Racconti di Aurelio Zucchi
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Sono nato a Reggio Calabria il 7/2/1951. Conseguito il diploma di Geometra presso l'Istituto Tecnico per Geometri "Augusto Righi", nell'agosto del 1970 mi sono trasferito a Roma, città dove vivo e lavoro come Agente di Commercio. Sono sposato ed ho due figli. Ho sempre avuto una predisposizione ai rapporti umani e un interesse notevole per la letteratura. Fin da giovane mi sono accostato alla poesia e, da pochi anni, alla narrativa. Come scrittore, ho esordito con il romanzo Viaggio in V classe. Questo libro, pubblicato nell'ottobre del 2006, rappresenta per me un valore assoluto. La determinazione, l'energia e l'impegno che ho profuso nella concezione, nella stesura e nella cura del romanzo sono strettamente legati alla ricerca di linguaggi capaci di liberare l'io narrante seguendo il dettato del cuore e della verità. Raccontare una storia "normale", che fosse in grado di privilegiare l'ordinario senso della vita,è stato precetto fondamentale. |
PREMESSA Appena conclusa la stesura definitiva del mio primo libro “Viaggio in V classe”, edito poi da Edizioni Il Filo con la preziosa prefazione del dr. Pietro Zullino, è nato, di getto, “Il mantello colorato delle parole”. Affascinato e, lasciatamelo dire, commosso da quell’esperienza di scrittura così intensamente vissuta, con questo testo ho voluto raccontare e raccontarmi le molteplici sensazioni che ho provato stando alle prese con il mio primo lavoro da “scrivente” (come amo definirmi). Non chiedetemi il perché. Probabilmente sarà stata la gioia immensa per aver portato a termine un sogno fondamentale come quello di narrare una storia vera, “quella” storia vera, una specie di miracolo operato, per una volta, dagli uomini. Alle tante riflessioni contenute all’interno de “Il mantello colorato delle parole”, testimonianze palpabili delle emozioni che capitolo dopo capitolo mi catturarono nella stesura di quel romanzo, sono particolarmente legato. Identificano fortemente la mia natura, il mio modo di essere e il mio modo di sentire. Allo stessa maniera, si propongono di evidenziare il contrasto sempre in agguato tra l’enorme voglia di scrivere e il dubbio di non esserne capace. Sicuramente, registrano la potenza della seduzione della scrittura, specie in chi la affronta per la prima volta. Io non so se, dal punto di vista tecnico editoriale, questo testo possa essere considerato un saggio e la cosa non è che mi interessi particolarmente. So che è uno specchio ideale al quale di tanto in tanto accosterò il mio cuore e lo custodirò con estrema cura.. Il “mantello” mi ha caldamente protetto nella costante ricerca delle forme più spontanee da utilizzare nella definizione della mia prima, vera, fatica letteraria. Con gratitudine nei riguardi di chi vorrà leggermi.
IL MANTELLO COLORATO DELLE PAROLE Quando, il 3/11/2003, inizio a scrivere il mio primo libro[1], tremo tutto. L’entusiasmo frena nella paura di non resistere a una prova complicata. Raccontarmi il passato, coccolandomi in lungo e in largo nell’accostare ricordi alla linea di confine col presente, significa sfilarmi e riavvolgermi nel nastro di una sequenza di vita. Guardare lontano e avvicinare all’oggi una frazione di percorso, prefigura l’avventura nel già visto. Sottopormi a un profondo scavo e offrirmi all’agognato ritorno dei miei verdi anni, rappresenta una sfida. Ne studio il carattere, il rimbalzo nel tempo e decido di accettarla. Confido nelle suggestioni che andrò a cogliere più di quanto i dubbi tentino di infastidirmi. Accolgo un evento divisibile per due: affascinante per me che lo vivrò al ritmo incalzante dello scrivere; banale - forse - per chi mi leggerà. Sono preso dall’egoismo che svuota la sacca delle emozioni giovanili e poi le ripristina, le cristallizza nell’oggi che preme, le usa per alleggerire il fardello dell’età. Quanti, svegliandosi un mattino, potrebbero narrare della propria gioventù! Non abbiamo forse, ciascuno di noi, da attingere dalla giovinezza e liberarne la freschezza d’ogni suo respiro; da quella primavera incastrata, sì, nelle stagioni che la storia finirà per soverchiare ma pur sempre diversa, unica, per il solo fatto che ci appartiene? In fondo, così è per la vita. Il gioco delle coincidenze - c’è chi preferisce chiamarlo destino - omologa in prima battuta la tua esistenza tra le cosiddette ordinarie. Poi, visitandola con più attenzione, tu per primo potresti accorgerti che ordinaria non è. Racconti su racconti, a volte insospettabili romanzi, sono lì nel ventre di echi bloccati negli anfratti della memoria e, che bello tutto ciò, non sono neanche da concepire, sono da tirar fuori già costruiti e con tutto l’amore di cui sei capace. Peccato che solo una parte, per merito di chi scrive bene, raggiunga la notorietà. Ecco uno dei motivi per i quali amo la letteratura: può illuminare la vita di Cristo e/o quella di Eugenio, il barbiere all’angolo. Ora, Dio solo sa quanto io desideri riperdermi tra verbi e avverbi, nomi e pronomi, aggettivi e congiunzioni! Amore per la lingua italiana? Certo, ma soprattutto nostalgia della “controllata” mescolanza delle parole: le nostre benedette parole, sempre più ciarlate, masticate, abusate nei labirinti delle frequenze televisive, ripetutamente adottate e riadattate alla bisogna per stancare sotto i neon della pubblicità, frettolosamente prestate al totem dell’immagine e degli effetti speciali; le nostre benedette parole, sempre meno scritte, sempre meno inventariate nelle nostre menti per una sorta di latente paura di chiamare le cose con il loro nome! Per questa ragione, il foglio quasi impaziente davanti a me, a inizio stesura sento mia, a braccetto del respiro che intanto si fa grosso, la brama di misurarmi in un esercizio intrigante, capace di rammentarmi i “temi” che svolgevo a scuola. Al “Righi”[2] le materie tecniche la facevano da padrone per chi come me si diplomava geometra. Leggi, formule, teoremi, calcoli, logaritmi, righe, matite, compasso e inchiostro di china costituivano il pane quotidiano di cui cibarmi per effetto delle richieste a migliorare che tutti i santi giorni mi piovevano addosso. Insegnanti, i miei, avvezzi all’arte del buon maestro, palesata in più forme allo scopo, anche, di scuotermi. I loro meccanismi foggiavano una falsa trappola. La costruivano senza cattiverie di spinte punitive e assemblando le parti palesi e nascoste del carisma che riuscivano a trasmettere. In tal modo, mi sentivo coinvolto nella dottrina e nelle piccole manie di ognuno e, intanto, imparavo a conoscere passo dopo passo la scienza che insegnavano e la personalità che mettevano a disposizione. La fortuna di incontrare così impareggiabili docenti fece in modo che non rinunciassi ad amare anche discipline meno tecniche, come Lettere e Storia. Il compito d’Italiano era un momento da me molto atteso. In quelle tre ore pensavo a liberare i miei impulsi, sospesi tra i lacci e i lacciuoli imposti dal cliché addosso ai miei anni. Ero un ragazzo del Sud, come tanti di quegli anni sessanta, che a fine giornata rientrava