Racconti di Aurelio Zucchi


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Sono nato a Reggio Calabria il 7/2/1951. Conseguito il diploma di Geometra presso l'Istituto Tecnico per Geometri "Augusto Righi", nell'agosto del 1970 mi sono trasferito a Roma, città dove vivo e lavoro come Agente di Commercio. Sono sposato ed ho due figli. Ho sempre avuto una predisposizione ai rapporti umani e un interesse notevole per la letteratura. Fin da giovane mi sono accostato alla poesia e, da pochi anni, alla narrativa. Come scrittore, ho esordito con il romanzo Viaggio in V classe. Questo libro, pubblicato nell'ottobre del 2006, rappresenta per me un valore assoluto. La determinazione, l'energia e l'impegno che ho profuso nella concezione, nella stesura e nella cura del romanzo sono strettamente legati alla ricerca di linguaggi capaci di liberare l'io narrante seguendo il dettato del cuore e della verità. Raccontare una storia "normale", che fosse in grado di privilegiare l'ordinario senso della vita,è stato precetto fondamentale.

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PREMESSA

    Appena conclusa la stesura definitiva del mio primo libro “Viaggio in V classe”, edito poi da Edizioni Il Filo con la preziosa prefazione del dr. Pietro Zullino, è nato, di getto, “Il mantello colorato delle parole”. Affascinato e, lasciatamelo dire, commosso da quell’esperienza di scrittura così intensamente vissuta, con questo testo ho voluto raccontare e raccontarmi le molteplici sensazioni che ho provato stando alle prese con il mio primo lavoro da “scrivente” (come amo definirmi). Non chiedetemi il perché. Probabilmente sarà stata la gioia immensa per aver portato a termine un sogno fondamentale come quello di narrare una storia vera, “quella” storia vera, una specie di miracolo operato, per una volta, dagli uomini.

    Alle tante riflessioni contenute all’interno de “Il mantello colorato delle parole”, testimonianze palpabili delle emozioni che capitolo dopo capitolo mi catturarono nella stesura di quel romanzo, sono particolarmente legato. Identificano fortemente la mia natura, il mio modo di essere e il mio modo di sentire. Allo stessa maniera, si propongono di evidenziare il contrasto sempre in agguato tra l’enorme voglia di scrivere e il dubbio di non esserne capace. Sicuramente, registrano la potenza della seduzione della scrittura, specie in chi la affronta per la prima volta.

    Io non so se, dal punto di vista tecnico editoriale, questo testo possa essere considerato un saggio e la cosa non è che mi interessi particolarmente. So che è uno specchio ideale al quale di tanto in tanto accosterò il mio cuore e lo custodirò con estrema cura.. Il “mantello” mi ha caldamente protetto nella costante ricerca delle forme più spontanee da utilizzare nella definizione della mia prima, vera, fatica letteraria.

Con gratitudine nei riguardi di chi vorrà leggermi.

Aurelio Zucchi

 

IL MANTELLO COLORATO DELLE PAROLE

    Quando, il 3/11/2003, inizio a scrivere il mio primo libro[1], tremo tutto. L’entusiasmo frena nella paura di non resistere a una prova complicata. Raccontarmi il passato, coccolandomi in lungo e in largo nell’accostare ricordi alla linea di confine col presente, significa sfilarmi e riavvolgermi nel nastro di una sequenza di vita. Guardare lontano e avvicinare all’oggi una frazione di percorso, prefigura l’avventura nel già visto. Sottopormi a un profondo scavo e offrirmi all’agognato ritorno dei miei verdi anni, rappresenta una sfida. Ne studio il carattere, il rimbalzo nel tempo e decido di accettarla. Confido nelle suggestioni che andrò a cogliere più di quanto i dubbi tentino di infastidirmi. Accolgo un evento divisibile per due: affascinante per me che lo vivrò al ritmo incalzante dello scrivere; banale - forse - per chi mi leggerà. Sono preso dall’egoismo che svuota la sacca delle emozioni giovanili e poi le ripristina, le cristallizza nell’oggi che preme, le usa per alleggerire il fardello dell’età. Quanti, svegliandosi un mattino, potrebbero narrare della propria gioventù! Non abbiamo forse, ciascuno di noi, da attingere dalla giovinezza e liberarne la freschezza d’ogni suo respiro; da quella primavera incastrata, sì, nelle stagioni che la storia finirà per soverchiare ma pur sempre diversa, unica, per il solo fatto che ci appartiene? In fondo, così è per la vita. Il gioco delle coincidenze - c’è chi preferisce chiamarlo destino - omologa in prima battuta la tua esistenza tra le cosiddette ordinarie. Poi, visitandola con più attenzione, tu per primo potresti accorgerti che ordinaria non è. Racconti su racconti, a volte insospettabili romanzi, sono lì nel ventre di echi bloccati negli anfratti della memoria e, che bello tutto ciò, non sono neanche da concepire, sono da tirar fuori già costruiti e con tutto l’amore di cui sei capace. Peccato che solo una parte, per merito di chi scrive bene, raggiunga la notorietà. Ecco uno dei motivi per i quali amo la letteratura: può illuminare la vita di Cristo e/o quella di Eugenio, il barbiere all’angolo.

    Ora, Dio solo sa quanto io desideri riperdermi tra verbi e avverbi, nomi e pronomi, aggettivi e congiunzioni! Amore per la lingua italiana? Certo, ma soprattutto nostalgia della “controllata” mescolanza delle parole: le nostre benedette parole, sempre più ciarlate, masticate, abusate nei labirinti delle frequenze televisive, ripetutamente adottate e riadattate alla bisogna per stancare sotto i neon della pubblicità, frettolosamente prestate al totem dell’immagine e degli effetti speciali; le nostre benedette parole, sempre meno scritte, sempre meno inventariate nelle nostre menti per una sorta di latente paura di chiamare le cose con il loro nome!

    Per questa ragione, il foglio quasi impaziente davanti a me, a inizio stesura sento mia, a braccetto del respiro che intanto si fa grosso, la brama di misurarmi in un esercizio intrigante, capace di rammentarmi i “temi” che svolgevo a scuola.

    Al “Righi”[2] le materie tecniche la facevano da padrone per chi come me si diplomava geometra. Leggi, formule, teoremi, calcoli, logaritmi, righe, matite, compasso e inchiostro di china costituivano il pane quotidiano di cui cibarmi per effetto delle richieste a migliorare che tutti i santi giorni mi piovevano addosso. Insegnanti, i miei, avvezzi all’arte del buon maestro, palesata in più forme allo scopo, anche, di scuotermi. I loro meccanismi foggiavano una falsa trappola. La costruivano senza cattiverie di spinte punitive e assemblando le parti palesi e nascoste del carisma che riuscivano a trasmettere. In tal modo, mi sentivo coinvolto nella dottrina e nelle piccole manie di ognuno e, intanto, imparavo a conoscere passo dopo passo la scienza che insegnavano e la personalità che mettevano a disposizione. La fortuna di incontrare così impareggiabili docenti fece in modo che non rinunciassi ad amare anche discipline meno tecniche, come Lettere e Storia. Il compito d’Italiano era un momento da me molto atteso. In quelle tre ore pensavo a liberare i miei impulsi, sospesi tra i lacci e i lacciuoli imposti dal cliché addosso ai miei anni.

    Ero un ragazzo del Sud, come tanti di quegli anni sessanta, che a fine giornata rientrava da soldatino solerte nella sua stanza a più letti, epperò ordinata e linda, magicamente ovattata dall’educazione di una famiglia “normale”. I giorni mi rotolavano addosso, blindati in una corazza affettiva che, magnifica penalità d’altri tempi, filtrava ogni possibilità di guardare ben oltre il cancello. Ti sistemerai anche tu, vedrai… diceva mia madre sperando di convincermi. Protetto dalla secolare efficacia degli affetti che tutto coprono come la neve quando è troppa, nulla era impellente, ogni cosa controllabile. Lo stipendio di papà Alfredo aveva fatto sempre miracoli ed io, come i miei quattro fratelli, dovevo studiare.

    Nel Meridione, terra mai finita in un progresso sempre in proroga, il diploma era importante. Faceva curriculum per i concorsi pubblici. In più, qualcuno mi ripeteva che la vita è dura, peggio se lasciata ai margini del sapere. La scuola, pur tra le sue contraddizioni, svolgeva il ruolo della chioccia sapiente sotto le cui piume scaldare cervelli altrimenti destinati alla prateria dell’imperizia e dell’improvvisazione.

    Noi di V/B pensavamo di trovare nello studio valori aggiunti.. Era l’atteso pretesto per esplodere nell’amicizia. Niente inganni né rivalità dentro l’aula e fuori dall’aula. Sugli attenti o a riposo, quel plotone di teste da affinare era rappresentazione verace di tanti ragazzi in uno: composti e disordinati, roboanti e quieti, mai violenti. Insieme dettavamo il bisogno di svincolarci dalle solitudini e dagli ozi giovanili con l’ansia e la pignoleria dell’abile cercatore d’oro. A scuola e per strada tutto accadeva tra la voglia di provocare sintomi di buona compattezza da incastrare in ventisette egoismi, nel puzzle complicato delle invidie e delle gelosie di ciascuno. Aspiranti geometri, progettavamo ville e ponti con la stessa attenzione usata nel dare calci alle debolezze per aprire varchi alle speranze. Per intenderci, il gusto quasi patologico di rincorrere “sapienza” ci spingeva in ogni cosa: dalla dimostrazione di un teorema alla consapevolezza del crescere. L’istruzione, quindi, rappresentava un obiettivo primario capace di scansare, nel mio caso, il futuro visto e rivisto nei sempre sacrifici di un bigliettaio dell’AMA[3] in combutta col fato.

    Mio padre non aveva studiato, non aveva potuto. La sua V elementare sembrava, quando me ne parlava, un risultato da record conseguito all’interno di una famiglia a caccia di pane e acqua negli anni del primo dopo guerra. Poi, nell’adattamento al sogno dello sposalizio, ti ritrovi con moglie e cinque figli da sostenere, scivolando spesso sulla classica buccia di cambiali al rinnovo o di bollette da pagare all’ultimo giorno di scadenza! Era un po’ la routine di una regolarità indisponente, marcata stretta perché non degradasse oltre il consentito. Era anche (ed io preferivo così) la fiera andatura di chi deve arrivare in fondo e non necessariamente primo. A volte avevo l’impressione di rinviare di giorno in giorno il mio domani. La caccia alla “sistemazione”, il posto fisso, era assillo quotidiano come lavarsi i denti mattina e sera, l’ordine del giorno esposto nella bacheca delle priorità di famiglia. E guardavo mio padre... La divisa antracite e l’aria eternamente stanca lo tenevano di qua dai sogni che avrebbe potuto fare. Lavorava sodo e forse non sapeva fare altro. Ecco perché a diciotto anni sognavo come un forsennato, a volte dormendo, a volte sveglio guardando solcare lo Stretto da Navi Traghetto che immaginavo da Crociera.

    Ed anche con la biro riuscivo a sognare specie se la traccia del tema mi concedeva quel quark di complicità utile a far sì che le idee e l’immaginazione corressero in sincronia. Così, dopo aver scritto Svolgimento, intorno a me avvertivo una contrazione dello spazio. L’aula mi entrava in un pugno. Sempre più il giallo ministeriale delle pareti avanzava verso di me con la stessa cadenza delle indefinibili forme che nel sonno, delle volte, mi inseguivano fino a sovrastarmi. L’Italia e l’Europa politica, anche allora sbiadite, mi venivano incontro e, con esse, il Crocefisso, la foto del Presidente della Repubblica[4], il ritratto inquietante di Napoleone, quello rassicurante del Manzoni, il poster sbrindellato del lungomare e la vecchia tavola della flora d’Aspromonte. Diventavo, così, magnifico prigioniero in un perimetro via via sempre più ridotto. Le spalle di Paolo, il mio compagno davanti, assumevano forme appena abbozzate. I banchi, la cattedra, la lavagna, l’interminabile appendiabiti con i pomelli neri, i ghirigori sui muri, gli intonaci scrostati, il docente e i compagni tutti migravano verso territori ignoti. La scena della “mia” scuola d’ogni mattina si privava di persone e di cose. Lo stanzone delle ingenuità e delle furbizie diveniva di colpo la galleria della bonaccia in cui sperimentarmi. Calcavo il palco di cristallo di un teatro fattosi deserto, dove provare qualche splendido assolo. Luci, suoni e odori ghigliottinati in una solennità d’altri tempi, rimanevo con me stesso, sempre più con me stesso, sempre più schiavo di quel rito avvincente. Inscatolato in un cubo di nuovo metallo, una sardina vispa in una lattina evoluta, percepivo modi nuovi di sentirmi vivo. Ero, cioè, appena liberato dalla scansione del tempo, sprofondato nella cella dei pensieri dove, appunto, le idee divenivano parole, parole e ancora parole da scrivere come su di un lucido testamento. La realtà di quei giorni, e non solo quella penalizzante, doveva parcheggiare altrove per fare spazio ad altro, per esempio alla ricerca. Inseguivo il tutto nuovo da registrare tempestivamente e tempestivamente da accarezzare almeno con la mente. Accadeva che, penna in mano, me ne andassi a caccia di una legittima sintesi, il pocket-book di mondi in miniatura nel quale riordinarmi, prendere posizione, sfogliarmi, vedermi interessante e muovermi da protagonista. Plebeo Ulisse, cercavo isole da esplorare, femmine incantatrici e cheti Eldoradi. L’inchiostro, solo l’inchiostro, poteva annotare i sogni chiamati a raccolta nell’occasione che coglievo tutta!

