Ottobre 23
Non ci sono stati
rutilanti bagliori
di bivacchi giovanili.
Solo,
in questi vortici di vento,
s'accendeva e s'accende ancora
il fuoco dell'anima.
Stamani,
è in quest'urlo di vento,
(l'ho riconosciuto)
il richiamo del mio fuoco.
Sono ritornati gli sciacalli:
l'uomo, l'orologio...
come ai salici
ci tagliano i rami.
E i nostri gherigli di noce
a frantumare continua la morte.
Roberto Soldà
-Proposta da Piero Colonna Romano
Quando i genitori
Quando i genitori invecchiano,
Lasciali invecchiare
con lo stesso amore
con cui ti hanno fatto crescere…
lasciali parlare
e raccontare ripetutamente storie
con la stessa pazienza e interesse
con cui hanno ascoltato le tue …
quando eri bambino…
lasciali vincere,
come tante volte loro ti hanno lasciato vincere.
lasciali godere dei loro amici,
delle chiacchiere con i loro nipoti
lasciali godere vivendo tra gli oggetti
che li hanno accompagnati per molto tempo,
perché soffrono
sentendo che gli strappi pezzi della loro vita
lasciali sbagliare,
come tante volte ti sei sbagliato tu
LASCIALI VIVERE
e cerca di renderli felici
l'ultimo tratto del cammino
che gli manca da percorrere,
allo stesso modo in cui loro ti hanno dato la loro mano
quando iniziavi il tuo!!
Pablo Neruda
-consigliata da Carlo Chionne
Madonnina del mare
Al primo sole si desta
la città della marina
e in un bel giorno, risuona
la dolce campana vicina
mentre sul mare d'argento
va il pescatore contento
passa e s'inchina
alla sua Madonnina dicendole piano così:
Madonnina del mare, non ti devi scordare di me,
vado lontano a vogare,
ma il mio dolce pensiero è per te
Canta, il pescatore che va,
Madonnina del mare
con te questo cuore
sicuro sarà!
L'ultimo raggio di sole
muore sull'onda marina
e in un tramonto di sogni
lontana la barca cammina
fra mille stelle d'argento
va il pescatore contento
sente nel cuore un sussulto d'amore
sospira pregando così:
Madonnina del mare…
Mario Pittini 1985
-consigliata da Salvatore Cutrupi
Ti auguro tempo
Non ti auguro un dono qualsiasi,
ti auguro soltanto quello che i più
non hanno.
Ti auguro tempo, per divertirti e
per ridere;
se lo impiegherai bene potrai
ricavarne qualcosa.
Ti auguro tempo, per il tuo fare e
il tuo pensare,
non solo per te stesso, ma anche
per donarlo agli altri.
Ti auguro tempo, non per
affrettarti a correre,
ma tempo per essere contento.
Ti auguro tempo, non soltanto per
trascorrerlo,
ti auguro tempo perché te ne resti:
tempo per stupirti e tempo per
fidarti
e non soltanto per guardarlo
sull’orologio.
Ti auguro tempo per guardare le stelle
e tempo per crescere, per maturare.
Ti auguro tempo per sperare nuovamente e per amare.
Non ha più senso rimandare.
Ti auguro tempo per trovare te stesso,
per vivere ogni tuo giorno, ogni tua ora come un dono.
Ti auguro tempo anche per perdonare.
Ti auguro di avere tempo, tempo per la vita
Elli Michler
-consigliata da poetare.it
Implorazione
Estate, estate mia, non declinare!
Fa che prima nel petto il cor mi scoppi
come pomo granato a troppo ardore.
Estate, Estate, indugia a maturare
i grappoli dei tralci su per gli oppi.
Fa che il colchico dia più tardo il fiore.
Forte comprimi sul tuo sen rubesto
il fin Settembre, che non sia sì lesto.
Sòffoca, Estate, fra le tue mammelle
il fabro di canestre e di tinelle.
Alcyone, Madrigali dell'Estate
Gabriele D'Annunzio
-consigliata da poetare.it
Il verme conquistatore
È una sera di gala, ecco, fra tanto
squallor di questi nostri anni di duolo;
ed uno stuolo d'angeli, uno stuolo
alato, inghirlandato, immerso in pianto,
siede raccolto in un teatro e mira
(mentre un'orchestra ad ora ad or sospira)
la musica lontana delle sfere.
Mimi fatti ad immagine di Dio,
vocian fra loro o mormorano chiocci,
ed errano qua e là, meri fantocci,
in faticoso eterno tramestio
1al vedere degli esseri spettrali
che muovon gli scenari ed i teloni,
e lasciano cader dalle grand'ali
le tenebrose maledizïoni.
Oh, il tristissimo dramma! Per assai
tempo ci sarà davvero ricordato,
col suo fantasma ognor perseguitato
da un'orda che nol può cogliere mai
in un giro che volge sempre uguale
e sempre al punto stesso si richiama;
e coll'error, colle follie, col male
che ne formano l'anima e la trama.
Ma tra il gruppo dei mimi, ecco, repente,
insinuarsi con spire orride d'angue
una viscida forma color sangue,
che s'annoda e si snoda orridamente.
Sovra la scena, i mimi sua conquista
divengono e sua preda a mano a mano,
e singhiozzano gli angeli alla vista
del mostro che maciulla sangue umano.
Tutto s'abbuia. Tutto e nulla resta,
e, sovra la catastrofe, il sipario
come un lùgubre drappo mortuario
precipita con rombo di tempesta.
Ed ecco, surto in piè, lo stuolo alato
- pallido in volto di glacial pallore -
proclamare che il dramma è intitolato:
"Uomo" e l'eroe: "Il verme vincitore".
Edgard Allan Poe
-proposta da Piero Colonna-Romano
Filèmone e Bauci
(VIII libro delle Metamorfosi di Ovidio)
Vedi quel tiglio là come s’è attorto
al tronco d’una quercia millenaria?
Parlano d’una storia leggendaria
ancora viva or che quel tempo è morto:
“…vissero nelle terre della Frigia
sotto Pèlope re due contadini
attenti ai segni dei voler divini
in un tugurio d’umili vestigia.
Filèmone era lui, Bauci la sposa,
e insieme navigavano negli anni
dividendo miserie, ansie e malanni
d’una vita già tarda e laboriosa…”
Ma, tu ricorderai, gli dei pagani
non disdegnavan scender tra i mortali
per accertar dal vivo quali mali
agitassero i cuori degli umani.
Così Giove e Mercurio dalle soglie
d’Olimpo venner giù nel triste mondo
per constatarne l’animo profondo
come mendichi, sotto finte spoglie.
Bussarono alle porte della gente
mille volte e mille usci furon chiusi
palesando ai sacri ospiti, delusi,
l’aridità del cuore e della mente.
Solo la coppia degli antichi sposi
aprì la porta e offrì loro una panca
che Bauci ricoprì d’un panno, stanca
d’età, ma viva d’ansiti affettuosi
E Filèmone prese a dialogare
con gli ospiti sui fatti della vita,
di quella povertà resa fiorita
da un pranzo, da un sorriso, un focolare;
staccò dall’asse carne affumicata,
lei pose al desco olive verdi e nere
ed uova e vino e il sapido piacere
di chi prova allegria dimenticata.
Concordi prepararono i più bei
piatti della locale tradizione,
lei non fu serva, lui non fu padrone
rimanendo appagati: uomini e dei.
Ma ad un tratto s’accorsero che il vino
rifluiva copioso nel cratere
e cercarono assorti le maniere
d’assecondar lo spirito divino.
Filemone inseguì l’oca guardiana
per darla in sacrificio alle sospette
divinità; ma sùbito ristette
al rivelato Giove ed all’arcana
voce che usciva dalle labbra al dio:
- Figlio, saliamo rapidi sul monte
e palesiamo agli uomini la fonte
del premio e del castigo: il voler mio! -
Gli sposi li seguiron faticando
su per le balze di quel monte ignude
e videro sparir nella palude
quegli usci che si chiusero negando.
Solo la loro casa ancora sta
dov’era prima e, trasformata in tempio,
propone ancora all’uomo il buon esempio
dell’affettuosa solidarietà.
Premio agli sposi, che pregaron giunti
d’essere nominati suoi guardiani,
fu concessa la sorte che il domani
non li vedesse per la via disgiunti
e che, mutati insieme in verdi tempre
atte a sfidare i secoli immortali,
seguissero gli impulsi naturali
che dicevano al cuore: uniti sempre…”
La quercia e il tiglio già trasfigurati
vivono ancora eternamente in noi;
se vuoi vederli, amico, se lo vuoi
cerca in te stesso gli alberi abbracciati.
Santi Cardella
-consigliata da Piero Colonna-Romano
Aspasia
Torna dinanzi al mio pensier talora
il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo
per abitati lochi a me lampeggia
in altri volti; o per deserti campi,
al dí sereno, alle tacenti stelle,
da soave armonia quasi ridesta,
nell’alma a sgomentarsi ancor vicina,
quella superba vision risorge.
Quanto adorata, o numi, e quale un giorno
mia delizia ed erinni! E mai non sento
mover profumo di fiorita piaggia,
né di fiori olezzar vie cittadine,
ch’io non ti vegga ancor qual eri il giorno
che ne’ vezzosi appartamenti accolta,
tutti odorati de’ novelli fiori
di primavera, del color vestita
della bruna viola, a me si offerse
l’angelica tua forma, inchino il fianco
sovra nitide pelli, e circonfusa
d’arcana voluttá; quando tu, dotta
allettatrice, fervidi sonanti
baci scoccavi nelle curve labbra
de’ tuoi bambini, il niveo collo intanto
porgendo, e lor di tue cagioni ignari
con la man leggiadrissima stringevi
al seno ascoso e desiato. Apparve
novo ciel, nova terra, e quasi un raggio
divino al pensier mio. Cosí nel fianco
non punto inerme a viva forza impresse
il tuo braccio lo stral, che poscia fitto
ululando portai finch’a quel giorno
si fu due volte ricondotto il sole.
Raggio divino al mio pensiero apparve,
donna, la tua beltá. Simile effetto
fan la bellezza e i musicali accordi,
ch’alto mistero d’ignorati Elisi
paion sovente rivelar. Vagheggia
il piagato mortal quindi la figlia
della sua mente, l’amorosa idea,
che gran parte d’Olimpo in sé racchiude,
tutta al volto, ai costumi, alla favella
pari alla donna che il rapito amante
vagheggiare ed amar confuso estima.
Or questa egli non giá, ma quella, ancora
nei corporali amplessi, inchina ed ama.
Alfin l’errore e gli scambiati oggetti
conoscendo, s’adira; e spesso incolpa
la donna a torto. A quella eccelsa imago
sorge di rado il femminile ingegno;
e ciò che inspira ai generosi amanti
la sua stessa beltá, donna non pensa,
né comprender potria. Non cape in quelle
anguste fronti ugual concetto. E male
al vivo sfolgorar di quegli sguardi
spera l’uomo ingannato, e mal richiede
sensi profondi, sconosciuti, e molto
piú che virili, in chi dell’uomo al tutto
da natura è minor. Che se piú molli
e piú tenui le membra, essa la mente
men capace e men forte anco riceve.
Né tu finor giammai quel che tu stessa
inspirasti alcun tempo al mio pensiero,
potesti, Aspasia, immaginar. Non sai
che smisurato amor, che affanni intensi,
che indicibili moti e che deliri
movesti in me; né verrá tempo alcuno
che tu l’intenda. In simil guisa ignora
esecutor di musici concenti
quel ch’ei con mano o con la voce adopra
in chi l’ascolta. Or quell’Aspasia è morta
che tanto amai. Giace per sempre, oggetto
della mia vita un dí: se non se quanto,
pur come cara larva, ad ora ad ora
tornar costuma e disparir. Tu vivi,
bella non solo ancor, ma bella tanto,
al parer mio, che tutte l’altre avanzi.
Pur quell’ardor che da te nacque è spento:
perch’io te non amai, ma quella diva
che giá vita, or sepolcro, ha nel mio core.
Quella adorai gran tempo; e sí mi piacque
sua celeste beltá, ch’io, per insino
giá dal principio conoscente e chiaro
dell’esser tuo, dell’arti e delle frodi,
pur ne’ tuoi contemplando i suoi begli occhi,
cupido ti seguii finch’ella visse,
ingannato non giá, ma dal piacere
di quella dolce somiglianza un lungo
servaggio ed aspro a tollerar condotto.
Or ti vanta, che il puoi. Narra che sola
sei del tuo sesso a cui piegar sostenni
l’altèro capo, a cui spontaneo porsi
l’indomito mio cor. Narra che prima,
e spero ultima certo, il ciglio mio
supplichevol vedesti, a te dinanzi
me timido, tremante (ardo in ridirlo
di sdegno e di rossor), me di me privo,
ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto
spiar sommessamente, a’ tuoi superbi
fastidi impallidir, brillare in volto
ad un segno cortese, ad ogni sguardo
mutar forma e color. Cadde l’incanto,
e spezzato con esso, a terra sparso
il giogo: onde m’allegro. E sebben pieni
di tedio, alfin dopo il servire e dopo
un lungo vaneggiar, contento abbraccio
senno con libertá. Che se d’affetti
orba la vita, e di gentili errori,
è notte senza stelle a mezzo il verno,
giá del fato mortale a me bastante
e conforto e vendetta è che su l’erba
qui neghittoso immobile giacendo,
il mar, la terra e il ciel miro e sorrido.
Giacomo Leopardi
(Canti, edizione critica. A cura di Alessandro Donati. Bari, Laterza,
1917.
Fonte: Internet Archive
consigliata da Bianca Casti
Di tutto restano tre cose
Di tutto restano tre cose:
la certezza
che stiamo sempre iniziando,
la certezza
che abbiamo bisogno di continuare,
la certezza
che saremo interrotti prima di finire.
Pertanto, dobbiamo fare:
dell'interruzione,
un nuovo cammino,
della caduta,
un passo di danza,
della paura,
una scala,
del sogno,
un ponte,
del bisogno,
un incontro.
Fernando Pessoa
consigliata da Carlo Festa
Canto general
Appena squillò la tromba,
tutto era pronto sulla terra,
e Geova divise il mondo
tra Coca-Cola Inc., Anaconda,
Ford Motors, e altre società:
la Compagnia United Fruit
si riservò la parte piú succosa,
la costa centrale della mia terra,
la dolce cintura d'America.
Ribattezzò le sue terre
"Repubbliche Banane",
e sopra i morti addormentati,
sopra gli inquieti eroi
che conquistarono la grandezza,
la libertà e le bandiere,
instaurò l'opera buffa:
cedette antichi benefici,
regalò corone imperiali,
sguainò l'invidia, e chiamò
la dittatura delle mosche,
mosche Trujillo, mosche Tacho,
mosche Carías, mosche Martínez,
mosche Ubic, mosche umide
d'umile sangue e marmellata,
mosche ubriache che ronzano
sopra le tombe popolari,
mosche da circo, sagge mosche
esperte in tirannia.
Tra le mosche sanguinarie
sbarca la Compagnia
stipando di caffè e frutta
le sue navi che poi scomparvero
come vassoi con il tesoro
delle nostre terre sommerse.
Frattanto, entro gli abissi
pieni di zucchero dei porti,
cadevano indios sepolti
dal vapore del mattino:
rotola un corpo, una cosa
senza nome, un numero caduto,
un grappolo di frutta morta
finita nel letamaio.
Pablo Neruda
consigliata da Piero Colonna-Romano
Tutto sfuma
Ho rivisto Zazzà. L'ho rincontrata
dopo quasi quattr'anni. È sempre bella!
Tiè sempre li capelli a madonnella,
cià sempre la medesima risata.
Ha conservato la vitina snella,
er modo de guardà, la camminata...
Insomma è eguale a come l'ho lasciata,
ma a me me pare che nun sia più quella.
Nun me pare possibbile che sia
l'istessa donna che quattr'anni fa
me faceva schiattà de gelosia.
Che pianti che ciò fatto! Iddio lo sa!
Quanti sospiri ciò buttati via!
E, invece, adesso... Povera Zazzà!
Trilussa (Carlo Alberto Salustri)
-consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini
Consolazione
Non pianger più. Torna il diletto figlio
a la tua casa. È stanco di mentire.
Vieni; usciamo. Tempo è di rifiorire.
Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.
Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato
serba ancóra per noi qualche sentiero.
Ti dirò come sia dolce il mistero
che vela certe cose del passato.
Ancóra qualche rose è ne' rosai,
ancóra qualche timida erba odora.
Ne l'abbandono il caro luogo ancóra
sorriderà, se tu sorriderai.
Ti dirò come sia dolce il sorriso
di certe cose che l'oblìo afflisse.
Che proveresti tu se fiorisse
la terra sotto i piedi, all'improvviso?
Tanto accadrà, ben che non sia d'aprile.
Usciamo. Non coprirti il capo. È un lento
sol di settembre; e ancor non vedo argento
su 'l tuo capo, e la riga è ancor sottile.
Perché ti neghi con lo sguardo stanco?
La madre fa quel che il buon figlio vuole.
Bisogna che tu prenda un po' di sole,
un po' di sole su quel viso bianco.
Bisogna che tu sia forte; bisogna
che tu non pensi a le cattive cose...
Se noi andiamo verso quelle rose,
io parlo piano, l'anima tua sogna.
Sogna, sogna, mia cara anima! Tutto,
tutto sarà come al tempo lontano.
Io metterò ne la tua pura mano
tutto il mio cuore. Nulla è ancor distrutto.
Sogna, sogna! Io vivrò de la tua vita.
In una vita semplice e profonda
io rivivrò. La lieve ostia che monda
io la riceverò da le tue dita.
Sogna, ché il tempo di sognare è giunto.
Io parlo. Di': l'anima tua m'intende?
Vedi? Ne l'aria fluttua e s'accende
quasi il fantasma d'un april defunto.
Settembre (di': l'anima tua m'ascolta?)
ha ne l'odore suo, nel suo pallore,
non so, quasi l'odore ed il pallore
di qualche primavera dissepolta.
Sogniamo, poi ch'è tempo di sognare.
Sorridiamo. È la nostra primavera,
questa. A casa, più tardi, verso sera,
vo' riaprire il cembalo e sonare.
Quanto ha dormito, il cembalo! Mancava,
allora, qualche corda; qualche corda
ancora manca. E l'ebano ricorda
le lunghe dita ceree de l'ava.
Mentre che fra le tende scolorate
vagherà qualche odore delicato,
(m'odi tu?) qualche cosa come un fiato
debole di viole un po' passate,
sonerò qualche vecchia aria di danza,
assai vecchia, assai nobile, anche un poco
triste; e il suono sarà velato, fioco,
quasi venisse da quell'altra stanza.
Poi per te sola io vo' comporre un canto
che ti raccolga come in una cuna,
sopra un antico metro, ma con una
grazia che sia vaga e negletta alquanto.
Tutto sarà come al tempo lontano.
L'anima sarà semplice com'era;
e a te verrà, quando vorrai, leggera
come vien l'acqua al cavo de la mano.
Gabriele D'Annunzio
-consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini
Non ho più musiche, né più parole
Sono stato un poeta, o forse solo
un randagio clochard senza canzoni.
Con parole di seta ho accarezzato
la ragazza perduta che a Srebrenica
cercava tra i castagni via di fuga
(il passo dei soldati inesorabile!...),
e i bambini che a Buchenwald marciavano
nel vento verso i valichi del cielo.
Dei cuccioli smarriti di Beslàn
ho cantato coriandoli di cuore,
di Anna e Aylàn il grido soffocato,
di Malala l'orgoglio, la speranza.
Sono stato un poeta, o forse solo
un maldestro giullare della cetra,
discordi le mie note a consolare
le madri affrante ai piedi di ogni croce.
Ora non voglio più scrivere versi.
Non straziatemi più con il martirio
della ragazza crespa che, in aprile,
guadava il fiume verso Chisimaio,
ultimo volo prima della resa
all'empio rito della prima pietra:
non ho più musiche, né più parole
per consolare il pianto dei bambini,
per cantare il coraggio delle donne.
Sono stato un poeta, o forse solo
un randagio clochard senza canzoni.
Umberto Vicaretti
(nato a Luco dei Marsi -Aq- nel 1943. Laureatosi in Filosofia con Guido
Calogero presso l'Università La Sapienza di Roma, è stato prima docente, poi
dirigente scolastico. Dall'Università Pontificia Salesiana è stato insignito
della Laurea Apollinaris Poetica. La poesia qui presentata è stata
classificata al primo posto nel VI° concorso internazionale di Messina
"Poesie da tutti i cieli", organizzato dall'esperantista Giuseppe
Campolo)
-consigliata da Piero Colonna-Romano
Discorso sulla vita ("Cavalieri
dello Zodiaco")
Il fiore sboccia e appassisce,
la stella brilla nella notte
per poi sbiadire.
Ogni cosa ha una fine,
la terra,
il sole,
le innumerevoli galassie,
e persino lo sconfinato universo.
Accanto a tutto questo,
la vita umana è soltanto un fugace battito di ciglia.
Ecco che in un preciso punto del tempo dello spazio,
l'uomo nasce,
lungo l'arco della vita ride,
piange,
combatte,
soffre.
E' felice o in affanno,
d'amore è ricolmo,
o consunto dall'odio,
ma poi scivola come tutti nel sonno più lungo...
il sonno eterno.
Shaka di Virgo
Masami Kurumada
- consigliata da Carlo Festa
Il 5 maggio
Ei fu. Siccome immobile,
Dato il mortal sospiro,
Stette la spoglia immemore
Orba di tanto spiro,
Così percossa, attonita
La terra al nunzio sta,
Muta pensando all'ultima
Ora dell'uom fatale;
Nè sa quando una simile
Orma di piè mortale
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
Vide il mio genio e tacque;
Quando, con vece assidua,
Cadde, risorse e giacque,
Di mille voci al sonito
Mista la sua non ha:
Vergin di servo encomio
E di codardo oltraggio,
Sorge or commosso al subito
Sparir di tanto raggio:
E scioglie all'urna un cantico
Che forse non morrà.
Dall'Alpi alle Piramidi,
Dal Manzanarre al Reno,
Di quel securo il fulmine
Tenea dietro al baleno;
Scoppiò da Scilla al Tanai,
Dall'uno all'altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
L'ardua sentenza: nui
Chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
Del creator suo spirito
Più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
Gioia d'un gran disegno,
L'ansia d'un cor che indocile
Serve, pensando al regno;
E il giunge, e tiene un premio
Ch'era follia sperar;
Tutto ei provò: la gloria
Maggior dopo il periglio,
La fuga e la vittoria,
La reggia e il tristo esiglio:
Due volte nella polvere,
Due volte sull'altar.
Ei si nomò: due secoli,
L'un contro l'altro armato,
Sommessi a lui si volsero,
Come aspettando il fato;
Ei fe' silenzio, ed arbitro
S'assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell'ozio
Chiuse in sì breve sponda,
Segno d'immensa invidia
E di pietà profonda,
D'inestinguibil odio
E d'indomato amor.
Come sul capo al naufrago
L'onda s'avvolve e pesa,
L'onda su cui del misero,
Alta pur dianzi e tesa,
Scorrea la vista a scernere
Prode remote invan;
Tal su quell'alma il cumulo
Delle memorie scese!
Oh quante volte ai posteri
Narrar se stesso imprese,
E sull'eterne pagine
Cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
Morir d'un giorno inerte,
Chinati i rai fulminei,
Le braccia al sen conserte,
Stette, e dei dì che furono
L'assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
Tende, e i percossi valli,
E il lampo de' manipoli,
E l'onda dei cavalli,
E il concitato imperio,
E il celere ubbidir.
Ahi! forse a tanto strazio
Cadde lo spirto anelo,
E disperò: ma valida
Venne una man dal cielo,
E in più spirabil aere
Pietosa il trasportò;
E l'avviò, pei floridi
Sentier della speranza,
Ai campi eterni, al premio
Che i desidéri avanza,
Dov'è silenzio e tenebre
La gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
Chè più superba altezza
Al disonor del Golgota
Giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
Sperdi ogni ria parola:
Il Dio che atterra e suscita,
Che affanna e che consola,
Sulla deserta coltrice
Accanto a lui posò.
Alessandro Manzoni
-consigliata da Piero Colonna-Romano
La canzone d'amore
Un poeta una volta scrisse una canzone d'amore, ed era bella. E ne fece
molte copie, e le mandò ad amici e conoscenti,
sia uomini che donne, e anche a una giovane che aveva incontrato una sola
volta, che viveva oltre le montagne.
E dopo un paio di giorni giunse un messaggero recando una lettera della
giovane donna. E la lettera diceva:
"Mi ha profondamente commosso, sappilo, la canzone d'amore che hai scritto
per me.
Vieni senza indugiare, vieni a conoscere mio padre e mia madre, e
prenderemo accordi per il fidanzamento".
E il poeta così rispose alla lettera: "Amica mia, era solo una canzone
d'amore che usciva dal cuore di un poeta,
cantata da ogni uomo a ogni donna". E lei gli riscrisse dicendo:
"Ipocrita e bugiardo! Da questo giorno sino al giorno della mia sepoltura
odierò tutti i poeti per causa tua".
Khalil Gibran
-consigliata da Alessio Romanini
Per quanto sta in te
E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.
Costantino Kavafis
-Consigliata da Sandra Greggio
Il giorno del ricordo
Urlavano Italia, e caddero.
Bruciavano di dolore, e caddero.
Indifesi e soli, svanirono in infernali voragini.
Eco di silenzioso dolore gettato
in un baratro di follia che profuma di morte.
La polvere mi parla di loro,
sussurri di mille voci singhiozzi,
silenzi, troppi silenzi.
Sofferenza in terre d’amore,
sfumature d’Istria, onde di Trieste
profumi di Zara e colori di Dalmazia.
Chi scampò lasciò tutto,
una lunghissima carovana
di lacrime dure partì,
verso la loro terra, la loro nazione.
Tornarono nella loro patria,
esuli con la morte negli occhi
e la speranza nell’anima,
spogli di tutto tranne che la dignità
pronti a rinascere nuovamente,
con l’orgoglio di aver combattuto,
vivendo con l’Italia nel cuore.
Poesia dedicata alle stragi nelle foibe e all'esodo degli istriani
Ermanno Eandi
-poesia consigliata da Sandra Greggio
Non aspettare
Non aspettare di finire l'università,
di innamorarti,
di trovare lavoro,
di sposarti,
di avere figli,
di vederli sistemati,
di perdere quei dieci chili,
che arrivi il venerdì sera o la domenica mattina,
la primavera,
l'estate,
l'autunno o l'inverno.
Non c'è momento migliore di questo per essere felice.
La felicità è un percorso, non una destinazione.
Lavora come se non avessi bisogno di denaro,
ama come se non ti avessero mai ferito e balla,
come se non ti vedesse nessuno.
Ricordati che la pelle avvizzisce,
i capelli diventano bianchi
e i giorni diventano anni,
Ma l'importante non cambia:
la tua forza e la tua convinzione non hanno età.
Il tuo spirito è il piumino che tira via qualsiasi ragnatela.
Dietro ogni traguardo c'è una nuova partenza.
Dietro ogni risultato c'è un'altra sfida.
Finché sei vivo,
sentiti vivo.
Vai avanti, anche quanto tutti
si aspettano che lasci perdere.
Madre Teresa di Calcutta
-poesia consigliata da Carlo Festa
La
Chimera
Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m'apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l'immobilità dei firmamenti
E i gonfi rivi che vanno piangenti
E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
Dino Campana, Canti Orfici
-poesia consigliata da Alessio Romanini
La vita
La vita – è il solo modo
per coprirsi di foglie,
prendere fiato sulla sabbia,
sollevarsi sulle ali;
essere un cane,
o carezzarlo sul suo pelo caldo;
distinguere il dolore
da tutto ciò che dolore non è;
stare dentro gli eventi,
dileguarsi nelle vedute,
cercare il più piccolo errore.
Un’occasione eccezionale
per ricordare per un attimo
di che si è parlato
a luce spenta;
e almeno per una volta
inciampare in una pietra,
bagnarsi in qualche pioggia,
perdere le chiavi tra l’erba;
e seguire con gli occhi una scintilla
nel vento;
e persistere nel non sapere
qualcosa d’importante.
Wislawa Szymborska
-consigliata da Sandra Greggio
Nel giorno della memoria
chi meglio di lui
può ricordarci la barbarie
del nazifascismo ?
Se questo è un uomo
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
Primo Levi
-consigliata da Piero Colonna-Romano
Rosa appassita
Forse ella ha troppo amato:
Ora è stanca e riposa.
Forse ha sofferto molto:
Sul gambo ripiegato
Or china con un tremito
La testa dolorosa.
Forse ella soffre ancora:
La nausea de la vita,
L'ebbrezza de la morte
Nell'agonia de l'ora
Parlan fra i vizzi petal....
Forse ella fu tradita.
Non so che storia ascosa
Mi narri il dì che cade,
Il penetrante balsamo
De la sfiorita rosa,
La stanza solitaria
Che la penombra invade.
L'anima d'un ignoto
Presso la mia respira:
Aleggiare la sento
Come un bacio nel vuoto,
Mister di luce e d'ombra
Che tutta a sè m'attira.
Ed un desìo mi nasce:
Essere morsa al cuore,
Esser baciata in bocca,
Provar gioie ed ambasce,
La follìa del trionfo,
La follìa del dolore.
Batte un rintocco:—è l'Ave.
O triste fior sfogliato
Consunto di dolcezza,
O fior mite e soave,
Senti: non vo' morire
Prima d'avere amato
Ada Negri
-consigliata da Alessio Romanini
Art poetique
Dans un sommeil m'entraîne
où je ne savais pas
creusant la nuit, ma monture somnambule
si loin qu'au réveil il faudra
(revenue, la limitée vision diurne)
pas à pas tout refaire à l'envers,
l'oreille attentive aux rythmes, et l'oeil
à la géométrie,
un à un glanant mes cailloux
parmi le soulèvement imperceptible du
dessous
pour jeter des ponts sur l'air
Sylviane Dupuis
Arte poetica
In un sonno mi trascina
dove non sapevo
scavando la notte, la mia montura sonnambula
così lontano che al risveglio bisognerà
(ritornata la limitata visione diurna)
passo passo rifar tutto a ritroso,
l'orecchio attento ai ritmi e l'occhio
alla geometria,
raccattando uno ad uno i miei sassi
fra il sollevamento impercettibile del
sotto
per lanciare in aria dei ponti.
Sylviane Dupuis traduzione di
Nino Muzzi
-proposta da Piero Colonna Romano
George Gray
Molte volte ho studiato
la lapide che mi hanno scolpito:
una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione
ma la mia vita.
Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;
l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.
E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio —
è una barca che anela al mare eppure lo teme.
Antologia di Spoon River
Edgar Lee Masters
-consigliata da Sandra Greggio
La vita è ricca di amorosi incanti
La vita è ricca di amorosi incanti,
di splendide visioni luminose -
onde azzurre spumose alle scogliere,
garruli fuochi in lingue scintillanti,
volti di bimbi in estasi sognanti
come coppe imbevute di chimere.
La vita vende gli amorosi incanti,
nella pioggia il pineto profumato -
c'è la musica, un alto arco dorato,
caldi abbracci, devoti sguardi amanti,
delizie dello spirito incorrotte,
visioni come stelle nella notte.
Spendi tutto per doni come questi,
senza pensare al conto della spesa.
Un'ora in pace candida, sicura,
vale di mesi ed anni amara attesa:
per un respiro di estasi pura
da' quel che fosti, o ch'essere potresti.
Sara Teasdale
-consigliata da Sandra Greggio
A se stesso
Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta ormai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.
Giacomo Leopardi
-consigliata da Alessio Romanini
Esitammo un
istante
e dopo poco riconoscemmo
di avere la stessa malattia.
Non vi è definizione
per questa mirabile tortura,
c’è chi la chiama spleen
e chi malinconia.
Ma se accettiamo il gioco
ai margini troviamo
un segno intellegibile
che può dar senso al tutto.
Eugenio Montale
-consigliata da Alessio Romanini
La mia anima ha fretta
” Ho contato i miei anni ed ho scoperto che ho meno tempo da vivere
da ora in avanti, rispetto a quanto ho vissuto finora…
Mi sento come quel bimbo cui regalano un pacchetto di dolci:
i primi li mangia con piacere, ma quando si accorge che gliene rimangono
pochi,
comincia a gustarli intensamente.
Non ho più tempo per riunioni interminabili,
in cui si discutono statuti, leggi, procedimenti e regolamenti interni,
sapendo che alla fine non si concluderà nulla.
Non ho più tempo per sopportare persone assurde che, oltre che per l’età
anagrafica,
non sono cresciute per nessun altro aspetto.
Non ho più tempo, da perdere per sciocchezze.
Non voglio partecipare a riunioni in cui sfilano solo “Ego” gonfiati.
Ora non sopporto i manipolatori, gli arrivisti, né gli approfittatori.
Mi disturbano gli invidiosi, che cercano di discreditare i più capaci,
per appropriarsi del loro talento e dei loro risultati.
Detesto, se ne sono testimone, gli effetti che genera la lotta per un
incarico importante.
Le persone non discutono sui contenuti, ma solo sui títoli…
Ho poco tempo per discutere di beni materiali o posizioni sociali.
Amo l’essenziale, perché la mia anima ora ha fretta…
Non ho più molti dolci nel pacchetto…
Adesso, così solo, voglio vivere tra gli esseri umani, molto sensibili.
Gente che sappia amare e burlarsi dell’ingenuo e dei suoi errori.
Gente molto sicura di se stessa , che non si vanti dei suoi lussi e delle
sue ricchezze.
Gente che non si consideri eletta anzitempo.
Gente che non sfugga alle sue responsabilità.
Gente molto sincera che difenda la dignità umana.
Con gente che desideri solo vivere con onestà e rettitudine.
Perché solo l’essenziale é ciò che fa sì che la vita valga la pena viverla.
Voglio circondarmi di gente che sappia arrivare al cuore delle altre persone
…
Gente cui i duri colpi della vita, abbiano insegnato a crescere con dolci
carezze nell’anima.
Sí… ho fretta… per vivere con l’intensità che niente più che la maturità ci
può dare.
Non intendo sprecare neanche un solo dolce di quelli che ora mi restano nel
pacchetto.
Sono sicuro che saranno squisiti, molto di più di quelli che ho mangiato
finora.
Il mio obiettivo, alla fine, é andar via soddisfatto e in pace con i miei
cari e con la mia coscienza.
Abbiamo due vite e la seconda inizia quando ti rendi conto che ne hai solo
una. “
Mario de Andrade
(San Paolo, 9 ottobre 1893 – San Paolo, 25 febbraio 1945,
è stato un poeta, musicologo, critico letterario e narratore brasiliano)
-consigliata da Anita di Zara
Bambino
Bambino, se trovi l’aquilone della tua fantasia
legalo con l’intelligenza del cuore.
Vedrai sorgere giardini incantati
e tua madre diventerà una pianta
che ti coprirà con le sue foglie.
Fa delle tue mani due bianche colombe
che portino la pace
ovunque e l’ordine delle cose.
Ma prima di imparare a scrivere
guardati nell’acqua del sentimento.
Alda Merini
-consigliata da Alessio Romanini
La guida
Quela Vecchietta ceca, che incontrai
la notte che me spersi in mezzo ar bosco,
me disse : – Se la strada nu’ la sai,
te ciaccompagno io, chè la conosco.
Se ciai la forza de venimme appresso,
de tanto in tanto te darò una voce
fino là in fonno, dove c’è un cipresso,
fino là in cima, dove c’è la Croce… –
Io risposi: – Sarà… ma trovo strano
che me possa guidà chi nun ce vede… –
La Ceca, allora, me pijò la mano
e sospirò: – Cammina! –
Era la Fede
Trilussa
-Consigliata da Alessio Romanini
Natale de guerra
Ammalappena che s'è fatto giorno
la prima luce è entrata ne la stalla
e er Bambinello s'è guardato intorno.
- Che freddo, mamma mia! Chi m'aripara?
