Testi di Giuseppe Gianpaolo Casarini


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Leggi le poesie di Giuseppe Gianpaolo

Letteratura classica e moderna. Ritratti di donne poco conosciuti

I primi versi di un poeta italiano che spasima per una donna sono quelli di Ciullo d’Alcamo in questo curioso botta e risposta tra lo spasimante e la desiata:

«Rosa fresca e profumatissima che sbocci all'inizio dell'estate, le donne nubili e maritate ti desiderano: liberami da questa passione, se ne hai la volontà; a causa tua non ho pace notte e giorno, pensando solo a voi, mia signora».

«Se soffri a causa mia, è la follia che ti spinge a farlo. Potresti arare il mare, seminare ai venti, mettere insieme tutte le ricchezze di questo mondo: non puoi avermi a nessun costo e piuttosto mi taglio i capelli [mi faccio monaca]».

«Se ti tagli i capelli [se diventi monaca] preferirei morire, poiché con essi perderei ogni gioia e felicità. Quando passo di qui e ti vedo, rosa fresca del giardino, mi dai piacere in ogni momento: facciamo in modo che il nostro amore si unisca».

 «Che il nostro amore si unisca non voglio che mi piaccia: se ti trova qui mio padre con gli altri miei parenti, sta' attento che questi forti corridori non ti raggiungano. Come sei stato rapido a venire qui, ti consiglio di esserlo altrettanto ad andartene».

Gli stilnovisti e la loro donna angelo riprenderanno più tardi il tema degli amorosi sensi verso l’amata, qui di Guido Cavalcanti questi versi,

“passa la gran beltate e la piagenza
     de la mia donna e ’l suo gentil coraggio
     
11sì, che rassembra vile a chi ciò sguarda.”

Di Guido Guinizelli

 ora abbandonandoli  e  volgiamo l’attenzione per il momento a versi poetici che conosciamo  quasi tutti a memoria  e che riguardano, amante amata:  Dante e Beatrice,

 Petrarca e Laura, Catullo e Lesbia, Foscolo e l’amica risanata e  la contessa Pallavicini , Leopardi e Silvia e Nerina , la dannunziana Ermione “dalla favola bella” Eleonora Duse o Alessandra di Rudinì?, Didima la nera bellezza “ E se è nera che importa? ” che fa spasimare  Asclepiade (“Con i suoi scherzi Didima mi ha preso. Ahimé, mirando la sua bellezza, mi struggo come cera al fuoco. Se è nera, che importa? Anche i carboni sono neri. Ma, se li accendi, splendono come boccioli di rosa” , ritratti di donne in bella mostra nella pinacoteca  delle immortali della letteratura.

Compito di questa breve nota è  di arricchire un poco, stante la mole del materiale che i vari poti ci offrono,  questa stanza museale riportando alla luce solo alcuni di questi quadri meno conosciuti traendoli  dagli scaffali di librerie e di biblioteche.

Dal mondo greco ecco spuntare il ritratto  della Eliodora di Meleagro  “La mia anima mi dice di fuggire l’amore di Eliodora, perché sa
le gelosie, le lacrime di un tempo.
Dice, ma io non ho forza di fuggire.
Essa mi avverte. Vero! Ma poi senza
pudore nello stesso tempo l’ama.”

per aspetti sentimentale e di amorosi sensi da accostare alla Lesbia catulliana Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior. Odio e amo. Forse mi chiedi come
Non lo so, ma sento che ciò accade, e ne sono tormentato”

Al quadro di Beatrice, donna angelica,  ecco, spigolando nella letteratura del novecento, il suo accostamento a quello della sconosciuta amata del Carducci, o forse quella Maria già cantata nell’Idillio maremmano..tu sorridi ancora Improvvisa al mio cuore, o Maria bionda;E il cuor che t'obliò, dopo tant'ora Di tumulti oziosi in te riposa, O amor mio primo, o d'amor dolce aurora.”?)

Cosa di cielo è la mia donna  allora Che il roseo collo piega e il vago riso A i baci porge e quei d’ambrosia irrora. Oh, che d’ogni mortal cura diviso, Sopra quel sen, tra quegli amplessi io mora! Né v’invidio, o beati, il paradiso.”
 

Le due figure di Guido Gozzano,  La Signorina Felicita

“Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.”

 e la “cattiva signorina”  Cocotte”

“ Vieni. Che importa se non sei più quella
che mi baciò quattrenne? Oggi t’agogno,
o vestita di tempo! Oggi ho bisogno
del tuo passato! Ti rifarò bella
come Carlotta, come Graziella,
come tutte le donne del mio sogno!
Il mio sogno è nutrito d’abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono
state…
  che per la dolcezza poetica, la  delicatezza  e il rimpianto richiamano  le care e dolci figure  di Silvia e di Nerina meritano quindi , su una delle pareti delle stanze di questo museo poetico,  di trovare anch’esse il loro spazio.

 

Alle due donne foscoliane depositarie della  divina ed eterna  bellezza  ci riporta Vincenzo Monti con l’ode dedicata alla figlia Costanza, “Per un dipinto dell’Agricola”

“Piú la contemplo, piú vaneggio in quella

Mirabil tela: e il cor, che ne sospira,

Si nell’obbietto del suo amor delira,

Che gli amplessi n’aspetta e la favella,

Ond’io già corro ad abbracciarla. Ed ella

Labbro non move, ma lo sguardo gira

Ver’me si lieto che mi dice: Or mira,

Diletto genitor, quanto son bella.

Figlia, io rispondo, d’un gentil sereno

Ridon tue forme; e questa imago è diva

Si che ogni tela al paragon vien meno.

Ma un’imago di te vegg’io piú viva.”

 

La Delia di Tibullo è tutto ritrosia e dispetto e con questo ritratto chiudiamo la nostra breve ricerca iconografica.

“Che mi giova, Delia, la tua Iside ora? che mi giovano quei bronzi che tante volte la tua mano ha agitato o quel tuo purificarti nell'acqua, seguendo piamente il rito, quel tuo dormire da sola, ricordo, in un letto illibato? “

“Se invece io potessi, mia Delia, con te aggiogare i buoi e pascere le greggi sul monte che sai, e mi fosse consentito tenerti con amore fra le braccia, dolce sarebbe il mio sonno anche sulla nuda terra. Che vale distendersi su un letto di porpora senza un amore ricambiato, quando viene la notte e una veglia di pianto? Nemmeno piume o coperte a ricami, nemmeno il mormorio d'un placido ruscello potrebbero indurti a dormire.”

 

Una storia in parte vissuta: la fuga del pilota del caccia americano caduto nella seconda guerra mondiale nelle campagne di Motta Visconti

I bombardamenti degli alleati in Italia nel corso della seconda guerra mondiale con le diverse incursioni sulle nostre città furono compiuti prevalentemente dopo l'8 settembre 1943 e cioè quando l'Italia era virtualmente "alleata" con gli anglo-americani ed i primi attacchi leggeri si ebbero sul meridione d'Italia per opera della R.A.F. con base sull'isola di Malta (1).
Come descrive Claudia Baldoli in "I bombardamenti sull'Italia nella Seconda Guerra Mondiale.-Strategia anglo-americana e propaganda rivolta alla popolazione civile" e sempre a partire dal 1943 sino al 1945 furono le città del nord ad essere prese di mira(2). Tra queste in particolare Genova Torino e Milano sedi di specifiche attività industriali e che furono interessate ciascuna da più di una cinquantina di incursioni. Tra quelle che colpirono il milanese merita di ricordare in particolare pr la sua gravità in termini di vite umane la strage del quartiere di Gorla che causò la morte di 184 bambini (i "Piccoli Martiri di Gorla"), alunni della scuola elementare "Francesco Crispi", a seguito di un bombardamento aereo alleato nella mattina del 20 ottobre 1944 (3).
Ora quanto segue fa riferimento alla mia esperienza personale, bambino di cinque anni, sfollato con la mia famiglia dal 1943 da Milano in quel di Motta Visconti il paese dei miei genitori e in particolare alla storia di un pilota americano ( L'odissea di Ernest Fahlberg di Alberto Magnani) il cui caccia, nella seconda guerra mondiale, abbattuto dalla contraerea tedesca cadde tra le campagne di Motta Visconti (4). Così Ambrogio Palestra nella sua Storia di Motta Visconti e dell'antico Vicus di Campese (5). ricorda l'accaduto" Motta Visconti dovette sopportare tre incursioni aeree per quanto fosse protetta da molto verde. Ma più che l'abitato l'aviazione alleata cercava di colpire le batterie antiaeree della Flak installate lungo le sponde del Ticino. Di tutte e tre ho ancora un ricordo vivido come il bombardamento di una corriera diretta a Pavia all'uscita del paese, la terza in cui su di me fu fatto come un tiro al bersaglio di tali fatti parleremo in altra occasione ma qui trattata è la seconda nella quale si inserisce l'odissea particolare di questo pilota americano . Tale incursione avvenne il 12 gennaio 1945 ed un apparecchio americano fu abbattuto dalla contraerea tedesca collocata nel territorio di Morimondo sede della famosa Abbazia; il pilota come diremo, si salvò e riuscì a fuggire. Ricordo perfettamente l'episodio perché anch'io accorsi a vedere quell'argenteo uccello volante e perché le campagne nelle quali era caduto erano di mio nonno materno Paolo Scotti e perché nell'occasione mio zio Pietro Scotti ebbe la fortuna o sfortuna di imbattersi in questo giovane americano, che mostrandogli una mappa che riportava chiaramente nei particolari anche le rogge dei dintorni continuava a ripetergli ripetere Abbiategrasso..Abbiategrasso..per poi ottenuta una parziale indicazione dileguarsi verso i boschi del Ticino.
Ora come racconta Alberto Magnani così ebbe inizio " L'odissea di Ernest Fahlberg, Racconto (tratto da "L'ultimo volo. Storie di piloti ed aerei", edito da La Memoria del Mondo, Magenta 2014) "