da soldatino solerte nella sua stanza a più letti, epperò ordinata e linda, magicamente ovattata dall’educazione di una famiglia “normale”. I giorni mi rotolavano addosso, blindati in una corazza affettiva che, magnifica penalità d’altri tempi, filtrava ogni possibilità di guardare ben oltre il cancello. Ti sistemerai anche tu, vedrai… diceva mia madre sperando di convincermi. Protetto dalla secolare efficacia degli affetti che tutto coprono come la neve quando è troppa, nulla era impellente, ogni cosa controllabile. Lo stipendio di papà Alfredo aveva fatto sempre miracoli ed io, come i miei quattro fratelli, dovevo studiare. Nel Meridione, terra mai finita in un progresso sempre in proroga, il diploma era importante. Faceva curriculum per i concorsi pubblici. In più, qualcuno mi ripeteva che la vita è dura, peggio se lasciata ai margini del sapere. La scuola, pur tra le sue contraddizioni, svolgeva il ruolo della chioccia sapiente sotto le cui piume scaldare cervelli altrimenti destinati alla prateria dell’imperizia e dell’improvvisazione. Noi di V/B pensavamo di trovare nello studio valori aggiunti.. Era l’atteso pretesto per esplodere nell’amicizia. Niente inganni né rivalità dentro l’aula e fuori dall’aula. Sugli attenti o a riposo, quel plotone di teste da affinare era rappresentazione verace di tanti ragazzi in uno: composti e disordinati, roboanti e quieti, mai violenti. Insieme dettavamo il bisogno di svincolarci dalle solitudini e dagli ozi giovanili con l’ansia e la pignoleria dell’abile cercatore d’oro. A scuola e per strada tutto accadeva tra la voglia di provocare sintomi di buona compattezza da incastrare in ventisette egoismi, nel puzzle complicato delle invidie e delle gelosie di ciascuno. Aspiranti geometri, progettavamo ville e ponti con la stessa attenzione usata nel dare calci alle debolezze per aprire varchi alle speranze. Per intenderci, il gusto quasi patologico di rincorrere “sapienza” ci spingeva in ogni cosa: dalla dimostrazione di un teorema alla consapevolezza del crescere. L’istruzione, quindi, rappresentava un obiettivo primario capace di scansare, nel mio caso, il futuro visto e rivisto nei sempre sacrifici di un bigliettaio dell’AMA[3] in combutta col fato. Mio padre non aveva studiato, non aveva potuto. La sua V elementare sembrava, quando me ne parlava, un risultato da record conseguito all’interno di una famiglia a caccia di pane e acqua negli anni del primo dopo guerra. Poi, nell’adattamento al sogno dello sposalizio, ti ritrovi con moglie e cinque figli da sostenere, scivolando spesso sulla classica buccia di cambiali al rinnovo o di bollette da pagare all’ultimo giorno di scadenza! Era un po’ la routine di una regolarità indisponente, marcata stretta perché non degradasse oltre il consentito. Era anche (ed io preferivo così) la fiera andatura di chi deve arrivare in fondo e non necessariamente primo. A volte avevo l’impressione di rinviare di giorno in giorno il mio domani. La caccia alla “sistemazione”, il posto fisso, era assillo quotidiano come lavarsi i denti mattina e sera, l’ordine del giorno esposto nella bacheca delle priorità di famiglia. E guardavo mio padre... La divisa antracite e l’aria eternamente stanca lo tenevano di qua dai sogni che avrebbe potuto fare. Lavorava sodo e forse non sapeva fare altro. Ecco perché a diciotto anni sognavo come un forsennato, a volte dormendo, a volte sveglio guardando solcare lo Stretto da Navi Traghetto che immaginavo da Crociera. Ed anche con la biro riuscivo a sognare specie se la traccia del tema mi concedeva quel quark di complicità utile a far sì che le idee e l’immaginazione corressero in sincronia. Così, dopo aver scritto Svolgimento, intorno a me avvertivo una contrazione dello spazio. L’aula mi entrava in un pugno. Sempre più il giallo ministeriale delle pareti avanzava verso di me con la stessa cadenza delle indefinibili forme che nel sonno, delle volte, mi inseguivano fino a sovrastarmi. L’Italia e l’Europa politica, anche allora sbiadite, mi venivano incontro e, con esse, il Crocefisso, la foto del Presidente della Repubblica[4], il ritratto inquietante di Napoleone, quello rassicurante del Manzoni, il poster sbrindellato del lungomare e la vecchia tavola della flora d’Aspromonte. Diventavo, così, magnifico prigioniero in un perimetro via via sempre più ridotto. Le spalle di Paolo, il mio compagno davanti, assumevano forme appena abbozzate. I banchi, la cattedra, la lavagna, l’interminabile appendiabiti con i pomelli neri, i ghirigori sui muri, gli intonaci scrostati, il docente e i compagni tutti migravano verso territori ignoti. La scena della “mia” scuola d’ogni mattina si privava di persone e di cose. Lo stanzone delle ingenuità e delle furbizie diveniva di colpo la galleria della bonaccia in cui sperimentarmi. Calcavo il palco di cristallo di un teatro fattosi deserto, dove provare qualche splendido assolo. Luci, suoni e odori ghigliottinati in una solennità d’altri tempi, rimanevo con me stesso, sempre più con me stesso, sempre più schiavo di quel rito avvincente. Inscatolato in un cubo di nuovo metallo, una sardina vispa in una lattina evoluta, percepivo modi nuovi di sentirmi vivo. Ero, cioè, appena liberato dalla scansione del tempo, sprofondato nella cella dei pensieri dove, appunto, le idee divenivano parole, parole e ancora parole da scrivere come su di un lucido testamento. La realtà di quei giorni, e non solo quella penalizzante, doveva parcheggiare altrove per fare spazio ad altro, per esempio alla ricerca. Inseguivo il tutto nuovo da registrare tempestivamente e tempestivamente da accarezzare almeno con la mente. Accadeva che, penna in mano, me ne andassi a caccia di una legittima sintesi, il pocket-book di mondi in miniatura nel quale riordinarmi, prendere posizione, sfogliarmi, vedermi interessante e muovermi da protagonista. Plebeo Ulisse, cercavo isole da esplorare, femmine incantatrici e cheti Eldoradi. L’inchiostro, solo l’inchiostro, poteva annotare i sogni chiamati a raccolta nell’occasione che coglievo tutta! Per molto tempo (il deprecabile tempo che accorcia l’esistenza e dirada le nostalgie) e con la presunta maturità, sensazioni simili le ho accantonate. La famiglia, il lavoro, l’identificazione forzata e diluita nell’arte del fare, del rinviarsi, del non respirare la vita, i pensieri vaganti sempre tra i piedi, tutto quanto a comporre un minestrone improvvisato e sempre in cottura! A volte, ripenso alle poesie che, precocemente avido d’emozioni, scrivevo da ragazzo. Mare, luna, stelle, terra, inferno, Eden, donna, amore, vita e morte, danzando magistralmente sulle mie labbra, facevano scorrere la stilografica, una fissa dei sedici anni, nel blu vertiginoso del giudizio e della stoltezza. A quelle attese inchiostrate di fitta speranza, affidavo le ali del benessere interiore, capaci di farmi volare fino alla barriera del Cielo per guardare da lassù come, cosa e perché vivevo. Da quella postazione fortunata assistevo furente al bianco e nero della mia città sventurata, della famiglia numerosa, dei sospiri di mamma Cesira, delle scarpe da