbiamo dovuto subire la polvere e gli schizzi del cemento e lo strofinio degli attrezzi ha logorato e liso le nostre fibre". "Mi dispiace per te - si scusarono i fiocchi della tuta del tecnico - noi siamo stati sempre al riparo. Appesi in armadi al caldo negli uffici, lontani dalla polvere e dall'acqua le nostre fibre hanno resistito e sono rimaste nuove. E quelle volte che ci hanno sporcate siamo state subito lavate e rimesse a nuovo. Ci dispiace davvero". "Che vuoi che sia - riprendeva la prima - ma sono contenta che il mio sacrificio è servito a riparare dal freddo e dall'acqua colui che mi ha indossato: Poverino quanta fatica ha dovuto sopportare e più volte sono state bagnata mézza di sudore". Mentre così parlava arrivò l'operaio, la sfilò dall'appendiabiti e se la infilò addosso. "Addio - disse appena in tempo - spero proprio di rivederti ancora". "Chissà - rispose l'altra - addio". Non si rividero più. La tuta dell'operaio, dopo qualche anno, si sciupò definitivamente, fu recuperata e trasportata, assieme a tanti altri indumenti vecchi di cotone, in uno stabilimento di Prato, fu cardata, lavata, sbiancata e trasformata nuovamente in cotone. Alcuni fiocchi si ritrovarono nuovamente assieme, rigenerati e puliti e bianchi più che mai. "Che gioia dissero in coro - poter rivivere ancora il nostro antico splendore. Ma chissà dove andremo a finire adesso". Per quel giorno l'attività dello stabilimento si fermò. Nei giorni seguenti i fiocchi furono imballati e spediti con delle navi verso una nuova destinazione. Viaggiarono per settimane su un mare in tempesta. Appena arrivati a destinazione furono caricati su dei camion e trasportati in una località dove il sole era caldo e la brezza del vento delicata. "Ma siamo di nuovo in Sud America", urlò il fiocco vicino al suo compagno. "Signore Iddio, aggiunse l'altro fiocco, siamo proprio tornati dove siamo nati". Le balle vennero aperte nel cortile dello stabilimento. Attorno i campi erano tutti verdeggianti e i boccioli del cotone non erano ancora maturi. Dalla sommità della balla i fiocchi del cotone cercavano di scrutare al di là del muro di cinta per rigustare la gioia delle ritrovate radici della loro esistenza. Improvvisamente una brezza di vento più forte delle altre li sollevò per aria e cominciò a trasportarli ondeggiando qua e là per lo stabilimento. Poi improvvisamente, una brezza più forte delle altre, li alzò oltre il muro di cinta, oltre la strada bianca, su per il cielo assolato e cominciò a cullarli dolcemente. "Stammi vicino, urlò un fiocco, non mi abbandonare, stringiti forte a me". Il vento ora soffiava più forte, i fiocchi ondeggiavano e turbinavano insieme sempre più in alto. Furono trasportati lontano oltre i campi ed oltre la boscaglia. Poi improvvisamente il vento cessò d'intensità. Ondeggiando lentamente iniziarono la loro discesa e si depositarono dolcemente tra le piantine ondeggianti dei campi dove erano nati. Assaporarono tutta la gioia del ritorno, la felicità di sentirsi nuovamente scaldati dal caldo sole del Sud America, di gustare ancora la calda brezza che li aveva fatti crescere e sbocciare. ed il profumo della terra sulla quale avevano vissuto tanti anni prima. Con questa sensazione si depositarono nel terreno appena arato e si confusero tra le zolle che li avevano viste nascere e che adesso le avrebbero accolte per sempre e custodite fino alla loro morte. Una lezione di vita A scuola non era stato mai tra i migliori per via della sua svogliatezza. Quando arrivava la primavera, poi, era assalito da una frenesia indescrivibile, da un desiderio di libertà incontrollabile, e un giorno su cinque marinava la scuola. Francesca, la sua compagna di classe di liceo, spesso era con lui; anche lei era pervasa dalla sua stessa vivacità e Armando era uno dei suoi discretissimi compagni di avventure pomeridiane. Si, perché allora, non essendoci troppe aule scolastiche nelle scuole della città, gli studenti erano costretti a fare i turni. Ma per Armando e Francesca era una fortuna. Infatti, il pomeriggio aprivano anche le sale cinematografiche che diventavano rifugio ideale per le loro scappatelle periodiche. Le loro assenze a scuola, però, non passavano inosservate. Il vicepreside, un omino simpatico, più largo che lungo, li teneva sotto tiro. Arrivò in classe un giorno e chiese di Armando. Ma capitò proprio in uno di quei giorni in cui questi aveva marinato la scuola. "Scommetto - sogghignò - che anche Francesca è assente". Infatti, Francesca era a passeggiare con Armando sul lungomare di Reggio in una di quelle giornate meravigliose di primavera, con gli alberi tutti fioriti e profumati ed il mare tirato a lucido che rifletteva dentro, come in uno specchio, i monti della Sicilia. E chi aveva voglia di chiudersi in un'aula scolastica con una giornata simile? All'uscita di scuola erano soliti andare a chiedere ai compagni i compiti assegnati per l'indomani. "Oggi è venuto il vicepreside - dissero un giorno a Armando - ed ha chiesto di te. Ha detto al professore che appena ritornerai a scuola vuole parlarti". In quegli anni sua madre gestiva un'attività commerciale, e Armando avevo imparato a "darsi da fare" per racimolare un po' di soldi per comprare di nascosto le sigarette, qualche gelato e poter andare al cinema. Aveva acquistato a rate una macchina da scrivere, una delle prime lettere 22 dell'Olivetti, ed aveva subito organizzato una sorta di servizio per i clienti del negozio ricevendone in cambio dei modesti compensi. Inoltre, aveva assunto la rappresentanza di una azienda tessile di Prato, che vendeva per corrispondenza, su catalogo, dei tagli di tessuto che, come era allora consuetudine, venivano poi confezionati su misura nei tanti laboratori di sartoria esistenti nella città. Quei tessuti erano prodotti con cascami di lana rigenerata e cardata e, pertanto, costavano molto meno di altri tagli più pregiati. Inoltre, la ditta che li forniva consentiva anche la dilazione dei pagamenti in comode rate mensili. Quando Armando ritornò a scuola, insieme ai libri si era portato dietro anche il suo armamentario di rappresentante. Aveva appena risposto "presente" all'appello che il professore si interruppe e lo spedì diritto dal vicepreside. Quando fece la sua apparizione sulla porta della Segreteria il vicepreside gli andò incontro minaccioso e, puntandogli contro un dito, gli urlò sul viso: "E allora, la vuoi smettere di fare tante assenze e di dare fastidio anche alle ragazze?" Il vicepreside, oltre al difetto di essere un piccoletto, aveva anche una voce rauca e profonda. Quando si arrabbiava il suo tono invece di aumentare si smorzava in misura proporzionale al volume di voce che adottava. Ne usciva fuori, così, un suono gutturale quasi gracidante, che invece di incutere paura provocava una profonda ilarità, contenuta a stento, in chi gli stava di fronte. "Guardi professore - rispose Armando simulando un'espressione mortificata, ma un po' anche ferito che le sue virtù di don giovanni in erba venissero così miseramente ridimensionate - che io sono una persona seria. Se faccio qualche assenza da scuola è perché ho cose non meno importanti a cui pensare ogni giorno: altro che dare fastidio alle ragazze". E così dicendo tirò fuori il suo campionario di depliants e tessuti cominciando a dissertare sulle sue iniziative per rendersi utile alla famiglia. La risposta colse di sorpresa quell'insegnante. A tutte le scuse e le favole che gli raccontavano i suoi allievi per giustificare le loro assenze era preparato, ma le motivazioni addotte a giustificazione delle assenze di Armando lo avevano alquanto spiazzato ed anzi cominciò a dimostrare interesse al suo lavoro e, soprattutto, alla merce che esponeva. Armando non aveva mai ricevuto da nessuno lezioni di marketing ma aveva maturato numerose argomentazioni per convincere i suoi clienti. Una di queste, per quei tempi, era il suo pezzo forte, soprattutto se rivolta ai dipendenti pubblici che, quanto a remunerazione, erano abbastanza maltrattati. "Vede professore - continuò - i prodotti di questa ditta sono di pura lana e di primissima qualità. E poi noti - sottolineò con intenzione - che un taglio di questi tessuti è possibile anche pagarlo a rate in trenta, sessanta, novanta, centoventi giorni" Centoventi giorni, quattro mesi: era una comoda rateazione per molte persone! Poi fatta sulla parola, senza dover firmare cambiali, come si usava in quei tempi. Armando si accorse che il suo professore era completamente cambiato, ormai dimentico di esprimergli la sua disapprovazione per le sue continue assenze, profondamente interessato agli articoli che gli stava facendo lampeggiare davanti e che potevano diventare suoi con una rateazione sufficientemente lunga, tale da tornargli quanto mai comoda e vantaggiosa. "Se gli articoli la interessano - concluse ormai convinto d'averla fatta franca e di poter combinare anche un buon affare - posso venire una sera a casa sua e farglieli vedere con calma". Non realizzò alcun affare con il suo vice-preside, forse per una sorta di dignità e di fierezza che gli impedivano di mettere in piazza le sue difficoltà economiche. Infatti, l'interesse a comprare un taglio di tessuto per confezionarsi un vestito nuovo era altissimo, ma aveva di fronte un suo allievo e la sua autorità avrebbe subito un duro colpo se quella stoffa l'avesse dovuta pagare a rate. "Poi ne riparleremo - concluse - adesso torna in classe e cerca di non fare altre assenze". Rientrò in classe. I suoi compagni s'aspettavano di vedere entrare un vinto, uno che aveva ricevuto una paternale di quelle che si ricordano per un bel pezzo. Si trovarono di fronte, invece, un vincitore che, con un sorrisetto di soddisfazione sembrava dire a tutti: "Visto, pecoroni". E quando gli domandarono: "Com'è andata?", rispose con un'aria di ironica superiorità: "Bene: e per poco non gli vendevo anche un vestito". Armando meditò tante volte in seguito, in età più matura, su quel colloquio e su quella arrogante risposta che aveva dato ai suoi compagni. Quella risposta gli è pesata nel cuore molto di più della paternale non ricevuta quel giorno. E sovente, a distanza di tanti anni, gli ritorna in mente la discussione di quel giorno e la dignità e l'orgoglio di quell'educatore che incontrò, per caso, molti anni più tardi nei pressi di San Domenico di Fiesole mentre partecipava ad un corso di preparazione sindacale presso il Centro Studi della Cisl, e che dopo di allora non ha mai più rivisto ma a cui, con gran rispetto, continua ancor oggi a pensare. Il viale I platani del viale dove abitualmente Francesco si recava a fare la sua breve passeggiata cominciavano a verdeggiare. L'inverno 1998-99 era stato molto rigido. Già a fine estate le prime stufe erano state accese ed in pratica l'autunno non si era fatto vedere. Anche la primavera aveva subito la stessa sceneggiata e ai primi di maggio occorreva ancora accendere i camini per scaldare un po' l'ambiente di sera. "Sono stato a Pistoia stamani - raccontava un amico - ed ho sofferto il caldo. Ma qui da noi, in montagna, sembra sempre essere in pieno inverno e siamo già alla fine di Aprile". In effetti, l'anno precedente, si era passati bruscamente dall'estate all'inverno. L'autunno non si era visto e già in settembre le prime stufe erano state accese. Con il nuovo anno le cose non erano cambiate. Il 1999 anzi, sulla montagna pistoiese, era stato freddissimo, la neve era caduta più volte facendo la felicità degli appassionati che si recavano a sciare all'Abetone, e l'arrivo della primavera aveva sì mitigato il clima ma non al punto di non aver bisogno di intiepidire gli ambienti sia al mattino che la sera. Era passato da qualche giorno il primo maggio ma il cielo era ancora coperto e non prometteva nulla di buono. Questi erano anche i commenti che Francesco brontolava tra sé mentre percorreva il viale dove abitualmente faceva quattro passi al mattino ed al pomeriggio, pioggia permettendo. Il viale di cui parlo esiste davvero ed è a Maresca, una frazione del Comune di San Marcello Pistoiese. Maresca è una località turistica, molto frequentata, soprattutto in estate, dai pianigiani (così i montanini chiamano gli abitanti di Firenze, Pistoia o Prato e degli altri comuni della pianura ai piedi dell'Appennino tosco-emiliano). Questi si riversano a frotte in questa località che garantisce, nel periodo estivo, condizioni climatiche eccellenti e distensive passeggiate nella sua rigogliosa Foresta del Teso o percorrendo i sentieri che conducono soprattutto al Lago Scaffaiolo ed alle altre località di montagna, attrezzate con impianti di risalita che permettono agli amanti dello ski di praticare questo sport nel periodo invernale. La neve copriva ancora le alte cime che sovrastano la Foresta del Teso ed è ancor oggi ben visibile anche da Campo Tizzoro, un'altra frazione distante qualche chilometro da Maresca, contribuendo in una certa misura a mantenere l'aria ancora frizzante. Francesco aveva compiuto 86 anni il 5 maggio. La sua vita non era stata tra le più facili. Si era sorbito tutte le guerre che dal 1936 al 1943 l'Italia aveva vissuto. Da giovane, ancora prima di sposarsi, era stato in Africa Orientale, poi in Somalia e in Eritrea. Inviato in congedo, fu di nuovo richiamato sorbendosi anche le campagne di Grecia e di Albania. E dopo l'armistizio del 1943, mentre era in Montenegro, piuttosto che andare con i tedeschi preferì andare con i partigiani di Tito. Raccontava poco di quello che aveva dovuto sopportare. Ma ogni tanto qualcosa gli sfuggiva e si vedeva chiaramente che non voleva ricordare o che, comunque, cercava di non ricordare. "Ma in Montenegro, per mangiare, come facevi nonno", ogni tanto gli chiedeva il nipote. "Ci si arrangiava" - rispondeva. "Alle volte si trovava qualche capra, si uccideva e si mangiava cruda". "Cruda?" - esclamava meravigliato il nipote. "E si, cruda! Non potevamo mica accendere il fuoco per cucinarla, altrimenti avremmo fatto fumo ed i tedeschi ci avrebbero individuato ed ucciso". "E le altre volte?" - incalzava il nipote. "Altre volte bussavamo ai casolari dei contadini che ci rifocillavano alla meglio. Ma non sempre erano accoglienti e spesso ci puntavano contro i fucili. Tante volte siamo stati costretti a minacciare anche noi con le nostre armi per poterci fare consegnare qualcosa da mangiare e poter sopravvivere". "E caro il mio bimbo - aggiungeva - la guerra è una brutta bestia. L'uomo diventa peggio di un animale. Anzi gli animali sono certamente sempre migliori di noi uomini perché loro uccidono per sopravvivere. L'uomo uccide tante volte anche per crudeltà, per sadismo. E la guerra fa diventare cattivi e sadici anche le persone più miti e più buone. Le guerre non bisognerebbe mai farle. Non finiscono mai e quando finiscono la gente sopravvissuta spesso vive per vendicarsi e l'odio crea nuovo odio e nuove violenze". Era in pensione da oltre venticinque anni e da quasi 15 anni era rimasto vedovo. La moglie l'aveva conosciuta in quel viale tanti anni prima che più non ricordava quanti. Gli sembrava che il tempo gli era passato tutto insieme. Eppure nelle lunghe e torride giornate estive laggiù, in Africa Orientale, il tempo non passava mai ed il desiderio di tornare a casa gli consumava l'animo. Rivedere la sua sposa, i due figli lontani, provare la gioia delle loro carezze o sentire il loro pianto era una costante di tutte le sue giornate passate lontano dagli affetti suoi cari. E quando questa felicità l'aveva rigustata, il tempo era volato via. E con il tempo anche la sua famiglia era volata via. Prima il figlio si era trasferito per lavoro lontano da casa e poi aveva messo su famiglia e veniva solo per le vacanze. Poi la figlia. Anche lei andata via per lavoro e poi anche lei sposata. Poi era andato in pensione. Pensava di avere più tempo così per andare a trovare i suoi figli e godersi i nipotini ed invece la moglie si ammala e nel giro di qualche anno resta solo. Era andato qualche volta a vivere con i suoi figli. Ma si era accorto che non si adattava e non era a suo agio in casa altrui. Nessuno gli poteva dare l'attenzione di cui avrebbe avuto bisogno: Parlare, ricordare, essere anche confortato o commiserato. I figli erano sempre in continua agitazione. La sveglia, accudire i nipoti, il lavoro, la spesa e la sera la televisione. Di tempo per parlare non ce n'era. Lui usciva per il paese, solo. Non conosceva nessuno ed aveva difficoltà di inserimento. Se per caso febbricitava un pochino aveva un terrore d'andare a finire in ospedale. "Se vado in ospedale muoio" - diceva ai suoi figli. Questi ridevano ed ironizzavano, anche per sdrammatizzare, dicendogli che non sarebbe morto perché era una pellaccia e gli ricordavano anche che una persona come lui, che aveva affrontato tante avversità e tanti disagi in guerra, non poteva scoraggiarsi per così poco e poi in tempo di pace. Ma lui voleva tornare al suo paese, tra la gente che conosceva, con la quale poteva chiacchierare ed essere capito. E poi finiva per farsi accompagnare alla stazione, prendeva il treno ed era felice appena vedeva le sue montagne ed i tetti delle case del paese. Se avanzava tempo ed era ancora giorno, usciva ed andava a fare quattro passi nel solito viale dove gli sembrava di respirare l'aria più buona del mondo. Era, in fondo, un viale lungo forse centocinquanta metri, circondato da due filari di platani, dove l'amministrazione comunale aveva sistemato cinque panchine che ogni anno venivano riverniciate in rosso. Quando sua moglie era ancora in vita andava con lei a fare delle passeggiate su e giù per quel viale, dopo il pisolino pomeridiano. Sovente incontravano degli amici, loro coetanei, o parenti e scambiavano qualche parola o ascoltavano qualche malignità su questo o quell'abitante del paese. Quando rimase solo continuò a fare delle passeggiate, ma preferiva andarci spesso anche alle ore più strane, quando era sicuro di non trovar nessuno. Cercava la tranquillità soprattutto in certi momenti di sconforto. Allora si sedeva alla solita panchina, la penultima del viale, e cominciava a pensare intensamente. E con il pensiero iniziava anche una fitta conversazione con la moglie scomparsa, e le raccontava tutte le difficoltà che incontrava o gli avvenimenti del giorno che gli sembravano più interessanti. La conversazione finiva sempre con un groppo alla gola e si scioglieva immancabilmente in lacrime. Poi si rasserenava, si asciugava gli occhi e si sentiva più tranquillo. Si alzava e si avviava verso casa. E se incontrava un amico aveva sempre una battuta pronta quasi a nascondere l'angoscia che gli rodeva dentro. Negli ultimi anni poi, si sentiva abbastanza stanco e spesso non arrivava più neppure in fondo al viale. Si fermava alla prima panchina, poi si alzava e continuava la passeggiata, ma difficilmente oltrepassava la quarta panchina dove si fermava, si sedeva ed ascoltava il richiamo dei merli ed il canto degli usignoli. All'inizio di maggio il viale era ancora poco frequentato e spesso, restando immobile seduto sulla panchina, non era raro veder apparire qualche famigliola di cinghiali che si aggiravano nei pressi alla ricerca di tuberi o vermi con cui nutrirsi. I piccoli erano i più coraggiosi (o i più incoscienti). Spesso gli si avvicinavano a qualche metro e scappavano impauriti grugnendo soltanto nel momento in cui Francesco non riuscendo più a restare immobile era costretto a fare qualche movimento agli arti intorpiditi dall'immobilità. Spesso arrivava vicino anche qualche daino. Sulla montagna Pistoiese ve ne sono tanti in libertà che godono anche una particolare protezione faunistica. Per questo si portava dietro un po' di sale che ogni tanto lasciava vicino ad uno dei tronchi di un platino. I daini ne andavano ghiotti e, forse, avevano anche abbinato la presenza del sale con l'arrivo di Francesco. Infatti sovente non tardavano a farsi vivi dopo qualche tempo che lui si era seduto nella solita panchina. Tutte queste piccole situazioni erano motivo di gioia e gli consentivano una salutare distrazione che gli allontanava dal cervello i pensieri che più l'opprimevano. Il cinque maggio era passato da qualche giorno. I figli gli avevano telefonato per fargli gli auguri. Lì per lì non aveva neppure capito il motivo di tali auguri. Poi ricordò e comprese che il tempo gli aveva regalato ancora un anno di vita. Si guardò allo specchio e si vide sempre uguale. Quasi fosse ancora un ragazzo. Gli sembrava strano di aver compiuto 86 anni ed era altrettanto strana quella sensazione che provava di staticità del tempo, come se gli anni non fossero tanti, come se tutto fosse un sogno dal quale, da un momento all'altro, si sarebbe svegliato e forse si sarebbe ritrovato magari sulle dune cocenti, laggiù, nelle lande desolate dell'Africa Orientale. Guardò alcune foto appese alla parete. Una di queste gliela aveva inviata suo figlio elaborandola sul computer da una vecchia foto sbiadita del 1936, militare in Africa Orientale, insieme ad un gruppo di suoi commilitoni. "1936 " - pensò - "un abisso di lontananza". Ed aprì la finestra aspirando una boccata d'aria fresca che gli riempì i polmoni come se davvero sentisse addosso ancora la cappa torrida del deserto africano. Guardò la foto, nuovamente, con intensità. Si guardò nello specchio. Strano ma avvertiva la sensazione che quei capelli bianchi, quel volto rugoso, quelle mani tremanti, quegli occhi lucidi non fossero suoi e che lui fosse sempre quello che appariva in quella foto del 1936. "Accidenti - disse - devo buttar via queste cartacce. Mi opprimono il cuore". Si accorgeva in effetti di essere vecchio, ma esorcizzava la realtà rifiutando di ammettere che il tempo era passato. E forse rifiutava anche di vedere passare il tempo. Riguardava quella foto con intensità, cercando i particolari più strani. I sassi accatastati attorno alla tenda, i panni stesi ad asciugare, un fiasco di vino vuoto abbandonato in un angolo, il tavolo fatto con assi trovati chissà dove e le panche di legno costruiti artigianalmente. Cercava di riscoprire i visi dei suoi camerati. Visi assenti, lontani, non più visti. E provava ad immaginarsi intensamente che fine avessero potuto fare, se fossero ancora in vita, se anche loro in quel momento stessero pensando a lui o si ricordassero della loro giovane età buttata tra i sassi dell'Eritrea o della Somalia a combattere una guerra senza speranza contro un popolo che a loro non aveva proprio fatto nulla. Si ricordava le parole di una vecchia in uno dei pochi giorni di congedo avuti durante le campagne africane:" Quel povero Negus l'abbiamo buttato fuori di casa sua. Verrà tempo che qualcuno butterà noi fuori dalle nostre case. Ed il conto non lo pagherà Mussolini, ma lo pagheremo noi". Parole gravi per quel tempo. Se un soldato le avesse allora pronunciate avrebbe rischiato la corte marziale. Se un civile fosse stato ascoltato avrebbe rischiato il confino. Il mondo andava così allora e tutti erano contenti e felici di aver conquistato l'Impero mentre al Sud mancava tutto, le strade, le case e l'acqua e la luce nelle case, e la popolazione per sopravvivere era costretta ad emigrare in America. Francesco pensava e ripensava gli avvenimenti passati. I pensieri era l'unica cosa di cui abbondava e spesso erano causa di profonda sofferenza interiore. Un paio di giorni dopo il compimento dell'ottantaseiesimo anno, dopo una notte agitata si era svegliato abbastanza presto al mattino. Si era affacciato a prova sull'uscio per verificare le condizioni del tempo. La giornata era discreta ma il freddo non accennava a diminuire. Si coprì abbondantemente ed uscì di casa. Prima si recò a comprare il giornale e con il rivenditore fece un commento positivo leggendo i titoli sulla possibilità di pace con la Serbia, che stava subendo i bombardamenti della Nato. "E, figlioli - disse - la guerra è una brutta bestia. Fatevelo dire da chi ne ha viste da vicino tante. E poi questa non mi è andata proprio giù. Mi ha creato