Ernest Fahlberg
" Venerdì 12 gennaio 1945 era una fredda giornata del quinto inverno di guerra. Il cielo era grigio e un'umida nebbiolina avvolgeva la campagna tra Besate e Motta Visconti. Improvvisamente - intorno alle due e mezza del pomeriggio - forti detonazioni ruppero il silenzio. Apparve un aereo color argento, che scese fumando, picchiò con la pancia in un campo, si trascinò per qualche metro sollevando una nube di sassi e terriccio. Trascorsero alcuni istanti. Il pilota sgusciò fuori dalla cabina, illeso, e si allontanò. La radio continuava a gracchiare. Altri aerei sorvolavano il Ticino. Poi tutto tornò come prima, silenzioso.
Quell'aereo era un cacciabombardiere P-47 dell'aviazione degli Stati Uniti. Il pilota era un giovane del Wisconsin, il tenente Ernest D. Fahlberg. Circa un'ora prima, era decollato da Pisa insieme ad altri sette apparecchi del 350° Fighter Group, con l'ordine di bombardare la linea ferroviaria del Brennero. La formazione superò gli Appennini e trovò la Pianura Padana sommersa da una densa foschia. Il comandante, il capitano James Daily, si rese conto che non sarebbe stato possibile distinguere il bersaglio, così ordinò di cambiare rotta. Gli aerei deviarono verso Milano, sganciarono le bombe sulla ferrovia tra Greco e Sesto San Giovanni e infine, sgravati dal peso degli ordigni, proseguirono alla ricerca di qualche obiettivo da mitragliare. All'altezza di Gallarate, calarono in picchiata sparpagliandosi a coppie di due. Fahlberg, con il sottotenente Alva Henehan, puntò verso Vizzola Ticino.
I due cacciabombardieri vennero accolti da un intenso fuoco di contraerea. Fahlberg ordinò a Henehan di sganciarsi. In quel momento, il suo aereo fu colpito da una scheggia.
Fahlberg mantenne il controllo, ma capì subito che non sarebbe rimasto a lungo in quota. Chiamò per radio il capitano Daily, comunicandogli la propria posizione; poi lo richiamò, per informarlo che l'aereo perdeva olio e poteva incendiarsi. Daily e due altri piloti, che avevano captato la trasmissione, cercarono di individuare il compagno, ma non c'era abbastanza visibilità. Fahlberg planò verso sud, sorvolando il corso del Ticino. Le batterie di cannoni appostate alla Cascina Brugginetta, tra Ozzero e Morimondo, lo scorsero all'orizzonte e spararono alcuni colpi: non lo centrarono, ma, vedendolo cadere, credettero di averlo abbattuto loro. Fahlberg avvistò un terreno adatto a un atterraggio di fortuna ed eseguì la difficile e pericolosa manovra. Lanciò un messaggio via radio per avvisare di essere a terra incolume, poi saltò fuori dall'aereo. Il capitano Daily captò la segnalazione e tentò insistentemente di richiamare Fahlberg, ma questi era già uscito. Allora, assieme a Henehan, effettuò diversi passaggi a bassa quota, ma la bruma gli impedì di scorgere l'aereo. Infine, i due aerei si alzarono e intrapresero la via del ritorno.
Ernest D. Fahlberg aveva ventitrè anni e veniva dalla città di Madison, nel Wisconsin. Aveva terminato le scuole superiori nel 1939 e si era iscritto all'Università, frequentandola per due anni. Nel 1942, richiamato alle armi, aveva chiesto di entrare in aviazione: superate le prove di idoneità, dopo un lungo addestramento aveva ottenuto, il 1° ottobre 1943, il brevetto di pilota da caccia e il grado di sottotenente. Promosso poi tenente il 12 gennaio 1945 stava compiendo la sua centoventesima missione. Fahlberg, quel 12 gennaio, aveva iniziato una difficile odissea. Circa ciò che gli avvenne subito dopo aver toccato terra in riva al Ticino, disponiamo del racconto fatto dallo stesso Fahlberg a un altro pilota, Wayne Wheeler, che lo ha riportato nelle proprie memorie di guerra: "Dopo l'atterraggio di fortuna, mi diressi correndo verso un villaggio che doveva trovarsi a 500 iarde dal punto di impatto al suolo del mio aereo. Udii chiaramente il rumore di automezzi in avvicinamento e, convinto fossero veicoli tedeschi, mi diressi verso un cascinale, notai un mucchio di letame in una concimaia, scavai una buca, mi ricoprii e vi rimasi nascosto. Arrivarono i soldati e si misero a cercarmi, prima attorno all'aereo, poi proprio nella cascina: udivo le grida terrorizzate dei contadini. Un rumore di passi si avvicinò al mio nascondiglio, tanto che pensai di essere stato individuato, ma poi i passi si allontanarono e, dopo un po' di tempo, i camion se ne andarono. Uscii a dare un'occhiata in giro, ma faceva dannatamente freddo e allora, desiderando solo caldo e sicurezza, tornai nel mio rifugio. Ci rimasi tutta la notte e il giorno successivo. A sera uscii, incamminandomi verso sud-est, verso la linea delle colline che mi apparve in lontananza."
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A Motta Visconti, il paese verso cui il pilota si mise a correre, era di stanza una squadra di ricognizione e un comando mezzi speciali. Una mezz'ora dopo l'impatto di Fahlberg, alcuni aerei americani calarono su Binasco. Una pioggia di bombe finì sulle case in salvo quattro persone. Cinquanta famiglie si ritrovarono senza tetto. In linea d'aria, Motta Visconti dista una decina di chilometri da Binasco. In aereo, una distanza che si percorre in un soffio. Può darsi che il bombardamento abbia indotto il comando tedesco a richiamare in tutta fretta la pattuglia impegnata nella ricerca del pilota, per non offrire un facile bersaglio agli incursori. La sventura di Binasco poté forse giovare alla salvezza di Fahlberg. I tedeschi tornarono successivamente a rimuovere l'aereo. Ormai non si aspettavano più di trovare il pilota nelle vicinanze. Il giovane, dunque, dopo aver trascorso la notte, e poi l'intera giornata di sabato 13 gennaio, rintanato nel letamaio, a sera iniziò a camminare attraverso i campi. Con sé aveva una sacca contenente una scorta di viveri, una carta topografica quella come detto mostrata a mio zio Pietro, bussola e denaro italiano. Fahlberg prese con decisione la direzione sud-est, lasciandosi alle spalle la Svizzera e puntando verso gli Appennini: evidentemente sapeva della presenza di missioni britanniche e americane, che operavano nel settore appenninico in collegamento con i partigiani italiani. Fahlberg scese lungo il corso del Ticino camminando di notte e rimanendo lontano dalle strade non però come aveva chiesto verso Abbiategrasso forese per timore di essere catturato ma dalla parte opposta verso Pavia. Aggirò la città di Pavia, poi, da qualche parte, attraversò il Po. Lunedì 15 gennaio si trovava in Emilia nel territorio di Piacenza, le sue scorte di cibo erano terminate." Avevo freddo, fame, sete, ero ridotto in uno stato pietoso, sporco e trasandato". La figura di quell'uomo, sudicio e con la barba lunga, in mezzo a campi deserti, su cui era caduta la neve, doveva apparire sinistra.
Fahlberg giunse a un paese di cui trovò indicato il nome, Ponte d'Olio, guadò il Nure e s'inerpicò per un sentiero sino al villaggio di Caminata. Ormai non ce la faceva più. Considerando le deviazioni, per evitare strade frequentate o centri abitati, doveva aver percorso quasi un centinaio di chilometri. Decise di arrendersi alla prima pattuglia tedesca. In lontananza, distinse due uomini armati che lo avevano individuato e si stavano avvicinando. Fahlberg alzò le mani e rimase fermo ad attenderli. I due uomini erano partigiani. I partigiani scortarono il pilota americano sino a Morfasso, un paese adagiato in mezzo a distese di neve, su cui incombevano le cime degli Appennini. La zona era controllata dalla Resistenza. In quel luogo, che l'inverno faceva apparire ancor più isolato dal mondo, vi erano persone che parlavano inglese. La gente del posto, infatti, tradizionalmente emigrava in cerca di lavoro in Inghilterra, trovandolo, spesso, nei ristoranti londinesi. Fahlberg poté essere interrogato e identificato. Venne rifocillato, rimesso in sesto e, successivamente, condotto a Bardi, ove, nell'antico castello, si erano insediati i membri di una missione americana.
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In attesa che si creassero condizioni favorevoli a tentare l'attraversamento del fronte, Fahlberg venne ospitato in una baita, nel villaggio di Pieve. Qui, con grande emozione, ritrovò un suo compagno, il sottotenente Shuford Alexander, ventunenne. Lo aveva visto per l'ultima volta quasi quattro mesi prima, prima che anch'esso fosse abbattuto. Nella stessa baita, giunsero altri due piloti americani Thomas e Wheleer che avevano subito la stessa sorte. I quattro piloti trascorsero diversi giorni nell'edificio, utilizzato anche dai partigiani e da una missione militare inglese. Si congedarono dalla missione inglese, che li affidò a un proprio militare che li guidò alla base del maggiore Gordon Lett, a Rossano. Nella sua formazione erano poi confluiti anche disertori dell'esercito tedesco e persino marinai, sbarcati dalle proprie navi nei porti della Liguria. Lett aveva poi organizzato una rete per infiltrarsi attraverso le linee tedesche e raggiungere le forze americane, avanzate, nell'autunno del 1944, sin verso i confini orientali della Liguria. Lett accolse i quattro americani e mise a loro disposizione una guida per intraprendere l'attraversata. In un primo tempo, il gruppetto fu condotto lungo i ripidi sentieri da un ragazzino di dodici anni: salivano e scendevano tra valli e crinali, finchè, nell'affrontare un passaggio particolarmente impervio, Fahlberg scivolò, cadde e si fece male a una gamba. Fortunatamente non aveva riportato fratture. In ogni caso, il gruppo decise di fermarsi nel paese di Madrignano, per dar tempo al compagno di riprendersi. Il paese era occupato dai partigiani, che ospitarono gli americani nell'antico Castello Malaspina, la cui mole troneggiava fra le case. L'indomani Fahlberg se la sentiva di camminare e il viaggio venne ripreso. In lontananza si cominciò a distinguere il mare. Il gruppo, cui si erano uniti alcuni soldati inglesi, proseguì attraverso le Alpi Apuane, scese in Val di Magra, aggirò una posizione tedesca e arrivò a Vinca, poi con una nuova guida locale alla testa, gli uomini calarono verso la costa, sino a Forno, tra Carrara e Massa, ove sostarono per il resto della giornata e parte della notte. Prima dell'alba ripartirono, si inoltrarono tra oliveti e frutteti e si inerpicarono sulle pendici del monte Altissimo. Nel pomeriggio si fermarono in un avvallamento ma la marcia non era finita dovevano infatti attraversare ancora una zona battuta dalle artiglierie tedesche: i cannoni rombavano in lontananza. Strisciarono a ridosso di una collina. Finalmente i colpi si diradarono. Apparvero veicoli, uniformi, la bandiera stelle e strisce. Ce l'avevano fatta. Era il 15 febbraio 1945: Fahlberg era precipitato a Motta Visconti poco più di un mese prima. Ernest Fahlberg fu condotto in jeep a Pietrasanta, poi a Viareggio. Da lì alla sua base, a Pisa, il percorso era breve. Appena gli fu possibile, si mise in contatto con i suoi familiari. Al termine della guerra, Fahlberg decise di restare in aviazione. Per circa un anno, fu assegnato alle truppe di occupazione in Germania, dove fu raggiunto dalla moglie Lucille, che gli diede un figlio. Nel 1946 rientrò negli Stati Uniti. Partecipò come pilota anche alla Guerra di Corea e si congedò nel 1963."