Che freddo, mamma mia! Chi m'ariscalla?
- Fijo, la legna è diventata rara
e costa troppo cara pè compralla...
- E l'asinello mio dov'è finito?
- Trasporta la mitraja
sur campo de battaja: è requisito.
- Er bove? - Pure quello…
fu mannato ar macello.
- Ma li Re Maggi arriveno? - E' impossibbile
perchè nun c'è la stella che li guida;
la stella nun vò uscì: poco se fida
pè paura de quarche diriggibbile...-
Er Bambinello ha chiesto:- Indove stanno
tutti li campagnoli che l'antr'anno
portaveno la robba ne la grotta?
Nun c'è neppuro un sacco de polenta,
nemmanco una frocella de ricotta...
- Fijo, li campagnoli stanno in guerra,
tutti ar campo e combatteno. La mano
che seminava er grano
e che serviva pè vangà la terra
adesso viè addoprata unicamente per ammazzà la gente...
Guarda, laggiù, li lampi
de li bombardamenti!
Li senti, Dio ce scampi,
li quattrocentoventi
che spaccheno li campi?-
Ner dì così la Madre der Signore
s'è stretta er Fijo ar core
e s'è asciugata l'occhi cò le fasce.
Una lagrima amara pè chi nasce,
una lagrima dòrce pè chi more...
Trilussa
-consigliata da Alessio Romanini
Essere vivi
Essere vivi
essere vivi ora
vuol dire avere sete
essere abbagliati dal sole fra gli alberi
ricordare all’improvviso una melodia
starnutire
tenerti per mano
essere vivi
essere vivi ora
vuol dire minigonna
un planetario
Johann Strauss
Picasso
le Alpi
vuol dire imbattersi in tutte le cose belle
e poi
essere attenti e opporsi al male che vi si nasconde
essere vivi
essere vivi ora
vuol dire poter piangere
poter ridere
potersi arrabbiare
vuol dire libertà
essere vivi
essere vivi ora
vuol dire un cane che abbaia in lontananza ora
la terra che sta girando ora
da qualche parte il primo vagito che si alza ora
da qualche parte un soldato ferito ora
è un’altalena che dondola ora
è l’ora che passa ora
essere vivi
essere vivi ora
vuol dire il battito d’ali degli uccelli
vuol dire il fragore del mare
il lento procedere di una lumaca
vuol dire gente che ama
il tepore della tua mano
vuol dire vita
(1971)
Poeti giapponesi (Einaudi, 2020), a cura di M. T. Orsi e A. Clementi degli
Albizzi
Poesia pubblicata il 26 maggio 2020
Shuntarō
Tanikawa
- consigliata da Sandra Greggio
Rosso cardinale
Qui il fuoco è passato anche stasera
è calato il grande velo di silenzio
rosso cardinale d' inverno.
Non si dice la verità con le parole
non basta un punto di vista diverso
per rimuovere il fumo che non dirada.
Eppure qualcosa mi dice
che tutto è vivo
per rimettersi ad arare
e mettersi ancora alla prova.
Eccoli i nuovi punti di prospettiva...
tutto è asimmetrico.
La vita è una questione di asimmetria.
Hanno detto che troppo giovani
non si giudica bene
e notte è nebbia per quelli
come noi troppo vecchi.
Prendo il lavoro mio:
ho arato profondo
tutta una vita d'argilla.
In ogni mia zolla
c'è un atomo giusto?
Forse è accaduto
che al tendere di X al punto C
la mia Y smarrisca sempre il limite infinito.
Ma s'apre il lembo del cielo...
così vado ad arare ancora la terra
e squarcio il trapestio che invade
il pispillare roteante dei gabbiani.
Ormai il sorriso fresco del sole
ruba questo mio sgricciare di foglie.
Roberto Soldà
- consigliata da Piero Colonna Romano
Arare
S'è aperto il lembo del cielo...
vado ad arare la terra
lo squarcio il trapestio che invade
il pispillare roteante dei gabbiani.
Eccolo il sorriso fresco del sole
che ruba lo sgricciare delle tue foglie.
Voi non sapete
quale scienza s'impara
osservando come il vomere
penetra nella terra.
Ognuno così può pensare
ai patimenti della terra
quando ondeggia l'aratro
che fruga tra i suoi sbalzelli.
Mentre s'apre diritto il solco
chiude la bocca il cielo...
s'amplia il dolore
nella distesa turchese
battuta dal vento.
Roberto Soldà
- consigliata da Piero Colonna Romano
La poesia
(da Canti di Castelvecchio)
I
Io sono una lampada ch'arda
soave!
la lampada, forse, che guarda,
pendendo alla fumida trave,
la veglia che fila;
e ascolta novelle e ragioni
da bocche
celate nell'ombra, ai cantoni,
là dietro le soffici rócche
che albeggiano in fila:
ragioni, novelle, e saluti
d'amore, all'orecchio, confusi:
gli assidui bisbigli perduti
nel sibilo assiduo dei fusi;
le vecchie parole sentite
da presso con palpiti nuovi,
tra il sordo rimastico mite
dei bovi:
II
la lampada, forse, che a cena
raduna;
che sboccia sul bianco, e serena
su l'ampia tovaglia sta, luna
su prato di neve;
e arride al giocondo convito;
poi cenna,
d'un tratto, ad un piccolo dito,
là, nero tuttor della penna
che corre e che beve:
ma lascia nell'ombra, alla mensa,
la madre, nel tempo ch'esplora
la figlia più grande che pensa
guardando il mio raggio d'aurora:
rapita nell'aurea mia fiamma
non sente lo sguardo tuo vano;
già fugge, è già, povera mamma,
lontano!
III
Se già non la lampada io sia,
che oscilla
davanti a una dolce Maria,
vivendo dell'umile stilla
di cento capanne:
raccolgo l'uguale tributo
d'ulivo
da tutta la villa, e il saluto
del colle sassoso e del rivo
sonante di canne:
e incende, il mio raggio, di sera,
tra l'ombra di mesta viola,
nel ciglio che prega e dispera,
la povera lagrima sola;
e muore, nei lucidi albori,
tremando, il mio pallido raggio,
tra cori di vergini e fiori
di maggio:
IV
o quella, velata, che al fianco
t'addita
la donna più bianca del bianco
lenzuolo, che in grembo, assopita,
matura il tuo seme;
o quella che irraggia una cuna
- la barca
che, alzando il fanal di fortuna,
nel mare dell'essere varca,
si dondola, e geme -;
o quella che illumina tacita
tombe profonde - con visi
scarniti di vecchi; tenaci
di vergini bionde sorrisi;
tua madre!... nell'ombra senz'ore,
per te, dal suo triste riposo,
congiunge le mani al suo cuore
già róso! -
V
Io sono la lampada ch'arde
soave!
nell'ore più sole e più tarde,
nell'ombra più mesta, più grave,
più buona, o fratello!
Ch'io penda sul capo a fanciulla
che pensa,
su madre che prega, su culla
che piange, su garrula mensa,
su tacito avello;
lontano risplende l'ardore
mio casto all'errante che trita
notturno, piangendo nel cuore,
la pallida via della vita:
s'arresta; ma vede il mio raggio,
che gli arde nell'anima blando:
riprende l'oscuro viaggio
cantando.
Giovanni Pascoli
Consigliata da Piero Colonna Romano
Le montagne russe
S'intrufola, si fa presente l'odore bianco
del latte appena munto caldo
a fare rivivere le montagne russe.
Sembrano fiocchi di neve
tanti pezzettini di carta bianchissimi
che vagano nel clima allegro
dei pensieri ondeggianti.
Ed ecco per reazione s'avvia
una delle poche
rare ormai queste nostre
reazioni oscillanti
d' altre montagne russe.
D'improvviso le rivela una finestra...
aprendosi nella mente
furtivo conflagra
tutto il giallo cromo di Van Gogh
nei minimi preziosi dettagli.
Va' ad immaginarti
che in autunno
ti possano sorprendere ancora
i vispi elettroni impulsivi
della corrente giovane
di musica fresca alternante.
A profilarsi da lontano
molto profondo lontano
in mezzo al fiammeggiante rogo
un riverbero di celeste
per un istante appare .
Come arcobaleno
poi dietro una nuvola
rapidamente un viso scompare.
Roberto Soldà
Consigliata da Piero Colonna Romano
La costante d'equilibrio
Mi sono tornate
a ritrovare stanotte
le due ruote del mulino di Gradiscutta.
Erano immote abbandonate...
solo un po' d'acqua del Varmo
di loro ancora
dei tempi andati
di chi si ricorda.
Eppure andando indietro
ci deve essere da qualche parte
la costante d'equilibrio
quella con l'atmosfera
il sapore d'erba del Varmo
con i colori intensi
gli odori verdi vivaci
nell'alterco degli elementi
i coefficienti stechiometrici mancanti
degli atomi sfuggenti
quelli che sciamando ricercavi.
Sembra non sembra
o forse lo è realmente
può esserci ancora
come sempre è stata
la costante d'equilibrio
vera o apparente.
Anche se traccia non c'è
ci dev'essere...
i frammenti
come quelli di queste due ruote
che gocciolano assetate
là fuori
qui stanotte
dentro di me.
Roberto Soldà
(NDA: la costante d'equilibrio -tendenza ad avvenire di una
trasformazione-
è da considerare metaforicamente la "fotografia" di uno stato d'equilibrio)
-proposta da Piero Colonna Romano
I fiumi
(Cotici il 16 agosto 1916)
Mi tengo a quest'albero mutilato
Abbandonato in questa dolina
Che ha il languore
Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo.
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna..
Stamani mi sono disteso
In un'urna d'acqua
E come una reliquia
Ho riposato.
L'Isonzo scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull'acqua
Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere
Il sole
Questo è l'Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell'universo
Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia
Ma quelle occulte
Mani
Che m'intridono
Mi regalano
La rara
Felicità
Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita
Questi sono
I miei fiumi
Questo è il Serchio
Al quale hanno attinto
Duemil'anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.
Questo è il Nilo
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d'inconsapevolezza
Nelle distese pianure
Questa è la Senna
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto
Questi sono i miei fiumi
Contati nell'Isonzo
Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch'è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre
Giuseppe Ungaretti
-proposta da Piero Colonna Romano
X Agosto
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra i spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono...
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!
Giovanni Pascoli
- consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini
CANTICO DEI CANTICI - 3
1 Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato
l’amore dell’anima mia;
l’ho cercato, ma non l’ho trovato.
2 Mi alzerò e farò il giro della città
per le strade e per le piazze;
voglio cercare l’amore dell’anima mia.
L’ho cercato, ma non l’ho trovato.
3 Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città:
«Avete visto l’amore dell’anima mia?».
4 Da poco le avevo oltrepassate,
quando trovai l’amore dell’anima mia.
Lo strinsi forte e non lo lascerò,
finché non l’abbia condotto nella casa di mia madre,
nella stanza di colei che mi ha concepito.
5 Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,
per le gazzelle o per le cerve dei campi:
non destate, non scuotete dal sonno l’amore,
finché non lo desideri.
6 Chi sta salendo dal deserto
come una colonna di fumo,
esalando profumo di mirra e d’incenso
e d’ogni polvere di mercanti?
7 Ecco, la lettiga di Salomone:
sessanta uomini prodi le stanno intorno,
tra i più valorosi d’Israele.
8 Tutti sanno maneggiare la spada,
esperti nella guerra;
ognuno porta la spada al fianco
contro il terrore della notte.
9 Un baldacchino si è fatto il re Salomone
con legno del Libano.
10 Le sue colonne le ha fatte d’argento,
d’oro la sua spalliera;
il suo seggio è di porpora,
il suo interno è un ricamo d’amore
delle figlie di Gerusalemme.
11 Uscite, figlie di Sion,
guardate il re Salomone
con la corona di cui lo cinse sua madre
nel giorno delle sue nozze,
giorno di letizia del suo cuore.
Bibbia
- consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini
Imagine
(John Lennon)
Imagine there's no heaven
It's easy if you try
No hell below us
Above us only sky
Imagine all the people
Living for today
Imagine there's no countries
It isn't hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion too
Imagine all the people
Living life in peace
You may say I'm a dreamer
But I'm not the only one
I hope someday you'll join us
And the world will be as one
Imagine no possessions
I wonder if you can
No need for greed or hunger
A brotherhood of man
Imagine all the people
Sharing all the world
You may say I'm a dreamer
But I'm not the only one
I hope someday you'll join us
And the world will live as one |
Immagina non esista paradiso
è facile se provi,
nessun inferno sotto noi,
sopra solo cielo.
Immagina che tutta la gente
viva solo per l'oggi.Immagina non ci siano nazioni,
non è difficile da fare:
niente per cui uccidere e morire
nessuna religione.
Immagina tutta la gente
che vive in pace.
Puoi dire che sono un sognatore,
ma non sono il solo,
spero che ti unirai a noi un giorno
e il mondo vivrà in armonia.
Immagina un mondo senza la proprietà,
mi chiedo se ci riesci,
senza bisogno di avidità o fame,
una fratellanza fra gli uomini.
Immagina tutta la gente
che condivide il mondo.
Puoi dire che sono un sognatore
ma non sono il solo,
spero che ti unirai a noi un giorno
e il mondo vivrà in armonia. |
(proposta da Piero Colonna Romano)
Acque lombarde
Acque serene ch'io corsi sognando
ne la dolcezza de le notti estive,
acque che vi allargate fra le rive
come un occhio stupito, a quando a quando,
o nostalgiche acque di sorgive
mormoranti nel verde un sogno blando,
acque lombarde ch'io vo' sospirando
sempre, tanto il ricordo in cor mi vive,
di voi l'anima dice acque stagnanti
ne' verdi piani de la Lombardia,
di voi fonti gioconde scintillanti
a' dolci soli del fiorito maggio
e su voi la sognante anima mia
muove per suo spiritual viaggio.
Sergio Corazzini
- proposta da Piero Colonna Romano
La sera fiesolana.
Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.
Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!
Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ’l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su ’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!
Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.
Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!
Gabriele D'Annunzio
-Consigliata da Sandra Greggio
Il Ponfo
Il Ponfo non smorbilla e non varisce
rosseggia e derma, rascia e poi s'acquatta
e quando il savalente lo ghermisce
esanto e matico, sovente schiatta
.
Rossolio è il ponfo e pieno di liquello
sbercia imbolloso, luspo, mai dermiente,
e in compagnia sgraffendo questo e quello,
sbrucia e sbrucia con grattico furente.
Eppure il vecchio ponfo scarlattino
che papuloso invéscica prudello,
se istaminchiando scurtichi eczemìno
t'abbandona, ti tira lo sgramello
crostico, e nello spazio d'un mattino
resti sperduta in fondo al varicello.
Fosco Maraini
(proposta da Piero Colonna Romano)
E lasciatemi divertire
Tri tri tri,
fru fru fru,
ihu ihu ihu,
uhi uhi uhi!
Il poeta si diverte,
pazzamente,
smisuratamente!
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto.
Cucù rurù,
rurù cucù,
cuccuccurucù!
Cosa sono queste indecenze?
Queste strofe bisbetiche?
Licenze, licenze,
licenze poetiche!
Sono la mia passione.
Farafarafarafa,
tarataratarata,
paraparaparapa,
laralaralarala!
Sapete cosa sono?
Sono robe avanzate,
non sono grullerie,
sono la spazzatura
delle altre poesie
Bubububu,
fufufufu.
Friu!
Friu!
Ma se d'un qualunque nesso
son prive,
perché le scrive
quel fesso?
bilobilobilobilobilo
blum!
Filofilofilofilofilo
flum!
Bilolù. Filolù.
Non è vero che non voglion dire,
voglion dire qualcosa.
Voglion dire...
come quando uno
si mette a cantare
senza saper le parole.
Una cosa molto volgare.
Ebbene, così mi piace di fare.
Aaaaa!
Eeeee!
Iiiii!
Ooooo!
Uuuuu!
A! E! I! O! U!
Ma giovanotto,
ditemi un poco una cosa,
non è la vostra una posa,
di voler con così poco
tenere alimentato
un sì gran foco?
Huisc...Huiusc...
Sciu sciu sciu,
koku koku koku.
Ma come si deve fare a capire?
Avete delle belle pretese,
sembra ormai che scriviate in giapponese.
Abì, alì, alarì.
Riririri!
Ri.
Lasciate pure che si sbizzarrisca,
anzi è bene che non la finisca.
Il divertimento gli costerà caro,
gli daranno del somaro.
Labala
falala
falala
eppoi lala.
Lalala lalala.
Certo è un azzardo un po' forte,
scrivere delle cose così,
che ci son professori oggidì
a tutte le porte.
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!
Infine io ò pienamente ragione,
i tempi sono molto cambiati,
gli uomini non dimandano
più nulla dai poeti,
e lasciatemi divertire!
Aldo Palazzeschi
(proposta da Piero Colonna Romano)
Attesa
"Oggi che t'aspettavo
non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice
e la tua assenza che tumultuava
nel vuoto che hai lasciato
come una stella,
dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
s'annuncia e poi s'allontana,
così, ti sei negata alla mia sete.
L'amore sul nascere,
ha di questi improvvisi pentimenti.
Silenziosamente
ci siamo intesi.
Amore, amore, come sempre
vorrei coprirti di fiori e d'insulti."
Vincenzo Cardarelli
(Proposta da Piero Colonna Romano)
Altrove padano
Viaggiatore che guardi il tuo treno
in corsa tra le risaie
affacciato da un vagone di coda
in curva tra le robinie,
sei in fuga lungo un arco di spazio?
o immobile guardi lontano
più lontano, da una piega del tempo
se il sole che ora declina
(il verde è un trionfo di giallo)
si arresta ai tuoi occhi pavesi?
Viaggiatore di fine giornata
di collo magro, di fronte stempiata.
Luciano Erba
-Consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini
Pandemonio virale (2020)
Occulto silente l'arrivo
dal girone infernale assente....
invisibile famoso
infame assassino
rimembri memorie
ferme passate.
Sì! battaglia
veemente furente
ferito spossato
ondeggi serpeggi
vanesio resisti.
Scoperta l'arma letale
fatale la tua sorte
è morte!
Libertà sei qua!
Grida plauso vita
rimbalza l'eco
tra cielo e terra
corri vai
l'ancora è levata
l'arcobaleno l'ha colorata.
Ivana Zantedeschi
(proposta da Piero Colonna Romano)
Ad una foglia
Foglia, che lieve a la brezza cadesti
sotto i miei piedi, con mite richiamo
forse ti lagni perch’io ti calpesti.
Mentr’eri viva sul verde tuo ramo,
passai sovente, e di te non pensai;
morta ti penso, e mi sento che t’amo.
Tu pur coll’aure, coll’ombre, co’ rai
venivi amica nell’anima mia;
con lor d’amore indistinto t’amai.
Conversa in loto ed in polvere, o pia,
per vite nuove il perpetuo concento
seguiterai della prima armonia.
E io, che viva in me stesso ti sento,
cadrò tra breve, e darò del mio frale
al fiore, all’onda, all’elettrico, al vento.
Ma te, de’ cieli nell’alto, sull’ale
recherà grato lo spirito mio;
e, pura idea, di sorriso immortale
sorriderai nel sorriso di Dio.
Niccolò Tommaseo
-Consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini
Alda Merini
-Poesia consigliata da Maurizio Mazzotti
Volterra.
Su l’etrusche tue mura, erma Volterra,
fondate nella rupe, alle tue porte
senza stridore, io vidi genti morte
della cupa città ch’era sotterra.
Il flagel della peste e della guerra
avea piagata e tronca la tua sorte;
e antichi orrori nel tuo Mastio forte
empievan l’ombra che nessun disserra.
Lontanar le Maremme febbricose
vidi, e i plumbei monti, e il Mar biancastro,
e l’Elba e l’Arcipelago selvaggio.
Poi la mia carne inerte si compose
nel sarcofago sculto d’alabastro
ov’è Circe e il brutal suo beveraggio.
Gabriele D'Annunzio
Elettra, 1904 (Le città del silenzio)
-Consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini
"Un incontro con Gesù"
Gesù,
Per coloro che hanno perso la mente
e i principi della ragione,
Per coloro che sono oppressi dal duro
silenzio dei Martiri,
Per coloro che non sanno gridare perché
nessuno li ascolta,
Per coloro che non trovano altra soluzione
al grido della parola,
Per coloro che attendono un cenno d'amore
che non arriva,
Per coloro che erroneamente fanno morire
la carne per non sentire più l'anima.
Insomma,
Per coloro che muoiono nel nome Tuo,
Apri le porte del Paradiso e fa loro vedere
che la tua mano era fresca e vellutata come
qualsiasi fiore
e che loro troppo audaci non hanno capito
che il silenzio era Dio e si sono sentiti oppressi
da questo silenzio che era solo una nuvola di
Canto.
Alda Merini
-consigliata da Maurizio Mazzotti
La metamorfosi, sempre a Valenza
Giorgio Barberi Squarotti
-consigliata da Roberto Soldà
La stretta de mano
Quella de dà la mano a chicchessia,
nun è certo un'usanza troppo bella:
te pò succede ch'hai da strigne quella
d'un ladro, d'un ruffiano o d'una spia.
Deppiù la mano, asciutta o sudarella,
quann'ha toccato quarche porcheria,
contiè er bacillo d'una malatia,
che t'entra in bocca e va ne le budella.
Invece a salutà romanamente,
ce se guadambia un tanto co l'iggiene,
eppoi nun c'è pericolo de gnente.
Perché la mossa te viè a dì in sostanza:
"Semo amiconi … se volemo bene …
ma restamo a 'na debbita distanza".
Carlo Alberto Salustri (Trilussa)
-proposta da Piero Colonna Romano
Tutto sfuma
Ho rivisto Zazzà. L'ho rincontrata
dopo quasi quattr'anni. È sempre bella!
Tiè sempre li capelli a madonnella,
cià sempre la medesima risata.
Ha conservato la vitina snella,
er modo de guardà, la camminata...
Insomma è eguale a come l'ho lasciata,
ma a me me pare che nun sia più quella.
Nun me pare possibbile che sia
l'istessa donna che quattr'anni fa
me faceva schiattà de gelosia.
Che pianti che ciò fatto! Iddio lo sa!
Quanti sospiri ciò buttati via!
E, invece, adesso... Povera Zazzà!
Trilussa (Carlo Alberto Salustri)
-Consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini
Sable mouvant
Démons et merveilles
Vents et marées
Au loin déjà la mer s'est retirée
Et toi
Comme une algue doucement caressée par le vent
Dans les sables du lit tu remues en revant
Démons et merveilles
Vents et marées
Au loin déjà la mer s'est retirée
Mais dans tes yeux entrouverts
Deux petites vagues sont restées
Démons et merveilles
Vents et marées
Deux petites vagues pour me noyer.
Sabbie mobili.
Dèmoni e meraviglie
Venti e maree
Il mare si è ritirato già in lontananza
E tu
Come un'alga dolcemente dal vento accarezzata
Nelle sabbie del letto ti agiti sognando
Dèmoni e meraviglie
Venti e maree
Il mare si è ritirato già in lontananza
Ma nei tuoi occhi socchiusi
Due piccole onde sono rimaste
Dèmoni e meraviglie
Venti e maree
Due piccole onde per farmi annegare.
Jacques Prévert
-proposto da Piero Colonna Romano
Anonimi frammenti
Forse ci saranno ancora
chilometri e chilometri
da percorrere fuoristrada
tra dune di sabbia e sale,
fra pietre taglienti e sterrati.
Prede del vento
si ritorcono la chioma
saturi di titanico furore...
frammenti di fili di rete
a ritmo alternato si sdoppiano
come noi anonimi
che ci domandiamo
donde veniamo
quando smemorati come neutrini
guidati dal cuore e dalla mente
andando andando vaghiamo.
Sono o non sono nostri
quegli occhi attoniti
che anonimi esuli ci guardano?
Sfrecciando veloci
forse ci siamo di tutto
e di tutti dimenticati.
Abbiamo travestito
le nostre emozioni
con sillogismi trasparenti
di vetro colorato.
Ma il viola e il giallo
il verde e il rosso
il celeste e l'arancione
disorientati si mescolano
sui muri sgretolati
di questo casolare abbandonato.
Come cani smarriti
anonimi non troviamo più
il nostro domestico focolare.
Roberto Soldà
-poesia consigliata da Piero Colonna Romano
La neve era sospesa tra la notte e le strade
La neve era sospesa tra la notte e le strade
come il destino tra la mano e il fiore.
In un suono soave
di campane diletto sei venuto…
Come una verga è fiorita la vecchiezza di queste scale.
O tenera tempesta
notturna, volto umano!
(Ora tutta la vita è nel mio sguardo,
stella su te, sul mondo che il tuo passo richiude).
Cristina Campo
-consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini
La muta
Settembre, ora nel pian di Lombardia
è già pronta la muta dei segugi,
de' bei segugi falbi e maculati
dall’orecchie biondette e molli come
foglie del fiore di magnolia passe.
La muta dei segugi a volpe e a damma
or già tracciando va per scope e sterpi.
Erta ogni coda in bianca punta splende.
Presso il gran ponte sta Sesto Calende.
Corre il Ticino tra selvette rare,
verso diga di roseo granito
corre, spumeggia su la china eguale,
come labile tela su telaio
cèlere intesta di nevosi fiori.
Chiudon le grandi conche antichi ingegni,
opere del divino Leonardo.
Il sorriso tu sei del pian lombardo,
o Ticino, il sorriso onde fu pieno
l’artefice che t’ebbe in signoria;
e il diè constretto alle sue chiuse donne.
Oh radure tra l’oro che rosseggia
dello sterpame, tiepide e soavi
come grembi di donne desiate,
sì che al calcar repugna il cavaliere!
Vanno i cani tra l’èriche leggiere
con alzate le code e i musi bassi,
davanti il capocaccia che gli allena
per mezz’ottobre ai lunghi inseguimenti.
S’ode chiaro squittire in que’ silenzii.
Il suon del corno chiama chi si sbanda
e chi s’attarda e trae la lingua ed ansa.
Già la virtù si mostra del più prode.
Il buon mastro dell’arte sua si gode:
talor gli ultimi aneliti esalare
sembra l’Estate aulenti sotto l’ugne
del palafren che nel galoppo falca.
E, fornito il lavoro, ei torna al passo
per la carraia ingombra di fascine:
con la sua muta va verso il canile,
va verso Oleggio ricca di filande.
Vapora il fiume le sterpose lande.