un'angoscia profonda perché non lo immaginavo proprio che un popolo socialista come la Serbia si potesse macchiare di tante atrocità con il popolo del Kosovo che appartiene alla stessa nazione. Tutti coloro che, come me, hanno creduto nella grande umanità del socialismo, ad assistere in televisione alle barbarie commesse dai serbi, è come se il mondo ci fosse caduto addosso". Questa frase l'aveva ripetuta più volte ed ormai il giornalaio non ci faceva più caso ed annuiva con sconsolata rassegnazione. Poi si avviò lentamente a fare la solita, breve passeggiata. Il viale era deserto. L'ora, ma soprattutto il tempo, non invogliava la gente ad uscire di casa. Ma Francesco quella mattina sentiva proprio il bisogno di una boccata d'aria all'aperto. Si fermò estasiato ad ascoltare il canto degli uccelli. "Ma senti come gorgheggiano gli usignoli stamani - commentò -. Saranno tutti in amore o stanno preparando il nido. Certamente il tempo volgerà al meglio". Si sedette alla solita panchina e rimase immobile. Dopo una diecina di minuti senti un rumore di frasche proveniente dal bosco retrostante. Un bel daino si affacciò sulla radura, ma il gracchiare di un corvo che si era levato in volo al suo arrivo lo impaurì e scomparve di nuovo di corsa nel fondo del bosco. Aprì il giornale e scorse alcuni titoli: si fermo più a lungo a leggere la cronaca locale. Si incavolò non poco sui servizi giornalistici che parlavano di tasse e di pensioni e, poi, senza accorgersene reclinò la testa sul giornale e, forse per la stanchezza non smaltita per la nottataccia trascorsa quasi da sveglio, si addormentò mentre il giornale gli scivolava sulle gambe. Sognò la moglie. E la rivide giovane, come quando la osservava, ammiccando tra le piante del viale, restare lunghe ore a giocare in compagnia delle sue amiche. Ripensò ai suoi capelli biondi, un po' arruffati, sparsi sulle spalle, e che ogni tanto allontanava con la mano quando il vento glieli spargeva davanti agli occhi. Gli sembrava che gli dicesse qualcosa ma lui non riusciva a comprendere le parole e nel sonno cercava di sforzarsi per fargliele ripetere. Da qualche minuto sul viale stava passeggiando con un piccolo cagnolino una donna anziana, dai capelli bianchi e con un vestito rosso. Gli passò vicino e sul momento si era preoccupata di Francesco pensando ad un malore. Si accorse, invece, che dormiva e non si preoccupò di svegliarlo, allontanandosi con il cagnolino al guinzaglio verso il fondo del viale. Continuava a sognare la moglie che lo chiamava da lontano. Lui si affannava a risponderle ma non riusciva a far uscire la voce dalla gola. Provava ad alzarsi ma non riusciva a sollevarsi dalla panchina. Avvertiva un senso di impotenza e cercava con tutte le sue forze di farsi sentire e di correre incontro alla moglie. L'angoscia lo svegliò d'un colpo. Guardò in giro e vide la donna del cagnolino in fondo al viale che si allontanava sempre più. Quel vestito rosso, indossato più volte dalla moglie, e quei capelli bianchi, che in lontananza sembravano biondi, gli diedero l'illusione che realmente la moglie gli fosse stata vicina e che, dopo averlo inutilmente chiamato, si stesse allontanando. Si alzò barcollando dalla panchina cercando inutilmente di correre dietro quella lontana figura di donna, ma non riuscì neppure a muovere un passo. Provò a chiamare: "Alma, Alma", ma dalla gola gli uscì un rauco bisbiglio che si spense insieme alla disperazione che l'aveva tutto invaso. Ricadde sulla panchina, con la mano tesa verso il fondo del viale, e mentre cercava inutilmente di lanciare un ultimo richiamo la vita gli sfuggì dal corpo, quasi lanciata dietro la fantomatica figura che ormai si era dissolta nel nulla. Lo trovarono alcune ore dopo seduto sulla panchina, con la testa reclinata in avanti, con gli occhiali ancora inforcati ed il giornale stretto tra le mani. Sembrava riposasse sorridente, quasi appagato da un desiderio ormai esaudito, circondato dal cinguettio dei passeri e dal canto melodioso dei merli e degli usignoli. I corvi La casa da noi abitata fino al 1996 ad Aosta era collocata nel centro storico della città a due passi dalla Chiesa romanica di Sant'Orso e quasi a ridosso delle Porte Pretoriane. Era un condominio di sei alloggi, occupato da un'unica famiglia che l'aveva costruita intorno agli anni sessanta. Solo in uno dei due appartamenti dell'ultimo piano vivevano delle persone estranee che l'avevano occupato fino a quando non si erano costruiti una loro abitazione. Dalle finestre di tale appartamento si godeva di una vista incommensurabile intorno a tutta la città di Aosta: dalla camera da letto e dallo studio si restava ammaliati dalla stupenda visione della conca di Pila che culminava nella maestosa imponenza del Monte Emilius e della Becca di Fiou. Lo spettacolo continuava con lo scintillante splendore dei ghiacciai del Ruithor per concludersi con l'imponenza della catena delle montagne della Vallata del Gran San Bernardo che si potevano osservare dalla finestra del bagno. Dalla finestra della cucina e del salone spaziavamo anche su tutto il Teatro Romano, distante appena una ventina di metri dalla costruzione e, nel periodo estivo; da quella posizione potevamo assistere agli spettacoli che l'Azienda di Soggiorno e Turismo organizzava per i turisti in vacanza in Valle d'Aosta. Il sole non lasciava mai quell'appartamento: da quando sorgeva al mattino, splendente dietro il Monte Emilius, al suo tramonto serale dietro i ghiacciai del Rhuitor, lo inondava sempre di luce e di calore, e nel periodo estivo, offriva occasione di tranquilla e discreta protezione alle esposizioni solari nella riparata veranda esistente. I tetti di lose color cenere, molti consunti dal tempo e coperti di muschio, che rinverdiva tutte le volte che una breve pioggia li inondava, circondavano la costruzione e non offrivano, agli appartamenti dei piani inferiori, l'identica meravigliosa visione che si godeva dall'ultimo piano, dalla quale era possibile spaziare su tre quarti della conca di Aosta. Quando nel 1967 questi inquilini si trasferirono altrove, la sorella di mia moglie, che aveva sposato uno dei figli del padrone di casa, ci convinse a prendere in locazione quell'appartamento. Abitammo in quell'alloggio per circa trent'anni, nel corso dei quali potemmo apprezzare i vantaggi della vicinanza a tutte le comodità dei servizi esistenti nella città. A due passi il mercato coperto ed il mercato settimanale degli ambulanti, a due passi il supermercato e la piazza principale della città, a due passi il comune e l'ospedale e, soprattutto, a due passi anche il mio ufficio. La strada dove si abitava incrociava la Via Sant'Anselmo, che negli ultimi anni era stata pedonalizzata, ma nei pressi di detto incrocio erano state collocate delle fioriere per cui la circolazione delle auto terminava nella piazzetta che esisteva a qualche passo del condominio. Per questo si godeva anche una discreta tranquillità ed i rumori delle auto erano quasi inesistenti. Questa tranquillità aveva creato condizioni ideali per tutti i volatili della zona, dai passeri ai merli, dagli usignoli ai cardellini che erano favoriti nei loro insediamenti anche dalla vegetazione esistente nelle campagne intorno al condominio stesso ed alle altre occasioni di nidificazioni offerte sotto le lose sconnesse dei tetti o nei muri delle vecchie costruzioni esistenti nella zona. Per questi motivi all'inizio della primavera l'aumento di nuove famigliole di volatili era un fatto ormai consolidato e con l'arrivo dell'estate, nelle prime ore dell'alba, si era allietati da un concerto incredibile e variegato di canti di merli e di usignoli che dava un senso profondo di pace e di armonia. A questi volatili si accompagnavano anche le nidiate dei piccioni che tra le lose del tetto del nostro condominio avevano trovato facilità di accesso e tranquillità dalle aggressione dei rapaci presenti nella zona. E sì, i rapaci. Oltre ai falchi che ogni tanto facevano la loro apparizione, soprattutto nel periodo invernale, volteggiando sull'area sovrastante il Teatro Romano, vi erano anche innumerevoli nidi di corvi, che erano stati insediati in città da una delibera comunale per limitare appunto la riproduzione incontrollata di piccioni che, con i loro escrementi, deturpavano ed insudiciavano tutti i monumenti cittadini. Questi rapaci nidificavano esclusivamente nei fori esistenti nella imponente costruzione della Torre dei Balivi, che si era trasformata da residenza del Balivo di Aosta, una sorta di sindaco nel periodo medioevale, a carcere cittadino, che tale era rimasto finché non era stato costruito un nuovo supercarcere nella zona di Brissogne, un paesino alle porte di Aosta. Ma anche i muri della Tour Fromage e gli anfratti dei resti dei grossi muraglioni di epoca romana, che circondavano ancora in parte il centro storico di Aosta, offrivano ottima posizione per la collocazione dei loro nidi. La loro riproduzione non era solo favorita dall'abbondanza di cibo che la città e le non lontane discariche a cielo aperto appena fuori Aosta offrivano, ma anche dalle frequenti visite ai nidi dei piccioni che riuscivano ad allontanare con la ragione dei loro artigli e dei loro becchi robusti per poterne depredare le uova delle loro covate. Inizialmente ci eravamo accorti dei loro assalti ai nidi dei piccioni e con il binocolo avevamo assistito impotenti ai saccheggi delle uova. Ma poi il fatto che i piccioni erano diminuiti di numero aveva apportato il benefico risultato della diminuzione dei loro escrementi su finestre e balconi, che ci creavano non poche problematiche per le pulizie periodiche. Di questi rapaci quello che maggiormente ci impressionò fu la loro organizzazione strutturale soprattutto nei momenti di pericolo. Un giorno assistemmo ad uno spettacolo a dir poco incredibile. Inizialmente non riuscivamo a comprendere quello che stava avvenendo. Otto o dieci corvi volteggiavano intorno all'area del Teatro Romano compiendo ripetute picchiate e veloci virate verso un punto specifico della costruzione. Accompagnavano tale volteggi e tali picchiate con un gracidare assordante. Un altro gruppo di corvi assisteva appoggiate su una conduttura dell'elettricità che attraversava lateralmente l'area del Teatro Romano. Non appena il primo gruppo di corvi dimostrava segni di stanchezza e si ritirava sulla stessa conduttura il gruppo a riposo li sostituiva ed iniziava a sua volta lo stesso strano carosello. Guardando attentamente con il binocolo ci si accorse della presenza di un falco appoggiato su un angolo alto del teatro. Solo allora incominciammo a capire che tale operazione era mirata alla messa in fuga del falco dal loro territorio ed all'allontanamento del nemico dalle loro nidiate. Alla fine il falco, sempre più bersagliato dai voli radenti e dal gracidare assordante dei corvi fu costretto alla fuga inseguito per un certo tratto da tutto il gruppo dei corvi, che rientrava dalla scorribanda non appena il pericolo si era allontanato. Solo allora si comprese che la struttura sociale di quegli animali era senz'altro molto più sviluppata rispetto ad altri volatili e la cosa fu più evidenziata anche in un altra occasione, a cui avemmo occasione di assistere, quando, da buoni rapaci, aggredirono addirittura un piccione costringendolo con i loro voli radenti e con le loro acrobazie a convogliare nella direzione da loro voluta. Non potemmo assistere al finale e non sapemmo mai la fine del malcapitato piccione anche se non abbiamo mai avuto dubbi che questi non abbia potuto sottrarsi alla caccia da parte di quel plotone di predatori così bene organizzati. Avevamo l'abitudine di lasciar cadere sui vecchi tetti, antistante le finestre del nostro appartamento, ogni sorta di cibaria che poi veniva consumata dai passeri, dai merli, dai piccioni e nella notte anche da coppie di martore che avevano costruito le loro tane sotto i vecchi tetti del centro storico, favoriti nell'accesso da costruzioni più basse o da strutture semi demolite, ma anche dalla presenza di cibo. Spesso sentivamo il loro stridio per le lotte cruente, alle quale qualche volta avevamo silenziosamente assistito, per il possesso del cibo o per la conquista della femmina. Questa condizione favorevole di approvvigionamento faceva avvicinare anche i corvi, che sovente arrivavano portandosi dietro anche i loro piccoli. Questi ultimi erano abbastanza sospettosi e non appena intravedevano la nostra presenza dietro le tendine dei vetri volavano via. Noi ci si divertiva a buttare il cibo anche perché ci piaceva approfondire il grado di intelligenza di questi rapaci rispetto ai piccioni. Questi, infatti, per nutrirsi prendevano abitualmente il cibo nel becco e lo sminuzzavano con forti scuotimenti della testa. Ma questa operazione, però, gli faceva buona parte del cibo che andava a cadere nel vicolo sottostante la costruzione e veniva poi consumato dai gatti o dai cani randagi oppure, molte volte, anche dai passerotti che spesso beccheggiavano le briciole del pane che buttavamo a posta sotto la finestra . I corvi, a differenza dei piccioni, trattenevano con gli artigli il cibo e lo sminuzzavano con il rostro lacerandolo con strattoni decisi. Un paio di coppie adulte si erano abituate alla nostra presenza e non si impaurivano più quando ci vedevano alla finestra, anzi una coppia, che aveva nidificato proprio al livello della copertura del Teatro Romano, restava in osservazione e non appena ci vedeva affacciare spiccava il volo e veniva a collocarsi sui tetti vicini in attesa del lancio di pane o frutta. Ormai erano diventati padroni del territorio e difficilmente facevano avvicinare altri corvi. Anzi sovente, quando qualche nuova coppia cercava di avvicinarsi per raccogliere parte del cibo presente sul tetto veniva aggredita ed erano costretti alla fuga. La loro familiarità nei nostri confronti con il passare dei giorni aumentava sempre più. Ormai si erano abituati a saltare sul davanzale della finestra ed a raccogliere il cibo che volutamente deponevamo a dieci venti centimetri da noi. Col passare dei giorni, capirono che nessun pericolo ne poteva derivare dalla nostra presenza e cominciarono addirittura a beccare il cibo che porgevamo tenendolo stretto tra le dita. Nel periodo estivo la finestra restava sovente aperta e non era raro vederli arrivare sul davanzale. Il buffo era che non solo passeggiavano fisicamente sul davanzale ma annunciavano la loro presenza con un gracidare rauco ed insistente e smettevano soltanto quando noi gli si offriva qualcosa. Un giorno si era a pranzo e li vedemmo saltare sul davanzale, gracidando a squarciagola. Ricordo sempre l'espressione sorpresa di mia moglie quando io gli allungai, restando seduto a tavola, una pera. Uno dei due, forse il maschio, saltò su una delle sedie a capo tavola e, squadrandomi ora con un occhio ora con l'altro per verificarne le intenzione e per valutare qualche restante pericolo, si allungò il più possibile cercando di portar via quel frutto. Era una pera forse un po' troppo voluminosa per lui che non riusciva a sostenerla. Allora cominciò a beccarla con colpi rapidi e decisi del becco fino a spappolarla quasi a metà. Da quel giorno la nostra tranquillità finì. Ogni mattina, verso le sei, eravamo svegliati da un ticchettio deciso ed intenso dei loro rostri sul vetro della finestra accompagnato da un gracidare intenso e rumoroso. Avevamo paura che da un momento all'altro potessero addirittura rompere i vetri delle finestre, tanto era l'intensità dei colpi che vibravano, con eventuali pericoli per le persone sottostanti ed eravamo costretti a precipitarci a dar loro qualcosa in pasto per farli andar via. Poi presero l'abitudine ad entrare in casa svolazzando da una spalliera della sedia all'altra o su qualche mobile. Non avevano nessun timore e la frutta esposta sui mobili era bersagliata dal loro beccare se non facevamo in tempo a chiuderla dentro uno dei mobiletti della cucina. Anche gli ortaggi, che l'inquilino del piano di sotto lasciava al fresco su un tavolo della veranda, non venivano risparmiati. Sovente sul marciapiede in fondo al condominio cadeva qualche carota, risultato di un trasporto sbagliato da parte dei corvi. "Ma chi ha buttato le carote in strada?", sentivamo ogni tanto urlare. Solo noi sapevamo la verità e ci dispiaceva che qualche bambino dovesse essere rimproverato per dei danni che in effetti non aveva commesso. Noi oramai si conviveva con i corvi. Mia moglie non faceva in tempo a dar loro da mangiare che questi ritornavano quasi subito dal nido gracidando in maniera assordante dal davanzale della finestra perché volevano altro cibo. E non c'era possibilità di nasconderlo dietro la schiena perché, non avendo più alcuna paura di stare lontani da noi, ci svolazzavano intorno cercando di strapparcelo finanche dalle dalle mani. Si dovette metter via anche i soprammobili in quanto, forse attirati dallo scintillare del metallo, avevano provato più volte di prenderli in becco per portarli via. Mia moglie addirittura a volte era impaurita per la loro insistenza. D'altro canto i loro colpi di becco non erano poi così delicati. Anzi un giorno che sottovalutai la loro "delicatezza" mi ritrovai con una piccola ferita su un dito e da quel giorno fui più cauto nel dimostrare la "mia amicizia" nei loro confronti. Riuscimmo anche a fare della riprese con il videoregistratore. Immagini che ancora oggi conserviamo e che ogni tanto proiettiamo a degli amici che restano stupiti nel vedere certe scene che possiamo considerare uniche e rare nel loro genere. Si sorrideva divertiti quando ci chiamavano dai tetti vicini ed ormai conoscevamo i loro richiami così talmente bene che spesso, anche quando non erano visibili, bastava che imitassimo il loro verso per vederli arrivare svolazzando, rispondendo al richiamo come un cane quando accorre al fischio del padrone. Spesso li riprendevo con la cinepresa sui tetti di fronte. Mi divertiva quel loro gracidare e quel rapido arrivo in volo non appena notavano la mia presenza dietro i vetri. E se per caso chiudevamo la finestra lasciandoli fuori, iniziavano un tam-tam ritmico con i loro becchi sui vetri che mi consigliava di farli entrare in casa onde evitare possibili danni. Ci guardavano dall'alto dei tetti quando si usciva di casa e roteavano la testa fissandoci ora con un occhio ed ora con l'altro. Poi ci chiamavano con quel loro gracidare intenso e rauco tanto da far girare anche i passanti, che non capivano i motivi di tanto chiasso. Un giorno che ero sceso dalla macchina con la spesa e mi ero fermato a parlare con un amico sotto casa uno dei corvi cominciò a gracidare da un tetto vicino con tanta intensità che non riuscivo a capire cosa l'amico mi dicesse. "Ma che vuole quella bestiaccia?", mi chiese con stupore. "Vuole che gli dia qualcosa da mangiare", gli risposi. Detto fatto deposi sul tetto dell'auto un biscotto che avevo prelevato da uno dei pacchetti e la chiamai gracidando, allontanandomi, poi, con il mio amico per rassicurarla e convincerla a prelevarlo. Volò giù e con circospezione afferrò nel becco il biscotto e lo portò gracidando sul tetto. "Hai visto?", gli dissi, "sono nostri amici e li abbiamo sovente ospiti in casa". Era un po' scettico per il mio racconto, ma una sera che fu ospite a cena con la famiglia rimase sbigottito e sorpreso nell'assistere alla visione del filmato che avevamo girato insieme ai corvi. Sul finire dell'estate, un bel giorno, i corvi scomparvero e non li abbiamo più visti riapparire. Ogni mattina scrutavamo sui tetti per controllare se fossero ritornati. Si scrutava anche più lontano con il binocolo per cercarli in mezzo agli altri. Una volta avevo anche imbrattato di vernice verde un pezzo d'ala di uno dei due corvi per poterlo individuare tra gli altri. Ma non li rivedemmo più. Pensammo tante cose. Che fossero stati uccisi per la loro familiarità da qualche altra persona che non gradiva la loro presenza sui davanzali della propria finestra. O che addirittura fossero stati catturati e tenuti in cattività, pensiero che ci angosciò non poco. Si pensò anche a qualche gatto che li avesse potuti catturare. Ma questo evento non ci turbò più di tanto perché avevamo visto all'opera i corvi e si ricordava che spesso erano i gatti a dover scappare dal tetto quando gironzolavano attorno al loro cibo e questi gli si avventavano contro con le ali distese e con il becco puntato pronti a colpire. Si pensò, infine, che forse la femmina o il maschio era morto e che il superstite avesse ricostruito una nuova famiglia altrove, distante da noi. Si attese tutto l'inverno e l'arrivo della primavera il ritorno dei corvi. Ne arrivarono altri ma queste avevano paura e volavano via non appena ci si avvicinava ai vetri o si provava ad aprire la finestra. I corvi si rassomigliano tutti, ma nessuno di quelli che saltellava sui tetti aveva la macchia di vernice sull'ala. Preferimmo pensare che fossero andati al seguito del gruppo al quale appartenevano. Scartammo tutte le altre ipotesi perché volevamo allontanare dal pensiero la possibilità di una loro fine incruenta. Il loro ricordo, però, anche a distanza di anni continua a farci sorridere. E spesso, quando sentiamo il gracidare lontano di altri corvi, proviamo un sentimento strano e commentiamo con un senso di profonda commozione l'amore che anche un volatile può riversare sull'uomo se si accorge che questi lo rispetta e non vuole fargli del male. Lettera ad un maestro di scuola Caro maestro, che buffa la vita e che strani i suoi ritorni. Eppure un tempo spesso non stavamo neppure ad ascoltare le sue lezioni e sovente i suoi sermoni ci annoiavano profondamente e sembrava cadessero su un terreno poco fertile per attecchire. Ma quante volte, invece, quei sermoni li ho incrociati nei miei momenti di difficoltà con mio figlio, con i miei colleghi di lavoro o in altre occasioni della vita? Tante volte davvero! E tutte le volte l'ho rivista, come allora, con quei pochi capelli pettinati con la divisa in modo da coprire l'incipiente calvizie, passeggiare avanti ed indietro nell'aula e soffermarsi tra i banchi con quel suo sorriso scanzonato e buono, con quel suo viso eternamente bambino, con quel suo brontolare che si limitava a qualche battuta allegra che suscitava l'ilarità di tutta la classe e che risvegliava l'attenzione sulle sue lezioni. Penso che sarebbe felice oggi se potesse leggere queste righe. Penso che gioirebbe se sapesse che quel suo motto "potea non volle or che vorrea non pote" anch'io l'ho ripetuto più volte a mio figlio ed ancora oggi è presente nel mio cuore e, forse, un domani non lontano lo ripeterò ancora ai miei nipotini che crescono. Quel motto è servito anche a me, pur se con qualche difficoltà, ma forse anche con molta testardaggine, sono riuscito ad onorare gli impegni scolastici fino in fondo e far felice mia madre. "Potea non volle" più volte ripetevo spesso a me stesso e quasi a vincere una sfida con un avversario immaginario in tutti quei momenti che le incombenze del lavoro e della famiglia mi lasciavano margini insufficienti per completare gli studi per lungo tempo interrotti; ma tra me aggiungevo: "anche se non posso devo farcela lo stesso" ed andavo avanti per la mia strada rinunciando ad uno svago e buttandomi a capo fitto nei miei studi fino a notte inoltrata, addormentandomi più d'una volta stanco sui libri. Tanti anni le ho comunicato che avevo raggiunto il mio obiettivo. Mi sembrava giusto farglielo sapere visto che, più d'una volta, quando l'avevo incontrata in quelle rare volte che ero ritornato nella mia città, non perdeva occasione di rilanciarmi quella frase che ormai era diventata martellante nel mio cervello. "Potea non volle"..... E quella sera anch'io richiamai quella sua frase e gliela ripetei ricostruita a mio uso e consumo: "Potea non volle or che vorrea pote"; e lei rise divertito. Ma si commosse anche per la mia telefonata che quella sera proprio non si aspettava. Era la vigilia di