riciclare, della trancia di stocco affogata tra chili di patate fumanti, dei giri a vuoto dei fratelli in cerca di lavoro, dei morti ammazzati dalla ‘ndrangheta. Tutte immagini intermittenti, da montare a ripetizione per poi, ricchezza della mia poesia, godere dei motivi di soddisfazione che mi venivano offerti su scodelle di giada. Rivedevo, dunque e per fortuna, i riverberi della Costa Viola, i verdi anni da spolpare, i riflessi della zagara, l’oro degli agrumeti, la bocca umida del primo bacio, il rosso di una Fabiana impacciata, le tinte del primo pesce all’amo, l’arcobaleno tra Scilla e Cariddi, la magia della Fata Morgana e, inventate voi il miglior colore, il mare mio. Mi domandavo se davvero c’è un tempo per sognare, uno per vivere e uno per morire. Crescendo, ho quindi percorso il viottolo delle riflessioni che si fanno da grandi quando, nuova idiozia in mezzo a tante, sembra ci si vergogni di spalancare l’animo e riversarne il film. La luna che a 16/18 anni appariva magica a me che la guardavo notte dopo notte per non perderla, quella stessa luna che oggi è ancora lì, ancora intatta, ugualmente distante come allora, nulla suggerisce? Colpa mia o della desertificazione dei sentimenti che non fa più trastullare i cuori? Strano davvero come nell’età che vivo adesso - pance di piazze in baldoria, curve e sciarpe colorate, reality sparati ad alti dosaggi - non domini incontrastato il desiderio di dare, di aprirsi. Il mondo a guardarci in un display e a sentirci in un telefonino, quale migliore occasione per vuotare il sacco delle sensazioni e dei sogni? Quante solitudini in mezzo alle folle! Potremmo diventare migliori se solo facessimo sparire i rossori delle nuove timidezze e le paure chiuse ermeticamente nei corpi senz’anima che ci contengono. Oggi si monta in sella all’inquietante timore di scoprire le carte vere, di mettere a nudo le proprie debolezze. Ci si premura di volare rasoterra perché in tal modo tutto è più visibile da tutti: da chi ingoia senza cernita i primi semi fruibili e da chi ci misura, senza metro, becco e ali. Le negligenze del tempo, dentro la cui corsa siamo attraversati da lame virtuali, non risparmiano poi le maniacali tecniche della comunicazione. Siamo nel mirino del tutto e subito, dilatati ai bordi della centralità di una diffusione che amplifica il mattone, la calce, la malta e, più ancora, la tinta esterna che trattiene la vita. Pochi cenni al focolare, all’intimità della cucina, alla sedia impagliata, al letto su cui poggiarsi per una riflessione. Si deve esplodere nel look! Quelle stesse tecniche di comunicazione anticipano troppo futuro e congelano i misteri delle primordiali conoscenze. Non solo. Preferiscono l’esclamativo al dubbio, distribuiscono grembiuli cromati da indossare tutti e… non scavano nei cuori. E quando poi le vediamo applicate ai sentimenti, le moderne informazioni risultano imperfette. Succede, perciò, che la veloce costruzione di fiammanti universi non richiesti, il più delle volte sia glaciale, astuta. Inseguiamo solo apparenza? Davvero crediamo che sia importante farsi vedere a tutti i costi? Scrivere Viaggio in V classe vuole provare a dare un’umile risposta. Per raggiungere l’obiettivo, una cosa su tutte mi assilla: la costante della sincerità. Già dal primo capoverso, credo fermamente cosa irrinunciabile sia quella di consegnarmi alla non vergogna dell’esprimersi. Quando parliamo di noi stessi si è sempre tentati di risparmiare gli angoli vivi, purtroppo. Ci guida, in quest’avarizia da terzo millennio, la mania di concedere agli altri solo ciò che ci veste e ci colora. Buffi, vaporosi e lindi, siamo pronti a fornire prestazioni che ci inseriscano nella graduatoria dei più in vista o, meglio, nelle seducenti meteore del successo. Siamo suggestionati da certe bizzarre idee partorite dai complessi sistemi della nuova convivenza. È, questa ultima, una sorta di coabitazione disegnata sulle tracce del profitto e avara in quelle della vita. È l’ipotesi che preconizza benessere obbligato che, rischia di confondere l’anima con l’economia, la lacrima con la politica, il sentire con il fare. E allora, da pessimi contadini rifatti, tutti quanti finiremo col proteggere abilmente l’orto delle nostre ragioni dal ripristino delle antiche emozioni, intrusioni atipiche che sentiremo soltanto come scoccianti minacce. Ci difenderemo a spada tratta dall’eco che trascina il fluire delle musiche figlie delle sette note. Per accedere alla nostra tavola, gli “altri” dovranno ridere e piangere come noi, allo stesso identico modo: niente sussurri, nessun grido, tutto arrangiato nell’ottava nota che saremo stati capaci di inventare. Sì, in virtù del nuovo senso “globale” della vita, diventeremo omologati, magari con un bel contrassegno sul volto, affidato a mezzora di buon trattamento estetico. Spariranno i musicisti, i pittori, gli scienziati, gli scrittori e i poeti? In questo libro so bene di che parlare: di me, di un pezzo di Meridione, di una classe scolastica, di una certa gioventù e dei modi di viverla e d’interpretarla. Di questa, voglio far emergere occhi, ora furbetti ora inesperti, puntati come fari sperduti sul mondo italiano di quegli anni: quello di città dimenticate che volevano sopravvivere e, l’altro, più vasto, figlio prediletto del boom, economico ma distratto. Non una semplice cronaca, però. Non un documento, tra i tanti, di un resoconto degli anni ‘60 redatto nel profondo Sud. Scrivendo, azzardo a rappresentare sentimenti, io, che intanto vado a incasinarmi nella trappola dell’umiltà e della presunzione, l’altalena su cui mai vorrei salire. Le emozioni sono sempre complicate da illustrare, meglio viverle! D’accordo, ma come svolgere “il tema”? Come scrivere di cuore e di ragione? Ho sempre immaginato che un buon narratore debba avere congenito il dono dell’efficacia. A me, apprendista entusiasta, non basta avere un’idea da proporre o una storia da raccontare. Per fortuna, l’energia mi sorregge; la felicità nel tuffo all’indietro, pure. Ma altro necessita: una buona scrittura! Il diploma di geometra realizzò uno straordinario sogno fatto a dieci anni e ad occhi aperti. Un uomo in giacca e cravatta, conosciuto nel “mio” cortile, mi affascinò. E con lui, delle mappe poggiate su assi di legno chiaro, la matita all’orecchio e la confidenza regalata senza veli alla mia innata curiosità. Ecco, entrare con la penna nel cuore di questo avvenimento dovrebbe essere semplice esercizio di scrittura. Lo farei senza indugi se, oltre che la sincerità, non mi fossi imposto il rispetto verso il lettore. Pretendendo l’assoluta obbedienza alla verità dei fatti, delle persone, delle speranze, delle delusioni, dei tappeti semivolanti che io stesso ho conosciuto, trovo maledettamente difficile decidere per una vocale, una consonante, una punteggiatura che siano le più azzeccate per me che scrivo e per chi dovesse leggermi. Il recital della rappresentazione dell’animo, nella mia migliore definizione romantica, ma anche del mangiare un panino a scuola, è iniziato. Non so se a guidarmi è, appunto, il darmi senza remore