Gabriele D'Annunzio, Sogni di
terre lontane, Alcyone
- consigliata da giuseppe gianpaolo casarini
Nel meriggiare E' l'ora che la pàrpela s'aggrama e il burzichione cionfo e smidollato sofanamente a bùrzola salama si sbràcola con ruttolante fiato. E dopo aver sguinziato giù la zippa ravandellando un poco, sguatto sguatto, s'addrùmola e sogniffa a scippa e lippa con sbagudiglio e con sbrofonchio flatto. Szappinga sbavoloso e sonnimorto nel meriggiare torrido sull'orto. Lorena Turri proposta da Piero Colonna Romano
La banalità del bene (ovvero fronzoli e fiorami) coccoderie di cieli sempre azzurri primaverie di prati verdi galline becchettare a verso sciolto polente e madrigali intanto che sull'aia cala la sera (sempre cala) così come "una perenne fonte che disseta nel gelido sussurro di dolore fantasmi del passato che tormentano l'anima come rugiada (brina se d'inverno) nel deserto del cuore intraprendere un viaggio senza fine come foglia d'autunno (non se ne può prescindere) il vociare dei bimbi nei giardini e parlarsi con gli occhi piangere a calde lacrime d'albe radiose e soli risplendenti e carezzare pelle vellutata (a morte i rospi) nel respiro profondo dei ricordi in un canto d'amore senza fine" bisogna ricambiarle queste cose con giri di parole compiacenti e non si dica mai la verità perché i discorsi tra pennuti e affini conducono alla paglia e onestamente spero di finire fingendomi anatroccolo aspettando Godot (Andersen, sciocca!) e si salvi chi può Cristina Bove (proposta da Piero Colonna Romano) Come la resurrezione delle uova di cioccolato Saremo riciclati in tavolette supine negli orti il nome in spifferi di polvere _eravamo soggetti a regole genetiche_ ed una volta nati coperto il contenuto considerammo solo l'apparenza l'abito che fa il monaco finché il rivestimento si assottiglia e crocifissi al raso dei cuscini nasconderemo ancora la sorpresa forse avverrà che un dio dopo averci scartato aperto l'uovo e visto il suo terribile segreto inventi un'alchimia e ci trasformi in stelle Cristina Bove (proposta da Piero Colonna Romano) Sables mouvants Démons et merveilles vents et marées au loin déjà la mer s'est retirée et toi comme une algue doucement caressée par le vent dans les sables du lit tu remues en rêvant. Démons et merveilles vents et marées au loin déjà la mer s'est retirée mais dans tes yeux entrouverts deux petites vagues sont restées. Démons et merveilles vents et marées. Deux petites vagues pour me noyer. Jacques Prévert Sabbie mobili Démoni e meraviglie venti e maree già al largo il mare s'è ritirato e tu come alga dolcemente accarezzata dal vento nelle sabbie del letto ti agiti nelle fantasie. Demoni e meraviglie venti e maree già al largo il mare s'è ritirato ma nei tuoi occhi socchiusi due piccole onde sono rimaste. Démoni e meraviglie venti e maree. Due piccole onde per annegarmi. (proposta da Piero Colonna Romano)
-consigliata da giuseppe gianpaolo casarini La gelosia Perdono, amata Nice, bella Nice, perdono. A torto, è vero, dissi che infida sei: detesto i miei sospetti, i dubbi miei. Mai più della tua fede, mai più non temerò. Per que' bei labbri lo giuro, o mio tesoro, in cui del mio destin le leggi adoro. Bei labbri, che Amore formò per suo nido, non ho più timore, vi credo, mi fido: giuraste d'amarmi; mi basta così. Se torno a lagnarmi che Nice m'offenda, per me più non splenda la luce del dì. Son reo, non mi difendo: puniscimi, se vuoi. Pur qualche scusa merita il mio timor. Tirsi t'adora; io lo so, tu lo sai. Seco in disparte ragionando ti trovo: al venir mio tu vermiglia diventi, ei pallido si fa; confusi entrambi mendicate gli accenti; egli furtivo ti guarda, e tu sorridi . . . Ah quel sorriso, quel rossore improvviso so che vuol dir! La prima volta appunto ch'io d'amor ti parlai, così arrossisti sorridesti così, Nice crudele. Ed io mi lagno a torto? E tu non mi tradisci? Infida! Ingrata! Barbara! . . . Aimè! Giurai fidarmi, ed ecco ritorno a dubitar. Pietà, mio bene, son folle: in van giurai; ma pensa al fine che amor mi rende insano, che il primo non son io che giuri in vano. Giura il nocchier, che al mare non presterà più fede, ma, se tranquillo il vede, corre di nuovo al mar. Di non trattar più l'armi giura il guerrier tal volta, ma, se una tromba ascolta già non si sa frenar. Pietro Metastasio (proposta da Piero Colonna Romano) Solo et pensoso i più deserti campi, Solo et pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi et lenti, et gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigio human l'arena stampi. Altro schermo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti, perché negli atti d'alegrezza spenti di fuor si legge com'io dentro avampi: sì ch'io mi credo omai che monti et piagge et fiumi et selve sappian di che tempre sia la mia vita, ch'è celata altrui. Ma pur sí aspre vie né sí selvagge cercar non so ch'Amor non venga sempre ragionando con meco, et io co'llui. Francesco Petrarca, Il Canzoniere -consigliata da giuseppe gianpaolo casarini L'ora di Barga Al mio cantuccio, donde non sento se non le reste brusir del grano, il suon dell'ore viene col vento dal non veduto borgo montano: suono che uguale, che blando cade, come una voce che persuade. Tu dici, E` l'ora; tu dici, E` tardi, voce che cadi blanda dal cielo. Ma un poco ancora lascia che guardi l'albero, il ragno, l'ape, lo stelo, cose ch'han molti secoli o un anno o un'ora, e quelle nubi che vanno. Lasciami immoto qui rimanere fra tanto moto d'ale e di fronde; e udire il gallo che da un podere chiama, e da un altro l'altro risponde, e, quando altrove l'anima è fissa, gli strilli d'una cincia che rissa. E suona ancora l'ora, e mi manda prima un suo grido di meraviglia tinnulo, e quindi con la sua blanda voce di prima parla e consiglia, e grave grave grave m'incuora: mi dice, E` tardi; mi dice, E` l'ora. Tu vuoi che pensi dunque al ritorno, voce che cadi blanda dal cielo! Ma bello è questo poco di giorno che mi traluce come da un velo! Lo so ch'è l'ora, lo so ch'è tardi; ma un poco ancora lascia che guardi. Lascia che guardi dentro il mio cuore, lascia ch'io viva del mio passato; se c'è sul bronco sempre quel fiore, s'io trovi un bacio che non ho dato! Nel mio cantuccio d'ombra romita lascia ch'io pianga su la mia vita! E suona ancora l'ora, e mi squilla due volte un grido quasi di cruccio, e poi, tornata blanda e tranquilla, mi persuade nel mio cantuccio: è tardi! è l'ora! Sì, ritorniamo dove son quelli ch'amano ed amo. Giovanni Pascoli (proposta di Piero Colonna Romano)
Ottobre Ottobre, un mite sole campagnolo (ottobre è trovativo come marzo) s’ingegna di creare un po’ di sfarzo per non morire solo, troppo solo. Dov’è più grama nudità di suolo riaccende pagliucole di quarzo; negli orti, fiori poveri; è lo sforzo per non morire solo, troppo solo. So d’un platano lungo l’acqua viva che s’è vestito di medaglie d’oro, e d’un fiume che va color d’uliva. L’ultimo vecchio verde sviene e muore tra tacite ombre e fredde. Oh dona ancora un po’ di sole ai poveri, Signore. Cesare Angelini -consigliata da giuseppe gianpaolo casarini 29 settembre 2018 Dopo il geniale sperimentalismo del Pascoli nulla è più accaduto nella forma della poesia italiana e tutto quel che si è composto è da definire quale nota a margine della sua poetica. Unica e geniale innovazione la si deve a Danilo Masini (presidente dell'Accademia Vittorio Alfieri di Firenze, purtroppo scomparso il 24 settembre scorso) col suo rondò italiano (brillante rivisitazione della canzone petrarchesca) che, nella classica versione, è espresso da sei quartine in endecasillabi, con la seguente scansione di rime: ABAB BCBC CDCD DEDE EFEF FAFA. La poesia che propongo alla vostra attenzione è una eccellente rilettura (ed ampliamento) di quel rondò italiano, realizzata da uno dei più importanti poeti dell'attuale panorama italiano, cioè Lorena Turri. Chiedi del suo male atro e ferino Se camminando in un bosco da sola, A troppo tempo ha perduto tra gli sterpi B e doloranti i piedi, c morsi da infide serpi, b di tutti i passi consunta ha la suola A e ora, questa che vedi, c è una donna distrutta, se non chiedi C pietoso, del suo male atro e ferino, D mai non potrai capire e il dolore nervino d che la relega - rea - sui marciapiedi C di una vita in languire. e Circostanze di eventi, come spire, E la condussero in vie tetre e insidiose F e lontana rimase g dai suoi fiori e le rose F nel petto cominciarono a sfiorire E dagli inverni pervase. g E fu un inerpicarsi su cimase G irte di spine e povere di senso H dove è perenne il vento i e acerbo lo scompenso. h Idee e parole le vennero rase G in un solo momento. i Compiutosi così l'annullamento I di un corpo e di una mente esuberante, L non un pensiero vola, a né il gesto si fa amante. l Non è lo sguardo limpido ed attento I e il pianto rompe in gola. a Lorena Turri -proposta in lettura da Piero Colonna Romano *** Settembre, l’aria è tutta odor di menta e di luna nascente. Alla pastura ultima ondeggian greggi nella pura luce che d’un incanto si alimenta. Ch’io veda ancora nella sera lenta uomini santi chini all’aratura, favola antica che si trasfigura se un ricordo di Bibbia l’inargenta. Nel chiarore mutevole è un indizio d’autunno, ed un messaggio è nei colori: chiama tutte le cose ad un giudizio. Ed anch’io sento che s’incurvan l’ore sui miei giorni che crollano. È l’inizio del mio cammino verso Te, Signore. Cesare Angelini -consigliata da giuseppe gianpaolo casarini Pasquinata Me ricordo sto Salvini quando ormai quarche anno fa ce additava pé cretini ladri, polli e vucumprà. Sembrerebbe che st'ometto mo vò prende residenza, se vò dare, m'hanno detto, de romano la parvenza. Che se crede che i romani si per anni l'hai insultati mo te battono le mani e così c'hai cojonati? Senti a coso, fa 'r piacere, mò nun è pe litigà, ma si voi sarvà 'r sedere vedi 'n po' d'annà a cagà! Anonimo contemporaneo -proposta da Piero Colonna Romano Questo è un mio sonetto un po' sbolenfio e un po' leporeambo. Il nome deriva sia da Ludovico Leporeo (1582-1655), straripante poeta satirico e faceto, sia da Argia Sbolenfi,alias Olindo Guerrini (1845-1916). Consta di 3 rime interne per ogni verso e rime sdrucciole a fine verso. Le parole sdrucciole sono talvolta rese con neologismi creati alla bisogna. Prece sbolenfia e leporeamba O Tu, che su e quaggiù compi miracoli, fa' che per tua bontà qua e là non specoli colui per cui furono bui nei secoli i tempi e sempre empi e scempi e ostacoli addusse e poi distrusse e incusse a bacoli terrori e orrori-e-orrori. Non trasecoli l'Uno se l'importuno e aduno precoli ma il mondo tondo è moribondo e ha macoli. Aver dover è davver ammennicoli divini e trini ai fini non da ciucoli, ché, forti, i torti asporti e li sventricoli. Io vivo e scrivo, privo, i miei versicoli ma Tu, lassù, nel blu, odi i poetucoli e fai che mai e mai il mal veicoli. Lorena Turri -consigliata in lettura da Piero Colonna Romano
Lettera d'amore alla solitudine Amica solitudine, mia cara, un altro giorno insieme con il sole fuori dalla finestra e le viole stampate sul pigiama. Dulcamara, la vita, di carezze e abbracci avara, solamente riserva le parole più silenziose e se anche un po' mi duole, alla tua mano stretta non è amara - mai - la tazza di tutte le speranze. Un sorso di caffè prima che ghiacci poi muta vagherò per queste stanze. Sulle pareti guardo i calcinacci antichi, che ci fecero incontrare. Soltanto te - adesso - io so amare. Lorena Turri -consigliata da Piero Colonna Romano Poesia prima classificata nel XIII° Concorso Internazionale "Voci città di Roma" Io non lo so Al guindolo dei giorni l'incertezza è un'accia di filato resistente. Quanto tempo trascorso impenitente vanificò di vita la carezza in maglie di sconforto, nella brezza della paura che in futuro niente sarà concesso, inevitabilmente! Se una forbice esiste di salvezza da questa angoscia che ci cuce i cuori, io non lo so. Sono un poeta e campo alla giornata a un sogno avviluppato con l'allegra follia del dissennato. Dispersa la saggezza, non ho scampo: rubo agli insetti recidendo fiori. Lorena Turri Questa la motivazione della giuria: "Echi di filosofia esistenziale erompono da questa splendida composizione di Lorena Turri, in cui la poetessa esprime, attraverso un uso efficace del linguaggio da lei sapientemente amalgamato in felici metafore, la grande amarezza che le procura la vita, destinandola a un avvenire denso di angosciose incertezze, anche se esiste comunque un sogno a cui può aggrapparsi. Metafore che scorrono limpide negli endecasillabi, cui molti collegati tramite enjambement, e vanno a comporre un ispirato sonetto, la cui perfezione sta a dimostrare l'assoluta padronanza stilistica e formale raggiunta dall'autrice." Roma, 3 giugno 2018 consigliata da Piero Colonna Romano La Risurrezione È risorto: or come a morte La sua preda fu ritolta? Come ha vinte l'atre porte, Come è salvo un'altra volta Quei che giacque in forza altrui? Io lo giuro per Colui Che da' morti il suscitò. È risorto: il capo santo Più non posa nel sudario È risorto: dall'un canto Dell'avello solitario Sta il coperchio rovesciato: Come un forte inebbriato Il Signor si risvegliò. Come a mezzo del cammino, Riposato alla foresta, Si risente il pellegrino, E si scote dalla testa Una foglia inaridita, Che dal ramo dipartita, Lenta lenta vi risté: Tale il marmo inoperoso, Che premea l'arca scavata, Gittò via quel Vigoroso, Quando l'anima tornata Dalla squallida vallea, Al Divino che tacea: Sorgi, disse, io son con Te. Che parola si diffuse Tra i sopiti d'Israele! Il Signor le porte ha schiuse! Il Signor, I'Emmanuele! O sopiti in aspettando, È finito il vostro bando: Egli è desso, il Redentor. Pria di Lui nel regno eterno Che mortal sarebbe asceso? A rapirvi al muto inferno, Vecchi padri, Egli è disceso; Il sospir del tempo antico, Il terror dell'inimico, Il promesso Vincitor. Ai mirabili Veggenti, Che narrarono il futuro Come il padre ai figli intenti Narra i casi che già furo, Si mostrò quel sommo Sole Che, parlando in lor parole, Alla terra Iddio giurò; Quando Aggeo, quando Isaia Mallevaro al mondo intero Che il Bramato un dì verria, Quando, assorto in suo pensiero, Lesse i giorni numerati, E degli anni ancor non nati Daniel si ricordò. Era l'alba; e molli il viso Maddalena e l'altre donne Fean lamento sull'Ucciso; Ecco tutta di Sionne Si commosse la pendice, E la scolta insultatrice Di spavento tramortì. Un estranio giovinetto Si posò sul monumento: Era folgore l'aspetto, Era neve il vestimento: Alla mesta che 'l richiese Diè risposta quel cortese: E risorto; non è qui. Via co' palii disadorni Lo squallor della viola: L'oro usato a splender torni: Sacerdote, in bianca stola, Esci ai grandi ministeri, Tra la luce de' doppieri, Il Risorto ad annunziar. Dall'altar si mosse un grido: Godi, o Donna alma del cielo; Godi; il Dio cui fosti nido A vestirsi il nostro velo, È risorto, come il disse: Per noi prega: Egli prescrisse, Che sia legge il tuo pregar. O fratelli, il santo rito Sol di gaudio oggi ragiona; Oggi è giorno di convito; Oggi esulta ogni persona: Non è madre che sia schiva Della spoglia più festiva I suoi bamboli vestir. Sia frugal del ricco il pasto; Ogni mensa abbia i suoi doni; E il tesor negato al fasto Di superbe imbandigioni, Scorra amico all'umil tetto, Faccia il desco poveretto Più ridente oggi apparir. Lunge il grido e la tempesta De' tripudi inverecondi: L'allegrezza non è questa Di che i giusti son giocondi; Ma pacata in suo contegno, Ma celeste, come segno Della gioia che verrà. Oh beati! a lor più bello Spunta il sol de' giorni santi; Ma che fia di chi rubello Torse, ahi stolto! i passi erranti Nel sentier che a morte guida? Nel Signor chi si confida Col Signor risorgerà. Alessandro Manzoni - consigliata da giuseppe gianpaolo casarini Canto d'aprile O amore, amore, amor!... Tutto ti sento Divinamente palpitar nel sole, Nei soffii larghi e liberi del vento, Nel mite olezzo trepidante e puro De le prime vïole! Come linfa vital, caldo e ferace Vivi e trascorri nei nascenti steli; Con le allodole canti; angelo audace Fra mille atomi d'ôr voli, e cospargi Di luce i mondi e i cieli. O amore, amore, amor!... Tutto ti sento Nell'esultanza de l'april risorto; Dai profumi a le rose ed ali al vento, Copri la terra di raggi e di baci... Ma nel mio cor sei morto.. Ada Negri -consigliata da giuseppe gianpaolo casarini Mia giovinezza Non t’ho perduta. Sei rimasta, in fondo all’essere. Sei tu, Ma un’altra sei: senza fronda né fior, senza il lucente riso che avevi al tempo che non torna, senza quel canto: Un’altra sei, più bella, Ami, e non pensi esser amata: ad ogni fiore che sboccia o frutto che rosseggia o pargolo che nasce, al Dio dei campi e delle stirpi rendi grazie in cuore. Anno per anno, entro di te, mutasti volto e sostanza. Ogni dolor più salda ti rese: ad ogni traccia del passaggio dei giorni, una tua linfa occulta e verde opponesti a riparo. Or guardi al Lume che non inganna: nel suo specchio miri la durabile vita. E sei rimasta come un’età che non ha nome: umana tra le umane miserie, e pur vivente di Dio soltanto e solo in Lui felice. O giovinezza senza tempo, o sempre rinnovata speranza, io ti commetto a color che verranno: - infin che in terra torni a fiorir la primavera, e in cielo nascan le stelle quand’è spento il sole. Ada Negri -consigliata da giuseppe gianpaolo casarini Un destino Lumi e capanne ai bivi chiamarono i compagni. A te resta questa che il vento ti disvela pallida strada nella notte: alla tua sete la precipite acqua dei torrenti, alla persona stanca l’erba dei pascoli che si rinnova nello spazio di un sonno. In un suo fuoco assorto ciascuno degli umani ad un’unica vita si abbandona. Ma sul lento tuo andar di fiume che non trova foce, l’argenteo lume di infinite vite – delle libere stelle ora trema: e se nessuna porta s’apre alla tua fatica, se ridato t’è ad ogni passo il peso del tuo volto, se è tua questa che è più di un dolore gioia di continuare sola nel limpido deserto dei tuoi monti ora accetti d’esser poeta. 13 febbraio 1935 Antonia Pozzi -consigliata da giuseppe gianpaolo casarini Meriggio (a L.B.) In questa doratura di sole io sono una gemma pelosa legata crudelmente con un filo di refe perché non possa sbocciare a bagnarsi di luce. Accanto a me tu sei una freschezza riposante d’erba in cui vorrei affondare perdutamente per sfrangiarmi anch’io in un ebbro ciuffo di verde – per gettare in radici sottili il mio più acuto spasimo ed immedesimarmi con la terra. Milano, 19 aprile 1929 Antonia Pozzi -consigliata da giuseppe gianpaolo casarini I musaici di Messina Sola nella notte di rovina e di spavento restavi tu Maria – incolume nell’abside della tua cattedrale – curva sul crollo orrendo con il figlio ravvolto nel tuo manto celeste – Sopra il lamento dei non uccisi – sopra il fumo e la polvere delle case degli uomini distrutte – sopra il muglio del mare – sognavi tu un’altra dolce casa vegliata da un’altra azzurra Maria in riva a un altro mare dormente tra le isole erbose – La chiesa di Torcello sognavi e l’oro pallido dei tramonti sulla laguna e la tranquilla via delle barche nelle sere serene. Di quell’oro nutrivi tu – di quel sereno Maria nella spaventevole notte la solitudine tua materna e più fulgente il tuo serto di stelle più turchino il tuo manto più soave il tuo figlio levavi dal fondo della chiesa crollata sulle madri dei morti Antonia Pozzi -consigliata da giuseppe gianpaolo casarini L’alcione Al nocchier dell’Argolide che il fine D’ingrati ozî saluta e si dispone 3Correre i porti dell’egee marine, Dolce la melanconica canzone Sciogli, o vago augellin, che lungo i lidi, 6Già serenati, alla miglior stagione Sui muschi e le natanti alighe i nidi Pensili intessi e li accomandi ai mari 9Che tante volte hai pur trovati infidi. Anche appiè del Vesuvio i casolari Atterrati ricerca e pon le mura 12Forse sulle ossa di sepolti cari, Il villanel che più gagliarda cura Avvince al suol che nascere lo vide 15E più sacro gli ha fatto or la sventura. Piano, come cristallo, il mar sorride; E tu sovresso il nido e della spuma 18Poco curando che il tuo dorso intride, Con occhio immoto e con immota piuma Osservi il pesciolin che l’esil testa 21Riscalda al sol che il pelaghetto alluma. Mite Alcïòne! Te solinga e mesta Di scogli abitatrice i naviganti 24Dissero un giorno: e te della tempesta Chiamâr foriera di Parnaso i canti Che del nembo ti dier mente divina, 27Vedovil gonna e di un mortale i pianti. Perocchè della florida Trachìna Presso il maliaco seno e la pendice 30Öetea ti cantavano regina Di porpore e d’immenso oro felice; Ma che nullo tesor ti fu più caro 33Che gli occhi vagheggiar del tuo Ceice. Ben le ginocchia un dì ti vacillaro, E tramortita reclinasti il collo, 36Quando il tuo sposo navigando a Claro Per consultar gli oracoli di Apollo, Al tuo cor si togliea che anco non era 39De’ primi baci d’imeneo satollo. Sciro aveva trascorso; e già si annera Il ciel tutto e fracassa arbori e prora 42Di traverso ruggendo la bufera. Ceice colla gente il mar divora, Ceice che con labbra moribonde 45Alcïòne, Alcïòn chiamava ancora. Son deserte le sale un dì gioconde D’inni e di danze. De’ suoi fati ignara, 48Pur accorata Alcïone le bionde Chiome discioglie e di Giunone all’ara D’inesaudita lagrima cospersi 51Doni tributa; e di sua man prepara Bello di seta e di color diversi Per le membra dilette un manto adorno, 54Per le membra che a’ mostri esca già fersi. Già due fïate rinnovato il corno Avea la luna, e la dolente a Giuno 57Chiedea con raddoppiata ansia il ritorno Di Ceice che intanto lungo il bruno Di Lete fiumicel colà movea 60Onde si nega che ritorni alcuno. Allor dello stellato etra la Dea Commiserando i lai della donzella 63Che pianti e preghi inutili spargea, A sè l’alidorata Iride appella E, Vanne, dice, alla magione ombrosa 66Vanne del Sonno, o mia fidata ancella; E dilli che l’immagine dogliosa Appresenti del naufrago consorte 69A quella abbandonata e non più sposa. Iride entrò le tenebrose porte. Al repente fulgor ch’empie la grotta, 72De’ lievi Sogni fluttua la coorte, Che riversati, svolazzando in frotta Senz’altra voce che il fruscìo dell’ali, 75Fuggon tremando ove ancor l’antro annotta. Co’ papaveri al crin, sovra guanciali Oscuri più dell’ebano sbadiglia 78Il domator de’ numi e de’ mortali, Che sollevando le gravose ciglia E sovra il sen ricadendo col mento, 81Tende l'orecchio alla taumanzia figlia. Tu dormivi, Alcïòn; ma tratto a stento Il tuo respir gemea; dall’egro aspetto 84Traluceva dell’anima il tormento. Ed ecco appiè del doloroso letto, Squallido, ignudo, ma col suo sembiante 87Starsi, orribile immago, il tuo diletto. Di verde acqua la barba avea stillante, Stillante il crine: il labbro illividito; 90Tumida l'epa e tumide le piante. Or che dirò come correndo al lito E sovra l'onde galleggiar la spoglia 93Mirando dell’esanime marito, Ella cieca d’amor, cieca di doglia Si perigliava in mar? Come la Diva 96Cui di fiori solea cinger la soglia, L’agil omero di ali le vestiva E le donava l'amorosa nota 99Che fa de’ mari risentir la riva? È pur dolce all’argolico pilota Che fra l’isole egee drizza le vele, 102Quando sull’alba è la marina immota, Salutar le costiere, a cui fedele L’aura dell’Ellesponto ancor ripete 105L’ardente inno di Saffo e le querele. Dolce è pur torsi ad un’età che sete Sol ha di lucro e fredda intende al vero; 108E seguir l’ombre dilettose e liete Che a’ spenti lumi sorridean di Omero. Giacomo Zanella -consigliata da giuseppe gianpaolo casarini Fresco ruscel, che dal muscoso sasso Precipiti tra i fiori e la verzura, E mormorando tristamente al basso Ratto dilegui per la valle oscura, Rammenti ancor, quando assetato e lasso Del vagar lungo e dell’estiva arsura Io giovinetto ratteneva il passo Tacito a contemplar l’onda tua pura? Era quello l’april de’ miei verdi anni, Degli anni miei sereni che fuggiro Su’ veloci del tempo invidi vanni, Al modo stesso, che le dolci e chiare Tue linfe, amabil rio, di giro in giro Dal patrio colle van fuggendo al mare. Giacomo Zanella -consigliata da giuseppe gianpaolo casarini Le ore della notte Con bruni sandali E taciturne Scendono, passano 4L’ore notturne, E nel lor transito All’universo Mobile imprimono 8Volto diverso. Tornano i vomeri; Fumano i tetti; L’Ave ripetono 12I pargoletti; Appena è vespero, E già tranquilla Sotto le coltrici 16Posa la villa. L’ombre si addensano: In auree stanze Specchi rifulgono, 20Erran fragranze; Scalpita e smania La giovinetta Che il velo roseo 24Pel ballo aspetta. Triste sollecita L’opera altrove E l’egra lacrima 28Sovra vi piove Orfana vergine Che nell’accesa Gota funereo 32Morbo palesa. Tace di popolo Sgombro il viale; Tra l’erme acacie 36Langue il fanale; Pari la reggia Al casolare Nell’ampie tenebre 40Scende e scompare. Remoto vicolo Empion di canti Fra nappi e cembali 44Scinte baccanti; Tende l’orecchio Da semiaperta Finestra e palpita 48Sposa deserta. Lo stame attenua Della lucerna, Computa, novera, 52Fogli squaderna, Mida famelico Che dell’erede Dietro sè l’ilare 56Ghigno non vede; Mentre da’ fulgidi Covi del gioco, Lo sguardo vitreo, 60L’anima in foco, Esce il patrizio Che della zolla Ultima Cerbero 64Plebeo satolla. Profondo e lucido L’aër traspare; Ïadi e Pleiadi 68Fansi più chiare; Sbadiglia, abbrivida, Scote di brine Vigile astronomo 72Rorido il crine. Con ala nivea Per l’aure brune I sogni or piovono 76Sovra le cune; Ridon l’inconscie Alme leggiadre; Ridono agli Angioli, 80Chiaman la madre. Sommessa mormora Un caro nome; Scorrer d’un bacio 84Sulle sue chiome Sente l’anelito Vergin, che desta Con alto tremito 88Volge la testa: Vede distendersi Sulla cortina Il raggio argenteo 92Della mattina. Trilla sugli embrici La rondinella; Sull’aia crocita 96La gallinella; Scoppia dall’ardua Torre la squilla; Ridesta all’opere 100Torna la villa. Giacomo Zanella
-consigliata da giuseppe gianpaolo casarini Marzo Marzo: una lacrimetta che una ventata asciuga, e qualche nuvoletta che il sole mette in fuga. Minaccia di bufera e poi, tutto ad un tratto, riso di primavera. Oh! marzo, marzo matto angiolo silvio novaro -consigliata da giuseppe gianpaolo casarini I doni Primavera vien danzando vien danzando alla tua porta. Sai tu dirmi che ti porta? - Ghirlandette di farfalle, campanelle di vilucchi, quali azzurre, quali gialle e poi rose, a fasci e a mucchi. E l'estate vien cantando vien cantando alla tua porta, sai tu dirmi che ti porta? - Un cestel di bionde pèsche vellutate, appena tocche; e ciliege lustre e fresche ben divise a mazzi e a ciocche. Vien l'autunno sospirando sospirando alla tua porta, sai tu dirmi che ti porta? - Qualche bacca porporina, nidi vuoti, rame spoglie, e tre gocciole di brina, e un pugnel di morte foglie. E l'inverno vien tremando. vien tremando alla tua porta, sai tu dirmi che ti porta? -Un fastel d'aridi ciocchi, un fringuello irrigidito; e poe neve, neve a fiocchi, e ghiacciuoli grossi un dito. Angiolo Silvio Novaro -consigliata da giuseppe gianpaolo casarini Che dice la pioggerellina di Marzo? Che dice la pioggerellina di marzo, che picchia argentina sui tegoli vecchi del tetto, sui bruscoli secchi dell’orto, sul fico e sul moro ornati di gèmmule d’oro? Passata è l’uggiosa invernata, passata, passata! Di fuor dalla nuvola nera, di fuor dalla nuvola bigia che in cielo si pigia, domani uscirà Primavera guernita di gemme e di gale, di lucido sole, di fresche viole, di primule rosse, di battiti d’ale, di nidi, di gridi, di rondini ed anche di stelle di mandorlo, bianche... Che dice la pioggerellina di marzo, che picchia argentina sui tegoli vecchi del tetto, sui bruscoli secchi dell’orto, sul fico e sul moro ornati di gèmmule d’oro? Ciò canta, ciò dice: e il cuor che l’ascolta è felice. Che dice la pioggerellina di marzo, che picchia argentina sui tegoli vecchi del tetto, sui bruscoli secchi dell’orto Angiolo Silvio Novaro -consigliata da giuseppe gianpaolo casarini Le città del silenzio PERUGIA I. Maschia Peroscia, il tuo Grifon che rampa in cor m'entrò col rostro e con l'artiglio, onde tutto il mio sangue acro e vermiglio delle immortali tue vendette avvampa. Certo segnato fui della tua stampa un dì, tra ferro e fuoco io fui tuo figlio ancor vivo, qual fecemi il Bonfiglio, là sul muro ove Totila s'accampa. Le catene spezzai nelle tue strade, precipitai gli uccisi per isfregio dalle tue torri, usai spiedo e roncone. Brillar vidi tra il rugghio delle spade il mio sogno di re nell'occhio regio di Braccio Fortebraccio da Montone. II. Dal Palagio non scendono, o Peroscia, i tuoi Priori le solenni scale? L'acqua, che ai gradi della Cattedrale terse il sangue degli Oddi, ancóra scroscia. Tace la piazza. Il Gonfalon s'affloscia. Vento d'odio o d'amor più non l'assale? Ecco Astorre Baglione, a Marte eguale, che cavalca con l'asta in su la coscia! Anco viene Gismondo a piè, con tanta levità che assimiglia presta lonza: lo scolare alemanno i passi ammira; e Grifonetto, il figlio d'Atalanta, senza elmo, come il sole che l'abbronza bello: valletti ha il Tradimento e l'Ira. III. Il magnifico Astorre a Porta Sole mena la donna sua del sangue Ursino. Monna Lavinia in veste d'oro fino danza a suono di piffari e viuole. La mensa d'ogni frutto e fior redole, reca d'ogni ragion confetti e vino. In quell'ora il signor di Camerino soffia a Carlo Barciglia sue parole. E il gobbo invesca Filippo di Braccio. Mastro d'inganni è il bastardo: ei sghignazza pensando a Giovan Pavolo e a Zenopia. E, mentre Astorre nel fraterno abbraccio sorride, su Peroscia che gavazza versa una negra iddia la Cornucopia. IV. Dorme col suo bagascio Simonetto che in vita non conobbe mai paura ed Astorre non sa che in sepoltura è per mutarsi il nuzial suo letto. "Griffa! Griffa!" Il perduto giovinetto apre tutte le porte alla congiura. Ecco primo il bastardo. Ei raffigura il grande Astorre al grande ignudo petto. Questi urla: "Misero Astorre che more commo poltrone!". E spira sotto i colpi ciechi d'Ottaviano dalla Corgna. Ma Gian Pavolo, il suo vendicatore che tornerà lione tra le volpi, escito è in salvo per la Porta Borgna. V. Giacciono su la via come vil soma gli occisi. Or qual potenza li fa sacri? Nei corpi è la beltà dei simulacri che custodisce l'almo suol di Roma. Sembrano infusi in un sublime aroma, se ben privi de' funebri lavacri. Quasi letèi papaveri son gli acri grumi, serto di porpora alla chioma. Traggono allo spettacolo le genti, percosse di stupore. Il Maturanzio sogna Achille Pelìde e il Telamonio. Ma nella cerchia di quegli occhi intenti, o Peroscia, è un divino testimonio: talun nomato Rafaele Sanzio. VI. Coi fanti e con le lance alle Due Porte Iovan Pavolo vien sul suo morello. Nitrire ode il corsiero del fratello tradito; e il cor gli rugge: "A morte! A morte!". Di repente rivolgesi la sorte. "Addosso a Corgna! A me Monte Sperello!" D'ogni banda cavalcano al macello i partigiani in arme con le scorte. Entra il gran falco da Sant'Ercolano e incontra il figlio d'Atalanta. "Addio, traditore Grifone: sei pur qua! Non t'ammazzo. Non vo' metter la mano io nel mio sangue. Vattene con Dio." E sprona innanzi a prender la città. VII. Cade reciso il bello infame fiore. Filippo Cencie con Messer Gintile l'abbatte in su le selci. "O Grifon vile, or tu griffa se puoi, vil traditore" Portato è in piazza su la bara, ad ore ventidue, come Astorre! Il grido ostile tacesi a un tratto. Ecco la giovenile madre china sul figlio che si muore. Ecco Atalanta, la viola aulente, ecco Zenopia, la soave rosa, più belle nell'orror della gramaglia. Inondano di pianto il moriente. E intorno alla bellezza dolorosa sospeso arde il furor della battaglia. VIII. Ben è che dal tuo vertice selvaggio tu guardi a valle il sacro fiume nostro, maschia Peroscia che con l'ugne e il rostro sì togli preda e vendichi l'oltraggio. Dalla Lupa il tuo Grifo ebbe il retaggio. Sempre il tuo sangue splende come l'ostro. Per dardo in torre e per flagello in chiostro sanguina fiammeggiando il tuo coraggio. O Turrena, città pontificale, grande arce guelfa, al Papa e a Dio ribelle, ligia al Sole, devota all'Aquilone, non odi su la porta comunale, nell'irto bronzo contra l'evo imbelle, l'urlo del Grifo e il rugghio del Leone? ASSISI Assisi, nella tua pace profonda l'anima sempre intesa alle sue mire non s'allentò; ma sol si finse l'ire del Tescio quando il greto aspro s'inonda. Torcesi la riviera sitibonda che è bianca del furor del suo sitire. Come fiamme anelanti di salire, sorgon gli ulivi dalla torta sponda. A lungo biancheggiar vidi, nel fresco fiato della preghiera vesperale, le tortuosità desiderose. Anche vidi la carne di Francesco, affocata dal dèmone carnale, sanguinar su le spine delle rose. SPOLETO Spoleto, non la Rocca che ti guarda ghibellina dal Guelfo tuo nemico, né la grandezza di Teodorico che pensosa nel vespro vi s'attarda, non la Borgia onde par che tu riarda subitamente del trionfo antico, né dal vasto acquedotto all'erto vico segno romano ed orma longobarda cerco, ma ne' silenzii dell'Assunta l'arca di Fra Filippo che dai marmi pallidi esala spiriti d'amore mentre nel muro pio la sua defunta Vergine, sciolta dalla morte, parmi piegar sul petto dell'Annunciatore. GUBBIO Agobbio, quell'artiere di Dalmazia che asil di Muse il bel monte d'Urbino fece, l'asprezza tua nell'Apennino guerreggiato temprò con la sua grazia. Or tristo e spoglio il tuo Palagio spazia tra l'azzurro dell'aere e del lino. Ma ne' tuoi bronzi arcani il tuo destino resiste alla barbarie che ti strazia. E, se teco non più ridon le carte di Oderisi cui Dante sotto il pondo vide andar chino tra la lenta greggia, l'argilla incorruttibile per l'arte di Mastro Giorgio splende; e in tutto il mondo l'alta tua nominanza ne rosseggia. SPELLO Spello, qual canto palpita nei petti delle tue donne alzate in su la Porta di Venere? La Dea che non è morta l'arco nudo t'adorna di fioretti. E par che il pafio pargolo saetti nel sol novo ai precordii con accorta ferocia strali dell'antica sorta, come solea negli élegi perfetti. Non l'amico di Cynthia oggi sospira dai prati d'asfodelo i suoi patemi campi che Ottavio diede al veterano? Nelle tue torri imitan quella lira i caldi vènti, mentre negli Inferni sogna l'Umbria il Callimaco romano. MONTEFALCO Montefalco, Benozzo pinse a fresco giovenilmente in te le belle mura, ebro d'amor per ogni creatura viva, fratello al Sol, come Francesco. Dolce come sul poggio il melo e il pesco, chiara come il Clitunno alla pianura, di fiori e d'acqua era la sua pintura, beata dal sorriso di Francesco. E l'azzurro non désti anche al tuo biondo Melanzio, e il verde? Verde d'arboscelli, azzurro di colline, per gli altari; sicché par che l'istesso ciel rischiari la tua campagna e nel tuo cor profondo l'anima che t'ornarono i pennelli. NARNI Narni, qual dorme in Santo Giovenale su l'arca il senatore Pietro Cesi, tal dormi tu su' massi tuoi scoscesi intorno al tuo Palagio comunale. Sogni il buon Nerva in ostro imperiale? o Giovanni tra gli odii in Roma accesi? Io di secoli, d'acque e d'elci intesi murmure che dal Nar fino a te sale. E vidi su la tua Piazza Priora, ove muto anco dura il cittadino orgoglio, alzarsi una grand'ombra armata: grande a cavallo il tuo Gattamelata, sempiterno in quel bronzo fiorentino che gli invidian lo Sforza ed il Caldora. TODI Todi, volò dal Tevere sul colle l'Aquila ai tuoi natali e il rosso Marte ti visitò, se il marzio ferro or parte con la forza de' buoi le acclivi zolle. Ebro de' cieli Iacopone, il folle di Cristo, urge ne' cantici; in disparte alla sua Madre Dolorosa l'arte del Bramante serena il tempio estolle. Ma passa, ombra d'amor su la tua fronte che infoscan gli evi, la figlia d'Almonte, il fior degli Atti, Barbara la Bella. E l'inno del Minor si rinnovella: "Amor amor, lo cor si me se spezza! Amor amor, tramme la tua bellezza!". ORVIETO I. Orvieto, su i papali bastioni fondati nel tuo tufo che strapiomba, sul tuo Pozzo che s'apre come tomba, sul tuo Forte che ha mozzi i torrioni, su le strade ove l'erba assorda i suoni, su l'orbe case, ovunque par che incomba la Morte, e che s'attenda oggi la tromba delle carnali resurrezioni. Gli angeli formidabili di Luca domani soffieran nell'oricalco l'ardente spiro del torace aperto. Stanno sotterra, ove non è che luca, oggi i Vescovi e il gregge. Solo un falco stride rotando su pel ciel deserto. II. Uman prodigio dell'artier da Siena, nel ciel deserto il Duomo solitario risplende come nel reliquiario il Corporal sanguigno di Bolsena. Di grandezze la sua fulva ombra è piena, piena di Dio, piena dell'Avversario. O Angelico, Ugolin di Prete Ilario, Gentile, il respir vostro odesi appena! Sola il vòto dei marmi bianchi e neri occupa e turba la tremenda ambascia dell'artier da Cortona, come un vento. Ruggegli nel gran cor Dante Alighieri; e però di sì dure carni ei fascia il Dolore la Forza e lo Spavento. III. Sfolgorati procombono i Perduti, salgon gli Eletti a ber l'alme rugiade; e gli Arcangeli snudano le spade mentre i Musici toccano i leuti. Ma i re spirtali degli inconosciuti mondi, Empedocle che le vie dell'Ade sforza, l'amor dell'api e delle biade Vergilio che apre al Teucro i regni muti, e l'Alighier grifagno che con ira in foco in sangue in fanghe in ghiacce inerti i peccatori abbrucia attuffa asserra, cantano all'Uomo un inno senza lira dall'alto; e il Tosco ha due volumi aperti, Libro del Cielo e Libro della Terra. Da Elettra Gabriele D'Annunzio -consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini Le città del silenzio. Arezzo. I. AREZZO, come un ciel terrestro è il lino cerulo, il vento aulisce di viola. Ove sono Uguccion della Faggiuola e il cavalier mitrato Guglielmino? 