Poesie di Adele Condello Santoro


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Adele Condello

Adele Condello è nata a Reggio Calabria il 27 Settembre del 1906 ed è morta per un male incurabile il 14 maggio del 1984.
Due anni dopo la sua nascita, il terremoto del 1908 distrusse buona parte della città lasciandola sotto le macerie, dalle quali fu estratta miracolosamente incolume.
Ultima di cinque figli studiò fino alla sesta complementare e, benché molto portata agli studi, dovette abbandonare la scuola perché il padre, uomo di stampo antico, non accettava che una “donna” dovesse restare fuori di casa per studiare, con il risultato finale che nessuno dei figli maschi riuscì ad ottenere un qualche serio risultato scolastico.
Autodidatta, nel momento del bisogno, si dedicò all’insegnamento privato presso il suo domicilio dando lezioni ai bambini in età scolare e svolgendo attività di monitrice nelle colonie diocesane.
Fervente cattolica fu per diversi anni Presidentessa di Azione Cattolica ed animatrice catechistica.
Le sofferenze per i lunghi anni di solitudine, priva del marito impegnato in guerra nell’ultimo conflitto, e la malattia che la stava consumando negli ultimi anni della sua vita, non le impedirono di scrivere delle belle e significative composizioni, alcune delle quali rappresentano dei veri e propri spaccati di antropologia culturale nel momento in cui vengono descritti avvenimenti e fatti del suo tempo rafforzati da una forte vena poetica e da una singolare perfezione metrica, resa ancora più significativa dalla mancanza di un benché minimo bagaglio di conoscenze nel campo della metrica e della letteratura italiana.
Le sue poesie sono state pubblicate postume ad iniziativa del figlio.

 


I muntanari ra Calabria
Scindunu ri muntagni i muntanari
chi cazettuni e i calandreddhi ‘e peri
chi cerameddhi vininu a sunari
puri i presepi ‘ndi parunu veri.

Aviunu supra ‘a testa mintuti
birrioli longhi ‘i villutu, priggiati;
supra ‘e spaddhi ‘nci staunu scinduti
cu milli nastri ‘i sita ricamati.

I cazi curti, o gi ninocchiu spaccati,
i cinturuni ‘i sola iati, iati,
cammisci chi’ merletti ricamati
sutta ‘i gilè, stritti stritti e ‘ttillati.

Erunu sempri i nostri muntanari
cu’ cerameddhi, organetti e acciarini,
viniuni ‘nta Rriggiu pi’ sunari
‘i porta ‘n porta a Nuvena ‘o Bambinu.

L’urtimu iornu ognunu ‘nci rialava
sordi, turruni, crispeddhi e vvinu,
trasiunu ‘nte casi e si sunava
ravanti ‘o presepiu ru Bambinu.

Chisti sunnu ricordi veramenti,
chi mmi portunu ‘nto cori ‘a nostargia:
Natali e figghiulanza, su’ n’da menti,
cui i muntanari ra Calabria mia.


'A stiddha
'A stiddha manda luci 'a la muntagna
e svigghia lu pasturi addurmiscutu
e 'llumina lu celu e la campagna
li fundali sulitari e muti.

C'è la gioia e l'alligria
'nta 'na rutta di Gesù
mentri è natu lu Missia
li pasturi in festa su'.
E la stiddha pi’ signali
l'addimustra a cu jè jè,
ca l'è notti di Natali
e nasciu lu veru re.

Supra la pagghia c'è lu Bambineddhu
ca' suffri standu misu a lu friddu
mentri lu bboi cu lu sciccareddhu
lu sciatunu e ci fannu lu caluri.

C'è la gioia e l'alligria
'nta 'na rutta di Gesù
mentri è natu lu Missia
li pasturi in festa su'.
E la stiddha pi signali
l'addimustra a cu jè jè,
ca l'è notti di Natali
e nasciu lu veru re.
 
I montanari della Calabria
Scendevano dalle montagne i montanari
con i calzettoni ed i calzari ai piedi,
con le ceramelle venivano a suonare
anche i Presepi sembravano veri.

In testa portavano
copricapi lunghi di velluto, pregiati;
dalle loro spalle scendevano
mille nastri di seta colorati.