o, piuttosto, l’affiorante autocompiacimento che rasenta egoismo nel recupero degli anni andati. Infilare le dita in uno spicchio di passato, oggi che il futuro è sempre più presente, decreta, insomma, l’indiscutibile signoria del mio tempo migliore, talmente migliore da sostituirsi ai successivi e starmi a fianco. È, questo, il tentativo di accostare quasi a toccarsi le diverse età che mi hanno ospitato e, tenera alchimia, diluirle in forma empirica per una soluzione corroborante: la mia quinta stagione. La gioventù non passa mai inosservata specie se, benché priva degli effetti speciali dei giorni nostri, lascia impronte di gioia che non vogliono assolutamente morire. È la fase del tutto e del niente, del bello e del brutto, del multicolor, da non catalogare freddamente in un periodo temporale dell’esistenza umana. È uno stato d’animo e per questo non ha scadenza. Procedendo nella mia stesura, ballare con le parole e parlare con esse diventa preferenza obbligata. Invocarle, rubarle all’intuito, prestarle all’emozione, plasmarle, coccolarle, smontarle, rimproverarle, correggerne i difetti e alla fine consacrarle al punto da sentirle, pagina dopo pagina, come voce della mia voce, mi regala il gusto della sfida che ho accettato. Le frasi, i brani e i capitoli s’incuneano nella trama con il rispetto e i limiti dettati dall’autore esordiente. So di correre dei rischi. Un nuovo linguaggio? Tento di sonorizzare l’inchiostro con i toni di certe mie corde? Calma signori! Un diploma di geometra non consente miracoli in letteratura! Che meraviglia, però, leggere qualcosa esattamente nel modo in cui si ascolta da colui il quale ne parla, mi dico. E, consapevole dei limiti, m’illudo senza mai arrendermi. Setaccio a ripetizione i peggiori giardini delle mie personali convinzioni. L’umiltà, mi dico, non può essere merce a saldo. Allo stesso modo, l’amor proprio. Fino a che punto è giusto imporre agli altri la personalizzazione che mi sto cucendo addosso? Quando il mio romanzo (quanta energia gli regalerò!) farà sosta negli occhi di qualche volenteroso, avrà il destino che si merita. Sarà letto tra un toast e l’altro, al rosso del semaforo, nella pausa pranzo, in poltrona col sonno che incombe o in qualunque altro modo da persone che non mi conoscono. E ne faranno l’uso che credono, i commenti che vogliono o carta straccia. Come pretendere, addirittura, che lo leggano così come io vorrei che lo leggessero? Mamma mia! Mi sto infilando in un dedalo pericoloso col rischio di snaturare l’immediatezza che grido da una vita. Inutile sminuire il tutto con la scusa che, tanto, sono alla prima prova. È vero, questo Viaggio vuole essere un regalo a me, a quegli amici. Anche ai professori. A uno, in particolare. Gli promisi che un giorno o l’altro avrei scritto qualcosa. Credeva, il caro Dino Gentilomo, nell’uso che facevo delle parole. Mi conobbe correggendomi i compiti con il rosso e il blu della sua matita. Non importa, mi disse, se ti stai diplomando geometra. Non è proibito a nessuno prendere una penna in mano. Questo ricordo, io e lui a parlare in biblioteca, vale da solo per affrontare questo impegno. Sommando poi i diversi perché, Viaggio in V classe nasce quasi perentorio, assoluto, e ha bisogno di cure attente, di farmaci preventivi, di uno stato di salute ottimale. Per questi motivi, aggiunti alla smania di non risparmiare sul budget della determinazione e della schiettezza, l’impresa mi appare tanto improba quanto necessaria. Spidocchiare gli angoli più remoti della mia gioventù e, a volte, della mia intimità a chi potrebbe interessare? Non riesco a entrare, però, nella regolarità di una prestazione letteraria che pure é esente da giudizi incombenti. Anzi, procedendo, sempre più avverto l’esigenza di approfondire il banale e di regalarmi agli altri. Mio Dio, cosa scriverei se quell’età l’avessi vissuta da protagonista assoluto? Anche dell’amore vorrò narrare, di quello sempre a portata di mano nei ventanni al vento e degli altri, gli impossibili, che covavano, covavano… e dei miei amori che respiravano al ritmo di colpi di tosse per farsi notare nel frastuono di piccoli incantesimi, una gonna da parte che aspettava di essere riempita. Quanta felicità mescolata a sofferenza, io che non mi accontentavo di averlo, l’amore, se prima non lo davo! In un romanzo che non dà eroine, principi, killer, angeli e demoni, pericolosa è una mia tesi: far girare i personaggi sulla giostra della verità. Persone per bene, donne fragili, femmine furbe, ragazzi in odore d’uomo, docenti sagaci umili e fieri, bidelli complici e la stessa città imperfetta si dovranno muovere nel valzer della semplicità, esattamente come si muovevano allora. Il festival del “normale” e l’esibizione di cento vite affidate alla casualità e all’arte dell’esserci, chiuderanno il mosaico di cui ero un tassello. Niente coreografie o luci ubriacanti, niente applausi o fischi, zero telecamere ma, solo gli occhi dei danzanti! La V/b… La valutazione delle prove da sostenere spettava anche a noi, nella fiducia di trarne ogni virtù per credere di più in noi stessi. Anche i difetti, però, e l’analisi era spietata ma giusta: anch’essi ci facevano crescere. Tante vite, quindi, accomunate in un giro di pista dov’era consentito entrare a tutti, al fine ballerino e allo stolto con le gambe ingessate. La penna è malefica se usata male. Il rischio di affondare nel teorema dei pasticci mi accompagna a ogni girata di pagina. Guido un TIR in discesa e con i freni rotti e veloce è anche il moto delle emozioni che via via si rinnovano vibranti fino al punto di farmi commuovere nelle frequenti riletture di quanto riesco a scrivere. Un giorno o l’altro vorrò intervistare un grande scrittore. Sarà una scusa per spiare i suoi polpastrelli che sfiorano la tastiera o, tra l’alluce e l’indice, i segni lasciati dalla penna. Con l’occasione, gli domanderò se anche lui, nel rileggersi, sente qualcosa. Chissà se tutto ciò è importante… La mia città… Per descriverla, a quali dosaggi devo fissare l’inchiostro? Usare sempre il blu per una mia stramba forma di gratitudine al mare e al cielo che insieme mi hanno protetto lungo le strade parallele e dritte di Reggio e sul beige del mio lido preferito? Anche il nero va bene specie quando mi irritava, della mia città, l’aria d’eterna attesa di tempi migliori. L’amore per le proprie radici non va sempre d’accordo con la ricerca dei nei che vorremmo eliminare. Addormentata all’ombra del suo aspro monte, distesa sui salotti arredati dal sole di Calabria, nebulizzata nel gioco delle acque, sfiorata dalle brezze del Tirreno e spettinata dai venti dello Stretto, Reggio deve continuare a pulsare nel mio romanzo. Come se il tempo si fosse fermato a quel ’70, così la vedrò su queste pagine: bella, sbadata e irritante. Bella, per definirne il cuore; sbadata, per rimproverarle gli incomprensibili sonni; irritante, per la forza che ha e che non tira fuori. Gli esami di maturità erano inzuppati di Storia, Italiano, Diritto, Estimo, Topografia e Costruzioni, magnifici territori del sapere e spauracchi delle nostre certezze. Di