Bibliografia
1) Bombardamenti alleati nelle città d'Italia-Internet -Internet-Wikipedia
2) Claudia Baldoli "I bombardamenti sull'Italia nella Seconda Guerra Mondiale.-Strategia anglo-americana e propaganda rivolta alla popolazione civile" Internet- Wikipedia
3) Strage di Gorla-internet-Wikipedia
4) Alberto Magnani " L'odissea di Ernest Fahlberg, Racconto (tratto da "L'ultimo volo. Storie di piloti ed aerei", edito da La Memoria del Mondo, Magenta 2014) "
5) Ambrogio Palestra " Storia di Motta Visconti e dell'antico Vicus di Campese"
 

Alcune curiosità riguardanti le Vie Medievali dei Pellegrini

Pavia la Ticinum dei Romani, la Papia dei Longobardi compare nelle cronache medievali con altri nomi e tra di essi quello di Pamphica: nome che campeggia su alcuni cartelli segnaletici tipici per i richiami di siti archeologici, monumentali o culturali fatti fissare a cura dell’Assessorato al Turismo dalla Provincia di Pavia in diversi punti degli ingressi alla città.Uno di questi è situato tra la Certosa di Pavia e Pavia sulla statale e sulla destra venendo dalla stessa Certosa e parte della scritta recita “XLI Pamphica-Sigerico…”Quale significato, quale curiosità si nasconde sotto queste parole? Spontanea sorgeva la domanda. Andando a documentarci si scopre che esse fanno esplicito riferimento rimanda alla relazione di viaggio più antica e che risale al 990 compiuta da Sigerico, arcivescovo di Canterbury di ritorno da Roma dopo aver ricevuto il Pallio, ovvero la nomina, dalle mani del Papa. L'arcivescovo inglese descrive le 79 tappe del suo itinerario verso Canterbury, annotandole in un diario. La descrizione del percorso è assai precisa, anche per ciò che riguarda i punti di sosta (Mansio). Il tratto da Canterbury a Roma si sviluppa su di un percorso di 1.600 chilometri che parte da Canterbury, e arriva a Dover per attraversare la Manica; da Calais, passando per Reims, Besançon e Losanna si arriva alle Alpi che vengono passate al colle del Gran San Bernardo. Dalla Valle d'Aosta si scende a Ivrea, quindi Vercelli, Pavia e si attraversano gli Appennini tra le province di Piacenza e Parma passando per Segalara, Fornovo di Taro e poi Berceto. Da Pontremoli si prosegue per Lucca, Porcari, Altopascio, Galleno, Ponte a Cappiano, Fucecchio, San Gimignano, Colle di Val d'Elsa, Siena, Viterbo per terminare a Roma.Tale percorso noto come la Via di Sigerico è una variante della la Via Francigena , Via anticamente chiamata Via Francesca o Romea e detta talvolta anche Franchigena, ed era parte di un fascio di vie che conduceva alle tre principali mete religiose cristiane dell'epoca medievale: Santiago de Compostela, Roma e Gerusalemme. I punti di sosta con la relativa numerazione progressiva in Lombardia risultano quattro: uno nella Provincia di Lodi e tre tre in quella di Pavia: XXXIX Sce Andrea, oggi Corte Sant'Andrea frazione del comune di Senna Lodigiana, XL Sce Cristine, oggi Santa Cristina, XLI Pamphica, come detto oggi Pavia , XLII Tremel, oggi Tromello: 79 tappe, circa 20 km per tappa, tra Senna Lodigiana e Santa Cristina il punto centrale del viaggio! Poi approfondendo la ricerca sulle antiche strade percorse dai romei si scopre che, quale aspetto significativo della sua posizione geografica, Pavia risulta anche il punto di raccordo in territorio italiano della stessa Via Franchigena e con la Via Francisca del Lucomagno. Quest’ultimo itinerario legato ad un antico tracciato romano-longobardo, storicamente documentato, partendo da Costanza, centro dell’Europa, e attraversando la Svizzera mediante il passo del Lucomagno giungeva fino a Pavia con un percorso fondamentale di collegamento dallo stesso centro dell’Europa con la Pianura Padana; queste le seguenti tappe principali : Costanza, san Gallo, Coira, passo del Lucomagno, Bellinzona, Agno, Varese e Pavia. Poiché recentemente anche sulla scorta del sempre più crescente e diffuso interesse per i cammini storico-religiosi, si è avviata la riattualizzazione della Via Francisca del Lucomagno, su proposta dell’Association Internazionale Via Francigena (AIVF) e dell’Associazione Amici Badia di Ganna e come riportato anche da Ticino Notizie nelle manifestazioni a seguito della lodevole iniziativa del Comune di Robecco sul Naviglio congiuntamente alla Regione Lombardia sulla valorizzazione di tale Via la mansio di Motta Visconti è stata inserita nelle tappe del tratto Lavena Ponte Tresa-Pavia come arrivo della 8 tappa Abbiategrasso - Motta Visconti e partenza della 9 e ultima tappa Motta Visconti Pavia il mio ricordo è corso ad un mio tempo antico all’estati passate lì in vacanza dai miei nonni.


La cä dal frä
(La casa del frate)

A ricordo di chi già andatosene mi ha accompagnato in alcuni istanti della fanciullezza. La casa del Frate situata al confine tra i comuni di Motta Visconti e di Besate e distrutta negli anni ’50 per secoli era stata una mansio lungo la Via Mercatorum ( Magenta-Pavia) e la Via Francisca che portava correndo parallelamente al corso del fiume Ticino anche alla mansio di Pamphica (Pavia) stazione di sosta anche lungo la francigena; pare fosse stata anche in anni sconosciuti anche la dimora di un eremita da cui il nome. Qui i viandanti e i pellegrini nel tempo antico vi trovarono luogo amichevole di sosta, di riposo e di ristoro.

Me pars da ved ammò cume una vöölt la cä dal frä,
là dopu la curva sul rivon, cunt i so cupp russ mess rut là
scunduuv di pasarin i ninn sutt pusè tra i tëcc e muur g’aav
chai di rundanin, muur pien da crepp l’usc sbarätaav
le stai l’olter dì mentär s’aavi intrè ‘ndä sul stradon cha’l porta a B’sa.
Pö là in fund in mees al prää ho vust la sciura Dela, l’aav propi là,
cunt al sò fularin veerd al coll e cunt in cò un caplin biäänc
che la vultaav al fen cul bastunin a mità prää pusè innaans
cunt al fer par taiä l’aarb al sgäsc stravacaav al aav Ciapin
e lì ataac cunt la cud al fil al sò al sò fradell Luis al faav,
sträc pär al laurä pär l’arbaton dal so puus ad una gabaav
ätäc al foss Nina e Tugnina avan indrè tra lur a parlä intaant
al sciur Pedar cunt al fulcin a l’aav adrè a taiä un rubin
un omm al bivaav dal fiaschet dl’äqua frösca forsi l’aav dal vin
un quei dun pö, sò no chi, scunduuv al pisaav dadrè a un muron,
pasaav intant pusè luntän Ingiulin cunt al so bö e ‘l tumarlin
G’avän tucc mancavi dumà min: pö un clacson dun utumobil
da culp al al mà dasdaav saavi giamò ruvä a B’sà:
e dumà lì ho capiiv che intant ch’andavi saavi drè a sugnä.

Dialetto lombardo con fonetica particolare e assonanze miste tra i dialetti milanese e pavese: Mutaiö il “mottese” di Motta Visconti (MI)

Là dopo la curva sul ciglio della strada per Besate
come una volta mi è parso di nuovo veder la casa
del frate: aperto l’uscio, le crepate mura, rossi mezzo
rotti i coppi e degli uccellini i nidi lì nascosti e tra tetto
e mura quelli delle rondinelle ancor da lì più sotto.
In mezzo al prato là in fondo poi la signora Adele sì proprio
lei: il piccolo foulard verde al collo e il cappellino bianco
col bastoncino che lì rigira il fieno, più avanti spaparanzato
se ne stava Ciapin per terra il ferreo attrezzo per colpir
di netto l’erba accanto e Luigi compagno e caro amico
il perduto fil di lena con la cote nuova vita dava al suo,
dietro una siepe al fosso accanto e per il lavoro stanche.
il solleone forte, tra di loro parlottavan Nina e Tugnina,
lì col falcetto tagliava una robinia il signor Pietro, acqua fresca
o vino forse dal fiaschetto si dissetava un tale a me non noto
un altro lui pure sconosciuto la sua orina spandeva ad un gelso
dietro e più lontano ecco Angiulin con il bue al carrettin legato.
Sì c’erano tutti solo io tra loro ecco mancavo poi d’una macchina
il clacson all’improvviso di colpo mi ha svegliato a Besate
eccomi di colpo già arrivato e qui ho infin capito che
in questo andare mio avevo purtroppo sol ma sol sognato.