I calzoni corti, al ginocchio spaccati,
con cinturoni di cuoio alti, alti,
camicie con i merletti ricamati
sotto i gilet, stretti e attillati.

Erano sempre i nostri montanari
con ceramelle, organetti e acciarini,
venivano dentro Reggio per suonare
di porta in porta la Novena al Bambino.

L’ultimo giorno la gente gli regalava
soldi, torroni, frittelle e vino,
entravano dentro le case e suonavano
davanti al Presepio del Bambino.

Questi sono i ricordi veramente,
che mi portano in cuor la nostalgia:
Natale, fanciullezza, sono nella mente
insieme ai montanari della Calabria mia.
(Traduzione di Salvatore Armando Santoro)

La stella
La stella manda luci alla montagna
e sveglia il pastore addormentato
e illumina il cielo e la campagna
ed i fondali solitari e muti.

C’è la gioia e l’allegria
nella grotta di Gesù
mentre è nato il Messia
i pastori sono in festa.
E la stella per segnale
lo dimostra a tutti
che è la notte di Natale
ed nato il vero Re.

Sulla paglia c’è il Bambinello
che soffre essendo al freddo
mentre il bue e l’asinello
con il fiato gli danno calore.

C’è la gioia e l’allegria
nella grotta di Gesù
mentre è nato il Messia
i pastori sono in festa.
E la stella per segnale
lo dimostra a tutti
che è la notte di Natale
ed nato il vero Re.
(Traduzione di Salvatore Armando Santoro)
 


Natale dell’astronauta
Tu voli astronauta nel cielo:
silenzio e pace è lassù
in terra stanotte v’è gelo
e nasce il Bambino Gesù.

Voli, e tra mille emisferi
v’è un tenuto e strano bagliore
di stelle lontane, misteri
lo spazio ti svela nel cuore.
Tu scruti nel bel firmamento
e speri che sia giusta la meta,
con ansia attendi il momento
di scoprire un astro, un pianeta.

Sulla luna ti pieghi a un inchino
ammiri l’immenso infinito
e preghi il celeste bambino:
“O umile e grande Signore
che in misera grotta sei nato
io riconosco di cuore
che Tu, la mia mente hai guidato.
Tu l’Universo hai creato
dal cielo porti amore alla terra,
la scienza che Tu m’hai donato
rechi pace al mondo e mai guerra”.

Laurea
(dedicata a mio figlio)

Sempre sognai, quel giorno sospirato,
vederti entrare, con la laurea in mano.
Dicevo sempre a te: “Figliolo amato,
il mio consiglio, spero, non sia vano”.

Ti ripetevo spesso: - Un bel sapere,
vale più di ricchezza, o di tant’oro.-
Sappi, che nulla vale un grande avere.
Sol col saper, possederai un tesoro.

Ma la tua giovinezza esuberante,
i consigli di mamma non sentì.
In te la volontà, non fu costante.
Smettesti di studiare, e finì lì.

Maestro grande, il tempo, è sempre stato.
E mai, è troppo tardi a incominciare.
Perseverante costanza, hanno donato
quello che in verde età dovevi dare.

Ricorda, figlio mio, di trarre il bene
di quel, che troppo tardi hai conquistato.
Perché se fai valere il tuo sapere
maggior la ricompensa, è al tuo passato.

Amor di maggio
T’incontrai a maggio, era di sera,
quando le rose fiorivano e l’amore.
Mi avvicinai. “Sei come a primavera,
ti dissi, io t’amo tanto qui nel cuore”.

Tu bella e gentile giovinetta
chinasti il capo, pudica arrossisti,
l’amor mio accettasti e quasi in fretta
muovendo svelto il piè te ne fuggisti.

Siam ritornati ancora in quella via
alberata e con i fiori di lillà
tessendo insieme “sogno e poesia”
di quell’amor ch’era sbocciato là.

A maggio, a sera, t’ho saputo amare
m’hai dato amor sincero bimba mia
ora con me tu salirai all’altare
per essere per sempre sposa mia.

Casa mia di Puglia
Casetta solitaria di campagna
che splendi al sole nella terra mia
la cisternella a lato ti è compagna
le rondini ti recan l’allegria.

Laggiù, lontan tra i pini è un casolare,
qua lo zampillo d’una fontanella,
cantan festosi intorno di cicale
che fan la vita semplice e pur bella.