qua, noi. Tronfi delle combinazioni assurde che facevano di quella classe un gruppo capace di respirare insieme sogni e speranze in costruzione, i destini di 27 promesse d’uomo viaggiavano paralleli salutandosi dai finestrini e confrontandosi alla prima stazione. Solo bravi ragazzi? Nel Dna di ciascuno di “quelli lì” avreste trovato tracce dell’educazione di una volta, impartita da patriarchi dediti alla cura dei figli. Ma c’era altro. Avevamo formato un coro che nella diversità degli accordi doveva intonare un canto universale. Miscela di sacro e profano, a quel canto – lo studiare per il gusto di imparare, l’imparare per il gusto di conoscere e il conoscere per il gusto di crescere – abbiamo dedicato energie, anche errori, e siamo diventati amici ancor prima d’essere compagni. Si poteva definire un’accozzaglia dei buoni sentimenti i quali, al pari del prezzemolo in ogni minestra, si rivelavano ingredienti fondamentali nella rincorsa all’agognato diploma. Difficili erano stati i passaggi che ci avevano avvicinato ai più svariati docenti. Prima ancora che dispensatori del sapere, li avevamo ripetutamente visti, direi quasi studiati, come uomini. Forse, sapevamo di rischiare e nell’incessante ricerca del dialogo abbiamo pagato qualcosa. Quella scuola doveva partorire i futuri tecnici dell’edilizia, i nuovi geometri da mescolare ai vecchi. Non so quanta importanza ci poteva esser data quando, oltre che alle formule, ai progetti e al cemento armato, noi puntavamo l’attenzione su un naturale patto di nuova convivenza. Figli di una terra sfortunata (la bella “Regium” inzuppata di Magna Grecia, seccata di modernità e scoraggiata dalle teste vuote di burocrati azzeccagarbugli) sentivamo la solita cantilena del Sud da amare. Il sole, il mare, il bergamotto e altre amenità del genere entravano nelle nostre teste allo stesso identico modo di com’erano entrate in quelle dei nostri padri. Bisognava, insomma, accontentarsi delle meraviglie della natura e non di quelle della politica. E, proprio in aria d’esami, Reggio si era ribellata al Potere Centrale. La rivendicazione a Capoluogo di Regione, in competizione con Catanzaro, era stata la scintilla finale. La città, qualcuno diceva, aveva alzato troppo la cresta. Il lungomare, il più bel chilometro d’Italia di dannunziana memoria, non bastava più, allora come oggi. Tra barricate, morti, soldati variopinti vestiti, scioperi e caos, i ventisette maniaci della buona condotta, quelli della V/B, andavano al cospetto della Commissione d’esame per parlare di Ungaretti, per spiegare i Patti Agrari, per leggere planimetrie e per progettare un Motel. Ma quali esami, se tutto, oltre le finestre del Righi, ribolliva fino a bruciare? E come, adesso, scrivere di quella vicenda in un libro in cui sarebbe da travasare un intero CD di registrazione piuttosto che mille parole? Strano cosa mi succede adesso. Non metto più il naso nel rigo appena finito, non entro ed esco dalle lettere come un clown, non guardo più gli spazi e i ritmi del narrare. La scrittura è quasi impazzita, volge dritta come nave all’orizzonte e non si ferma più. Sto ricordando il mare, il mare che ho vissuto, guardato, sentito, schiaffeggiato, implorato e prosciugato per quanta acqua gli ho rubato in albe mute, nei mattini cotti al sole, nei pomeriggi sudati come me, nelle sere da provetto sub e nelle notti d’afa sbronza. Quel mare mi appartiene. Con questa penna, vorrei prenderlo tutto e regalarlo al lettore. Vorrei aggiungergli colori che non so descrivere e profumi di salsedine attaccata al cioccolato fondente della mia pellaccia. Qui, amici miei, nemmeno mi impegno a trovare le parole. Se voi lo amate, il mare lo conoscete già. Bene, è stata lunga l’avventura! Ho viaggiato in piedi nel mio tempo che fu, l’ho abbracciato ed è già scappato. L’ho rincorso senza mai riprenderlo del tutto. E, succede anche ai “grandi”, non vorrei staccare gli occhi da questo oceano di fogli. Vi ho navigato con tutto l’amore che potevo. Spero di non essere naufragato. * La prima prova da scrittore l’ho giocata quasi a dadi sul mantello colorato delle parole. Quelle scelte da me hanno strusciato ballerine lungo i fianchi dei ricordi per raggiungere la meta che placa nel guadagno di chi ascolta il cuore. Ecco perché mi vien facile scoprire che prima d’ogni cosa io debba benedire l’energia che ha sorretto questo mio progetto. Negli incastri fortunati del racconto, ho volato sulle ali di un gabbiano raro che ho scoperto con la biro tra le dita. E quella mano l’ho aiutata come mamma col bambino, l’ho piegata come bandiera al vento e l’ho seguita come io la gioventù. Ringrazio, quindi, me stesso e rimando un respiro aperto alla vita, almeno alla mia.[5] Stesura del 20 Marzo 2006 * II Posto al Premio Internazionale di Poesia, Narrativa, Arte Albatros (2008) Sezione Narrativa inedita e testo pubblicato nell’Antologia Passioni Edizioni Albatros * Finalista al Premio Rhegium Julii
Inedito e Premio Speciale Città di Reggio Calabria (2008) Note [1] Viaggio in V classe (Edizioni Il Filo - Prefazione di Pietro Zullino) [2] Istituto Tecnico per Geometri Augusto Righi – Reggio Calabria [3] Azienda Municipale Autobus [4] Giuseppe Saragat [5] Il brano è tratto dalla pagina dei ringraziamenti (Viaggio in V classe – Edizioni Il Filo) |
Il cuore di pietra
È il nostro presepe che manca
Le sette lune
Cielo plumbeo, niente mare… Ore 8,00 di un sabato di fine luglio. Nel cielo dei Monti Lepiniè tutto uno show. Matasse di nuvole assassine sono in lenta processione e sembra si dirigano verso il litorale pontino. Sì, meglio telefonare allo stabilimento balneare, sono sempre gentili e potrebbero darci notizie più precise. - Pronto? Signora comeè la situazione lì? - Vento, tanto vento, mare mosso e poco sole. - Ritelefoniamo più tardi? - Si, magari la giornata si apre al meglio. - Il paese, intanto,è più silenzioso del solito anche se mi piace pensare alla grande fortuna avuta ieri sera quando, arrivando da Roma, ho trovato parcheggio vicino la monumentale chiesa, praticamente a qualche metro dalla vecchia casa di mio suocero. Mi rimetto a letto con la voglia di dormire ancora ed evito quindi il caffè già pronto in cucina. Dopo qualche ora sento borbottare mia moglie: - Ma lei dice che proprio nonè il caso? Troppo vento in spiaggia? - Uffa! Aspetto da tanti giorni di rivedere il mare! A me non interessa tanto l’abbronzatura, mi basta accostarmi all’acqua e poi… sia quel che sia. Anzi, i migliori bagni che ricordo li ho fatti sempre sotto una pioggia battente. Pazienza, rinviamo a domani mattina e a Roma si ritornerà in serata, direttamente da Sabaudia. Bisogna ora organizzarsi, uscire per un po’ di spesa e preparare un pranzetto. Minaccia di piovere. Fuori dall’uscio di casa, nell’irto viottolo vedo poca gente. Da queste parti sono quasi tutti mattinieri. C’i sono tantissimi anziani, volti segnati da mille fatiche e gambe, però, ancora agili nonostante l’età. Poca la gioventù anche se avrà fatto tardissimo la sera prima, sparpagliata di qua e di là nelle zone limitrofe, appena fuori dal paese. Giunti al primo bar, quello dove di