Torquato Tasso sulle rive del Ticino: quel dimenticato mese

In quasi tutte le biografie di Torquato Tasso (1544-1595) non si riferimento alcuno, nella narrazione del suo doloroso e tormentato percorso terreno, alla brevissima sua presenza, circa un mese, dalla fine dell’aprile fino al chiudersi del mese di maggio del 1566 nella città di Pavia. A tale dimenticanza ha provveduto a suo tempo con dovizia di notizie Pietro Moiraghi in un agile volumetto dal titolo «Torquato Tasso a Pavia» -Rapsodia Storica- edito (1895-96) per i tipi della Tipografia del «Corriere Ticinese» e che offre nel contesto di tale permanenza un interessante e curioso «spaccato» della vita sociale e culturale della città di Pavia del XVI secolo.

La principale motivazione di tale storico ricordo viene cosi motivata dal Moiraghi stesso nel Proemio di questo suo lavoro letterario: «Alle onoranze, che d'ogni parte d'Italia si tributano a Torquato Tasso, nel terzo centenario di sua morte, avvenuta in Roma il 25 Aprile 1595, Pavia ha il diritto ed il dovere di associarsi». Poi il Moiraghi, con riferimento alla visita fatta “ in quel della città ticinense nel 1566 dal ventiduenne Torquato” così continua: “ Sulle rive del Ticino dimorò un mese il grand’Epico Italiano, forse qui meditando qualche canto della Gerusalemme; certo nella città attinse, dalla viva voce del popolo e dai documenti delle Famiglie, tradizioni intorno alle Crociate ed ai luoghi di Palestina, facendone tesoro per immortalare nel suo poema alcuni dei nostri concittadini”. E’ da ricordare che “Quando giunse in Pavia, Torquato aveva già composti vari canti della Gerusalemme ed alle sue peregrinazioni non erano estranei gi studi per il compimento e per la perfezione del poema” Infatti dopo Venezia e le città marittime a quei tempi “ non vi era altra terra italiana , dove la leggenda e i racconti delle guerre d’Oriente destassero tanto entusiasmo come in Pavia.” e “ Pavia si trovava lungo la strada che dalle Gallie conduceva a Roma o a Genova o a Venezia” e “ ben dispesso vedeva questi pii romei avviarsi alla Terra Santa e ritornare dalla peregrinazione alla patria dopo mille avventure e che alcuni dei pellegrini o lungo il viaggio, o più di frequente alle loro case o nei conventi, scrissero le memorie delle loro peregrinazioni; né mancarono di notare il loro passaggio per Pavia ed attraverso il territorio ticinese e fu specialmente dopo il Mille che siffatti pellegrinaggi divennero frequenti.” (1)

Al riguardo si ha notizia che un tal vescovo pavese di nome Guglielmo fece parte di una spedizione di Crociati lombardi che nel 1100 sotto il comando dell’arcivescovo di Milano Anselmo IV si scontrò in Palestina con l’esercito barbaresco subendo una gravissima strage e dove nel corso della battaglia solo i più lesti riuscirono a salvarsi con la fuga: l’arcivescovo Anselmo dapprima ferito mori poi a Costantinopoli mentre Guglielmo cogli avanzi delle sue schiere, ritornò a Pavia nel 1102 e finì infine i suoi giorni dopo trentasei anni di episcopato.”

Fonte diretta delle vicende dei Crociati in Oriente il Tasso le ebbe qui in Pavia direttamente da Alfonso Beccaria cui si legò di profonda amicizia, amicizia che durò nel tempo e negli anni con frequenti scambi epistolari. Il Beccaria, “fra i più cospicui patrizi pavesi, uomo dotto e benefico, fautore dei letterati e degli studiosi, letterato egregio egli stesso” “ potè al giovane poeta non solo narrare quanto altre leggende pavesi raccontavano del misterioso Oriente, ma additare nei propri antenati i campioni delle Crociate e delle guerre asiatiche. Egli conservava ancora il preziosissimo archivio della sua potentissima famiglia e potè quindi facilmente fornire a Torquato relazioni e documenti sulle imprese dei popoli latini nella Palestina.”

Altre poi le fonti di sapere e di conoscenza del giovane Tasso in Pavia «Qui egli ascoltava molti dei nostri lettori sulle cattedre del celeberrimo Studio, ed assisteva, per breve tempo, allo svolgersi di quella attività scientifica e letteraria, di cui dava ancora belle manifestazioni nel secolo XVI la città nostra, prima che si addormentasse nei deliri del Seicento». Infine come ben documenta il Moiraghi a partire dal capitolo del volumetto dal titolo «Chi attrasse Torquato sulle rive del Ticino?» e tutta «Una rapsodia» di fatti e notizie sulla vita sociale e culturale della Pavia di quel tempo. Della Pavia «... dove la vita degli studenti pure passava tra le feste chiassose, le risse, i pugnali, i colpi di spada, ed i fatti di sangue...». Ma anche la Pavia dove nel contempo «Gli studi avevano nobilissime tradizioni, e l'Ateneo era anche allora frequentatissimo... con studenti attratti dal nome di maestri eminenti, che vi insegnavano con plauso, tenendo alto il prestigio dell'antichissima fama». Ed ancora: ai giorni del Tasso in particolare «Le guerre, gli assedi ed i saccheggi avevano distrutto ogni fonte di floridezza per la vetusta regina del Ticino» e «Il popolo gemeva afflitto dalle carestie e dalle miserie; e solo a distrarlo concorrevano i tumulti della vita gaia e licenziosa degli studenti». Di contro, invece, «La nobiltà pavese era tra le più rinomate d'Italia per antichità di stirpe, per ricchezze e per valore di uomini, saliti alle più alte cariche civili, militari e chiesastiche». Ed ad alcuni degli esponenti di tale nobiltà si deve infatti «il mantenere vivi in Pavia il culto agli studi e specialmente a farvi rifiorire le lettere italiane e la poesia». Il riferimento è alla fondazione nel 1562 dell'Accademia degli Affidati «cui furono tosto ascritti 'i primi letterati d'Italia"» dove il conte Alfonso Beccaria fu ascritto a questo sodalizio con lo pseudonimo di Pensoso e tra questi «Affidato» e al conte Alfonso legato colla più viva amicizia «v'appartenne col pseudonimo di Endimione Filippo Binaschi cui Binasco, piccolo centro in provincia di Milano in cui risiede chi scrive questa nota, memore della sua antica fama, dedicò, un secolo fa, affinché il suo nome non finisse nell'oblio del tempo una via nelle vicinanze del centro del paese. Di recente Filippo Binaschi è stato ricordato anche nei dati storici della «cartina topografica» del Comune di Binasco sotto la dizione di «Filippo Giovanni Confalonieri - Poeta», in quanto Filippo apparteneva per nascita al ramo binaschino dei Confalonieri quindi era un Binasco o dei Binaschi. A lui il Moiraghi dedica in questa «Rapsodia» pavese diverse pagine e notizie ricordando in particolare non solo i tragici eventi della sua prigionia, della malferma salute e della cecità quanto gli apprezzamenti della «sua musa» nei circoli letterari del tempo nonché l'amicizia che legò il giovane Tasso al cieco poeta binaschino in questa sua breve tappa e sosta in Pavia. Si ricorda tra l’altro che a quel tempo i Circoli letterari erano frequentati anche della nobildonne pavesi tra le quali primeggiava Ottavia Baiarda Beccaria che “ fu e per sovrumana bellezza, e per sublimita d'ingegno, e per gusto di lettere celebrata moltissimo da tutte le lingue et da tutte le penne” ed in particolare in diversi carmi dal vecchio Binaschi e questi, quale esempio, i versi a lei dedicati nel

Sonetto per l’illustre e magnanima signora Ottavia Baiarda Beccaria

Ottavia, la beltà famosa e rara,
Di che altamente il vostro aspetto adorno
Vidi, mentre mi diè veder il giorno
Mio Fato acerbo, o mia fortuna amara;

Al cor mi corse dilettosa e cara;
Et io sempre la servai in quel soggiorno;
Ove l’alma, mirando d’ogni interno
Suoi pregi, si rallegra e si rischiara;

Sì come dentro mi si pose allora
Cò capei d’oro, occhi del sole, e gote
Di fresche rose, e labbra di fin ostro;

Così con tal valor mantiensi ancora,
Che non può il corso dell’eterne ruote
Smarrir il suo bel fior nel pensier nostro.