un natale che non ricordo più e fu l'ultima volta che la risentii. Ma le sue parole sono ancora qui nella mia mente e mi distruggono il cuore:" Il ricordo di un allievo verso il proprio maestro è un dono tra i più graditi che un vecchio insegnante possa ricevere. Le medaglie scolastiche alla carriera sono piccola cosa. Rappresentano un avvenimento burocratico che si consuma con una fredda cerimonia periodica. Ma il ricordo di un allievo è la ricompensa più grande e gratifica più di cento medaglie in quanto rinsalda la convinzione interiore di aver vissuto la propria vita con dedizione ed impegno per educare e formare tante generazioni di giovani che oggi ti ripagano con una semplice carezza che per me rappresenta il dono più ambito che un vecchio maestro possa ricevere". Calabro-lucana Dopo tanti anni ch'ero andato via, conservando vaghi ricordi di Polistena, un grosso centro della Provincia di Reggio Calabria situato nella Piana della Corona, così ancora oggi chiamata in quanto appartenne per diversi secoli prima della spedizione dei Mille al Regno di Napoli, vi ritornai un giorno per i miei impegni nel sindacato. A Polistena avevo vissuto, circa sette o otto anni da bambino, nel periodo dell'ultima guerra; poi, la mia famiglia si era di nuovo trasferita nel Capoluogo, mia città natale. A Gioia Tauro fui costretto a cambiare treno in quanto la tratta era servita da una società privata, la Calabro-Lucana, che da data immemorabile gestiva il servizio e, penso, lo gestisca ancor oggi. Poche cose erano cambiate da quando ero bambino se non quelle vetture sempre più logore e sempre più consunte, e lo sferragliare della littorina, che lenta ansava lungo il costone che da Gioia Tauro sale fino a San Giorgio Morgeto per proseguire per Polistena e finire, poi, a Cinquefrondi. Quello sferragliare mi riportava alla memoria i ricordi dei guerrieri medioevali dei vecchi films in bianco e nero, che rivedevo più volte da bambino, con le loto corazze ormai logore e arrugginite. A Cinquefrondi la Calabro-Lucana arrivava al capolinea, ma io non ricordo di esserci mai arrivato, in quanto ci si fermava sempre alla stazione precedente, quella di Polistena, patria di artisti anche famosi, dove la mia famiglia risiedette per quasi un decennio per motivi di lavoro. In questo centro frequentai le scuole elementari fino alla terza, che non potrei concludere perché in quel periodo i tedeschi in ritirata, prima, e gli alleati in arrivo, dopo, avevano occupato la scuola trasformandola in ricovero per le truppe e per gli ufficiali. Quel nome di Calabro-Lucana, sentito ripetere tante volte da mia madre, rievocava nei miei pensieri reconditi immagini di viaggi sempre desiderati e mai potuti fare. Spesso mi fermavo incantato, da bambino, a veder passare quelle vetture, allora trainate da una vaporiera, presso un passaggio a livello appena fuori dell'abitato di Polistena. Ricordo sempre quello strano cartello piazzato in prossimità di un passaggio a livello incustodito con la scritta "Aktung" che non sapevo cosa volesse significare e cosa ci stesse a fare in quel posto. Per me quel cartello, con un teschio di morte vicino, richiamava antiche leggende e lugubri storie della mia infanzia che mia madre spesso ci raccontava, seduti attorno ad un braciere, nelle lunghe notti d'inverno, in quelle bigie stanze del Vico Trieste di Polistena, illuminate da una lampada ad olio scoppiettante o da un lume a petrolio. E quanti sogni avevo legato a quel treno, quanti fantastici viaggi avevo immaginato seduto immobile con altri compagni di giochi lungo la scarpata di quella ferrovia nelle interminabili giornate estive del sud. Quei volti, oggi assenti ed indecifrabili, mi si sono affacciati per anni nella memoria ed ho sempre cercato di ricostruirli scrutando qualche rara e vecchia fotografia di classe di quel tempo. Ma l'unico ricordo che vive dentro di me è legato alla gioia che si provava a far girare all'infinito la transenna rotativa collocata a fianco del passaggio a livello che permetteva il passaggio dei pedoni oltre la massicciata della ferrovia. Quante volte mi illudevo di andare lontano, di attraversare fiumi e mari e poter vedere posti fantastici, forse dando corpo alle favole materne, e ritornare un giorno, dopo aver fatto fortuna, indossando vestiti lussuosi e poter comprare una casa con tutte le comodità e con l'acqua in casa e permettere a mia madre di non patire più la fame e il freddo che la guerra ci aveva regalato a piene mani. Seduto su quei vecchi sedili di legno, colorati dalle scritte piccanti degli studenti, ogni tanto venivo sbatacchiato da uno scomposto scotimento della vecchia vettura e lo stridio delle ruote d'acciaio che scorrevano sopra le logore rotaie, lanciavano intorno nugoli di scintille incandescenti che mi scuotevano dai miei pensieri riportandomi alla visione degli ulivi, che fuggivano come giganti immensi per la campagna, mentre le pecore al pascolo lungo la massicciata, ormai invasa dai rovi, si sbandavano spaventate. Attraversava la littorina i vecchi ponti tesi sui burroni e la scarna acqua che scorreva in fondo alla scoscesa riva mi faceva rivivere gli instanti di paura che da bambino provavo le poche volte che con mia madre si intraprendeva qualche raro viaggio per recarci a Reggio in visita ai parenti, negli anni in cui mio padre era richiamato da militare nelle campagne di Africa Orientale o di Grecia. Mi ricordo ancora che non avevo il coraggio di guardar fuori dai finestrini in quei tratti così scoscesi, e ad ogni scuotimento della vettura, dicevo qualche orazione quasi a scongiurare la possibilità che il treno precipitasse in fondo al burrone. Quella paura riaffiora inconsapevolmente tuttora rimossa dall'inconscio in cui giace. Ed ogni tanto osservo con una malcelata apprensione la littorina attraversare quei ponti, sprovvisti di protezione o ringhiera, sospesi tra due dirupi scoscesi. Scorrono immagini di stazioni deserte, dove lucertole e rovi la fanno da padroni. E ritornano alla mente quelle folle immense che assaltavano i rari treni nel corso dell'ultimo conflitto, quando i ponti sul fiume Pedace erano stati fatti saltare dai tedeschi in ritirata per rallentare l'avanzata degli alleati. E rivivo anche i miei momenti di terrore e i miei urli di disperazione quando mia madre si faceva largo a gran forza per prender posto su uno di quei carri in genere usato per il trasporto del bestiame che, in mancanza di vetture normali, veniva utilizzato anche per il trasporto delle persone.. E quelle stazioni, oggi deserte e silenziose, dove non avrei mai più pensato di poter ritornare, fermentavano allora di vita, di commercianti d'ogni genere, di operai. Quelle folle in agitazione e gli assalti dei viaggiatori per occupare un posto qualsiasi mi facevano per certi versi sorridere ripensando alle proteste odierne contro l'organizzazione delle ferrovie in certi periodi dell'anno quando bisogna rassegnarsi all'affollamento dei treni che, comunque, non è minimamente paragonabile ai disagi che si dovettero sopportare in quei tempi viaggiando al buio su vagoni sgangherati, senza servizi ed in condizioni inumane di sovraffollamento. Un tempo tali situazioni furono vissute senza alcuna protesta; anzi, spesso, si era costretti a restare per lunghe ore in piedi per mancanza di posti e ricordo la disperazione di mia madre, con due bimbi tenuti per mano che piagnucolavano perché erano stanchi di restare in piedi ed abbastanza pesanti per essere tenuti in braccio. E grazie ancora che, in quei tempi, il senso di solidarietà di qualche viaggiatore, anche meno zoticone degli altri, aveva il sopravvento sull'indifferenza di tanti altri e, ogni tanto, lasciava il posto a mia madre con i suoi bambini per farci riposare e rinfrancare con un po' di riposo e di sonno. Io, comunque, quando potevo me ne stavo sempre lì, con il naso incollato ai finestrini, e non mi sfuggiva mai nulla, anche i sassi agli angoli dei ponti e nelle stazioni riuscivo a contare e ricordare. Anche per questo in tutti questi anni sembra non sia accaduto nulla, vedo quei sassi sempre fermi al solito posto: solo i rovi aumentano e le stazioni vuote con i cartelli bombardati dai colpi di lupara che ogni tanto ti offrono un senso di desolazione e dell'abbandono di Dio e degli uomini per questi paesi del Sud. Per chi ha potuto assistere a tanti tristi avvenimenti, per chi ha vissuto certi momenti che sono stati tremendi e disperati, anche se si era molto giovani per poter comprendere fino in fondo il grado di povertà che ci circondava, il rivedere a distanza di anni certi paesaggi e rigustare ancora l'odore della paglia secca, che profuma di buono appena qualcuno ci passa sopra con gli scarponi grossi, il riascoltare i trilli dei grilli e quel concerto sempre uguale, interminabile, e per certi versi monotono, dello stridore delle cicale sotto il sole rovente dell'estate calabrese, si riprova un senso di gioia che ti prende la gola, come un malessere vissuto, dal quale si è riusciti ad uscirne fuori, ma che per un senso di strano masochismo se ne avverte a tutt'oggi la mancanza e vorresti rivivere quei momenti per poter capire fino in fondo la realtà di quel lontano periodo storico. Non riesco neppure ad immaginare quale reazione potrei avere a rivivere, a distanza di tempo ed in condizioni profondamente diverse, certi momenti di vita e certe situazioni del passato. Sicuramente penso che se quei momenti potessero essere proiettati su uno schermo sbiadito dal tempo le emozioni sarebbero profonde ma credo che le situazioni sarebbero vissute come fatti che non ti sono mai appartenuti. L'incantesimo di quei momenti, di cui oggi avverti la mancanza e che sono legati ai tuoi ricordi di bambino ed al tuo vissuto reale, forse si desidererebbe riviverli veramente per riprovare interamente gioie e sofferenze e poter ritrovare affetti e sentimenti dimenticati, che non sembrano poi così lontani, e poter capire fino in fondo il sacrificio fatto da altri per farti crescere. Solo così, forse, si riuscirebbe ad approfondire il senso di alcune frasi di mia madre, ripetute più volte, e che oggi riesco meglio ad apprezzare nella loro interezza grazie alle mutate condizioni sociali di gran parte di quei nuclei familiari che si auguravano, in quel tempo, la fine delle sciagure in cui era stata coinvolta un'intera generazione e che speravano che un giorno i propri figli non dovessero più rivivere drammi e situazioni di quella portata. Speranze vane perché poi i figli crescono e sono costretti, soprattutto al sud, di andare a cercare lavoro altrove. E la speranza iniziale di tornare diventa poi con il passare degli anni sempre più remota ed irreale. Così i figli vanno via è vero, e generalmente migliorano anche le loro condizioni di vita, ma le madri rimangono con la certezza del loro ritorno, che ogni anno si indebolisce sempre più e rimangono con le mani vuote a sperare in una riunificazione impossibile della vecchia famiglia e dei vecchi valori. Ricordare quel viaggio in treno di quasi quarant'anni or sono lascia un senso di vuoto e di tristezza nel cuore anche perché oggi, che mia madre non c'è più, è subentrata la certezza che quei ricordi non possono essere neppure addolciti dalla presenza di un testimone dei tempi che potrebbe meglio di chiunque altro comprendere i miei momenti di disagio o di gioia e darmi la forza per superare le difficoltà o meglio gioire nelle soddisfazioni. Così ti accorgi che il tempo, è vero, sei riuscito a fermarlo in un preciso momento della tua vita, e lo sogni ancora libero da impegni e da affanni con una speranza di ritorno a casa la sera successiva; ma ti accorgi anche che lo specchio dov'è riflessa la tua immagine è, invece, una galleria infinita di specchi che riflettono situazioni sempre più capovolte una rispetto all'altra anche se poi alle fine sono identiche, ma risultano collocate a distanze sempre maggiori l'una dall'altra senza possibilità di passare dall'ultima immagine alla prima con l'aprire od il socchiudere di una porta. Ti rimangono così in cuore gli ultimi flash di un viaggio non recente con la visione di quel corteo di vecchie con in testa le "quartare" (*) piene d'acqua: fantasmi ondeggianti che si inerpicano sui fianchi della montagna e che spariscono poi negli anfratti coperti da siepi di more e biancospini, dove i merli nidificano ancora e le serpi continuano a portar via le uova dell'ultima nidiata. Immagini di donne uguali a quelle di quarant'anni prima, sempre immutabili nei loro veli neri per un parente morto o ucciso per sbaglio. Ed ai ricordi si aggiunge la consapevolezza che in questi posti, purtroppo, la storia sembra essere immutabile: la gente continua sempre, ancora oggi, a piangere per qualcuno o per qualcosa. (*) - Otri di argilla Una manciata di carezze Dopo tanti anni di assenza ritornai nella mia città. Mio padre quando era andato in pensione si era trasferito in Puglia nel suo paese di origine. Mia madre l'aveva dovuto seguire ma non con troppo entusiasmo, anche perché era molto legata alla casa dove era nata ed a tutti i ricordi d'infanzia ed agli effetti che essa rappresentava. Dopo la morte di mia madre la casa era stata venduta e, quindi, le occasioni di ritornare nella mia città si erano ridotte a zero. E poi a fare cosa? Quando una persona si trasferisce ad oltre 1200 chilometri dalla terra dove è nato con il tempo dimentica ogni cosa; appena rimane l'affezione, una piccolissima radice che di tanto in tanto ti fornisce un po' di linfa che alimenta i ricordi di una fanciullezza spensierata anche se vissuta in un periodo non certamente facile come quello dell'immediato dopo guerra con la battaglia giornaliera per la sopravvivenza. Tornare a Reggio, rivedere la mia casa senza più mia madre, sapere che quelle stanze, dove avevano vissuto anche i miei nonni ed i miei zii, adesso erano abitate da gente estranea ed insensibile ai miei sentimenti, era una cosa insopportabile e, pertanto, avevo rinunciato per lunghi anni a non più rivederla; preferivo così sentirla ancora mia perlomeno nella memoria. Eppure la città dove ero nato l'avevo sempre amata intensamente. Ma tutte le volte che vi ero arrivato, il degrado urbano a cui avevo assistito, le difficoltà di circolazione e l'immensa confusione che la pervadevano, ed alla quale non ero più abituato, mi davano un senso di profonda oppressione ed un bisogno, quasi immediato, dopo poche ore che ero sceso dal treno, di ritornarmene da dove ero arrivato. Preferivo restarmene lontano e sognarmela così come l'avevo lasciata tanti anni prima, con le strade ordinate e pulite e con le donne del mio rione che tutte le mattine rassettavano e lavavano abbondantemente le corti antistanti le loro abitazioni dove, per godere della frescura nelle serate estive, sedevano e pettegolavano sugli avvenimenti della giornata e sui fatti del rione. E così preferivo ricordarmi la mia casa, con la sua vista un tempo totale sullo Stretto di Messina, e mi rivedevo bambino, con un piccolo binocolo da teatro, osservare le navi solcare il mare davanti l'Etna innevata, o fumante per le periodiche eruzioni, e li seguivo fino alla loro scomparsa al di là dello stretto oltre la punta di Ganzirri. Ma dopo tanti anni eccomi ancora qui, ancora una volta a riprovare la solita delusione di ritrovare una città sempre più degradata, assalito dalla voglia di ritornarmene via al più presto possibile da dove ero arrivato. "Non so se ritornerò ancora - pensavo dentro di me - può darsi che questa volta sia davvero l'ultima". Questa convinzione mi aiutava a reprimere il disgusto che mi pervadeva. Il mio viaggio voleva essere un ritorno nel passato, un tentativo ultimo di ricostruzione di tanti ricordi che periodicamente mi ritornavano alla mente anche se i volti che incontravo per strada appartenevano a persone sconosciute che non mi ricordavano più nulla. Solo passeggiando per i viali del cimitero, dove mi sono recato per ricercare le immagini di persone ormai abissalmente lontane dalla mia memoria, spero di ritrovare elementi che mi possano aiutare a ricostruire i miei ricordi di infanzia. Una necessità avvertita a livello inconscio forse per ritrovare attimi di vita dimenticata attraverso i volti dei morti che mi guardano dalle lapidi, incorniciati di fiori e di lumini accesi. Un bisogno strano a sessant'anni, ma forse la consapevolezza che la morte può arrivare d'un tratto senza aver tentato di ricostruire per un attimo le radici perdute. Una esigenza indicibile di riscoprire affetti persi, ignoti a coloro che vivono la realtà quotidiana senza porsi tante domande. Una necessità di risentirmi attorniato da un mondo di personaggi che d'un tratto mi ritornano vivi, con tutti i ricordi che conservo nel cuore, che mi riportano indietro nel tempo come se dalla mia città non mi fossi mai allontanato. Una possibilità di ritrovare gli antichi valori, i forti legami di solidarietà che univano tanta gente, che non si sentiva mai sola e che sapeva, nei momenti di difficoltà e di bisogno, di poter contare sempre su qualcuno. Ed era anche un legame che univa tanti al rispetto delle cose belle che avevamo intorno a noi, rispetto che oggi, invece, è stato completamente cancellato. Il cimitero è oggi immenso se rapportato alla vastità che avvertivo attorno a me quelle volte che da bambino andavo con mia madre a deporre i fiori sulla tomba di mio nonno, di cui conservo ormai un vago e lontano ricordo. Vedo affacciate alle lapidi visi mai conosciuti, tanti a dire il vero e forse tanti altri dimenticati. Ma lentamente le immagini recuperano i vecchi contorni. Volti scomparsi nel silenzio del tempo improvvisamente ritornano come diapositive proiettate sullo schermo della memoria e mi ritrovo tra loro, nelle tante serate delle vacanze scolastiche natalizie, a giocare interminabili partite a carte attorno ad un tavolo pieno di ragazzi vocianti e rumorosi. Provo un batticuore strano e quei volti, sembrano fissarmi intensamente e sembra vogliano dirmi qualcosa. Li immagino tutti allineati, quasi giudici a rimproverarmi d'averli abbandonati, di averli ignorati per tanti anni e d'essere andato a fare altrove le cose che era necessario che io avessi fatto per la mia città. Mi sento inseguito da quegli sguardi mentre affretto il passo tra le lapide e mi sembra che quegli sguardi d'un tratto non siano più sorridenti, ma torvi e minacciosi. Vivo una situazione di insicurezza ed un disagio immenso mi opprime. Ma d'un tratto su una di quelle lapidi vedo un volto che mi sembra di ricordare. Poi leggo un nome che mi fa dare un balzo al cuore: Cucinotta Paolo. . D'un colpo mi ritrovo seduto sui banchi di una scuola elementare attorniato da tanti ragazzi chiassosi. E rivedo il mio vecchio maestro, che adesso mi sorride dalla lapide. Non mi sembra cambiato. Sempre con la sua calvizie incipiente, sempre con quel sorriso di eterno bambino soddisfatto. Quella foto che mi osserva intensamente riesce a trarmi dalla situazione di insicurezza e tensione in cui sono precipitato, riportandomi una serenità nell'animo ed infondendomi quella sicurezza che solo lui sapeva darmi, quando nei giorni di interrogazione, mi suggeriva le risposte per togliermi dall'imbarazzo della mia poca preparazione sulla lezione del giorno. Come se il tempo non fosse mai passato, il pensiero mi riporta indietro di oltre cinquant'anni, un'eternità. Rivedo quella figura paterna di vecchio insegnante passeggiare tra i banchi della scuola elementare Principe di Piemonte di Reggio Calabria, con i capelli tirati con la brillantina, per coprire l'incipiente calvizie d'un tempo. Un senso di dolcezza profonda mi pervade: una tenerezza immensa sale dal cuore e mi stringe la gola riempiendomi gli occhi d'un pianto liberatore e sommesso. E' strano a sessant'anni provare emozioni si belle davanti alla foto di un vecchio insegnante non più rivisto, ma sempre ricordato. Dalla lapide mi guarda e mi sorride: sembra percepire le emozioni che mi pervadono e sembra voglia consolarmi: "Sei ritornato finalmente, birichino, sembra dirmi sorridente. Sai è da tempo che ti aspetto ed ero convinto che saresti venuto a trovarmi. Non mi ero ingannato! Sei rimasto uno dei pochissimi allievi che hai sempre pensato al tuo vecchio maestro. Ricordi le verità che nelle mie lunghe giornate d'insegnamento raccontavo a te ed ai tuoi compagni di scuola? So che ogni tanto ti ricordi anche di loro e li rivedi nei banchi lanciare fogli di quaderno appallottolati in testa ai compagni seduti davanti a loro". "Erano altri tempi, la scuola era per pochi e solo gli eletti, cioè i figli di quelli che contavano, poi riuscivano ad arrivare fino in fondo, mentre i figli di coloro che lavoravano facevano una grande fatica per mantenersi agli studi". "Ma io non mi stancavo d'incoraggiare tutti: Potea non volle, or che vorrea non pote. Quante volte vi ho ripetuto questo ritornello? E tu l'hai potuto sperimentare personalmente in quanto ha faticato non poco per centrare quegli obiettivi che non hai voluto raggiungere quando per te sarebbe stato più facile e più agevole". "Ma il destino scrive la vita di ognuno di noi su pagine diverse del suo libro e tu hai voluto essere artefice della tua vita a modo tuo". "Ricordo il frastuono quando arrivavate in classe e la mia pazienza per tenervi buoni. Quante storielle inventavo per distrarvi dalla monotonia delle lezioni e farvi ridere! E quanti racconti veri, legati alla miseria del tempo con le famiglie che davvero non sapevano come fare a combinare il pranzo con la cena, vi raccontavo per distrarvi e nello stesso tempo per non farvi chiudere gli occhi sulle miserie umane". "E ci tenevo a soffermarmi sulle storie della povera gente che vi ho sempre insegnato a rispettare perché erano persone che lavoravano sodo dalla mattina alla sera, che spesso erano maltrattate da tutti e dovevano fare salti acrobatici per sfamare le loro famiglie". "Eravate così piccoli, ma molti di voi già così grandi, dovendo affrontare in famiglia situazioni di sopravvivenza in un periodo particolare della ricostruzione del Paese, subito dopo la fine della guerra, ed in una regione dove particolarmente gravi erano i problemi occupazionali". "Ricordo sempre che cercavo di farvi pesare il meno possibile i vostri disagi familiari con storielle che oggi riterrai anche stupide. Ma voi ridevate di gusto quando vi davo la risposta alla mia domanda, alla quale non sapevate rispondere, come facesse una persona a mangiare una pagnotta di pane con una oliva. Lecca l'oliva e da un morso alla pagnotta, vi spiegavo, ed avanza ancora il companatico per il giorno dopo". Era una storiella per certi versi simile a quella dei contadini del veneto che intingevano la polenta, tanto da insaporarla appena, sull'aringa appesa ad un filo al centro tavola. Ma voi ridavate sereni e dopo riuscivo a farvi seguire anche le altre cose previste dal programma scolastico". "Ho sempre fatto il maestro con passione: mi sembrava di non crescere mai, di restare bimbo anch'io e, per certi versi, immergermi in questa illusione era quasi dimenticare le brutture che avevo visto e tutte le altre che poi ho dovuto ancora sopportare". "Ti ricordi quando vi parlavo di portare rispetto anche alle persone delle quale non condividevate i discorsi? Erano argomenti allora difficili da comprendere ed ancora più difficile sarà stato per voi capirmi quando vi dicevo che, pur essendo stato costretto ad accettare certe situazioni ideologiche aberranti, non avevo mai indossato la camicia nera. Allora non capivate, ma tu, e forse qualcun altro dei tuoi compagni, la lezione a distanza l'avete capita. Eccome ! So che i compromessi non ti sono mai tanto piaciuti anche se a volte si è costretti ad accettarli come male peggiore. Ma tu li hai accettati fino ad un certo punto. Quando ti sei accorto che diventavano inconciliabili con i tuoi principi e con le tue idee non ci hai pensato su più di tanto ed hai fatto come quei condottieri romani che lasciavano la guida