solito inauguro la serie dei caffè della giornata, resto abbastanza colpito dal perdurare di un silenzio irreale. Che strano, di solito i sabati e le domeniche di questo posto mi risultano più vivi. E poi, che ci fanno tutte queste persone lungo le stradine? Ah, vanno tutte verso il piazzale antistante la chiesa. Ma che succede? - Cosa c’è stamattina in parrocchia? - chiedo a un passante. - Ma come, non sa niente? Lei nonè di qui? - No, ma vengo spesso per qualche giorno di vacanza durante l’estate. - - C’è il funerale di Valeria, la figlia di Michele, quello del bar che sta più giù, nell’altra piazzetta - - Michele? Ma io lo conosco! In agosto quando vengo da queste parti vado spesso a quei tavolini. Mi ricordo che fanno anche della musica all’aperto… - La figlia di Michele aveva 30 anni e lascia due bambini molto piccoli... - Incidente stradale? - No, un brutto male… un tumore. In tre mesi l’ha consumata, che disgrazia! - La notizia mi sconvolge non poco mentre sempre di più in tanti si arrampicano lungo le salite a destra e a sinistra della chiesa per assieparsi di fronte al portone principale. Nonè il paese che ricordavo. Le nubi del mattino volevano forse avvisarmi? Sono in tenuta da mare, calzoncini e maglietta. Decido in un istante di andare dopo, con calma, dal signor Michele per porgergli le mie sentite condoglianze, in agosto, quando tornerò certamente per qualche giorno in più. Arriva il feretro. La morte mi ricorda cheè esente ferie. Per lutto cittadino i negozi uno dopo l’altro abbassano le serrande. La piazza principaleè invasa da tanti, tantissimi paesani che sono in attesa del triste evento. C’è solo e soltanto mutismo, di quelli che angosciano, e non manca qualche bisbiglio delle solite comari tutto dire. Guardo l’asfalto, quello ancora libero dai piedi di uomini e donne, e penso a quanto meno brucerà mentre l’orologio mi segna le 11. Col sole a picco sarei già sulle onde ad accarezzare l’acqua, bellissimo… Ma avrei perso un mare di altra natura, quello nero, quello del dolore che si tocca con mano e dell’inquieto riflusso di mille vite avvolte, girate, rigirate e infine incastrate in un punto interrogativo tanto allarmante quanto reale. Finisce la Messa e la processione si va snodando su dalla chiesa verso la piazza centrale dalla quale poi imboccherà la ripida discesa verso il Cimitero Comunale. Passa davanti a me il feretro, vedo segni di croce dappertutto, povera ragazza. Michele ha lo sguardo spento, cammina a fatica,è un automa. Solo quella figlia aveva… C’è un fiume di gente al seguito: le voleva bene tutto il paese. Dopo un po’, qualche negozio incomincia a riaprire i battenti. Un po’ di affettato, del formaggio, qualche frutta e mesti mesti si torna a casa. Passa il mezzogiorno e anche il pomeriggio, L’ariaè sempre meno fresca. A sera mi distendo sotto un albero del bar principale. Sono da solo e sorseggio un caffè bollente. Gli altri tavoli sono tutti occupati da decine e decine di uomini, donne, anziani e bambini. Vedo passare birre, bibite e gelati a non finire. La vita sembra non si sia fermata ma, ancora e purtroppo, tutto si sussegue come in un film muto, come stamattina. Poche chiacchiere e solo qualche mormorio. Mi godo la frescura cercando di penetrare tanti occhi. Mi piace dare l’età a chi non conosco e a volte lo ringiovanisco di parecchio. Qualche bimbo piagnucola, forse ha sonno. Qualche signore, dall’altra parte rispetto a dove sto io, ha alzato un po’ il gomito. Mi guardo e mi riguardo i vecchi lampioni intorno al grande piazzale e li confronto con le potenti luci sparate dalle macchine sull’asfalto ormai freddo. Il vecchio e il nuovo riescono a convivere. Chissà cosa starà facendo Michele? Mi si avvicina una signora vestita di grigio. Porta con sé un grande vassoio: - Posso offrirle una fetta di torta? - Volentieri, l’accetto, ma… - La prenda, la prenda pure. Domani mattina si sposa la ragazza che abita qua, dietro di lei, in questa casa di cui stanno addobbando la porta d’ingresso. - Mangio pian piano la mia fetta di torta e qualche pezzetto, a volte, mi si blocca in gola. Per una vita che se ne va, altre forse stanno per venire. Anche di sabato di un fine luglio, la ruota gira… – Sabato 24 Luglio 2010
Dialogo col mare Il
ministro Ero ministro e nel palazzo
stavo ricevendo una folta rappresentanza di cittadini per l’anniversario
del mio insediamento. Finito di parlare con un allibratore e sazio delle
ripetute richieste d’aiuto che da ogni parte mi arrivavano, decisi di
rompere gli indugi per avviarmi ai miei manicaretti miei preferiti. Il
pranzo di gala, sempre servito da donzelle ben selezionate, stava per
avere inizio. In più, quel giorno, la principessa Fedra era mia ospite.
Veniva dall’ormai vicino Oriente e la ricordavo come una nuvola rosa e
sufficientemente profumata per far perdere la trebisonda anche al più
accanito amatore del terzo millennio. Devo ammettere che la prima volta
che l’avevo vista, di sfuggita ad una visita diplomatica, ero rimasto
colpito dalla perfezione delle sue forme. Avevo tentato, anche,
d’avvicinarla di sguincio, così come si fa da ragazzi quando si provano
tutte ma proprio tutte. Epperò, anche i ministri fanno fiasco, no? Adesso,
l’idea di mettere a registro quella splendida immagine non era più una
speranza, era una necessità. Un'alba
Bella la gioventù! Loè soprattutto allorquando egoisticamente pensiamo che i nostri figli siano migliori degli altri, quando li vediamo fuori del branco o nei momenti, anche se rari, in cui poggiano gli occhi su un testo scolastico. E così li ammiriamo come comete folgoranti, magari gli sistemiamo ben bene il ciuffo o prepariamo loro l'agognata carbonara. I giovani non sono tutti uguali, non lo sono mai stati, almeno secondo l'interpretazione che insistiamo a dare del "bravo figliolo". I ragazzi e le ragazze che di questi tempi vediamo sfrecciare come bolidi o sostare come lumache lungo i marciapiedi delle città italiane, portano -è vero - draghi improbabili sulle loro magliette, slip colorati e rigorosamente a vista, anelli e metalli poco sapientemente distribuiti, tatuaggi soprattutto sui bicipiti, i maschi, e sulle natiche, le femmine. Ma, ahimè, portano anche solitudini da interpretare. Quelli che, con una punta d'invidia, guardiamo entrare festanti nelle discoteche e uscirne inebriati, quasi avessero là dentro raggiunto il cielo tra un cd e l'altro del mitico dj di turno, a cosa pensano? Quegli altri che, con altrettanta punta d'invidia, vediamo patire il peso di zaini zeppi di libri informi, di tormentati quadernoni, di merende impinzanti e floppy e dischetti eternamente senza custodie, e bambole, bambolotti e amuleti, quasi rifiutassero per principio di raggiungere tra una lezione e l'altra qualunque piano basso dello stesso cielo, a cosa pensano? I musi calanti delle loro facce - opache promesse degli uomini e delle donne che diventeranno - dipendono solo dalle loro insoddisfazioni personali? Si formano soltanto per l'ennesima litigata dei loro genitori? Si piegano, quei musi, solo al terrore nascente dall'imminente interrogazione fatale? Si cristallizzano