Filippo Biaschi Rime, p.II, p.260
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1 Nota: Pavia la mansio Pamphica del Cammino di Sigerico o Via Francigena e la mansio della Via Francisca del Lucomagno


CURIOSITÀ DALL’ALBUM DEL CORROSIONISTA


RIASSUNTO

Sfogliando l’album del corrosionista, ben rilegato e con amorevole cura compilato nel corso degli anni della mia trentennale attività di ricercatore presso l’Istituto Ricerche Breda di Milano-Bari, si rivedono casi, fotografie, personaggi e situazioni che a distanza di tempo inducono non solo al sorriso ma anche a riflessioni che gli addetti al lavoro dovrebbero tenere in debita considerazione. Ritornano così alla mente: richieste le più strane per interventi e materiali di indagine, ipotesi di lavoro smentite grossolanamente, discussioni e richiami a suggestivi meccanismi poi riconducibili ad eventi legati a mere banalità e, da ultimo , casi di danneggiamenti legati alle cause le più curiose. Sono casi che richiamano alla cautela prima di esprimere un giudizio, alla pazienza e alla costanza in quanto un certo spirito indagatore non deve essere disgiunto dalle conoscenze scientifiche. Spesso infatti, al termine di una indagine corrosionistica può capitare che le analisi di laboratorio non diano risultati univoci o diano risultati contrari e opposti a quelli attesi, oppure che risultino incongruenti sia con le informazioni date sulle condizioni d’impiego sia con la cronistoria. In tale ottica viene proposta o riproposta,in quanto parte di essa già presentata in altri contesti, una casistica dalle inaspettate e talvolta curiose conclusioni. Sono così presentati, in rapida successione, gli eventi verificatisi su fili e serbatoi in acciaio inossidabile, pali interrati in acciaio al carbonio per la distribuzione di energia elettrica, tubi in ottone all’alluminio per scambiatori di calore e per condensatori, le cause: uso indebito, cattiva manutenzione, lavori agricoli, bisogni fisiologici, poca cura nell’esecuzione di lavori preliminari.


PAROLE CHIAVE

Acciai inossidabili-Leghe di rame-Acciaio al carbonio-Condensarori-Acqua mare- Pali interrati- Corrosione nei terreni-Antenna radiotelecopica-Corrosione atmosferica-


INTRODUZIONE

Aprendo un libro di corrosione o puntando il dito su una delle tante tabelle sul comportamento dei materiali, senza dubbio non si faranno attendere le risposte che cercavano relativamente ad un sistema corrosionistico: specie aggressiva-metallo: ecco descritti i meccanismi di attacco come pure le morfologie del danneggiamento, a piè di pagina o nelle note siamo informati di come la severità dell’attacco e la sua cinetica di avanzamento siano determinate da particolari condizioni al contorno: concentrazione della specie aggressiva, temperatura, condizioni statiche o dinamiche del fluido, condizioni di aerazione, stato tensile e metallurgico del materiale. Non solo ed oltre: basandosi su tali conoscenze comprovate dalla pratica e dall’esperienza sono stati messi a punto diversi sistemi esperti di corrosione e, tra i primi, si ricordano quelli relativi al comportamento degli acciai inossidabili in ambienti clorurati od alogenati. Così, inseriti nel sistema i parametri operativi e le condizioni al contorno siamo informati sulle diverse possibilità di attacco o meno del materiale preso in considerazione: assenza di corrosione, spassivazione generalizzata, pitting, corrosione sotto tensione. Tuttavia, avendo letto con cura il nostro libro di corrosione ci sovviene che con riferimento alla corrosione puntiforme per gli acciai inossidabili, altri meccanismi e altre situazioni possono portare a simili morfologie di attacco; quindi siano edotti che solo le analisi di laboratorio potranno fornire indicazioni sulla natura dell’agente corrosivo e portare alla corretta definizione del meccanismo al fine di fornire i consigli pratici per il futuro buon comportamento del materiale in esame o dare i suggerimenti per una diversa scelta.

Talvolta però può capitare che le analisi di laboratorio non diano risultati univoci o diano risultati contrari alle iniziali ipotesi di lavoro o, ancora, risultino incongruenti sia con le informazioni date circa la cronistoria del materiale che con le dichiarate condizioni di esercizio. Di seguito vedremo come ad indagini dalle inaspettate e curiose conclusioni faccia riferimento la casistica sotto riportata.


DALL’ALBUM DEL CORROSIONISTA


Attrazione fatale verso un oggetto luccicante

Inizieremo la nostra presentazione dall’indagine svolta su un serbatoio di acciaio inossidabile AISI 304 impiegato in una azienda agricola per la refrigerazione del latte dopo la mungitura e messo fuori servizio per forature. La morfologia del danneggiamento risultava tipica per l’attacco perforante da alogeno ioni anche se il materiale presentava incipienti aree di spassivazione al di sotto di grumi e residui di latte cagliati. Accertato che le operazioni di lavaggio e di manutenzione venivano svolte regolarmente l’attenzione veniva volta alla ricerca di cloruri nelle vicinanze dei pitting e delle zone corrose oltre che sui grumi di latte. I risultati non davano risposte univoche in tal senso; si arrivò persino alle disquisizioni sul siero di latte e del suo contenuto in cloruri. Alla fine quando gli animi stavano per surriscaldarsi qualcuno si ricordò che per un guasto alla parte elettrica il serbatoio era stato messo fuori servizio per alcuni giorni facendo così felice la moglie del fattore che negli stessi giorni lo utilizzò per farci il bucato.


Un brodo energetico ottenuto da un dado sbagliato

Le curiosità proseguono dall’indagine svolta su una apparecchiatura in acciaio inossidabile AISI 316, impiegata in un ospedale lombardo per la preparazione del brodo per i degenti. I periodici controlli sanitari ed organolettici del brodo rivelavano un elevato tenore di ferro inconsueto per le sostanze in cottura e mai riscontrato precedentemente. L’ispezione interna del manufatto per ricercare le cause responsabili di questo brodo energetico, escludeva che vi fossero significativi fenomeni di corrosione in atto sulle pareti del recipiente, fatte salve solo alcune incipienti e localizzate aree di spassivazione nelle vicinanze delle quali, già ridotti a meno della metà, si stavano invece corrodendo alcuni dadi in acciaio al carbonio, fissati al posto di quelli originali nelle corso, per sbaglio, delle ultime operazioni di manutenzione.


Cani innocenti, uomini no

In un paese del Sud-America, i pali in acciaio al carbonio interrati utilizzati per la distribuzione di energia elettrica nei dintorni della capitale si stavano fortemente corrodendo: alcuni erano già distrutti alla base, ridotti a stratificazioni di ossidi idratati supportarti da pochi mm di metallo originario, altri puntellati e sostenuti da travi di legno, pochi ancora in condizioni di sicurezza. Le ipotesi avanzate dagli esperti locali attribuivano tale fatto ai branchi di cani selvaggi od abbandonati che si aggiravano in gran numero in tali zone ed alle loro azioni fisiologiche: rilascio di orina canina. I cani non lo sapevano ancora ma si stava tramando per la loro eliminazione: fortuna volle che ciò non avvenne e la fortuna fu legata ad una semplice e banale indagine corrosionistica. I pali, di forma ottagonale, ottenuti per saldatura da tronconi di lamiere opportunamente piegate e sagomate, a base ed estremità aperte, e senza rimozione delle scaglie di calamina e di ossidi derivanti sia dal trattamento termico delle lamiere originarie sia di quelle indotte dai procedimenti di saldatura finali, venivano interrati direttamente nel terreno e senza protezione della zona interrata: né catramature, né lastrature, né verniciature. Il degrado che partiva essenzialmente nelle zone di transizione terreno-aria era localizzato quasi esclusivamente sul lato sud dei pali, equivalente, dato l’emisfero, al nostro lato nord. Condensazione preferenziale di umidità atmosferica su tali lati, addensamento della stessa per scolamento verso il basso, parziali ristagni data la natura del terreno, sabbiosa-argillosa e salsa, alla base dei pali e inizio dell’attacco favorito anche dall’azioni catodiche degli ossidi residui superficiali e non rimossi da opportune azioni decapanti o di sabbiatura.

Quello che insensatamente si ritenne di attribuire ai bisogni fisiologici dei cani risultò invece causa determinante, orina umana, dell’inconveniente lamentato sui tubi in Aluminum Brass ASTMB111 Alloy 687 del condensatore primario di una centrale termoelettrica situata in località marina. Terminati i lavori di costruzione e di montaggio delle apparecchiature, nel corso dei controlli finali per l’avviamento preliminare della centrale termica venivano ravvisate anomalie su alcune zone delle generatrici esterne dei fasci tubieri del condensatore.Le alterazioni superficiali risultavano localizzate solo su alcuni diaframmi sotto forma sia di puntini verdi circondati da un alone bianco sia di puntini verdi attorniati da un alone marrone oltre a formazioni sparse di sali verdastri. La distribuzione di tali alterazioni, a partire dalle prime file interessate, era somigliante alla apertura di un ventaglio o di una V capovolta, con attenuazione del fenomeno sia verticalmente: per 40 cm circa più in alto, per circa 1 metro nelle zone mediane per poi a giungere, dopo una caduta in altezza di quasi due metri, a sfiorare i 3 metri. Questa particolare distribuzione delle alterazioni non ammetteva dubbi: scolamento dall’alto con schizzi e spruzzi di una fase liquida o condensata. Così, essendosi riscontrati tra i residui delle alterazioni superficiali elementi in traccia quali cloro, zolfo, potassio e tutti componenti di una atmosfera marina si poteva paventare o un ingresso progressivo e localizzato di umidità salmastra o montaggio di tubi già alterati inizialmente. Questo in quanto alcuni pacchi di tubi di riserva e di scorta giacevano ancora in un piazzale circostante con evidenti segni di lacerazione dei fogli protettivi in polietilene. Questa ipotesi risultava subito da scartare per i seguenti motivi: i tubi all’atto del montaggio risultavano a detta dei tecnici della Centrale inalterati e montatori esperti lo avrebbero segnalato, le alterazioni superficiali sui tubi a scorta nelle zone di lacerazione dei fogli protettivi apparivano insignificanti e tali da non giustificare anche fortuitamente un assemblaggio simile alla distribuzione del danneggiamento e per quanto concerne l’eventuale ingresso accidentale di umidità salmastra si appurava che il condensatore, terminato il montaggio dei tubi ed a ultimazione dei lavori murari, era stato messo sotto vuoto con aria secca ( umidità relativa 30-50%) e con l’interno condizionato(impiego di gel di silice rigenerato periodicamente) e con l’uso di una stufetta elettrica con mantenimento di una leggera sovrapressione tramite ventilatore.