dello stato, dopo averlo servito, per ritornarsene in campagna". "Penso che avrai potuto prendere coscienza che un seme di pino è piccola cosa, ma una volta seminato, mette radice e diventa un albero imponente che nessuna bufera potrà mai piegare". "So che spesso ti interroghi e ti senti in colpa di essere andato altrove e non aver lavorato per la tua città. Non ti disperare per questo. Ognuno di noi semina dove ritiene che il terreno sia più idoneo a dare frutti migliori". "E non rammaricarti d'aver fatto poco, o quasi nulla come dici tu; ognuno fa quello che può o che crede giusto fare. Ma tu non sei cambiato. Tu sei rimasto uguale, con la tua bontà nel cuore e con la tua voglia di far tanto bene agli altri e per lunghi anni hai dimenticato di farne anche un po' a te stesso ed alla tua famiglia. Non pensare che mi sia scordato quando dicevi che da grande avresti voluto fare il medico ed il venerdì, forse perché è il giorno del Signore, curare la povera gente gratuitamente. Poi hai scelto un'altra professione, ma penso che del bene alla gente indifesa l'avrai pur fatto lo stesso". "Non pensare che non ricordo la tua bontà d'animo. Me l'hai dimostrata tante altre volte. Non me ne sono dimenticato, ricordalo. L'ultima volta che mi hai rinnovato il tuo affetto l'hai dimostrato tanti anni fa. Pochi si ricordavano del loro vecchio maestro, ma tu da Aosta un giorno che proprio neppure lo immaginavo mi hai telefonato. Ed in quei giorni ero tanto triste: mi sentivo tanto solo con il peso dei miei anni e dei miei acciacchi e con le mie sorelle a cui dovevo ancora badare. Pensavo agli anni miei passati, ai tanti bimbi che avevo assistito e seguito sui banchi di scuola, a cui avevo dato lezioni scolastiche e di vita". "Sapessi la tua telefonata quanto è stata gradita e quanto mi ha rincuorato. Mi ha fatto improvvisamente sentire nuovamente utile e ricordato da uno dei miei allievi. Te lo dissi anche: ma le parole si capiscono meglio, quando dentro di noi avvertiamo il senso del vuoto e dell'incertezza del domani". "In questo momento le puoi capire bene anche tu. Io ti dissi che il ricordo di un proprio allievo per un vecchio maestro è mille volte più gradito di una medaglia. E tu quel giorno mi hai dato la più bella ricompensa, con il tuo ricordo, che un vecchio maestro potesse ricevere." "Ed oggi sei di nuovo qui, scrivendo queste righe e dando vita a questo tuo travaglio interno su dei fogli di carta. Tu non ti accorgi ma l'intensità del tuo dialogo oltrepassa i confini della morte e dimostra che la stessa morte non sia realmente la fine di tutto". "Questo tuo modo interiore di colloquiare è simile alla carezza di un bimbo. Una carezza che avrei voluto avere da un bimbo tutto mio ma che non ho potuto avere in quanto ho preferito restare vicino alle mie sorelle che non avevano voluto sposarsi". "Ma un vecchio maestro vive e si gratifica anche con una manciata di carezze che derivano da piccolissime testimonianze di affetto per una semplice telefonata di un suo ex allievo lontano, perché questo dimostra che il seme non è caduto su un terreno arido ma ha trovato un fertile humus ed ha germogliato un gesto d'amore e di riconoscenza. E non servono altre medaglie ministeriali perché queste sono le vere gratificazioni che un vecchio maestro desidera ricevere per quello che ha potuto fare e per quello che ha saputo dare trasmettendo messaggi di amore ed esempi di onestà ad intere generazioni di giovani". Le streghe dell'Orsigna Raccontavano un tempo le nonne ai propri nipotini, seduti la sera davanti ad un ciocco scoppiettante nel caminetto, che nella valle dell'Orsigna, sulla montagna Pistoiese, c'era un ritrovo di streghe che, periodicamente, si davano appuntamento per festeggiare qualche occasione particolare. Quelle streghe erano molto cattive e la leggenda dice che se qualche abitante della zona le avesse guardate in volto sarebbe morto. Per evitare questa brutta fine occorreva non guardarle mai in viso se per caso capitassero sul proprio cammino. La leggenda aggiungeva anche che queste streghe, nel corso di questi incontri, avevano l'abitudine di raccontare tutti gli avvenimenti di cui erano state testimoni o protagoniste e, sovente, per farsi dispetto l'una con l'altra, raccontano anche dove fossero nascosti i tesori che nel passato i briganti avevano seppellito nei boschi e che qualcuna di loro aveva ritrovato e nascosto da un'altra parte. Esse non sapevano cosa farsene dell'oro e dei gioielli, ma possederli dava loro un tocco di importanza che indispettiva le altre che ne erano sprovviste. Così a volte era capitato in passato che qualche boscaiolo, che si recava nelle macchie per preparare i cumuli per fare il carbone ed era rimasto addormentato nel bosco, aveva ascoltato i loro discorsi e, prima che queste potessero andare a trovare un nuovo nascondiglio, era riuscito ad individuare il posto dove era stato nascosto un tesoro e lo recuperava arricchendosi con tutta la famiglia. Ma sulla Montagna Pistoiese non c'erano solo le streghe. C'erano anche delle fate buone e soprattutto c'erano gli Elfi che contrastavano i cattivi poteri delle streghe e le loro magie neutralizzando il malocchio che le streghe buttavano sulle persone. "Occorre portare sempre in tasca alcune ghiande - diceva la nonna ai nipotini - ma non bisogna mai romperle. Le ghiande hanno infatti il potere di annullare i sortilegi di queste creature e se si riesce a colpire una strega con una di esse allora la ghianda si apre e fa apparire una fata buona che butta addosso alle streghe una polverina incantata che produce una intensa luce che le fa svanire nel nulla". La gente del posto, però, non aveva mai visto le streghe e un contadino che affermava di averle viste e guardate in faccia ebbe un incidente, è vero, ma la colpa era certamente sua e non delle streghe perché all'età di 92 anni si era arrampicato su un albero per raccogliere delle ciliege ed era caduto rompendosi l'osso del collo. Se non l'avesse fatto, forse, ancora oggi sarebbe in giro per il paese, con il suo bastone, a raccontare le sue storie strampalate. Ma Cecco, un ragazzo del posto che conosceva ogni sentiero della montagna intorno all'Orsigna e che non aveva paura di nulla, un giorno decise di andare a caccia di streghe, anche per cogliere qualche loro segreto, e giurò che se ne avesse vista qualcuna l'avrebbe rinchiusa in un sacco. Attese quindi una serata serena di plenilunio in modo da garantirsi un sufficiente chiarore sul sentiero che avrebbe dovuto percorrere sia all'andata e sia per il ritorno. "Le streghe - raccontava la nonna- per fare le loro magie hanno bisogno di tante cose, ma la base principale dei loro intrugli sono i denti e le code del coniglio". Cecco tutte le volte che la mamma cucinava un coniglio metteva da parte, a pranzo, le mandibole con tutti i denti. Le code, invece, le recuperava dal sacchetto dove venivano deposte la pelle e le parti inutilizzati del coniglio. Come gli aveva insegnato il nonno le aveva messe ad asciugare al sole cospargendole di sale, per non farle marcire, e poi le nascondeva in cantina insieme alle mandibole con i denti. Purtroppo le streghe, essendo molto vecchie ed avendo perduto la loro agilità da un pezzo, non riescivano a catturare i coniglietti selvatici che si aggirano per i boschi. Questi, poi, conoscendo le strane abitudine di quelle vecchie cattive, appena le sentivano arrivare scappavano via velocemente a nascondersi nelle loro tane tra le rocce o sotto i tronchi degli alberi. D'altro canto queste non possano andare nei negozi a comprarsi gli elementi che servono per preparare le loro misture, anche perché la gente per tenerle distanti appende uno spicchio d'aglio all'ingresso delle case e dei negozi e questo stratagemma ha il potere di impedire alle streghe di entrarvi. Cecco, quindi, attese il plenilunio e in un tardo pomeriggio partì con una sacco sulle spalle, dove aveva nascosto, oltre ad una lanterna, per non rischiare di restare al buio nel sottobosco quando il sole sarebbe tramontato, anche le mandibole con i denti e le code del coniglio e poi si era inoltrato nel bosco. Nei giorni precedenti, però, aveva costruito un capanno tra i castagni, di fronte ad una radura dove i locali sostenevano si radunassero le streghe per le loro feste, posto a qualche chilometro dall'abitato dell'Orsigna e lo aveva ricoperto di foglie in modo da mimetizzarlo e non farlo vedere da eventuali boscaioli che fossero capitati nei dintorni. Mentre lo costruiva aveva lasciato degli spioncini tra un tronco e l'altro in modo da poter spiare dall'interno cosa avvenisse all'esterno senza farsi scoprire. Proprio in corrispondenza di uno di queste aperture aveva scavato una buca profonda circa mezzo metro, vi aveva adagiata una robusta rete e poi aveva nascosto il tutto deponendo sopra delle frasche e della terra in modo che nessuno potesse accorgersi della trappola capitandoci vicino. La rete era stata fissata ad un robusto tronco e l'estremità della corda che la sorreggeva, e che all'occorrenza poteva chiudere la rete, l'aveva fatta scorrere tra i rami e calata nel capanno in modo da poter essere agevolmente manovrata dall'interno. Inoltre, per maggiore tranquillità, aveva appeso proprio sulla porta d'ingresso un bella ghirlanda di agli che, in caso di pericolo, avrebbe impedito alle streghe di poter entrare nel capanno. Infine, aveva anche messo in tasca una manciata di ghiande così avrebbe potuto difendersi facendo sparire le streghe nel caso queste lo avessero aggredito. Era già passata qualche ora ed il sole se ne era andato da qualche minuto. La radura non era ancora piombata nel buio perché la luce filtrava ancora tra i rami e così Cecco riusciva a vedere intorno a se un buon tratto di bosco. Quando le ombre cominciarono ad invadere la radura Cecco si sedette in una posizione tale da poter essere visto anche da lontano, tirò fuori dal sacco le mandibole e le code del coniglio e li depose allineati su un tronco che aveva disposto proprio dietro la buca che aveva scavato e dove aveva nascosto la rete della sua trappola, e rimase in attesa. Intanto era sorta la luna che aveva illuminato la radura. Cecco ogni tanto emetteva intenzionalmente dei colpetti di tosse per scoprire la sua presenza e con indifferenza rigirava sul tronco le code e le mandibole di coniglio in modo che le streghe potessero vederle. Dopo circa mezzora intravide alcune ombre, che i raggi lunari che filtravano tra i rami ogni tanto scoprivano, che stavano avvicinandosi. Si era collocato in una posizione favorevole in modo che l'ombra di un tronco colpendolo sul viso gli impedisse di essere abbagliato dai raggi della luna. Con questo sistema riusciva anche a guardare con la coda dell'occhio in giro e dava la certezza, all'eventuale osservatore in arrivo, di non essere stato scoperto. Quelle ombre che si muovevano furtive per la radura, però, gli aveva messo addosso un po' di paura. E' vero che era un ragazzo coraggioso, ma era sempre un ragazzo. E poi certi racconti, ampliati dalla fantasia popolare ed ingigantiti dalle storie delle disgrazie che capitavano a chi guardava le streghe in volto, contribuivano a creare nel suo cervello quell'incoscio timore del soprannaturale che pervade le persone soprattutto quando sono sole e per di più nel buio di un bosco lontano dai centri abitati. Ma non si scoraggiò. Anzi cercò di farsi coraggio anche perché nessuno aveva mai detto che le streghe avessero aggredito qualcuno e, soprattutto, che avessero fatto paura alla gente parandosi improvvisamente davanti. Anzi quasi tutti i vecchi ammettevano che le streghe avessero paura a farsi scoprire. Pertanto si tranquillizzò e cercò di mantenere la calma per concentrarsi sull'azione che aveva in testa di compiere. Quando fu sicuro che le streghe avessero notato gli oggetti esposti sul tronco Cecco prese il sacco e si allontanò dalla radura. Fece un giro per dare l'impressione che andasse via, ma appena giù da un grotto, che celava la radura stessa, a gattoni ritornò sui suoi passi e s'infilò nel capanno. Poi si avvicinò allo spioncino e cominciò ad osservare quello che avveniva intorno. Non dovette aspettare molto che già le streghe erano apparse al bordo della radura. Erano soltanto in cinque ed una di queste ragionava a voce alta e sembrava arrabbiata con la compagna che aveva a fianco per via di certi segreti rivelati da un'altra strega. Cecco capì che quella strega aveva sottratto un tesoro e l'aveva nascosto in un nascondiglio che solo lei conosceva. E fu proprio questa strega che s'accorse dei denti e delle code del coniglio esposti sul tronco. Urlando di gioia si precipitò in quella direzione, ma non sapendo mantenere il segreto aveva già urlato alle altre cosa vi fosse esposto su quel tronco. Fu una corsa folle per impossessarsi di quei beni per loro essenziali. Ma la strega che per prima aveva visto i denti e le code del coniglio era avvantaggiata perch* era più vicina al tronco, ma non fece in tempo ad impossessarsi di quei prodotti che la terra le mancò sotto i piedi e si ritrovò presa dalla rete che Cecco aveva prontamente tirato serrandola ben stretta al suo interno. Questa si dimenava come una forsennata, ma Cecco aveva usato una rete con delle grosse corde e non era facile allentarle se non tagliandole con un grosso coltello. Le altre streghe cercavano di liberare l'amica, ma in quella confusione Cecco uscì dal suo nascondiglio e cominciò a colpire con le ghiande le quattro streghe che si affannavano attorno alla rete. Una luce improvvisa ed accecante illuminò il piazzale. Cecco si accorse che qualcosa di bianco e lucente colpisse le streghe e quando quella luce si dileguò delle quattro streghe non c'era più alcuna traccia, ma quella chiusa nella rete, e che Cecco volutamente aveva evitato di colpire continuava impotente ad agitarsi nella sua trappola. Infatti lui aveva utilizzato quattro ghiande apposta per questo. Fra l'altro tutte non le avrebbe potute catturare. Lui ne voleva solo una, e soprattutto questa che avrebbe potuto svelargli il segreto di cui era a conoscenza, ed era riuscito nel suo intento. La strega continuava a dimenarsi lanciando delle maledizioni tremende in direzione di Cecco, che non si scompose più di tanto. Anzi ad un certo punto indispettito tirò fuori dalla tasca una ghianda e le urlò che se non la smetteva di agitarsi gliel'avrebbe tirata addosso. Bisognava vedere la paura di quella vecchiaccia. Tremava tutta e così facendo la dentiera gli batteva tra i denti facendo uno strano rumore simile a quello che la mamma di Cecco generava quando tritava gli odori sul tagliere per preparare il sugo. "Per carità - urlava - non lo fare; ti darò tutto quello che vuoi". Ma Cecco fingendosi ancora più arrabbiato gli lanciò contro la ghianda ma fece in modo che questa si perdesse nel bosco. Dovreste vedere la strega che paura si prese quando la ghianda la sfiorò di poco sopra la testa. Cominciò a piangere e giurare che se l'avesse liberata gli avrebbe rivelato il posto dove aveva nascosto il tesoro che aveva sottratto alla sua compagna. Cecco però non si fidava. "Se vuoi che ti liberi - le disse - prima devi indicarmi dov'è nascosto il tesoro. Io andrò, poi, a controllare che tu non mi abbia raccontato una bugia e se esiste davvero allora io ritornerò a liberarti" La strega, non avendo altra scelta, malvolentieri fu costretta a svelare il nascondiglio dove aveva nascosto quel tesoro spiegandogli che era celato appena fuori dal suo paese sotto alcuni massi proprio sotto il ponte che attraversa il torrente Orsigna. Cecco andò nel capanno, prese la corona dell'aglio che aveva messo dietro la porta e per essere sicuro che altre amiche della strega non venissero a liberarla depose tutto intorno alla rete dov'era intrappolata la malcapitata un cerchio di spicchi d'aglio. Poi di corsa andò a vedere se il racconto della strega corrispondesse a verità. Ritornò qualche ora più tardi. La strega era sempre lì, appesa come una mortadella, ma stanca ed avvilita si era addormentata. Andò all'interno e sciolse la corda, e depose lentamente a terra la rete che si aprì e la strega sortì da quella scomoda posizione. Appena si accorse che era libera cominciò nuovamente ad inveire contro Cecco e gli lanciava tutte le maledizione di questo mondo. Ma questi ridendo tirò fuori dalla tasca una ghianda e fece finta di scagliargliela contro. La strega, allora, urlando per la paura scappò in gran fretta e scomparve nel bosco. Mentre si addentrava nella boscaglia gli arrivò un gran vociare di vecchie che imprecavano e litigavano. Si voltò indietro e comprese che la strega aveva ritrovato le sue colleghe che non erano state polverizzate ma solo accecate dalla potente luce che le fate buone avevano generato con la loro magia. Comprese, quindi, che le fate buone, appunto perché erano tali, non potevano fare del male neppure alle persone cattive ma creando quella luce le avevano abbagliate ed impaurite impedendo loro di vedere cosa stesse succedendo intorno e dando loro l'impressione che fossero state colpite dalla luce del sole, che per loro è una fonte di energia negativa che potrebbe liquefarle qualora ne fossero state esposte per un certo tempo, costringendole a fuggir via terrorizzate. Cecco ritorno di gran corsa a casa e raccontò la fortuna che gli era capitata. In un primo momento il padre voleva picchiarlo, ma poi si fece convincere e dopo aver caricato dei sacchi ed alcuni badili sull'asino si recarono in gran fretta sotto il ponte dell'Orsigna e nel posto indicato dalla strega scoprirono un forziere pieno di ducati d'oro. Con il cuore colmo di gioia caricarono tutto sull'asino ed in gran segreto ritornarono a casa. Nei giorni successivi nessuno più vide in giro per il paese Cecco e la sua famiglia. La stessa notte avevano abbandonato la montagna e si erano diretti a Prato, presso dei loro parenti, dove arrivarono all'alba. Dopo qualche tempo, con il ricavato della vendita dei ducati d'oro, acquistarono una azienda nella periferia di Prato e cominciarono a lavorare la lana, come era abitudine di altre famiglie della zona. All'Orsigna si sparse la voce che forse Cecco e la sua famiglia avessero incontrato le streghe, le avessero guardate in volto e fossero morti, forse precipitando in uno dei tanti burroni esistenti in quella località tra i boschi. Ma nei mesi seguenti, periodicamente, una persona distinta, con barba e baffi arrivava all'Orsigna con una corrozza nera trainata da quattro cavalli bianchissimi con i finimenti luccicanti, si avvicinava alla vecchia casa di Cecco ormai in rovina, perché tutti avevano paura di entrarvi dentro, e dopo averla osservata lungamente se ne ritornava da dove era venuto. Qualche abitante del paese che aveva osato avvicinarsi alla carrozza affermò di aver visto delle lacrime brillare negli occhi di quello strano visitatore, ma nessuno aveva riconosciuto in quella persona elegante Cecco che, spinto dalla nostalgia, ogni tanto ritornava alla sua vecchia casa per rivederla e ricordare a se stesso le sue origini e la sua miseria prima che quella strega gli avesse fatto scoprire quel tesoro che, poi, avrebbe permesso a lui ed alla sua famiglia di arricchirsi e di vivere felice e contento per il resto dei suoi giorni. Il regalo di Natale Pioveva e non avevo voglia di viaggiare sotto la pioggia, però quel giorno dovevo per forza andare a Pistoia perché avevo un appuntamento dal dentista. Avevo fatto pochi chilometri e stavo percorrendo la statale che costeggia il corso del fiume Reno, che sorge a Prunetta, pochi chilometri dalla località dove abito quando sono in Toscana. Ad un tratto mi accorgo che un cane viaggia al centro della carreggiata, sbandando un po' a destra ed un po' a manca. Istintivamente mi fermo ai bordi della strada ed il cane mi si avvicina subito e cerca di salire in macchina. - "E' un cane abbandonato, esclama mia moglie arrabbiata. Prendono gli animali e poi li abbandonano". Ma quel cane, anzi quella cagna (visto che è una femmina) inzuppata fradicia d'acqua aveva il collare con sopra inciso il numero telefonico ed il nome del proprietario. -"E' una cagna da caccia, dico a mia moglie. Forse correndo dietro un cinghiale s'è smarrita!" Compongo col telefonino il numero trovato sul collare, ma dall'altra parte del telefono nessuno risponde. La mia Ketty (una bastardina di piccola taglia) mi osserva impensierita quando la nuova ospite sale in macchina. Forse anche lei s'è accorta del puzzo accidentato che quella bestia emana. Percorro un mezzo chilometro e mi fermo alla prima borgata che trovo. Un signore mi presta la guida del telefono e ... sono fortunato! Il proprietario abita a Maresca, sulla montagna pistoiese, un paio di chilometri da casa mia. Risalgo con il cane in macchina (nel frattempo l'avevo fatto scendere per non far morire asfissiata mio moglie) e ritorno verso casa alla ricerca del proprietario. Ma tutto mi va storto! Recentemente hanno cambiato i numeri civici ed in paese nessuno conosce il nominativo da me fornito. Vado per tentativi: cerco di ricostruire a caso la vecchia numerazione per avvicinarmi il più possibile al mio uomo. Il puzzo in macchina è insopportabile e cammino con i vetri abbassati (siamo vicini a Natale e fuori fa abbastanza freddo). Finalmente, dopo un'ora di ricerche affannose, arrivo alla meta. Ma al citofono non risponde nessuno. Il cane, però, scodinzola contento. Ha riconosciuto il posto dove abita. Lo faccio scendere e s'avvia verso casa bevendo avidamente in una scodella d'acqua sporca che trova in un angolo. Un vicino s'affaccia all'uscio e spiego la situazione. - "I padroni li ho visti andar via. Venga mettiamo il cane nel suo recinto. Mi dia anche il numero del suo telefono così lo darò ai miei vicini appena ritorneranno". Contento della mia buona azione, do una ripulita alla macchina e m'avvio verso casa. Ormai l'appuntamento con il dentista è saltato. Un paio d'ore dopo Ketty mi fa cenno di voler uscire di casa. - "Dov'è il guinzaglio?", chiedo a mia moglie. - "L'avrai lasciato in macchina". Cerco in macchina, ma non lo trovo. Mi ricordo che il guinzaglio l'avevo adoperato per agganciare il collare del cane smarrito e poi l'avevo lasciato sul tetto dell'auto quando avevo fatto scendere l'ospite inatteso. - "Cristodina", impreco, "mi sarà caduto quando son ripartito". A questo punto decido di telefonare al proprietario del cane smarrito. Forse sarà caduto proprio davanti casa sua e penso che sarà contento di ricambiarmi il favore. Sempre che nel frattempo sia rientrato in casa. - "Le stavo appunto telefonando, mi risponde al telefono. Siamo rientrati da circa un'ora, ma solo adesso il mio vicino di casa mi ha portato il suo numero telefonico. Per tutto il giorno siamo andati alla ricerca del cane. Sa, io sono un cacciatore e stamattina verso le dieci la cagna è andata dietro ad un cinghiale e non l'ho più vista ritornare. Non ho neppure pranzato per la disperazione". - "Ma dove l'ha trovata?, mi chiede". - "L'ho trovata nel Reno (è un modo per indicare la strada statale che si snoda lungo il fiume Reno) vicino al laghetto sportivo verso le quindici e un quarto". - "Ma noi c'eravamo passati una diecina di minuti prima! esclama. "Pensi quanta strada ha fatto. L'avevo perso stamane alle 10 nella zona di Montemagno" (circa sei-sette km distante in linea d'aria). "Sul Reno ci eravamo fermati proprio nei pressi del laghetto della pesca sportiva ed avevamo chiamato e fischiato a lungo. Ma , poi, scoraggiati, ce ne siamo andati via e siamo ritornati a cercare nella zona di Montemagno prima che calasse la sera. Appena noi siamo ripartiti, subito dopo siete arrivati voi. Probabilmente ci aveva sentito ma non aveva fatto in tempo ad arrivare. Quando siamo ritornati a casa eravamo avviliti perché pensavamo che il cane ormai era perso. Mia moglie era entrata in casa ed io mi stavo pulendo le scarpe. Ho sentito un lieve mugolio arrivare dal recinto del cane". - "Oh, chi è mai? - ho pensato tra