    Per molto tempo (il deprecabile tempo che accorcia l’esistenza e dirada le nostalgie) e con la presunta maturità, sensazioni simili le ho accantonate. La famiglia, il lavoro, l’identificazione forzata e diluita nell’arte del fare, del rinviarsi, del non respirare la vita, i pensieri vaganti sempre tra i piedi, tutto quanto a comporre un minestrone improvvisato e sempre in cottura! A volte, ripenso alle poesie che, precocemente avido d’emozioni, scrivevo da ragazzo. Mare, luna, stelle, terra, inferno, Eden, donna, amore, vita e morte, danzando magistralmente sulle mie labbra, facevano scorrere la stilografica, una fissa dei sedici anni, nel blu vertiginoso del giudizio e della stoltezza. A quelle attese inchiostrate di fitta speranza, affidavo le ali del benessere interiore, capaci di farmi volare fino alla barriera del Cielo per guardare da lassù come, cosa e perché vivevo. Da quella postazione fortunata assistevo furente al bianco e nero della mia città sventurata, della famiglia numerosa, dei sospiri di mamma Cesira, delle scarpe da riciclare, della trancia di stocco affogata tra chili di patate fumanti, dei giri a vuoto dei fratelli in cerca di lavoro, dei morti ammazzati dalla ‘ndrangheta. Tutte immagini intermittenti, da montare a ripetizione per poi, ricchezza della mia poesia, godere dei motivi di soddisfazione che mi venivano offerti su scodelle di giada. Rivedevo, dunque e per fortuna, i riverberi della Costa Viola, i verdi anni da spolpare, i riflessi della zagara, l’oro degli agrumeti, la bocca umida del primo bacio, il rosso di una Fabiana impacciata, le tinte del primo pesce all’amo, l’arcobaleno tra Scilla e Cariddi, la magia della Fata Morgana e, inventate voi il miglior colore, il mare mio. Mi domandavo se davvero c’è un tempo per sognare, uno per vivere e uno per morire.

    Crescendo, ho quindi percorso il viottolo delle riflessioni che si fanno da grandi quando, nuova idiozia in mezzo a tante, sembra ci si vergogni di spalancare l’animo e riversarne il film. La luna che a 16/18 anni appariva magica a me che la guardavo notte dopo notte per non perderla, quella stessa luna che oggi è ancora lì, ancora intatta, ugualmente distante come allora, nulla suggerisce? Colpa mia o della desertificazione dei sentimenti che non fa più trastullare i cuori? Strano davvero come nell’età che vivo adesso - pance di piazze in baldoria, curve e sciarpe colorate, reality sparati ad alti dosaggi - non domini incontrastato il desiderio di dare, di aprirsi. Il mondo a guardarci in un display e a sentirci in un telefonino, quale migliore occasione per vuotare il sacco delle sensazioni e dei sogni? Quante solitudini in mezzo alle folle! Potremmo diventare migliori se solo facessimo sparire i rossori delle nuove timidezze e le paure chiuse ermeticamente nei corpi senz’anima che ci contengono. Oggi si monta in sella all’inquietante timore di scoprire le carte vere, di mettere a nudo le proprie debolezze. Ci si premura di volare rasoterra perché in tal modo tutto è più visibile da tutti: da chi ingoia senza cernita i primi semi fruibili e da chi ci misura, senza metro, becco e ali.

    Le negligenze del tempo, dentro la cui corsa siamo attraversati da lame virtuali, non risparmiano poi le maniacali tecniche della comunicazione. Siamo nel mirino del tutto e subito, dilatati ai bordi della centralità di una diffusione che amplifica il mattone, la calce, la malta e, più ancora, la tinta esterna che trattiene la vita. Pochi cenni al focolare, all’intimità della cucina, alla sedia impagliata, al letto su cui poggiarsi per una riflessione. Si deve esplodere nel look! Quelle stesse tecniche di comunicazione anticipano troppo futuro e congelano i misteri delle primordiali conoscenze. Non solo. Preferiscono l’esclamativo al dubbio, distribuiscono grembiuli cromati da indossare tutti e non scavano nei cuori. E quando poi le vediamo applicate ai sentimenti, le moderne informazioni risultano imperfette. Succede, perciò, che la veloce costruzione di fiammanti universi non richiesti, il più delle volte sia glaciale, astuta. Inseguiamo solo apparenza? Davvero crediamo che sia importante farsi vedere a tutti i costi?

    Scrivere Viaggio in V classe vuole provare a dare un’umile risposta. Per raggiungere l’obiettivo, una cosa su tutte mi assilla: la costante della sincerità. Già dal primo capoverso, credo fermamente cosa irrinunciabile sia quella di consegnarmi alla non vergogna dell’esprimersi. Quando parliamo di noi stessi si è sempre tentati di risparmiare gli angoli vivi, purtroppo. Ci guida, in quest’avarizia da terzo millennio, la mania di concedere agli altri solo ciò che ci veste e ci colora. Buffi, vaporosi e lindi, siamo pronti a fornire prestazioni che ci inseriscano nella graduatoria dei più in vista o, meglio, nelle seducenti meteore del successo. Siamo suggestionati da certe bizzarre idee partorite dai complessi sistemi della nuova convivenza. È, questa ultima, una sorta di coabitazione disegnata sulle tracce del profitto e avara in quelle della vita. È l’ipotesi che preconizza benessere obbligato che, rischia di confondere l’anima con l’economia, la lacrima con la politica, il sentire con il fare. E allora, da pessimi contadini rifatti, tutti quanti finiremo col proteggere abilmente l’orto delle nostre ragioni dal ripristino delle antiche emozioni, intrusioni atipiche che sentiremo soltanto come scoccianti minacce. Ci difenderemo a spada tratta dall’eco che trascina il fluire delle musiche figlie delle sette note. Per accedere alla nostra tavola, gli “altri” dovranno ridere e piangere come noi, allo stesso identico modo: niente sussurri, nessun grido, tutto arrangiato nell’ottava nota che saremo stati capaci di inventare. Sì, in virtù del nuovo senso “globale” della vita, diventeremo omologati, magari con un bel contrassegno sul volto, affidato a mezzora di buon trattamento estetico. Spariranno i musicisti, i pittori, gli scienziati, gli scrittori e i poeti?

    In questo libro so bene di che parlare: di me, di un pezzo di Meridione, di una classe scolastica, di una certa gioventù e dei modi di viverla e d’interpretarla. Di questa, voglio far emergere occhi, ora furbetti ora inesperti, puntati come fari sperduti sul mondo italiano di quegli anni: quello di città dimenticate che volevano sopravvivere e, l’altro, più vasto, figlio prediletto del boom, economico ma distratto. Non una semplice cronaca, però. Non un documento, tra i tanti, di un resoconto degli anni ‘60 redatto nel profondo Sud. Scrivendo, azzardo a rappresentare sentimenti, io, che intanto vado a incasinarmi nella trappola dell’umiltà e della presunzione, l’altalena su cui mai vorrei salire. Le emozioni sono sempre complicate da illustrare, meglio viverle! D’accordo, ma come svolgere “il tema”? Come scrivere di cuore e di ragione? Ho sempre immaginato che un buon narratore debba avere congenito il dono dell’efficacia. A me, apprendista entusiasta, non basta avere un’idea da proporre o una storia da raccontare. Per fortuna, l’energia mi sorregge; la felicità nel tuffo all’indietro, pure. Ma altro necessita: una buona scrittura!

    Il diploma di geometra realizzò uno straordinario sogno fatto a dieci anni e ad occhi aperti. Un uomo in giacca e cravatta, conosciuto nel “mio” cortile, mi affascinò. E con lui, delle mappe poggiate su assi di legno chiaro, la matita all’orecchio e la confidenza regalata senza veli alla mia innata curiosità. Ecco, entrare con la penna nel cuore di questo avvenimento dovrebbe essere semplice esercizio di scrittura. Lo farei senza indugi se, oltre che la sincerità, non mi fossi imposto il rispetto verso il lettore. Pretendendo l’assoluta obbedienza alla verità dei fatti, delle persone, delle speranze, delle delusioni, dei tappeti semivolanti che io stesso ho conosciuto, trovo maledettamente difficile decidere per una vocale, una consonante, una punteggiatura che siano le più azzeccate per me che scrivo e per chi dovesse leggermi. Il recital della rappresentazione dell’animo, nella mia migliore definizione romantica, ma anche del mangiare un panino a scuola, è iniziato. Non so se a guidarmi è, appunto, il darmi senza remore o, piuttosto, l’affiorante autocompiacimento che rasenta egoismo nel recupero degli anni andati. Infilare le dita in uno spicchio di passato, oggi che il futuro è sempre più presente, decreta, insomma, l’indiscutibile signoria del mio tempo migliore, talmente migliore da sostituirsi ai successivi e starmi a fianco. È, questo, il tentativo di accostare quasi a toccarsi le diverse età che mi hanno ospitato e, tenera alchimia, diluirle in forma empirica per una soluzione corroborante: la mia quinta stagione. La gioventù non passa mai inosservata specie se, benché priva degli effetti speciali dei giorni nostri, lascia impronte di gioia che non vogliono assolutamente morire. È la fase del tutto e del niente, del bello e del brutto, del multicolor, da non catalogare freddamente in un periodo temporale dell’esistenza umana. È uno stato d’animo e per questo non ha scadenza.

    Procedendo nella mia stesura, ballare con le parole e parlare con esse diventa preferenza obbligata. Invocarle, rubarle all’intuito, prestarle all’emozione, plasmarle, coccolarle, smontarle, rimproverarle, correggerne i difetti e alla fine consacrarle al punto da sentirle, pagina dopo pagina, come voce della mia voce, mi regala il gusto della sfida che ho accettato. Le frasi, i brani e i capitoli s’incuneano nella trama con il rispetto e i limiti dettati dall’autore esordiente. So di correre dei rischi. Un nuovo linguaggio? Tento di sonorizzare l’inchiostro con i toni di certe mie corde? Calma signori! Un diploma di geometra non consente miracoli in letteratura! Che meraviglia, però, leggere qualcosa esattamente nel modo in cui si ascolta da colui il quale ne parla, mi dico. E, consapevole dei limiti, m’illudo senza mai arrendermi. Setaccio a ripetizione i peggiori giardini delle mie personali convinzioni. L’umiltà, mi dico, non può essere merce a saldo. Allo stesso modo, l’amor proprio. Fino a che punto è giusto imporre agli altri la personalizzazione che mi sto cucendo addosso? Quando il mio romanzo (quanta energia gli regalerò!) farà sosta negli occhi di qualche volenteroso, avrà il destino che si merita. Sarà letto tra un toast e l’altro, al rosso del semaforo, nella pausa pranzo, in poltrona col sonno che incombe o in qualunque altro modo da persone che non mi conoscono. E ne faranno l’uso che credono, i commenti che vogliono o carta straccia. Come pretendere, addirittura, che lo leggano così come io vorrei che lo leggessero? Mamma mia! Mi sto infilando in un dedalo pericoloso col rischio di snaturare l’immediatezza che grido da una vita. Inutile sminuire il tutto con la scusa che, tanto, sono alla prima prova.

    È vero, questo Viaggio vuole essere un regalo a me, a quegli amici. Anche ai professori. A uno, in particolare. Gli promisi che un giorno o l’altro avrei scritto qualcosa. Credeva, il caro Dino Gentilomo, nell’uso che facevo delle parole. Mi conobbe correggendomi i compiti con il rosso e il blu della sua matita. Non importa, mi disse, se ti stai diplomando geometra. Non è proibito a nessuno prendere una penna in mano. Questo ricordo, io e lui a parlare in biblioteca, vale da solo per affrontare questo impegno. Sommando poi i diversi perché, Viaggio in V classe nasce quasi perentorio, assoluto, e ha bisogno di cure attente, di farmaci preventivi, di uno stato di salute ottimale. Per questi motivi, aggiunti alla smania di non risparmiare sul budget della determinazione e della schiettezza, l’impresa mi appare tanto improba quanto necessaria. Spidocchiare gli angoli più remoti della mia gioventù e, a volte, della mia intimità a chi potrebbe interessare? Non riesco a entrare, però, nella regolarità di una prestazione letteraria che pure é esente da giudizi incombenti. Anzi, procedendo, sempre più avverto l’esigenza di approfondire il banale e di regalarmi agli altri. Mio Dio, cosa scriverei se quell’età l’avessi vissuta da protagonista assoluto?

    Anche dell’amore vorrò narrare, di quello sempre a portata di mano nei ventanni al vento e degli altri, gli impossibili, che covavano, covavano e dei miei amori che respiravano al ritmo di colpi di tosse per farsi notare nel frastuono di piccoli incantesimi, una gonna da parte che aspettava di essere riempita. Quanta felicità mescolata a sofferenza, io che non mi accontentavo di averlo, l’amore, se prima non lo davo!