La bianca Chiesetta di rimpetto
che sorge lì a due passi a te vicina
fa vivere nel cuore un dolce affetto
ricorda la preghiera mattutina.

Il lieve suono della sua campana
che chiama a sera saluta a Maria,
dona alla mente pace sovrumana,
serenità e una dolcezza pia.

Il tuo bel giorno
(Ad una sposa orfana)

In bianca veste io ti vidi entrare
nella grande Basilica, e all’Altare
candido velo la testa tua cingeva
e fior d’arancio. Il tuo bel giorno era.

Nel volto tuo, non traspariva mossa,
eri felice, ma anche assai commossa.
Accanto a te qualcuno ti sognavi,
proprio i tuoi cari che tu tanto amavi.

Però loro dal cielo t’han veduto
e di lassù gioito, hanno goduto,
ti han benedetta e tanto pregheranno
e per la tua vita i passi guideranno.

L’augurio, sposa, che il mio cuor ti dona
è quello di esser sempre dolce e buona.
Se non ti son mamma, è quasi uguale
l’augurio di chi è madre molto vale.

Il tuo compleanno
Quando venuto sei, di pochi mesi,
la casa mi allietasti bel bambino
stringendoti con tanto affetto intesi
gioia infinita dolce mio piccino.

Il viso tuo infantil di cherubino
esser parea dipinto da pittore
se ti baciavo il rosso tuo piedino
gioivi mentre m’allegravi il cuore.

Strilli felici e primo balbettio,
piccole risa piene d’allegria
sembravan tali a lieto cinguettio
d’uccelli in volo in festosa armonia.

Oh bimbo caro, per te sono stata
due volte mamma, quando t’abbracciavo,
baci, carezze, la voce ho ricordata
dei bimbi miei ch’un tempo allevavo.

Per te, le braccia stanche ha ritrovato
forza di gioventù, perduta ormai,
la ninna con amore t’ho cantato
dicendoti: ti voglio bene assai.

Quattr’anni hai oggi tesoruccio mio,
sei angioletto, non conosci inganni,
la nonna tua ha sol per te un desio
che tu cresca buono nei tuoi anni.

Io vedo ancora
(Ad un amico cieco)

Nel verde della villa a una panchina
stanno seduti nonno e nipotina.
Il nonno è cieco, non può più vedere
ne fiori e prati, il sol non può godere.

Domanda il nonno: “dimmi mia bambina
il color dell’aiuola a noi vicina”.
E lei risponde: ”ci sono molte rose
con cento petali e son tutte odorose”.

“Ci stanno dei giacinti e un gelsomino,
il biancospino è al bordo del giardino,
e viole profumate e dalie blu,
povero nonno non li vedi tu”.

“Ci sono farfalle posate sopra i fiori
con le ali striate di colori,
se potresti vederle, nonno mio,
sarei felice, tanto tanto, anch’io”.

Il nonno stringe a se la nipotina:
“Non darti pena”, dice, “ o mia piccina!
Ogni dì della radiosa aurora
con i tuoi occhi vedrò tutto ancora”.

La mia compagna di camera
Insieme abbiam diviso pene e affanni
con tanto affetto e quasi un solo cuore,
furono mesi non sono stati anni
e noi l’abbiam condivisi con amore.

Non potevi ascoltare, non sentivi,
volevo dirti che molto t’amavo
tu stavi attenta ma tanto soffrivi,
io lo capivo: in viso ti guardavo.

La gentilezza tua sì raffinata
dimostrava la grande tua bontà
che solo il Cielo a te avea donata
con la ricchezza di gran carità.

Per me sei stata madre, amica, sorella
nei lunghi giorni di comunità.
Le rime mie per te non han favella
per l’affettuosa tua fraternità.

Il ciel ti benedica amica mia,
di te dimenticarmi non potrò
sarai nel cuore della vita mia
per il tempo che ancor’io vivrò.

Le due noci
Il grande noce i giochi tuoi accoglieva,
della tua infanzia nella bella età
eri contento quando fino a sera
stavo con te e tu giocavi là.

Avevi il passo incerto, ancor bambino,
eppur due noci in mano mi portasti,
li avevi tu trovati lì in giardino
sotto il gran noce dove tu giocasti.