me". "Sono andato a vedere per curiosità e chi ti trovo affacciata alla ringhiera? Il cane. Gli sfilo il collare ed entro in casa". -"Sai chi c'è nel recinto? - dico a mia moglie". -"Chi c'è?" - "C'è il cane?" - "Il cane? Tu per la troppa fatica dai i numeri!" - "Guarda il suo collare, se non ci credi!" "Corre fuori anche lei e per poco non gli viene un colpo". - "Ma chi l'avrà portata?, si chiede. Ed intanto gli passa una scodella di zuppa che la cagna divora avidamente". "Si telefona a destra ed a manca a tutti i nostri amici cacciatori, ma nessuno sa darci una spiegazione". "A sciogliere il mistero arriva il nostro vicino di casa con il Suo numero telefonico e Le stavamo per telefonare per ringraziarLa del grandissimo favore che ci ha fatto. Ma è arrivata prima la Sua telefonata". - "Siamo stati fortunati a trovare della gente che ama gli animali, altrimenti la cagna poteva essere rimasta sotto una macchina e addirittura combinare anche qualche incidente". - "Adesso vado a vedere se trovo il collare del suo cane". Intanto che lui esce a cercare, provo a fare un giro in auto caso mai fosse andato a finire in qualche cunetta lungo la strada e poco dopo arrivo anch'io a cercare attorno a casa. Nulla! -"Non importa! esclamo, tanto era ormai da cambiare. E' l'occasione per comprarne uno nuovo". Mi fa entrare in casa e non sa cosa offrirmi da bere (ma io sono astemio) o da darmi in segno di riconoscenza. Poi arriva con due uova fresche. - "Non ne ho altre, esclama, sono delle mie galline ma in questo periodo ne fanno poche. Le prenda sono uova naturali. Appena ricominceranno a produrle gliele darò delle altre". Gradisco perché insiste tanto e rifiutare mi sembrerebbe fargli un torto. Poi sono sempre due uova fresche e con i tempi che corrono, e con quello che siamo costretti a mangiare oggi, sono anche cose ormai rare da trovare. Ci salutiamo con l'impegno di ritrovarci. Passo a trovare la cagna che se ne sta tranquilla nel suo recinto. Mi riconosce e mi scodinzola tranquilla. Forse, alla sua maniera, mi sta ringraziando anche lei. Prigionieri di guerra Gino aveva compiuto da non molti mesi i venti anni il giorno che ricevette, nella sua casa di Villa di Piteccio, un paesino poco distante da Pistoia, la cartolina-precetto per assolvere agli obblighi di leva. La notizia fu accolta con la stessa intensità di quando arriva improvvisa in una famiglia una inaspettata disgrazia. Gino era figlio unico e quella cartolina mise tutti in grande apprensione. L’Europa stava attraversando momenti terribili con le armate tedesche che avevano già occupato mezza Europa e con Mussolini che, mal consigliato e sollecitato anche dalle lobby delle industrie belliche italiane, stava per entrare nel conflitto. La tensione in famiglia, quindi, era più che giustificata anche se la convinzione che la guerra sarebbe finita presto e che Gino sarebbe ritornato senza danni dal fronte induceva ad un certo ottimismo. D’altro canto la propaganda politica presentava la Germania come una grande potenza ed avvalorava la convinzione nell’opinione pubblica che non partecipare alla guerra avrebbe precluso all’Italia, quale alleata della Germania, la possibilità di sedere al tavolo delle trattative di pace, una volta finita la guerra, e non condividere i vantaggi che senz’altro avrebbero ottenuto i vincitori del conflitto. Il 17 marzo arrivò in fretta e seguendo le indicazioni della cartolina precetto, Gino si presentò al Comando del VI° Artiglieria di Modena, dove fu sottoposto ad addestramento. Tre mesi dopo, finito il C.A.R., fu trasferito al fronte a Spalato, in Jugoslavia, svolgendo attività di sorveglianza delle coste. Le condizioni di vita erano quelle dei militari in servizio con tutte le regole legate al ruolo di militari e sottoposti alla ferrea disciplina che il periodo fascista aveva imposto alle truppe. “Credere, Combattere, Ubbidire” erano le scritte sparse un po’ ovunque sui muri della caserma, quasi a ricordare, come se ce ne fosse bisogno, i doveri a cui tutti i militari erano sottoposti. Dopo Spalato fu trasferito alle Bocche di Cattaro in Montenegro, prestando servizio sempre come guardacoste con i pezzi puntati verso il mare. Certamente il fatto di essere impegnato in artiglieria per certi versi lo aveva favorito in quanto, comunque, si trovava sempre a distanza di sicurezza dal fronte anche se le possibilità di bombardamenti aerei potevano rappresentare un pericolo ancor più grave e inaspettato. Occorreva, quindi, la massima vigilanza ed attenzione per prevenire incursioni da cielo o assalti dal mare. Spesso, nelle lunghe ore di attesa, Gino pensava ai suoi cari, alle comodità della sua casa, all’affetto ed alle attenzioni che, come figlio unico, aveva ricevuto dalla sua famiglia. Non che le condizioni di vita fossero insopportabili. A vent’anni, poi, i disagi vengono affrontati anche con un certo spirito di adattamento ed il gruppo crea una certa sicurezza a livello personale. Le baracche erano spaziose, i pasti regolari, il clima mitigato dalla brezza del mare. Ma nel frattempo, siamo nel mese di giugno del 1940, Mussolini era entrato in guerra a fianco delle forze dell’Asse. La dichiarazione di guerra aveva un po’ sconvolto i più timorosi, e Gino era uno di questi, ma tanti altri, invasati dalla propaganda fascista, avevano festeggiato l’avvenimento quasi si trattasse di una giornata di festa. Col passare dei mesi, tuttavia, quella che sembrava una guerra che doveva concludersi rapidamente e con la vittoria dei nazi-fascisti cominciava, invece, a subire contraccolpi e rallentamenti. All’interno dei vari paesi occupati la Resistenza all’invasione si stava organizzando, e nel frattempo anche l’America con i suoi alleati aveva deciso di entrare nel conflitto contro le forze dell’Asse. Gino fu trasferito, con i suoi camerati, all’interno del Montenegro dove attiva era la presenza dei gruppi partigiani organizzati dal Maresciallo Tito. In quel periodo molte operazioni vennero intraprese principalmente bombardando le postazioni militari partigiane, ma non vennero risparmiate città e porti dove si aveva notizia della presenza di truppe avversarie. Di contro l’attività di sabotaggio dei partigiani era incruenta e si sviluppava principalmente minando strade, ferrovie e ponti al fine di rallentare l’avanzata del nemico. Gino ricorda con terrore le informazioni che arrivavano circa la crudeltà dei partigiani soprattutto nei confronti degli ufficiali italiani. Logicamente questi rappresentavano il cervello operativo e politico della propaganda fascista ed era logico che la loro eliminazione si traduceva anche in tentativo di decapitare l’intelligenza militare dell’avversario e l’indebolimento della disciplina dei reparti. Ma la crudeltà dei partigiani era indirizzata anche nei confronti dei bersaglieri, considerati truppe scelte militarmente e politicamente più sensibili all’ideologia fascista. La fortuna, quindi, di non appartenere a questi corpi, di non aver alcun grado e, soprattutto, di essere abbastanza distante dalle operazioni di rastrellamento, infondevano in Gino una rassegnata tranquillità. Questa attività proseguì fino all’8 settembre del 1943, quando l’Italia ormai prostrata dalla guerra, divisa in due dagli alleati che risalivano lungo la penisola, e con il governo fascista in crisi, fu costretta a chiedere l’armistizio. A questo punto, però, le cose presero una brutta piega: i tedeschi, gridando al tradimento italiano, invasero il Montenegro e cominciarono a catturare i soldati italiani. E’ questo uno dei periodi più oscuri dove la storiografia ufficiale ancora non ha fatto chiarezza fino in fondo e per certi versi ha pesato negativamente anche nel giudizio degli alleati circa le virtù militari degli italiani, che a più riprese furono tacciati di codardia. Ma fu, poi, vera codardia o tentativo di tirarsi fuori da una guerra che il popolo non aveva voluto ed alla quale non credeva? Certamente in buona parte della popolazione italiana manca una cultura della guerra. Siamo sempre stati un popolo civile, pacifico e soprattutto privo della convinzione ideale che il benessere di ogni nazione non si costruisce attraverso le aggressione di rapina verso altri popoli, ma con lo sviluppo pacifico delle attività produttive e del lavoro. Ma intanto la situazione precipitava ed occorreva fare delle scelte. Molti soldati, impauriti dall’atteggiamento dei tedeschi nei confronti dell’Italia, scelsero il male che ritenevano peggiore aggregandosi ai partigiani di Tito. I più timorosi ed i più sensibili alla propaganda fascista, che presentava i partigiani di Tito come un esercito di soldati sadici e violenti, preferirono consegnarsi ai tedeschi. Da questo momento la vita di Gino fu sconvolta in modo drammatico. Chi è abituato ai disagi della guerra ma vive, comunque, anche se accampato sotto una tenda, una vita alla men peggio organizzata, con la possibilità di consumare regolarmente qualche pasto al giorno, non riesce a proiettarsi oltre tali disagi in quanto gli sembrano già di per se pesanti. Ma una volta consegnatosi ai tedeschi questi li ammucchiarono nelle stazioni e li stiparono su vagoni merci per essere trasportati nei campi di lavoro in Germania. Ad occhio e croce, anche considerando il numero dei vagoni fermi in stazione, Gino stimò in circa trecento i prigionieri in partenza assieme a lui quel giorno. Infatti, su ogni vagone vennero stipati 50 soldati, che furono trattati ancor peggio degli animali, considerato che le bestie ricevevano maggior cura e più conforto di quello a loro riservato. D’altro canto non ci si poteva aspettar di meglio dal momento che gli spostamenti e lo scortamento dei convogli era affidato in buona parte alle SS, cioè a quelle truppe speciali che il regime aveva addestrato ed indottrinato inculcando il principio che essi appartenessero alla razza eletta. Questi soldati furono quelli che più inveirono sui prigionieri a loro affidati soprattutto dopo che l’Italia firmò l’armistizio. Da quel momento l’Italia fu considerata dai tedeschi una nazione di vigliacchi e tutti i soldati italiani furono considerati dei traditori. Passarono almeno sette giorni prima di arrivare in Germania; sette giorni lunghissimi in quanto il convoglio doveva fermarsi sovente nelle stazioni, e vi restava fermo a volte anche un’intera giornata, per dare la precedenza alla tradotte ed a tutti i treni che trasportavano materiali ed approvvigionamenti per i soldati al fronte. Andò bene perché si era all’inizio di settembre e le condizioni atmosferiche erano ancora accettabili. “Nei treni - ricorda Gino - si dormiva distesi uno a fianco all’altro. Venivamo nutriti con delle razioni, fra l’altro insufficienti, di fettine secche di patate che, logicamente dovevano essere consumate crude senza possibilità di essere cucinate. Ogni giorno potevamo riempire d’acqua la nostra borraccia e dovevamo consumarla con parsimonia perché doveva bastare per tutta la giornata”. “Per i nostri bisogni corporali - racconta con un velo di amara ironia - ci avevano fornito un bussolotto di latta, che veniva custodito a turno dall’ultimo che lo utilizzava. Per contenere la fuoriuscita di odori poco piacevoli, veniva tappato con una coperta piegata e l’ultimo che se n’era servito ci restava seduto sopra. Si sperava sempre che qualcuno dei prigionieri ne avesse bisogno in quanto era l’unico sistema per passare ad un altro quella incomoda custodia. Infatti, per urinare ognuno utilizzava un fiasco che poi vuotava dalle sbarre del vagone quando il treno era in corsa”. I prigionieri furono portati a Boom, un paese ai confini tra l’Olanda ed il Belgio, e li vi rimasero per circa un mese. Vi erano circa 15.000 prigionieri di tutte le nazioni ospitati in baracche di legno forniti di servizi igienici ed acqua corrente. Per dormire si aveva a disposizione uno stanzone con della paglia che serviva a costruirsi dei giacigli. Alcuni prigionieri , invece, potevano disporre di giacigli predisposti su impalcature di tavole disposte a castello. Il campo era circondato da filo spinato e posti di vedetta, illuminato di notte da riflettori che controllavano ogni angolo dell’accampamento. Appena arrivati furono adunati e costretti ad ascoltare molto bene le regole del campo. “Chi cerca di scappare - sottolineava deciso il comandante - sarà fucilato”; ma quanto a scappare nessuno proprio ne aveva voglia ed intenzione anche perché non sapendo dove si fosse non si comprendeva dove si sarebbe potuto andare. “Venivamo alimentati - ricorda Gino - una volta al giorno con un romaiolo di brodaglia a base di crauti accompagnato da un pane nero come il carbone. Ogni giorno ci adunavano e cercavano di convincerci di andare a combattere con loro. In tal caso avremmo avuto un trattamento senz’altro migliore a quello riservato al resto dei prigionieri”. E per dimostrare che quanto asserito rispondeva al vero tutti quei prigionieri che, spinti un po’ dalla disperazione e un po’ dalla convinzione di poter migliorare le proprie condizioni di vita, decisero di accettare il loro invito, furono separati dal resto dei prigionieri, ospitati in un recinto vicino e nutriti con pasta asciutta e pane bianco. Gli altri prigionieri li osservavano consumare quei pasti abbondanti con avidità. Ma nei fatti furono pochi quelli che passarono dall’altra parte e qualcuno che l’aveva fatto si era ravveduto dopo poco ed era ritornato di nuovo assieme agli altri prigionieri, evidentemente valutando che il gioco non valeva la candela. “Nel campo - continua Gino - ci rimasi qualche mese. Si disponeva di una certa libertà di movimento. Tutti erano stati schedati ed ognuno aveva dovuto dire quale mestiere conosceva. Qualche mese dopo ci trasferirono a Düsseldorf. Qui eravamo ospitati in baracche che disponevano di servizi igienici, letti a castello con a disposizione materassi e stufe a carbone per scaldarci nell’inverno. Insomma, rispetto a prima si poteva dire che qui si stava bene. Io che già lavoravo in una officina a fare manutenzioni fui destinato a questa attività in uno stabilimento che produceva armamento da guerra. Venivamo trasportati ogni mattina con i camion militari. Eravamo circa trecento persone che andavamo a fare i lavori più vari. I più sfortunati furono i minatori che vennero adibiti nelle miniere anche a mille metri sotto terra. Molti si ammalarono di tubercolosi, anche per l’insufficiente vitto che ricevevano, ed infettarono anche altri prigionieri. E’ inutile dire che molti di questi non ritornarono più in Italia”. “Dopo un anno di prigionia - ricorda Gino - cessammo di essere considerati prigionieri di guerra e ci fu una specie di equiparazione ai civili. Ricevevamo anche dei buoni cartacei con i quali potevamo acquistare della birra, che sovente riuscivamo a scambiare anche con altra merce. Inoltre, avevamo la libertà di circolare liberamente entro un perimetro di 600 metri dai confini del campo. Fu così che, dopo le otto ore in fabbrica, andavamo a svolgere qualche lavoro presso alcune famiglie di contadini della zona ricevendone in cambio alimenti di vario genere che ci tornavano quanto mai utili considerato lo scarso vitto che ci fornivano nel campo”. Nel 1943 le sorti della Germania erano ormai segnate. Gli alleati stavano infliggendo ogni giorno pesanti sconfitte all’esercito tedesco che si stava ritirando da tutti i fronti, mentre i primi aerei degli alleati non tardarono a farsi vivi sui cieli della Germania. Düsseldorf fu sottoposta per giorni ad un pesante bombardamento: Centinaia e centinaia di aerei alleati scaricavano sulla città migliaia di bombe, che in una sola notte causarono oltre settantamila vittime in una città con un milione di abitanti.. Durante le incursioni tutti si riparavano nei rifugi ma, intanto, dopo qualche giorno la fabbrica fu centrata dai bombardamenti e distrutta. Furono tutti trasportati a Bukenwald, un paesino distante 20-25 chilometri da Düsseldorf, dove sorgeva uno stabilimento di prodotti chimici in cui veniva prodotta, negli alti forni, anche una polvere idonea a temperare l’acciaio. “Vi erano occupati circa trecento operai - ricorda Gino - di cui una quarantina prigionieri di guerra. Eravamo ospitati in baracche decenti muniti di servizi, letti, acqua corrente e stufe per scaldarci. Ma qui comandavano le SS che erano arrabbiati per i bombardamenti e per le perdite che ogni giorno la Germania subiva. Uno di questi ci odiava in modo veramente profondo e non risparmiava occasione per chiamarci traditori. Bastava un piccolo errore per subire delle punizioni sproporzionate e crudeli. Una volta mi obbligò a scavare, aiutato da un altro malcapitato, una buca profonda quanto bastava per seppellirci dentro un masso enorme che si trovava nel cortile dell’accampamento”. “E badate bene - minacciò - che venga fatto un buon lavoro ed che il terreno venga riportato in pari, altrimenti saranno guai seri per voi”. “In questo campo patimmo veramente la fame. Non si sapeva cosa mangiare e più di uno rosicchiò anche la cintura dei pantaloni per eliminare i fastidiosi stimoli della fame” “Ricordo un giorno - continua Gino - che uno dei prigionieri, spinto dai morsi della fame, andò a raccogliere un fascio di ortiche e le mise a bollire in un bussolotto di latta. Si provò, dopo, a mandar giù quella minestra improvvisata, insipida e scondita, ed è inutile dire che dopo averla mangiata tutti fummo assaliti dai conati di vomito e buttammo fuori anche quello che non avevamo mangiato”. Il mondo, comunque, non è composto tutto da persone cattive ed anche all’inferno si può trovare un diavolo meno cattivo degli altri. Tra i tedeschi, infatti, ce n’era uno particolarmente buono. Ogni tanto arrivava con delle fette di pane imburrate e spalmate di marmellata. Le nascondeva sotto la camicia e furtivamente le passava a Gino. Ma il rischio di tale operazione non era da sottovalutare. “A bordo - si raccomandava - passandomi furtivamente le fette di pane che nascondevo prontamente. Quella frase la capivamo solo io e lui e voleva significare che dovevo andare a consumare quel pasto frugale nei gabinetti per non farmi vedere dalle SS che vigilavano sempre come aguzzini. Infatti, se avessero scoperto che qualche operaio tedesco ci forniva degli alimenti al di fuori delle miserabili razioni che ogni giorno ci spettavano quel soldato sarebbe stato sottoposto a dure punizioni”. Verso la fine del 1944, uno degli inverni più rigidi della sua prigionia, Gino subì un infortunio. Una sera un ingranaggio dell’altoforno si staccò ed andò a sbattergli su una gamba. Subì una frattura multipla al piede, ma per una lunga settimana rimase nella baracca senza alcuna assistenza. Il piede era tutto rigonfio circondato da un enorme ematoma. Un prigioniero di origine napoletana lo aiutava a mangiare la brodaglia che una volta al giorno veniva distribuita ai prigionieri e lo sorreggeva quando doveva recarsi ai servizi, ma ad ogni movimento ne seguivano dolori lancinanti. Dopo sette giorni finalmente il comandante della baracca consentì che fosse ricoverato in ospedale. Poiché la struttura ospedaliera era distante fu trasportato, seduto sulla canna di una bicicletta da un operaio del campo, fino alla prima stazione del filobus e da qui raggiunse l’ospedale, dove Gino trovò assistenza ed un miglior conforto soprattutto per quanto riguardava il vitto, riuscendo dopo tanti anni a mangiare anche tre volte al giorno. Quando entrò in ospedale, infatti, pesava solo 44 chilogrammi ed ormai pensava di non riuscire più a sopravvivere. In ospedale fu sottoposto a controlli radiografici per l’accertamento del danno ma non poterono ingessarlo subito in quanto con l’ematoma che gli aveva invaso tutto il piede avrebbe rischiato una cancrena. Rimase in queste condizioni 40 giorni. Dopo fu ingessato e trascorse altri 30 giorni in questo ospedale. Ma gli alleati intanto avevano cominciato a bombardare notte e giorno la città e spesso l’ospedale veniva evacuato e gli ammalati trasportati nei rifugi. In ospedale vi erano ricoverati anche altri 4 tedeschi che ricevevano la visita giornaliera dei propri parenti. Questi erano incuriositi della sua presenza e i loro congiunti spiegavano che era un prigioniero di guerra italiano che aveva subito un infortunio sul lavoro. “Uno di questi era veramente bravo - dice Gino - e sembrava quasi un italiano. Parlava sempre e raccontava anche di aver fatto il ferroviere in Francia. Spesso mi offriva parte delle vivande che gli avevano portato i suoi familiari da casa e si augurava che la guerra finisse in fretta”. Appena gli fu tolta l’ingessatura Gino restò ancora in ospedale per la riabilitazione e dopo qualche tempo fu dimesso e ritornò all’accampamento. Ogni giorno, però, si recava in ospedale per i sottoporsi ai forni e per completare gli esercizi di riabilitazione. Al suo ritorno al campo qualcuno gli diede la buona notizia della fine incruenta del soldato delle SS che li aveva particolarmente maltrattati. Questo era rimasto sotto i bombardamenti insieme alla sua famiglia e si era salvata soltanto la capretta che tenevano in giardino forse per approvvigionarsi del latte. Il periodo dell’ospedale fu la sua salvezza. Riuscì a sfamarsi ed a rimettersi in condizioni di efficienza tali che gli consentirono di sopportare meglio di altri gli ultimi disagi che ancora lo attendevano. Intanto si avvicinava la primavera del 1945 e gli alleati avevano ormai inflitto gravissime perdite alla Germania e stavano preparando l’attacco finale. I bombardamenti, infatti, si intensificarono sempre di più ed un giorno, sulla via dell’ospedale, gli aerei alleati cominciarono a sganciare dal cielo centinaia di bombe. Fece appena in fretta a buttarsi giù in una scarpata dove, sul fondo, trovò un gruppo di soldati tedeschi che stavano visionando una cartina militare e che all’arrivo di Gino cominciarono ad urlare e gesticolare nei suoi confronti facendolo scappar via terrorizzato. Tutte queste condizioni lo convinsero che forse era consigliabile restarsene il più possibile al campo, che era meno esposto ai bombardamenti, e, pertanto, decise di interrompere le cure riabilitative. All’inizio della primavera i campi furono liberati dagli americani che avevano raggiunto Düsseldorf. Qualche mese dopo la Germania capitolava ed il 1° Maggio 1945 gli alti comandi militari chiesero ed attennero l’armistizio senza condizioni. “Adesso potete andare dove volete” - disse un ufficiale alleato -, ma per diverse settimane nessuno aveva la forza di muoversi dal campo, tante erano le privazioni patite in quegli ultimi mesi. Rimasero per almeno sei mesi con gli americani che, nel frattempo, li avevano riarmati di tutto punto per difendere l’accampamento. “Si poté cominciare a mangiare di tutto “ - ricorda Gino come uscito da un incubo - anche di più di quello che ci serviva. Ma all’inizio qualcuno fu nutrito con le flebo in quanto aveva perso anche l’uso della masticazione. Durante il giorno, poi, si andava a Düsseldorf, ma tutto attorno vi erano soltanto rovine. Molti degli abitanti erano tornati alle loro case e vi avevano trovato solo macerie. Qualcuno aveva costruito delle baracche appoggiandole ai muri demoliti delle loro abitazioni e la popolazione si aggirava sulle rovine senza sosta come un esercito di spettri”. Si assistette anche a scene di inaudita violenza. I prigionieri che avevano subito delle angherie nei campi di lavoro si vendicavano come potevano dei soldati tedeschi che li avevano tenuti prigionieri. Gino non nasconde che furono commesse delle ritorsioni e anche delle atrocità. Ma le giustifica come una naturale ricerca personale di giustizia anche agli eccidi perpetrati dai soldati tedeschi in ritirata che, per rabbia, si vendicavano inconsultamente lanciando delle bombe a mano sui prigionieri inermi internati nei campi di prigionia. “Io non avevo il coraggio di vendicarmi di nessuno - osserva -. I tedeschi erano stati già puntiti atrocemente dai bombardamenti alleati. Avevano perso tutto. La casa, tutti i beni