Poiché nonostante tutte queste affermazioni ed assicurazioni, nel corso dell’ispezione del condensatore, si era notato che lo stato di pulizia generale risultava piuttosto scadente per presenza di sudiciume, segatura, limatura di ferro, chiodi, pezzi di legno, residui di nastro adesivo, qualcuno ricordava che dopo l’infilaggio dei tubi erano stati effettuati alcuni lavori di collegamento del condensatore con la turbina e che, nel corso degli stessi, la parte superiore era stata protetta con teli. Si è inoltre appreso che durante lavori di questo tipo per soddisfare i bisogni fisiologici degli operatori senza interruzioni e perdite di tempo si è soliti far uso di secchi o taniche che poi vengono calati o portati a terra per gli opportuni svuotamenti: evidentemete qualcuno, in più di una occasione, doveva aver disdegnato l’uso del secchio od evitato la fatica, una volta pieno, di calarlo o di portarlo a terra.


Al momento sbagliato

Alcuni fili in acciaio inossidabile AISI 304 utilizzati per l’ampliamento dell’antenna di un radiotelescopio installato in aperta campagna, alla periferia di una città del nord Italia, dopo appena sei mesi di esercizio, presentavano notevoli segni di alterazione superficiale con corrosione puntiforme. Diversamente i fili costituenti la prima parte dell’antenna, in esercizio da circa sei anni, risultavano praticamente inalterati. Come accertato da analisi di laboratorio le diverse partite di fili presentavano la stessa composizione chimica, le stesse caratteristiche meccano-tensili. Poiché tutti i fili, di vecchia e di recente installazione, veniva riscontrata la presenza di terriccio e di tracce di cloruri, la raccolta di informazioni sul posto ed una accurata ricostruzione della cronistoria circa l’esercizio dell’antenna permettevano di giungere alla soluzione di quanto avvenuto. Il terreno agricolo circostante il posizionamento dell’antenna risultava da anni sito per la coltivazione di barbabietole da zucchero, coltivazione che dopo la semina richiede, in determinati periodi, forti irrorazioni di anticrittogamici a base di prodotti contenenti alogeno ioni. L’esame dlle diverse date di installazioni e quello dei cicli stagionali relativamente alla coltura delle barbabietole, dalla semina al raccolta, permetteva di accertare che mentre i primi fili erano stati posti in esercizio in un periodo di assenza dei lavori agricoli, gli ultimi venivano installati proprio in concomitanza con le fasi di aratura del terreno e di semina delle barbabietole. Si appurava pure che dopo la posa in opera di questi era seguito un periodo di siccità che, da una parte mentre impediva un dilavamento dell’acciaio ed un buona passivazione con rimozione di terriccio e diserbante, dall’altra comportava operazioni agricole aggiuntive quali, irrorazione del terreno, con aggravio nell’atmosfera di inquinanti, aggravi limitati ed ininfluenti sui primi fili sulla superficie dei quali lo stato di passivazione si era già formato e consolidato stabilmente.

Legato anch’esso ad un momento “sbagliato” il danneggiamento che segue.

In un impianto petrolchimico, situato in località marina, le necessità di approvvigionamento di acqua dolce rendevano necessaria l’installazione di alcuni dissalatori di tipo multi-flash. Il programma prevedeva che questi fossero installati con una certa gradualità nel giro di un paio d’anni e di fatto dopo la messa in servizio dei primi tre veniva avviato come ultimo un quarto impianto: seppure progettati da ditte diverse e quindi con diverse soluzioni tecniche, anche se non molto dissimili data la tipologia degli impianti, giocoforza i materiali impiegati risultavano gli stessi ed i parametri operativi non molto differenti tra dissalatore e dissalatore. Quest’ultimo, al contrario degli altri tre dissalatori che da tempo operavano senza alcun inconveniente, dopo appena pochi mesi dall’avviamento doveva essere arrestato a seguito di forature sui tubi in cupronichel 90/10 degli evaporatori( salinità salamoia 74.000 ppm, salinità acqua mare 38.000ppm, pH= 6,6-7,6, temperatura ingresso 103°C, temperatura uscita 115 °C ppm, O 2 = 165-470 g/l . La morfologia dell’attacco risultava perfettamente identica a quella che solitamente si verifica su questi materiali a seguito di fenomeni di corrosione-erosione e/o corrosione turbolenza (impingement attack) ma poiché la velocità del fluido era alquanto bassa(1,83 m/sec) e nettamente inferiore ai valori critici di 3,5m/sec che su tale lega innescano tali fenomeni, evidentemente le cause responsabili del danneggiamento andavano ricercate altrove.

Sui tubi nelle zone esenti dall’attacco invece della solita patina protettiva che si forma su tali materiali in acqua mare erano presenti sottilissimi veli, in genere ben ancorati al metallo base, di colore biancastro.Gli esami di laboratorio indicavano che tali depositi erano costituiti prevalentemente da Ca4P2O9 mentre misure di potenziale elettrochimico, effettuate a diverse temperature, indicavano che il metallo ricoperto da tali depositi rispetto alle zone dove gli stessi erano stati rimossi risultava decisamente più nobile: + 60 mV a 50 °C e + 130 mV a 90 °C. Sulla base di tali risultati il meccanismo del danneggiamento risultava facilmente spiegabile nonostante la non elevata velocità della salamoia: le zone ricoperte dal deposito assumevano il ruolo di aree catodiche rispetto a quelle dove lo stesso risultava poco ancorato od asportato: di conseguenza poi la localizzazione dell’attacco era stata favorita anche dall’alto rapporto aree catodiche ed aree anodiche. Circa l’origine e la provenienza dell’inquinante si veniva a conoscenza che le prese dell’acqua mare degli impianti di dissalazione erano situate in prossimità dello scarico di un impianto per il trattamento di fosforiti e che questo era stato messo in funzione poco prima dell’avviamento del quarto modulo di dissalazione; fatto questo da giustificare i diversi comportamenti corrosionistici: l’azione deleteria tradottasi nell’impedire il corretto stato di passivazione sul quarto modulo si dimostrava ininfluente sui primi tre in quanto, antecedentemente alla messa in marcia dell’impianto delle fosforiti, sui tubi degli stessi si erano già formati ed ancorati gli strati passivanti protettivi..


I sassi della discordia

Sui tubi in ottone all’alluminio di un condensatore di una centrale elettrica, poco dopo la messa in servizio, e su un limitato numero di tubi, si erano manifestate forature dal lato acqua mare.

Oltre all’indagine corrosionistica sui tubi corrosi venivano pure esaminati alcuni spezzoni di tubo nuovo facenti parte della stessa partita di quelli montati in esercizio. Poiché su questi era presente una sottile patina di colore più o meno scuro, con presenza di striature, continue o non, residui di lubrificanti di trafila carbonizzati nonché difetti puntiformi isolati, la corrosione si poteva, in prima ipotesi, attribuire alla presenza di queste anomalie superficiali.E’ noto infatti come i residui carboniosi su leghe di rame possano assumere il ruolo di aree catodiche per la riduzione di ossigeno ed alimentare così celle di corrosione che determinano attacco localizzato.Il fatto però che il danneggiamento si fosse verificato dopo poco tempo dall’avvio del condensatore e solo su alcuni tubi lasciava aperte molte discussioni: non tutti i tubi della partita potevano avere inizialmente una simile difettologia superficiale per cui era aperta la possibilità che solo alcuni fossero sfuggiti ai controlli di qualità iniziali. Il fatto poi che dopo la sostituzione dei tubi forati il condensatore non avesse più presentato alcuna sorte di malfunzionamento alimentava fortemente tali dubbi, creando tensione tra l’utente ed il fornitore del materiale. Il mistero veniva risolto dall’esame della documentazione fotografica effettuata dopo l’apertura del condensatore e inizialmente stranamente occultata: nelle casse d’acqua si notava la presenza di depositi e di agglomerati di corpi estranei, in prevalenza, sassi. Per cui, con buona pace dei residui carboniosi, l’inconveniente era da attribuire oltre all’azione schermante di tali corpi estranei anche alla modifica creata localmente dagli stessi relativamente alle condizioni fluido-dinamiche dell’acqua mare.


CONCLUSIONI

La casistica di corrosione presentata e discussa mette in evidenza come in molti casi i fenomeni di danneggiamento sfuggano a rigidi e consolidati meccanismi di attacco o quanto meno come le cause dell’innesco degli stessi siano legate agli eventi più strani e più curiosi. Ne consegue pertanto come in campo corrosionistico, fatte salve le conoscenze scientifiche, al pari di altre attività umane, non devono mancare al ricercatore doti quali: l’umiltà, la cautela, la pazienza e la costanza nell’indagare.


BIBLIOGRAFIA

1)G.Casarini,G.Stella:”Importance and Utility of Analytical Monitorig for the Reliabiliy of Indusrial Plants”- Proc. 11th Int. Corrosion Congress- Vol. 1- pag. 547- AIM-Florence-1990

2)G.Casarini :”Monitoraggio negli scambiatori di calore ai fini della loro sicurezza ed affidabilità di esercizio”- La Metallurgia Italiana 82 ( 1990) n.° 11- pag. 1073

3)G.Casarini:”Sicurezza ed affidabilità degli impianti chimici industriali: importanza degli aspetti corrosionistici dei materiali metallici”-NT-Tecnica & Tecnologia- N. 4-Luglio-Agosto

( 1991)-AMMA-Torino

4)G.Casarini,G.Careri,F.Forti,G.Rivolta:”Casi usuali e non di corrosione atmosferica”-Atti-1 ed. Giornate Nazionali sulla Corrosione e Protezione-AIM-Milano 1992

5)G.Casarini:”Corrosione&Casistica:”Per evitare tutti i danni occhio al “film”-

Pianeta Inossidabili- Anno 1- Num.3-Periodico delle Acciaierie Valbruna-Vicenza 1995

6)F.Forti,M.L.Pessia,G.Rivolta,G.Casarini,E.Casarini:“Condensatori in leghe di rame e di nichel raffreddati da acqua di mare:Problematiche varie che ne influenzano il buon comportamento corrosionistico-Rassegna di casi pratici-”Atti-Giornate Nazionali sulla Corrosione e Protezione-4 ed.AIM-Genova 1999

 

Veronica e Agostino

Veronica da Binasco
Pio pellegrin orante che t’avanzi
di Binasco nella parrocchiale
a quell’altar minor subitamente
guarda, dorme Veronica nell’urna
argentata lì devotamente posta
che tra i Santi la giusta comunione
attende lei da secoli Beata venerata,
povera ignorante contadina in vita
che qual di Cristo sposa forte il velo
con ardimento ardeva, forte patì
l’attesa dell’ardente devozione sua
che dalle dotte badesse letterate irrisa
vilipesa le porte dei conventi augusti
trovò poi chiuse che rozza conoscenza
rozzo villan sangue non v’era lì ricetto
padre Agostino teologo santo peccatore
s’aprì commosso a questo santo ardore.