Facendoti capir con voce e gesti
a terra ti chinasti per poi fare
due segni nel terreno e m’indicasti
dove le noci io dovea piantare.

Due anni son passati e lì nell’orto
due alberi fronzuti stan laggiù
sono diritti e nessun ramo è storto
due anni hai più di loro, non di più.

L’uccellino amico
Bell’uccellino che sul davanzale
ti fermi per beccare ogni mattina
sulla finestra mia dell’ospedale
ciò che depongo, qualche briciolina.

Con quegli occhietti tuoi profondi e neri
mi guardi e scruti in ogni movimento
noi siamo diventati amici veri
tu stai lì fermo, quasi sei contento.

Bell’uccellino sei più fortunato
di me che qui mi sento prigioniera,
tu godi il sole, sei da me amato
come persona che si aspetta a sera.

E quando la mattina ti rivedo
il cuore s’empie di felicità
dimentico ospedale, tristezze e chiedo
che tu ridoni a me serenità.

Ottant’anni
Sono passati, proprio ottanta anni
da quando tu venisti al mondo.
Piena di brio fu la tua giovinezza,
o donna buona, sposa, madre e nonna.

Se pur le primavere della vita
ti han dato gioia e serenità,
molte tempeste si aggiunsero a queste
con i dolori che l’autunno reca.

Ma tu allevando un figlio dopo l’altro
sei stata forte. Con grande coraggio
hai saputo affrontare la procella
del mare iroso nella notte buia.

Oggi tu sei felice accanto a noi
con sposo, figli, nipoti, in compagnia
e insieme a tutti io pur voglio augurarti
salute, molta gioia, e vita a lungo.

Più non mi lasciare
Quando il tuo cuore è oppresso da sconforto
per l’oscuro mal che ti tortura
pensa che pure Cristo in Croce è morto
per amor tuo, per te, sua creatura.

Quando i tuoi occhi velati di pianto
rivolti al Cielo chiedono mercé
pensa che lui ti sta sempre d’accanto
e addolcisce i dolor che sono in te.

Quando pensier molesto al tuo dolore
cerca offuscarti il cuore e pur la mente
pensa che Lui, il dolce Creatore,
a te tende la mano sua benedicente.

E quando l’ombre fitte, quasi a schiera,
della notte ti fanno rattristare
prega: “Oh, Signore! Perché viene la sera?
Resta con me, più non mi lasciare”!

Sala operatoria
Tranquillamente con serenità
nella gran sala operatoria entrai.
Mi dissero: Lei adesso dormirà.
Poco più tardi io m’addormentai.

Camici bianchi, maschere sul viso
gl’illustri professori eran in quell’ora
pure se ascoso stava il loro sorriso
buoni eran tutti e di gentil parola.

Prima che si chiudesser gli occhi al sonno
io volsi al Ciel la mente e pure il cuore:
Lavora Tu, per quello ch’essi fanno,
lume nella lor mente dai o Signore!

Da’ lor salute e forza al sacrificio
per quel che fan per tutti noi mortali
che traggan dalla scienza il beneficio
per trionfar col bene i brutti mali.

Tu che vedi, sai tutto e scriverai
nel Libro d’Or, con santa Tua bontà,
paternamente lor compenserai
per quel che fanno per l’umanità.

Maria Luce
Ti chiami Maria Luce, bimba cara,
e questo tuo bel nome luce dà,
sei tanto buona, semplice e sincera,
negli occhi tuoi risplende la bontà.

Ogni parola tua musica sembra
e canto melodioso, soave ancor,
ch’esprime del tuo parlare gentilezza
e la dolcezza che racchiudi in cuor.

Sei bella da sembrare alba radiosa,
che di rosa tinge il ciel turchino,
e l’universo sveglia alla bellezza
del sol nascente al giorno mattutino.

La bocca tua dischiusa al bel sorriso
dona al tuo volto la serenità,
possa tu sempre aver fortuna e gioia
e per la vita ogni felicità.

Le quattro stagioni

Primavera
O primavera, o dolce signora,
che al sol dischiudi balconi e finestre
e svegli il passerotto di buon’ora
e fai fiorire i prati di ginestre

tu porti l’allegria coi tuoi colori
fai gli alberi di foglie rivestire
ed i giardini di variopinti fiori
e le aiuole fai tutte rinverdire.