e moltissimi anche la famiglia. Vendicarsi ulteriormente di chi non aveva più la forza per difendersi non era nel mio costume. Ma, invece fui testimone di molte violenze. Un giorno vidi un italiano aggredire in modo sadico un tedesco nella stazione di Düsseldorf. I suoi concittadini assistettero impassibili al pestaggio. Nessuno osò intervenire o fare osservazioni anche perché avevano paura delle reazioni in quanto tutti gli ex prigionieri erano armati e non avrebbero sopportato, dopo i patimenti sofferti, alcun segno di rivolta. Si seppe poi che si trattava di una delle guardie SS in servizio nei campi di prigionia che si era resa colpevole di atrocità sui prigionieri italiani”. Gino non ricorda o non vuole ricordare altro, ma sottolinea che le violenze in quel periodo furono tante e questo dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che l’odio quando viene generato è un mostro che fa dimenticare tutti i sentimenti nell’uomo trasformandolo peggio di una bestia. Nella sera tra l’otto o il dieci di settembre del 1945 arrivò a Prato dove fu costretto a pernottare. Il giorno dopo raggiunse la stazione di Pistoia dove trovò un amico che lavorava nelle ferrovie. Questi avvisò telefonicamente un parente alla stazione di Piteccio che si premurò a sua volta di avvertire i genitori di Gino che ormai, non avendo avuto più notizie da circa due anni, lo pensavano morto. Arrivò a casa stanco ma in buone condizioni fisiche dal momento che nei sei mesi che era rimasto con gli americani aveva potuto cibarsi regolarmente. Riassaporò come in un sogno gli affetti familiari e finalmente poté riposare su un letto vero in mezzo alle lenzuola profumate, senza dover più lottare con pidocchi o cimici. Oggi Gino, che continua a vivere nella solita casa paterna, ha 79 anni e questa storia, che non è per nulla fantastica, l’ha potuta ancora raccontare rompendo un riserbo durato tanti anni, nel corso dei quali aveva voluto dimenticare le brutture subite ed alle quali aveva assistito impotente, suo malgrado, in prima persona. “Comunque sia andata - commenta Gino concludendo il suo racconto - io sono riuscito a riportare a casa la pelle. Ma penso sempre ai tanti altri miei disgraziati compagni di prigionia ed a quelli internati nei campi di sterminio che non hanno sopportato gli stenti e le privazioni a cui sono stati sottoposti e sono morti tra inimmaginabili sofferenze. In fondo, nonostante la fame ed i disagi i prigionieri di guerra italiani che avevano vissuto nei campi dove ero stato tenuto prigioniero anch’io, per certi versi, hanno avuto più fortuna ed hanno ricevuto un trattamento senz’altro più favorevole rispetto agli ebrei ed ai comunisti che erano stati internati nei campi di sterminio e che sono stati decimati a milioni nei forni crematori”. “Per questi motivi - afferma convinto alla fine - forse è un bene che la memoria storica venga continuamente alimentata dalle testimonianze dei sopravvissuti affinché nessuno abbia a dimenticare le farneticazione di alcune ideologie aberranti che furono le cause dello scoppio dell’ultimo conflitto mondiale e della sopraffazione di intere popolazioni inermi”. “E voglio augurarmi che la lezione negativa che una intera generazione ha vissuto serva alle nuove generazioni per rafforzare l’ideologia della pace tra i popoli e maturare la convinzione profonda del ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali e come strumento di oppressione dell’uomo sull’uomo”. Verusckha L'acqua del torrente Occhiali scorreva chiacchierina tra le ripe rigogliose di cerri, acacie, rovi e biancospini che adornano la stradina sterrata che porta alla Sorgente dell'Usignolo. Una volta questa sorgente d'acqua purissima era raggiungibile attraverso un sentiero che si dipartiva dai pressi dell’abitato di Bardalone, una frazione del Comune di San Marcello Pistoiese, ed era percorso da numerosi carri che trasportavano, nella stagione estiva, frasche e tronchi tagliati a pezzi, indispensabili per alimentare le stufe e scaldare le abitazioni nelle lunghe e fredde giornate invernali della montagna pistoiese e, in quella autunnale, sacchi di castagne saporite, che un tempo costituivano l'alimento fondamentale della cucina dei "montanini". In tempi recenti la località, che poi prese lo stesso nome dell’omonimo torrente che la percorre, fu adibita ad insediamenti artigianali ed industriali, per cui fu necessario allargare il sentiero per qualche chilometro in modo da consentire l’accesso anche ai mezzi pesanti a motore e successivamente venne anche asfaltato. Finita la zona la zona industriale il sentiero si inerpica dolcemente per ancora un altro chilometro all'interno dell'Appennino, diventando sempre più stretto e tortuoso man mano che si sale verso la sommità della vetta di Poggio Serripozzo, alta 951 metri, che sovrasta la vallata. Una volta esistevano vari sentieri, in buono stato di manutenzione, che portavano al Piano Ciliegia e alla Casetta degli Sposini. Poi l’abbandono della coltivazione dei campi portò alla scomparsa di gran parte di questi sentieri che oggi sono ricoperti quasi completamente da arbusti e da erbacce. Dalla sommità di Poggio Serripozzo si gode una vista panoramica sulla vallata di Prunetta, una frazione montana di Pistoia, da dove hanno origine le sorgenti del fiume Reno. Durante il periodo estivo il via vai di persone, provenienti anche da Pistoia e dai paesi vicini, è abbastanza intenso, anche perché molte di queste, oltre a fare una distensiva passeggiata nei boschi ne approfittano per riempire otri e bottiglie d’acqua fresca alla Sorgente dell’Usignolo. Nel 1963 la sorgente fu sistemata adeguatamente, fu eretta una caratteristica tettoia in legno e furono anche collocate, a cura dell’Amministrazione Comunale, diverse panchine non solo nei pressi della fonte ma anche lungo tutto il percorso che porta alla sorgente. A ricordo dell’opera fu anche posta una targa in pietra con incisa una bellissima poesia dedicata all’usignolo, volatile molto diffuso nella zona ed il cui canto melodioso accompagna sovente le passeggiate dei villegianti. Nel periodo estivo, quindi, la tranquillità della località è rotta dal via vai di mezzi a motore, dalle urla dei bambini e dal chiacchierio della gente. Ma nel periodo primaverile e nel tardo autunno, quando la circolazione delle persone e dei mezzi è meno intensa, Verusckha, una deliziosa bambina che abita nelle vicinanze, è solita effettuare delle lunghe passeggiate, addentrandosi in profondità nel bosco e portandosi dietro una cagnetta di nome Ketty, affettuosa e vivace, che è la gioia degli altri bambini per la sua mitezza, e che dimostra il massimo della tranquillità quando può evitare la rumorosa strada regionale che porta all’Abetone. Verusckha apprezza la quiete ed il silenzio del bosco e le piace ascoltare il canto dei cardellini e degli usignoli ed osservare il volo radente dei merli soprattutto quando, a primavera, sono intenti a costruire i nidi tra i rovi ed i cespugli di biancospino che inghirlandano il sentiero. Saltellando tra le rive del torrente e cercando un guado per inerpicarsi su un nuovo sentiero si ferma spesso ad osservare, qua e là, le piccole pozze scavate tra le sponde dallo scorrere del torrente nel corso degli anni; ed a volte riesce, così, ad intravedere fugaci apparizioni di trote, che spariscono tra i ceppi e le rocce affioranti dall'acqua non appena si affaccia un pò oltre la sponda. Muovendosi con passi quasi felpati, tesi ad evitare di disturbare o impaurire la fauna che prospera in quella località tranquilla, diverse volte, in passato, aveva avuto occasione d'intravedere a breve distanza coppie di daini, famigliole di cinghiali, scoiattoli, ghiandaie, galli cedroni e spesso, alti nel cielo, leggeri voli di falchetti che avevano puntato una qualche preda nel sottostante bosco. Amava osservare la natura attorno a sé ed il piacere che tale affascinante spettacolo le procurava le suggeriva di vivere la vita del bosco con quella naturalezza necessaria per non impaurire gli animali che incontrava e fare sparire le visioni improvvise di cui poteva godere. Fu appunto in una di queste passeggiate primaverili che un giorno gli parve di sentire, tra le frasche che inverdivano, un leggero lamento, quasi il singhiozzo di un bimbo, ed ebbe chiara sensazione che qualcuno o qualcosa la stessero osservando nei suoi movimenti. Un po' intimorita rallentò il passo e prestando l'orecchio tentò di scoprire, scrutando anche con la coda dell'occhio, la presenza che avvertiva, con l'intento di individuare la giusta direzione di provenienza dello strano lamento. A circa cento metri dalla Fonte dell'usignolo il sentiero si divide in due diramazioni. Quella di destra, sorpassando il corso del torrente con una piccola passerella in legno, sufficiente però a reggere il peso dei trattori che vi passano sopra, raggiunge il piccolo borgo di Campo Magno, che domina la vallata di Bardalone da un poggio panoramico e soleggiato. Verusckha si accostò alla passerella, poi scese lungo le sponde del torrente e si chinò, sotto il ponte, fingendo di lavarsi le mani. Rimase in gran silenzio nascosta tra i ciocchi trasportati dalla corrente e le radici degli alberi che abbracciavano le ripe scoscese, osservando intensamente l'acqua scorrere e, nel frattempo, scrutando discretamente intorno con l'intento di scoprire l'eventuale presenza misteriosa che l'aveva turbata. Nella quiete del mattino i rumori del bosco erano ancora più distinti: il gorgoglio del torrente sembrava il cianciare delle donne affaccendate a lavare i panni nel lavatoio del paese e il vento brontolava tra i tronchi e le foglie degli alberi non so quale vocio indistinto; ed il suono che si generava variava di tonalità, a secondo dell'intensità del vento, passando da un vociare lontano di stadio ad un lento ed indistinto fruscio, simile a quello rapido ed interrotto che le lucertole emettono quando si spostano tra le foglie accatastate lungo il sentiero, quando sono alla ricerca di insetti. E tra un intervallo e l'altro di tale brusio Verusckha avvertì ancora una volta lo strano indefinibile lamento che questa volta sembrava simile ad un leggero sibilo prodotto quando il vento attraversa le cataste di legna messa ad asciugare al sole ai bordi delle radure di faggio. Poi risentì più vicino un leggero fruscio di frasche smosse e provò a sporgersi oltre i tronchi che formavano il ponte cercando di non provocare il benché minimo rumore o movimento brusco per evitare di farsi notare. Fu così che le sembrò di intravedere, nella ragnatela di luci ed ombre che il sottobosco formava attraverso il filtraggio dei raggi del sole, una sagoma scivolare tra i tronchi di cerro: "Sarà una martora o uno scoiattolo", pensò. Ma rimase abbastanza in dubbio perché quella sagoma che aveva intravisto le sembrava si muovesse eretta e, poi, le era parso portasse in testa una sorta di copricapo affusolato di colore verde, alla cui estremità ondeggiava un vaporoso ponpon di color rosso. Nei giorni che seguirono Verusckha penso più volte alla strana apparizione e si ricordò anche dei racconti narrati più volte dalla nonna nelle lunghe serate invernali, seduti insieme ad altri bimbi, davanti al ciocco ardente che bruciava nel caminetto. "Nei boschi" ? raccontava la nonna? "una volta vivevano gli Elfi. Erano piccoli folletti buoni, che aiutavano le piante a non morire durante l'inverno. Quando la neve cadeva ed il freddo induriva il terreno, essi mantenevano tiepida la terra attorno alle radici delle piante ed aiutavano la linfa a scorrere, senza ghiacciarsi, all'interno dei tronchi e così gli alberi non morivano. In primavera, poi, assistevano i rami per permettere alle foglie di germogliare senza farsi del male. Sapevano anche medicare le piante quando un ramo si rompeva per l’azione del vento o quando i boscaioli ne tagliavano i tronchi per far legna. Gli Elfi intervenivano bloccando l’emorragia della linfa, deponendo sui rami spezzati un impasto miracoloso d'erbe e di argilla che alleviava anche il dolore della pianta". "Gli Elfi ? diceva la nonna ? non si fanno vedere perché hanno paura dell'uomo e ne temono la crudeltà. Essi sono dei minuscoli esseri sensibilissimi che rispettano la natura e soffrono quando assistono agli scempi compiuti dall’uomo al bosco ed alla montagna. Per questo sfuggono gli uomini e se ne stanno sempre nascosti senza farsi mai vedere. Animano il bosco soltanto quando non c’è più nessuno e quando non avvertono più alcun rumore. Solo un bimbo una volta ebbe la fortuna di incontrarli e di parlare con loro". "Era un bimbo straordinario che amava la natura e gli animali. Attraversando il bosco soleva accarezzare le piante mentre gli passava vicino come fossero vecchi amici e fischiava ai cardellini che, saltando da un ramo all'altro, rispondevano al suo richiamo e lo accompagnavano per lunghi tratti. Passeggiava nel bosco badando a non calpestare o distruggere i nidi della formiche ed evitava anche di rompere le ragnatele tese dai ragni tra i rami nel bosco. Non recideva neppure un fiore e quando a primavera spuntavano le viole si chinava sulle ceppaie o sui grotti, sui quali fiorivano, per gustarne l’intenso profumo, ma non ne raccoglieva neppure una da portar via”. A differenza degli altri bambini, che si divertivano a catturare ed imprigionare in scatole o sacchetti di plastica lucertole, cervi volanti, farfalle o altri insetti, egli rifiutava simili crudeltà e sovente aiutava anche le lumache intente ad attraversare la strada prelevandole delicatamente e deponendole ai bordi del sentiero per evitare che qualche mezzo in transito potesse schiacciarle. "Gli Elfi l'avevano visto, ma soprattutto avevano compreso il grande rispetto che portava alla natura e si erano abituati alla sua presenza senza averne più timore. Così un giorno che discese in una scarpata per liberare un coniglietto selvatico che si era impigliato in una radice che affiorava dal torrente e che rischiava di morire annegato, il bimbo scivolò slogandosi una gamba. Forse sarebbe rimasto senza soccorsi per chissà quante ore prima che qualcuno potesse avvistarlo, anche perchè era orfano dei genitori e viveva con una vecchia nonna che riusciva a mala pena a contenere la sua vivacità. Ma gli Elfi spuntarono a centinaia dal bosco, e lo curano con degli unguenti miracolosi impastando erbe medicinali ed argilla, che solo loro sapevano preparare, ed in poche ore il bimbo fu in grado di tornare a casa dalla nonna, che era già in apprensione e lo stava cercando con l'aiuto di alcuni vicini". Egli raccontò l'avventura vissuta e l'aiuto ricevuto dagli Elfi. Descrisse nei dettagli l'incontro avuto nel bosco e gli strani personaggi conosciuti ed i loro fantasiosi costumi. Descrisse nei minimi dettagli l’assistenza che gli avevano fornito e la lozione miracolosa di erbe e d’argilla con la quale l’avevano curato e che gli aveva permesso di poter nuovamente camminare. E per rafforzare la descrizione dei fatti, indicò i segni dell'incidente di cui conservava la cicatrice ancora fresca sulla gamba. Ma nessuno gli credette anzi dai più fu anche preso in giro e minacciato di essere sculacciato se non la smetteva di raccontare stupide storie per giustificare le sue scappatelle e le lunghe assenze da casa. La nonna di Verusckha ripeteva sempre che, invece, lei aveva sempre creduto alle cose dette da quel bimbo perché lei era convinta della reale esistenza degli Elfi e dell’opera da questi folletti per salvaguardare la natura. Era, inoltre, certa che gli Elfi potessero ancora scoprirsi soltanto a quei bimbi che avessero un grande rispetto per la natura ed un grande amore per tutti gli esseri viventi che popolavano il bosco. Nei giorni successivi Verusckha ripensò più volte al racconto della nonna mentre si addentrava nel bosco ed un giorno che risentì di nuovo lo strano lamento, che gli aveva suscitato tanta curiosità, ma anche uno profondo sentimento di pietà e di tenerezza, si fermò e guardò attentamente nella fitta boscaglia: fu così che le parve di vedere tra le radici di una ceppaia di nocciuoli che erano cresciuti ai bordi di un grotto una piccola e goffa sagoma ripiegata su se stessa e provò ad avvicinarsi con la massima cautela. Non era del tutto tranquilla anzi era pervasa da uno strano tremore, ma era fortemente animata a scoprire la natura di tale apparizione e le cause di quel lieve lamento, che divenne sempre più distinto e percepibile man mano che si avvicinava alla fonte di emissione. Quando ne fu quasi a ridosso, si accorse che tra i rami e le frasche vi era una specie di anfratto dove notò uno strano esserino, alto poco più di un coniglietto, ripiegato su se stesso e coperto da una mantellina del color del mantello di un daino con in testa uno strano cappuccio verde che terminava con un ponpon vaporoso color rosso ripiegato su un lato. "Tu sei un Elfo ? esclamò Verusckha cercando di nascondere in un mezzo sorriso il tremore che, comunque, la pervadeva ? ti ho riconosciuto, sai. Perché piangi?" Il folletto si voltò lentamente ed asciugandosi il viso disse: "Tu sei buona! Ti abbiamo visto altre volte ed abbiamo sentito le tue parole che hai rivolto al vento. Abbiamo notato il tuo amore per la natura e la generosità del tuo animo e di te non abbiamo paura perché sappiamo che tu non ci faresti mai del male e per questo di te possiamo fidarci". "Siamo convinti che nessuno ti crederà se racconterai di questo nostro incontro anche perché l'animo dell'uomo è diventato troppo arido ed i sentimenti di bontà non albeggiano più nel suo cuore. Anche la fantasia, che un tempo lo aiutava a superare i momenti di difficoltà, in lui è morta e con essa è scomparso anche l’interesse dei bimbi verso il mistero armonioso della natura che si rinnova con il mutare delle stagioni e si è esaurito l'amore per le altre creature viventi che popolano la terra". "Senza questo amore la nostra esistenza è terribilmente in pericolo. Man mano che l’uomo distrugge i boschi, costruendo nuove strade asfaltate e cementificando anche i vecchi sentieri, il nostro regno diventa sempre più piccolo ed è sempre più invaso dalle costruzioni, dall'immondizia, dai rumori e dai veleni degli scarichi velenosi delle automobili. L’uomo ormai lascia le tracce della sua presenza senza più alcun riguardo e senza alcun rispetto verso gli altri esseri viventi insudiciando ogni angolo del bosco e scaricando ogni sorta di materiale inquinante nei fiumi e nei torrenti; così facendo rende impossibile la vita dei pesci e nei fatti uccide anche tutti gli altri esseri che vivono nell’acqua e che, anche con la loro azione e cura, la rendono pulita ed utile per le attività stesse dell’uomo. Guardati attorno e vedrai il degrado di ogni cosa. Quando un tempo gli adulti avevano più rispetto per la natura ed educavano anche i loro figli a salvaguardarla, i bimbi credevano nella presenza dei folletti e nell’azione da noi svolta a difesa dell’ambiente. Noi eravamo felici perché ci sentivamo ricordati ed amati e sapevamo che tutti apprezzavano l’opera da noi svolta”. "Ma oggi i boschi sono invasi da sacchetti di plastica e da lattine vuote abbandonate dappertutto e la gente accende i fuochi e si dimentica di spegnerli completamente. Questi si sviluppano, poi, bruciando un gran numero di piante ed anche i nidi con i piccoli degli uccelli, costruiti tra i rami, vengono distrutti dalle fiamme. Ma questa devastazione non risparmia neppure altre specie di animali indifesi, compresi quelli che vivono nelle tane scavate sotto i tronchi degli alberi, che perdono atrocemente la vita contribuendo a mettere in serio pericolo la riproduzione futura della loro specie". "Anche i folletti del bosco subiscono le conseguenze di queste devastazioni. La nostra specie decresce sempre più e quelli che rimangono non riescono più a prestare sufficiente assistenza per salvare le piante e gli animali, per spegnere gli incendi e per tenere pulito il bosco. E più la gente ci dimentica, più i bimbi smettono di amarci, e maggiormente la mancanza del loro amore è per noi come un veleno che distrugge la nostra vita”. "Soltanto pochi sono i bimbi che, come te, ci fanno vivere; ma il nostro numero si è ormai così miserevolmente ridotto che non riusciamo più a svolgere la nostra opera come un tempo, quando eravamo in tanti, ed il bosco era pieno di vita, di canti di uccellini e di fiori". "Ecco, adesso penso avrai capito il motivo della mia malinconia. Ma tutto non è ancora perduto. Possiamo ancora salvare l'ambiente e la natura e tu potrai darci un grande aiuto per raggiungere questo obiettivo raccontando agli altri bambini quello che hai visto e le cose che oggi tu hai sentito. Gli adulti non ti crederanno ma tu adesso sai che gli Elfi esistono davvero nel bosco ed avrai potuto comprendere anche tutta la fatica che questi sostengono affinché le bellezze che ci circondano non deperiscano ma ritornino più rigogliose di prima. Ma se gli adulti non crederanno alle cose che racconterai sicuramente sarai creduto dagli altri bimbi e così potrai, lentamente, contribuire con il tuo amore per le cose belle a far si che il degrado della natura si interrompa e che il bosco possa rinascere e ritornare pulito come un tempo”. “Nel momento in cui ritornerà nei cuori la bontà e gli animi diventeranno più sensibili anche gli Elfi ritorneranno in gran numero a vagare infaticabili nei boschi per aiutare i fiori a nascere a primavera e gli uccelli a nidificare in gran numero tra i rovi e sui rami degli alberi" "Tu sai dove e come trovarci quando avrai bisogno di noi. Se, poi, chiuderai gli occhi e ci penserai intensamente noi ti saremo immediatamente vicini e vedrai che con il nostro aiuto potrai superare tutte quelle difficoltà che incontrerai per raggiungere questo obiettivo. Siamo convinti che riuscirai a trasmettere il tuo amore a tanti altri bambini che, come te, credono alla fine delle devastazioni nei boschi ed al ripristino dell’ordine naturale”. Verusckha voleva dire qualcosa, ma una strozza d'angoscia le opprimeva il cuore. I suoi occhi si riempirono di lacrime, per la profonda tenerezza che provava e la vista gli si annebbiò non riuscendo più a vedere nulla attorno a se. Quando si riprese e si asciugò gli occhi del folletto non c’era più traccia, ma avvertì in lontananza un rumoroso frusciare di frasche e le giunse l’eco di gioiose gridoline che si perdevano pian piano nel fitto del sottobosco che circonda la Fonte dell’Usignolo nel cuore dell’Appennino pistoiese.