5Non vedo Certomondo e Campaldino, né Buonconte forato nella gola. Alla tua Pieve il balestruccio vola; in San Francesco è Piero, e il suo giardino. Non vedo nella polve i tuoi pedoni 10carpone sotto il ventre dei cavalli con le coltella in mano a sbudellarli. Van sonetti del tuo Guitton, canzoni del tuo Petrarca per colline e valli; e con voce d’amore tu mi parli. II. Bruna ti miro dall’aerea loggia che t’alzò Benedetto da Maiano. Fan ghirlanda le nubi ove Lignano e Catenaia e Pietramala poggia. 5E fànnoti ghirlande i tralci a foggia di quelle onde i tuoi vasi ornò la mano pieghevole del figulo pagano quando per lui vivea l’argilla roggia. Or rivive pel mio sogno il liberto 10grèculo intento a figurar le tigri l’evie i tripodi i tirsi le pantere. Arar penso i tuoi campi e, nell’aperto solco da’ buoi di Valdichiana impigri, discoprir l’ansa infranta del cratere. III. Aste in selva, stendardi al vento, elmetti di cavalieri, Costantin securo, Massenzio in fuga, Cosra morituro, e le chiare fiumane e i cieli schietti! 5Come innanzi a un giardin profondo io stetti, o Pier della Francesca, innanzi al puro fulgor de’ tuoi pennelli; e il sacro muro moveano i fiati dei pugnaci petti. Ma il Vincitore e il Labaro e Massenzio 10e la bella reina d’Asia oblìa il mio cor; ché levasti più grand’ala! Presso l’arca del crudo Pietramala vidi il fiore di Magdala, Maria. E un greco ritmo corse il pio silenzio. IV. Forte come una Pallade senz’armi, non ella ai piè del mite Galileo si prostrò serva, ma il furente Orfeo dissetò arso dal furor dei carmi. 5Qui da tristi occhi profanata parmi, mentre a specchio del Ionio o dell’Egeo degna è che s’alzi in bianco propileo come sorella dei perfetti marmi. Ellade eterna! Non il vaso d’olio 10odorifero è quel di Deianira, ov’essa chiuse il dono del Biforme? Per lei Ristoro ode cantar le torme degli astri, come il Samio; e su la lira Guido Monaco tenta il modo eolio. Cortona I. O CORTONA, l’eroe tuo combattente non è già quel gagliardo che s’accampa giuso in Inferno alla penace vampa ove si torce la perduta gente? 5Pur le Vergini crea la man possente e i Chèrubi, usa all’affocata stampa, come l’Etrusco orna la dolce lampa e di macigni alza la porta ingente. Chiusa virtù d’antiche primavere, 10urbe di Giano, irrompe nel tuo Luca. Maravigliosamente in lui tu vigi. Forza del mondo è il tuo robusto artiere. Sparvero come in vortice festuca i tuoi tiranni Uguccio ed Aloigi. II. O Corito, perché la Lampa è priva di nutrimento? Io vidi messaggera, grande come Calliope, leggera come Aglaia, recar l’olio d’oliva. 5Ecco, nel bronzo la Gorgóne è viva; nuota il delfino, corre la pantera; segue le melodíe di primavera Sileno su la fistola giuliva. Bacco e gli aspetti delle Essenze ascose 10fan di fecondità ricco il metallo. Or versa nel suo cavo l’olio puro! La vital Lampa in cui l’arte compose tra mostri e iddii l’Onda marina e il Phallo, tu sospendila accesa al dio futuro. III. Dirompendo col vomere l’antica gleba etrusca il bifolco, a Sepoltaglia, all’Ossaia, la spada e la medaglia scopre laddove ondeggerà la spica. 5Chi sa, nell’ansia della sua fatica sotto l’ignea fersa, non l’assaglia un sùbito furore di battaglia a trionfar la sorte sua nemica! Muzio Attèndolo Sforza nella rovere 10di Cotignola gitta il suo marrello e ferrato cavalca al gran destino. Sono le glebe tue fatte sì povere, o Italia, che non sórgavi un novello Eroe dall’aspro sangue contadino? Bergamo. I. BERGAMO, nella prima primavera ti vidi, al novel tempo del pascore. Parea fiorir Santa Maria Maggiore di rose in una cenere leggera. 5E per l’aer volar pareano a schiera i chèrubi fuggiti da Trescore, quei che Lorenzo Lotto il dipintore alzò fra i tralci della Vigna vera. Davanti la gran porta australe i sassi 10deserti verzicavano d’erbetta, quasi a pascere i due vecchi leoni. Dolce correa per la città dei Tassi la melode a destar la verginetta Medea sepolta presso il Coleoni. II. Destarsi la dormente, qual la pose su l’origlier di marmo l’Amadeo: gli occhi aprirsi, le labbra lavs deo clamare, le due mani sparger rose: 5quest’opere vid’io meravigliose del lene April; ma in vetta al mausoleo, tutt’oro l’arme, il gran Bartolomeo pronto imperar tra le Virtù sue spose. Non diemmi forse l’alto Condottiere, 10benigno a’ suoi ed a’ nimici crudo, col suo gesto il segnal della riscossa? Oh seme delle nostre primavere! Triplice egli ebbe nell’invitto scudo il carnal segno della maschia possa. III. L’ombra canuta del Guerrier sovrano a Malpaga erra per la ricca loggia, mutato l’elmo nel cappuccio a foggia, tra i rimadori e i saggi in atto umano. 5E tu, Bergamo, il suo sepolcro vano chiudi. Ma all’aspro vento che da Chioggia sìbila è vivo! Ancor di strage ha roggia l’unghia e la pancia il suo stallon romano. Stretto nel pugno il fólgore di guerra, 10i fanti contra Galeazzo ei sferra tonando co’ mortaro e la spingarda. Arcato il duro sopracciglio, ei guarda di su la manca spalla irta di piastra; e, bronzo in bronzo, nell’arcion s’incastra. Carrara. I. CARRARA, morti son vescovi e conti di Luni, e son dispersi i loro avelli; gli Spinola e Castruccio Antelminelli son morti, e gli Scaligeri e i Visconti; 5ed Alberico che t’ornò di fonti, gli antichi tuoi signori ed i novelli. Ma su quante città regnano i belli eroi nati dal grembo de’ tuoi monti! Quei che li armò di soffio più gagliardo, 10quei fa su te da vertice rimoto ombra più vasta che quella del Sagro. E non il santo martire Ceccardo t’è patrono, ma solo il Buonarroto pel martirio che qui lo fece magro. II. Su la piazza Alberica il solleone muto dardeggia la sua fiamma spessa; e, nel silenzio, a piè della Duchessa canta l’acqua la rauca sua canzone. 5Dalla Grotta dei Corvi al Ravaccione ferve la pena e l’opera indefessa. Scendono in fila i buoi scarni lungh’essa l’arsura del petroso Carrione. S’ode ferrata ruota strider forte 10sotto la mole candida che abbaglia, e il grido del bovaro furibondo, ed echeggiar la bùccina di morte come squilla che chiami alla battaglia, e la mina rombar cupa nel fondo. III. Arce del marmo, in te rinvenni i segni che t’impresse la forza dei Romani; sculti al sommo adorai gli Iddii pagani; e dissi: "O Roma nostra, ovunque regni!" 5Dissi: “O mio cuore, or fa che tu m’insegni la rupe che foggiar volea con mani di foco il grande Artier, sì che i lontani marinai la vedesser dai lor legni.„ E dal Sagro alla Tecchia, da Betogli 10al Polvaccio, da Créstola alla Mossa cercai l’arcana imagine scultoria. Tutta l’Alpe splendea d’eterni orgogli. “O cuor„ dissi “il tuo sangue sì l’arrossa!„ E in ogni rupe vidi una Vittoria. Da Elettra Gabriele D'Annunzio -consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini
Il vento scrive Su la docile sabbia il vento scrive con le penne dell'ala; e in sua favella parlano i segni per le bianche rive. Ma, quando il sol declina, d'ogni nota ombra lene si crea, d'ogni ondicella, quasi di ciglia su soave gota. E par che nell'immenso arido viso della pioggia s'immilli il tuo sorriso. Da Alcyone Gabriele D'Annunzio -consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini
Innanzi l'alba Coglierai sul nudo lito, infinito di notturna melodìa, il maritimo narcisso per le tue nuove corone, tramontando nell'abisso le Vergilie, le sorelle oceanine che ancor piangono per Ia lacerato dal leone. Andrem pel lito silenti; sentiremo la rugiada lene e pura piovere dagli occhi lenti della notte moritura, tramontando nel pallore le Vergilie, le sorelle oceanine minacciate dalla spada del feroce cacciatore. Forse volgerò la faccia in dietro talvolta io solo per vedere la tua traccia luminosa, e starem muti in ascolto, tramontando in tema e in duolo le Vergilie, le sorelle oceanine a cui l'Alba asciuga il volto col suo bianco vel di sposa. Da Alcyone Gabriele D'Annunzio -consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini
Merope La canzone di Umberto Cagni Cagni, colui che a te negli anni eguale patì l'ignavia delle vane carte, morso il cuore dall'aquila immortale, e vendicò nello stridor dell'arte la forza che sognar faceagli il fato e il pallore del giovin Bonaparte quando credea nel suo silenzio armato essere il messo della nova vita e della nova gloria il primo nato, colui t'onora come la scolpita imagine del sogno suo più forte, si ch'ei disdegna l'opera fornita e, gittando sul vólto della sorte le sfrondate corone, or solo spera nell'ultima bellezza della morte. Non per la forza, o anima guerriera, non pel fàscino invitto onde rapivi ltre la forza l'èsile tua schiera quando fendevan quattro cuori vivi l'immensa ghiaccia, e più del buio trista la notte senza tènebra era quivi; non pel fertile ardire onde fu vista una manata d'uomini discesa dalle navi tenére la conquista della terra ed accrescersi, sospesa nel pericolo come nel bagliore d'un nume, onnipresente alla difesa; ma per l'amore, ma pel solo amore onde due volte già trasumanasti, eroe, t'invidio sopra il tuo valore. Eroe di due deserti, dei più vasti geli e delle più vaste sabbie, in quali eroiche immensità l'Italia amasti! Ogni altro umano amor sembra senz'ali e senza lena e inglorioso e impuro, congiunto alla viltà dei nostri mali. Come il fiore d'un mondo nascituro il tuo fu, schiuso all'orlo d'un'estrema Tule che dentro te, nell'uomo oscuro, avevi, incognita. E la man mi trema, quasi eternassi la mia smania ignava celebrandoti, eroe, nel mio poema. Penso la mano tua che dolorava cominciando a morire, il ferro atroce, l'anima indenne su la carne schiava; la volontà spietata e senza voce che ti facea lo sguardo come il taglio della piccozza; il piede più veloce come più duro era il cammino; il maglio invisibile che schiacciava i blocchi enormi, con un tuono ed un barbaglio di prodigio pel bianco Ade ove gli occhi seguivano i silenzii oltre i fragori; le dighe che rompevano i ginocchi e i gomiti; le slitte tratte fuori dalle crepe improvvise; la costretta man dolorosa ai ruvidi lavori; e la fame in attesa della fetta crudigna presso il cane ancor fumante scoiato su la neve, la galletta muffita per panatica, all'ansante sete il sorso dell'acqua fetida, ogni penuria, ogni miseria; e, se il sestante segnava il punto suo, tutti i bisogni conversi in riso lieve e nelle stanche ossa inserte le invitte ali dei sogni. Ti sovviene? Su le pianure bianche una vita recondita bruiva, nel gran giorno di Dio. Le dighe bianche s'alzavano, crollavano; la riva si saldava alla riva, il monte al monte. Tutta la solitudine era viva di ghiacci sino all'ultimo orizzonte, fulgida sotto il sol di mezza notte. Tra l'infinito e le tue brevi impronte era la prova, augusta fra le lotte dell'uomo. E tu dicevi a te: "Più oltre". L'Oceano era un bàratro di rotte isole. E tu dicevi a te: "Più oltre". Sparivano i due solchi in un tumulto raggiante informe immenso. E tu: "Più oltre!". Ché ti parea da uno scalpello occulto nell'eterno cristallo solitario quell'altro nome ovunque fosse sculto: lo scandinàvo. "Non è necessario vivere, sì scolpire oltre quel termine il nostro nome: questo è necessario." E la virtù dei quattro uomini inermi fu per un'ora il vertice del mondo. Ti sembrò tutto fervere di germi immortali l'Oceano infecondo. Sommosso ti sembrò tutto il deserto artico dal tuo palpito profondo. Poi fu silenzio, sotto il segno certo. Fu la cerchia terribile del gelo alla tua gioia adamantino serto. L'anima tua su te diffuse il cielo d'Italia. Fosti immemore e sparente come l'Ombra sul prato d'asfodelo. Allora, come l'inno fa presente l'iddio, l'amor creò l'imagin vera della Patria. Nel gran silenzio algente parve con l'alito una primavera sublime ella diffondere. Il tuo santo amore volse in luce la preghiera. Piangesti. Ed ogni lacrima del pianto eroico rilucea più che il polare meriggio. Sol per una, ecco il mio canto. O messo della gesta d'oltremare, o precursore degli eroi rinati sul lido ove rosseggia il nostro altare, o tu che primo fosti ai primi agguati, l'indice tronco della man virile, quel che impone i comandi o addita i fati, non fu debole all'elsa. E il puro aprile della tua gloria parve ad altra ebrezza rifervere nel sangue tuo gentile. Ah, da qual sacro mare di bellezza, da qual divino anello d'orizzonte, da qual non vista aurora escì la brezza vigile che soffiava su la fronte de' tuoi, là presso i Pozzi dove forse Roma avea coronata la sua fonte? Nella notte d'ottobre ardevan l'Orse alte coi sette e sette astri fatali su i marinai, quando la luna sorse. Tutta bella tra il golfo dei corsali e il Deserto, levava al gran ritorno l'Oasi le sue palme trionfali. Simile all'invocata alba d'un giorno mistico era il notturno effuso lume; e l'annunzio e l'attesa erano intorno. Parea, spirato dall'antico nume, intra il libico monte e l'apennino spander il ciel di Dante il suo volume. Da qual nascosto vortice marino la colonna rostrale era polita perché splendesse al novo eroe latino? Quali mai braccia avean diseppellita da secoli di sabbia e di barbarie Minerva, chiarità di nostra vita? Di sotto l'oro della sua cesarie spiava ella gli imberbi, dalla vetta cerula delle palme solitarie? Era forse Ebe la parola detta, come nella battaglia di Micale vinta col nome d'Ebe giovinetta? Tutto era senza limite, eternale ed imminente, nell'abisso cieco del tempo e in sommo della vita frale. Carme romano ed epinicio greco passavano con tuono di tempesta, e la canzone italica era teco. E la canzone italica di festa e di guerra, di vóto e di riscossa, la sua face scotea su la tua testa. Tu, come le midolle son nell'ossa eri in quel pugno d'uomini. L'odore del coraggio era nella sabbia smossa, Ferìan la notte fasci di splendore dalle grandi pupille delle navi insonni; e la potenza delle prore pareva entrar nei parapetti cavi a rendere invincibili i tuoi pochi. In piedi tu, come sul ponte, stavi. Tutta l'Oasi rossa era di fuochi scroscianti. I cani urlavano alla morte. L'assalto era un inferno d'urli rochi. La città senza spalti e senza porte avea l'inespugnabile cintura: te, giovinezza, amore della sorte! Ti canto, aurora; e la tua mano pura come la rosa, piena di semente. Ti canto, eroe, per l'anima futura; e la battaglia presso la sorgente. Da Laudi del cielo della terra e degli eroi. Libro Quarto Gabriele D'Annunzio -consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini MEROPE La canzone dei trofei O Pisa, or tu sei vedova del mare, che stavi notte e dì per tener fronte in Tersanaia a fare, a racconciare, quando un bando di Chìnzica o di Ponte valeva a trarre in corso dai sessanta scali ben unti le galere pronte! Pende dal muro la catena infranta nel chiostro dove Andrea pinse Rinieri e i tuoi morti fiorìan la terra santa. La Porta a Mare è triste. Ma pur ieri nel tuo Vescovo il cor di Daiberto balzò, verso i trofei de' Cavalieri. O Salerno, nel duomo dove offerto ti fu da Gian di Procita l'avorio e l'oro sovra i marmi di Ruberto, nell'ombra dove il settimo Gregorio grandeggia, non fanal di capitana, non stendardo d'emiro pel mortorio, non insegna, non spoglia musulmana hai, che tu orni in nome de' tuoi grandi al tuo giovine eroe la coltre vana? Non egli è su la bara che inghirlandi; ma tu lo vedi, quasi fosse apparso. E lo chiami per nome e l'addimandi. Verginità del primo sangue sparso! Ne bevano le sabbie un più gran flutto; ma pur quel primo che sembrò sì scarso risplenderà sul giubilo e sul lutto più vermiglio e più fervido a Colei che sa pianger gli eroi con viso asciutto. O Gaeta, se in Sant'Erasmo sei a pregar pe' tuoi morti, riconosci il Vessillo di Pio ne' tuoi trofei, toglilo alla custodia perché scrosci come al vento di Lepanto tra i dardi d'Ali, mentre sul molo tristi e flosci sbarcano i prigionieri che tu guardi e che non puoi mettere al remo. O Cagliari, i quattrocento archibusieri sardi, che Don Giovanni d'Austria alla battaglia sotto il Vessillo nella sua Reale s'ebbe per incrollabile muraglia, hanno veduto verso il mare australe ardere il fuoco sopra Teulada e nella sera accorrono al segnale; ché vien pel mare d'Africa e dirada l'ombra con la bellezza della morte un che fu degno della lor masnada. Egli ha per buon compagno, o Carloforte che il ferro e il fuoco sai del predatore e la sferza e la stanga e le ritorte, un de' tuoi figli che nel suo furore se ne sovvenne e, per i mille schiavi di quel settembre, ebbe di mille il cuore. Marinai, marinai, sopra le navi e dentro le trincere, a bordo e a terra, in ogni rischio e con ogni arme bravi, fatti dalla tempesta per la guerra, nel silenzio mirabili e nel grido, infaticati sempre, a bordo e a terra, di voi s'irraggi e palpiti ogni lido d'Italia mentre per la mia più grande Italia qui la vostra gloria incido. Non le piagge che adorna di ghirlande amare il flutto ove le sue melodi Undulna dea dal piè d'argento scande, ma oggi loderò con le mie lodi l'acqua oleosa lungo le banchine sonanti per gli imbarchi e per gli approdi, l'acqua opaca ove colan le sentine e nuotano i tritumi del carbone, le fecce dei cavalli, le farine delle sacca sventrate, il bariglione rotto, la buccia putrida, la lorda schiuma che ingialla il piede del pilone, mentre alla gru che cigolando assorda l'aria imbracato il bove da macello pencola come botte che sciaborda. Canto l'acqua dei porti. Odo l'appello rude, il commiato, il grido. I reggimenti partono. Ogni uomo armato è il mio fratello. Veggo gli occhi brillare, veggo i denti rilucere. Odo il lastrico del molo rombar sotto la marcia. Sono ardenti i vólti come se li ardesse un solo riverbero, o il sorriso d'una sola madre, di quella grande. Ogni figliuolo oggi ha sol quella, e in cuore la parola che alfine irruppe dalla bocca forte. Guerra! È il croscio dell'Aquila che vola. Guerra! Una gente balza dalla morte, s'arma, s'assolve nell'eucaristia del mare, e salpa verso la sua sorte. Non più si volge indietro. Guerra! Sia per giorni, sia per mesi, sia per anni ella combatterà nella sua via. Canto la libertà. Quali tiranni furono uccisi? quali mostri vinti? Qual forza li atterrò? di quanti inganni, di che frodi senili erano cinti? Chi diede al falso tempio il grande crollo? Le colonne piegarono su i plinti. Il precone stampato fu col bollo rovente nella palma della mano e nel dosso restìo, sino al midollo. Strascicandosi contra l'uragano gioioso che lo tratta come balla di cenci, or vocia nella piazza in vano. E marchiatelo ancóra su la spalla e su la fronte! Poi gli sia concessa la buona greppia nella buona stalla. Altra parola è data, altra promessa. Canto il domani e canto la canzone dei secoli; ché l'anima è trasmessa. A mira di balestra o di cannone l'occhio è ben quello, che non batte ciglio. Dritto è il silùro come lo sperone. Canto la forza antica e nova, figlio d'una carne vivente e d'infinita progenie. O tu che m'odi, io ti somiglio. Ma il balestriere, chino alla bastita o alzato sul carroccio, anco in me vive. L'anima eterna è il vaso della vita. Canto le stive, le profonde stive piene d'armi, di viveri, di tende, di bottame; le maestranze attive su i ponti apparecchiati ove risplende forbito ogni metallo. I battaglioni giungono. Il cielo è prode, con vicende di nubi e di chiarìe, con padiglioni immensi, con falangi impetuose. E tutta la città par che si doni. E diffuso è l'amore su le cose come un ciel più vicino, simigliante al vólto delle madri coraggiose. Non sul vólto, nell'anima son piante le lacrime divine e trionfali, mentre il silenzio fa le labbra sante. Gloria della città! Passano l'ali ripiegate dell'uomo, i grandi ordegni di Dedalo, le macchine campali fatte di tesa canape e di legni lievi, che porteran l'uomo e l'atroce sua folgore su i fragili sostegni. E le gole d'acciaio senza voce passano, che laggiù nel lor linguaggio conciso parleranno, dal veloce affusto tratte al ciglio del villaggio, lungo il palmeto, sopra le trincere, davanti ai pozzi. Romba il carriaggio su la selce. Seduto è l'artigliere sul cofano. Conduce a coppia a coppia i cavalli gagliardi il cavaliere. L'applauso scroscia, un gran clamore scoppia. Repente il sole batte su la faccia giovenile, sul pezzo, su la doppia groppa. E l'affusto trascinato a braccia nella sabbia ove il mare s'impantana vedo! Chi mai cancellerà la traccia dentro le dune della Giuliana? Il vento, il flutto, l'uomo, il tempo? È immota. Gloria a te, batteria siciliana! Canto il selvaggio anelito, la gota che gronda, il lungo sforzo a testa bassa, i polsi tra le razze della rota, le spalle che sollevano la cassa e la portano, l'ordine del fuoco, la mira, il primo colpo nella massa nemica, il suolo raso, l'urlo roco delle strozze riarse ad ogni schiera abbattuta, l'allegro ardor del gioco; o Ameglio, e il ferro freddo; e la bandiera tua vecchia, o Quarto Reggimento, issata su la Berca nel soffio della sera. Canto la Morte, alata e illuminata come la prima legge della luce. La vita è meno fertile. È rinata da lei l'alta bellezza. Ella produce le semenze che noi nella ruina seminerem cantando. Ella conduce le Muse, conduttrice più divina d'Apollo. Non ha tombe ma trofei. È tutt'avvolta d'aria mattutina come la messaggera degli dei. I più giovini eroi sono i suoi gigli. O Gloria, ed ella è là dove tu sei. O Primavera, e tu le rassomigli. Mentre che soffia il vento del Deserto, ella infiamma gli anemoni vermigli. Canto la Gloria cerula, dal serto alternato di rostri e di muraglie, che ride se il combattimento è incerto. Immune dall'orror delle battaglie, è bella come Roma nel suo trono e Siracusa nelle sue medaglie. Come sul mar risponde il tuono al tuono, il presente al passato in lei risponde; e la mia corda duplice è il suo dono. Conculcate le stirpi moribonde ella fa dell'Italia dai tre mari la grande Patria dalle quattro sponde. Quando nei nostri porti gli alti fari s'accendono, ella sfolgora da ostro sola nelle foschie crepuscolari. E, vòlto verso lei notturna, il nostro sogno ansioso vigila il mattino. E il mattino per noi sorge da ostro. Sorge con uno strepito marino, tra le grida gioiose dei messaggi che gridano il gentil sangue latino: gridano i reggimenti e gli equipaggi, gridano i morti, gridano i feriti le vittorie da' bei nomi selvaggi, gli eroi dai nomi oscuri ingigantiti. Bu-Meliana, Sidi-Messri, Sciara- Sciat, Henni! Par che al lauro si mariti la palma. Tutta l'oasi è un'ara fumante. Verri, Granafei, Briona, Orst, Bertasso, Gangitano, Fara, Moccagatta, Spinelli! Un nome suona la morte, l'altro la vita. E la morte e la vita son come una corona sola composta di due fronde attorte. Severo dal suo grande Arco sorride: il battaglione è come la coorte. Foss'io come colui che i nomi incide col ferro aguzzo nella nuda stele ad eternar la gesta ch'egli vide! O Roma, almen quello del tuo fedele inciderò nel fulvo travertino, e il tuo modo: "Coi remi e con le vele". O Roma, e mentre al giovine Latino "Velis remisque" nella pietra intaglio, scorgo l'Ombra del grande suo vicino. Guarda la fresca tomba l'Ammiraglio, quegli che fece co' suoi nervi soli a San Giorgio di Lissa il suo travaglio. "Gittai buon seme" ei dice. Si consoli per quell'Ombra e s'inebrii del suo pianto la madre di Riccardo Grazioli. E tu resta, o Canzone, in camposanto. Annotta. Sta fra l'una e l'altra tomba; e veglia, incoronata d'amaranto. Alla diana sonerai la tromba. Da Laudi del cielo della terra e degli eroi. Libro Quarto Gabriele D'Annunzio -consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini Merope La canzone d'oltremare I miei lauri gettai sotto i tuoi piedi, o Vittoria senz'ali. È giunta l'ora. Tu sorridi alla terra che tu predi. Italia! Dall'ardor che mi divora sorge un canto più fresco del mattino, mentre di te l'esilio si colora. Oggi più alta sei che il tuo destino, più bella sei che la tua veste d'aria; e di lungi il tuo vólto è più divino. Odo nel grido della procellaria l'aquila marzia, e fiuto il Mare Nostro nel vento della landa solitaria. Con tutte le tue prue navigo a ostro, sognando la colonna di Duilio che rostrata farai d'un novo rostro. E nel cuore, oh potenza dell'esilio, il nome tuo m'è giovine e selvaggio come nel grido delle navi d'Ilio. Italia! Italia! Non fu mai tuo maggio, nella città del Fiore e del Leone quando ogni fiato era d'amor messaggio, sì novo come questa tua stagione maravigliosa in cui per te si canta con la bocca rotonda del cannone. Questa è per te la primavera santa che - dice il dio - "d'ogni semenza è piena e frutto ha in sé che di là non si schianta". Oggi nova tu sei per ogni vena sopra l'oblìo dell'onta; e nelle Sirti ucciderai l'ultima tua sirena. Come vivremo, o bella, per servirti? come morremo, o fior delle contrade, perché tu c'inghirlandi de' tuoi mirti? Del miglior sangue fa le tue rugiade e serba la promessa d'Oriente, se il paradiso è all'ombra delle spade. Siamo cinti d'oblìo. Siamo una gente fresca e spedita, immemore dei giorni squallidi, paziente e impaziente, immemore dei sonni e degli scorni quand'ella mendicava il suo preconio dal ciompo, tempestando il pan ne' forni, e la pace era femmina da conio che per ruffian s'avea qualche Bonturo e un Zanche per mezzano al mercimonio. Giorni senz'alba, il rullo del tamburo, lo squillo della tromba, e questa sorte che turbina alle soglie del futuro, vi disperdono. Tuonano sì forte le volontà, che nella rossa aurora non s'ode il crollo delle cose morte. Ecco il giorno, ecco il giorno della prora e dell'aratro, il giorno dello sprone e del vomere. O uomini, ecco l'ora. È venuta col rombo del tifone pel Mar Mediterraneo, più fiera che l'astro su la spalla d'Orione, più colorata che la messaggera della Celeste. E al grido "Issa! Issa!" già tutta l'aria è sola una bandiera. Emerge dalle sacre acque di Lissa un capo e dalla bocca esangue scaglia "Ricòrdati! Ricòrdati!" e s'abissa. E il Mar Mediterraneo, che vaglia le stirpi alla potenza ed alla gloria, in ogni flutto freme la battaglia. "Ch'io mi discalzi" dice la Vittoria, simile a grande mietitrice albana, fosca sotto la fronda imperatoria "Ch'io mi discalzi presso la fiumana di Rumia bella, dove il suo meandro nutre l'olivo a Pallade romana. Ch'io pieghi e chiuda un ramo d'oleandro in Lebda, nella cuna di colui che suggellò la tomba d'Alessandro. Ch'io m'abbeveri là dove già fui, non per l'umide argille alla caverna onde il Lete discende i regni bui, ma per l'aride sabbie alla cisterna di Roma, che nell'ombra una silente linfa conserva e una memoria eterna. Con me, con me verso il Deserto ardente, con me verso il Deserto senza sfingi, che aspetta l'orma il solco e la semente; con me, stirpe ferace che t'accingi nova a riprofondar la traccia antica in cui te stessa ed il tuo fato attingi, con me là dove chi combatte abbica, perché nella corona io ti connetta la foglia della quercia con la spica! Se tu mi veda oggi nell'armi eretta sopra la prua, tu mi vedrai domani da presso curva al suolo che t'aspetta, quando pacata come i Decumani acerrimi, con nude ambe le braccia, tu rempierai di semi le tue mani. Troppo vegliai, avverso la minaccia del sonno e della febbre, in Ostia morta, volta al limo del Tevere la faccia, tra gli stipiti alzati della Porta Marina dove a vespero s'aduna luce fatale dalle pietre assorta, io sola con l'anelito, se alcuna ombra d'iddio scorgessi o udissi entrare nella foce la Nave e la Fortuna. Ah, se tanto vegliai sul limitare terribile, ch'io dorma un sonno lene e breve, sotto l'Arco d'oltremare! Ch'io sogni il greco sogno di Cirene, sotto l'Arco del savio Imperatore sgombro della barbarie e delle arene, schiuso al Trionfo, mentre dalle prore splende la pace in Tripoli latina, recando i dromedarii un sacro odore. O incenso del Deserto alla marina, profumo delle incognite contrade fulvo come la giubba leonina; aròmati e metalli, armenti e biade, e Berenice dalla chioma d'oro! Il paradiso è all'ombra delle spade. La palma è la sorella dell'alloro." Dice la grande Vergine che squilla simile a Clio nel grande aonio coro. E per noi dalla libica Sibilla, sotto il cielo voltato dal Titano, la sentenza di Dio si disigilla. Preparate l'aratro cristiano, preparate la falce per la mèsse, il frantoio e la macina al Soldano, l'ascia il piccone e il palo ch'ei dilesse, i gran magli e le macchine forbite simili a moltitudini indefesse; i forni vasti come le meschite pel ferro dissepolto, le magone ov'aspro strida nell'assidua lite; le fornaci per cuocere il mattone dei costruttori, in cui porrem l'impronta che piacque a Nerva: Roma col timone. Ogni tristezza dietro a noi tramonta. Chi latra ancóra nella lorda fossa, quando il fato con l'anima s'affronta? Italia, alla riscossa, alla riscossa! Ricanta la canzone d'oltremare come tu sai, con tutta la tua possa, come quando sorgeva sopra il mare in sangue e in fuoco un sol clamor selvaggio "Arremba! Arremba!" e ne tremava il mare, scrosciando la galèa, preso il vantaggio e infisso il cuor del capitano al rostro, con le vele e coi remi all'arrembaggio. "Dienai', Dienai' e 'l Signor nostro! Dienai', Dienai' e 'l San Sepolcro!" cantava la galèa sul Mare Nostro. Nel croscio de' tuoi secoli io t'ascolto. "Dienai', Die n'aìti in mare e in terra!" Alza nel grido il tuo raggiato vólto, e in terra e in mare tieni la tua guerra. Da Laudi del cielo della terra e degli eroi. Libro Quarto Gabriele D'Annunzio -consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini
Ricordo di Guido Boggiani Così pregai nel mio cuore; e ciascun dei dolci compagni forse anche pregò nel suo cuore segreto, perché non s’udiva parola. Ed èramo tutti a poppa raccolti, in silenzio. 5131Ed uno di noi, che taceva con fronte ostinata, era sacro a morte precoce, più caro d’ogni altro agli iddii come eletto L’Ulissìde a perir giovine e in atto di compier l’impresa cui s’era devoto con anima salda. 5138Or quegli nella memoria più fortemente mi vive; e lui vedo presso la ruota del timone in quel punto, ritto su le gambe sue snelle e nervose di corritore del lungo stadio, guatare 5145con gli occhi chiarissimi il solco. In verità, fra i compagni egli era il più pallido. Quasi esangue appariva il suo vólto; ma i suoi biondi capelli sorgevano senza mollezza su la robusta ossatura 5152della fronte nata a cozzare contra l’impedimento; e di virtuoso rilievo su’ chiarissimi occhi era l’arco dei sopraccigli, sobria la bocca e di netto discorso, agile il collo se bene 5159la nuca sì ferma paresse ch’io le comparai la cervice d’Eràcle che l’Etra sostiene tra la bella Espèride e Atlante nella metòpe d’Olimpia. Ei ne sorrise. Ma certo gli sovrastava continua 5166l’imagine immensa d’un cielo. Veduto avea splendere nuove stelle in un cielo incurvato su selve più vaste che tutta l’Ellade, su fiumi più larghi che gli ellesponti e gli eurìpi, nel Continente australe, 5173tra fosche incognite stirpi dall’anima ancóra constretta nell’inviluppo terrestre come gli iddii primitivi dell’Ellade erano ancor misti agli elementi del Cosmo. Condotto avea su le notturne 5180correntie la spaziosa rate carica di tronchi centenni e mirato il volume infinito dell’acque palpitar d’astri qual cielo irriguo e l’alba levarsi dai silenzii possente 5187come per un giorno eternale. Un Ulissìde egli era. Perpetuo desìo della terra incognita l’avido cuore gli affaticava, desìo d’errare in sempre più grande spazio, di compiere nuova 5194esperienza di genti e di perigli e di odori terrestri. Come le schiave di Bitinia o di Frigia recavano in letto corintio l’indelebile aroma natale, così le sue patrie 5201remote nell’anima sua voluttuosamente odoravano. Ei sorridea dinanzi all’olivo d’Atena pensando la smisurata fronda opulenta di fiori di frutti di piume che tutti 5208vincono i monili di Serse. L’Ilisso e il Cefìso ruscelli sassosi pareangli, che varca il salto d’un uomo; l’Imetto, un alveare declive; il Pentèlico, un tempo dal lungo tìmpano, senza 5215intercolunnii; tutta l’Attica pareagli dal cinto aureo di Afrodite conclusa. O dolce compagno, ebro e folle d’immensità, ti rivedo àlacre all’alba sul ponte, il primo ai risveglio e ai lavacri 5222mattutini, vigile come il gallo, sempre operoso, Ulissìde! Il tuo piede scalzo rivedo sul nitido ponte, il piè dalla pianta ampia e certa, dal maschio e divergente pollice, il piè corritore 5229del lungo stadio, o Ulissìde. Tu eri il più sobrio e il più casto; e, se il compagno avea sete, perché quegli bevesse tu non bevevi, contento. E nei polverosi cammini, per l’erte difficili, amavi 5236portare l’ingombro dei pesi, né per ciò mutavi il tuo passo espedito; ché il tuo bel corpo era immune d’adipe ignavo, come l’ottime spiche arente sotto il mai curvo tuo capo d’oro, Ulissìde. 5243Intento a disciplinarti eri sempre, anco ne’ piaceri fugaci, e ad apprendere molto, ad essere industre tu solo come uomini molti; e sapevi apprestarti il tuo cibo e rimendar la tua veste 5250come la tua vela, Ulissìde. Compagno diletto, che mai mi fosti grave e mai con l’ombra tua mi togliesti il mio sole, non più dunque presso il timone seduto su fascio di corde io ti leggerò l’avventura 5257del Re di tempeste Odisseo che dopo le nove giornate ventose approdò nella terra dei mangiatori di loto, che mangiano il fiore del loto che fa obliare il ritorno a chi la dolcezza ne prova? 5264Ahimè, ti scordasti il ritorno tu anche, ma non per quel fiore soave, e mai più tornerai col tuo passo certo e leggero verso di noi che t’attendemmo sì lungamente e sperammo di udir la tua limpida voce 5271narrar la conquista lontana! Sotto la clava del selvaggio predone cadesti, senza vìndici, nell’umida ombra; mentre tu, svelto odiatore di salmerìe e di scorte, con silenzioso ardimento 5278t’addentravi nella foresta letale, obbedendo al tuo fato che ti spingea senza tregua più oltre più oltre nel nuovo. Prono cadesti, e il tuo sangue ottimo, il sangue del capo, bagnò l’erbe e i fiori dell’umo 5285di là dall’ultima orma che stampata avevi col piede veloce; sicché procombendo andasti pur sempre più oltre: il tuo corpo, ove spegneasi il pronto vigore latino, occupar valse anco un tratto 5292di terra ignota, o Ulissìde. Gloria a te! Ricordato sarai se non muoia il mio canto fra l’itala gente. A te gloria! E ti rivedo, sul Mare Mirtòo, presso la ruota del timone in quel punto, 5299ritto su le gambe tue snelle e nervose di corritore del lungo stadio, guatare con gli chiarissimi il solco. E t’era non molto discosto un altro compagno di stirpe migrante, dei vizii umani L’altro Ulissìde 5306esperto e del valore, e degli odii, duro in oprare e combattere, aspro in trattare la pelle infetta dei greggi, occhio aguzzo, collo taurino, fermo pugno, pensier destro a ogni lotta come compiuto 5313atleta al pancrazio e al pentàtlo. E questi avea seco, qual pegno d’amore, la sferza untuosa tagliata nel cuoio ferrigno del pachidermo fiumale, fatta untuosa dai dorsi negri stillanti di sevo 5320fetido. E amava d’amore anch’egli una terra lontana, la terra ignìta ove la Sfinge all’urto dell’uomo ritratta s’è dalle sabbie del Nilo ad altre piagge crudeli Da Maia Gabriele D'Annunzio -consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini
Meriggio A mezzo il giorno sul Mare etrusco pallido verdicante come il dissepolto bronzo dagli ipogei, grava la bonaccia. Non bava di vento intorno alita. Non trema canna su la solitaria spiaggia aspra di rusco, di ginepri arsi. Non suona voce, se ascolto. Riga di vele in panna verso Livorno biancica. Pel chiaro silenzio il Capo Corvo l'isola del Faro scorgo; e più lontane, forme d'aria nell'aria, l'isole del tuo sdegno, o padre Dante, la Capraia e la Gorgona. Marmorea corona di minaccevoli punte, le grandi Alpi Apuane regnano il regno amaro, dal loro orgoglio assunte. La foce è come salso stagno. Del marin colore, per mezzo alle capanne, per entro alle reti che pendono dalla croce degli staggi, si tace. Come il bronzo sepolcrale pallida verdica in pace quella che sorridea. Quasi letèa, obliviosa, eguale, segno non mostra di corrente, non ruga d'aura. La fuga delle due rive si chiude come in un cerchio di canne, che circonscrive l'oblìo silente; e le canne non han susurri. Più foschi i boschi di San Rossore fan di sé cupa chiostra; ma i più lontani, verso il Gombo, verso il Serchio, son quasi azzurri. Dormono i Monti Pisani coperti da inerti cumuli di vapore. Bonaccia, calura, per ovunque silenzio. L'Estate si matura sul mio capo come un pomo che promesso mi sia, che cogliere io debba con la mia mano, che suggere io debba con le mie labbra solo. Perduta è ogni traccia dell'uomo. Voce non suona, se ascolto. Ogni duolo umano m'abbandona. Non ho più nome. E sento che il mio vólto s'indora dell'oro meridiano, e che la mia bionda barba riluce come la paglia marina; sento che il lido rigato con sì delicato lavoro dell'onda e dal vento è come il mio palato, è come il cavo della mia mano ove il tatto s'affina. E la mia forza supina si stampa nell'arena, diffondesi nel mare; e il fiume è la mia vena, il monte è la mia fronte, la selva è la mia pube, la nube è il mio sudore. E io sono nel fiore della stiancia, nella scaglia della pina, nella bacca, del ginepro: io son nel fuco, nella paglia marina, in ogni cosa esigua, in ogni cosa immane, nella sabbia contigua, nelle vette lontane. Ardo, riluco. E non ho più nome. E l'alpi e l'isole e i golfi e i capi e i fari e i boschi e le foci ch'io nomai non han più l'usato nome che suona in labbra umane. Non ho più nome né sorte tra gli uomini; ma il mio nome è Meriggio. In tutto io vivo tacito come la Morte. E la mia vita è divina. Da Alcyone Gabriele D'Annunzio -consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini Versilia Non temere, o uomo dagli occhi glauchi! Erompo dalla corteccia fragile io ninfa boschereccia Versilia, perché tu mi tocchi. Tu mondi la persica dolce e della sua polpa ti godi. Passò per le scaglie e pe' nodi l'odore che il cuore ti molce. Mi giunse alle nari; e la mia lingua come tenera foglia, bagnata di sùbita voglia, contra i denti forti languìa. Sapevi tu tanto sagaci nari, o uomo, in legno sì grezzo? Inconsapevole eri, e del rezzo gioivi e de' frutti spiccaci e dell'ombre cui fànnoti gli aghi del pino, seguendo il piacere de' vènti, su gli occhi leggiere come ombre di voli su laghi. Io ti spiava dal mio fusto scaglioso; ma tu non sentivi, o uomo, battere i miei vivi cigli presso il tuo collo adusto. Talora la scaglia del pino è come una palpebra rude che subitamente si schiude, nell'ombra, a uno sguardo divino. Io sono divina; e tu forse mi piaci. Non piacquemi l'irto Satiro sul letto di mirto, e il panisco in van mi rincorse. Ma tu forse mi piaci. Aulisce d'acqua marina la tua pelle che il Sol feceti fosca. Snelle hai gambe come bronzo lisce. Offrimi il canestro di giunco ricolmo di persiche bionde! Poiché non mi giovano monde, riponi il tuo coltello adunco. Io so come si morda il pomo senza perdere stilla di suco. Poi co' miei labbri umidi induco il miele nel cuore dell'uomo. Riponi il ferro acre che attosca ogni sapore. Tu non pregi i tuoi frutti. I peschi, i ciriegi, i peri, i fichi in terra tosca son di dolcezza carchi, e i meli, gli albricocchi, i nespoli ancora! E tu li spogli in su l'aurora velati dei notturni geli. Da tempo in cuor mio non è gaudio di tal copia. Ahimè, sono scarsi i doni. E tu vedi curvarsi i rami del susino claudio! Ma io non ho se non la terra pigna dal suggellato seme. E a romper la scaglia che il preme non giovami pur una pietra. O uomo occhicèrulo, m'odi! Lascia che alfine io mi satolli di queste tue persiche molli che hai nel cesto intesto di biodi. Ti priego! La pigna malvagia mi vale sol per iscagliarla contro la ghiandaia che ciarla rauca. Non s'inghiotte la ragia. Ma se le mastichi negli ozii, quantunque ha sapore amarogno, allor che il tuo cuore nel sogno si bea lungi ai vili negozii, certo ti piace, o uomo; ed io te ne darò della più ricca. Tu la persica che si spicca, e ne cola il suco giulìo, dammi, ch'io mi muoio di voglia e da tempo non ebbi a provarne. Non temere! Io sono di carne, se ben fresca come una foglia. Toccami. Non vello, non ugne ricurve han le tue mani come quelle ch'io so. Guarda: ho le chiome violette come le prugne. Guarda: ho i denti eguali, più bianchi che appena sbucciati pinocchi. Non temere, o uomo dagli occhi glauchi! Rido, se tu m'abbranchi. Abbrancami come il bicorne villoso. La frasca ci copra, i mirti sien letto, di sopra ci pendano l'albe viorne. Ma come, Occhiazzurro, sei cauto! Forse amico sei di Diana? Ora scende da Pietrapana il lesto Settembre col flauto, se cruenta nel corniolo rosseggi la cornia afra e lazza. Odo tra il gridìo della gazza il richiamo del cavriuolo. Sei tu cacciatore? Sei destro ad arco, esperto a cerbottana? Ora scende da Pietrapana Settembre. Tu dammi il canestro. Eh, veduto n'ho del pél baio verso il Serchio correre il bosco! Tu dammi il canestro. Conosco la pesta se ben non abbaio. Accomanda il nervo alla cocca. Ne avrai della preda, s'io t'amo! Imito qualunque richiamo con un filo d'erba alla bocca. Da Alcyone Gabriele D'Annunzio -consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini Stabat nuda aestas Primamente intravidi il suo piè stretto scorrere su per gli aghi arsi dei pini ove estuava l'aere con grande tremito, quasi bianca vampa effusa. Le cicale si tacquero. Più rochi si fecero i ruscelli. Copiosa la résina gemette giù pe' fusti. Riconobbi il colùbro dal sentore. Nel bosco degli ulivi la raggiunsi. Scorse l'ombre cerulee dei rami su la schiena falcata, e i capei fulvi nell'argento pallàdio trasvolare senza suono. Più lungi, nella stoppia, l'allodola balzò dal solco raso, la chiamò, la chiamò per nome in cielo. Allora anch'io per nome la chiamai. Da Alcyone Gabriele D'Annunzio -consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini Lungo l'Affrico nella sera di giugno dopo la pioggia Grazia del ciel, come soavemente ti miri ne la terra abbeverata, anima fatta bella dal suo pianto! O in mille e mille specchi sorridente grazia, che da nuvola sei nata come la voluttà nasce dal pianto, musica nel mio canto ora t'effondi, che non è fugace, per me trasfigurata in alta pace a chi l'ascolti. Nascente Luna, in cielo esigua come il sopracciglio de la giovinetta e la midolla de la nova canna, sì che il più lieve ramo ti nasconde e l'occhio mio, se ti smarrisce, a pena ti ritrova, pel sogno che l'appanna, Luna, il rio che s'avvalla senza parola erboso anche ti vide; e per ogni fil d'erba ti sorride, solo a te sola. O nere e bianche rondini, tra notte e alba, tra vespro e notte, o bianche e nere ospiti lungo l'Affrico notturno! Volan elle sì basso che la molle erba sfioran coi petti, e dal piacere il loro volo sembra fatto azzurro. Sopra non ha sussurro l'arbore grande, se ben trema sempre. Non tesse il volo intorno a le mie tempie fresche ghirlande? E non promette ogni lor breve grido un ben che forse il cuore ignora e forse indovina se udendo ne trasale? S'attardan quasi immemori del nido, e sul margine dove son trascorse par si prolunghi il fremito dell'ale. Tutta la terra pare argilla offerta all'opera d'amore, un nunzio il grido, e il vespero che muore un'alba certa. Da Alcyone Gabriele D'Annunzio -consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini La sera fiesolana Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscìo che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta su l'alta scala che s'annera contro il fusto che s'inargenta con le sue rame spoglie mentre la Luna è prossima a le soglie cerule e par che innanzi a sé distenda un velo ove il nostro sogno si giace e par che la campagna già si senta da lei sommersa nel notturno gelo e da lei beva la sperata pace senza vederla. Laudata sii pel tuo viso di perla, o Sera, e pe' tuoi grandi umidi occhi ove si tace l'acqua del cielo! Dolci le mie parole ne la sera ti sien come la pioggia che bruiva tepida e fuggitiva, commiato lacrimoso de la primavera, su i gelsi e su gli olmi e su le viti e su i pini dai novelli rosei diti che giocano con l'aura che si perde, e su 'l grano che non è biondo ancóra e non è verde, e su 'l fieno che già patì la falce e trascolora, e su gli olivi, su i fratelli olivi che fan di santità pallidi i clivi e sorridenti. Laudata sii per le tue vesti aulenti, o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce il fien che odora! Io ti dirò verso quali reami d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti eterne e l'ombra de gli antichi rami parlano nel mistero sacro dei monti; e ti dirò per qual segreto le colline su i limpidi orizzonti s'incùrvino come labbra che un divieto chiuda, e perché la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire e nel silenzio lor sempre novelle consolatrici, sì che pare che ogni sera l'anima le possa amare d'amor più forte. Laudata sii per la tua pura morte o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare le prime stelle! Da Alcyone Gabriele D'Annunzio -consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini Sant'Ambrogio Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco Per que' pochi scherzucci di dozzina, E mi gabella per anti-tedesco Perchè metto le birbe alla berlina, Or senta il caso avvenuto di fresco, A me che girellando una mattina, Capito in Sant'Ambrogio di Milano, In quello vecchio, là, fuori di mano. M'era compagno il figlio giovinetto D'un di que' capi un po' pericolosi, Di quel tal Sandro, autor d'un Romanzetto Ove si tratta di Promessi Sposi...... Che fa il nesci, Eccellenza? o non l'ha letto? Ah, intendo: il suo cervel, Dio lo riposi, In tutt'altre faccende affaccendato, A questa roba è morto e sotterrato. Entro, e ti trovo un pieno di soldati, Di que' soldati settentrïonali, Come sarebbe Boemi e Croati, Messi qui nella vigna a far da pali: Difatto, se ne stavano impalati, Come sogliono in faccia a' Generali, Co' baffi di capecchio e con que' musi, Davanti a Dio diritti come fusi. Mi tenni indietro; chè piovuto in mezzo Di quella maramaglia, io non lo nego D'aver provato un senso di ribrezzo Che lei non prova in grazia dell'impiego. Sentiva un'afa, un alito di lezzo; Scusi, Eccellenza, mi parean di sego, In quella bella casa del Signore, Fin le candele dell'altar maggiore. Ma in quella che s'appresta il Sacerdote A consacrar la mistica vivanda, Di subita dolcezza mi percuote Su, di verso l'altare, un suon di banda. Dalle trombe di guerra uscian le note Come di voce che si raccomanda, D'una gente che gema in duri stenti E de' perduti beni si rammenti. Era un coro del Verdi; il coro a Dio Là de' Lombardi miseri assetati; Quello: O Signore, dal tetto natio, Che tanti petti ha scossi e inebriati. Qui cominciai a non esser più io; E come se que' côsi doventati Fossero gente della nostra gente, Entrai nel branco involontariamente. Che vuol ella, Eccellenza, il pezzo è bello, Poi nostro, e poi suonato come va; E coll'arte di mezzo, e col cervello Dato all'arte, l'ubbíe si buttan là. Ma cessato che fu, dentro, bel bello Io ritornava a star, come la sa; Quand'eccoti, per farmi un altro tiro, Da quelle bocche che parean di ghiro, Un cantico tedesco lento lento Per l'äer sacro a Dio mosse le penne: Era preghiera, e mi parea lamento, D'un suono grave, flebile, solenne, Tal che sempre nell'anima lo sento: E mi stupisco che in quelle cotenne, In que' fantocci esotici di legno, Potesse l'armonia fino a quel segno. Sentía nell'inno la dolcezza amara De' canti uditi da fanciullo: il core Che da voce domestica gl'impara, Ce li ripete i giorni del dolore: Un pensier mesto della madre cara, Un desiderio di pace e d'amore, Uno sgomento di lontano esilio, Che mi faceva andare in visibilio. E quando tacque, mi lasciò pensoso Di pensieri più forti e più soavi. Costor, dicea tra me, Re pauroso Degl'italici moti e degli slavi, Strappa a' lor tetti, e qua senza riposo Schiavi gli spinge per tenerci schiavi; Gli spinge di Croazia e di Boemme, Come mandre a svernar nelle Maremme. A dura vita, a dura disciplina, Muti, derisi, solitari stanno, Strumenti ciechi d'occhiuta rapina Che lor non tocca e che forse non sanno: E quest'odio, che mai non avvicina Il popolo lombardo all'alemanno, Giova a chi regna dividendo, e teme Popoli avversi affratellati insieme. Povera gente! lontana da' suoi, In un paese qui che le vuol male, Chi sa che in fondo all'anima po' poi Non mandi a quel paese il principale! Gioco che l'hanno in tasca come noi. - Qui, se non fuggo, abbraccio un Caporale, Colla su' brava mazza di nocciolo, Duro e piantato lì come un piolo. (Giuseppe Giusti 1809/1850) -consigliata da Piero Colonna Romano | Laus vitae I. O Vita, o Vita, dono terribile del dio, come una spada fedele, come una ruggente face, come la gorgóna, come la centàurea veste; o Vita, o Vita, dono d'oblìo, offerta agreste, come un'acqua chiara, come una corona, come un fiale, come il miele che la bocca separa dalla cera tenace; o Vita, o Vita, dono dell'Immortale alla mia sete crudele, alla mia fame vorace, alla mia sete e alla mia fame d'un giorno, non dirò io tutta la tua bellezza? Chi t'amò su la terra con questo furore? Chi ti attese in ogni attimo con ansie mai paghe? Chi riconobbe le tue ore sorelle de' suoi sogni? Chi più larghe piaghe s'ebbe nella tua guerra? E chi ferì con daghe di più sottili tempre? Chi di te gioì sempre come s'ei fosse per dipartirsi? Ah, tutti i suoi tirsi il mio desiderio scosse verso di te, o Vita dai mille e mille vólti, a ogni tua apparita, come un Tìaso di rosse Tìadi in boschi folti, tutti i suoi tirsi! Nessuna cosa mi fu aliena; nessuna mi sarà mai, mentre comprendo, mondo Laudata sii, Diversità delle creature, sirena del mondo! Talor non elessi perché parvemi che eleggendo io t'escludessi, o Diversità, meraviglia sempiterna, e che la rosa bianca e la vermiglia fosser dovute entrambe alla mia brama, e tutte le pasture co' lor sapori, tutte le cose pure e impure ai miei amori; però ch'io son colui che t'ama, o Diversità, sirena del mondo, io son colui che t'ama. Vigile a ogni soffio, intenta a ogni baleno, sempre in ascolto, sempre in attesa, pronta a ghermire, pronta a donare, pregna di veleno o di balsamo, tòrta nelle sue spire possenti o tesa come un arco, dietro la porta angusta o sul limitare dell'immensa foresta, ovunque, giorno e notte, al sereno e alla tempesta, in ogni luogo, in ogni evento, la mia anima visse come diecimila! È curva la Mira che fila, poi che d'oro e di ferro pesa lo stame come quel d'Ulisse. Tutto fu ambìto e tutto fu tentato. Ah perché non è infinito come il desiderio, il potere umano? Ogni gesto armonioso e rude mi fu d'esempio; ogni arte mi piacque, mi sedusse ogni dottrina, m'attrasse ogni lavoro. Invidiai l'uomo che erige un tempio e l'uomo che aggioga un toro, e colui che trae dall'antica forza dell'acque le forze novelle, e colui che distingue i corsi delle stelle, e colui che nei muti segni ode sonar le lingue dei regni perduti. Tutto fu ambìto e tutto fu tentato. Quel che non fu fatto io lo sognai; e tanto era l'ardore che il sogno eguagliò l'atto. Laudato sii, potere del sogno ond'io m'incorono imperialmente sopra le mie sorti e ascendo il trono della mia speranza, io che nacqui in una stanza di porpora e per nutrice ebbi una grande e taciturna donna discesa da una rupe roggia! Laudato sii intanto, o tu che apri il mio petto troppo angusto pel respiro della mia anima! E avrai da me un altro canto. II. Io nacqui ogni mattina. Ogni mio risveglio fu come un'improvvisa nascita nella luce: attoniti i miei occhi miravano la luce e il mondo. Chiedea l'ignaro: "Perché ti meravigli?". Attonito io rimirava la luce e il mondo. Quanti furono i miei giacigli! Giacqui su la bica flava udendo sotto il mio peso stridere l'aride ariste. Giacqui su i fragranti fieni, su le sabbie calde, su i carri, su i navigli, nelle logge di marmo, sotto le pergole, sotto le tende, sotto le querci. Dove giacqui, rinacqui. Mi persuase i sonni il canto della trebbia, il canto dei marinai, il canto delle sartie al vento, l'odore della pece, l'odore degli otri, l'odore dei rosai, il gemitìo del siero giù dai vimini sospesi nella cascina, la vece delle spole nei telai notturna, il ruggir cupo dei forni accesi, il favellar leggero dell'acque pei botri, il battere della maciulla nell'aia. E parvemi talora su quei familiari suoni farsi un alto silenzio e riudire il lontano canto della mia culla. Mi destò il Sole raggiandomi la faccia. Vidi per le trame delle mie palpebre il fulgore del mio sangue. Il mozzo pendulo dal cordame gittò a me supino il suo grido, il suo grido annunziatore; e rise il lieve lido come un labbro su la bonaccia. Le secchie all'alba nel pozzo traboccanti d'acqua ghiaccia con lor croscio argentino suscitaron nel mio vigore nudo il brivido salubre del lavacro mattutino. Le allodole gloriose in alto in alto in alto dalla rocca dell'Azzurro mi chiamarono al grande assalto. I poledri violenti su la prateria molle, irsuti il pel selvaggio, coperti di rugiade come i bruchi villosi in fondo alle corolle, m'annitrirono su i vènti che parean recarmi il sentore degli ippòmani favolosi forte come un beveraggio. Cantò: "Ben venga maggio!" dal colle di ginestre chiaro la teoria coronata di canestre votive, e per le contrade e per l'anima mia trionfò Prosèrpina in veste tosca obliando Ade. Quante voci, quanti richiami, quanti inviti nell'aurore belle! Ma ebbi altri risvegli. Ebbi un letto vasto, sacro all'amor cieco e al perspicace odio; vasto sì che giacersi potessero con meco e con la mia donna la forza e la grazia, la crudeltà e la froda, la voluttà e la morte. Tra l'una e l'altra colonna pendeva una cortina grave che copria d'ombra il rito infecondo e la carne sazia, quando la concubina seduta su la proda mi guatava in silenzio con i suoi occhi instrutti nella cui notte ingombra io vedea passar gli antichi mostri e gli eterni lutti. Io t'abbandonai, O mia carne, t'abbandonai come un re imberbe abbandona il suo reame alla guerriera che s'avanza in armi tremenda e bella, ond'ei teme e spera. Ella s'avanza vittoriosa, tra moltitudini in festa che di tutti i lor beni fan conviti al suo passare. Attonito trasale il re dolce, e la sua speranza ride al suo timore; ché non sapea di tanta gioia e di tanta fame ricchi i suoi schiavi, non sé tanto possente né di tanto feroci spini pieno il suo dolce cuore. Io ti saziai, o mia carne, ti saziai come l'alluvione sazia la terra che più non la riceve ed è sommersa. Fiumi perigliosi precipitarono ruggendo sopra di te perduta. Fosti talora come uva premuta da fiammei piedi; talora come neve segnata di vestigia cruente, d'impronte oscure; talora come inerte gleba; e parvemi ch'io sentissi in te serpere ignote radici e udissi lunge stridere su la cote forse una scure. Furonvi donne serene con chiari occhi, infinite nel lor silenzio come le contrade piane ove scorre un fiume; furonvi donne per lume d'oro emule dell'estate e dell'incendio, simili a biade lussurianti che non toccò la falce ma che divora il fuoco degli astri sotto un cielo immite; furonvi donne sì lievi che una parola le fece schiave come una coppa riversa tiene prigione un'ape; furonvi altre con mani smorte che spensero ogni pensier forte senza romore; altre con mani esigue e pieghevoli, il cui gioco lento parea s'insinuasse a dividere le vene quasi fili di matasse tinte in oltremarino; altre, pallide e lasse, devastate dai baci, riarse d'amore sino alle midolle, perdute il cocente viso entro le chiome, con le nari come inquiete alette, con le labbra come parole dette, con le palpebre come le violette. E vi furono altre ancóra; e meravigliosamente io le conobbi. Conobbi il corpo ignudo alla voce, al riso, al passo, al profumo. Il suono d'un passo sconosciuto mi fece ansioso quasi melodìa che s'oda giungere nella remota stanza per chiuse porte a quando a quando, e il cuore anela. Risa belle, io già dissi il vostro numero, io vi lodai diverse come le sorgenti della terra, come le piogge nelle stagioni! Io dissi la vostra essenza invisibile, profumi, le vostre mute effusioni che pur vincono i torrenti nella rapina! Ma la voce avrà da me un canto più glorioso. Furonvi città soavi su colli ermi, concluse nel lor silenzio come chi adora; furonvi palagi snelli su logge aperte ad accoglier l'aria come chi respira, sacri alle Muse; furonvi orti irrigui, paradisi recinti come labirinti con una porta sola e mille ambagi, ove l'aura piega ogni stelo e s'invola come chi fa ghirlande e non le lega; vi furono bevande, frutti, musiche pe' nostri agi; e le melancolie. III. O notte d'estate fra l'altre memoranda per la bellezza indicibile onde rifulse nell'ombra la mia persona mortale, quasi fosse in lei espressa l'effigie divina del Desiderio, sotto i muti baleni che facean del cielo estremo una fucina ardente! Nessuno comprenderà mai perché nel semplice atto umano io mi sentissi così bello per tutto l'esser mio: l'eguale dei Giovini trasfigurati nei miti eterni della grande Ellade. Per un'ora fui l'eguale dei trasfigurati Giovini alle soglie dei boschi e sul margine delle fonti: nell'ombra calda e sotto i muti lampi bello indicibilmente. La luna era trascorsa; dietro le opache cime vanito era il suo breve incanto. L'orrore medusèo parve impietrare la faccia sublime della notte. Non canto, non grido s'udiva. Rare gemevan l'aure. Boote guardava l'Orsa; e lacrimava il coro delle Pleiadi belle ai ginocchi del Toro; ed Orione in corsa veniva armato d'oro su le tristi sorelle; ed Erigone pura, in disparte e con elle, versava anche il suo pianto. Così viveva la gran notte, qual la mirò dai monti Orfeo. Viveva d'una vita altissima taciturna e sacra, come quando l'apollinea prole invocò: "M'odi, o iddia, desiderabile, di negro peplo vestita, cinta di astri, inspiratrice degli inni, madre dei sogni, urania e terrestre, generatrice di tutte le cose, ricchissima, oblìo delle cure, persuasiva, m'odi!". Eran nel mio petto gli inni. Ma intenti i miei occhi erano all'orizzonte ultimo che fervea come se vi sfavillasse ignìto e vivido su la vulcania incude un cuor di titano con un palpito immenso. "O cuore titanico" dissi "formidabile, palpitante al confine del cielo, te anche arde e torce il desiderio onde anelo come s'io morissi? Per quale amante? Per quale dominio? Per quale morte? Che vuoi? che vuoi? Ovunque il tuo affanno apre solchi d'arsura che all'alba le rugiade non addolciranno. Ah che anch'io questa notte saprei morir come gli eroi, uccidere un re nel suo letto o tra le spade, sciogliere una cintura forte come quella che alla Terra cingono gli antichi mari!" Immobile su la soglia io guatava con occhi arsi, sentendo in me parole alzarsi confuse, come chi delira. Dietro di me la casa umana, spenta e di cure ingombra, ove dormivano i servi, gemeva a quando a quando vana come una lira senza nervi. E parve a un tratto, lontana con la sua doglia senza ritorno, lasciarmi nella solitudine solo. Il mio palpito stesso e la rapidità dei lampi si confusero allora; furono una forza concorde che lottò con la più alta ombra, toccò Galassia e i campi, agitò il sonno dell'Aurora, svegliò tutte le corde. E io dissi: "O mondo, sei mio! Ti coglierò come un pomo, ti spremerò alla mia sete, alla mia sete perenne". E d'essere un uomo più non mi sovvenne, poi che il mio cuor palpitava su la terra e nel cielo con un palpito sì grande. E io dissi: "O figlie d'Atlante, Atlantidi, corona ardente delle Pleiadi, o Taigete, o Elettra, o Celeno, Merope fosca, e tu, Maia dall'affocata faccia, Asterope, Alcyone, scendete ai miei giardini!". E così dicea vanamente per tendere le braccia, per volontà di chiamare, per amor dei nomi divini. Il silenzio era vivo come un'anima sparsa che ascolti e attenda senza respiro. Un'ala si mosse, una foglia cadde, un calice si schiuse, traboccò una fonte, una lingua lambì l'acqua, un'orma calcò l'erba, un balzo ruppe uno stelo, un foco vano rigò l'aria, un odor si diffuse umido nella caldura. Tutti i miei sensi vigilavano, nell'attesa della gioia oscura. Una bellezza indicibile io sentìa spandersi per le mie membra, come chi trasfigura. "Che vuoi? che vuoi?" Immobile stetti come i simulacri esangui; poiché ogni cosa attraeva il mio gesto ma il mondo parea vanire. "Che vuoi? che vuoi?" Dalle mie stesse vene pareami essere attorta l'anima come da mille angui con torride e gelide spire, "Che vuoi? che vuoi?" E un lampo discoperse la vite meravigliosa, gravida di grandi grappoli, frondosa di fosche fronde, con le radici immerse nelle virtù profonde. "Morire o gioire! Gioire o morire!" Ah, poter di côrre dal ciel più lontano un pugno d'astri pareami fosse nella mia mano fatta onnipossente dal cor che in me fervea! E il grappolo più grande colsi avidamente, che pesava d'ambrosia come la mammella ineffabile d'una dea data all'adolescente per gioire e morir quivi. Gli acini eran vivi d'inesausto calore alle mie dita di gelo. Sentii ne' precordii l'odore del pampino lacerato come d'un velo arcano che si fendesse. O Vita, quel parvemi il primo e l'ultimo tuo dono, e che i miei giovini denti mai polpa d'opimo frutto avesser morso né mai bevuto agreste sorso le mie labbra sanguigne. L'odore di tutte le vigne sentii ne' precordii capaci e di tutti i mosti il sapore, ebbi le vendemmie spumanti di tutti gli autunni feraci nel cuore, e le feste i canti l'urto dei piè danzanti il suono dei flauti frigi, e Lesbo rossa di faci pel natale del vino e l'onda corale e il passo del lidio coturno, o Vita, quando la mia bocca vergine di baci diedi al tuo grappolo notturno. Allora, come una statua dalla voluttà della Notte espressa, una forma silenziosa biancheggiò nell'ombra terribile; e trasalii. Una luce fatua sorse come una colonna tremante nell'ombra soffocata; e trasalii. Non dissi: "O donna, chi sei tu?". Non chiesi: "D'onde venuta, di quali iddii messaggera?". Ma la conobbi subitamente, muta ed eloquente. Per sentieri profondi tratta me l'avea sola dall'armonia dei mondi il Desiderio. Non dissi: "Parla!". Ma mi volsi a ghermire il suo corpo discinto, che fresco sentii quasi fosse balzato da polle rupestri. Né per baciarla la bocca detersi dal succo del grappolo molle; ché il divino Istinto mi volle dei due beni diversi comporre una gioia infinita. O Vita, o Vita! O notte d'estate fra l'altre memoranda, in cui la mia carne compì l'umano atto fugace sotto la specie dell'Eterno! O notte in cui viver mi parve figurato nel violento mito che divennemi un segno sacro per le vie della terra ove tolsi tutti i miei beni!
IV. E come l'esule torna alla cuna dei padri su la nave leggera: il suo cor ferve innovato nell'onda prodiera, la sua tristezza dilegua nella scìa lunga virente: io così sciolsi la vela, coi compagni molto a me fidi, in un'alba d'estate ventosa, dall'àpula riva ove ancor vidi ai cieli erta una romana colonna; io così navigai alfin verso l'Ellade sculta dal dio nella luce sublime e nel mare profondo qual simulacro che fa visibili all'uomo le leggi della Forza perfetta. E incontrammo un Eroe. Incontrammo colui che i Latini chiamano Ulisse, nelle acque di Leucade, sotto le rogge e bianche rupi che incombono al gorgo vorace, presso l'isola macra come corpo di rudi ossa incrollabili estrutto e sol d'argentea cintura precinto. Lui vedemmo su la nave incavata. E reggeva ei nel pugno la scotta spiando i volubili vènti, silenzioso; e il pìleo tèstile dei marinai coprivagli il capo canuto, la tunica breve il ginocchio ferreo, la palpebra alquanto l'occhio aguzzo; e vigile in ogni muscolo era l'infaticata possa del magnanimo cuore. E non i tripodi massicci, non i lebeti rotondi sotto i banchi del legno luceano, i bei doni d'Alcinoo re dei Feaci, né la veste né il manto distesi ove colcarsi e dormir potesse l'Eroe; ma solo ei tolto s'avea l'arco dell'allegra vendetta, l'arco di vaste corna e di nervo duro che teso stridette come la rondine nunzia del dì, quando ei scelse il quadrello a fieder la strozza del proco. Sol con quell'arco e con la nera sua nave, lungi dalla casa d'alto colmigno sonora d'industri telai, proseguiva il suo necessario travaglio contra l'implacabile Mare. "O Laertiade" gridammo, e il cuor ci balzava nel petto come ai Coribanti dell'Ida per una virtù furibonda e il fegato acerrimo ardeva "o Re degli Uomini, eversore di mura, piloto di tutte le sirti, ove navighi? A quali meravigliosi perigli conduci il legno tuo nero? Liberi uomini siamo e come tu la tua scotta noi la vita nostra nel pugno tegnamo, pronti a lasciarla in bando o a tenderla ancóra. Ma, se un re volessimo avere, te solo vorremmo per re, te che sai mille vie. Prendici nella tua nave tuoi fedeli insino alla morte!" Non pur degnò volgere il capo. Come a schiamazzo di vani fanciulli, non volse egli il capo canuto; e l'aletta vermiglia del pìleo gli palpitava al vento su l'arida gota che il tempo e il dolore solcato aveano di solchi venerandi. "Odimi" io gridai sul clamor dei cari compagni "odimi, o Re di tempeste! Tra costoro io sono il più forte. Mettimi alla prova. E, se tendo l'arco tuo grande, qual tuo pari prendimi teco. Ma, s'io nol tendo, ignudo tu configgimi alla tua prua." Si volse egli men disdegnoso a quel giovine orgoglio chiarosonante nel vento; e il fólgore degli occhi suoi mi ferì per mezzo alla fronte. Poi tese la scotta allo sforzo del vento; e la vela regale lontanar pel Ionio raggiante guardammo in silenzio adunati. Ma il cuor mio dai cari compagni partito era per sempre; ed eglino ergevano il capo quasi dubitando che un giogo fosse per scender su loro intollerabile. E io tacqui in disparte, e fui solo; per sempre fui solo sul Mare. E in me solo credetti. Uomo, io non credetti ad altra virtù se non a quella inesorabile d'un cuore possente. E a me solo fedele io fui, al mio solo disegno. O pensieri, scintille dell'Atto, faville del ferro percosso, beltà dell'incude! E contemplai, di contro a Same dai foschi cipressi, Itaca petrosa, il Nèrito aspro nudato, la patria angusta di quella incoercibile Forza. E veder parvemi il tetto securo, la soglia polita, le stanze purgate dai morbi con fumido solfo, le fanti dai cinti vermigli intente a forbir seggi e deschi con le spugne lor cavernose o a torcere i lor fusi versatili o a scardassare le lane, e la tarda nutrice Euriclèa che valse già venti tauri, e l'economa Eurinòme, e Femio il cantore, e nell'orto cinto di pruni Laerte curvo a rincalzare l'arbusto. Or la figlia d'Icario guatava la torma dell'oche clamose beccare dal truogo il biondo fromento, e niuna aquila calata dal monte franger la cervice alle imbelli come nel sogno antico. Ma il talamo vasto, tutto di legno d'olivo lavorato di man dello sposo, confitto con chiovi d'argento saldamente al ceppo natìo che abbarbicato era con ferme stirpi alla durezza terrestre, il talamo antico d'Ulisse anco una volta deserto si stava, e per sempre, sotto la pelle bovina cui rodean le vigili tarme. "Deh, un qualche iddio mi rapisca, O mi fieda Cintia d'un telo!" Rammaricavasi acerba la moglie incorrotta. E la casa di strepitosi chieditori sonante e di danze e conviti ripensava ella nel tristo suo petto. E improvviso a rancore pestifero cedea la più che ventenne costanza! Fatta era l'alta reina simile a femmina ancella, poiché queste dicea parole: "Deh, avess'io scelto a marito il più ricco e valente dei Proci, accolto avessi il figlio di Polibo Eurìmaco o il figlio d'Eupite Antinòo, e seco passata io fossi ad altra dimora, più tosto che attendere l'uomo cui solo è talamo grato la tolda a sciogliervi il cinto dell'onda!". E il savio Ulissìde Telemaco dal suo seggio coperto di velli manosi governava i porcari. E il pallido adipe, onde un disco recato avea Melanzio ai Proci con la panca e la pelle e la brace perché si scaldasse e ugnesse e ammollisse il nervo dell'arco nel dì della strage, l'adipe grave su l'epa cresceva e pe' lombi e nel collo del savio Ulissìde. E partiva il suo letto di belle coltrici adorno con una florida fante ei che, ospite imberbe, mirato avea splendere Elena a Sparta e ricevuto il bel peplo da Elena e bevuto il nepente di Elena alla mensa ospitale. "Contra i nembi, contra i fari, contra gli iddii sempiterni, contra tutte le Forze che hanno e non hanno pupilla, che hanno e non hanno parola, combattere giovami sempre con la fronte e col pugno con l'asta e col remo col governale e col dardo per crescere e spandere immensa l'anima mia d'uom perituro su gli uomini che ne sien arsi d'ardore nell'opre dei tempi. Sol una è la palma ch'io voglio da te, o vergine Nike: l'Universo! Non altra. Sol quella ricever potrebbe da te Odisseo che a sé prega la morte nell'atto." Tali volgea pensieri il Re sul ponto oscurato. O Itaca dura di rupi, l'ombra che tu protendesti nell'occaso del Sole tal fu per l'anima mia qual pel figlio della dogliosa nereide lo stigio lavacro! Caduto era ogni soffio. Nelle anse di Same sonore placavasi il rombo come nelle ritorte bùccine quando il dio cessa d'enfiarle col labbro salino. Simili a sarisse di bronzo nel macigno confitte i lacrimabili cipressi, interrotto il gemito amaro, parevano pronti a ferire. Scorgeasi la glauca Zacinto lungi, e il Cillene, e la costa crassa cui nutre di molta rapina il selvaggio Achelòo. Salir vidi un placido fumo allora, di tra gli oleastri che coronan col segno del buon lottator la Petrosa; e dolsemi il cor dentro al petto, ché pel sangue mi corse pensier della madre lontana, pensier delle dolci sorelle e del mio focolare. E m'apparve il bel fiume ove nato fui di stirpe sabella, Aterno di rossa corrente cui cavalca il ponte construtto di carene di travi d'ormeggi, spalmato di pece, in vista al monte nevoso che ha forma d'ubero pieno. E la tomba m'apparve sul poggio chiomante di pini, ove il padre riposa le sue grandi ossa ond'io m'ebbi tempra sì dura. E dissi nell'ombra: "O sorelle, tre come le porte del tempio, tre come il trifoglio dei paschi, tre come le Càriti leni, la prima dai floridi ricci salubre qual cespo di menta in docile rio, la seconda a me simigliante nel vólto ma quasi d'un velo soffusa argenteo sì ch'io mi creda specchiarmi in sul fare dell'alba a un fonte di acque serene, la terza dagli occhi bovini robusta qual fu giovinetta la figlia di Rea, della madre sostegno ridente, o mie dolci sorelle, non io vi obliai e di me voi favellate nel vespero forse, dal tetto arguto di nidi guardando verso l'Adriatico Mare. Pur, se taluna di voi improvviso mirasse l'aspetto della mia Libertà, d'orror tremerebbe e di spavento, perduto credendo il fratello suo caro, per sempre perduto; né più oserebbe toccarmi né dirmi parola di pace. E bagnerebbe di pianto le incolpabili mani materne, alla misera donna pregando l'oblìo del suo nato. E lo stranier che merca e froda al publico sole, il falso mendico che ostenta nel trivio l'ulcera immonda, il marinaio rissoso che batte il fanciullo e il vegliardo parrebbero a quella men empii del caro fratello perduto! Gèniti d'un grembo, d'un sangue, d'un atto d'amore noi siamo, sorelle. E, se penso le vene su la vostra tempia non cinta più cerule e tenui dell'ombre cui le frondi pie dell'ulivo fan sul vello dell'agna che pasce da presso, io sorrido d'una tremante dolcezza e le medesime vene guardo ne' miei pallidi polsi, che battono sì violente di desiderio implacato. E le mie virtù, i miei vizii, i miei delitti, i miei gaudii letiferi, i miei operosi tormenti, le occulte mie glorie, i sogni indicibili, tutto il fiume rapace del mio essere tingemi i polsi di quel vostro azzurro sì lieve! O consanguinei fiori, o pure ghirlande sospese alla fronte del focolare, s'io torni ove nacqui, in tema starò sorridente dinanzi alla vostra allegrezza come il viandante che sosta e parco è di chiare parole ché agli ospiti cela il suo stato. Ma tu, o madre mia forte, che mi generasti con tante grida nel mese fecondo che da Marte si noma, entrando il Sole nel segno dell'Ariete durocozzante, mentre passavan sul nostro tetto col volubile nembo i pòllini di primavera, tu subitamente svelato m'accoglierai tutto qual sono nella luce del tuo dolore. Qual sono, per te sarò sacro, per te gloriosa in patire e resistere, o madre! E tu, che immota rimani a costringer nelle tue braccia come in ferrea zona la casa fenduta dai fulmini, il soffio dell'immenso mondo in me sentirai vorticoso, senza terrore, e tutto saprai, pur quello che ignoto mi sta nel profondo, pur quello che sta nel Futuro, inspirata di conoscenza celeste. E mi dirai: "O figlio, t'ho fatto di vita sì breve e d'insaziabile cuore! Giusto è che tanto t'affretti a cercare a lottare a volere, lontan dalla madre che farti non seppe immortale". Gloria al tuo capo, o madre! Sii tu testimone sublime di mia verità sotto il cielo. O Solitaria, o Dolorosa, o Paziente, non sono io forse il tuo grido? Il tuo inconsapevole grido che, riconosciuto, si spande su gli uomini e reca ai più puri la tua speranza divina. O madre, sia gloria al tuo capo!". Queste la mia tristezza diceva parole, nell'ombra d'Itaca aspra di rupi. E parve dal mare profondo salirmi al petto una forza silente, in cui palpitavan le amiche Pleiadi, quando a notte supino, col vólto alle stelle, giacqui presso l'Occhio di prua.