Il mandorlo fiorisce al tuo apparire
la rondine ritorna al casolare
sotto il tetto si sente il tuo garrire
mentre il nido sa lesta preparare


Estate
Tra papaveri splendono al sole
spighe d’oro, la messe è matura,
i ruscelli profuman di viole
splendida e ridente è la natura.

Nel mare, lontano da bufera,
le barchette si vedono passare
ricca pesca, e non vana chimera,
il barcaiolo fa lieto cantare.

Lunghe corse tra boschi e tra parchi
tuffi allegri nel mare azzurrino
note dolci con suoni di archi
fa godere il vecchio ed il bambino.


Autunno
S’ode nell’aria odore
di caldarroste cotte
si pensa già al sapore
del vino nella botte.

Dagli alberi le foglie
già cadono col vento
ben presto si fan spoglie
il cuor si fa scontento.

E’ nebbia in sul mattino
e vento maestrale
e ciel color turchino
deserto è già il viale.

Le rondini sen vanno
a frotte in un sol vol
ritorneran fra un anno
col caldo e con il sol.


Inverno
In breve la natura
s’è fatta già di gelo,
l’aria è fredda e scura
il sol non brilla in cielo.

Stecchito è l’alberello
immobil, come morto,
non più robusto e bello
com’era un dì nell’orto.

E squarcia l’aria il tuono
e scrosci d’acqua e vento,
né voci, né alcun suono,
si sente in quel tormento.

Poi volteggiando a fiocchi
candida vien la neve,
s’alza fino ai ginocchi
coprendo lenta e lieve

la terra addormentata,
che al monte o giù in riviera
attende sia svegliata
da nuova primavera.

Alle brave infermiere
(dell’ospedale di Biella)

Si era all’alba ma il vostro dovere
vi chiamava tutte a lavorare
con tanto zelo, con tanto piacere,
voi avevate solo un motto: Sola amare.

Come farfalle, tutte d’ugual colore,
da un lettino all’altro correvate
ov’era sofferenza, ove dolore,
con quanta pazienza sostavate.

E nelle notti insonni con amore
voi venivate accanto al capezzale
quale conforto, quale gioia al core,
davate alle degenti in ospedale.

Oh! voglio dirvi un detto mio sì raro
che porto dentro me e che m’è caro:
“Buone, cortesi, amabili infermiere
voi mi sembrate degli angeli
venute giù dal Cielo a confortare
in bianche veste chi soffre all’ospedale”.

Vattene non ho nulla
Una ricca principessa passeggiava
nel bel recinto di sontuoso parco
attenta ella leggeva, assorta stava:
sul libro era il pensiero e pur lo sguardo.

Quando, vecchia cadente e macilenta
di là del muro chiese e supplicò,
con mano stesa e la vocina spenta:
“Dammi qualcosa oppure morirò”.

“Non ho una casa che mi può scaldare,
di me nessun si cura, non ho pane,
il gelo le mie ossa fa tremare
muoio pel freddo e pure per la fame”.

“Vattene, non ho nulla a te da dare”
sdegnosamente quella le rispose,
e senza volger gli occhi per guardare
girò le spalle e più non si scompose.

Quando si assise a tavola, però,
la ricca tovaglia ed anche il pane
di sangue intrisi vide, e ricordò
la misera che aveva tanta fame.

Pentita un destrier veloce cavalcò,
del pane e dei vestiti a lei recava.
Da mane fino a sera galoppò
e al limite del bosco la scovava.

In misera spelonca lei giaceva
tra foglie secche e stracci per guanciale,
supina stava, le braccia inerte aveva
e gli occhi fissi senza più guardare.

Pianse la principessa e invocò perdono,
ma il pentimento quella non vedeva,
troppo tardi era ormai per alcun dono
troppo tardi era ormai per chi piangeva.