Falciava un dì Nina, perduta ogni speranza,
come negli anni suoi in verde età passati,
le bionde messi dono di Dio in un’ardente
estate e in quel dorato prato dal lì poco
lontan San Pietro in Ciel d’oro ticinense
che l’urna tiene delle Confessioni l’onorato
Santo a lei suadente una voce così giunse:
Santa Marta un convento di Milano i nomi
queste da Nina forti le parole poche intese,
presto un porton s’aprì da quella intercessione
qual umile conversa alla cerca comandata vestì
alla morte fino la bianco-nera veste agostiniana
mutando in Veronica quel primitivo suo Nina.

Per anni umile tra gli umili a quei donò conforto
o il ricevuto obolo di rimando lor tosto donando
o se vuote le mani con carezze e il sorriso suo,
mistica in estasi sovente rapita tra i celesti
nella carne da Satana offesa e tormentata
visse il mistero dei dolori e di Cristo la passione,
con dolcezza castigò del Moro e di Beatrice
le mollezze della malata corte milanese,
al vicario di Cristo ch’a Lucrezia al Valentin
vita donò con carnali amplessi voluttuosi
di Pietro macchiando il soglio venerando
su mandato preciso dall’amato suo Signore
con la rampogna pure portò a quei pentito
il perdono a lui donato da Cristo Salvatore.

Giovannina ( Nina) Negri o Negroni nasce nel 1445 in quel di Cicognola di Binasco. Conversa agostiniana con il nome di Veronica nel convento di Santa Marta in Milano sarà lei ad ammonire a viva voce i costumi del Moro e della sua corte, lei umile e fragile donna di umili origini  ma sorretta ed  illuminata della fede a portare, a Roma, al Pontefice Alessandro VI , Papa Borgia  che indegnamente regna, quelle a noi ignote ma salvifiche  parole di Cristo e tali da far  esclamare allo stesso, dopo questo colloquio segreto, alle personalità della corte pontificia:" Onoratela perché questa è una santa donna". Morirà in odore di santità nel 1497

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Mario Capodicasa curatore di una edizione delle Confessioni  così ci presenta nella prefazione  la figura di Agostino “ La sua grandezza, come teologo, filosofo, mistico, scrittore, psicologo, è data dalla sintesi armoniosa e splendente delle sue doti,.... se rifletti bene e lo segui nelle sue speculazioni e nella sua dialettica ravvisi Aristotele, Atanasio; se ti invade il fiume della sua eloquenza ravvisi Cicerone, Crisostomo; se ti commuove la genuina parola del cuore che è sempre alta poesia ravvisi Pindaro, Virgilio; se riesci a penetrare nel suo cuore lo vedrai simile a  quello di Paolo, generoso come quello di Pietro” .

Veronica da Binasco, al contrario, una delle tante figlie spirituali del Santo di Tagaste è una povera ed ignorante contadina: quali dunque i punti di contatto, quale il possibile raffronto tra questi due Santi tanto dissimili per origine, cultura e periodi storici?

Il cammino di fede parte per entrambi da Milano: la Milano romana di Ambrogio per il primo, la Milano ducale di Lodovico il Moro per la seconda; protagonista di spicco Agostino, difensore della fede cristiana a Cartagine, la nuova Roma, missionaria nella Roma dei Papi Veronica; singolare poi il fatto che la Diocesi di Pavia ne conservi le venerate spoglie sottoposte entrambe a varie vicissitudini e peregrinazioni: da Ippona in Sardegna nel Logoduro e da qui  in S. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia quelle di S. Agostino e, a pochi chilometri, nella Parrocchiale di Binasco quelle della Beata Veronica dopo la traslazione dal Convento agostiniano di Santa Marta in Milano.

Generato a nuova vita e abbandonate le giovanili dissolutezze, dopo l’incontro in Milano con Ambrogio ed aver ricevuto  il battesimo, Agostino il novello presbitero e poi vescovo di Ippona, ritornato in patria, all’epoca del  nascente culto cristiano, organizza nel 411 d.C. il primo  dei concili di Cartagine. Oggi, nell’odierna Tunisia, uno dei luoghi che lo videro indiscusso protagonista, le Terme di Gargilius, sono ridotte a  pochi ruderi e si nota solo qualche sbrecciata colonna a rompere l’ondeggiare di selve di gialli ranuncoli e di solitari papaveri di color scarlatto. Così doveva essere questo  luogo, lontano e a lei sconosciuto, secoli dopo anche ai tempi di Giovannina ma non dissimile, quale immagine, dall’odorante e fiorita campagna di Cicognola dove la fanciulla rendeva con il suo lavoro mena faticosa la vita dei genitori ed attendeva nel silenzio di realizzare il suo sogno: una chiamata misteriosa farsi monaca!

Così nell’immaginario della mente ora, chiudendo gli occhi, confondendo i luoghi, il passato con il presente e il presente con il passato, e come se vedessimo Agostino passar lieve su quel campo e prendere per mano Nina. Per lei ignorante ma dalla fede genuina accanto alle parole di Cristo “ Ti benedico o Padre Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” non valevano forse per lei, ferma nella fede cattolica, le parole di Agostino per il  manicheo Fausto ? : “ E’ vero che, benché ignorante, poteva benissimo possedere la verità in materia religiosa, ……………. Monito anche per noi portati a giudicare il prossimo ed a valutarne i comportamenti in termini di fede e religiosità.

Se poi, non volessimo cedere all’immaginazione e riaprendo gli occhi cancellassimo questa intima visione e lasciare,  nostro malgrado, quel campo fiorito, ecco come la piccola Nina, ormai divenuta Veronica, rapita in estasi ed in celestiali visioni, ci soccorre  nell’indicare  come di fatto ed in modo straordinario  avvennero il suo  primo incontro e poi quelli successivi con Agostino: basta infatti darle voce aprendo le pagine di quel “libricino” di  Isidoro de Isolanis “La Vita della Beata Veronica da Binasco” nella  bella traduzione dal latino di Don Ermanno Segù e di Don Giacomo Ravizza .

Così gli occhi e la mente scorrono lentamente su queste pagine: “ Nell’anno 1487 dal parto della Vergine Maria, mentre Veronica si dedicava all’orazione notturna, le apparve il Beato Agostino per tre volte…Agostino era ricoperto di un manto di seta e di una veste di porpora. Si vedeva l’aspetto tipico di un essere divino. Sul capo portava una fulgentissima mitra. Dapprima Veronica si spaventò di quella luce immensa, quindi esultò per le gioie celesti.” (Libro secondo-Capitolo secondo: L’apparizione di sant’Agostino). E poi continuando nella lettura :”Durante la festa particolare di S. Agostino, tralasciando con lo spirito i sensi terrestri, vide queste cose: il nostro santo padre Agostino in abito pontificio e con sotto una veste di color rosso avanzava tra i santi Nicola da Tolentino e Guglielmo…Con una mitra che splendeva d’oro e di pietre preziose..reggeva in mano una nicchia d’oro di meravigliosa fattura. La mente umana non comprende quanto fosse la bellezza, incredibile lo splendore” ( Libro quinto- Capitolo undicesimo: La manifestazione della festività di S. Agostino).

Detto di questi incontri creati dalla immaginazione e vissuti nell’estasi, ora con riferimento  alla cronaca e  alla storia sappiamo per certo che da Milano  punto di partenza , come già detto, della conversione di Agostino, Nina si avvia alla vita religiosa e spirituale, iniziando proprio da un  Convento agostiniano quello di S. Marta, la sua missione di conversa questuante e poi di missionaria per le vie di Milano, Como, Firenze, Roma.  Nella provincia romana del Nord Africa,allora il colto e dotto Vescovo Agostino, formatosi nelle scuole di retorica di Cartagine e di Roma, riduceva al silenzio e disputava con successo  grazie anche alla  sua arte oratoria ( Aurelius Augustinus poi Doctor Gratiae)  le tesi ed argomentazioni di manichei,  donatisti ed altri scismatici oppositori della fede cattolica, così  Veronica nel nome di Cristo e della verità  parlerà ai ricchi ed ai potenti del suo tempo  siano essi i Duchi di Milano, Lodovico il Moro e Beatrice d’Este  nonché  lo stesso Vicario del suo amato Cristo: Papa Borgia,  richiamando ora in   Milano a più onesti comportamenti  la poco morigerata corte ducale  e poi a Roma sede dei Papi, lei, l’analfabeta contadina di Cicognola, con umili e tremanti parole, ma per Divina Provvidenza toccanti e persuasive, indicherà la strada della conversione al poco raccomandabile in termini di virtù e costumi   Papa Borgia-Alessandro VI.

 Artefici entrambi della luccicante e sempre rinnovata, giorno per giorno da nuovi mattoni e da nuovi castoni, casa del Padre, cercheremmo invano di differenziare il loro contributo a questa edificazione: tra gli operai e gli artefici del Regno di Dio non esiste distinzione tra orafi e badilanti!