    In un romanzo che non dà eroine, principi, killer, angeli e demoni, pericolosa è una mia tesi: far girare i personaggi sulla giostra della verità. Persone per bene, donne fragili, femmine furbe, ragazzi in odore d’uomo, docenti sagaci umili e fieri, bidelli complici e la stessa città imperfetta si dovranno muovere nel valzer della semplicità, esattamente come si muovevano allora. Il festival del “normale” e l’esibizione di cento vite affidate alla casualità e all’arte dell’esserci, chiuderanno il mosaico di cui ero un tassello. Niente coreografie o luci ubriacanti, niente applausi o fischi, zero telecamere ma, solo gli occhi dei danzanti!

    La V/b La valutazione delle prove da sostenere spettava anche a noi, nella fiducia di trarne ogni virtù per credere di più in noi stessi. Anche i difetti, però, e l’analisi era spietata ma giusta: anch’essi ci facevano crescere. Tante vite, quindi, accomunate in un giro di pista dov’era consentito entrare a tutti, al fine ballerino e allo stolto con le gambe ingessate.

    La penna è malefica se usata male. Il rischio di affondare nel teorema dei pasticci mi accompagna a ogni girata di pagina. Guido un TIR in discesa e con i freni rotti e veloce è anche il moto delle emozioni che via via si rinnovano vibranti fino al punto di farmi commuovere nelle frequenti riletture di quanto riesco a scrivere. Un giorno o l’altro vorrò intervistare un grande scrittore. Sarà una scusa per spiare i suoi polpastrelli che sfiorano la tastiera o, tra l’alluce e l’indice, i segni lasciati dalla penna. Con l’occasione, gli domanderò se anche lui, nel rileggersi, sente qualcosa. Chissà se tutto ciò è importante…

    La mia città Per descriverla, a quali dosaggi devo fissare l’inchiostro? Usare sempre il blu per una mia stramba forma di gratitudine al mare e al cielo che insieme mi hanno protetto lungo le strade parallele e dritte di Reggio e sul beige del mio lido preferito? Anche il nero va bene specie quando mi irritava, della mia città, l’aria d’eterna attesa di tempi migliori. L’amore per le proprie radici non va sempre d’accordo con la ricerca dei nei che vorremmo eliminare. Addormentata all’ombra del suo aspro monte, distesa sui salotti arredati dal sole di Calabria, nebulizzata nel gioco delle acque, sfiorata dalle brezze del Tirreno e spettinata dai venti dello Stretto, Reggio deve continuare a pulsare nel mio romanzo. Come se il tempo si fosse fermato a quel ’70, così la vedrò su queste pagine: bella, sbadata e irritante. Bella, per definirne il cuore; sbadata, per rimproverarle gli incomprensibili sonni; irritante, per la forza che ha e che non tira fuori.

    Gli esami di maturità erano inzuppati di Storia, Italiano, Diritto, Estimo, Topografia e Costruzioni, magnifici territori del sapere e spauracchi delle nostre certezze. Di qua, noi. Tronfi delle combinazioni assurde che facevano di quella classe un gruppo capace di respirare insieme sogni e speranze in costruzione, i destini di 27 promesse d’uomo viaggiavano paralleli salutandosi dai finestrini e confrontandosi alla prima stazione. Solo bravi ragazzi? Nel Dna di ciascuno di “quelli lì” avreste trovato tracce dell’educazione di una volta, impartita da patriarchi dediti alla cura dei figli. Ma c’era altro. Avevamo formato un coro che nella diversità degli accordi doveva intonare un canto universale. Miscela di sacro e profano, a quel canto – lo studiare per il gusto di imparare, l’imparare per il gusto di conoscere e il conoscere per il gusto di crescere – abbiamo dedicato energie, anche errori, e siamo diventati amici ancor prima d’essere compagni. Si poteva definire un’accozzaglia dei buoni sentimenti i quali, al pari del prezzemolo in ogni minestra, si rivelavano ingredienti fondamentali nella rincorsa all’agognato diploma. Difficili erano stati i passaggi che ci avevano avvicinato ai più svariati docenti. Prima ancora che dispensatori del sapere, li avevamo ripetutamente visti, direi quasi studiati, come uomini. Forse, sapevamo di rischiare e nell’incessante ricerca del dialogo abbiamo pagato qualcosa. Quella scuola doveva partorire i futuri tecnici dell’edilizia, i nuovi geometri da mescolare ai vecchi. Non so quanta importanza ci poteva esser data quando, oltre che alle formule, ai progetti e al cemento armato, noi puntavamo l’attenzione su un naturale patto di nuova convivenza. Figli di una terra sfortunata (la bella “Regium” inzuppata di Magna Grecia, seccata di modernità e scoraggiata dalle teste vuote di burocrati azzeccagarbugli) sentivamo la solita cantilena del Sud da amare. Il sole, il mare, il bergamotto e altre amenità del genere entravano nelle nostre teste allo stesso identico modo di com’erano entrate in quelle dei nostri padri. Bisognava, insomma, accontentarsi delle meraviglie della natura e non di quelle della politica. E, proprio in aria d’esami, Reggio si era ribellata al Potere Centrale. La rivendicazione a Capoluogo di Regione, in competizione con Catanzaro, era stata la scintilla finale. La città, qualcuno diceva, aveva alzato troppo la cresta. Il lungomare, il più bel chilometro d’Italia di dannunziana memoria, non bastava più, allora come oggi. Tra barricate, morti, soldati variopinti vestiti, scioperi e caos, i ventisette maniaci della buona condotta, quelli della V/B, andavano al cospetto della Commissione d’esame per parlare di Ungaretti, per spiegare i Patti Agrari, per leggere planimetrie e per progettare un Motel. Ma quali esami, se tutto, oltre le finestre del Righi, ribolliva fino a bruciare? E come, adesso, scrivere di quella vicenda in un libro in cui sarebbe da travasare un intero CD di registrazione piuttosto che mille parole?

    Strano cosa mi succede adesso. Non metto più il naso nel rigo appena finito, non entro ed esco dalle lettere come un clown, non guardo più gli spazi e i ritmi del narrare. La scrittura è quasi impazzita, volge dritta come nave all’orizzonte e non si ferma più. Sto ricordando il mare, il mare che ho vissuto, guardato, sentito, schiaffeggiato, implorato e prosciugato per quanta acqua gli ho rubato in albe mute, nei mattini cotti al sole, nei pomeriggi sudati come me, nelle sere da provetto sub e nelle notti d’afa sbronza. Quel mare mi appartiene. Con questa penna, vorrei prenderlo tutto e regalarlo al lettore. Vorrei aggiungergli colori che non so descrivere e profumi di salsedine attaccata al cioccolato fondente della mia pellaccia. Qui, amici miei, nemmeno mi impegno a trovare le parole. Se voi lo amate, il mare lo conoscete già.

    Bene, è stata lunga l’avventura! Ho viaggiato in piedi nel mio tempo che fu, l’ho abbracciato ed è già scappato. L’ho rincorso senza mai riprenderlo del tutto. E, succede anche ai “grandi”, non vorrei staccare gli occhi da questo oceano di fogli. Vi ho navigato con tutto l’amore che potevo. Spero di non essere naufragato.

*

La prima prova da scrittore l’ho giocata quasi a dadi sul mantello colorato delle parole. Quelle scelte da me hanno strusciato ballerine lungo i fianchi dei ricordi per raggiungere la meta che placa nel guadagno di chi ascolta il cuore. Ecco perché mi vien facile scoprire che prima d’ogni cosa io debba benedire l’energia che ha sorretto questo mio progetto. Negli incastri fortunati del racconto, ho volato sulle ali di un gabbiano raro che ho scoperto con la biro tra le dita. E quella mano l’ho aiutata come mamma col bambino, l’ho piegata come bandiera al vento e l’ho seguita come io la gioventù. Ringrazio, quindi, me stesso e rimando un respiro aperto alla vita, almeno alla mia.[5]

Stesura del 20 Marzo 2006  

*

II Posto al Premio Internazionale di Poesia, Narrativa, Arte  Albatros (2008)

Sezione Narrativa inedita e testo pubblicato nell’Antologia Passioni Edizioni Albatros

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Finalista al Premio Rhegium Julii Inedito e Premio Speciale Città di Reggio Calabria (2008)
 

Note

[1] Viaggio in V classe (Edizioni Il Filo - Prefazione di Pietro Zullino)

[2] Istituto Tecnico per Geometri Augusto Righi – Reggio Calabria

[3] Azienda Municipale Autobus

[4] Giuseppe Saragat

[5] Il brano è tratto dalla pagina dei ringraziamenti (Viaggio in V classe – Edizioni Il Filo)

 

Il cuore di pietra
Al tramonto mancava qualche ora. La strada, in discreta ascesa, risultava gradevole se non fosse per quei marciapiedi troppo stretti. In alcuni punti Simone sembrava uno strambo equilibrista tanto era l'impaccio nel mantenersi ben messo, ritto, per evitare di invadere l'asfalto. Stimolato dal luminoso fine pomeriggio, aveva scelto di fare a piedi l'ultimo tratto.
La provinciale era trafficata. In tanti rientravano verso i propri paesini dopo una giornata di lavoro in città o nei campi giù a valle. Simone aveva lasciato l'auto qualche chilometro prima, in uno slargo sicuro. Lì, gustando un buon caffè, aveva ripassato a mente le indicazioni ricevute da Chiara, una poetessa sua amica di vecchia data. La stessa titolare del chiosco, una tipa pittoresca e sognatrice, gli aveva confermato l'eccellenza del luogo dove si stava dirigendo.
Proseguendo nel cammino, l'attenzione volgeva al paesaggio, agli arbusti sparsi ai margini, alle prime foglie in via di decadimento, a qualche fiore selvatico, alla graduale riduzione della luce del sole. Peccato che, trattandosi di una strada tutta interna alla costa, non potesse ancora osservare il mare. L'aria pulita, fresca e godibile ricordava quella tipica di un amabile metà settembre. La colorazione del cielo offriva un immenso salotto sul quale sostare fino al sopraggiungere di un qualunque sogno.
Tra immagini della natura e romanticherie dettate dal cuore, giunse a una curva a gomito in un punto dove la carreggiata si restringeva. Ascoltò dapprima un brusio, poi le note inconfondibili di una banda e infine litanie, grida d'invocazione e canti intervallati da momenti di silenzio.
Preceduto da un prete anziano e un po' zoppo, il quadro della Vergine Maria era incastonato in una cornice molto larga, illuminata da non si sa quante piccole lampade. Una processione religiosa! Da buon cattolico, Simone fece d'istinto il segno della Croce, la Madonna dell'Addolorata sembrava volesse guardare fin dentro i suoi occhi sbigottiti. Totalmente invischiato in una scena inaspettata, dopo qualche minuto si trovò tra i fedeli al seguito della sacra effige. La stranezza della situazione consisteva nel fatto che centinaia di persone andavano verso una direzione e una soltanto verso quella opposta. Gli vennero in mente i meravigliosi documentari sui salmoni dei mari del Nord, in risalita verso i fiumi.
Intanto che il tempo trascorreva, un crescente nervosismo si stava impadronendo di lui. Pensando alla destinazione finale, doveva - assolutamente doveva - trovare una rapida soluzione per evitare dal caos ma la strada strettissima e nessuna via d'uscita disponibile acuivano le difficoltà a liberarsi dalla morsa. Allungò quindi il passo stando attento a non scontrarsi con chierichetti, bambini, donne, uomini e soprattutto vecchiette. Qualcuna di queste lo guardò con sospetto e un'altra, a mani giunte, gli rimproverò aspramente di non avere alcun rispetto per la cerimonia. Effettivamente Simone rappresentava un intralcio al transito di una moltitudine di gente di cui non era la velocità a preoccuparlo ma l'altissima densità distribuita in lungo e in largo su quel tratto di provinciale.
A una ragazza (quant'era bella!) domandò:
"Sai dirmi quanto manca per il 'Cuore di pietra'?"
"Ah, lo conosco benissimo! Dopo la prossima curva c'è un casolare diroccato. Vai a sinistra e continua lungo il sentiero in terra battuta per duecento metri. Vedrai tre quercette. Guardati attorno e troverai ciò che cerchi."
"Sei gentile e carina, mi piacerebbe conoscerti meglio. Mi chiamo Simone."
"Io sono Enrica. Se vuoi, ti aspetto all'uscita del Santuario."
"Quale Santuario? Dove si trova?"
"Siamo quasi arrivati. Ancora dieci minuti e svolteremo verso il boschetto."
Confuso ed emozionato, Simone fu tentato di mettersi al fianco di Enrica lasciando perdere il progetto iniziale. Decise, però, di continuare il cammino intrapreso. Si scambiarono i numeri di cellulare e la salutò:
"Chissà, magari avremo modo di rivederci, ciao e grazie!"