Stornellata salentina
Salento in fiore,
voglio cantar per te i miei stornelli
con tutta l’allegria di questo cuore.
Oh dolce Puglia,
sei bella nel tuo immenso tavoliere
tra i tuoi vigneti sei una meraviglia.
Sol del mattino
tra verdi mari e fra tramonti d’oro
maturano gli olivi e i fior di timo.
Terra incantata
ricca di leggende e di castelli,
sei antica e dai poeti decantata.
Terra chiamata
la piccola Firenze del Barocco
per questo sei da tutti visitata.
Quattro Colonne,
Gallipoli, Castro e Zinzulusa,
son belle come tante belle donne.
Fiore che ondeggia,
chiudo la stornellata e tanto vale
quanto detta il cuor mio meridionale
ma aggiungo un lieto e caldo ritornello
Salento sei tanto caro e tanto bello.

Care infermiere
Mi svegliai in quel lettino bianco,
e tutto bianco era attorno,
nitido, pulito, come in una Chiesa,
bianche pareti ed ogni cosa accanto.

Voi care infermiere a me vicine
mi chiamavate nonna,
mi aggiustavate il letto,
e con affetto
mi curavate come cosa vostra.

Buone, cortesi, amabili fanciulle,
voi mi sembraste angeli
venuti giù dal cielo a confortare
in bianca veste
chi soffre in ospedale.

Festa campestre ai Piani
Nella Chiesetta i mezzo ai campi d’oro
la dolce Madonnina sull’Altare
si festeggiava, ed un devoto coro
unito al suon dell’organo cantava.

Fuori le bancarelle illuminate,
giostre, sonora musica, allegria,
vestite a festa, allegre e spensierate,
ballavan le fanciulle in compagnia.

Si udiva di campane un tintinnio,
v’era tripudio di luci, di colori,
e stridor di cicale e cinguettio
d’uccelli in volo e festa nei cuori.

E’ l’ora che si porta in processione
la Madonnina tra candele e fiori,
in ognuno v’è tanta commozione:
è la Mamma che aiuta nei dolori.

Madonna delle Grazie, de ‘li Piani,
ogni tuo figlio prega stretto a Te
questo bel tempio con le nostre mani
t’abbiamo eretto, accettalo con fé.

Le orme degli avi abbiam seguito
che piccola chiesina aveano alzato
in un sol patto, in un sol cuore unito,
in Tempio te l’abbiamo trasformato.

La processione è chiusa, i mortaretti,
sparano in aria con strani bagliori,
Maria torna all’altare, i nostri petti
depongono a suoi piedi i nostri cuori.

Le luminarie della Chiesa al tetto
accendono, la notte scende quieta,
modesto e suggestivo è il tempietto
pace ci reca, l’anima si cheta.

Ai miei figli
Il vostro ingresso al mondo
da me fu salutato
con giubilo profondo
regal dal ciel donato.

In culla in bianco velo
mentre voi dormivate
nuvolette nel cielo
allor mi sembravate.

Il sorriso innocente,
il vostro bel visino,
dava alla mia mente
qualcosa di divino.

Vi guardavo estasiata
in cuor felice ero
e con parola tacita
io vi benedicevo.

E poi da piccolini
crescere come fiori
vi ho visti miei bambini
cari, immensi tesori.

Con fede e con amore
vi ho saputo allevare
dandovi tutto il cuore
immenso quanto il mare.

Allor la vita in terra
dolori sol recava
per la crudele guerra
che tutti addolorava.

Il babbo militare
che pur disperso era
non vi potea badare
non si sapea dov’era.

Ed io col pianto in gola
avea per voi il sorriso
la dolce mia parola
per voi era paradiso.

Col bacio del mattino
venivo a salutarvi
nel piccolo lettino
ansiosa di abbracciarvi.
E dopo il “Padre Nostro”
v’insegnavo a pregare
perché il babbo vostro
potesse ritornare.

Trepidavo se poi
qualche lieve malanno
veniva su di voi
recandomi un affanno.

Sol mi sapea quietare
se i cari miei bambini
li vedevo saltare
vispi come uccellini.

Ora per altra via
mamma avete lasciato
con gran malinconia
ognun lontano è andato.

La vostra strada, o figli,
or s’è divisa in due
e in due seguite i cigli
del bene e dei perigli.

Però di mamma il cuore
vi segue, è a voi vicino,
trema se un sol dolore
colpirà un sol bambino.

Perché i figli per mamma,
son sempre dei bambini
non crescono, per mamma,
rimangono piccini.