per la mancata occhiata del ragazzo o della ragazza che hanno mirato giorni e giorni? Oppure, c'è altro che i grandi non scrutano? Vuoi vedere che c'entra anche questa benedetta Società del progresso, del benessere a tutti i costi, dell'usa e getta tutto? Vuoi vedere che c'entra anche la politica, sì la politica, da cui questa stessa Società dovrebbe essere regolata, controllata, quando non migliorata? Giovani e Palazzo, giovani e Istituzioni: chi ci pensa? Mi chiedo, ogni tanto, quale amore per la politica potrà nutrire certa parte delle nuove generazioni se già non lo nutre per la famiglia, per un'alba o un tramonto, per la voglia di fare poesia o per altro ancora. Per quelle frange,è una politica che spesso viene coltivata con atteggiamenti esasperati, il pugno al cielo piuttosto che il saluto al duce, per elemosinare accettazione sociale in una fase, l'adolescenza, in cui l'insicurezza fa da padrona. Vedono l'arte del governare soltanto come menù di ideali stereotipati e svuotati del loro senso (i classici comunismo, fascismo e anarchismo), per i quali si tifa come lo si fa per squadre di calcio, accostandosi ai generi musicali e alle mode giovanili nelle solite combinazioni e nel tentativo di costruirsi un'identità. Siamo, però, certi che la colpaè solo dei giovani? Di un linguaggio addetto ai destini più che ai lavori, se ne sente il bisogno, e non solo tra i ragazzi italiani. Coloro i quali svolgono ruoli cui sono stati destinati dal proprio elettorato, parlano, parlano, parlano… Lo fanno nelle aule parlamentari, nei salotti ovattati del potere, nelle piazze italiane e nelle radio e televisioni locali e nazionali. Cosa dicono? Narrano sempre di un Paese cheè eternamente da sviluppare. Declamano disegni di legge sempre in gestazione. Gridano solidarietà ed immigrazione. Urlano integrazione europea, laicità dello Stato, DICO, Federalismo, Tesoretti, tasse che vanno diminuite e buona previdenza non più prorogabile. "Papà, io non sento altro che opinioni ed invece voglio fatti. Fatti che seguano idee, che siano facilmente riscontrabili e soprattutto alla portata di tutti." E', questa, una frase ripetitiva che sento spesso dai miei figli. Io, i miei figli, li vorrei avvicinare alla politica sana, quella, per intenderci, intesa come arte propedeutica alle buone sorti nazionali. Peccato che, quandoè il turno di questo o quel ministro, di questo o quel parlamentare, i ragazzi mi girano le spalle per dirigersi su internet o alla play station. "Che noia, le solite facce, le stesse promesse, i giri di parole!", la chiusa. Guardiamoci attorno. Dopo la caduta del muro di Berlino, da includere (intendo la caduta di quel muro) tra le 7 meraviglie del mondo, la cultura delle ideologie, anche di quelle giovaniliste, ha subito una frenata. Nell'accezione tradizionale di chi giovane loè già stato, il fascismo, il comunismo ed il centrismo, inteso quest'ultimo come ago che modera ogni deriva estremista, stabilivano adeguamenti culturali e precisi ideali capaci di dividere il Paese in larghi spicchi e tuttavia di renderlo vivo e operante. Aveva senso, voglio dire, dichiararsi di destra, di sinistra o di centro per quella sorta di odiosa eredità della politica che la tragedia della guerra aveva depositato nelle case e nelle famiglie italiane, pesando le differenti esperienze. In una costituenda convivenza democratica, degna di uno Stato che il conflitto mondiale lo ha conosciuto nella sua piena interezza, tutto poteva procedere a favore degli obiettivi di civiltà e di stabilità sociale. Tale percorso, lo sappiamo bene scorrendo le pagine amare del virus terroristico nazionale rosso e nero, subiva però ed inevitabilmente delle soste forzate che rallentavano non poco le prospettive prese a riferimento. L'Italia coriacea, operosa, libera e pensante alla fine ha goduto ugualmente di decenni importanti, dei benefici delle tecnologie d'oltreoceano, delle fondamentali scoperte scientifiche, del boom economico e della crescita cercata a tutti i costi. Oggiè un po' diverso. La novità "Europa" (ma non esisteva anche prima?), lo spettro del terrorismo del terzo millennio, gli agghiaccianti bollettini del clima che cambierebbe il pianeta, i nodi venuti al pettine di un forzato benessere, hanno fatto in modo che classi dirigenti e classi politiche si moltiplicassero a dismisura. Questoè il punto. Come posso, io diciottenne e già incastrato nell'andazzo del precariato e nel caos dei valori di riferimento, districarmi in una Società troppo spezzettata nelle linee guida laddove relazionarmi? Nonè poi così difficile aggiungere a tutto ciò l'incomprensibile linguaggio che da quelle postazioni adoperano. Non ci si venga quindi a lamentare del poco fascino che un'arte pur nobile come la politica riesce a suscitare in giro, soprattutto nei ragazzi.. Prendiamo ad esempio i partiti politici e soprattutto le loro articolate denominazioni. DS (Democratici di Sinistra): mi domando seè giusto che la democrazia e quindi la sovranità dei cittadini debba essere trascinata di qua e di là come un pacco postale, tirata per la giacca come panacea o alibi degli intendimenti programmatici utili al consenso. La Margherita, invece, aveva ereditato, insieme con altri nuovi partiti geneticamente di centro, la vecchia DC consumata da Tangentopoli. Oggi nasce il PD (partito democratico) come sintesi di due esperienze e percorsi fino a qualche anno fa contrapposti. E poi, perché democratico? Non dovrebbe essere tacito che lo siano tutti in questo Paese? O gli altri schieramenti parlamentari sono soltanto accozzaglie di minacciose guarnigioni pronte a sovvertire l'ordine costituzionale? Nella scena politica nazionale, da più di dieci anni esiste Forza Italia, splendida invenzione fonica degli esperti della comunicazione mediatica. Il suo nome lascia facilmente intendere la priorità del proprio elettorato all'incoraggiamento e al sostegno del Bel Paese che deve crescere. Va bene, ma gli altri partiti hanno nei loro statuti norme, articoli e commi pronti a remare contro quello stesso Paese? Pensando poi ad AN (Alleanza Nazionale) e riflettendo un po' sui due termini, non sono convinto del fatto che l'unità italica, il senso della Patria, appartenga solo e soltanto al dna di un unico schieramento politico. Procedendo nell'excursus delle nomenclature, la sigla UDC (Unione Democratica Cristiana) parrebbe una ripetizione di qualcosa già visto, differenziandosi dai concorrenti cosiddetti moderati per una diversa posizione nello scacchiere del bipolarismo. L'IDV (Italia dei Valori)è un intrigante gioco di parole combinate egregiamente ma scontate, poiché a pensarci bene i valori sono universali e appartengono a tutti indistintamente. E' una sigla azzeccata, certo, ma non smentisce la confusione che si genera in chi si accosta per la prima volta alla politica italiana. UDEUR (Unione Democratica per l'Europa) ricalca un patrimonio di programmi che danno l'idea d'essere uguali tra quelle forze cattoliche che si richiamano alla scuola di De Gasperi e di don Sturzo. La Federazione dei Verdi, nata sulla scia d'una crescente