Nota: Il torrente Occhiali esiste sul serio ed anche la Fonte dell’Usignolo, come esiste la protagonista del racconto, Verusca, che è la mia nipotina che frequenta la prima elementare ed esiste anche Ketty, che è la mia cagnetta. Bruno Bruno era un uomo tranquillo, tranquillo e buono. Eppure la sua vita non era stata tutta rose e fiori, come si suol dire, anzi tutt'altro. Ad otto anni, insieme ad una sorellina di 6 anni, aveva perso la madre, ed il padre, un operaio di una grossa impresa chimica siciliana, non sapeva come fare per star dietro ai problemi della famiglia ed a quelli del lavoro. Rosetta, la sorellina, fu affidata ad una zia che non aveva avuto bambini; Bruno, invece, visto che era più grande e poteva già badare a se stesso, restò con il padre aiutandolo alla men peggio ad accudire ai bisogni della casa. Per qualche anno le cose andarono per il meglio, poi suo padre si risposò con Domenica, una contadinotta ignorante e grassottela, che, sfruttando la bontà di Bruno, lo sottomise ad ogni sorta di angherie riprendendolo a più riprese per ogni nonnulla. Le cose si complicarono, qualche anno dopo, con la nascita di un bambino. Bruno non solo continuò ad accudire alle incombenze familiari, pulendo, rassettando, cucinando, ma dovette anche badare al nuovo arrivato e tutte le volte che commetteva qualche piccolo errore erano sgridate e percosse anche in maniera molto violenta. Egli non reagiva mai. Subiva e poi si sfogava nella sua cameretta davanti alla foto della mamma morta. Nonostante questo riusciva anche a studiare. Il parroco della vicina parrocchia gli dava delle lezioni serali, ma spesso stanco per l'intenso lavoro della giornata, si addormentava sul tavolo ed il prete non aveva neppure il coraggio di svegliarlo e lo lasciava riposare tranquillo. Lo accompagnava, poi, a casa e se incontrava suo padre gli raccomandava di aiutarlo in quanto era un ragazzo volenteroso e sarebbe riuscito negli studi se fosse stato messo nelle condizioni di disporre più tempo per questo. Evidentemente il parroco conosceva le condizioni familiari in cui viveva Bruno; non che questi ne avesse accennato mai, anzi; solo che era bastato poco al buon prete per capire che la vita di Bruno, dopo la morte della mamma, era cambiata profondamente. A quindici anni Bruno si presentò per sostenere gli esami di licenza media. Il parroco aveva pensato bene di intercedere per lui presso il preside della scuola affinché gli fosse dato un aiuto. Ma agli esami dimostrò conoscenze sufficienti per non avere bisogno di nessuna spinta e la licenza media la conseguì anzi con una discreta valutazione. Rimase ancora qualche anno nel paese sopportando con pazienza e senza mai perdere la calma le angherie familiari. In paese era benvoluto da tutti. Sorrideva sempre a quanti incontrava per la strada ed era premuroso con tutti coloro che avessero bisogno del suo aiuto. Al compimento del suo diciottesimo anno di età la TV aveva cominciato le trasmissioni televisive in Italia. Quando la ricezione fu attivata anche in quel paese il titolare del bar del centro aveva acquistato un apparecchio televisivo che aveva collocato nel suo locale. Bruno era molto interessato al telegiornale ed alle trasmissioni con dei contenuti culturali e sociali, e li seguiva attentamente quando riusciva ad avere un momento di libertà dagli impegni familiari. Fu appunto dalla televisione che apprese che l'Amministrazione delle Poste aveva bandito un concorso nazionale, riservato ai possessori di licenza media, per l'assunzione di portalettere da utilizzare nelle sedi postali periferiche e decise subito di parteciparvi. Fu convocato a Roma per le prove scritte. Era la prima volta che si allontanava da solo da casa ma provò un'emozione immensa attraversando lo stretto e lasciando alle sue spalle la Sicilia. A Roma aveva dei lontani parenti che lo ospitarono per i giorni del concorso. Quando vide alle prove tanti concorrenti si scoraggiò alquanto e le sue speranze di riuscita si ridussero a zero quando cominciò a sentir dire che tutti erano raccomandati, che i posti erano già stati assegnati e che, quindi, era impossibile sperare. Invece, sei mesi dopo fu convocato per la prova orale. Bruno lesse la lettera di convocazione e non credette ai suoi occhi tanto era felice. Ripartì per Roma e questa volta si sentì più tranquillo e più sicuro. Non sperava nulla, ma un presentimento interiore gli aveva infuso la speranza di riuscire a centrare l'obiettivo di un posto statale. Era il sogno di tutti i meridionali conquistare un posto sicuro nella pubblica amministrazione. Questo significava uscire dalla precarietà ed assicurarsi un avvenire tranquillo. Agli orali Bruno influenzò bene la Commissione esaminatrice con le sue risposte: questa fu ben predisposta verso di lui anche per i suoi modi cortesi e per la pacatezza e profondità delle risposte fornite. Gli andò bene. Qualche mese dopo lesse sulla Gazzetta Ufficiale la graduatoria: era tra i primi. Subito dopo fu sottoposto a visita medica per la verifica dell'idoneità alle mansioni da svolgere ed ebbe anche la fortuna di non aspettare troppo: la lettera di assunzione non tardò ad arrivare e la destinazione era per un piccolo ufficio ai piedi delle montagne in un paesino del Nord Italia. Non si aspettava d'essere mandato così distante, anche perché non voleva allontanarsi troppo dalla sorella, alla quale era molto legato. Ma ad un posto statale non voleva proprio rinunciare in quanto di lavoro, nel paese dove viveva, proprio non ce n'era. O facevi il bracciante, accettando la condizione di saltuarietà e precarietà di un lavoro pesante e mal pagato, oppure emigravi. E poi che aveva studiato a fare? Se poteva trovare di meglio, anche se lontano da casa, non importava. Meglio in Italia, diceva a tutti, che all'estero. E poi, pensava, un domani, se avrò fortuna, potrò di nuovo essere trasferito in Sicilia. Così si preparò alla partenza dopo aver abbracciato la sorella e salutato tutti i parenti e gli amici del paese. Alla nuova destinazione arrivò all'inizio di una settimana nel cuore dell'inverno. La neve l'aveva sempre vista da lontano, sull'Etna. Nel suo paese, adagiato sul mare, il sole splendeva da marzo a novembre ed anche la pioggia era avara a cadere, pur se tanto necessaria alla campagna. Aveva osservato dal treno il paesaggio che cambiava. A Milano si era trasferito al terminale di una corriera che lo avrebbe portato a destinazione. Dal finestrino guardava con apprensione i paesi e la campagna bianchi di gelo e man mano che la corriera si inerpicava su per la montagna si accorse che la neve copriva ogni cosa. Quando finalmente scese dalla corriera si trovò davanti un paesaggio completamente diverso dal suo. La prima cosa che avvertì fu il freddo secco e pungente che gli gelò le gote e le orecchie. Sulla corriera aveva cercato di socializzare con la gente, ma si accorse subito che molti lo guardavano con diffidenza e, nonostante il suo modo cortese e tranquillo, pochi gli rivolsero la parola. Guardò attorno quasi a rendersi conto dove si trovasse e vide davanti a sè una catena di montagne altissime tutte imbiancate di neve. Ma la neve era dappertutto, sui tetti, sugli alberi, agli angoli delle strade. Era arrivato con un paio di scarpette leggere che ben presto si dimostrarono inadatte sia per ripararlo dal freddo, sia per sopportare le condizioni di innevamento delle strade. Chiese a qualcuno dell'ufficio postale e si sentì rispondere con un linguaggio strano ed incomprensibile: un dialetto spiccicato e mozzo che non sarebbe servito a fargli capire nulla se non fosse stato accompagnato dal gesticolare delle mani che gli fecero comprendere che non era distante. Seguì quelle indicazioni e da lì a qualche centinaia di metri incrociò l'insegna delle Poste. Entrò, salutò e si presentò allo sportello. Vi era solo un'impiegata anziana che appena sentì che era il nuovo postino, avviò una loquace discussione, intercalando parole italiane a parole in dialetto locale, nel corso della quale Bruno capì che era il ben accetto in quanto da anni quell'impiegata doveva fare di tutto, dalla pulizia dell'ufficio alla consegna della posta nelle frazioni, ed ormai non ci sperava più nell'aiuto che aveva tante volte richiesto. "Vedi - gli disse - qui è difficile trovare personale locale. Buona parte della popolazione preferisce il lavoro nelle fabbriche dei paesi vicini. Con il cottimo e qualche turno si riesce a portare a casa un salario senz'altro più adeguato rispetto a quello che ci offre la nostra Amministrazione". Poi lo guardò e cominciò a ridere: "Certo - disse - con quelle scarpette ai piedi di lettere ne consegnerai ben poche. Qui caro ragazzo bisogna che tu ti attrezzi indossando degli scarponi da montanaro altrimenti andrai a finire in ospedale prima ancora di iniziare di lavorare" Bruno rimase perplesso. E dove trovare un paio di scarponi in un paese dove solo per caso esisteva una bottega di generi alimentari ed un tabaccaio con un piccolo bar annesso? "Per i primi giorni, se lo accetti, - aggiunse l'impiegata - posso darti un paio di scarponi ed un pastrano del mio povero marito che è morto tanti anni indietro. Spero siano della tua misura. A fine settimana, poi, ci sarà il mercato settimanale degli ambulanti e lì vedrai che troverai tutto quello che ti occorre per non morire di freddo". Ringraziò e l'indomani, un po' a disagio nel nuovo abbigliamento, iniziò a distribuire la posta accompagnato dalla sua collega che cercò di insegnargli strade e frazioni del paese. Ma il giorno dopo dovette arrangiarsi da solo. Fu veramente dura. Partì a piedi alle 9 del mattino con un borsone carico di corrispondenza e pacchetti ed alle tre del pomeriggio era ancora in giro per consegnare le ultime lettere. "Santo cielo, ragazzo, - gli disse l'impiegata il giorno dopo - devi darti una regolata e fare più in fretta a distribuire la posta altrimenti rischi che la notte la passi per strada". Bruno, con la solita sua mitezza e con un sorriso, si scusò. Spiegò che gli era difficile comprendere le indicazioni che gli venivano fornite dai valligiani per via di quel dialetto incomprensibile. E poi sulle case non c'era nessuna targhetta di chi ci abitasse dentro. Ed a cosa sarebbe poi servita in un paese dove tutti si conoscevano? Passarono gli anni, nel paese si svilupparono diverse iniziative turistiche e qualche anno dopo fu impiantata anche una piccola fabbrica per la costruzione di sci che diede ulteriore lavoro ad una trentina di addetti. Furono avviate anche altre piccole attività produttive. La costituzione di nuove famiglie e l'aumento delle nascite costrinse l'amministrazione comunale ad ampliare anche l'esistente scuola elementare. Nel frattempo la vecchia impiegata, avendo raggiunto l'età per la quiescenza, era andata in pensione e Bruno rimase solo a disbrigare tutte le incombenze dell'Ufficio. Aveva dovuto arrangiarsi ad imparare il dialetto che adesso, anche se non parlava, capiva perfettamente. La gente aveva fatto in fretta ad apprezzare la sua disponibilità ed era particolarmente predisposta nei suoi riguardi per il suo comportamento gentile. Non si era mai alterato con nessuno, neppure con quelli che arrabbiati con l'Amministrazione Postale non gli avevano qualche volta risparmiato del "terun" e questa sua bontà, nel lungo periodo, cominciò a dare i suoi frutti. La popolazione locale era composta in prevalenza da persone semplici e gran lavoratori. Erano tutti impegnati sia come operai in fabbrica che come contadini nel lavoro della campagna. E chi faceva l'operaio aveva sempre un pezzo di terreno ed una stalla con le bestie da accudire o i lavori dei campi da seguire. Per questo vedevano il lavoro di ufficio come qualcosa di complesso e artificioso. Tutte le volte che c'era un versamento da fare, una raccomandata da spedire, un telegramma da scrivere, un pacco da confezionare chiedevano aiuto a Bruno, che non si tirava mai indietro. Moriva qualcuno, e Bruno pronto a trovare le frasi appropriate per un telegramma; si sposava qualcun'altro e Bruno pronto a predisporre decine di telegrammi con frasi d'augurio diverse tra loro; c'era un vaglia da spedire e l'utente dimostrava qualche difficoltà e Bruno era pronto a compilare il modulo; un pacco da spedire e Bruno pronto con carta, colla e spago per confezionarlo. Tutto questo impegno logicamente gli sottraeva tempo prezioso al lavoro del suo ufficio. Ma Bruno non si preoccupava. Spesso si portava il lavoro a casa e lì trascorreva lunghe ore a mettere a posto libri e contabilità. A lui interessava soltanto essere utile agli altri. E la gente lo ricambiava per questo suo impegno con stima ed amicizia. Spesso anche a casa non veniva risparmiato. Non era raro che arrivasse gente alle ore più impensate incaricandolo per l'indomani delle più disparate operazioni postali: una raccomandata, un vaglia, dei versamenti o dei prelievi sui loro libretti di risparmio. Spesso erano persone che per i loro turni di lavoro o per qualche malattia di un familiare non riuscivano a recarsi all'ufficio postale nelle ore di apertura. E la fiducia verso Bruno era tale che non avevano alcun timore di consegnargli a volte anche ingenti somme di denaro da depositare sui loro libretti postali. La sua casa era sempre aperta a tutti, sempre cortese, senza mai rifiutarsi di fornire un consiglio, un aiuto o di fare un piacere. Passarono gli anni ed anche la certezza dell'impiego nella pubblica amministrazione cominciò ad essere messa in discussione. Come per altre attività produttive pubbliche anche negli uffici postali fu introdotto il principio della privatizzazione. La logica dell'impresa si consolidò e con essa i discorsi sulla produttività e sull'efficienza cominciarono ad avere le prime negative conseguenze. Fu deciso così che l'Ufficio di Bruno doveva essere chiuso assieme a tanti altri piccoli uffici della provincia. Appena trapelò la notizia in paese scoppiò la rivolta. Alla popolazione non gli importava nulla se avessero chiuso l'ufficio. Ormai in tutte le case c'era un'automobile e si poteva andare anche a fare le raccomandate al paese vicino. Ma la gente non voleva perdere Bruno. Si cominciò con le petizioni, con le assemblee in piazza, con le convocazioni del consiglio comunale. Anche i bambini delle scuole inviarono le loro letterine al Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni. Nulla da fare. A Roma avevano ormai deciso di chiudere e su quella decisione nessuno voleva tornare indietro. Anche la Televisione fu coinvolta. Una troupe di giornalisti arrivò in paese e lo trovò in subbuglio. Striscioni all'ingresso del paese, scritte sui muri, cartelloni appesi nelle botteghe, locandine affisse alle finestre delle case e della scuola. La televisione intervistava il paese intero. Tutte le persone che sfilavano davanti alle telecamere non facevano altro che esaltare le qualità umane e la disponibilità dimostrate da questo impiegato che, arrivato dal profondo Sud, aveva saputo conquistarsi l'affetto di tutta la popolazione e la simpatia di tutti i bambini del paese ed adesso nessuno voleva che venisse trasferito altrove. Bruno non si era sposato. La sua famiglia era ormai la popolazione di quel paese, i suoi figli erano i bambini, tutti. Con loro spesso, nelle sue ore di libertà, giocava a pallone ed aveva anche messo su una piccola squadra di calcio che ogni tanto disputava piccoli tornei locali. E lui, quei bambini, li amava come fossero suoi ed era sincaremente ricambiato. Davanti alla telecamera urlarono in coro "Bruno, Bruno" e a chi li intervistava rispondevano che non volevano che Bruno andasse via. Il Ministero, di fronte a questa dimostrazione di affetto popolare, alla fine aveva ceduto. L'Ufficio postale, fino a quando Bruno fosse rimasto in servizio, sarebbe rimasto aperto. La bontà aveva vinto sulla burocrazia. Questi, da parte sua, rimase profondamente commosso da tante espressioni di amicizia e di stima, ma la sua vita continuò a scorrere nella più assoluta normalità come se nulla fosse successo. Proseguì a svolgere le sue mansioni ed il suo lavoro con la solita dedizione, con il solito impegno, con la solita disponibilità di sempre. Alla televisione aveva detto poco. Alla domanda come avesse fatto un meridionale a farsi stimare e volere così bene dalla gente in una località dove la "Lega Lombarda" aveva il massimo dei consensi e delle adesioni aveva risposto, abbozzando come sempre un lieve sorriso, con semplicità e sincerità: "facendo il mio dovere". La favola di Natale Il gattino Natalino La neve era caduta abbondante alla vigilia di Natale del 1999 ad Aosta e Natalino, un gattino randagio, a cui era stato dato questo nome proprio perché era stato abbandonato dai suoi padroni nel periodo natalizio di qualche anno prima all’interno del Teatro Romano, da diversi giorni non aveva trovato nulla da mangiare. Negli ultimi tempi, quasi ogni giorno, i volontari dell’Associazione “Amici del Gatto” avevano cominciato a lasciargli, in un angolo riparato del suo rifugio, un po’ di cibarie, ma l’abbondante nevicata aveva precluso loro la possibilità di arrivare vicino al posto dove Natalino aveva stabilito la sua dimora, all’interno di una cavità che il tempo aveva scavato in un vecchio pioppo ai confini della radura circostante il Teatro Romano. Da lì, in caso di pericolo, con un salto, poteva arrampicarsi sulla recinzione vicina e trovare riparo all’interno del confinante Anfiteatro Romano. Natalino aveva imparato molto presto ad arrangiarsi per sopravvivere. Superata l’iniziale difficoltà dell’abbandono attendeva l’arrivo del buio per inoltrarsi tra i vicini vicoli alla ricerca di viveri che spesso, raspando tra le buste dell’immondizia abbandonate vicini ai bidoni, riusciva a recuperare. Ma la cosa durò fino a quando il Comune non sostituì i poco capienti bidoni con dei moderni contenitori difficilmente raggiungibili per via del pesante coperchio che li proteggeva. Nei momenti di maggiore difficoltà si era risvegliato in lui il naturale istinto di cacciatore ed aveva individuato diverse tane di topi o altri roditori dove si appostava in paziente attesa. Spesso, quindi, se ne stava immobile ad aspettare che qualche roditore sprovveduto cascasse tra i suoi artigli e così riusciva a sopravvivere. D’estate a farne le spese erano anche le lucertole, ma in quel periodo era facile che i turisti gli lasciassero anche un po' delle loro cibarie ed il pranzo o la cena era quasi sempre assicurata. Poi erano arrivati i volontari dell’Associazione del Gatto. L’avevano visto un giorno su uno dei muri del teatro e così cominciarono con regolarità a lasciargli qualcosa da mangiare in una ciotola nascosta in un angolo. Dal momento poi che il bisogno aguzza l’ingegno Natalino aveva messo a punto una serie di strategie per assicurarsi un pasto di emergenza. E così non mangiava tutto il contenuto della scodella, ma lasciava degli avanzi che attiravano i roditori che vivevano nel suo territorio. Così si garantiva dei pasti regolari anche quando le risorse scarseggiavano. Ma a Natale del 1999 l’abbondante nevicata aveva ricoperto tutto il piazzale e nessuno si era preoccupato di andare a spalare la neve ai margini del teatro, fra l’altro lontano dal giro abituale dei turisti. Così Natalino, dopo il secondo giorno di digiuno, decise di avventurarsi per i vicoli attorno alla Via Porte Pretoriane alla ricerca di cibo. Ma la città veniva ripulita con regolarità e Natalino non riuscì a trovare nulla per sfamarsi. Desolato si avventurò oltre le Porte Pretoriane ed imboccò, poi, la Via Antica Zecca. Anche qui, però, le case erano state quasi tutte rimesse a nuovo ed i contenitori con i sacchetti dei rifiuti erano ben serrati e difficilmente raggiungibili. La situazione stava diventando preoccupante in quanto la fame aumentava sempre più e gli stimoli si erano fatti insostenibili. Mentre disperato pensava al da farsi si accorse della presenza di un topolino che sortiva da sotto il cancello di una villa in disuso e compiva rapide escursioni nel vicolo in cui si trovava raccogliendo le briciole che gli inquilini della casa vicina avevano fatto cadere nella stradina sottostante scuotendo le tovaglie della tavola. Natalino individuò in quel piccolo roditore la soluzione del suo problema nutrizionale. Si appostò paziente assumendo la posizione tipica dei gatti in fase di caccia. Il topolino con molta prudenza continuava ad uscire da sotto il cancello, raccoglieva rapidamente altre briciole e riparava velocemente al suo ricovero. Questa operazione si stava ripetendo ormai da alcuni minuti e Natalino stava affinando le ultime sue strategie per il salto finale, quando fu distratto dalla comparsa di altri due piccoli roditori ai quali, da li a qualche secondo, se ne aggiunsero altri tre o quattro. Questi, con l’incoscienza tipica dei piccoli di tutto il mondo, cominciarono anche a giocare incuranti del pericolo rappresentato dal vicino felino, per giunta affamato. Ma qualcosa scattò nell’istinto del gatto. La mamma dei topolini rappresentava una buona occasione per fermare gli stimoli della fame, ma i piccoli avrebbero corso un grosso pericolo per la loro sopravvivenza se la loro mamma fosse morta. Ignari di questo profondo dissidio interiore altri topolini sbucarono da sotto il cancello ed anche loro cominciarono una folle corsa rincorrendosi come bambini tenuti per troppo tempo rinchiusi in casa. Il gatto Natalino, continuò a guardare la gioiosa corsa dei topolini e quando la loro mamma gli passò vicino con una crosta di formaggio tra i denti non ebbe il coraggio di saltarle addosso e la lasciò riparare tranquilla oltre il cancello con tutta la sua nidiata. Desolato si era incamminato lungo la stradina per cercare altrove i viveri indispensabili anche per la sua sopravvivenza. Ma il suo angelo custode vegliava per lui e la buona azione appena compiuta non poteva non ricevere la meritata ricompensa. Quindi si stava dando da fare per recuperargli qualcosa da mettere sotto i denti. Albertina, una inquilina del secondo piano del palazzo dove si aggirava Natalino, aveva la cattiva abitudine di lasciare sulla finestra bottiglie e piatti coperti con avanzi del pranzo o della cena. Inavvertitamente spesso abbassava la tapparella e se qualche oggetto era troppo vicino alla corsa della serranda lo colpiva ed inevitabilmente precipitava nella via sottostante. L’angelo custode di Natalino, che come tutti gli angeli conosceva le abitudine di Albertina, guardando verso l’alto vide sulla sua finestra un piatto con un pezzo di bollito ravvolto in una pellicola trasparente. Rapido volò sul davanzale ed intenzionalmente avvicinò il piatto proprio sotto la serranda nel momento in cui Albertina la stava abbassando. Questa, nella sua corsa, lo urtò facendolo precipitare con tutto il suo contenuto nel sottostante vicolo proprio mentre vi transitava Natalino. Il gattino, impaurito, fece un balzo all’indietro, ma il buon odore della carne bollita risvegliò i suoi sensi, affinati ulteriormente dagli stimoli della fame. Rapido afferrò il bel pezzo di carne e di corsa riparò verso il suo rifugio all’interno del Teatro Romano. L’angelo custode guardava sorridendo, seduto su un comignolo, il suo gatto che ritornava al suo giaciglio e lo vide da lontano mangiare con avidità quel pasto ormai insperato, che bastò anche per i giorni successivi. E dato che la buona azione compiuta dal gattino Natalino andava premiata in qualche modo si diede da fare affinché nei giorni successivi tornasse il bel tempo in modo che Natalino potesse ricevere regolarmente le sue razioni di viveri dai volontari dell’Associazione del Gatto. Fu così che il giorno dopo, non si capisce ancora come, sulla città di Aosta cominciò a soffiare un vento caldo che, nel volgere di un paio di giorni, sciolse tutta la neve.