Le umili rime
Le umili rime, le parole sincere
dettate da un vero dolore
nascono semplici e vere
fin dal profondo del cuore

O bianca suora
O bianca suora tu che al capezzale
dell’ammalato, o di colui che muore,
vegli pregando ansiosa di donare
vita per l’uno, speranza per quel cuore.

Tu non hai sosta, sol ti sai fermare
a incoraggiar di sera, o di mattina,
la madre ti è sorella. Al tuo passare
il bimbo trova in te la sua mammina.

Il vecchio vede in te la buona figlia
che il sudore gli asciuga, o gli occhi in pianto,
e con dolce sorriso lo consiglia
di aver fede in Dio e non rimpianto.

L’uomo avvilito, afflitto dai malanni
pregando insieme a te nel suo dolore
riesce a sopportare pene e affanni
e muore offrendo il cuore al creatore.

Tra le bianche corsie dell’ospedale
nel morente tu trovi il tuo Signore
morire in croce, soffrire, penare,
e allor per lui t’immoli anima e cuore.

Pianto dell’esule
Sono partito dalla terra mia
lontan lontano, in cerca di fortuna,
lasciai il paese con malinconia
dove c’è sole, mai giornata bruna.

Mamma lascia laggiù nel casolare
afflitta desolata, pien d’affanni
gli occhi suoi mesti vidi lacrimare
dolce vecchia mia, bianca dagli anni.

Esule in terra d’altri mi trovai;
altri costumi, non più la lingua mia,
con ente sconosciuta m’incontrai
quel luogo dava a me malinconia.

Il mio pensiero volo alla Chiesetta,
alla piazza, dove giocavo da bambino,
alla mamma che prega e sempre aspetta
nella casetta mia col suo giardino.

O benedetto suol, terra natia,
il core non ti può dimenticare
passano i giorni e la nostalgia
si fa più viva non ti può scordare.

Il cielo, il mare con la dolce brezza,
del ruscelletto il dolce mormorio.
Monti e prati fioriti come serra
non possono finire nell’oblio.

L’alba e i tramonti della terra mia,
ho nella mente, giorno dietro giorno
scolpite al cuor. Son rime, son poesia
che sol poeti e dotti scriver ponno.

Oh Italia cara! Tu sei viva fiamma
che mai si spegne, resta viva in me
perché due cose sole, Patria e Mamma,
racchiuse son nel cuor con grande fé.

Amica mia
Amica mia, degli anni più belli
ti ricordo seduta ad un balcone
con i tuoi bimbi ch’erano gioielli
mentre tu lavoravi il lor maglione.

Dovetti andare via molto lontano,
lasciai paese, casa e compagnia,
un abbraccio, una stretta di mano,
il destino mi portò per altra via.

Ma tu gentile amica, bella e cara,
per anni sei rimasta nel mio cuore
ed anche se la vita è stata amara
ogni ricordo lenito m’ha un dolore.

Fu lungo il tempo! E la nostalgia
al paesello mi fece ritornare,
ma non trovai la casa in quella via
né più al balcone ti vidi riaffacciare.

Tutto cambiato e tutto nuovo era…
E per un altro luogo, eri partita,
lutto oscurato avea la primavera
negli anni della tua giovine vita.

Sono passati ormai trentadue anni
ma l’amicizia mi rimane in cuore
e la mia mente, tra pensieri e affanni,
mai ha dimenticato il tuo dolore.

Per tutto il tempo che non t’ho incontrata
io t’ho cercata con fede infinita
ora che finalmente t’ho trovata
gioia sarà per la restante vita.

Proverbio antico d’anni tramandato
dice:” Chi trova amico, ha un gran tesoro;
se poi l’amico perso è ritrovato
più che tesoro, questi, è argento e oro!

La pupa
(La bambola di stracci)

Piccola eri:
in dono mi chiedesti
una bambola bionda dagli occhi celesti.

C’era la guerra:
soldi non avevo
e la bambola comprar non ti potevo.

Una sera,
alcuni stracci presi
e con pazienza una bambola ti feci.

Il busto,
la testa, le mani ed i piedini,
feci con garbo, precisi e piccini.

Un po’ di canapa
ed ecco i capelli
ordinati e con riccioli belli.