Per un attimo, ma soltanto per un attimo, riguardò il cielo. Accelerò il passo e, approfittando di una sosta del corteo, sfruttò i varchi liberi per passare. Urtò più volte persone tutte assorte nella preghiera e visibilmente disturbati dalla sua presenza. I minuti intanto passavano, ormai erano le 18,30. Soltanto mezzora per essere puntuale. Da svelto il passo diventò di corsa e lo slalom cui fu sottoposto lo fece quasi sorridere poiché, a dire il vero, non era mai stato un atleta. Le vecchie Superga che portava ai piedi, tuttavia, gli furono di grande aiuto e finalmente raggiunse la fine della processione. Sistemando i jeans all'ombra di un muro di sostegno, guardò indietro per valutare meglio la marea di gente dentro la quale si era, suo malgrado, infilato.
Adesso bisognava soltanto correre. Sudato e nervoso, sollecitò al massimo l'energia e l'agilità dei suoi ventiquattro anni in quella lotta contro il tempo. In certi punti, la pendenza del percorso era assai critica ma non ci fece caso. Tirò comunque un sospiro di sollievo quando finalmente infilò il sentiero in terra battuta. Si concedette qualche attimo per prendere fiato. L'assenza di nuvole favoriva ancora un'ottima visibilità ma l'azzurro del cielo virava già verso toni leggermente rosei. Riprese a volare scansando rami secchi e sassi taglienti. Le tre quercette ora le vedeva. Bisognava soltanto oltrepassarle, cosa che gli riuscì agevolmente per poi trovarsi in mezzo ad un agglomerato di massi disseminati in prossimità di uno strapiombo sul mare.
"Uhm… dove sarà questo cuore? Secondo Chiara, l'avrei dovuto notare subito!"
Si arrampicò su una roccia per avere una visuale migliore. Da lì scorse ciò che andava cercando: il masso si trovava un po' di metri sotto, proprio sul bordo estremo del precipizio. Scese giù prestando attenzione a non scivolare ed evitando di distrarsi alla vista della scogliera. Alla fine, stanco ma soddisfatto vi si sedette. Che pietra strana! Guardandola da vicino, il colore tendeva al rosa e al tatto la sua superficie, levigata, quasi lucida, pareva emanasse qualcosa di molto simile a energia.
Pensò: "Chissà quanti sono venuti prima di me in questo posto!"
Simone sembrava avvolto in una spirale di magia. Di fronte a lui il mare, il cielo e il sole. Si sentiva straricco. Da quella posizione 'unica', lo sguardo attonito assorbiva l'essenza della sua profondità più interiore, l'anima, sì, che a volte si pensa sia soltanto una derivazione psico-filosofica e che invece quel ragazzo dagli occhi neri avvertiva come cosa concreta, un'appendice del corpo legata a muscoli e ossa, al battito del cuore, al proprio respiro.
Il silenzio sposò la scena. Per rispettarlo, qualche gabbiano evitava di battere le ali, le ultime lucertole restavano immobili per non rumoreggiare strisciando, i passeri se ne stavano zitti quasi fossero stati privati del dono del canto. L'unico brusio proveniva da giù, dal mare con il suo costante toccare e lasciare la falesia. Lo strapiombo era inquietante eppure a Simone non sfuggì la schiuma delle onde che si disperdeva tutt'intorno per poi ricomparire in un gioco d'aria e acqua di frizzante sincronismo.
Come quando stiamo sorbendo un cono gelato, piano piano per non privarci troppo presto dei nostri gusti preferiti, allo stesso modo lui sollevava gli occhi, lentamente, quasi col timore di abbracciare troppo presto il mare. Il variare dei colori sull'acqua lo incuriosiva a tal punto da chiedersi come cavolo facesse il sole a contenere contemporaneamente fiamme e arcobaleni.
Man mano che lo sguardo s'innalzava, si sentiva fortunato prigioniero della potenza della natura. Da quella prospettiva, la linea dell'orizzonte coincideva con una retta impeccabile, spezzata qua e là soltanto dalle sagome di navi di passaggio.
Perché tanto stupore? Da sempre adorava il mare e chissà in quante altre occasioni lo aveva già ammirato, alba o tramonto che fosse. Forse l'accorato invito di Chiara "Ti prego, Simone! Non puoi non andare a vedere…" lo aveva condizionato. Oppure, il cuore di pietra sul quale stava ora seduto, quasi ipnotizzato, nascondeva un qualche arcaico mistero?
Nel frattempo il disco del sole, un cerchio che più perfetto non si può, si stava immergendo in quella retta. A Simone ricordò l'intingere un biscotto nel tè. Che buffo!
Il giusto amalgama di aria, luce, vento, colori e correnti sfociava in una nitidezza ottica che non ricordava di aver riscontrato in altri luoghi. Il mare, man mano che l'occhio cercava sempre più il largo, sembrava dirgli:
"Vedi quanto sono calmo?"
Magnetismi, d'accordo, ma urgeva esaudirsi nell'appagante ricerca di quiete. La bellezza assaporata a piccole dosi, gli strillava la certezza di essere più vivo che mai. Infelicità, stress e fatica si allontanarono repentinamente come anche gli angusti locali del Call Center dove Simone trascorreva le sue giornate di lavoro, legato come vittima sacrificale al totem del profitto d'altri.
Fermarsi, fermarsi un po' allo scopo di riscoprire fascino e sedare il vortice della tempesta d'ogni giorno. Fermarsi e, prima di affidarsi al tramonto, usare il linguaggio dei silenzi della mente rivolgendo parola alle nuances in ordinato divenire sull'acqua, alle striature inafferrabili che il cielo incideva, al sole dai contorni così netti e vicini da poter esser toccato con mano.
Peculiarità tanto preziosa quanto temeraria in una società artefatta, la sensibilità di Simone fluiva nel posto giusto al momento giusto. E fu per questo che non si meravigliò, o forse nemmeno se ne accorse, di sentire umidi i suoi occhi. Inzuppato di atmosfere ad alto tasso glicemico, ormai pretendeva che quella straordinaria stella non morisse. E che paura lo assaliva quando, lo sguardo ormai consegnato al Cielo, sentiva di correre il rischio di intravedere parvenze di luna esordire nel "suo" teatro! Per allontanare questo pensiero, viaggiò dentro l'amaranto antico e sui vermigli di riflessi ottici impareggiabili. Intanto, l'orizzonte aveva un tenero sussulto: il sole si offriva a metà, un semicerchio disegnato col compasso, una gigantesca lampara rossa. Simone, sempre più incredulo, ebbe un tenero ricordo per Marcello, un caro amico scomparso anni prima. Fu quel pescatore a fargli scoprire il mare di notte nel corso di una battuta di pesca.
L'ora cominciava a chiamarsi sera e, intenso, il profumo di salsedine saliva dalla scogliera antracite. Sul mare, i tocchi degli ultimi riflessi favorivano il formarsi di un cono di luce surreale all'interno del quale il ballo cadenzato delle onde si apriva e si chiudeva a loro piacimento. Ancora qualche orlo del giorno resisteva ma, come la notte si consegna all'alba così il meriggio lasciava la scena al crepuscolo. A Simone, incendiato dagli impulsi di quelle seduzioni irresistibili, non rimase altro che lasciarsi andare all'introspezione.
Viaggiò a ritmi felpati all'interno della sua vita battendo i sentieri del riconoscimento dei propri errori ma anche quelli dell'autostima e della gratificazione per ciò che di giusto e leale era fino a quel momento riuscito a fare. Svolazzò nel futuro accompagnato dalla fiducia e dalla speranza per una vita, non solo la sua, migliore. Si soffermò molto sul presente perché tutto assorbito dall'incanto del luogo che stava vivendo. Per quanto felice di aver respirato un tramonto speciale e quasi esclusivo, un velo di tristezza lo colse quando, con le ombre della sera, si sentì solo. A Simone mancava l'amore di una donna, l'amore vero. Qualche esperienza e qualche flirt gli avevano lasciato tracce gradevoli, non segni inconfondibili. La visione romantica della giovinezza che stava cavalcando e del domani che era dietro l'angolo, precludeva all'esterno la buona ricezione del suo sentire. Un ragazzo per bene, amante della famiglia e dei buoni sentimenti non ha spazio - pensò - nella giungla del tutto subito e del tutto pronto.
"Non devo demordere! Domani chiamerò Enrica. A volte si potrebbe cogliere un lembo di cielo se solo si alzasse lo sguardo." - si disse.
Quel giorno Simone si era recato al 'cuore di pietra' con la passione di un cercatore d'oro, con l'entusiasmo di un bambino in una caccia al tesoro, con l'amore di una madre che va incontro a un figlio. In quell'Eldorado ritrovò se stesso, la miglior ricchezza per non essere povero del tutto.

Stesura del 28/10/2014

È il nostro presepe che manca
In questo via vai di pastori, nel blu lucido di una carta stellata che fiumi, monti e farina sovrasta, é il nostro presepe che manca.
In prossimità dell’umile grotta si affollano re, speranze, pastori e pie donne. Sono pronti all’arrivo del Bimbo mentre allestita, splendente,è di già la cometa.

Dove siamo, noi, quelli dell’oggi? Siamo appoggiati ai bordi del pietrisco.
Cosa facciamo noi, quelli dell’oggi? Rimettiamo in piedi una pecorella caduta e tra i sassi piantiamo una palma finta.
Poi, quando crediamo che perfetto sia il tutto, qualcuno rabbuia la sala; qualcun altro, al segnale convenuto, infila la spina ed ecco…è la luce che andiamo cercando!

Questa Notte, che Santa rimane,è solo odore di dolci nei pacchi dorati;è una cravatta al petto provata, un cellulare di già attivato.
Il bue e l’asinello, immobili, danno calore a statuine di gesso: magnifiche vesti, stupendi volti che forse però vorrebbero una voce.
Che bravi sono stati i costruttori di questa Betlemme quasi ad Occidente! Peccato non pensino a perfezionarla, intenti come sono a spizzicare ori e bastoni.

Le sette lune

Prologo

Sta sulla scena da principe annoiato. Nei luoghi dove questa storia inizia,è davvero strano. Forse perchéè raramente assente o perché, su e giù per la collina che abbraccia il mare, non mette più a registro i suoi raggi e lungo le scalinate che s'inerpicano nelle traverse invisibili, non reinventa i suoi giochi di luce, il sole si crede di essere indispensabile. I pertugi nelle rocce levigate d'acqua e sale ed anche le sterzate delle grigie pietre alle cento rive, devono sapersi accontentare. É come se a un padrone già generoso si volesse chiedere un supplemento d'attenzione.
Tutto, qui,è bollente come notte fonda d'agosto, impaziente d'alba e sdraiata muta sui costoni della rupe che sostiene il Castello. Poi, al sorgere di quello lì… Scilla nuovamente si veste nei colori del mito latente, si agita al suono di un clacson molesto e poi… sbadiglia. Riprende quindi a muoversi al primo aroma di un caffè in piazza, ai timidi svolazzi d'ampie vesti nere, al netto tocco dell'onda alla scogliera.
La gente scorre lenta, come in perenne attesa, per le stradine di questo paese. La farmacia pullula di stressati dell'estate, di carnagioni troppo rosse, di vecchi che si danno appuntamento all'aspirina cheè finita. Come su di noi le ore, l'acqua scivola inarrestabile sui marmi logori delle antiche pescherie maè acqua sprecata: il pesceè pesce da queste parti! Gli autisti dei pullman di linea vorrebbero sfrecciare per recuperare il ritardo accusato ai micidiali tornanti e invece misurano il margine tra specchietti retrovisori e ringhiere di balconi piegati sull'asfalto. Antiche curve - incredibili U costruite ad arte dagli operai di una volta - e moderne curve - nevrotiche chiappe rosolate giù alla Marina Grande - ricordano a tutti che l'età del tempo non esiste più. A tutti tranne uno.