V. Dal golfo corintio, dal cuore dell'Ellade il vento soffiò contra l'Occhio di prua, cangiò gli oleastri d'Itaca, piegò i cipressi di Same, fe' simile il mare all'irta di fiocchi egida cui Pallade scuote. Ed era il meriggio, l'ora di Pan, l'ora grande. Il Sole era al colmo dei cieli ignudo; e tutto era chiaro d'intorno, presso e lontano; e l'anima mia come l'orbe dell'incorruttibile Etra tutta era di cristallo e d'oro sospesa in su l'acque. E il grido sonò: "Sciogli! Allarga! Su le scotte di randa! Borda randa! Su le drizze di fiocco! Issa fiocco!". E il legno garriva. Il legno gemeva cricchiava rombava; la verga bicorne strideva alla trozza: la forte ralinga batteva l'aere qual furia pennata di libertà sotto pugni di ghermitori tenaci; sinché contra l'albero a pioppo ghindata fu tra fondo e testiera, ordita la scotta al paranco. E l'àurica vela fu gonfia d'un alito immenso, più bella di tutte le cose d'intorno apparite, più di noi che l'aprimmo libera, più pura e innocente del cielo, una vergine forza, un desiderio pudìco, un arco acceso d'amore pel suo segno, un candido spirto tra il duplice Azzurro tutt'ala! Egidarmata Atena, ben tu ci volesti avverso il vento perché nell'approdo alla tua terra natale io memore fossi che sol nella lotta è la gioia. Parea che l'aspra tua verginità palpitasse presente nell'ombra della gran randa solare e che tu vigilassi co' tuoi occhi cesii l'alterna opra dei naviganti e tu le imprimessi in silenzio la tua misura divina. Obliqua la nave, inclinata sul fianco, in un solco di spume fervide, prueggiava giugnendo l'altura del vento avverso qual carro la cima di ripido monte. "Orza! Poggia!" E la verga biforca passava rombando fischiando sopra le nostre fronti chine; e tutta la ben costrutta compagine sotto lo sforzo risonava come una cetra. percossa; e l'opposto bordo attignea quasi l'acqua come avido labbro che sia per bevere il sale. Era l'opra agevole e lieve qual gioco. Aperto era il novo cammino alla rapida prua, come nel coro segue l'epòdo alla duplice strofe. Itaca Same Zacinto s'inazzurravano a poppa, cangiate in elisia corona; Oxia pareva un'ara ancor rosea della ecatombe, l'Àraxo un trofeo di Titani. Oh perìstrofe gioiosa verso la pampìnea Patre! Ora meridiana d'inimitabile vita! Levità della carne, freschezza dell'anima nova, rinascimento argentino! Non rugiada al solstizio su prato di salvie e di timi fu mai sì gemmante come l'anima mia che il Sole beveva inesausta. "O dio Sole, tu la bevi ed ella rinasce, tu l'ardi ed ella s'irrora. Antico tu sei, ella è sempre recente. Tu due e due volte trasmuti la faccia del mondo, ma la stagione che in lei cresce è diversa: non estate non primavera, ma una felicità più novella." L'aroma dei canti futuri parea nel respiro alitarmi. E io dissi: "O Ineffabile, o Ignoto, il nome per te troveranno i miei canti futuri, il nome e la lode per sempre!". E la nave era parte di me, la vela erami ala su l'òmero, la prua era la cima del cuore sagliente, il lungo proteso bompresso era il segno della fecondante potenza. E come a un amplesso d'amore io tendeva al lito ricurvo, portato dal cielo e dal mare. O Ellade, e io credetti che dal tuo grembo di marmo avuto avrei finalmente il figlio che invoco immortale! Torrido soffio affocante qual fiato di mille fornaci su l'acqua del porto oleosa e corrotta; lezzo di tetre cloache, di putridi frutti, di torbidi fumi, di fecce, di sevi, di spezie, di vini, d'acri fermenti, d'umani sudori; terribili pietre consunte dal traffico immondo, riarse da Sirio, insozzate dall'escremento dell'ebre ciurme, dei cavalli, dei buoi stupiti ancor barcollanti in lungo rullìo di tempesta; tristi anelli di nero ferro, ormeggi più tristi che vincoli di prigionieri; man tese di mendicanti, riso ambiguo di prossenèti, e frode e fame in agguato: tale m'apparve all'approdo l'antica città degli Achei artefice di diademi e di vestimenta soavi. Per le vie bianche, sotto nembi di polve una bara misera fra roche preghiere recava il cadavere esangue dal vólto scoperto simile al giallore del croco. Alzato il teologo macro su la piazza pulverulenta a lenoni e vinai disvelava con stridula voce il mistero del dio senza muscoli. E i preti scaltri, nelle tuniche sparse d'untume nauseabondi, al loquace inesperto sorridean d'un perfido riso pettinando con l'unghie ricurve le luride barbe. Diana Lafria, scomparso era il tuo tempio agile a specchio del golfo. Correa per ladre mani pecunia dolosa, più vile del cencio e del timo. Oh effigie di gloria nel chiaro metallo battuto, quadriga trionfale, deità astata, spica opima, prora invitta, terrestre e marina potenza nel fermo rilievo inconsunto, propagata bellezza di acropoli vittoriose! Non gli Apolloniasti su le triere dipinte, né i mercatanti di Tiro nel segno d'Eràcle, né i Coi, né i Rodii, né gli Ateniesi di belle parole eran quivi; ma frode e fame in agguato. E nella notte illune, quando s'accesero i fari e il libico soffio si spense e i siderei fochi incoronarono i monti e s'udi lontana la voce del mare di là dai macigni dei moli, noi tristi ridendo e cantando seguimmo il prossenèta per cupi angiporti graveolenti in cerca di meretrici. E disse un de' cari compagni, mentre un gabbier fulvo e nerbuto receva il suo vin resinato alla soglia del lupanare tra afa d'amaro sudore: "La résina geme dai pini dell'Ida, ove Paris pascendo i buoi sogna Elena di Sparta che ancóra ei non vide, promessa!". I marinai dal collo ignudo, gli stradiotti bracati, i battellieri dal braccio di bronzo e dal dorso incurvo, le flosce bagasce dalle guance rosse di fuco vile, i bardassoni più molli delle femmine esperti in muovere l'anca, la schiuma del porto, la melma del trivio, i nativi e i metèci e gli stranieri approdati da un'ora, accesi di foia, tumultuavano al lume fumido delle lucerne grasse, tracannavano il vino malvagio e la mastica arzente, mercavano copula e lue per mezza dramma. E gli sguardi come i getti della saliva lucean sul carnaio in fermento. Quivi, al dir del buon prossenèta, giunta era una donna di Pirgo formosa, nel fiore degli anni. Ma non degnava ella beare di sua forma l'ebra ciurmaglia nella fumosa taverna aspra d'urli rauchi e di pugni percossi. In penetrale remoto, su candido letto, ella attendea lo straniero opulento, il navarca magnanimo, o l'alto signore dei latifondi patrensi. Salimmo allora la scala di putrido legno, varcammo la soglia segreta; e la donna di Pirgo ci apparve nell'ombra del letto, piccola e pingue, simile a gravida capra dalle molte mammelle olente dell'irco suo sposo. Niuno di noi appressarsi ardiva alla femmina elèa. Ma uno dei cari compagni le parlò con attico accento: "O femmina elèa, non nel Minyeio d'Omero, nell'ingiocondo Anigro che scorre tra il Minthe e il Lapitha, bagnasti il fior di tue membra?". Ridemmo in giovine coro. Ella gustar l'attico sale non seppe, e scagliò contra noi l'ingiuria e i sandali. Allora ci ritraemmo, con nari occluse giù per la scala di putrido legno. Repente brancolò nell'acre tenebra ver noi una mano ignota. Qual voce d'antico sepolcro imprecava per fame novella? Ristemmo, perplessi. Al breve bagliore scorsero i nostri occhi mortali l'eterna tartarea faccia d'Atropo che taglia lo stame, dell'inevitabile Mira? Sparvero l'inganno dell'ora presente, l'angustia del luogo, il turpe clamore degli ebri; e tutti i secoli muti che avean travagliato quel vólto, incanutito quel crine, sfatto quella bocca vorace, smunto quel seno infecondo, curvato quel dorso di belva, scarnito quell'avida branca, sepolto nell'orbita cava quell'occhio ancor semivivo senza cigli ingombro di sanie e lacrimoso di sangue, i millennii d'onta e di lutto oppressero il cuor mio vivente. E l'anima mia nel mio cuore tremò d'infinita tristezza, come innanzi all'aspetto senile d'una già cognita gente, di sùbito apparsomi in fondo al funebre specchio dei tempi. Ma risero i cari compagni. E nell'artiglio proteso dalla famelica lèna io posi ridendo una dramma. Mormorò ella parole buie tra le vacue gengive con la sua voce di tomba. La grande sua bianca criniera si dileguò nella notte. E noi scendemmo la scala di putrido legno. Cedette un de' gradi all'urto del piede, s'infranse con gemito. Oh dolce, dalla soglia del lupanare, mirar le vergini stelle! E disse un de' cari compagni tornando alla nave ancorata: "Aedo, tu désti la dramma a Elena figlia del Cigno, che fatta è serva millenne d'una meretrice di Pirgo". Vidi il pastor frigio su l'Ida pascere col flauto l'armento all'ombra dei pini chiomosi, innanzi che in talamo eburno ei s'avesse Elena di Sparta. E disse il compagno: "L'estremo Eroe cui ella soggiacque nomavasi, come l'idèo rapitor suo primo, Alessandro. Su quella zona terrestre che si protende arenosa tra il Mediterraneo Mare e il Mareotide Lago, il giovine Eroe la premette; e fu la lor prole Alessandria". Alessandria! Alessandria! La forza la gioia la gloria del trionfatore d'imperi e il van balbettìo faticoso del calvo grammatico! Io dissi meco: "Se ancóra l'impronta dei lombi divini rimane laggiù nella sabbia palustre, io andrò andrò adorante". Parlava la voce del sogno. "Votò l'Eroe la sua vasta coppa. Meditò taciturno. Votare la coppa ei soleva dopo sovrumane fatiche. Da lui stanco il vino traeva una onniveggente potenza. Ei vide le Forze immortali salir dalla terra e dal ponto. Tra il Mediterraneo e il Lago segnò taciturno le sorti della Città nascitura. I Continenti oscurati eran sotto l'ombra degli alti pensieri. Ei vedea la ricchezza dei regni versarsi infinita su l'Arcipelago azzurro, dalla Città nascitura come da corno inesausto. E vennegli Elena per l'acque dai lidi argivi incurvati secondo la forma del labbro ledèo; sorridendo gli venne Elena di Sparta che Achille bramò; venne a lui col nepente la bianca Tindaride; venne recando nel cinto il profumo dell'Ellade caro al signore dell'Asia. E il Macedone scosse la figlia di Zeus nudata su le fondamenta fatali. E fu quegli l'estremo Eroe cui ella soggiacque. Poi fu polluta per notti e notti, tra il sangue e l'incendio, dai centurioni di Roma, premuta fu sotto le squamme delle loriche pesanti. Punsero l'ispide barbe la sua mammella rotonda che dava la forma alle coppe d'avorio pei conviti dei re. Nel suo ventre convulso ruggire s'udì la lussuria come rombo in conca marina. Da sola ella fu la suburra aperta all'esercito in foia. Fu manomessa dai servi, dai ladroni, dagli omicidi, dai profanatori di tombe, dai mercenarii fuggiaschi. Calpesta in polvere e in fango, lambì con la lingua lasciva le calcagna dei violenti. Soffiò dovunque il suo fiato come insanabile peste. Accrebbe i nomi del vizio. Fece innumerevoli i nomi e i modi, maestra di spintrie pei Cesari enfii di murene e roscidi di purulenza. Vecchia d'indicibil vecchiezza, tentò se le mille sue rughe servir potessero a qualche più mostruosa lascivia; ma, come in solchi di sabbia sol cresce la crambe marina, crebbevi sol la vergogna. E fu di postriboli cencio, nettò dai vòmiti i letti, gittò nel rigagno del vico le rosse urine e lo sterco, spezzò il suo ultimo dente per rodere gli ossi ed i tozzi contesi alla cagna scabbiosa. Or tu la vedesti alla porta di quella femmina elèa, crinita di grande canizie. Fu sua sapienza la frode, sudore di opere infami ne' secoli fu suo lavacro; e tuttavia biancheggiare or noi la vedemmo nell'ombra! Come neve su volutabro sta su lei la grande canizie: attonito l'occhio la mira. Ahi fior di bianchezza sublime che alle Scee mirarono i Vegli! Aedo, tu désti la dramma a Elena figlia del Cigno." Così, questo sogno sognando nell'amarissimo cuore, tornammo alla nave ancorata. E poi ci colcammo sul ponte, il sonno invocammo dall'Orse. Tal fu la notte di Patre.
VI. Il fiato degli uomini vili fuggimmo, l'odore e il clamore degli Efimeri imbelli che quivi apparivano come la lebbra sul sen di Afrodite, la stupidità su la fronte di Pallade, negli occhi di Febo la sanie cruenta. O vigne immense eguali, pascoli d'api, coi verdi pampini illanguiditi dall'aridità presso il mare ceruleo dove Zacinto ignuda natava in silenzio come la sirena delusa che virtù non ebbe d'attrarre ai carmi la nave d'Ulisse! O grappoli sparsi in su l'aie quadrate per cuocersi al sole, densi e violacei come il crine sul collo di Saffo! Cipresso, e parvemi allora soltanto conoscer la tua meditabonda bellezza, commisto al palmite ricco, sul fianco dei colli silenti, su le correnti dell'acque, in contro al zaffiro sublime dei monti creati alle soglie dell'aria dal flauto di Pan! Oleandro, e allora t'elessi in riva ai ruscelli fiorito per inghirlandar la mia Musa che ama danzare e lottare, che tratta l'incudine e il sistro, che onora la grazia e la forza, che loda il pastore e l'eroe; t'elessi, oleandro, ti colsi per redimir le mie tempie di rose e d'alloro in un ramo. Non mai parso m'eri sì bello! E un altro da me canto avrai. Peregrinammo da Patre alla città santa d'Olimpia, al tempio di Zeus Cronide con chiusa l'offerta nel cuore. E tacita era la via; e il Sole inclinavasi all'onda occidua, con riaccesa divinità, Elio nomato per noi, Elio d'Eurifaessa. Ed èramo senza parola, tacenti, ma d'una celeste melodìa pieni il petto mortale. E talora dai monti aerei venivan messaggi per l'aere; e noi rendevamo l'orecchio, attoniti, ai suoni di Pan. Disse un de' cari compagni: "Nel plenilunio che segue il solstizio d'estate la Festa ha principio". S'udiva dietro a noi fragore di carri. E d'improvviso tutta la valle echeggiò di fragore come d'un émpito d'acque irrompenti da cataratte aperte su l'Elide. E il grido umano e il nitrito anelante squillavano sopra il fragore. "Per vincere vincere vincere!" E ci volgemmo. E vedemmo tra nembi di splendida polve una moltitudine immensa d'uomini, di cavalli, di carri condotta da mille Vittorie che armavano il cielo d'un fremito aquìleo, nube di penne di pepli di chiome impetuosa volante in aura di giovinezza. "Per vincere vincere vincere!" E tutto il Peloponneso tremò come foglia di gelso. Era su la via santa la forza dell'Ellade, mossa da un ramo d'ulivo selvaggio! Era il fior della stirpe quadruplice, la concorde e discorde anima ellèna protesa verso il serto leggiere d'ulivo selvaggio! Ionii e Dorii, Eolii ed Achei, il sangue d'Atene di Sparta di Tebe d'Elice d'Ege; le genti insulari di Nasso di Sèrifo d'Andro, di tutte le Cicladi; e i potenti di terra lontana, i tiranni sicelii, i re di Cirene, i grandi oligarchi delle città di Tessaglia e quei di Metaponto di Velia di Sibari di Posidonia ambivan l'ulivo selvaggio! E gli alti carri dipinti recavan le offerte votive: le decime tolte al bottino, le arche di cedro e d'avorio, le tavole i tripodi i vasi le lampade d'oro e d'argento, i tori e i cavalli di bronzo, i rudi colossi di pietra avvolti in lini trapunti, e le spugne il nitro la cera la pece gli aròmati gli olii. E tutti, città, re, strateghi, atleti, sacravan le offerte per vincere o per aver vinto nello stadio o in pugna campale. Gli Eretrii i Sicionii i Messenii grondavano ancóra di sangue. Le prede raccolte a Platèa eran fuse in un simulacro. La strage l'onta il servaggio facean trionfali i metalli. O Temistocle insonne, del gran Laertiade alunno, spada battuta a freddo, noi ti vedemmo sul carro che Atene ti diede, ben saldo come su trireme rostrata; e in te l'acuto sorriso era qual tempra nel ferro. E te, Pericle, anche vedemmo, o artefice della saggezza, te nato d'occulta sirena e di colui che a Micale fu vincitore nel nome d'Ebe giovinetta ridente; te anche vedemmo, che avevi nel gesto nel passo nel verbo nella cesarie ornata l'ordine divino onde fulge la pura colonna nei Propilèi di Mnesìcle, nel Partenone d'Ictìno. Ma Alcibiade, lo snello pantère versicolore che Diòniso amico èccita col batter del piede, l'auriga che al carro dall'asse d'oro agitava i cavalli più rapidi, chiamammo per nome. Grandissime offerte ei seco recava, ricchezze insigni, per dare per dar grandemente. Io gli chiesi: "E alla Vita che tanto ti diede, or tu che darai?". "Darò la mia statua scolpita dalle mie mani." "E qual gioia ti parve più fiera?" "La gioia d'abbattere il limite alzato." "Qual fu il tuo buon dèmone?" "Il rischio, il rischio dagli occhi irretorti." "La buona virtù?" "Il piè leggero, Ospite, il mio piè leggero!" E gli strateghi i navarchi gli arconti passavano in carri dall'aureo timone, e i cantori i sapienti gli alunni di Clio gli artefici esperti di tutte le forme, coloro che foggiavan la sorte d'un popolo vivo, coloro che animavan l'umida argilla col pollice nudo, coloro che trasfiguravan gli aspetti dell'Essere con l'eloquenza. E vedemmo Erodòto dagli occhi d'intento fanciullo, che seco recava al consesso dell'Ellade i rotoli gravi di gloria come i fiari son pregni di miele. Vedemmo Ippia e Gorgia, vedemmo Demòstene Isòcrate Lisia; invocammo Pindaro invano. Ma splendean come astri nell'etra, come le Pleiadi e l'Orsa, nella moltitudine immensa quattordici atleti. Il fulgore dei sette e sette epinicii ardea nell'eroico sangue. Perpetuavasi il ritmo dell'olimpica Ode nei polsi del pùgile. L'ala della triade sagliente armava i mallèoli certi al corritore del lungo stadio. Ecco il bello Efarmosto d'Opunte, Ergotèle d'Imera, Psaumida di Camarina. Ecco Agesia Siracusano della profetica gente iamide, di Sòstrate prole. Ecco Alcimedonte egineta, d'Egina dai grandi navigli, della blepsiade gente. E d'improvviso apparve fiammeo di porpora coa, pari a inestinguibile vampa, nella moltitudine solo, più solo dell'aquila a sommo del monte, il monarca degli Inni. "Aquila, aquila" io dissi "onde torni sì radiante? M'odi! Rispondi! Per gli astri, pei vulcani, pei lampi, per le meteore, per tutto ciò che arde, per la sete del Deserto e il sale del Mare, odimi, volgiti all'ansia pedestre. Ch'io senta il tuo sguardo e il tuo grido fendermi il petto! Aquila, onde vieni?" "Dal Sole. Battei l'ali su la cervice del suo corsiere più bianco per affrettar la sua corsa all'ultimo Vertice azzurro."
VII. Non templi non are non tombe non statue votive, non greggi di vittime, non teorie solenni lungh'esso il Pecile, né il coro dei bronzei fanciulli sacrato al Dio da Messana né l'opra di Càlami offerta da Agrigento, né il toro degli Eretrii, né la Vittoria di Naupatto ammirammo giungendo ai piedi del Cronio pinifero; ma una bellezza virginea come un canto partènio, diffusa nella placida sera, c'indusse una sùbita pace nel cuore, e il tumulto si tacque. E sol riudimmo vegnente dai gioghi d'Arcadia il messaggio di Pan che conduce ne' tempi il Ritorno eternale. Arcadi monti, alpe d'Acaia, messenie cime, o chiostra della valle sacra, vivere mi sembraste voi contenendo la voce della placida sera, vivere come i seni delle vergini intatte che cantano il canto partènio! Un melodioso respiro parea muovere i grandi lineamenti all'intorno e, come per una bocca dischiusa, il visibile suono volgersi al ciparissio golfo in figura di fiume declive e l'Alfeo violento inebriato d'amore con Aretusa giacersi quivi in sul medesimo letto obliando il corso rapace. Eternità del Canto! Concava tutta la valle come la testudine d'Erme, d'innumerabili corde fatta immensa, cantava ancóra il callinico inno ai Giovini vittoriosi. La lotta dell'invide stirpi placavasi nella bellezza. Nell'armonia numerosa posava la rapida forza. L'orma dei cursori avea la forma del plettro. Il disco lanciato cangiavasi in ala robusta. Il pentatlo e il pancrazio erano i fulcri dell'Ode, come il tripode solido regge lo spirto prenuncio dei fati. "O Ellade" io dissi "il tuo Coro è più delle stelle perenne!" E, poi che al Cronio la notte gemmò di stelle la fronte, solo discesi là dove il Clàdeo breve si mesce all'Alfeo tortuoso, verso le pietre infrante che mute dormivan sul suolo augusto, simili a torme di atleti dalle bianche clamidi nella vigilia dei Giuochi sotto il plenilunio d'ecatombeone giacenti. Quasi un baglior d'occhi insonni parea palpitar nelle moli dissepolte; e d'orrore tremavami l'anima in petto, andando, ché toccar temea col piede incauto la vita eroica meditante al conspetto degli astri lo sforzo per l'alba ventura. Tra le mozze colonne del tempio di Era m'apparve la tavola d'oro e d'avorio opra del sottile Colòte, ove gli Ellanodici ponean le corone d'ulivo selvaggio. Alle nari mi giunse l'odor delle calde ceneri sacrificali che faceano un tumulo ingente. Vestito di lino era il mio silenzio. Giammai nei perigli l'anima mia s'era armata di sì vigile ardire come in quell'ora di sogni tra quelle notturne ruine; ma quasi un marmoreo rigore parea m'occupasse la carne mortale. Guardai le mie mani ignude e di pallido marmo le conobbi al lume del cielo. E l'ambiguità della morte e della vita, fra i templi abbattuti, fra i dubii aliti, fra i sogni creati e distrutti, fra le parvenze intermesse, mi fece immobile innanzi alle accolte ceneri delle ecatombi che insanguinato aveano l'ara di Zeus nelle remore olimpiadi e nudrito il suo inesplebile fuoco. "O Zeus, Tiranno più grande, sei dunque caduto per sempre? Te sire di tutte le voci terribili il grido iterato dalla scitica rupe sconvolse? Lo scaltro ti vinse, che il muscolo e l'adipe ascosi avea nella pelle del toro per sottrarre l'ostia al Potente? Gli Efimeri onorano il càuto Ribelle, obliosi del tuo Ordine puro che solo generò l'Universo! La piaga che sanguina e pute nell'egro fegato, sotto il rostro del vùlture adunco, ai lamentevoli figli del Rimorso e della Paura la piaga la piaga stridente ahi più venerabile sembra che la solitaria tua fronte onde balzò l'unica nata Pallade Atena dagli occhi chiari vergine prode artefice meditabonda patrona dei vertici forti nemica del cieco tumulto lucida regolatrice del combattimento ordinato che reca al sicuro trionfo! L'odor della carne corrotta, del sudore anèlo, della febbre, dell'agonia, della putredine ha vinto l'ambrosia della tua chioma su' tuoi grandi pensieri ondeggiante, o Generatore incorruttibile. E i servi, i liberati servi inclini al sentier consueto del fango, che ne' lor cuori ignavi agognan pur sempre il servaggio, scagliano contro a te la saliva e l'ingiuria. E il lor fiato perverso appesta fin l'aer montano intorno alla scitica rupe onde il tuo Nemico furace nauseato vomisce su loro. E l'Oceano lava la graveolente lordura. O Zeus, padre del Giorno sereno, quanto più bello del vincolato ululante Giapètide parveti il monte silenzioso, di vaste vertebre, fresco di polle invisibili, aulente d'inespugnabili fiori! Numerava il piagato con rauca voce i tuoi molti delitti; e tu sorridevi, nella tua superbia, più puro dell'aerea rugiada però che ciascun tuo desìo si mirasse perfetto nell'atto e ciascuna tua stilla di sangue fosse un'eterna volontà protesa a un supremo Ordine e sol d'armonia si nudrisse la creatrice tua gioia, d'aurora in aurora. Zeus, se più bella ti parve dell'Uom vincolato la rupe alta silente nell'etra, più bella dell'Uom crocifisso è la croce, segno del Fuoco primiero ch'espressero gli Arii dal ramo duplice attrito. Deposto il cadavere molle fu di sul segno infamato; ma i cinerei servi moltiplicarono il tristo simulacro in tutte le vie della Terra ove i carri falcìferi della Potenza profondato aveano le rote sonore e le falci corusche nel carname dei vinti. O Zeus, o Zeus, t'invoco. Risvégliati, afferra il domani! La fiamma urania ti sia vomere a solcare la Notte. Travaglia travaglia la Notte, o Re folgorante! Sovverti la tenebra! Fendi il pallore! Tu solo mondare la Terra dal cumulato escremento puoi, come la noce dal mallo se per la tua grandezza è come la stilla di latte espressa dal fico immaturo Galassia che immensa biancheggia. O Zeus, Tiranno più grande, tu carico di delitti e d'oltraggi, ingombro di prede, tu solo sei l'alta Innocenza. Risolleva l'Olimpo e poi risorridi alla Terra. E, come a sua donna l'amato offre una cintura più bella, rinnova per lei l'orizzonte cui volgere io possa la prora scolpita cantando il mio canto!" Così pregai nel mio cuore notturno, fra i dischi delle colonne atterrate che un dì avean chiuso il portento fidiaco. "FIDIA FIGLIUOLO DI CARMIDE ATENIESE MI FECE." E, come il tremante artefice innanzi al compiuto simulacro, attesi nel tuono il consentimento divino. Ma silenzioso fu il cenno del dio che vivea nel mio petto e nella olimpica notte. E della notte remota sovvennemi, del giovinetto deliro che s'ebbe i due doni da Libero e da Citerea, il tumido grappolo e il seno femineo, quando laggiù su l'incude celeste sfavillava il cuor del titano. E dissi: "O Zeus, tu anche tu anche mandami un segno su le vie della Terra. Per togliere tutti i miei beni, per cogliere tutti i miei pomi, improbe fatiche sopporto, mostri multiformi combatto che mi precludono i varchi, ma più terribili quelli, ahi, ch'entro me di repente insorgono dalle profonde oscurità dove torpe il fango delle geniture!". E, movendo i passi per l'Alti, scorgere parvemi l'ombra dell'indovino di Zeus, il responso udire improvviso "Combattere e vincere i mostri non ti varrà su la Terra se trasfigurarli non sai, Aedo, in fanciulli divini". E i campani d'un gregge sonavan tra i marmi abbattuti. Subitamente si tacque in me l'audace tumulto, come se la preghiera accolta mi fosse e compiuto il desiderio e mutato già l'orizzonte in cintura più bella e mondata la Terra e disvelata la faccia di Pan che conduce nei tempi il Ritorno eternale. E un fanciullo pastore m'apparve, il pastore del gregge: simile a riflesso di stella in tremule acque m'apparve il puerile sorriso. Al lume dei cieli biancheggiar vidi i suoi denti puri nel saluto venusto: sentii la rugiada cadere. Volto avea Boote l'obliquo timon del plaustro fra i Trioni. Sì lucida era la notte che gli arbori su le colline leggere di là dall'Alfeo segnavano l'ombre visibili. Tanto era dolce il lineamento dei gioghi che parea, come il fiume, continuamente fluire. Giaceva sul dorico tempio il gregge lanoso; gli umili velli ed i marmi augusti in tepore spirante parean convivere. Tutto era plenitudine e pace: non morte, non ruina: armonia di forme perfette, concordia del Coro infinito. Necessità, come l'urto del piè nella danza tu eri! Su l'erba colcato il pastore poggiava il florido capo al tronco d'un platano. E quivi io vigile stetti al suo fianco in silenzio. Ed èramo volti ai monti d'Arcadia, all'indizio del di nascituro. E il fanciullo mordeva mentastro odoroso, scendendogli il fiore del sonno su' cigli virginei. Caddegli il ramicello selvaggio dalla bocca aulente che al fiato eguale si schiuse. La valle parve tutta allora una cuna divina per quella innocenza. Vidi su i vertici l'Alba avvolgere al piè della Notte il lembo del suo primo velo. D'amore tremai come s'ella ver me si piegasse e dicesse: "O tu che m'attendi, io ti cerco!".