****** Se qualcuno crede che la favola del gattino Natalino sia inventata rimanga pure nella sua convinzione. Sappia, però, che il giorno 26 dicembre del 1999 soffiò davvero un vento caldo sulla città che sciolse tutta la neve anche all’interno del Teatro Romano. Se, poi, vi sono ancora altri increduli facciano una passeggiata all’interno del Teatro o nei suoi dintorni e se tra i tanti gattini che vi stazionano ne troveranno uno dal pelo grigio e dagli occhini svegli, provino a chiamarlo Natalino. E se a quel richiamo quel micino dovesse voltarsi può darsi proprio che si tratti del gatto della nostra favola che proprio il giorno di Natale del 1999 compì anche lui, a suo modo, la sua buona azione natalizia.L'asino di St. Denis Viveva un tempo a St. Denis, un paese della media valle d'Aosta, una numerosa famiglia di contadini tanto poveri che a stento riuscivano a combinare il pranzo con la cena. Nella bella stagione, dal levar del sole al tramonto, lavoravano i loro campi. Periodicamente, poi, tagliavano e rivoltavano il fieno al sole affinché seccasse bene. Poi lo raccoglievano e lo conservavano nei loro fienili per utilizzarlo, nel periodo invernale, per le loro bestie. Le loro proprietà si estendevano su terreni accidentati in gran parte a ridosso della montagna. Solo nel fondo valle, a fianco della mulattiera che conduceva ad Aosta e che era percorsa periodicamente dalle carovane di commercianti che trasportavano nel Capoluogo a dorso di mulo le loro mercanzie, possedevano un appezzamento di terreno pianeggiante dove coltivavano, oltre alla vigna, le patate, gli ortaggi e legumi vari per i loro bisogni familiari. Il lavoro dei campi era duro ed impegnava tutta la famiglia ed anche i bambini più piccoli davano una mano rivoltando il fieno al sole e aiutando a raccoglierlo o prestando aiuto per altri piccoli lavori. Per il trasporto dei prodotti agricoli che producevano si servivano di Morello, un asinello che pazientemente si inerpicava più volte al giorno su e giù per il sentiero che portava al casolare della numerosa famigliola. Questi aveva appreso a memoria il percorso: una volta che gli era stato assicurato il carico in groppa si avviava lentamente, percorrendo per un centinaio di metri lo stradone principale, e poi iniziava a salire lungo il sentiero che portava al casolare dei padroni e si fermava soltanto quando era giunto davanti al fienile, dove vicino c’era anche la sua stalla. Prima di affrontare la salita si dissetava ad una fonte che sorgeva sull’incrocio con il sentiero, dove anche le carovane di passaggio si fermavano per abbeverare i loro animali. Così per mesi ed anni dall’inizio della primavera fino al tardo autunno, con esclusione del periodo invernale, quando se ne restava nella stalla tranquillo per lunghi periodi a ruminare la sua razione giornaliera di fieno e biada ed a ricevere la visita rumorosa dei bambini che si intrattenevano spesso con lui accarezzandolo o saltandogli in groppa per gioco. Purtroppo non tutti gli anni i raccolti erano abbondanti. Accadde così che un anno una tremenda carestia colpì tutta la regione e questa famiglia, per realizzare un po’ di soldi per sfamarsi, decise di vendere l'asino. Grande fu il loro dispiacere di doversi privare dell’asino che era tanto utile per il loro lavoro ed al quale si erano ormai anche affezionati. Ma, soprattutto, lo fu per i bambini che con Morello facevano delle lunghe sgroppate nei loro momenti di svago. Purtroppo, non avevano altra via di uscita per reperire le risorse indispensabili per poter sopravvivere e superare l’inverno che era alle porte. L’asino fu portato ad Ivrea, al mercato del bestiame, e fu venduto ad un commerciante piemontese che trafficava in derrate alimentari, principalmente nel Canavese. Per Morello iniziò un periodo di intenso lavoro e dura fatica, dovendo trasportare per tutto l’anno carichi sempre più pesanti, senza più la sosta ristoratrice del periodo invernale, quando se ne restava tranquillo al caldo nella stalla insieme agli altri animali. Così passarono i mesi ed anche gli anni, e Morello continuava nel suo duro lavoro con continui spostamenti in diverse località del Piemonte. Un giorno sul finire dell’estate il commerciante caricò come al solito i suoi muli e gli asini di ogni sorta di mercanzia e si mise in viaggio. Per la prima volta aveva ricevuto degli ordini da un rivenditore di Aosta e si preparava a consegnare tali prodotti prima che arrivasse l’inverno per evitare le abbondanti nevicate che allora cadevano in tutta la Regione. In quei tempi era facile lungo le mulattiere imbattersi anche nei briganti. Per questo aveva nascosto in alcuni sacchi di farina delle borse piene di marenghi d'oro che poi aveva caricato sulla groppa di Morello e di altri muli. Verso l'imbrunire la carovana giunse al bivio per St. Denis e si fermò per riposarsi e dissetarsi proprio alla sorgente dove Morello tante volte in passato si era dissetato. L’asino riconobbe il posto e si fermò alla fonte insieme alle altre bestie. Poi, dopo aver bevuto, senza che nessuno della carovana se ne accorgesse, istintivamente iniziò ad arrampicarsi su per il sentiero che portava alla sua stalla d'un tempo. Vi arrivò circa due ore dopo e, come sua abitudine, si fermò davanti al fienile. Un sonoro raglio annunciò la sua presenza, facendo affacciare incuriositi i suoi precedenti padroni, convinti che si trattasse di qualche parente venuto a far loro visita. I primi ad correre fuori furono i bambini che esultarono di gioia quando si accorsero che l’asino fermo vicino alla stalla non era altri che Morello. Felici gli corsero incontro ad abbracciarlo e baciarlo. Poi arrivarono anche i vecchi padroni che rimasero oltremodo costernati nel vedere il loro asino, stracarico di sacchi, fermo davanti casa. All'inizio tutti pensarono che da un momento all'altro sarebbe arrivato qualcuno a riprenderlo. Invece, passarono le ore e nessuno si faceva vivo per reclamare l’asino e la merce. Il vecchio contadino, che era una persona onesta, allora, decise di raggiungere il bivio sullo stradone insieme ad uno dei figli, ma quando arrivarono nel fondo valle, nei pressi dell’abbeveratoio non trovarono più nessuno se non i resti inorganici del passaggio dei muli e degli asini. Per diverse settimane attesero che qualcuno venisse a reclamare sia l’asino che la merce, che avevano ordinatamente accatastato nel fienile, al riparo dell’acqua e dall’assalto dei topi. Il commerciante, in effetti, nel momento della partenza si era accorto che gli mancava un asino, ma dopo aver cercato in largo e lungo, ed essere ritornato sui suoi passi anche per alcuni chilometri, pensò che qualche brigante glielo avesse portato via durante la sosta senza che nessuno degli inservienti se ne fosse accorto e, dopo aver imprecato per una buona mezz’ora, si era rassegnato definitivamente per la perdita ed aveva ripreso il viaggio verso Aosta. Fu così che la povera famigliola cominciò a riempire la dispensa utilizzando tutto quel ben di Dio che Morello gli aveva portato in casa prima che la merce si deteriorasse e diventasse inservibile. Per loro fu una fortuna perché poterono ovviare a tante privazioni in cui si dibattevano e superare con un certo benessere un altro inverno. E grande fu la loro sorpresa quando, diversi mesi dopo, attingendo da uno dei sacchi una scodella di farina per preparare il pane, trovarono nascosto quasi sul fondo uno dei sacchetti pieno di marenghi d’oro che il commerciante aveva riposto proprio in quel sacco. Quando l’aprirono si accorsero della fortuna che Morello gli aveva portato in casa in quanto si ritrovarono in mano più di trecento marenghi d’oro che, per quel tempo, erano una fortuna. Nessuno in paese riuscì a comprendere l’improvvisa ricchezza di quei contadini che, in breve tempo, passarono dalla miseria più nera ad una vita agiata. Qualche mese dopo vendettero i loro beni a St. Denis e si trasferirono in una località nei pressi di Aosta, dove acquistarono una grande tenuta agricola; e le cose cominciarono ad andare così bene che in breve tempo aumentarono la loro ricchezza ed il loro benessere. E Morello? L'asinello non lavorò più e visse tranquillo ed amato dai suoi padroni per il resto dei suoi giorni. Questi, infatti, per riconoscenza gli costruirono una confortevole stalla, spaziosa, luminosa e d’inverno anche riscaldata; fu accudito con ogni riguardo ed ebbe a disposizione in abbondanza fieno e biada della migliore qualità. Una mattina di tanti anni dopo lo trovarono morto, adagiato sul fieno come se stesse dormendo. Fu pianto con dolore sincero e seppellito in una tomba di marmo nel giardino di casa affinché tutti si ricordassero nel tempo della fortuna che quell’asinello aveva procurato alla famiglia ed ai suoi eredi. Si dice che nella tomba i padroni avessero nascosto anche una parte delle loro ricchezze in marenghi d’oro. Però, quando l’ultimo degli eredi morì e la fattoria fu venduta il marmo della tomba venne utilizzato per altri scopi dal nuovo proprietario e con il tempo si persero anche le tracce del posto dove era stato sepolto Morello. Molti anni dopo, quando si sparse la voce del tesoro che era stato seppellito nella tomba insieme al vecchio asino, vennero effettuati degli scavi in largo e lungo in tutta la proprietà e vennero anche abbattuti dei grossi alberi per cercare sotto le loro radici, ma dei resti dell’asino e del tesoro non si è più trovata alcuna traccia. Forse il tesoro non c’era mai stato e probabilmente la voce fu diffusa ad arte dai vecchi padroni di Morello affinché nessuno si dimenticasse in futuro del loro asinello e della fortuna che aveva loro regalato. E se l’intento era questo lo scopo è stato ottenuto perché ancora oggi anche noi stiamo continuando a parlare della leggenda dell’asino di St. Denis. Il barbone Il direttore dello stabilimento era arrivato presto quella mattina in Azienda. I dipendenti non si erano neppure accorti che era già nel suo ufficio. Se ne accorse la sua segretaria particolare nel momento che sentì squillare il telefono bianco sulla sua scrivania con il quale, abitualmente, il Direttore la chiamava quando aveva bisogno di lei. Si affrettò verso la sua stanza portando dietro, l’agenda degli appuntamenti ed un blocco per gli appunti. Mentre rispondeva sollecita alla chiamata si premurò, con una intenzionale gesticolazione, di avvisare tutti gli altri colleghi della sua presenza in ufficio. L’azienda stava attraversando un periodo di crisi. La caduta del comunismo, nei paesi dell’Est, aveva rallentato le esportazioni della produzione soprattutto verso quei mercati. Inoltre, la disponibilità di mano d’opera a costi contenuti, offriva nuove possibilità di investimenti e di profitti più elevati, anche se i rischi dei nuovi insediamenti erano più che mai esposti alla instabilità di quei governi. Pertanto, su quei mercati cominciavano ad affacciarsi nuovi concorrenti che, valutando i vantaggi che ne potevano derivare, iniziavano a costruire nuovi stabilimenti industriali producendo in loco molti di quei prodotti che fino a qualche tempo prima venivano importati dall’Italia. Il Direttore aveva già avuto nei giorni precedenti uno scontro violento con l’Amministratore Delegato. Questi era stato attaccato dall’Assemblea degli azionisti per la caduta delle vendite all’estero, che aveva contribuito a far crollare in borsa le azioni della società. Il Direttore aveva cercato di difendersi sottolineando i pericoli legati alle instabilità di quei governi che nei fatti avrebbero potuto rendere precarie le relazioni industriali con conseguenti possibilità di esposizioni finanziarie gravissime per le imprese che si avventuravano in questi nuovi mercati. Aveva cercato di spiegare che le società che stavano facendo investimenti massicci in quei paesi in grandissima parte erano costituite da speculatori, legati per certi versi a società economiche che operavano ai limiti della legalità, spesso investendo soldi provenienti da attività illecite o raccolti in buona fede tra i piccoli risparmiatori, ai quali era stata fatta balenare l’idea di investimenti sicuri con possibili guadagni anche del 15/20% sui capitali impegnati, ma erano stati nascosti i pericoli di possibili fallimenti con conseguente perdita di tutti i beni investiti. Lo scontro tra l’Amministratore Delegato ed il Direttore, tuttavia, era legato anche a problematiche meno recenti. Già in passato c’era stata della ruggine tra i due manager. Infatti, l’Amministratore Delegato era venuto a conoscenza per via indiretta, ma non era riuscito a disporre di prove certe, che il Direttore, a più riprese, stava facendo incetta di azioni della società, diffondendo a volte notizie poco rassicuranti sullo stato di salute dell’azienda. Tali manovre tendevano nei fatti ad incoraggiare alcuni degli azionisti a liberarsi delle loro quote societarie; questi, convinti che la redditività del capitale investito potesse avere dei contraccolpi, preferirono disfarsi lentamente delle loro azioni, che l’astuto manager consigliava a cedere ad una sua società di comodo che, a sua detta, offriva un prezzo senz’altro superiore a quello che avrebbero nei fatti realizzato sul mercato ufficiale. Ma le notizie di possibili ribassi futuri non tardano a diffondersi in certi ambienti e tale situazione aveva determinato una sproporzionata vendita delle azioni che nei fatti si era risolto con un ribasso generalizzato del listino delle quotazioni. La coincidenza del calo delle esportazioni e del ribasso del valore delle azioni aveva acutizzato lo scontro tra i due manager. L’Amministratore Delegato era anche abbastanza preoccupato in quanto l’eventuale controllo sul pacchetto azionario avrebbe potuto modificare gli equilibri di potere dando un maggior controllo, non solo economico ma anche politico, al Direttore sulla società. Il costante ribasso delle azioni nei fatti, però, stava esponendo finanziariamente non solo tutti gli azionisti ma anche il Direttore. Tale situazione offriva margini più ampi di manovra all’Amministratore Delegato per demolire la sua conduzione dimostrando, attraverso i risultati societari, la sua incapacità gestionale e la sua mediocre visione politica nell’aver trascurato di controllare con più attenzione l’evoluzione dei mercati internazionali e sottovalutando l’analisi dei mercati emergenti nei paesi dell’Est, che aveva offerto alla concorrenza occasioni per consolidare la loro presenza e tagliar fuori gli abituali fornitori. Con i tentativi di controllo della società il Direttore si era creato molti nemici. Questi, convinti che il suo rafforzamento li avrebbe tagliati fuori, sfruttarono la situazione per coalizzarsi e stavano per presentargli il conto finale. Quella mattina era arrivato in ufficio prima del solito in quanto voleva cercare di organizzare tutte le forze che gli rimanevano per convincere un gruppo di azionisti amici, con i quali aveva preparato la scalata al controllo della società, ad aver fiducia e non vendere le proprie azioni trattenendole ancora per qualche tempo. Sperava, con questa operazione, di bloccare l’ulteriore caduta dell’indice azionario e cercare soluzioni alternative per il rilancio dell’azienda, proponendo anche una ristrutturazione selvaggia con una riduzione drastica del personale. Ma non aveva fatto i conti con i nepotismi e con le clientele, più o meno organizzate, che pur esistono anche nelle aziende private. Tutte le sue decisioni vennero bocciate sul nascere in quanto nessun azionista voleva che questo o quel collaboratore, che costituiva anche un’ottima fonte di informazione all’interno dell’azienda, venisse licenziato. Anzi la proposta di riduzione del personale fu presentata come una iniziativa dovuta all’incapacità manageriale di prevedere e gestire per tempo i cambiamenti e l’ulteriore crollo azionario che ne seguì, anche per le agitazioni sindacali che investirono l’Azienda, fu occasione di una denuncia in magistratura da parte di diversi azionisti che lo coinvolsero al punto tale che quando l’assemblea propose che fosse sollevato dall’incarico e licenziato, non trovò i numeri necessari per battere gli avversari. La carta bollata e gli avvocati fecero il resto. Riuscì a venirne fuori dalla denuncia di danneggiamento, ma le spese sostenute per la sua difesa gli erosero tutti i risparmi e, per sopravvivere, fu costretto a vendere per quattro soldi le sue azioni e tutti i suoi beni. Per un anno si barcamenò alla men peggio cercando una nuova occupazione. Ma il clamore del processo e la messa in liquidazione dell’azienda gli avevano precluso ogni possibilità di sistemazione futura. Dovette cambiar città ed accontentarsi di vivere in un piccolo alloggio in un quartiere degradato di periferia. Le sue capacità professionali per anni si erano sviluppate nella direzione aziendale e, pertanto, non sapeva svolgere altre attività nè, tantomeno, era in possesso di alcun altro mestiere che gli potesse consentire un purché minimo guadagno. Le sue funzioni, fra l’altro, l’avevano sempre visto coinvolto in ruoli di comando e gestione delle risorse e mal si adattava a svolgere attività di tipo manuali. Quando gli ultimi risparmi furono finiti, non riuscendo a pagare neppure il modesto alloggio dove era andato a vivere, fu costretto a mettere un po’ di indumenti in una valigia, allontanarsi dalla nuova città e stabilendosi in un’altra località dove nessuno lo conosceva. I primi giorni furono drammatici. Aveva lasciato la valigia al deposito bagagli di una stazione ed aveva vagato tutto il giorno per la città. I vestiti erano ancora decenti e, pertanto, riusciva a starsene tutto il giorno in qualche bar ordinando ogni tanto qualche consumazione. Con questo sistema riusciva anche a servirsi della toilette e darsi una a ripulita veloce. Ma con il passare dei giorni l’aspetto e l’abbigliamento cominciarono ad essere più trasandati anche perché non avendo più una casa fu costretto a ripari di fortuna per la notte adattandosi a situazioni alle quali non solo non era abituato ma che lo deprimevano anche moralmente e psicologicamente. Pertanto, le poche volte che cercava di varcare l’ingresso di un bar veniva bruscamente allontanato e anche spintonato se cercava di far resistenza per entrarvi. Si era adattato a trascorrere la notte in un vecchio stabile semidistrutto, dove non era raro che arrivassero altri disgraziati con situazioni personali ancora più gravi delle sue. Qualcuno gli portò via le scarpe mentre dormiva, lasciandogli in cambio delle vecchie calzature anche di misura inferiore a quelle che lui portava. Per non camminare scalzo dovette adattarsi a tagliare la punta delle scarpe per adattarvi il piede. Ma i problemi non erano soltanto subordinati a dove lavarsi o dove trovare una toilette, ma erano legati anche a problemi di sopravvivenza. Non aveva più un soldo ed era ridotto abbastanza male per poter continuare a frequentare i supermercati dove nei primi mesi del suo peregrinare riusciva, fingendo di fare la spesa, di buttar giù dei cibi precotti che deponeva nel carrello e consumava furtivamente girando per i reparti. Ma più di una volta era stato scoperto e si era anche preso qualche denuncia per furto che poi era stata ritirata dai gerenti per evitare più costose perdite di tempo nei tribunali. Spesso, nelle giornate più fredde, passava le sue giornate in chiesa, quando le trovava aperte. Riusciva così a racimolare qualche biglietto da mille che qualcuno, senza che lui lo chiedesse, gli lasciava cadere nel berretto appoggiato sul banco. A volte era costretto a forzare le cassette delle elemosine, ma non era neppure capace di utilizzare il cacciavite con il quale manovrava e sovente si produceva anche delle ferite. Non sapendo più come fare per sfamarsi cominciò a frequentare i locali della Caritas. Qui riusciva, insieme ad altri disgraziati, a mandar giù qualche piatto caldo. Ebbe anche il coraggio di chiedere qualche indumento usato e fu fortunato di trovare anche un pastrano pesante per meglio coprirsi nelle giornate invernali in cui era costretto a restare all’aperto. Per oltre due anni si spostò da una città all’altra, da una stazione all’altra, da una casa demolita all’altra. Il terzo inverno il suo grado di depressione aveva raggiunto il livello più basso. Pensò di togliersi la vita buttandosi sotto un treno di passaggio. Ma cominciò a pensare alle conseguenze del suo gesto ed al coinvolgimento del macchinista e poi, gli mancava anche coraggio per farlo. Gli sembrava una vigliaccheria. Era seduto su una panca di legno di una sala di attesa di seconda classe di una stazione della Toscana. Accusava più che mai l’intensità del freddo, anche perché da qualche giorno non aveva mangiato nulla. Proprio in quella stazione arrivarono quella sera alcuni volontari della Caritas. Gradì moltissimo il latte caldo bollente e le fette di pane imburrate con marmellata che gli offrirono. Non resistette, però, per l’umiliazione e scoppiò a piangere dopo aver ringraziato. Uno dei volontari l’aveva già visto per la città qualche giorno prima. Aveva notato, soprattutto, la sua discrezione e la sua dignità ed aveva intuito che quell’uomo era stato coinvolto, suo malgrado, da un dramma più grande di lui. Cominciò a frequentarlo ed in poco tempo comprese che di fronte non aveva il solito barbone che avesse rinunciato alla vita o che avesse fatto una scelta filosofica isolandosi volutamente dalla società. I suoi discorsi erano compiti e, nonostante le difficoltà in cui si dimenava, aveva conservato una certa raffinatezza nei modi e nel parlare. Dalla conversazione il volontario comprese che quell’uomo aveva senz’altro ricoperto un ruolo di un certo rilievo chissà dove e chissà quando e cercava di capire le motivazioni reali per le quali si era ridotto in quelle condizioni. Con una scusa banale gli propose un incontro nella sede del volontariato per l’indomani. Oltre ad un pasto caldo gli aveva garantito la possibilità di un bagno caldo e degli indumenti puliti. L’indomani i due uomini si incontrarono. La possibilità di potersi lavare e rassettare lo avevano messo di buon umore. All’uscita del bagno era irriconoscibile. Con la barba rasata, i capelli puliti, gli abiti quasi nuovi lo fecero apparire un altra persona. Il volontario non ebbe più dubbi e forzò la mano per conoscere la storia di quell’uomo che aveva di fronte con la promessa di un interessamento per riportarlo, perlomeno, ad una vita normale. E l’ex direttore, interrompendosi più volte per la commozione, raccontò la sua storia e tutte le disavventure in cui era andato incontro dopo il suo allontanamento dall’Azienda di cui era stato direttore. Il volontario, alla fine della conversazione, lo invitò a casa sua e lo sistemò in una stanzetta che aveva adibito a suo studio. Nei giorni seguenti parlò del suo caso con alcuni dirigenti del volontariato che si offrirono di trovargli una collocazione adeguata per un suo recupero e per reinserirlo nella società. Riuscirono a trovargli anche una buona occupazione presso una piccola azienda locale. Non accennarono ad alcuno circa le disavventure a cui era andato incontro o altre situazioni del suo vissuto recente. Da lì a qualche anno recuperò tutte le sue energie e le sue capacità manageriali rifiorirono anche meglio di prima. Sotto la sua direzione la piccola azienda si trasformò in una media impresa triplicando il numero dei dipendenti e migliorando sensibilmente il fatturato e gli utili aziendali. Era cambiato profondamente ed interiormente nei rapporti con la gente. A differenza di prima ora vedeva i suoi collaboratori nell’azienda come uomini e non solo come numeri da manovrare per i risultati di gestione. Questo suo comportamento aveva contribuito a creare uno spirito di collaborazione e di attaccamento all’azienda da parte dei dipendenti. L’assenteismo si ridusse a valori insignificanti e la sua politica di redistribuzione degli utili di gestione migliorò sensibilmente anche le condizioni economiche dei dipendenti. Nei periodi invernali, la sera, spesso si aggirava per i luoghi più degradati e per le sale di attesa delle stazioni con la macchina colma di alimenti, coperte e vestiti, per alleviare le sofferenze ed i disagi di tante persone che vivevano per la strada. Certamente le sofferenze ed i patimenti a cui era andato incontro gli ricordavano in continuazione le difficoltà di tanti altri disgraziati che non avevano avuto la sua stessa fortuna di tirarsi fuori dall’abisso di desolazione in cui era precipitato. Per questo si sentiva obbligato, perlomeno, di porgere quell’aiuto materiale che anche lui avrebbe gradito gli fosse stato offerto nei momenti di difficoltà. Ma non si limitava solo a questo. Cercò a più riprese di recuperare quanti più barboni gli fu possibile, offrendo a volte lavori saltuari nello stabilimento ad alcuni di essi. Nel tempo tali occasioni si tradussero in lavori a tempo indeterminato e diversi di quei disgraziati furono recuperati ad un ruolo attivo nella società. Qualcosa trapelò sulla stampa locale. La sua storia fu raccontata da un quotidiano toscano, ma il suo nome rimase un mistero. Ancora oggi vive in una città della Toscana, conducendo una vita quanto mai modesta e riservata, rifuggendo da ogni superficialità. Può darsi che anch’io l’abbia incontrato qualche sera per strada, soprattutto nel periodo invernale, confuso con un gruppo di volontari e intento a porgere assistenza ai barboni sparsi per la città, ma nessuno è riuscito fino ad oggi a conoscere fisicamente questo personaggio che rimane un segreto, come segreta resta la sua storia che solo in pochi conoscono e che lui preferisce, forse, venga dimenticata. |