Capitolo 1

Lo chiamavano pirata per via della bandana, di solito quella delle sette lune stampate su raso amaranto. L'aveva acquista anni prima dalla Elvira, una tipa allampanata, nera come la pece, trucco a tutte le ore, un'ambulante nuova maniera che oggiè qui e domani pure. Ti porterà fortuna per sette anni, gli aveva detto. A dire il vero, da quelle parti la buona sorte continuava a latitare. In più, quell'accessorio era alquanto sgargiante, adatto a un saltimbanco di strada che a lui. Ma a Sandro andava bene. Gli dava un'aria d'altri tempi, da eroe superstite tratteggiato nei maxi album da colorare con i pennarelli. Prendete il Tex Willer del Bonelli, ringiovanitelo di qualche anno, levategli il cappello, la polverosa divisa da ranger e la pistola di mano. Adesso rivestitelo con jeans e maglietta, dategli grandi occhi venati di un pizzico di malinconia, un sorriso per difendersi, un po' di tanto mare, due remi e una barca, una spiaggia, una scogliera et voilà, ecco Sandro!
Lui non si curava granché delle novità. A volte pareva posseduto dalla voglia di far finta che il mondo attorno non esistesse.
Il mondo attorno invece esiste, altro che! Ci corteggia oggi per morderci domani. Ci inchioda sull'atlante come spilli fermacarte. Ci distrae, ci confonde, ci ubriaca. E noi? Noi diventiamo talmente piccoli da non sentire più la pianta del piede, il cavo della mano o i battiti del cuore. All'inizio di questo terzo millennio - dove tutti spendiamo la stessa moneta, compriamo negli stessi supermercati, guardiamo la stessa TV, viviamo sotto uno stesso destino - l'affrettato disegno globale del Belpaese non aveva procurato reazioni di sorta in quel giovane. I ritmi frenetici, i consumi smodati, lo smog assassino, la droga omicida, le nuove strade per raggiungere il successo, la ricerca dell'immagine a tutti i costi e i bombardamenti mediatici della nuova Società, facevano fatica a coinvolgerlo. L'autovelox dell'obbligato progresso economico non registra la nostra corsa. Ci fa sfrecciare oltre. Succede anche qui, ormai, in un Sud che Sandro però non vuole smarrire.
Il nostro Meridione sta vivendo il tempo delle moderne rivalutazioni. A dispetto di talune condanne - l'essere al palo rispetto ai ritmi incalzanti della crescita economica - diventerà sempre di più il ponte, non solo ideale, tra l'Europa e il Mediterraneo. Un mare, questo, che starà pure cambiando nei colori delle sue acque, costantemente solcate dai veloci ferri mercantili e dai barconi della disperazione, ma che tuttavia non modifica né l'assolata geografia che da sempre lo disegna né la storia che racconta al mondo. Di sicuro, mare nostrum non cederà i miti e le leggende che gelosamente nei secoli conserva. Eppure, vista l'enorme importanza degli scambi esistenti tra i Paesi che vi si affacciano, questo mare chiama a voce più alta rispetto a ieri. Spalanca le porte ai veloci traffici delle merci e a quelli - ahimè lenti - delle culture. Esige il risveglio dagli arcaici torpori. Lo sviluppo di questo benedetto Meridione, a più riprese sollecitato ai distratti governi nazionali, ora presume - anzi richiede - più disciplina e più autonomia, legate mani e piedi a una forza motrice propria. Bisogna remare verso gli approdi fortunati del postmoderno. Urge architettarsi imprenditori, manager, poeti, scienziati e navigatori ma… senza spirito d'avventura. Non sembra, questo, il momento della poesia, del sogno, della bellezza. Conta soltanto l'ultimo rigo, quel buon risultato finale senza il quale vali poco, sei irrimediabilmente tagliato fuori. Timido com'è a farsi largo, che almeno l'amore non sia sacrificato alle leggi del progresso!
Sandro non si era accorto del cambiamento. Guardava i telegiornali con incuria, figlia di una perplessità evidente. Imbambolato tra una brutta notizia e l'altra, sfogliava romanzi. Quando mai l'uomoè stato un santo? Le guerre nel pianeta o nella famiglia della porta accanto, le rocambolesche capriole della politica, il calcio violento, il male annidato nei feroci assassini della vita, sono cronache che sanno di minestra riscaldata. Sono troppe, per giunta, e mai alternate a delle buone novelle che pure esisteranno da qualche parte di questo Stivale sempre più stretto. Il pirata non amava cibarsi di veleni, di polverine inquietanti, di morti ammazzati, di terrorismo, di terremoti, di tsunami, di missili, di guerriglie. E nemmeno di spot irritanti, profane epifanie, Grandi Fratelli e falsi reality. Il pirata aspettava tempi migliori, che la bufera passasse e che i macchinisti di turno della comunicazione di massa lo rassicurassero. Al mondo c'è altro, c'é sempre stato altro che non sia necessariamente il buco dell'ozono, i ghiacci che si sciolgono, un meteorite che avanza, la TAV, Al Qaeda. Prima ancora dei capricci, degli eccessi e delle follie, c'è l'amore, la famiglia, il lavoro, la cultura, la tradizione, quel Dio di ciascuno e di tutti, la buona educazione e il vecchio sentire. Invece, l'informazione globale tende a mutare tutto ciò che incontra nel suo cammino. Subdola ma efficace, ridefinisce lo spazio e accorcia le distanze. Modifica il tempo e scompagina gli affetti. I valori universali dell'uomo si ridispongono entrando a far parte di un inedito sistema di convivenza civile che chiede, quando non pretende, di essere interpretato e compreso.
Fortuna che in giro c'è ancora chi non vuole rimanere passivo; non ne ha alcuna intenzione, per quella voglia innata di continuare l'ascolto del cuore e dell'anima! Sognava, Sandro.


Anche di sabato di un fine luglio…

Cielo plumbeo, niente mare… Ore 8,00 di un sabato di fine luglio.

Nel cielo dei Monti Lepiniè tutto uno show. Matasse di nuvole assassine sono in lenta processione e sembra si dirigano verso il litorale pontino. Sì, meglio telefonare allo stabilimento balneare, sono sempre gentili e potrebbero darci notizie più precise.

- Pronto? Signora comeè la situazione lì?

- Vento, tanto vento, mare mosso e poco sole. 

- Ritelefoniamo più tardi? 

- Si, magari la giornata si apre al meglio. -

Il paese, intanto,è più silenzioso del solito anche se mi piace pensare alla grande fortuna avuta ieri sera quando, arrivando da Roma, ho trovato parcheggio vicino la monumentale chiesa, praticamente a qualche metro dalla vecchia casa di mio suocero.

Mi rimetto a letto con la voglia di dormire ancora ed evito quindi il caffè già pronto in cucina. Dopo qualche ora sento borbottare mia moglie:

- Ma lei dice che proprio nonè il caso? Troppo vento in spiaggia? -

Uffa! Aspetto da tanti giorni di rivedere il mare! A me non interessa tanto l’abbronzatura, mi basta accostarmi all’acqua e poi… sia quel che sia. Anzi, i migliori bagni che ricordo li ho fatti sempre sotto una pioggia battente. Pazienza, rinviamo a domani mattina e a Roma si ritornerà in serata, direttamente da Sabaudia.

Bisogna ora organizzarsi, uscire per un po’ di spesa e preparare un pranzetto.

Minaccia di piovere. Fuori dall’uscio di casa, nell’irto viottolo vedo poca gente. Da queste parti sono quasi tutti mattinieri. C’i sono tantissimi anziani, volti segnati da mille fatiche e gambe, però, ancora agili nonostante l’età. Poca la gioventù anche se avrà fatto tardissimo la sera prima, sparpagliata di qua e di là nelle zone limitrofe, appena fuori dal paese.

Giunti al primo bar, quello dove di solito inauguro la serie dei caffè della giornata, resto abbastanza colpito dal perdurare di un silenzio irreale. Che strano, di solito i sabati e le domeniche di questo posto mi risultano più vivi. E poi, che ci fanno tutte queste persone lungo le stradine? Ah, vanno tutte verso il piazzale antistante la chiesa. Ma che succede?

- Cosa c’è stamattina in parrocchia? - chiedo a un passante.

- Ma come, non sa niente? Lei nonè di qui?

- No, ma vengo spesso per qualche giorno di vacanza durante l’estate. -

- C’è il funerale di Valeria, la figlia di Michele, quello del bar che sta più giù, nell’altra piazzetta -

- Michele? Ma io lo conosco! In agosto quando vengo da queste parti vado spesso a quei tavolini. Mi ricordo che fanno anche della musica all’aperto…

- La figlia di Michele aveva 30 anni e lascia due bambini molto piccoli...

- Incidente stradale?

- No, un brutto male… un tumore. In tre mesi l’ha consumata, che disgrazia! -

La notizia mi sconvolge non poco mentre sempre di più in tanti si arrampicano lungo le salite a destra e a sinistra della chiesa per assieparsi di fronte al portone principale. Nonè il paese che ricordavo. Le nubi del mattino volevano forse avvisarmi? Sono in tenuta da mare, calzoncini e maglietta. Decido in un istante di andare dopo, con calma, dal signor Michele per porgergli le mie sentite condoglianze, in agosto, quando tornerò certamente per qualche giorno in più.

Arriva il feretro. La morte mi ricorda cheè esente ferie. Per lutto cittadino i negozi uno dopo l’altro abbassano le serrande. La piazza principaleè invasa da tanti, tantissimi paesani che sono in attesa del triste evento. C’è solo e soltanto mutismo, di quelli che angosciano, e non manca qualche bisbiglio delle solite comari tutto dire. Guardo l’asfalto, quello ancora libero dai piedi di uomini e donne, e penso a quanto meno brucerà mentre l’orologio mi segna le 11.

Col sole a picco sarei già sulle onde ad accarezzare l’acqua, bellissimo… Ma avrei perso un mare di altra natura, quello nero, quello del dolore che si tocca con mano e dell’inquieto riflusso di mille vite avvolte, girate, rigirate e infine incastrate in un punto interrogativo tanto allarmante quanto reale.

Finisce la Messa e la processione si va snodando su dalla chiesa verso la piazza centrale dalla quale poi imboccherà la ripida discesa verso il Cimitero Comunale. Passa davanti a me il feretro, vedo segni di croce dappertutto, povera ragazza. Michele ha lo sguardo spento, cammina a fatica,è un automa. Solo quella figlia aveva… C’è un fiume di gente al seguito: le voleva bene tutto il paese.

Dopo un po’, qualche negozio incomincia a riaprire i battenti. Un po’ di affettato, del formaggio, qualche frutta e mesti mesti si torna a casa.

Passa il mezzogiorno e anche il pomeriggio, L’ariaè sempre meno fresca. A sera mi distendo sotto un albero del bar principale. Sono da solo e sorseggio un caffè bollente. Gli altri tavoli sono tutti occupati da decine e decine di uomini, donne, anziani e bambini. Vedo passare birre, bibite e gelati a non finire. La vita sembra non si sia fermata ma, ancora e purtroppo, tutto si sussegue come in un film muto, come stamattina. Poche chiacchiere e solo qualche mormorio.

Mi godo la frescura cercando di penetrare tanti occhi. Mi piace dare l’età a chi non conosco e a volte lo ringiovanisco di parecchio. Qualche bimbo piagnucola, forse ha sonno. Qualche signore, dall’altra parte rispetto a dove sto io, ha alzato un po’ il gomito.

Mi guardo e mi riguardo i vecchi lampioni intorno al grande piazzale e li confronto con le potenti luci sparate dalle macchine sull’asfalto ormai freddo. Il vecchio e il nuovo riescono a convivere.

Chissà cosa starà facendo Michele?

Mi si avvicina una signora vestita di grigio. Porta con sé un grande vassoio:

- Posso offrirle una fetta di torta?

- Volentieri, l’accetto, ma…

- La prenda, la prenda pure. Domani mattina si sposa la ragazza che abita qua, dietro di lei, in questa casa di cui stanno addobbando la porta d’ingresso. -

Mangio pian piano la mia fetta di torta e qualche pezzetto, a volte, mi si blocca in gola. Per una vita che se ne va, altre forse stanno per venire. Anche di sabato di un fine luglio, la ruota gira…

 – Sabato 24 Luglio 2010

Dialogo col mare
*********************

Ciao, come stai? Una volta, di maggio, venivi a trovarmi spesso…
Beh, erano altri tempi, ero un giovanotto, la casa non era lontana, vedevo il porto dal balcone,
il primo bagno era in aprile.

Sì, va bene, ma non mi hai detto come stai.
Così così…
Il secondo cosìè riferito a carenza di sogni?
No, no, per fortuna quelli non mancano. E' che la vita mi prende, mi fa come scordar chi sono.
E tu sai che devi fare? Alla vita, di' che sei amico mio.
Lo sa, lo sa. Tu, invece, come procedi? Riesci sempre a spumare al meglio?
Mi do da fare.
Oggi sei di un azzurro antico.
Sapevo che tu venivi e allora ho chiesto al vento di assentarsi, di sfogarsi un po' più a Nord.
Quale onore?!
Senti un po', so che scrivi poesie.
E chi te l'ha detto?
Si dice il peccato, non il peccatore. Ma tu, nei tuoi versi, mi nomini?
Altro che!
E come mi descrivi?
Dipende da come io ti vedo.
Vuoi dire da come mi vedevi, forse?
No,no! Da come ti vedo ancora, anche quando sono lontanissimo.
E dimmi ancora un'altra cosa.
Cioè?
Hai mai svelato i nostri segreti? Hai mai parlato dei nostri incontri a sera?
Gelosia?
Non si tratta di questo. Il fattoè che oggi sono altri incontri. La gente arriva qui, un tuffo e via,
assorbe poca acqua e poi si stende a pancia all'aria.
La gente nonè tutta uguale.
In che senso?
Magari ti scarta per la luna, per le stelle, per il sole, per la montagna…
Fosse così, mi andrebbe bene.
Adesso però ti devo salutare.
Non andartene Auré!
La famiglia, la salute, il lavoro, il futuro… Ti prometto che ritornerò.
Io sono qui, io sono il mare. Appena sarai giù per il sentiero, io ti riconoscerò.
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Mi avvio guardando un po' la sabbia avanti e, tanto, l'acqua indietro. Mi pare che le onde si stirino proprio come me quando al risveglio distendo braccia e gambe. E' solo, forse, un'impressione. E' la tenera coda del sogno nella realtà.
Son già sulla stradina e i primi rumori mi rammentano dové che son diretto.
Spedisco gli occhi al cielo e dopo, quando me li riprendo, si posano sul primo fianco della collina. C'è un salice che non piange.
*2009

Il ministro
Buondì! E’ un fatto inconsueto che io sogni. Non resisto, quindi, alla tentazione di raccontare ciò che in questa notte d’afa ho vissuto.