VII. Non templi non are non tombe non statue votive, non greggi di vittime, non teorie solenni lungh'esso il Pecile, né il coro dei bronzei fanciulli sacrato al Dio da Messana né l'opra di Càlami offerta da Agrigento, né il toro degli Eretrii, né la Vittoria di Naupatto ammirammo giungendo ai piedi del Cronio pinifero; ma una bellezza virginea come un canto partènio, diffusa nella placida sera, c'indusse una sùbita pace nel cuore, e il tumulto si tacque. E sol riudimmo vegnente dai gioghi d'Arcadia il messaggio di Pan che conduce ne' tempi il Ritorno eternale. Arcadi monti, alpe d'Acaia, messenie cime, o chiostra della valle sacra, vivere mi sembraste voi contenendo la voce della placida sera, vivere come i seni delle vergini intatte che cantano il canto partènio! Un melodioso respiro parea muovere i grandi lineamenti all'intorno e, come per una bocca dischiusa, il visibile suono volgersi al ciparissio golfo in figura di fiume declive e l'Alfeo violento inebriato d'amore con Aretusa giacersi quivi in sul medesimo letto obliando il corso rapace. Eternità del Canto! Concava tutta la valle come la testudine d'Erme, d'innumerabili corde fatta immensa, cantava ancóra il callinico inno ai Giovini vittoriosi. La lotta dell'invide stirpi placavasi nella bellezza. Nell'armonia numerosa posava la rapida forza. L'orma dei cursori avea la forma del plettro. Il disco lanciato cangiavasi in ala robusta. Il pentatlo e il pancrazio erano i fulcri dell'Ode, come il tripode solido regge lo spirto prenuncio dei fati. "O Ellade" io dissi "il tuo Coro è più delle stelle perenne!" E, poi che al Cronio la notte gemmò di stelle la fronte, solo discesi là dove il Clàdeo breve si mesce all'Alfeo tortuoso, verso le pietre infrante che mute dormivan sul suolo augusto, simili a torme di atleti dalle bianche clamidi nella vigilia dei Giuochi sotto il plenilunio d'ecatombeone giacenti. Quasi un baglior d'occhi insonni parea palpitar nelle moli dissepolte; e d'orrore tremavami l'anima in petto, andando, ché toccar temea col piede incauto la vita eroica meditante al conspetto degli astri lo sforzo per l'alba ventura. Tra le mozze colonne del tempio di Era m'apparve la tavola d'oro e d'avorio opra del sottile Colòte, ove gli Ellanodici ponean le corone d'ulivo selvaggio. Alle nari mi giunse l'odor delle calde ceneri sacrificali che faceano un tumulo ingente. Vestito di lino era il mio silenzio. Giammai nei perigli l'anima mia s'era armata di sì vigile ardire come in quell'ora di sogni tra quelle notturne ruine; ma quasi un marmoreo rigore parea m'occupasse la carne mortale. Guardai le mie mani ignude e di pallido marmo le conobbi al lume del cielo. E l'ambiguità della morte e della vita, fra i templi abbattuti, fra i dubii aliti, fra i sogni creati e distrutti, fra le parvenze intermesse, mi fece immobile innanzi alle accolte ceneri delle ecatombi che insanguinato aveano l'ara di Zeus nelle remore olimpiadi e nudrito il suo inesplebile fuoco. "O Zeus, Tiranno più grande, sei dunque caduto per sempre? Te sire di tutte le voci terribili il grido iterato dalla scitica rupe sconvolse? Lo scaltro ti vinse, che il muscolo e l'adipe ascosi avea nella pelle del toro per sottrarre l'ostia al Potente? Gli Efimeri onorano il càuto Ribelle, obliosi del tuo Ordine puro che solo generò l'Universo! La piaga che sanguina e pute nell'egro fegato, sotto il rostro del vùlture adunco, ai lamentevoli figli del Rimorso e della Paura la piaga la piaga stridente ahi più venerabile sembra che la solitaria tua fronte onde balzò l'unica nata Pallade Atena dagli occhi chiari vergine prode artefice meditabonda patrona dei vertici forti nemica del cieco tumulto lucida regolatrice del combattimento ordinato che reca al sicuro trionfo! L'odor della carne corrotta, del sudore anèlo, della febbre, dell'agonia, della putredine ha vinto l'ambrosia della tua chioma su' tuoi grandi pensieri ondeggiante, o Generatore incorruttibile. E i servi, i liberati servi inclini al sentier consueto del fango, che ne' lor cuori ignavi agognan pur sempre il servaggio, scagliano contro a te la saliva e l'ingiuria. E il lor fiato perverso appesta fin l'aer montano intorno alla scitica rupe onde il tuo Nemico furace nauseato vomisce su loro. E l'Oceano lava la graveolente lordura. O Zeus, padre del Giorno sereno, quanto più bello del vincolato ululante Giapètide parveti il monte silenzioso, di vaste vertebre, fresco di polle invisibili, aulente d'inespugnabili fiori! Numerava il piagato con rauca voce i tuoi molti delitti; e tu sorridevi, nella tua superbia, più puro dell'aerea rugiada però che ciascun tuo desìo si mirasse perfetto nell'atto e ciascuna tua stilla di sangue fosse un'eterna volontà protesa a un supremo Ordine e sol d'armonia si nudrisse la creatrice tua gioia, d'aurora in aurora. Zeus, se più bella ti parve dell'Uom vincolato la rupe alta silente nell'etra, più bella dell'Uom crocifisso è la croce, segno del Fuoco primiero ch'espressero gli Arii dal ramo duplice attrito. Deposto il cadavere molle fu di sul segno infamato; ma i cinerei servi moltiplicarono il tristo simulacro in tutte le vie della Terra ove i carri falcìferi della Potenza profondato aveano le rote sonore e le falci corusche nel carname dei vinti. O Zeus, o Zeus, t'invoco. Risvégliati, afferra il domani! La fiamma urania ti sia vomere a solcare la Notte. Travaglia travaglia la Notte, o Re folgorante! Sovverti la tenebra! Fendi il pallore! Tu solo mondare la Terra dal cumulato escremento puoi, come la noce dal mallo se per la tua grandezza è come la stilla di latte espressa dal fico immaturo Galassia che immensa biancheggia. O Zeus, Tiranno più grande, tu carico di delitti e d'oltraggi, ingombro di prede, tu solo sei l'alta Innocenza. Risolleva l'Olimpo e poi risorridi alla Terra. E, come a sua donna l'amato offre una cintura più bella, rinnova per lei l'orizzonte cui volgere io possa la prora scolpita cantando il mio canto!" Così pregai nel mio cuore notturno, fra i dischi delle colonne atterrate che un dì avean chiuso il portento fidiaco. "FIDIA FIGLIUOLO DI CARMIDE ATENIESE MI FECE." E, come il tremante artefice innanzi al compiuto simulacro, attesi nel tuono il consentimento divino. Ma silenzioso fu il cenno del dio che vivea nel mio petto e nella olimpica notte. E della notte remota sovvennemi, del giovinetto deliro che s'ebbe i due doni da Libero e da Citerea, il tumido grappolo e il seno femineo, quando laggiù su l'incude celeste sfavillava il cuor del titano. E dissi: "O Zeus, tu anche tu anche mandami un segno su le vie della Terra. Per togliere tutti i miei beni, per cogliere tutti i miei pomi, improbe fatiche sopporto, mostri multiformi combatto che mi precludono i varchi, ma più terribili quelli, ahi, ch'entro me di repente insorgono dalle profonde oscurità dove torpe il fango delle geniture!". E, movendo i passi per l'Alti, scorgere parvemi l'ombra dell'indovino di Zeus, il responso udire improvviso "Combattere e vincere i mostri non ti varrà su la Terra se trasfigurarli non sai, Aedo, in fanciulli divini". E i campani d'un gregge sonavan tra i marmi abbattuti. Subitamente si tacque in me l'audace tumulto, come se la preghiera accolta mi fosse e compiuto il desiderio e mutato già l'orizzonte in cintura più bella e mondata la Terra e disvelata la faccia di Pan che conduce nei tempi il Ritorno eternale. E un fanciullo pastore m'apparve, il pastore del gregge: simile a riflesso di stella in tremule acque m'apparve il puerile sorriso. Al lume dei cieli biancheggiar vidi i suoi denti puri nel saluto venusto: sentii la rugiada cadere. Volto avea Boote l'obliquo timon del plaustro fra i Trioni. Sì lucida era la notte che gli arbori su le colline leggere di là dall'Alfeo segnavano l'ombre visibili. Tanto era dolce il lineamento dei gioghi che parea, come il fiume, continuamente fluire. Giaceva sul dorico tempio il gregge lanoso; gli umili velli ed i marmi augusti in tepore spirante parean convivere. Tutto era plenitudine e pace: non morte, non ruina: armonia di forme perfette, concordia del Coro infinito. Necessità, come l'urto del piè nella danza tu eri! Su l'erba colcato il pastore poggiava il florido capo al tronco d'un platano. E quivi io vigile stetti al suo fianco in silenzio. Ed èramo volti ai monti d'Arcadia, all'indizio del di nascituro. E il fanciullo mordeva mentastro odoroso, scendendogli il fiore del sonno su' cigli virginei. Caddegli il ramicello selvaggio dalla bocca aulente che al fiato eguale si schiuse. La valle parve tutta allora una cuna divina per quella innocenza. Vidi su i vertici l'Alba avvolgere al piè della Notte il lembo del suo primo velo. D'amore tremai come s'ella ver me si piegasse e dicesse: "O tu che m'attendi, io ti cerco!".
IX. E l'Erme prassitelèo sul fulcro quadrato mi parve men virile, quasi fior molle di grazia feminea, quasi desiderabile amàsio, andrògina forma venusta, poi che saziato mi fui di grandezza e di lutto. Il torace il ventre ed il pube non marmo erano ma carne cedevole. Il nitido capo dai riccioli corti, recline verso Diòniso infante, nella levità del sorriso e dell'ombre era ambiguo tra il sogno e la vita, siccome quel del pastor duplice alato che guida le anime all'Orco e il rapito armento al suo antro. Dai ginocchi agli òmeri in ritmi leggeri saliva la forza. Ma, poi che da banda mi trassi e riguardai, la forza si palesò nella guisa che l'arco allentato si tende. I lombi gagliardi, le cosce nervose, le reni falcate e salde, la cervice robusta eran degni del dio enagònio. Gravando sul piè manco il peso del corpo divino, ei reggeva col braccio inflesso il pargolo ignudo. Ei giovine assunto alla forma perfetta portava il nascente germe inteso a spandersi in gioia, a sorgere nella pienezza dell'essere e della potenza. Così per visibili segni raffigurata mi parve nel Divenire Eterno l'immortalità della Vita. "O figlio di Maia" pregai "figlio dell'Atlantide Maia dall'affocata faccia, che onoro notturna fra gli astri Pleiade dai sandali belli dal crin di giacinto, che invoco fra le sue sorelle celesti, odimi, o Criseotarso, Amico degli uomini. Scendi dal fulcro quadrato, àrmati del pètaso il capo, allaccia gli aurei talari ai mallèoli, teco togli la verga di tre rampolli, la lunga clamide, l'arpe lunata, la borsa capace, e vieni tra gli uomini. Sei pur sempre il lor nume operoso, il dio dal gran cuore, l'artiere infallibile. Vieni! Udrai e vedrai maraviglie. O Agorèo, cui piacque trattar con vólto benigno i mercatori in piazza solleciti intorno alle biade dell'Attica magra, la Terra è oggi un'àgora immensa ove non si tendono reti di belle parole ma guerra si guerreggia furente per la ricchezza e l'impero. Duci di genti son fatti i tuoi mercatori ingegnosi, duci inesorabili e insonni dal breve motto che scrolla cumuli enormi di forza. Sul flutto dell'oro ondeggian le sorti dei regni. Come l'aere l'acqua ed il fuoco, fatto è l'oro un periglioso elemento che ha i suoi nembi, i suoi vortici, le sue vampe. O Infaticabile, e sonvi terre novelle, agitate dall'alito aspro dell'antico Ocèano, dove l'umana opera è qual rabida febbre. Il vento è qual bronzo che squilli, il vento è qual riso che rida qual gioia che canti su la magnificenza e l'onta degli atti. Il verbo è una lama aguzzata a duplice taglio. La gara, che tu proteggevi nelle fulve palestre, divora le vie strepitose. Gli uomini dalla mascella belluina e dal mento di selce màsticano l'ansia qual foglia amara d'alloro. La Volontà reca intrecciati a sé il Dominio e il Piacere come i serpi al tuo caducèo. L'Istinto è un impeto sagliente, un ariete caloroso dalle inesauste reni, che si precipita sopra la vita e l'assale e la copre e sì la feconda reluttante o sommessa. Passan talora su le rosse città nuvole di speranze, quasi tempesta di ali; e s'empion d'un rombo gli orecchi degli uomini maraviglioso, ch'è il rombo degli inni futuri. Le mammelle irrìgue della Terra moltiplicarsi paiono alla cresciuta avidità della prole. Il Destino toglie da tutti gli spazii i suoi limiti, vinto e respinto per sempre dalla libertà degli eroi. O Macchinatore, e una stirpe di ferro, una sorta di schiavi foggiata nella sostanza lucente de' clìpei dell'aste degli schinieri, una serva moltitudine di Giganti impigri obbedisce ai fanciulli e alle femmine, meglio che su triere veloce al celeùste la ciurma unta di olio d'oliva. E non il flauto né il canto regola il moto con ritmo eguale; ma una potenza che non falla, simile al sano cuore nel petto dell'uomo, pulsa in quelle ossature polite e circola in ogni membro con giro iterato accelerando il lavoro. Gran fremito scuote le case. M'odi. Il gesto del paziente ilota, che trita la spelta o il latte agita nel secchio o scardassa le lane, s'immilla ne' ferrei bracci nelle ruote dentate ne' lunghi cuoi serpentini che per girevoli dischi trascorrono propagando l'impulso ai congegni sottili onde l'informe sostanza esce trasfigurata come da industria sagace d'innumerevoli dita. O Erme, i telai della lidia Aracne diurni e notturni, ove come rondini argute volavan le spole, travagliano senza canzone di vergine e senza lucerna, soli in ordin lungo strependo. Il sudore d'Efèsto su la piastra imposta all'incude profuso, è ormai vano o Erme, ché nelle fucine, come la man puerile incide la tenera canna o divide le fibre del cortice lieve, l'ordigno facile taglia distende assottiglia fóra contorce per mille guise il metallo ammassato in solidi pani. Odimi, o Inventore. E i magli, i magli più vasti delle rupi che il lacertoso Ciclope scagliò contra Ulisse tuo caro, invisibile pugno solleva e precipita in ritmo agevolmente come il fanciullo manda e ribatte volubile palla per gioco. Gioco di fanciullo era a poppa del nautico pino il chenisco, l'anitrella scolpita nella curva trave spalmata perché galleggiasse in eterno. O Erme, nave catafratta or galleggia e naviga senza vele né remi. Discende pel pendìo dello scalo nel mare compagine eccelsa come cittadella munita, corbame e fasciame di ferro testudinato di piastra a martello più salda che orbe di settemplice scudo. Gran torri soperchiano il vallo. La carena ha un cuore di fuoco onde creasi la propulsante virtù dell'ali marine che tùrbinan sotto la poppa tra ruota e timone sommerse. Atto alla guerra e alla pace, minaccioso d'armi tonanti o dei doni onusto che all'uomo fa la veneranda Demetra, il colosso equoreo solca pèlaghi ed ocèani, varca gli eurìpi i bòsfori i sacri istmi che l'uom frale recise come tu dio con l'arpe il collo d'Argo tutt'occhi. Oltre le Caspie Porte, oltre l'Atlante ove il coro delle Esperidi per sempre si tace, oltre la piaggia del Cinnamomo trapassa. Lascia l'iperbòreo lito ove non più danza e canta Apolline dall'equinozio di primavera insino al levar delle Pleiadi re dei conviti soavi. Di Taprobane a Ierne di Cerne all'Ocèano Eoo la sua scìa grande orla i lembi di quel mondo che t'appariva nel volo, o Alipede, quale macedone clamide stesa. Ma di là dalla piaggia d'Eea, di là dall'estremo Occidente, ove Elio sommerge i cavalli, trapassa ad attingere un altro mondo che sotto altre stelle si giace in duplice forma, simile a un'ala d'uccello e simile a un'orsa poggiata le zampe nell'artico gelo. E il certo piloto disegna nell'acque un cammino ben cognito a tutte le prore, sì che traccia su traccia persistevi qual nelle vie frequenti il solco dei carri. O Egemonio, m'odi. Nel mare è il certame dei regni. Il mare implacabile prende e scevera, senza fallire, le virtù delle stirpi nel tempo. Più della terra antico, nudrito di morti ma di nascimenti fecondo, più della terra è bello, più della terra è sicuro. I morti non rende, ma rende l'amore a chi l'ama tenace. La Speranza che stette al fianco dell'uomo animoso curva su la rate pelasga, la selvaggia compagna cui contra l'occhio aguzzato la palpebra rossa arrovesciavano i vènti, or fatta è donna imperiale Thalassia nomata su i vènti. Nel trono ella sta d'Amfitrite. Catenata sembra la Gloria tra le sue tempie. Il suo seno è una primavera anelante. Il suo palpito si ripercuote dai golfi e dai bòsfori azzurri del Mediterraneo Mare sino ai promontorii nimbosi della barbarica Ierne. Bùccine di mille Tritoni non vincono il chiaro clangore della sua tromba di bronzo. L'odono i popoli forti: cantando l'inno dei Padri, spingon rivali nel flutto ruggente le navi di ferro; ché necessario è navigare, vivere non è necessario. Polèna a ogni prora novella è il cuore vermiglio dell'uomo inalzato sopra la Morte. Odimi, o Enagonio. Il Taigeto ha i segugi più ardenti; ha Sciro le capre dalle mamme irrigue di latte più pingue; Argo, le armi; Tebe, i carri; ma la Sicilia ferace dà le quadrighe magnifiche, i bene bardati corsieri dal piè di tempesta. Ne' tuoi stadii l'asse tutt'oro guizza come folgore in nube. La Rapidità dalle nari di fiamma par su le tue mete lasciar vestigia d'incendio. Ierone di Siracusa, Senòcrate di Agrigento, Cromio d'Etna, fior di Sicilia, contendon la palma agli Elleni. Pindaro diademato offre agli eroi trionfali la grande coppa dell'inno. Non l'ebrietà della strofe né fronda di quercia d'olivo di pino s'attendono, o Erme, i conduttori dei carri igniti cui circo e vittoria è l'Orbe terrestre! Nel pugno non reggon le redini anguste, non figgono alle cervici dei cavalli lo sguardo. Governano ordigni più snelli che il tèndine equino ma possenti più ch'epitagma scagliato nella battaglia. Scrutano lo spazio ventoso, i piani i fiumi i monti che valicheranno. Obbedisce il pulsante metallo al tocco infallibile. Foschi son gli intenti vólti, notturni come il vólto di Ade re d'Ombre che trae Persefóne piangente. Traggono il pianto e l'affanno degli uomini i lor negri carri, il male degli uomini stretti e misti nell'alito impuro, il dolore e tutti i suoi frutti sopportano, o Erme, il piacere e i suoi fiori senza radici, e l'avida gioia e il desiderio feroce e gli inestricabili nodi delle anime chiuse nei corpi ignavi, e gli intorpiditi crimini dall'unghie rattratte, e le volontà rilucenti nei sogni come in guaine diàfane, e l'opere nate da ieri, e i messaggi dei cuori fraterni, e la copia dei beni giocondi trasportano, o Erme: le rose dei liti solari al gelo dell'Isole Scàndie. Tonando passano, in lungo ordin su cento e cento ruote concordi, con nubi e faville per traccia, passano a vespro nei piani onde fuma sommossa dal diurno travaglio la fecondità delle glebe. Sùbita s'aderge in orgoglio la stanchezza dell'uomo e guata la porpora immensa del cielo, ove come in sanguigna promessa di vita più bella par che s'addentri col peso la creatura dell'uomo. Cade la notte. O perla, o lacrima d'Espero ardente! S'accendono i fari. Nei porti le ciurme si scagliano all'orgia. Le città splendono di febbri come un astro è cinto di aloni. Col rombo il tràino amplia la notte. Odimi, precipite Nunzio, alto Messaggero celeste. L'aere notturno e diurno palpita di umani messaggi. Commessa al silenzio dell'Etra la parola attinge i confini remoti. Serpeggia silente pei bàratri equorei, sotto i nettunii pascoli; emerge lungi perfetta nei segni, narra gli eventi, conduce le imprese, congiunge le stirpi, infèrvora i forti alla gara. La voce, la voce sonora, formata dal labbro spirante, in cavo artificio s'ingolfa, di sillaba in sillaba vibra tacitamente lontana, ravvivasi come in profonda bùccina e favellare l'ascolta l'orecchio inclinato. O Viale, come le vene per entro ai marmi di Sparta e del Tènaro folte son le vie frequenti e insuete ond'è variegata la Terra. Ma la mobile fiamma, che tu eccitavi nel petto del viatore, divampa e grandeggia in cuor dell'eroe novello che vede la Gloria accosciata come la Sfinge nell'immensità dei deserti o presso le occulte sorgenti dei fiumi o su i mari di gelo. Non di parole tebano enigma propone la belva ma chiede, o Erme, la chiave sacra che vedesti nel pugno dell'antichissima Gea! D'ossa lùcono i milliari degli spaventosi cammini. O Citaredo primo, tu il bene che supera tutti désti all'uomo quando la cava testudine nata nei monti facesti sonora, le canne trasverse inserendo nei fóri tra l'un margine e l'altro, poi sul graticcio spandendo la pelle di bue, configgendo a sommo del guscio i due bracci, questi poi giugnendo col giogo. Tra l'osseo giogo e l'estremo labbro della scaglia montana, come il nervo tra i corni dell'arco, tendesti minuge di agnelli bene attorte. Sette ne tendesti, o figliuolo di Maia, per onorare le Pleiadi belle nell'Etra. E la tua cheli selvaggia fu compagna al canto dell'uomo. Or l'uomo, emulando gli audaci tuoi spiriti, seppe di legni di nervi di crini di pelli d'avorii di metalli una multiforme crearsi e multànime gente canora che popola e gonfia la profonda orchestra occultata, ove non più la thyméle santa òccupa il centro del cerchio né più presso l'ara l'aulete dalla phorbéia di cuoio col duplice flauto accompagna le strofe e la danza corale. E non il cristallo del cielo né il sinuoso velario acceso dai raggi s'allarga su la moltitudine intenta; ma simile ad alto sepolcro è il notturno teatro concluso e in sé stesso rimbomba. Come nei mari le prime onde squammose all'urto dell'euro inarcan le schiene, s'ergono e spumano, il rugghio e il tuono avvicendano a corsa, di procella tumide in vasti cumuli precipitando con un rapimento improvviso; come nei boschi le prime faville accendono i coni aridi, le morte frondi, crescono in pallide fiamme, serpeggian pe' vepri, gli arbusti mordono, il cuor selvaggio attingono carco d'aromi, conflagrano subitamente fragorose verso la nube, irraggian per tutta la valle il fulgore e il terrore; così dall'orchestra prorompe l'impeto sinfoniale. O Maestro dei Sogni, m'odi. E i Sogni inani, i tuoi lievi simulacri della quiete, le tue mute imagini erranti, giganteggiano a un tratto con vólti di bragia, s'armano d'una ossatura erculea, grande hanno il fiato e polsi hanno violenti per stringere l'anima umana e scuoterla dalle radici e svèllerla e darla al ludibrio dei desiderii! E l'Amore, o Erme, il giovinetto cnidio triste come un rogo consunto ascolta per entro a' capegli che sono un unguento stillante; languisce in un freddo sudore; poi vuota la tazza che gli offre la Morte, ove tutti i piaceri spremuti fanno un sol tòsco. Padre d'Ermafrodito, non tu creasti l'oscuro Andrògino al far della notte, ebro di melodìa in un torrente di suoni premendo l'amata da tutti Anadiomene d'oro? Noi anche, ahi sì brevi, sul lito d'Eternità sognammo le mescolanze vietate, sdegnando di saziarci pur sempre con la dolcezza dei consueti giacigli. L'opera attendemmo diversa, nata da un'incognita febbre, fatta di dolore e di gioia, pallida di ricordanze ma di presagi animosa, recante in sé la promessa e il compimento, sorella delle Stagioni divine. O Psicagogo, se all'Ade squallido condurre dovessi tu l'anima mia, se condurre dovessi tu l'Ombra del mio canto su l'asfòdelo prato incontro a Saffo sublime dal crin di viola che forse m'attende, alla riva del Lete t'indugeresti, io penso, vedendo in me trasparire queste tante ignote ricchezze. E direbbemi alate parole la tua maraviglia: "Ombra, per la luce soave onde vieni, sosta, ch'io miri da presso la tua opulenza. Come arbore sei, che curvato abbia lungamente i suoi rami nel lidio Pattòlo e gravato ne sorga e si mesca il metallo regale alla polpa dei frutti. Tanto adunque sopra la Terra deserta d'iddii può la vita anco esser ricca, Ombra d'aedo? Parte alcuna in te riconosco di ciò che fu nostro, se indago; ed è la tua parte di gioia, la tua purità sorridente. Ma innumerevoli sono le cose novelle che ignoro, e le geniture dei mostri che pur non sembran pesare alla levità del tuo passo. Ombra, non sarà che tu getti questa abondanza all'oblìo. Non varcherai la riviera. Qui farai sosta con meco. Proteggerti vuole il Parente della Cetra; ché forse talor ti sovvenne del dio Intercessore ed alcuna dottrina apprendesti da lui. Di congiugnimenti maestro fui, di concordie divine compositore sagace, perito d'innesti immortali, per moltiplicar la mia forza, aedo, e la mia conoscenza. Penetrabile fui e fecondo. Come nella mia dolce Arcadia, dopo il verno, ai tepidi giorni quando muovon le gemme, il colono fende la scorza dell'arbore e v'incastra la marza acciocché in essa si alligni: la pianta inframmessa le vene sparge nell'altra e s'appiglia; vigoreggia il succhio, il sapore del frutto si fa generoso: così, con arte inserendo nella mia sostanza diverse deità, m'accrebbi di varia potenza, molteplice ed uno. La verginità cruda e invitta di Pallade a me collegata mi fece più destro in trar prede, e nella tetràgona pietra io fui pe' mortali Ermatena. Al Cintio lungescagliante ond'ebbi la verga trifoglia, cui diedi la cheli soave, mi strinsi con patto fraterno; e quindi Ermapòlline fui. Infondermi il sangue feroce dell'uccisore di mostri, dell'eroe muscoloso dalla fronte angusta, volli io Argicida; e fui Ermeràcle. E con altri iddii mi confusi; né sdegnai gli iddii bestiali, dalla testa di cane, dal becco di sparviere, dalle mascelle di leone, estrani, onde fui Ermanubi, Ermitra, Ermosiri. Ma da due comunanze m'ebbi più gran copia di forze segrete e di gioie profonde e di visioni sublimi, Ombra d'aedo che ascolti. M'accomunai con l'Amore, col nume che fu nel principio, che sarà nella fine. Con Eros confusi il mio sangue, col bellissimo fiore cui era devota la schiera sacra degli efebi tebani; e fui pe' mortali Ermeròte. M'accomunai col Silenzio io signor del discorso ornato, dell'insidiosa facondia. Ermarpòcrate fui, col dito premuto sul labbro eloquente; ma tenni ai miei piedi il vigile gallo che col grido annunzia l'aurora. Così tutto attrassi e composi in me, tutto abbracciai, di congiugnimenti maestro, perito d'innesti immortali. Or io mi penso, Ombra d'aedo, che ben conoscesti quest'arte tra gli uomini se cumulata hai tanta ricchezza nell'anima tua giovenile. Per ciò ti concedo che sosti sul lito del fiume torpente e d'umane cose favelli col dio. Non bevere l'onda obliosa, ma, se la sete ti arda, io voglio offerirti il pomo granato che aperse Core, di Demetra la figlia pura, con le chiare sue dita. Ne prese tre soli granelli: Aidòneo re sorridea. Bella era la bocca di Core". E io ti direi rispondendo: "O Intercessore benigno, poiché tu concedi ch'io teco favelli alla riva del Lete io tutte le cose dell'uomo ti svelerò, esule dio. Ma soffri che un'Ombra d'aedo interroghi l'alto Parente della Cetra! Ermerote io ti chiamerò, Ermerote, bel sangue commisto d'Amore. Tu conducevi Euridice per mano su i violetti asfodilli, e Orfeo t'era innanzi coronato di cipresso e di mirto il capo suo d'oro. E intorno era sacro silenzio ma ad ogni passo silente gemere s'udia la gran cetra sospesa al fianco d'Orfeo... Non così fu, Ermerote? Sentisti tu tremare la man di colei che traevi dall'Ade su i cari vestigi? E obliato non hai ogni altro tremito di carne mortale tu che i miseri uomini ignudi avvincevi ai supplizii? Intorno era sacro silenzio, ma s'udia nel Tartaro lungi rombare la ruota aspra d'angui cui tu avvincesti Issione. Ed ei si volse, ei si volse, Orfeo si volse! La donna perduta fu, dallo sguardo perduta! Ritrarla dovevi nelle inesorabili fauci. Mirasti i due vólti, e quegli occhi? Euridice! Orfeo! Notte eterna. Ah parlami di quel dolore, di quella bellezza, Ermerote! E poi fa ch'io beva l'oblìo."
X. Tornammo alla nave ancorata. La salutammo nel porto con ilare grido vedendo il candido fianco apparire. Tra le Onerarie ventrose più snella ci parve, leggera come fasèlo o liburna. L'albero la verga le sàrtie la gran randa i piccoli fiocchi il bompresso trincato le commessure del ponte le boccaporte e le cùbie e le caviglie e i bozzelli e tutti gli attrezzi minuti, canape legno metallo, amammo di vigile amore come vena per vena e nervo per nervo le membra viventi di fragile amica. Più che l'odor del mentastro ci piacque l'odor della nave. Or un de' cari compagni recato avea prigioniera in una gabbia intesta di giunco una bella cicala del regno di Pelope Eburno. E cautamente sospeso avea quella nassa terrestre a poppa, e sópravi steso un ramoscello di pino reciso nell'Alti; e si stava in ascolto avendo nel cuore l'anacreontica lode. Ma la regina del Canto, l'ebra di rugiada e di luce, su l'acqua oleosa del porto tacevasi attonita all'ombra dell'ingannevole fronda; ché il suo luogo è la cima dell'arbore o l'asta di Atena. E noi ridevamo il deluso. "Or téntala dunque col dito!" Salpammo l'àncora all'alba. Patre era avvolta di sonno torbido; ma l'alpi d'Etolia sorgevano in veste di croco, quasi Grazie pronte a danzare sul fiore del Ionio, fasciate dalla stephàne d'oro. "Forse, a piè del letto ove giace la meretrice di Pirgo invano aspettando il navarca, Elena figlia del Cigno s'accoscia e ronfia, nascosta le mille sue rughe per entro la grande sua bianca criniera" pensava taluno di noi sciogliendo la randa solare che ben da noi stessi tramata ci parve, col filo dei sogni. E vidi il fanciullo nell'Alti, in mezzo alla strage dei marmi, ignaro di quella vecchiezza. Il mattutino spiro ci volse alla porta del golfo corintio, tra i due promontorii affrontati come molossi che senza latrare protesi già fossero all'impeto ostile ma d'improvviso irretiti in non so qual divina ambage di rosei veli. E un amore dei monti indicibile era nei nostri petti, e riconoscerne i vólti ignudi e chiamarli per nome desiderammo. Ogni lume ogni ombra ogni solco ogni asprezza ci parve il segno d'un dio, l'orma d'un eroe, la fatica d'un uomo, lo sforzo d'un mostro. E dicevamo: "È il Coràce forse? è l'Aracinto? il Timfresto? o il Bomi onde sgorga l'Eveno?". Il vento gonfiava la randa; e tanto la vela era bella d'armoniale virtude che parea la scotta sua forte dovesse, pulsata da un plettro, rendere un suono di lira. E ad ogni istante gli aspetti dei monti eran nuovi, più dolci o più aspri. E se un'argentina conca appariva o un anfratto ceruleo, l'anima nostra vi si profondava per gli occhi bramosa d'attingerne l'imo come il natatore si scaglia dall'alto nell'onda ch'egli ama e sommerso tocca la sabbia o la radice dell'alga. Tuttavia perché, nella gioia e nell'avidità, ci saliva ai precordii un'ansia intermessa piegando al cammino ritroso? O amore, amore mai sazio di conoscere e d'adorare! Taluno de' cari compagni dicea: "Non vedremo la bocca dell'Eveno, e non il suo guado; non il regno di Deianira, non in Calidóne la caccia né la tomba ove corse delle Meleàgridi il pianto". Volgevansi a poppa gli sguardi per la scìa lunga virente. E l'odore dell'ecatombe sentimmo, vedemmo l'Etolia accesa di fùnebri roghi, la forza di Meleagro avvinta al tizzo dal Fato, e Deianira nel fiume torcersi abbrancata da Nesso, Eràcle con la saetta intrisa nel fiele dell'Idra passare il polmone ferino. E dicemmo: "O Ellade, tutto in te vige, splende e s'eterna. Come le barbe degli olivi per le tue piagge e i tuoi colli, come i filoni della pietra ne' tuoi monti, le geniture dei Miti ancor tengono presa l'antica virtù del tuo suolo. La gente che sega le magre tue messi, o abita le case vili a piè delle deserte acropoli, ti disconosce; e t'è più strània di quella che tolse i tuoi numi alle fronti de' tuoi templi in ruina per trarli mùtili e freddi nella sua caligine sorda. Ma i Miti, foggiati di terra d'aria d'acqua di fuoco e di passione furente, sono il tuo popolo vivo. Vivi palpitar li sentimmo sul nostro cuore umano stringendoli; e ancóra in segreto ci dissero qualche inattesa parola e ci diedero un'arme per meglio combattere o un ritmo ci appresero novo per meglio gioire. Verremo di gleba in gleba, di selce in selce noi pellegrini inchinando il cuor nostro umano su la deità che l'assempra? Ahi, l'ora è breve e il vento volubile, ed è necessario compiere altri perìpli finché la carena sia salda; e a consumabile tizzo la nostra sorte anco è avvinta. Ma ad ogni approdo intera tu sarai nel nostro fervore qual sei nel tuo triplice mare!". E, come già il Sole era presso all'ultimo vertice azzurro, scomparsa a ponente Naupatto dei Locri, a ostro Egio achea, ci apparve su l'acque il promontorio Andromàche simile a un leone sopito nel fulvo oro della sua giuba. Il vento languiva. Bonaccia grande era intorno. Udivamo a quando a quando la vela floscia battere e trepidare come un cuor moribondo, il legno per tutte le fibre alide dell'alidore celeste risponder con lungo gemito, guizzare i delfini sotto la poppa, i falchi stridere per entro i forami della rupe aurata. E la voce di prua mise un grido: "Il Parnasso!". E tutti balzammo a guatare la faccia d'Apollo apparita; però che sul tacito specchio il Monte Castalio, sublime e roseo, dominatore d'ogni altra grandezza e pur lene come se l'onda perenne del canto spetrata ne avesse la mole terrestre, assemprava ai nostri occhi attoniti e puri l'apparizione diurna del dio musagète vivente non qual nella vena del pario marmo dagli artefici è sculto a similitudine d'uomo ma qual forse il videro un tempo sul verde limite dei paschi i primi pastori proteggere i tauri e i cavalli misteriosa bellezza levata in sostanza serena. Cadde il vento. Noi tutti èramo senza parola fissi alla gran maraviglia. Sospeso era il Giorno sul nostro capo. Tutte le cose tacevano con un aspetto di eternità. L'occhio solo era vivo e veggente. O tregua apollinea, Meriggio! Qual coro avea chiuso il suo canto remoto negli echi del mare? Qual coro traeva il respiro per dare principio al suo canto? Coro di Sirene o di Parche? di Tiadi o di Muse? Il silenzio era come il silenzio che segue o precede le voci delle volontà sovrumane. Tutta la vita era a noi quasi tempio lieve senz'ombra, ch'entrammo non più morituri. O soffio etèsio, respiro meridiano del grande Mediterraneo contra il violento Cane, sùbito bàttito chioccante della vela, balzi d'un cuore che un flutto di sangue riempia, arco teso un'altra volta verso inarcati seni, alacrità delle forze, fame e sete carnali, sapore del pane e del vino, allegrezza dei corpi, dopo la pausa infinita! Oltrepassammo Andromàche, volgendoci al seno crisèo. Come dietro la negra nave dei Cretesi di Gnosso eletti dal Pitio al suo culto, un delfino agile balzava nel nostro solco veloce. Disse il Pitio lungescagliante ai navigatori cretesi: "Non prèndevi brama del cibo i precordii, come agli stanchi uomini suole avvenire quando negra nave s'ormeggi?". Seduti a poppa in corona noi avemmo ulive addolcite, pesci pescati col giacchio spiranti salsedine, caci molli che serbavano ancóra l'impronta dei vimini, fichi degni d'aver patria in Egina con l'ombelico melato di gomma, bionde uve sugose, vini chiari aulenti di pino rinfrescati in vasi d'argilla appesi alle sàrtie, e la calda màstica che dentro una goccia ha tutte le estati di Chio ricca in dolci donne e in lentischi. All'ombra della gran randa giocondamente mangiammo e bevemmo, in conspetto del gèmino Monte che il muto splendor del meriggio velava. Non era visibile a noi l'altra cima: quella ch'è sacra al Semelèio effrenato, alla deità delirante: Nisa, la cima notturna. Ma l'allegrezza nel sangue fervere sentimmo sì forte che per le nostre membra pieghevoli corse improvvisa inquietudine, quasi desiderio di danza furente e d'insano clamore. E due dei cari compagni sorsero e balzaron sul bordo co' piedi nudi a gara di destrezza in giochi rischiosi. Ed io pensai nel mio cuore gli antichi portenti appariti ai corsali tirreni quando per la còncava nave gorgogliò vino odorato e per la vela si sparse alta racemìfera vite e l'edera l'albero avvolse di corimbi e s'ebbe corona ogni scalmo. "O Cirra, o Nisa, vertici dell'anima umana, sommità del canto sereno, culmine dell'acre delirio, in breve ora noi v'attingemmo! Il chiaro silenzio adorammo ove l'ultima nota tremava del coro febèo. L'impeto selvaggio, che rende immemori l'Evie nell'orgia, or ecco sentiamo in confuso rompere dal torbido sangue." E, la mia frenesia nel petto profondo constretta, io stava pensoso dell'uno e dell'altro mistero; quando udii stridor lieve l'aria fendere. Tesi l'orecchio in ascolto; e vennemi al labbro il sorriso, ché noto il suono m'era. "O Apollo, nel giorno tu vinci!" E la stridula voce oscillò qual canna fenduta nel vento; poi prese più forza, palpitò, si fece canora, da poppa a prua chiaramente s'udì sopra il croscio dell'acque. "La cicala! Udite, compagni, la cicala che canta!" gridai divenuto fanciullo nell'allegrezza. E tutti accorsero i cari compagni intorno alla gabbia di giunco. E, senza strepito, quivi stemmo intenti come dinanzi a famoso aedo; sì nova ci parve sul mare la voce agreste e sì novo l'aspetto della creatura vocale che non ha carne e non sangue e ignora i mali e il dolore, simigliante quasi ai Superni. Negra ma d'una cinerina lanugine ell'era coperta, che lucea qual serica veste; e grand'occhi avea due, protesi, ma tre più piccoli, rossi come le bacche cruente d'autunno, in esiguo corimbo a sommo del capo; e lunghe ali di tenue vetro nervute di foschi rilievi, il torace sparso di màcule, fatto di anella il mirabile addòme. Ognuno guatar la silvana ospite della nave parendo com'àugure incerto, facea più fraterni più giovani e vividi i vólti l'ingenuità del sorriso inclinato. Io l'àugure finsi. "Compiremo il periplo nel segno e nel nome d'Apollo; e guiderà la Cicala sacra, dal golfo crisèo insino alle acque di Delo, gli Apolloniasti d'Italia. Si nutrirà di glauca salsedine, appesa alla prora, in cella di giunco marino." E sul lido ricurvo la Fòcide piena del nume era vaporata d'olivi come di tripodi mille, dinanzi alla nostra allegrezza.