Dipinsi
nel visetto bianco
due occhi azzurri ch’erano un incanto.

Due sopracciglia nere,
un bel nasino,
labbra e gote rosse da bambino.

Poi le cucii:
una gonnellina rosa,
con blusa bianca e giacchettina blu,
le scarpettine fatte all’uncinetto
e un cappellino con un fiore su.

Un po’ di lana
in un materassino
ed ecco pronto un soffice lettino,
guanciale e lenzuolo ricamato
compirono il mio lavoro amato.

E vi adagiai la bambola,
ch’era tanto carina
per attendere il risveglio
di te mia piccolina.

E tu aprendo gli occhi
con gioia mi abbracciasti.
E m’hai detto sorridendo:
“Mamma me la comprasti”?

L’orfano
Duole il cuor vederti così afflitto
con gli occhietti velati di pianto,
così triste tu sembri un derelitto.

Tu speri d’incontrare in ogni donna
il volto caro, soave della mamma,
ma lei sta ormai lassù con la Madonna.

In casa tua ora fa da padrona
un’altra madre che mai ti sorride.
La prima era semplice e pur buona

quest’altra, pur essendoti vicina,
non bacia mai quel tuo bel visino
perché non t’ama come la mammina.

Lei non ti culla stringendoti al petto,
non ti racconta le belle novelle,
ne ti rimbocca le coperte a letto.

Sii forte bimbo, trova conforto,
pensa che mamma giace al camposanto
ma lo spirito è con Dio, non è morto.

Di lassù, da quel grande giardino
ch’è il Paradiso di tutti i mortali
ogni mamma guarda il suo bambino.

Lei dolce dal Cielo prega e ti protegge
e insieme alla Mamma celeste
ai aiuta, ti guida e ti sorregge.

Il fraticello
Il fraticello con il saio scuro,
come d’Assise il Santo Poverello,
disse ai fedeli: ”Questo vecchio muro
trasformeremo in tempio tanto bello”.

Come Francesco con gran carità
chiese a noi nel nome del Signore
con sua parola ottenne, e con bontà,
unendoci concordi in un sol cuore

con il suo zelo grande e la preghiera
offrì per noi, alla dolce Madonnina,
il nostro amore e la fede sincera
chiedendo grazie ferventi ogni mattina.

Noi villeggianti ch’abitiamo ai Piani
pronti a quell’invito abbiam risposto
con vero sacrificio e nostre mani
perché più bello il tempio fosse sorto.

Ora laggiù tra la campagna in fiore
la Chiesa splende e splende pur la Croce
deh, benedici tutti noi o Signore
accetta il dono, ascolta pur la voce

Ma più di tutto noi ti preghiamo
di benedire il fraticello buono
nella sua ascesa tendigli la mano
fa’ che un dì, ti sia vicino al Trono.

Auguri a una sposa amica
O sposa, che coi bianchi merletti
e un candido velo alla testa,
salisti commossa a passetti
le scale, nel dì di tua festa

tra fiori e profumi d’incenso,
e all’altare nel grande Santuario
tu fede giurasti al tuo Enzo
mentre attorno ferveva gran festa.

La tua alba sia sempre radiosa
e la via cosparsa di fiori
il tramonto coroni te sposa
di un’aureola di gioie e d’amori.

E’ una mamma che chiede al Signore
quest’augurio, che nasce dal cuore,
vivi a lungo felice o Maria
col tuo sposo in perfetta armonia.

Caro ricordo
Borsa a tracolla, semplice, carina,
e sotto un braccio un libro teneva
lei veniva a trovar la sua mammina
che ammalata in ospedal giaceva.

Era brava, gentile e confortava
vederla entrare tra noi addolorate
dal male, che molto si pensava
soltanto a sofferenze di malate.

Rimaneva con noi e la sera
sul sacco a pelo a terra si sdraiava,
del sacrificio suo contenta ero
rideva e mai si lamentava.

Il suo sorriso per noi era tanto,
ci portava nel cuore l’allegria
era per noi come un dolce canto
che ci scacciava la malinconia.

Or tu sei donna, sei pure una mamma,
anche se mi sembravi ragazzina
e stavi con in cuor la dolce fiamma
accanto al letto della tua mammina


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