Ero ministro e nel palazzo stavo ricevendo una folta rappresentanza di cittadini per l’anniversario del mio insediamento. Finito di parlare con un allibratore e sazio delle ripetute richieste d’aiuto che da ogni parte mi arrivavano, decisi di rompere gli indugi per avviarmi ai miei manicaretti miei preferiti. Il pranzo di gala, sempre servito da donzelle ben selezionate, stava per avere inizio. In più, quel giorno, la principessa Fedra era mia ospite. Veniva dall’ormai vicino Oriente e la ricordavo come una nuvola rosa e sufficientemente profumata per far perdere la trebisonda anche al più accanito amatore del terzo millennio. Devo ammettere che la prima volta che l’avevo vista, di sfuggita ad una visita diplomatica, ero rimasto colpito dalla perfezione delle sue forme. Avevo tentato, anche, d’avvicinarla di sguincio, così come si fa da ragazzi quando si provano tutte ma proprio tutte. Epperò, anche i ministri fanno fiasco, no? Adesso, l’idea di mettere a registro quella splendida immagine non era più una speranza, era una necessità.
Avevo quasi raggiunto l’uscita del Salone dei Fichi Secchi quando, con passo energico, vidi avvicinarsi una stracciona dell’era moderna, una di quelle incluse tra i “poveri in giacca, cravatta e tailleur”.
Accipicchia che petto! pensai, senza preoccuparmi del tempo che mi avrebbe fatto perdere.
- Eccellenza, non badate all’apparenza. Fino a poco tempo ero una tenace impiegata presso il suo Ministero. 
- Perbacco! E adesso non lavora più?
- Chiedetelo al mio dirigente, forse Voi lo conoscete. Quello lì mi ha rovinato.
Per un attimo fui distratto dal grigio del cielo che le grandi finestre facevano intravedere.
- Come si chiama?- le domandai.
- Fabiana Scolli
- Veramente…mi riferivo al nome del suo dirigente. Fabianaè uno dei miei nomi preferiti. Viene da Faba, fava…
- Il dirigente in questioneè il dottor Andrea Provello, esempio di statale perditempo, un calcolatore dei respiri altrui. Sapete che faceva quando veniva in ufficio? Mi staccava dal solito odioso file, ero addetta all’immissione dati, e si collegava al sito… Lasciamo perdere, Eccellenza!
- Se ricordare non le procura imbarazzo, vada avanti ma faccia in fretta.
- Se sono andata in rovina la colpaè di quel bell’imbusto da diporto.
- Stringa! Sono stanco e ho fame. Anche i ministri pranzano, lo sapeva?
- Lo so, lo so che anche i ministri mangiano... Insomma, mi costrinse a vedere un video porno e non si accontentò. Chiusa la porta a chiave, abbassò le tapparelle e…
- E…?
- Mi prese con una ferocia inaudita; le peggio cose!
- E lei?
- Io mi difesi come potevo. Provai col portapenne di vetro che lui stesso mi aveva regalato ma, senza alcun successo. Alla fine, disperata, afferrai il fermacarte di metallo, a forma di stella, che lui stesso mi aveva regalato, e lo colpii al torace. Risultato? Sarei stata io a provocarlo, ha capito?
Ormai si era fatto tardi. I miei collaboratori cercarono di allontanare l’avvenente signora ma io mi opposi. Sottovoce, la invitai a tornare con calma in visita privata promettendole un mio intervento per il recupero del posto di lavoro. Quando l’ebbi congedata, due erano le priorità:
1) Raggiungere Fedra nella sala da pranzo per domandarle se navigava in internet.
2) Dare precise disposizioni alla mia segretaria per l’acquisto di un fermacarte, possibilmente d’oro e rigorosamente senza spigoli.
Ah, che mestiere quello del ministro!

Un'alba
Cap. 33 (tratto da VIAGGIO IN V CLASSE - Edizioni IL FILO)

Natale era alle spalle. Della Messa di mezzanotte, come ogni anno, mi rimaneva in testa una scena su tutte. Mentre un Bambino nasceva, altri morivano di sonno tra le braccia dei genitori che li tiravano su, sempre più su, perché guardassero l'altare del Duomo e l'Arcivescovo che celebrava; altri ancora, i più piccoli, resistevano sotto montagne di lana che dovevano coprire ogni possibile spiffero nel caldo atroce di carrozzine mai ferme.
Di quei giorni di festa, nel cuore ristagna la felicità per avere avuto con me la famiglia al completo. Nel palato resistono i sapori dei succulenti piatti delle feste, preparati con amore, e le chiacchiere dell'associazione culinaria formata da mia madre e dalle sue sorelle. Nel naso rimangono attaccati gli odori del sempre qualcosa da cuocere, dei soffritti e delle crespelle con le alici e resistono, ostinati, i profumi di brodi, salse, arrosti, agrumi, fichi secchi, pignolate, panettoni e canditi. Nelle orecchie perdurano gli strilli del sette e mezzo e i boati di un terno da dividere con qualcuno della tavolata, privata del suo bianco Natale dalle scorze di mandarini e borlotti, sparsi a pioggia tra l'immancabile Strega, l'oro e l'argento dei torroncini da rubare e i colori delle cartelle che nessuno aveva scelto. Negli occhi ancora brillano le barbe dei Babbi Natale, le grotte, le stelle e le comete delle carte dei regali, aperti pian piano dallo stupore di chi man mano li riceveva: piccole cose, grandi momenti mietuti scartando la baldoria arginata fino ai pitrali¹ e al caffé. Ed il presepe, con i Magi spostati e rispostati sulla cristalliera, nel loro cammino verso Gesù...
E l'albero, col parapiglia degli addobbi filanti, incastrati mai una volta sola tra le palle grosse in basso e quelle man mano più piccole verso il puntale sempre storto... E la mia gente che luccicava anch'essa...
Di quel Natale del '69, altro ancora tengo con me: un'alba, una barca in avaria ed un loden verde.
¹ Dolci calabresi con ripieno di fichi secchi, mandorle, noci, frutta candita e uva passa.


Un'alba


Con i risparmi che giungevano da Roma e le mance natalizie benedette, avevo racimolato una somma che consentiva di togliermi uno sfizio. Le volte che, davanti alla televisione, seguivo le storie d'amore raccontate nel bianco e nero dei film americani, pensavo a quando, anch'io, avrei cenato con "lei" a lume di candela. Chissà, mi vedevo uomo bello e interessante, meglio se seducente, nella forma definitiva che avrei voluto avere da grande. Senza candelabri d'argento, tovaglioli di pizzo e nuvole di rose rosse, avrei fatto a meno anche di maggiordomi con livrea e di musiche soft diffuse da un vecchio grammofono, nascosto chissà da quale parte. Mi sarei accontentato di un cameriere almeno attento e di un tavolino tondo, apparecchiato per due sotto le vetrate di un ristorantino panoramico. Nella mia scenografia, però, avrei vantato la vista del fumo in una bolla, sospesa sulla cima di un vulcano, e quella di mille luci siciliane che, con un pizzico di buona sorte, diventavano duemila nel mare quieto della sera. Tra frutti di mare e champagne italiano, avrei riversato il mio scontato realismo in una rappresentazione ingenua che avrebbe ricordato le innocenti movenze dei bimbi nei Carnevali allestiti nella mia sala parrocchiale.
Con chi dividere il piacere di un primo recital, capace di farmi sentire proiettato ben oltre le mie diciannove primavere? Lo so, la compagna ideale sarebbe stata una donna innamorata del suo innamorato ma, anche allora, non si poteva avere tutto dalla vita. Insomma, ancora non sapevo se era in me e con me l'amore din don dan che giorno dopo giorno riempivo di tasselli di pietra, tagliati con punta di diamante. La praticità dirompente di Sabrina ed il volo schiacciato sul suo tempo, infatti, frenavano la certosina ricerca di una dimensione soave, l'oasi ferma e resistente nella quale cristallizzare i miei sentimenti. Non ero innamorato di lei! Non era sufficiente il frizzante splendore che mi aveva investito? Ed il sapore violento della sua pelle sincera? Cosa andavo cercando ancora?
Cercavo le parole non dette. Sabrina esprimeva bellezza come fosse esposta, muta, in una nicchia degli Uffizi. Io volevo darle uno stile. Nel corpo e nell'anima di chi viveva distratta e senza filtri, libera dai fili che via via le stringevo attorno, cercavo uno stile. Sabrina era meglio di me! Aveva colto nel segno di un'età da piegare al vento dei bisogni immediati e non di quelli differiti; lungi da lei le luci e le ombre del domani con cui giocavo d'anticipo! Ecco perché tardava ad innamorarsi dei miei occhi scuri di un mattino complicato. Sperava che, Roma o Reggio, il suo ambizioso Aurelio la smettesse di divorare le cadenze del tempo e rientrasse con i sogni nel disordine e nell'ovvio di una corsa di gioventù da placcare in un rude abbraccio e senza confonderlo per un addio.
Sbattuto come un uovo dalla frusta dei pensieri, organizzai l'incontro nei minimi dettagli. Per l'insolito evento, Sabrina aveva risolto la sua libera uscita con l'aiuto prezioso della cugina Concetta: quella notte avrebbe dormito a casa sua, a Pentimele. Prenotai un tavolo al Vecchio Frantoio, un locale nella zona più a sud della città, dove il Tirreno incomincia a chiamarsi Ionio. L'ora concordata, raggiunsi la mia lei a piazza Duomo. Se ne stava sotto una pensilina del capolinea degli autobus. L'ammirai a lungo. Tentativi d'eleganza nel completo e nel soprabito neri non ripulivano del tutto la sua aria sbarazzina: capelli sciolti, pochissimo trucco e profumo di talco. Solo lo stupendo foulard, disegnato a spine di pesce, confondeva un po' le idee. Io, aprivo e chiudevo il giaccone di velluto a coste strette per dar risalto al tutto nuovo col quale mi ero abbigliato: camicia cielo, vestito blu e cravatta mare. Forse avevo esagerato... Per fortuna, mi guardò:
"Caspita, sembri uno sposo!".
Prima di salire sul 12, la baciai per quel tanto che sentisse il nuovo dopobarba arrivato da Roma.
Al Vecchio Frantoio, fummo accompagnati al tavolo dal cameriere che c'era stato affidato. Meno male, era uno sveglio! Trovai una candela infilata nel collo strettissimo di un piccolo vaso di vetro e la feci accendere. La rosa che avevo richiesto alla prenotazione era fresca e soprattutto rossa. Le posate, i bicchieri e le salviette erano stati ordinati in maniera gradevole ma i sottopiatti li avrei preferiti di peltro. Controllai la posizione rispetto al basso davanzale della finestra e fui soddisfatto del colpo d'occhio che offriva. Mi sembrò tutto in regola e accarezzai l'ipotesi secondo la quale, in simili frangenti, un incontro romantico riesca delle volte ad accendere un amore nuovo piuttosto che alimentarne uno usato.
Il vino era buono, talmente buono che passammo ben presto alla seconda bottiglia e poi alla terza. Peccato che la frequenza delle portate fosse troppo svelta: Sabrina era frettolosa pure nel mangiare.
Evidentemente, avevo curato male la sceneggiatura dei tête à tête se solo in rare pause sussurrammo qualcosa:
"Embè? Roma? Cosa dicono i tuoi? Parlami di Roma!".
"Non mi va, ora".
"Diventerà la tua città, abituati".
"Ancora non loè".
"Altri, al tuo posto, pagherebbero chissà cosa per andarci".
"Anch'io pago... Possiamo parlare d'altro? Tu, Sabrina, chi sei?".
"Sono una ragazza fortunata, a cena col mio ragazzo matto che spende e spande per dimostrarmi l'amore che già so".
"Ti piace qui?".
"Pensi che questa serata mi stia dicendo cose nuove? Le linguine all'astice, comunque, meritavano una visita".
Sorseggiava vino continuamente:
"Voglio stare tra le tue braccia!".
Il suo bicchiere non aveva pace.
"Ti voglio bene, Aurelio".
"Fino a luglio... e dopo?".
"Boh?!".
Mi avvicinai alla sua bocca, facendomi scottare dalla fiamma della candela. Fermai i suoi occhi ballerini e sfiorai le sue labbra:
"Mi ami?".
"Che parole! Sto bene insieme con te".
"Odio questa frase. Voi ragazze la usate quando avete paura d'essere chiare. Che male c'è nel dire ti amo?".
"Per teè facile esprimere certe cose. Poco fa, guardando una chela, hai detto che ti sembrava una baia di sabbia rossa. Ma ti rendi conto? Come cavolo fai?".
"Pensieri, sensazioni che diventano parole.è bellissimo, sai".
"Quando ti pare, però. Da te, così abile nell'aprire il tuo cuore e quello degli altri, non ho mai sentito che mi ami. Sono forse un caso difficile?".
"Vorrei dirtelo, Sabrina. Vorrei tanto dirtelo...".
"Che cosa aspetti? Devo solo immaginarlo?".
Ma non era determinante, per lei.
Uscimmo in strada. La sua briosità mi contagiava. Non era molto tardi, appena le 22 diceva un Viktor prestatomi da mio padre. Con lei non poteva essere diversamente e, ora che l'alcool la stava confondendo, ogni sua cosa m'appariva vera due volte.
Arrivati a Pentimele - sull'autobus l'avevo eccitata - non voleva andar via:
"Portami a mare, ti scongiuro! Devo camminare sull'acqua... ".
"Fantastico! Informo subito il Vaticano. Tu, carina,è meglio che avvisi subito Concetta".
Dopo la lunga telefonata dal bar della Esso, imboccammo il cavalcavia per raggiungere il "mio" lido:
"Per fortuna che ho con me la chiave della cabina. Fa un freddo...".
"Ti ho detto di portarmi a mare, non a letto".
Sulla spiaggia, deserta come la luna, sdraiammo le cazzate a raffica dentro e fuori il confine del mio mare. Le nostre risate, un diagramma di suoni impazziti, saltavano folli sui tetti delle baracche, giravano larghe intorno ai pali della luce, volavano tonde sui granelli di sabbia e brillavano di verità sulla superficie dell'acqua. Le mie, di risate, le davo in prestito alle onde lunghe e basse per aiutarle ad essere più rumorose e attutire il clamore della felicità che provavo. Ed intanto, sul tutto nuovo che avevo addosso, sentivo il fresco tocco del mio ultimo Natale a Reggio. Mamma mia! Quante infinite volte su quello stesso beige avevo rotolato nude le braccia, le gambe e la schiena e strofinato al caldo la pancia e il petto, seccando l'acqua goccia a goccia! Ed era stato bello. Adesso, lindo, incravattato e brillo, mi scoprivo uno yo-yo legato all'umido dei miei e dei suoi capelli. Ed era ancor più bello. Guai a dire che il mareè bello solo d'estate!
Il mio giaccone non era eccezionale. Buttato sulle spalle di Sabrina, la proteggeva poco poco dal freddo. Entrai nella 23. Spostai ombrelloni, sdraio, maschere e pinne per fare spazio ad un lettino che voleva gonfiare lei. Che buffa! Più che il piede, sulla pompa spingeva l'ebbrezza di un nuovo far niente nell'attesa di coinvolgersi tutta nel tutto.
Com'eravamo stanchi... Ci coprimmo con quanto fui capace di rimediare tra asciugamani carta vetrata e tovaglie di plastica: un gran casino per produrre tepore quando, da soli, i nostri vestiti bruciavano al solo contatto dei tessuti. Ci spogliammo, quindi, anche di quelle delicate attenzioni e ci consegnammo ad un freddo pungente che rendemmo non credibile, anzi fesso, col calore dei nostri corpi. Come e per quanto tempo, non ricordo. Ai lettori più impiccioni e alle lettrici più pettegole dico soltanto che usammo il criterio della qualità.
Alla fine, spossati dal vino e dall'amore, ci addormentammo profondamente…………......................