XI. Con un alberetto volante e sue sartiette arridate a mano, il palischermo attrezzammo a vela latina. Ciascun de' compagni a vicenda governò la scotta o il timone. Le baie le conche i recessi del parnassio mare esplorammo, or chini su l'acqua ove l'ombra nostra era un miracolo verde, or sottovento seduti fuori banda sopra gli scalmi coi piedi immersi nel sale, or tratti per la gomenetta dell'àncora dietro la poppa nella scìa che ci levigava la carne con una carezza innumerevole, or al fondo sopra le stuoie supini in un sonno ch'era ogni volta una voluttà sconosciuta. Acqua marina, mollezza di cinti insolubili, sguardo venereo della segreta profondità, riso d'abisso, lasciva sorella dell'aria, madre della nuvola, come ti loderò? Ogni baia ogni conca ogni recesso ci parve più bello. Dicemmo: "Ah chi mai vide ne' giorni una maraviglia più lieta?". E desiderammo ancorare per quivi obliar nostri amori scrutando le mille figure dell'acqua. Ma l'ancoraggio contiguo ebbe più dilettose figure, colori più novi, odori più freschi. Dicemmo: "Ecco il limite. I sensi non gioiranno più oltre". E il limite fu superato. Arene gemmee come tritume di gemme, ceppaie d'alghe, chiari coralli, fuchi di porpora, negre ulve, tra fango e sabbia flessibili intrichi di lunghe erbe ove abbonda la greggia dei pesci, io compresi quel nome che i pescatori tirreni usan per lode alla valle del mare onde traggono prede più ricche: Armonia! Noi non gittammo le reti, non adoprammo le nasse; non prendemmo il grongo di carne soave, né lo scombro tondo di cerula pelle sospendemmo con le sue branchie al vimine, pei delicati sacerdoti di Delfo. Ma di voi gioimmo, Armonie! Chi mi consolerà, mentre vivo sotto cieli pur dolci, chi mi consolerà dei soli spenti, dei giorni caduti? Poggi di Fiesole, chiari sono i vostri ulivi e foschi i vostri cipressi, e i ciriegi i mandorli i meli son bianchi son rosei negli orti di Verde- spina e di Laudòmia murati, oggi che la Primavera improvvisa coglie alle spalle il lanoso Febbraio e con la sua tepida forza rivèrsagli il capo e gli chiude le palpebre con le sue dita che auliscono di rosmarino, per baciarlo in bocca e fuggire. Bellosguardo, io certo dimane verrò ne' rosai che tu porti carichi di rose ancor chiuse. Ben so che i bocciuoli saranno come i capézzoli gonfii della pubescente. Ma forse bianca sarà la tua prima rosa fiorita su pel ferro onde pende nel pozzo la secchia loquace. O collina dell'Incontro, per la finestra ti veggo tutta rosata non come le rose ma come i fiori dell'erica, tanto sono leggere le selve de' tuoi querciuoli vestite ancor della fronda autunnale che un poco rosseggia e per entro vi si scorge il tenero verde! O Poggio Gherardo, le vecchie tue mura gialleggiano come su i nodi delle viti il lichene. E sta Vincigliata morta in un negrore di lance. Odo i colpi iterati dei ronchetti, odo le cesoie dei potatori. Uomini veggo poggiar le scale ai tronchi, salire, attendere all'opra. Tanta è la bontà della terra che forse i sermenti recisi a piè degli arbori mondi non periranno ma forse faranno radici. Pur fende la terra ancor qualche aratro, e splendono i buoi tra gli olivi e tra gli oppi: chiuse han le froge nelle gabbie di giunco perché ghiotti son di germogli e cimare osano i rametti se passan rasente, bramosi fors'anco di quelle vermene che sorgon per nesto in corona dalle piaghe dei tronchi spalmate di màstice roggio. Il bifolco gli incìta; e certo egli è roco, già vecchio. Ma oggi la voce dell'uomo è d'una dolcezza infinita in questo silenzio: ogni suono ha una risonanza infinita quasi che non tanto nell'aere vibri ma e nelle glebe e in tutte le specie dei corpi. Odo talor stridore come di lima sottile che ferro morda. È colei dai piedi azzurrigni? colei che su ciascuna sua tempia ha un candido segno, una nera zona a mezzo il petto pugnace? la cingallegra selvaggia? Nel cavo dell'arbore aduna già le lanugini molli ma par che in aerea fucina l'amor suo duri aspro travaglio. San Miniato, ora il Sole si piega verso la tua faccia graziosa e abbaglia il dolente tuo dio che non l'ama. Si leva dall'Arno un vapore di perla e si diffonde pe' campi ove rilucono i fossi colmi dell'acqua piovana; ma il fumo dei tetti campestri ceruleo par tuttavia. L'Incontro s'indora e invermiglia: cangia le sue querci in coralli; ma la Vallombrosa remota è tutta di violette divina, apparita in un valco che tra due colli s'insena ah sì dolce alla vista che tepido pare e segreto come l'inguine della Donna terrestra qui forse dormente, onde quest'anelito esala. E odo, se ascolto, venire di Rovezzano il rombo delle mulina che il vecchio fromento convertono in fresca farina, ma pe' solchi tremano i fili del novo fromento e con lor treman l'ombre, e non si distingue il fil verde dall'ombra sua cerula, e tutto è un tremolio verdazzurro che parmi aver quasi ai precordii. E certo la noce bronzina che nel cipressetto riluce m'è cara, e l'orma essiccata nella redola verde che ieri fu molle di pioggia, e la pendula chiave che più non mi chiude il verziere dal dì che nel suo rugginoso cannello mellificò l'ape come in celletta di bugno. Molto al mio cuore son care le cose che odo, che veggo; e forse tutti i roseti tralascerò per quel solo anèmone aperto sul ciglio del campo! E le campane della preghiera servile, il suono che vien di Rimaggio di Candeli di Monteloro, anche amerò per una nova imagine, o Primavera, che or mi nasce guardando te sopra le file degli oppi. Simili a concave mani di nodose dita son gli oppi, che reggono tenui sfere cristalline; e tu vi trascorri sopra e le tocchi traendo da ciascuna fila un accordo sì dolce che dal ciel sgorgar fa Espero, la lacrima prima. O Primavera, o Poesia, in questa dolcezza m'indugio per consolarmi e sorrido. E certo laggiù, nella casa che biancheggia a mezzo del colle, gli infermi sorridono anch'elli beati con povere vene al davanzale che il Sole riscalda, e dietro hanno i letti ove si giacquero in doglia e l'odor dei farmachi amari. Ma la ricordanza immortale d'una bellezza più maschia, d'una voluttà più possente, mi brucia, mi crucia. E il rinato pane che trema ne' retti solchi non mi vale quel lembo di suol rossastro fra crudi sassi, ove struggemmo col fuoco la stoppia e gli aròmati forti per profumar nostra sera. Biancheggiano gli escrementi dei falchi su pe' macigni di quella caverna montana ricovero ai greggi e agli uccelli rapaci, dove sitibondi scoprimmo la vena dell'acqua? Sì chiara che n'ebbi certezza sol quando v'immersi le mani, si fredda che quando la bevvi mi dolse la nuca pel gelo. O Fedriadi ardenti come due scaglie cadute da Sirio, la vostra sublime aridità nel meriggio m'accecò gli occhi del vólto ma tutti i miei spirti agitati, come sul vaporante spiracolo i capri dell'ansio Coreta, balzarono in fiero tumulto e qual sangue d'aurore videro il vermiglio avvenire. Fumano ancor sul Cirfi i roghi? La sfinge di Nasso decapitata ma alata protende le branche sul sacro cammino? Le tre danzatrici dalle mammelle corrose danzano ancóra intorno alla colonna fogliuta di acanti? Filano ancóra sotto i due platani vasti le donne focesi, dinanzi al Fonte Castalio, vestite d'azzurro? Non la pietra umbilicale dell'Orbe ma invano cercai nella polve la tomba del figlio d'Achille! E non volli altro letto per la mia delfica notte se non la terra presàga tra i due platani vasti chiomati di fronde e di stelle. Vedute io le avea, nella sera purpurea, silenziose emergere dalla durezza dell'antro. Miste alla roccia, come le imagini sculte nelle metòpi dei templi, si tacevano in cerchio le Castàlidi; e gli occhi lor grandi eran fisi, il Passato il Presente il Futuro con un solo sguardo abbracciando. Prigioni del sasso per sempre eran elle? I piedi leggeri che tessuto aveano in figure di danza la fresca bellezza del mondo, i bei piedi leggeri di Terpsicòre constretti eran nell'inerzia rupestre? Dal nudo macigno agguagliate mi sparvero. Ma le rividi libere nel sogno ch'io m'ebbi. Venivan per le vie de' vènti com'aquile senza nido nell'alba a volo, nell'alba crepitante di mille e mille fiaccole accese che i Distruttori e i Creatori squassavano in pugno gridando di gioia coi lordi capelli coperti di bianca rugiada, con le calcagna gravi d'umida zolla e di foglie. Come stuol d'aquile senza nido, venivan le nove Castàlidi a volo nell'alba, lacere i pepli, sconvolte le chiome, odorate di sangue e d'incendio, ebre di risa e di pianti, tumultuose di forze atroci e d'amori ineffabili, piene i polsi di ritmi discordi. Venivano dai porti inferni ove tutte le lingue umane suonan fra tutti i gemiti e i rùgghii del ferro domato; venivano dalle città di lucro ove la vita cupida senza schiuma e senza sudore s'affretta su le rotaie corusche, stride su la gèmina lama che non ha guaina né punta. Visitato aveano le folte moltitudini, udito aveano i canti feroci della fame e della vendetta, bevuto aveano gli inni di libertà, gli epinicii dell'Uomo non coronato che con salde rèdini intorno all'Orbe conduce in trionfo la quadriga degli Elementi. E nella rossa fornace ove struggevasi un fiume di bronzo pel simulacro d'un eroe senza clava liberatore del Mondo, nella fornace di gloria gittato avea Calliòpe le tavolette cerate e lo stilo, Melpomène la maschera dalla gran bocca, Urania la sfera celeste, Euterpe i due flauti eburni, Terpsicòre il chiaro eptacordo, Tàlia l'ellera, Èrato il mirto, l'annunziatrice Clio il breve infinito volume, Polinnia una foglia d'alloro già morduta nella sua corsa per temprar con l'aonio aroma il lezzo febbroso delle moltitudini folte. E venivano a stormo le Vergini figlie di Zeus com'aquile senza nido, affaticate dal peso delle bellezze raccolte ne' lor vasti seni, agitate dalle forze novelle che facean tremar come l'alte colonne d'un tempio crollante i lineamenti solenni del Passato nel lor pensiere verecondo. Ed erano ardenti di fecondità, agognanti di generare una gioia una potenza e un amore sovrumani per l'Uomo, di trarre una vita divina dalla faticosa materia che gorgogliava nell'Orbe come quel fiume di bronzo in quella fornace di gloria. E su la cima d'un'alpe, che non era Libètro né Parnasso né Elicona, si posarono ansanti nell'imminenza dell'opra. Non intonarono l'inno. Il Coro d'Apolline stette silenzioso nell'alba, fiso allo spettacolo immenso. Passavano senz'ombre su le inviolabili fronti le nubi in cui la certezza del Sol nascituro era già luce, era già fiamma. Pel grembo intatto dell'alpe, che chiudea le moli profonde del marmo, sacre ai colossi ai templi ai teatri novelli, crosciavan le sorgenti, aulivano i cèspiti, i covi i favi i nidi parlavano. "Euplete! Eurètria!" S'udiva sul grido dei Portatori di fuoco irrompere a quando a quando un nome invocato come il benefico nome d'una deità imminente. "Energèia!" Fuggito dagli occhi umani era il sonno bestiale della stanchezza. Libere eran tutte le braccia dal travaglio servile, libere per l'ornamento del mondo. La cieca materia, animata dal ritmo esatto, operava indefessa su la cieca materia; l'ordegno tenea su l'ordegno la vece dell'uomo. Il supplizio carnale era bandito per sempre, il Dolore assumendo l'aspetto d'un re soggiogato. L'ebrietà della forza chiedea di placarsi nei riti dell'Arte, nelle preghiere unanimi verso le Forme perfette, nell'innocenza del rivelato Universo, nel giovenile fonte dei Miti innovati. Un immenso desiderio di festa traeva gli uomini, franchi dalla notte e dalle fatiche, alle pianure ove i morti eran sepolti, lungh'essi i fiumi paterni che al mare portano su l'onda perenne l'immortalità delle stirpi feraci. Tutte le braccia, pronte a crear la bellezza, volsero le fiaccole al suolo spegnendole innanzi alla Luce raggiante per tutte le cime. E un rombo confuso di canti inauditi sonava nelle moltitudini asperse di rugiada. E l'attesa della Poesia palpitava nelle moltitudini come l'innumerevole riso del desìo marino che s'alza con le mille labbra dell'onda verso il Sole per divenire aere, altezza, via di luce, luce egli stesso infinita. E le nove antiche Sorelle non intonarono l'inno! Sotto le nubi infiammate dall'aurora, non con argilla ma con la sostanza sublime che nata era in elle dall'urto del conoscimento vitale, crearon per l'uomo una Voce più bella del Coro castalio. Aquile senza nido ripresero il volo, dall'alpe balzarono a sommo del cielo, un attimo stettero immote simili a costellazione vermiglia; poi contra il fulgore del Sol nascente, verso il Mare virgineo come la prima foglia del giovinetto salce (oh soavità dell'eterna grandezza!) si volsero avvinte per le flessibili mani in quell'atto lor consueto che usavan danzando al cospetto di Apolline. E niuno vide se risero o piansero. Vidi ben io ma tacere m'è caro. Inclinate il fianco sul vento, alte melodie non udite, senza traccia sparvero in coro le nove antiche Sorelle. E la nomata nel grido Euplete Eurètria Energèia, la nomata nel grido umano coi nomi divini delle plenitudini e delle virtù, l'invocata da tutti nell'alba, la decima Musa apparì, discese dal monte in mezzo agli uomini. E da prima non tutti la videro quivi; ma credetter forse che il fiato d'una primavera improvvisa li soffocasse d'amore, e ne tremarono. Io la vidi. E mi parve che il sangue m'abbandonasse e corresse fumido sotto i piedi della vegnente a invermigliarne i vestigi, e che spoglia dell'ossa quest'anima mia s'ergesse qual candida fiamma. Dissi: "Euplete, decima Musa, piena come l'onda che giunge dopo l'onda nona sul lido, gagliarda come il flutto decumano, o Antica, o Novella, m'odi per i giorni e per l'opre, m'odi per le mie notti insonni già calde di te non creata! Per la mia febbre, per gli astri, pei vulcani, pei lampi, per le meteore, per tutto ciò che arde, per la sete del Deserto e il sale del Mare, odimi, Eurètria, Energèia! Io son teco il supplice, senza pianto e senza ramo d'ulivo. Toccarti i ginocchi non oso. Chiederti non oso che m'abbi per l'aedo tuo primo ma sol per il tuo messaggero. Io sarò colui che t'annunzia". E, com'ella un poco inclinava la fronte accennando, sì forte fu nel mio petto il sussulto del cuore, ch'io trasalii come quei che sente la vita partirsi con sùbito balzo verso il mistero dell'ombra. E da me partito era il sogno; ché mormorare il vento dell'alba nei platani vasti intesi, le pallide stelle scorsi tramontare nel cielo della Fòcide, dietro le bianche Fedrìadi. Oh pronto risveglio! M'alzai dalla terra leggero, con limpidi occhi. Lavai la mia fronte nell'acqua castalia, ne bevvi nel cavo delle mie mani; alacre e puro salii pel cammino solenne verso le ruine del Tempio. E i galli cantarono. Presso e lungi, nelle case di Delfo e nei porti lontani, su i pianori dei monti, lungh'esse le vie lapidose, per tutte le rive del golfo i galli cantarono l'alba. Oh canti, fratelli dei raggi, ond'era accresciuta la luce nel cielo continuamente! Voci di virtù mattutina, che attendevate ogni volta le risposte ai vostri richiami per chiamare taluno ancor più distante! Fragranza del mar taciturno! Ombra e polve dell'arcana chiostra ove inerte pietra è oggi l'Ònfalo santo! Se una Volontà si sollevi armata d'un grande disegno, solo in essa è il centro dell'Orbe. Da Maia Gabriele D'Annunzio | |
-consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini Tanto per rispondere a chi, tra un ombretta e l'altra, disquisisce sul '68, non essendo capace di vedere quanto di buono, in termini di visione della libertà e di negazione dell'autoritarismo ha portato, propongo la lettura di una considerazione di Umberto Eco sul fascismo e, perché non si dimentichi, una poesia di Franco Fortini: "Ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l' Ur-fascismo, o il fascismo eterno. L'Ur-fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: "Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camice nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!" Ahimè, la vita non è così facile. L'Ur-fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è smascherarlo e di puntare l'indice su ognuna delle sue nuove forme, ogni giorno, in ogni parte del mondo." (anche qui, in Poetare - aggiunta di PCR-) Umberto Eco (da Umberto Eco "Il fascismo eterno" La nave di Teseo" editore -2018-) Canto degli ultimi partigiani Sulla spalletta del ponte Le teste degli impiccati Nell'acqua della fonte La bava degli impiccati. Sul lastrico del mercato Le unghie dei fucilati Sull'erba secca del prato I denti dei fucilati. Mordere l'aria mordere i sassi La nostra carne non è più d'uomini Mordere l'aria mordere i sassi Il nostro cuore non è più d'uomini. Ma noi s'è letta negli occhi dei morti E sulla terra faremo libertà Ma l'hanno stretta i pungi dei morti La giustizia che si farà. (Franco Fortini) Proposte in lettura da Piero Colonna Romano
Il sonetto è tratto da: G. Tesio, Stantesèt Sonèt, Centro Studi Piemon.tesi, 2015 consigliata da Roberto Soldà Ecco una poesia che rievoca un fatto increscioso, successo in Iran nel 2009, e che in questi giorni, di nuovo, dimostra quanto in quel Paese la libertà del popolo viene soffocata dalla violenza, arrecando sofferenza e morte. Neda Se senti ora una voce nel notturno buio mossa come dal vento e portata da lontano ascolta Neda sono che fu, “ I am Neda” recava allor la scritta sul fatal cartello a me vicino morta vilmente assassinata, non lasciare questo nome cadere nell’oblio straniero amico sconosciuto al mondo ancor di me porta ti chiedo conoscenza se con cuor tenero e commosso tu mi ascolti. Quale la colpa mia? Contro un iniquo crudel tiranno alzai il mio grido quel giorno sì forte deciso, voglia di libertà dove vien negata, ma un vil cecchino così il mio bel sorriso spense la giovinezza mia al giogo non servile, al grido forte un forte anelito di patrio amor mi spinse. Spento ormai tace non sanguina, no, no, non batte, non batte più questo giovane cuore come farlo ancor forte, forte pulsare mi chiedi tu che senti? Con il ricordo con il pensiero gridando il mio nome con un sussurro al vento. Ed io Neda dolce amica ragazza iraniana di bellezza bella amico italiano sconosciuto grido nel pianto forte il tuo bel nome Neda. Il 20 giugno 2009 la studentessa di filosofia Neda Salehi Agha-Soltan (persiano: ندا آقاسلطان) era in compagnia del suo insegnante di musica e stava partecipando alla protesta contro l'esito sospetto delle elezioni: un cecchino membro della milizia armata la uccise sparandole vilmente un colpo al cuore. giuseppe gianpaolo casarini Il Natale Qual masso che dal vertice di lunga erta montana, abbandonato all'impeto di rumorosa frana, per lo scheggiato calle precipitando a valle, barre sul fondo e sta; là dove cadde, immobile giace in sua lenta mole; né, per mutar di secoli, fia che riveda il sole della sua cima antica, se una virtude amica in alto nol trarrà: tal si giaceva il misero figliol del fallo primo, dal dì che un'ineffabile ira promessa all'imo d'ogni malor gravollo, donde il superbo collo più non potea levar. Qual mai tra i nati all'odio, quale era mai persona che al Santo inaccessibile potesse dir: perdona? far novo patto eterno? al vincitore inferno la preda sua strappar? Ecco ci è nato un Pargolo, ci fu largito un Figlio: le avverse forze tremano al mover del suo ciglio: all' uom la mano Ei porge, che sì ravviva, e sorge oltre l'antico onor. Dalle magioni eteree sgorga una fonte, e scende, e nel borron de' triboli vivida si distende: stillano mele i tronchi dove copriano i bronchi, ivi germoglia il fior. O Figlio, o Tu cui genera l'Eterno, eterno seco; qual ti può dir de' secoli: Tu cominciasti meco? Tu sei: del vasto empiro non ti comprende il giro: la tua parola il fe'. E Tu degnasti assumere questa creata argilla? qual merto suo, qual grazia a tanto onor sortilla se in suo consiglio ascoso vince il perdon, pietoso immensamente Egli è. Oggi Egli è nato: ad Efrata, vaticinato ostello, ascese un'alma Vergine, la gloria d'lsraello, grave di tal portato da cui promise è nato, donde era atteso usci. La mira Madre in poveri panni il Figliol compose, e nell'umil presepio soavemente il pose; e l'adorò: beata! innazi al Dio prostrata, che il puro sen le aprì. L’Angel del cielo, agli uomini nunzio di tanta sorte, non de' potenti volgesi alle vegliate porte; ma tra i pastor devoti, al duro mondo ignoti, subito in luce appar. E intorno a lui per l'ampia notte calati a stuolo, mille celesti strinsero il fiammeggiante volo; e accesi in dolce zelo, come si canta in cielo A Dio gloria cantar. L’allegro inno seguirono, tornando al firmamento: tra le varcare nuvole allontanossi, e lento il suon sacrato ascese, fin che più nulla intese la compagnia fedel. Senza indugiar, cercarono l'albergo poveretto que' fortunati, e videro, siccome a lor fu detto videro in panni avvolto, in un presepe accolto, vagire il Re del Ciel. Dormi, o Fanciul; non piangere; dormi, o Fanciul celeste: sovra il tuo capo stridere non osin le tempeste, use sull'empia terra, come cavalli in guerra, correr davanti a Te. Dormi, o Celeste: i popoli chi nato sia non sanno; ma il dì verrà che nobile retaggio tuo saranno; che in quell'umil riposo, che nella polve ascoso, conosceranno il Re. Alessandro Manzoni consigliata da poetare.it Courmayeur Conca in vivo smeraldo tra fóschi passaggi dischiusa, o pia Courmayeur, ti saluto. Te da la gran Giurassa da l’ardüa Grivola bella il sole piú amabile arride.4 Blandi misteri a te su’ boschi d’abeti imminente la gelida luna diffonde, mentre co ’l fiso albor da gli ermi ghiacciai risveglia fantasime ed ombre moventi.8 Te la vergine Dora, che sa le sorgive de’ fonti e sa de le genti le cune, cerula irriga, e canta; gli arcani ella canta de l’alpi e i carmi de’ popoli e l’armi.12 De la valanga il tuon da l’orrida Brenva rintrona e rotola giú per neri antri: sta su ’l verone in fior la vergine, e tende lo sguardo, e i verni passati ripensa.16 Ma da’ pendenti prati di rosso papavero allegri tra gli orzi e le segali bionde spicca l’alauda il volo trillando l’aerea canzone: io medito i carmi sereni.20 Salve, o pia Courmayeur, che l’ultimo riso d’Italia al piè del gigante de l’Alpi rechi soave! te, datrice di posa e di canti, io reco nel verso d’Italia.24 Va su’ tuoi verdi prati l’ombría de le nubi fuggenti, e va su’ miei spirti la musa. Amo al lucido e freddo mattin da’ tuoi sparsi casali il fumo che ascende e s’avvolge28 bigio al bianco vapor da l’are de’ monti smarrito nel cielo divino. Si perde l’anima in lento error: vien da le compiante memorie e attinge l’eterne speranze.32 Giosuè Carducci consigliata da Giuseppe Gianpaolo Casarini | 7 Novembre 1917 – 7 novembre 2017 Io sono comunista Io sono comunista Perché non vedo una economia migliore nel mondo che il comunismo. Io sono comunista Perché soffro nel vedere le persone soffrire. Io sono comunista Perché credo fermamente nell'utopia d'una società giusta. Io sono comunista Perché ognuno deve avere ciò di cui ha bisogno e dare ciò che può. Io sono comunista Perché credo fermamente che la felicità dell'uomo sia nella solidarietà. Io sono comunista Perché credo che tutte le persone abbiano diritto a una casa, alla salute, all'istruzione, ad un lavoro dignitoso, alla pensione. Io sono comunista Perché non credo in nessun dio. Io sono comunista Perché nessuno ha ancora trovato un'idea migliore. Io sono comunista Perché credo negli esseri umani. Io sono comunista Perché spero che un giorno tutta l'umanità sia comunista. Io sono comunista Perché molte delle persone migliori del mondo erano e sono comuniste. Io sono comunista Perché detesto l'ipocrisia e amo la verità. Io sono comunista Perché non c'è nessuna distinzione tra me e gli altri. Io sono comunista Perché sono contro il libero mercato. Io sono comunista Perché desidero lottare tutta la vita per il bene dell'umanità. Io sono comunista Perché il popolo unito non sarà mai vinto. Io sono comunista Perché si può sbagliare, ma non fino al punto di essere capitalista. Io sono comunista Perché amo la vita e lotto al suo fianco. Io sono comunista Perché troppe poche persone sono comuniste. Io sono comunista Perché c'è chi dice di essere comunista e non lo è Io sono comunista Perché lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo esiste perché non c'è il comunismo. Io sono comunista Perché la mia mente e il mio cuore sono comunisti. Io sono comunista Perché mi critico tutti i giorni. Io sono comunista Perché la cooperazione tra i popoli è l'unica via di pace tra gli uomini. Io sono comunista Perché la responsabilità della miseria nell'umanità è di coloro che non sono comunisti. Io sono comunista Perché non voglio potere personale, voglio il potere del popolo. Io sono comunista Perché nessuno è mai riuscito a convincermi di non esserlo. Nazim Hikmet poeta turco (1901-1963) consigliata da Carlo Chionne | |
Sul Matrimonio Allora Almitra di nuovo parlò e disse: Che cos'è il Matrimonio, maestro? E lui rispose dicendo: Voi siete nati insieme e insieme starete per sempre. Sarete insieme quando le bianche ali della morte disperderanno i vostri giorni. E insieme nella silenziosa memoria di Dio. Ma vi sia spazio nella vostra unione, E tra voi danzino i venti dei cieli. Amatevi l'un l'altro, ma non fatene una prigione d'amore: Piuttosto vi sia un moto di mare tra le sponde delle vostre anime. Riempitevi l'un l'altro le coppe, ma non bevete da un'unica coppa. Datevi sostentamento reciproco, ma non mangiate dello stesso pane. Cantate e danzate insieme e state allegri, ma ognuno di voi sia solo, Come sole sono le corde del liuto, benché vibrino di musica uguale. Donatevi il cuore, ma l'uno non sia di rifugio all'altro, Poiché solo la mano della vita può contenere i vostri cuori. E siate uniti, ma non troppo vicini; Le colonne del tempio si ergono distanti, E la quercia e il cipresso non crescono l'una all'ombra dell'altro. Kahlil Gibran consigliata da Carlo Festa Il Ponfo Il Ponfo non smorbilla e non varisce rosseggia e derma, rascia e poi s'acquatta e quando il savalente lo ghermisce esanto e matico, sovente schiatta . Rossolio è il ponfo e pieno di liquello sbercia imbolloso, luspo, mai dermiente, e in compagnia sgraffendo questo e quello, sbrucia e sbrucia con grattico furente. Eppure il vecchio ponfo scarlattino che papuloso invéscica prudello, se istaminchiando scurtichi eczemìno t'abbandona, ti tira lo sgramello crostico, e nello spazio d'un mattino resti sperduta in fondo al varicello. Fosco Maraini (proposta da Piero Colonna Romano) Inniò E cuan’ che tu sarâs già muart, ma muart chês tantis voltis dentri une vite ch’a si à di murî, alore slargje ben i tiei vôi a la cjavece dal sium e clame cun te ogni bielece ch’a ti bisugne e intal rispîr di chel mont, met dentri il to: cjamine pûr cun pîts lizêre e sporcs come chei di chel che sivilant al va par strade ma tant che cjaminant su un fîl di lame fine e al indulà che tu i domandis lui, ridint, a ti rispuint cence principi o pinsîr di fin: «Jo? Jo o voi discôlç viers inniò», i siei vôi il celest, piturât di un bambin. Pierluigi Cappello In nessun dove E quando tu sarai già morto, ma morto quelle tante volte dentro una vita che si deve morire, allora allarga bene i tuoi occhi alla cavezza del sogno e chiama con te ogni bellezza di cui hai bisogno e nel respiro di quel mondo, metti dentro il tuo: cammina pure con piedi leggeri e sporchi come quelli di chi fischiettando va per strada, ma come camminando su un filo di lama sottile, e al dove vai che tu gli chiedi, lui, sorridendo, ti risponde senza inizio o pensiero di fine: «Io? Io vado scalzo verso inniò», i suoi occhi il celeste, pitturato da un bambino. consigliata da Roberto Soldà La Poesia Nella mia mente è scolpita una poesia che esprimerà la mia anima intera La sento vaga come il suono e il vento eppure scolpita in piena chiarezza. Non ha strofa, verso né parola non è neppure come la sogno. E' un mero sentimento, indefinito, una felice bruma intorno al pensiero. Giorno e notte nel mio mistero la sogno, la leggo e riprovo a sillabarla, e sempre la parola precisa è sul bordo di me stesso come per librarsi nella sua vaga compiutezza. So che non sarà mai scritta. So che non so che cosa sia. Ma sono contento di sognarla, e una falsa felicità, benché falsa, è felicità. Fernando Pessoa consigliata da Carla Malerba
2 ottobre 2017 Ieri ci ha lasciati Pierluigi Cappello, probabilmente il più grande poeta a noi contemporaneo. Così siamo più soli senza la sua poesia e la poesia è più sola senza di lui. Mandi Pier. Sonno estivo Seduti, le gambe allungate nel silenzio, uno a uno ci siamo portati i nostri giorni solitudine con solitudine, impazienza e attesa; e adesso che le tue spalle sono vicine alle mie che il mio calore è il tuo, quanto so dimenticare è nell'indugio delle dita avventurate sulla tua pelle bionda, sui tuoi capelli scuri, nella paura che avvicina il nostro corso di scampati senza rumore e senza appello, come quando il verde di marzo spinge dai rami e si fa abbracciare dal mondo, come quando l'aria vive nello screzio degli alberi carichi di luce e c'è penombra nella stanza, e la pace del prato è nei tuoi occhi, ci perdona, si stringe intorno a noi. Pierluigi Cappello (proposta da Piero Colonna Romano) A mio fratello bianco Caro fratello bianco, quando sono nato ero nero, quando sono cresciuto ero nero, quando sto al sole, sono nero. Quando sono malato, sono nero, quando io morirò sarò nero. Mentre tu, uomo bianco, quando sei nato eri rosa, quando sei cresciuto eri bianco, quando vai al sole sei rosso, quando hai freddo sei blu, quando hai paura sei verde, quando sei malato sei giallo, quando morirai sarai grigio. Allora, di noi due, chi è l'uomo di colore? Léopold Sédar Senghor (I° presidente del Senegal dal 1960 al 1980 e accademico di Francia) proposta da Piero Colonna Romano 27 agosto 2017 Oggi ci ha lasciati Nanni Svampa, cantore della Milano dei diseredati, dei senza casa pieni d’amore e di compassione. Ed era a questi che Nanni guardava con tenerezza ed amore, regalandoci indimenticabili, commoventi canzoni. Ci mancherà, assieme a quella Milano ch’era un tempo e che si perpetua tutt’oggi. Ciao Nanni. Canzon per el Rotamatt (Chanson pour l'Auvergnat ) Canti per tì la mia canzon tì el rotamatt, tì el mè barbon che te m'hee daa on poo de mangià quand s’eri restaa senza cà che te m'hee daa on tòcch de pan dur quand i barbònn che gh'avevi in gir i sciori e la gent per ben m’aveven trattaa pesg d'on can L'era domà on tòch de pan ma l'è sta asse de tirà là el sò profumm el senti anmò me par de ves 'dre anmò a sgagnal. Rit. : Tì el mè barbon quand te veet de là quand el Signor el te ciamarà te 'ndareet drizz tì e i tò barbis a stà in Paradis. Canti per tì la mia canzon tì el rotamatt, tì el mè barbon che te m'hee daa el tò paltò vecc quand s’eri strasciaa e pien de frecc Che te m'hee faa scaldà on poo i òss quand sont restaa con nagòtt adòss quand hann brusaa anca i panchett e mì seri senza calzett L'era domà on tòcch de strasc ma l'è staa assee de tirà là el sò calor el senti anmò me par de vess 'dree a mettel sú. Tì el mè barbon.... Canti per tì la mia canzon ti el rotamatt, tì el mè barbon che t'hee piangiuu e te m'hee vardaa quand s’eri sconduu e m'hann ciappaa Che te m'hee daa on poo del tò coeur quand i padroni e i commendator hann faa e desfaa in fra de lor e mì m’hann menaa a San Vittor L'era domà on poo d'amor ma l'è staa assee de tirà là el tò sorris el vedi anmò compagn s'el fudess pitturaa Tì el mè barbon.. ... | Canzone per il Rigattiere Canto per te la mia canzone tu il rigattiere, tu il mio barbone, che m'hai dato un po’ da mangiare quando sono rimasto senza casa che mi hai dato un pezzo di pane duro quando le barbone che avevo in giro i signori e la gente per bene mi avevano trattato peggio di un cane Era soltanto un pezzo di pane ma è stato sufficiente per tirare avanti ed il suo profumo lo sento ancora: mi sembra di stare ancora a morsicarlo. Rit.: Tu il mio barbone, quando andrai di là quando il Signore ti chiamerà andrai dritto, tu e i tuoi baffoni a stare in paradiso. Canto per te la mia canzone tu il rigattiere, tu il mio barbone, che mi hai dato il tuo cappotto vecchio quando ero stracciato e pieno di freddo che mi hai fatto scaldare un po' le ossa quando sono rimasto con niente addosso quando hanno bruciato anche le panchine ed io ero senza calze Era soltanto un pezzo di straccio ma è stato sufficiente per tirare avanti ed il suo calore lo sento ancora mi sembra ancora di indossarlo. Tu il mio barbone... Canto per te la mia canzone tu il rigattiere, tu il mio barbone che hai pianto e mi hai guardato quando ero nascosto e mi hanno preso che m'hai dato un po' del tuo cuore quando i padroni ed i commendatori hanno fatto e disfatto fra di loro ed hanno portato me a San Vittore Era soltanto un po' d'amore ma è stato sufficiente per tirare avanti ed il tuo sorriso lo vedo ancora come se fosse dipinto. Tu il mio barbone ... |
(Nanni Svampa traduce Georges Brassens) (Proposta da Piero Colonna Romano) Città dai bastioni d'onice, città del tramonto, nell'intrico delle tue vie si è smarrito il mio volto: e il sole sta calando, sulle tue mura d'amaranto. Così il vento ti rapisce in una nuvola, che svanisce nell'aria. Ma il vento è pena atroce e scuote la folla degli spiriti infranti, che racchiude la tua voce. In te la notte è un manto delicato che riposa sulle tiepide braccia, mentre osservi l'imago che muove da te stessa e attraversa il tuo corpo addormentato. E vorrei vivere nella tua forma, vorrei vivere in te che sei nella mia mente, come un velo del niente, sul niente del mio niente. Da Lo spirito della fuga, Collana "I PIOMBI", Edizioni del Leone, Venezia 1990. Attilio Bettinzoli consigliata da Roberto e Antonella Soldà
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