sensibilità ecoambientale, porta con sé contenuti che possono essere nell'agenda di altri partiti. Partito dei Comunisti Italiani () Escludendo certe forze politiche (Lega Nord, Partito della Rifondazione Comunista, Partito dei Comunisti Italiani) che nel loro stesso nome sintetizzano, almeno e immediatamente, una posizione precisa, una collocazione resistente al declino delle ideologie, ecco quindi che quei nostri giovanotti, di cui parlavo all'inizio, rimangono spiazzati. Presumo che, al momento del voto, nel silenzio della cabina elettorale avranno dei guai. La libertà, si sa,è sempre sulla bocca di tutti, basta seguire uno dei tanti talk-show televisivi frequentati da onorevoli e senatori. Il progresso della civiltà? Non lo rifiuta nessuno, basta assistere ad un qualsiasi comizio. La crescita economicaè ormai una caricata esigenza per tutti e di tutti i ceti sociali, a differenza di quanto accadeva un tempo, quando operai ed impiegati si guardavano in cagnesco per via del diverso peso retributivo. I rifiuti ammucchiati per le strade di Napoli non piacciono a nessun partito, nemmeno a me. La pressione fiscale pure, così come la delinquenza nelle città italiane. Dicono, allora, tutti quanti le stesse cose? E, se così fosse, perché sono frazionati, divisi, lontani, tranne quando si tratta di combinarsi in un ampio ventaglio da sventolare tutti insieme dagli scranni del nostro Parlamento? Oggi, se i miei 56 anni subissero un taglio molto consistente, non saprei come orientare le mie scelte. Mi sentirei confuso all'interno delle mie Istituzioni e trascurato dal mio Palazzo. Io sento impellente il bisogno di avere nel mio splendido Paese due schieramenti: conservatori e progressisti. I riformisti non avrebbero di che lamentarsi. Si può, anzi si deve, dare linfa e coraggio a tutto ciò che migliora la vita dei cittadini sia intervenendo su norme e regole già esistenti, sia adottando, non solo blaterando, provvedimenti legislativi che tengano conto dei bisogni moderni. Credo perciò che le tristezze dei nostri giovani (una generazione che potrebbe avere uno scatto d'orgoglio tutto suo se solo accendesse il lume della ragione al posto dello spinello) riflettano in parte le preoccupazioni di noi adulti. La politica, per una volta, faccia un passo indietro e si offra trasparente e complice alle aspettative delle classi dirigenti di domani. Si faccia capire, voglio dire, già dai suoi primi approcci. Spanda nel singolo, nelle famiglie, nelle scuole e nelle aziende la comune matrice del sano esercizio della libertà e della democrazia. Vada incontro ai ragazzi del 2000 inculcando loro il seme della ritrovata educazione civica e della partecipazione collettiva alle sorti dello Stato cheè da sentire, da amare, prima ancora che da interrogare. Il futuro, qualcuno mi ha insegnato, dipende sempre da ciò che stai vivendo ora, dalla tua capacità di svincolarti dalla piatta omologazione che a volte inganna. -Articolo pubblicato il 7 agosto 2007 sulla Testata Giornalistica del quotidiano on line www.quicalabria.it- Zone d'ombra inesplorata Quando, nell’agosto del 1970, raggiunsi la mia famiglia a Roma, mi mancò il mare. L’avevo ammirato ancora una volta da un Espresso antipatico, il naso sul vetro come francobollo sulla busta. Racconterò quindi questo viaggio che nonè mai finito, che offre, oggi come ieri, quelle che io chiamo zone d’ombra inesplorata. Quella mattina ero da solo. Lo scompartimento, spartano ma accogliente, aveva requisito i silenzi, i colori e le forme dei ricordi che mi portavo dietro. Il brontolio del treno non era credibile per me che stavo annodando gli ultimi fili di un Sud che lasciavo. Con esso, mettevo in archivio i miei 19 anni, il fiammante diploma da geometra e 26 compagni di una scuola generosa. Alla Stazione Marittima, Reggio era già sveglia da un bel po’. Assolata, nervosa, principessa rassegnata come solo lei sa essere, si poneva i problemi del sempre. Capoluogo o no, la città da cui mi stavo congedando pareva pregarmi di non dimenticarla. O ero io che speravo si ricordasse di me? Guardai il porto delle mie prime prede, il luogo preferito del mio calare e tirare lenze dallo scalino meno massacrato d’una scaletta ricavata lungo i fianchi neri della banchina a monte, lo stesso specchio d’acqua e sale scrutato ogni giorno dalla terrazza condominiale di Via Italia. Ebbi un segno di stupore. L’acqua era più piatta del solito, i piazzali polverosi più deserti, l’aliscafo abbagliante sotto il mezzogiorno. Infilai i miei occhi scuri fin dentro i ponti d’una nave traghetto, li spinsi a più non posso all’interno del salone bar e per un attimo mi scottai con gli arancini impossibili. Dalla baia di Pentimele, il treno già correva troppo, la vidi diventare sempre più piccola, quella nave, sempre più lontana come punto di vela in mezzo all’oceano. Mi vennero in mente le improvvisate uscite in mare con un amico pescatore, le sue manie del “posto giusto” da trovare, la mia magnifica impazienza di pescare. A Scilla decisi di scendere, troppo presto per uno con destinazione Roma. Marina Grande era ora immensa, troppo immensa quando vuoi abbracciarla per l’ultima volta. Valigia in mano, mi diressi a Chianalea e sostai una volta e poi due e poi tre davanti agli archetti che s'aprono ai lati della stradina parallela alla linea di camminamento della riva. In quel modo, i pezzetti blu del Tirreno, seppure spezzati dalle opache vernici delle barche, diventavano tascabili. Poi, raggiunsi il borgo antico marinaro e salutai Peppe, la sua signora e i suoi ragazzi a piedi nudi. Non era uscito con il gozzo, aveva ancora febbre alta, ma soffriva la mancanza del mare più che la stupida influenza. Ricordai con lui la notte magica della Costa Viola, guardata e riguardata dalla sua barca a meno di dieci metri dalla costa e in compagnia della vecchia lampara gialla. Gli rammentai di una volta, d'una murena maledetta che lui buttò nel ventre della Nina per farla un po’ ballare e mettermi paura. Quando alla fine girai le spalle per andare incontro all’altro treno, dimenticai i bagagli e ricordai il futuro. Una famiglia di Paola mi fece compagnia per un po’. Andavo a Roma,è vero, ma non sapevo come rispondere alle tante domande che mi venivano poste. Parlai loro della mia città, intendo Reggio, e quasi mai del Colosseo o del Quirinale. Eppure, entro poche ore ancora, avrei raggiunto l’Urbe, le sue bellezze, il suo traffico, le sue mille contraddizioni e la mia unica famiglia. Tutti mi aspettavano, le braccia aperte verso il domani. Oggi, che quel domaniè giunto, io sono ancora distratto come quel giorno a Chianalea. Non dimentico più borse e borsoni, dimentico da ormai trentasette anni il nuovo mondo che mi ha accolto. Chissà, forseè colpa dei vent’anni, delle speranze che hanno avuto il solo torto di nascere in una terra sfortunata. E’ solo colpa mia, del credere che sarei dovuto rimanere in quella via Italia per assistere al cambio degli asfalti, all’apertura di negozi, alle processioni del nuovo millennio o ad altro ancora. Concorso letterario "SI', VIAGGIARE…" Ed. 2008, Niente fretta, Aurè! |