"È na mola, na mola!".²
"Non dire fesserie. Un pesce luna, ma quale pesce luna...".
"Ti ricu chi era na mola. Prestu, pigghia u motori!".
"Il 15 cavalli?".
"Ancora cà, sii? Eh, malanova, curri, si nno nda pirdimu! Ti spettu nta l'acqua".
Nella furia di rivestirsi, Sabrina, ormai, aveva finito di calpestarmi tutto:
"Cazzo, com'è tardi!".
Mi baciò il collo e sparì, le scarpe e la borsetta tra le mani e le spine di pesce che strisciavano per terra.
Le prime luci schiarivano tutto, anche i contorni del pescatore che nell'acqua bassa teneva ferma la piccola barca. Un po' vestito e un po' no, con le tasche a sventola che vuotavo dai granelli, mi diressi verso di lui. Non l'avevo mai visto. Tutto era nuovo in quel momento! Con i piedi neri mi schizzò i pantaloni:
"Comu iu? Iu bona?".
"A meraviglia!" risposi assonnato.
"Chi pezzu i figghiola...".
Si allontanò col suo amico. Andavano al largo a trovare il pesce luna.
M'inginocchiai per girare tra le dita un minestrone di pietruzze colorate, leccate dalla lingua delle onde. Col sole forte del mattino, quei sassolini sarebbero diventati brillanti, tanto brillanti da ingannare i primi fortunati che li avrebbero raccolti. Quell'alba era con me. Era stata la prima, a svegliarmi con una "lei" accanto.
² È un pesce luna, un pesce luna!

La politica, questa sconosciuta
Bella la gioventù! Loè soprattutto allorquando egoisticamente pensiamo che i nostri figli siano migliori degli altri, quando li vediamo fuori del branco o nei momenti, anche se rari, in cui poggiano gli occhi su un testo scolastico. E così li ammiriamo come comete folgoranti, magari gli sistemiamo ben bene il ciuffo o prepariamo loro l'agognata carbonara.
I giovani non sono tutti uguali, non lo sono mai stati, almeno secondo l'interpretazione che insistiamo a dare del "bravo figliolo". I ragazzi e le ragazze che di questi tempi vediamo sfrecciare come bolidi o sostare come lumache lungo i marciapiedi delle città italiane, portano -è vero - draghi improbabili sulle loro magliette, slip colorati e rigorosamente a vista, anelli e metalli poco sapientemente distribuiti, tatuaggi soprattutto sui bicipiti, i maschi, e sulle natiche, le femmine. Ma, ahimè, portano anche solitudini da interpretare. Quelli che, con una punta d'invidia, guardiamo entrare festanti nelle discoteche e uscirne inebriati, quasi avessero là dentro raggiunto il cielo tra un cd e l'altro del mitico dj di turno, a cosa pensano? Quegli altri che, con altrettanta punta d'invidia, vediamo patire il peso di zaini zeppi di libri informi, di tormentati quadernoni, di merende impinzanti e floppy e dischetti eternamente senza custodie, e bambole, bambolotti e amuleti, quasi rifiutassero per principio di raggiungere tra una lezione e l'altra qualunque piano basso dello stesso cielo, a cosa pensano? I musi calanti delle loro facce - opache promesse degli uomini e delle donne che diventeranno - dipendono solo dalle loro insoddisfazioni personali? Si formano soltanto per l'ennesima litigata dei loro genitori? Si piegano, quei musi, solo al terrore nascente dall'imminente interrogazione fatale? Si cristallizzano per la mancata occhiata del ragazzo o della ragazza che hanno mirato giorni e giorni? Oppure, c'è altro che i grandi non scrutano? Vuoi vedere che c'entra anche questa benedetta Società del progresso, del benessere a tutti i costi, dell'usa e getta tutto? Vuoi vedere che c'entra anche la politica, sì la politica, da cui questa stessa Società dovrebbe essere regolata, controllata, quando non migliorata?
Giovani e Palazzo, giovani e Istituzioni: chi ci pensa? Mi chiedo, ogni tanto, quale amore per la politica potrà nutrire certa parte delle nuove generazioni se già non lo nutre per la famiglia, per un'alba o un tramonto, per la voglia di fare poesia o per altro ancora. Per quelle frange,è una politica che spesso viene coltivata con atteggiamenti esasperati, il pugno al cielo piuttosto che il saluto al duce, per elemosinare accettazione sociale in una fase, l'adolescenza, in cui l'insicurezza fa da padrona. Vedono l'arte del governare soltanto come menù di ideali stereotipati e svuotati del loro senso (i classici comunismo, fascismo e anarchismo), per i quali si tifa come lo si fa per squadre di calcio, accostandosi ai generi musicali e alle mode giovanili nelle solite combinazioni e nel tentativo di costruirsi un'identità. Siamo, però, certi che la colpaè solo dei giovani?
Di un linguaggio addetto ai destini più che ai lavori, se ne sente il bisogno, e non solo tra i ragazzi italiani. Coloro i quali svolgono ruoli cui sono stati destinati dal proprio elettorato, parlano, parlano, parlano… Lo fanno nelle aule parlamentari, nei salotti ovattati del potere, nelle piazze italiane e nelle radio e televisioni locali e nazionali. Cosa dicono? Narrano sempre di un Paese cheè eternamente da sviluppare. Declamano disegni di legge sempre in gestazione. Gridano solidarietà ed immigrazione. Urlano integrazione europea, laicità dello Stato, DICO, Federalismo, Tesoretti, tasse che vanno diminuite e buona previdenza non più prorogabile.
"Papà, io non sento altro che opinioni ed invece voglio fatti. Fatti che seguano idee, che siano facilmente riscontrabili e soprattutto alla portata di tutti." E', questa, una frase ripetitiva che sento spesso dai miei figli. Io, i miei figli, li vorrei avvicinare alla politica sana, quella, per intenderci, intesa come arte propedeutica alle buone sorti nazionali. Peccato che, quandoè il turno di questo o quel ministro, di questo o quel parlamentare, i ragazzi mi girano le spalle per dirigersi su internet o alla play station. "Che noia, le solite facce, le stesse promesse, i giri di parole!", la chiusa.
Guardiamoci attorno. Dopo la caduta del muro di Berlino, da includere (intendo la caduta di quel muro) tra le 7 meraviglie del mondo, la cultura delle ideologie, anche di quelle giovaniliste, ha subito una frenata. Nell'accezione tradizionale di chi giovane loè già stato, il fascismo, il comunismo ed il centrismo, inteso quest'ultimo come ago che modera ogni deriva estremista, stabilivano adeguamenti culturali e precisi ideali capaci di dividere il Paese in larghi spicchi e tuttavia di renderlo vivo e operante. Aveva senso, voglio dire, dichiararsi di destra, di sinistra o di centro per quella sorta di odiosa eredità della politica che la tragedia della guerra aveva depositato nelle case e nelle famiglie italiane, pesando le differenti esperienze.
In una costituenda convivenza democratica, degna di uno Stato che il conflitto mondiale lo ha conosciuto nella sua piena interezza, tutto poteva procedere a favore degli obiettivi di civiltà e di stabilità sociale. Tale percorso, lo sappiamo bene scorrendo le pagine amare del virus terroristico nazionale rosso e nero, subiva però ed inevitabilmente delle soste forzate che rallentavano non poco le prospettive prese a riferimento. L'Italia coriacea, operosa, libera e pensante alla fine ha goduto ugualmente di decenni importanti, dei benefici delle tecnologie d'oltreoceano, delle fondamentali scoperte scientifiche, del boom economico e della crescita cercata a tutti i costi.
Oggiè un po' diverso. La novità "Europa" (ma non esisteva anche prima?), lo spettro del terrorismo del terzo millennio, gli agghiaccianti bollettini del clima che cambierebbe il pianeta, i nodi venuti al pettine di un forzato benessere, hanno fatto in modo che classi dirigenti e classi politiche si moltiplicassero a dismisura. Questoè il punto. Come posso, io diciottenne e già incastrato nell'andazzo del precariato e nel caos dei valori di riferimento, districarmi in una Società troppo spezzettata nelle linee guida laddove relazionarmi? Nonè poi così difficile aggiungere a tutto ciò l'incomprensibile linguaggio che da quelle postazioni adoperano. Non ci si venga quindi a lamentare del poco fascino che un'arte pur nobile come la politica riesce a suscitare in giro, soprattutto nei ragazzi..
Prendiamo ad esempio i partiti politici e soprattutto le loro articolate denominazioni.
DS (Democratici di Sinistra): mi domando seè giusto che la democrazia e quindi la sovranità dei cittadini debba essere trascinata di qua e di là come un pacco postale, tirata per la giacca come panacea o alibi degli intendimenti programmatici utili al consenso.
La Margherita, invece, aveva ereditato, insieme con altri nuovi partiti geneticamente di centro, la vecchia DC consumata da Tangentopoli.
Oggi nasce il PD (partito democratico) come sintesi di due esperienze e percorsi fino a qualche anno fa contrapposti. E poi, perché democratico? Non dovrebbe essere tacito che lo siano tutti in questo Paese? O gli altri schieramenti parlamentari sono soltanto accozzaglie di minacciose guarnigioni pronte a sovvertire l'ordine costituzionale?
Nella scena politica nazionale, da più di dieci anni esiste Forza Italia, splendida invenzione fonica degli esperti della comunicazione mediatica. Il suo nome lascia facilmente intendere la priorità del proprio elettorato all'incoraggiamento e al sostegno del Bel Paese che deve crescere. Va bene, ma gli altri partiti hanno nei loro statuti norme, articoli e commi pronti a remare contro quello stesso Paese?
Pensando poi ad AN (Alleanza Nazionale) e riflettendo un po' sui due termini, non sono convinto del fatto che l'unità italica, il senso della Patria, appartenga solo e soltanto al dna di un unico schieramento politico.
Procedendo nell'excursus delle nomenclature, la sigla UDC (Unione Democratica Cristiana) parrebbe una ripetizione di qualcosa già visto, differenziandosi dai concorrenti cosiddetti moderati per una diversa posizione nello scacchiere del bipolarismo.
L'IDV (Italia dei Valori)è un intrigante gioco di parole combinate egregiamente ma scontate, poiché a pensarci bene i valori sono universali e appartengono a tutti indistintamente. E' una sigla azzeccata, certo, ma non smentisce la confusione che si genera in chi si accosta per la prima volta alla politica italiana.
UDEUR (Unione Democratica per l'Europa) ricalca un patrimonio di programmi che danno l'idea d'essere uguali tra quelle forze cattoliche che si richiamano alla scuola di De Gasperi e di don Sturzo.
La Federazione dei Verdi, nata sulla scia d'una crescente sensibilità ecoambientale, porta con sé contenuti che possono essere nell'agenda di altri partiti. Partito dei Comunisti Italiani ()
Escludendo certe forze politiche (Lega Nord, Partito della Rifondazione Comunista, Partito dei Comunisti Italiani) che nel loro stesso nome sintetizzano, almeno e immediatamente, una posizione precisa, una collocazione resistente al declino delle ideologie, ecco quindi che quei nostri giovanotti, di cui parlavo all'inizio, rimangono spiazzati. Presumo che, al momento del voto, nel silenzio della cabina elettorale avranno dei guai. La libertà, si sa,è sempre sulla bocca di tutti, basta seguire uno dei tanti talk-show televisivi frequentati da onorevoli e senatori. Il progresso della civiltà? Non lo rifiuta nessuno, basta assistere ad un qualsiasi comizio. La crescita economicaè ormai una caricata esigenza per tutti e di tutti i ceti sociali, a differenza di quanto accadeva un tempo, quando operai ed impiegati si guardavano in cagnesco per via del diverso peso retributivo. I rifiuti ammucchiati per le strade di Napoli non piacciono a nessun partito, nemmeno a me. La pressione fiscale pure, così come la delinquenza nelle città italiane.
Dicono, allora, tutti quanti le stesse cose? E, se così fosse, perché sono frazionati, divisi, lontani, tranne quando si tratta di combinarsi in un ampio ventaglio da sventolare tutti insieme dagli scranni del nostro Parlamento?
Oggi, se i miei 56 anni subissero un taglio molto consistente, non saprei come orientare le mie scelte. Mi sentirei confuso all'interno delle mie Istituzioni e trascurato dal mio Palazzo. Io sento impellente il bisogno di avere nel mio splendido Paese due schieramenti: conservatori e progressisti. I riformisti non avrebbero di che lamentarsi. Si può, anzi si deve, dare linfa e coraggio a tutto ciò che migliora la vita dei cittadini sia intervenendo su norme e regole già esistenti, sia adottando, non solo blaterando, provvedimenti legislativi che tengano conto dei bisogni moderni.
Credo perciò che le tristezze dei nostri giovani (una generazione che potrebbe avere uno scatto d'orgoglio tutto suo se solo accendesse il lume della ragione al posto dello spinello) riflettano in parte le preoccupazioni di noi adulti. La politica, per una volta, faccia un passo indietro e si offra trasparente e complice alle aspettative delle classi dirigenti di domani. Si faccia capire, voglio dire, già dai suoi primi approcci. Spanda nel singolo, nelle famiglie, nelle scuole e nelle aziende la comune matrice del sano esercizio della libertà e della democrazia. Vada incontro ai ragazzi del 2000 inculcando loro il seme della ritrovata educazione civica e della partecipazione collettiva alle sorti dello Stato cheè da sentire, da amare, prima ancora che da interrogare.
Il futuro, qualcuno mi ha insegnato, dipende sempre da ciò che stai vivendo ora, dalla tua capacità di svincolarti dalla piatta omologazione che a volte inganna.
-Articolo pubblicato il 7 agosto 2007 sulla Testata Giornalistica del quotidiano on line www.quicalabria.it-

Zone d'ombra inesplorata
Quando, nell’agosto del 1970, raggiunsi la mia famiglia a Roma, mi mancò il mare. L’avevo ammirato ancora una volta da un Espresso antipatico, il naso sul vetro come francobollo sulla busta. Racconterò quindi questo viaggio che nonè mai finito, che offre, oggi come ieri, quelle che io chiamo zone d’ombra inesplorata.
Quella mattina ero da solo. Lo scompartimento, spartano ma accogliente, aveva requisito i silenzi, i colori e le forme dei ricordi che mi portavo dietro. Il brontolio del treno non era credibile per me che stavo annodando gli ultimi fili di un Sud che lasciavo. Con esso, mettevo in archivio i miei 19 anni, il fiammante diploma da geometra e 26 compagni di una scuola generosa. Alla Stazione Marittima, Reggio era già sveglia da un bel po’. Assolata, nervosa, principessa rassegnata come solo lei sa essere, si poneva i problemi del sempre. Capoluogo o no, la città da cui mi stavo congedando pareva pregarmi di non dimenticarla. O ero io che speravo si ricordasse di me?
Guardai il porto delle mie prime prede, il luogo preferito del mio calare e tirare lenze dallo scalino meno massacrato d’una scaletta ricavata lungo i fianchi neri della banchina a monte, lo stesso specchio d’acqua e sale scrutato ogni giorno dalla terrazza condominiale di Via Italia. Ebbi un segno di stupore. L’acqua era più piatta del solito, i piazzali polverosi più deserti, l’aliscafo abbagliante sotto il mezzogiorno. Infilai i miei occhi scuri fin dentro i ponti d’una nave traghetto, li spinsi a più non posso all’interno del salone bar e per un attimo mi scottai con gli arancini impossibili.
Dalla baia di Pentimele, il treno già correva troppo, la vidi diventare sempre più piccola, quella nave, sempre più lontana come punto di vela in mezzo all’oceano. Mi vennero in mente le improvvisate uscite in mare con un amico pescatore, le sue manie del “posto giusto” da trovare, la mia magnifica impazienza di pescare.
A Scilla decisi di scendere, troppo presto per uno con destinazione Roma. Marina Grande era ora immensa, troppo immensa quando vuoi abbracciarla per l’ultima volta. Valigia in mano, mi diressi a Chianalea e sostai una volta e poi due e poi tre davanti agli archetti che s'aprono ai lati della stradina parallela alla linea di camminamento della riva. In quel modo, i pezzetti blu del Tirreno, seppure spezzati dalle opache vernici delle barche, diventavano tascabili. Poi, raggiunsi il borgo antico marinaro e salutai Peppe, la sua signora e i suoi ragazzi a piedi nudi. Non era uscito con il gozzo, aveva ancora febbre alta, ma soffriva la mancanza del mare più che la stupida influenza. Ricordai con lui la notte magica della Costa Viola, guardata e riguardata dalla sua barca a meno di dieci metri dalla costa e in compagnia della vecchia lampara gialla. Gli rammentai di una volta, d'una murena maledetta che lui buttò nel ventre della Nina per farla un po’ ballare e mettermi paura.
Quando alla fine girai le spalle per andare incontro all’altro treno, dimenticai i bagagli e ricordai il futuro.
Una famiglia di Paola mi fece compagnia per un po’. Andavo a Roma,è vero, ma non sapevo come rispondere alle tante domande che mi venivano poste. Parlai loro della mia città, intendo Reggio, e quasi mai del Colosseo o del Quirinale. Eppure, entro poche ore ancora, avrei raggiunto l’Urbe, le sue bellezze, il suo traffico, le sue mille contraddizioni e la mia unica famiglia. Tutti mi aspettavano, le braccia aperte verso il domani.
Oggi, che quel domaniè giunto, io sono ancora distratto come quel giorno a Chianalea. Non dimentico più borse e borsoni, dimentico da ormai trentasette anni il nuovo mondo che mi ha accolto. Chissà, forseè colpa dei vent’anni, delle speranze che hanno avuto il solo torto di nascere in una terra sfortunata. E’ solo colpa mia, del credere che sarei dovuto rimanere in quella via Italia per assistere al cambio degli asfalti, all’apertura di negozi, alle processioni del nuovo millennio o ad altro ancora.

Concorso letterario "SI', VIAGGIARE…" Ed. 2008,
organizzato dall'Associazione Culturale e di Promozione Sociale "Uomini e Terre"
Sezione Racconto breve inedito
1° Premio conferito ad Aurelio Zucchi per il testo

ZONE D'OMBRA INESPLORATA

Motivazione della giuria
Strapparsi all'amata terra di Calabria, più di 30 anni fa,è stato per il protagonista un duro viaggio: anzi, "un viaggio che nonè mai finito e offre, oggi come ieri… zone d'ombra inesplorata" - come scrive l'Autore.
Le emozioni, i paesaggi, i rari personaggi sono tratteggiati con fresco, scarno, efficace linguaggio che non concede nulla alla retorica e - rifuggendone in modo deciso - ci fa gustare piacevolmente questo autentico scorcio di vita vissuta.
Il racconto breve termina con la chiusura perfetta del cerchio : il futuro è l'oggi… e l'oggiè sempre ieri.
PREMIATO per la sciolta espressione di un VIAGGIO che da personale si fa universale toccando corde liriche nella perfetta fusione di dolore e passione viscerale verso le proprie radici.
Fossano (CN) - Castello degli Acaia - 20 Dicembre 2008

Niente fretta, Aurè!
Mi sveglia! Il rumore del cassonetto mi sveglia. Rovescia benessere scartato. Peccato, avrei voluto completarlo, il mio sogno!
Come tanto tempo fa, me ne stavo in precario equilibrio sullo scoglio nero, quello a forma di piramide tronca, di fronte la cucina di Rocco. Ci salivo spesso, un po' per farmi vedere da ragazze dormienti sui massi arroventati e, tanto, per l'effetto magia che provavo. Da quel punto, infatti, era sempre uno spasso guardare i colori di certi pesci che venivano fino a terra per mangiucchiare. E splendidi, da lì, erano i tetti bassi dell'antico borgo marinaro, specchiati a pastello sul letto d'acqua e sale. Scavate sui muri bacucchi, le finestre irregolari per forma e dimensione, a guardarle, contribuivano a farmi provare un ingenuo senso di novità. Visto dal mare, il passaggio dei turisti che si dinoccolavano per i vicoli di Chianalea mi faceva respirare l'aria festaiola delle domeniche d'agosto scillese. Insomma, un punto d'osservazione ideale.
Poi, acrobata provetto, pietra dopo pietra saltai le timide onde lunghe verso riva e mi ritrovai su scalini grattati dall'afa.
"Hai fame?" - domandò Peppe.
Non era cambiato. La pelle cioccolato fondente, gli stessi solchi sulla fronte altera, i calli di sempre nelle mani, piene dei tagli di lenze assassine. Gustai con calma, la stessa quando mi trovavo in quel luogo, pane di grano con l'alalonga sott'olio e una pioggia di olive salate. Salvo e Andrea, i figli del pescatore, mi guardavano con l'aria di chi sembra invidiarti. Ai loro piedi nudi, cento ami erano tutti da fissare ai corti braccioli di un conzo. Luccicavano come curve d'argento sul grigio dei gradini bucati in più parti.
"I ragazzi non mangiano?" - chiesi al mio amico.
"Quando avranno fame…" - replicò Peppe.
Arrivò il tramonto, puntuale e tiepido. La Nina era pronta, svogliata ed accalappiata ad una bitta arrugginita. Avevo con me la lenza a mano regalatami dal pescatore ed un cono di carta da pane, riempito a metà di gamberi puzzolenti. Qualche energico colpo di remi fu sufficiente per ritrovarmi nel mezzo di Marina Grande e non riuscivo a capire perché si indugiasse a calare l'ancora. Peppe perdeva tempo a fissare l'acqua, prima di qua e poi di là. Ma, io penso ancora, il mare nonè lo stesso, sia a destra che a sinistra della barca?
"Guarda questa cicatrice sul polso. Una volta, nel punto dove siamo adesso, tirai su una murena".
Era felice ed io con lui. I silenzi della sera non mettevano paura, anzi. Quella pace aiutava a riconoscermi nei miei anni. Ero un povero ragazzo ricco di vita. Poche lire, niente abiti griffati, paghetta zero e tanti sogni da fare, disfare e rifare.
"Non c'è niente. Questo mare oggiè una vasca da bagno!" - dissi a Peppe.
"Niente fretta, Auré! Aspetta…" - mi rispose a bassa voce..
Ripetutamente tirai su i miei tre ami da 14 ma… neanche un mazzo di posidonia incontrata per errore. Lui, intanto, nel ventre della barca rovesciava donzelle e saraghi, tordi e gronchi, diletto e pacatezza.
Finalmente il filo vibrò tra le mie dita come corda di chitarra rock:
"Deve essere grosso, Peppe!"
"Portalo su piano piano. Calma e gesso, Auré".
Maledetto cassonetto! Ora, davanti al mio caffé fumante, cerco disperatamente di inventarmelo, quel pesce. Passa un minuto e le guance si beano come ogni mattina del passaggio fluido del bilama. La cravatta multicolor sollecita il solito nodo perfetto. Il PCè da spegnere da ieri sera. Corro incontro all'ennesima giornata del lavoro redditizio, dei pretesti per consumare la vita, dei nuovi lampi del progresso. Bello sarà il mio futuro ma solo se staccherò il presente. Magnifico il mio passato e necessaria la mia gioventù, ma solo se la nostalgia arriva sonnambula e mai malinconia opprimente. Il sogno di stanotte, l'avrò fatto all'alba di questo giorno nuovo, canta l'inno del normale. L'ordinario senso della vita oggiè ingarbugliato com'era ieri il filo della mia lenza, allorquando l'ammassavo sul fianco della Nina.
-Racconto breve pubblicato dal quotidiano E Polis Roma in data 07/05/07-


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