 Allora in Africa,  il demonio sotto le sembianze di scellerati e debosciati giovani  cartaginesi induceva il giovane Agostino ai piaceri della carne nei lupanari della città e lo conduceva alle frivolezze dei giardini delle Terme di Antonino, ora, sconvolto dalla angelica purezza di Veronica,  il diavolo le si presenta, nel buio di una piccola cella, nel suo più reale e bestiale aspetto e ne lacera, ne percuote, ne trafigge le povere e misere carni.

Nonostante queste diaboliche torture e tentazioni,  sia per Agostino che per Veronica le porte degli inferi non hanno prevalso; nel sorgere a vita nuova del primo scorgi il segno della misericordia divina nei confronti del singolo peccatore,  nella sofferenza corporale di Veronica, intimamente connessa con il sacrificio della Croce, vi trovi il tributo individuale alla redenzione e alla remissione dei peccati dell’umanità. Quando pecchi e ti smarrisci Agostino ti dice che puoi risorgere, Veronica ti aiuta a risorgere!
 

“Dall’Alpe a Sicilia,
Dovunque è Legnano,

recitano due versi dell’Inno di Mameli e di fatto, se  si scorre lentamente  l’elenco di coloro che seguirono Garibaldi nella gloriosa spedizione dei Mille, ricorrono spesso quali nomi dei  loro paesi di  origine o di provenienza  quelli di piccoli o sconosciuti borghi.

Ad esempio  oltre a quello della città di  Pavia significativo risulta  l’elenco  dei comuni della sua Provincia quali: Albuzzano, Belgioioso,  Bereguardo, Copiano, Corteolona, Landriano, Marcignago,Vidigulfo.

 Spostandosi poi dalla Certosa di Pavia  verso Milano notiamo che la vicina Vernate ha offerto  i natali a Giuseppe Sisti il garibaldino della sua frazione di Pasturago ma particolare attenzione merita, in questo ricordo, una visita presso il Cimitero di Binasco dove nella parte vecchia si offrono alla pietas del visitatore antiche tombe e tra di esse una, alquanto semplice e scolorita dal tempo ma sempre adorna di fiori, che sulla lapide riporta la seguente iscrizione: Marcello Candia/Chimico-Farmacista/1837-1894/Una Prece; la moglie Teodolinda Beretta Candia (1848-1877) gli  riposa accanto assieme ad altri familiari.

Nome, quello di Marcello Candia,  che ricorre spesso nella “Storia di Binasco”  di Damiano Muoni allorché,  con riferimento alle guerre risorgimentali si legge :” In questi ultimi anni di rivolgimenti e di lotte per conseguire la patria redenzione non furono pochi gli abitanti di Binasco e del suo territorio che per eroici fatti si mostrarono all’altezza dei tempi”…” Lunga è la lista di coloro che parimenti si distinsero nella campagna del biennio 1859 e 1860:Citeremo soltanto quelli che ricorrono alla nostra memoria…; il Candia, il Marcello e i due fratelli Melotti di Lacchiarella..”  Marcello Candia:l’antico speziale binaschino, il combattente per l’unità d’Italia, altro non è che  il nonno di un altro Marcello Candia “ Il Marcello dei Lebbrosi” così chiamato da Padre Piero Gheddo  che nel libro a lui dedicato così descrive le origini di questa famiglia :”La famiglia Candia veniva da Lacchiarella, nella bassa milanese: Speziali da almeno tre secoli, i Candia nell’ottocento avevano una farmacia a binasco, grosso borgo agricolo non lontano da Lacchiarella”  oltre a riportare anche ulteriori testimonianza sulla figura dello speziale binaschino attraverso le parole di Riccardo Candia, un fratello di Marcello:” in casa si conserva un bel ricordo di famiglia: uno schizzo di Domenico Induno che riproduce il nonno Marcello, suo compagno d’armi, nella divisa di Cacciatore delle Alpi, il corpo garibaldino a cui si era unito come volontario durante la seconda guerra di indipendenza ( 1859)  quando era ancora studente all’Università di Pavia-un bel giovanotto-era nato nel 1837, morirà nel 1894-dallo sguardo fiero e dai baffi elettrici. Il disegno a carboncino, vivo e di rara perfezione stilistica, è tracciato sul foglio di via per viaggiare, con trasporto gratuito da Brescia a Milano, e fu pagato da quel lontano Marcello all’Induno con un fiasco di vino.”  


Insediamenti di civiltà protostoriche in Saint-Martin-de-Corléans di Aosta

Aosta offre oggi  al visitatore una particolare e per molti  poco conosciuta novità dal punto di vista storico e culturale. Di fatto oltre alle vestigia dell’epoca romana quali:Porta Prætoria,la Porta Decumana, il Teatro,l’Anfiteatro, la Cinta muraria e le torri il Criptoportico forense, il Ponte sul Buthier,la Villa della Consolata e l’Area funeraria fuori Porta Decumana,  recenti scoperte del sottosuolo hanno riportato alla luce reperti di un sito megalitico la cui area risulta situata presso l'antica chiesa di Saint-Martin-de-Corléans nella periferia occidentale della città. Come noto il megalitismo si accompagna a civiltà protostoriche con  manifestazione dell’architettura  caratterizzata da monumenti eretti con blocchi di pietra di grandi dimensioni, grossolanamente tagliati. Le testimonianze più antiche sembrano iniziare nel Neolitico e, in alcune aree, nell’Eneolitico, prolungandosi in alcune regioni nell’Età del Bronzo. I tipi principali che si possono distinguere sono: dolmen; tombe a corridoio che introducono a una camera sepolcrale; tombe a galleria; menhir; cromlech. In particolare il significato dei cromlech (inizio 2° millennio a.C.), costituiti da pietre infitte nel suolo e disposte a circolo, è ancora piuttosto discusso. Essi sono talvolta collegati con allineamenti di pietre fitte, che sembrano costituire monumentali strade di accesso. Talora i monumenti megalitici recano una decorazione con motivi rettilinei o curvilinei (oculi), oppure con armi, strumenti, figure umane, simboli astrali. In Aosta il ritrovamento risale al giugno 1969 in occasione di scavi iniziati a scopo edilizio. Di fatto, nell’area prospiciente l’abside della chiesa lo sbancamento per la costruzione di una serie di edifici abitativi mise in luce particolari elementi litici che si dimostrarono subito di interesse archeologico. Il riconoscimento in particolare della parte sommitale di una stele decorata e in seguito dei montanti di un dolmen da parte degli archeologi della Soprintendenza regionale portò alla sospensione dei lavori edili e all’inizio delle ricerche sul campo in quanto l'importanza del rinvenimento apparve ben presto evidente. Così al fine di poter eseguire lo scavo nel modo più corretto, la Regione Valle d'Aosta dispose l'acquisto dell'intera area. Gli scavi sono stati lunghi e complessi e sono terminati solo nel 1990 e se ne capisce facilmente il motivo, se si pensa che sono stati individuati ben 22 strati, per una profondità di 6 metri, e che alcune strutture risalgono alle fasi più antiche dell'Eneolitico. L'area comprende numerose testimonianze realizzate a più riprese e gli archeologi dividono l'intera storia del sito in cinque fasi strutturali che, a partire dal Neolitico recente (fine del V millennio a.C.) e attraverso tutta l’Età del Rame (IV-III millennio a.C.), giunge all’Età del Bronzo (II millennio a.C.).La più antica sembra essere quella relativa all'erezione di una serie di grossi pali, probabilmente come parte di un tipico rito di fondazione: sul fondo di alcuni di essi sono infatti state ritrovate ceneri di crani d'ariete. Le date relative ad alcuni di questi pali, ricavate con il metodo del radiocarbonio, vanno dal 3070 a.C. al 2850 a.C. con una indeterminazione di 180 anni in più o in meno. I pali sono estremamente interessanti, visto il loro allineamento e la loro età. Configurata dapprima come un santuario all’aperto destinato al culto dei viventi, l’area assume solo negli ultimi secoli del III millennio funzioni funerarie, divenendo una necropoli privilegiata, con tombe monumentali di varia tipologia megalitica. In ordine cronologico sarà possibile apprezzare: le tracce di un’aratura propiziatoria corredata dalla semina rituale di denti umani (fine V millennio a.C.) seguita dalla creazione di pozzi allineati sul cui fondo trovano posto offerte quali macine unite a resti frutti e cereali. In un momento successivo (inizi del III millennio a.C.) si ha l’allineamento di almeno 24 pali totemici in legno orientati da Nord Est a Sud Ovest progressivamente affiancati e poi sostituiti da più di 46 imponenti stele antropomorfe, prima vera manifestazione del megalitismo in quest’area, magistrali capolavori della statuaria preistorica. La destinazione d’uso dell’area si fa infine nettamente funeraria con la costruzione delle prime tombe megalitiche, probabilmente occupate da membri di eminenti famiglie della comunità, costruite totalmente fuori terra. Protagonista esemplare è la cosiddetta “Tomba 2”, eretta su un’insolita piattaforma triangolare di pietrame, utilizzata per quasi un millennio come sepoltura collettiva ospitante i resti di ben 39 individui. L’amministrazione regionale oltre ad essere intervenuta per tempo per proteggere e valorizzare i ritrovamenti ha anche in seguito realizzato un museo per conservare i monumenti e lasciati nella loro sede di rinvenimento. Lo spazio espositivo che si estende su un’area di circa 18000 mq protegge con una significativa costruzione architettonica l’area archeologica salvaguardando monumenti e reperti e nello stesso tempo li propone all’interno di un percorso informativo educativo. Il percorso espositivo, inaugurato nel giugno del 2016 inizia con una discesa temporale dall’odierno alla preistoria: lungo un tragitto costellato da immagini riferite alla storia umana, le passerelle dall’ingresso del museo conducono il visitatore al livello del sito archeologico vero e proprio (a circa 6 metri sotto il livello stradale).Qui si apre allo sguardo un ambiente grandioso: l’effetto cercato è quello di una comprensione visiva emozionale dell’insieme, colto come complesso monumentale, modulato dall’illuminazione che muta gradatamente con riferimento alle diverse ore del giorno. Attraversando la dimensione del tempo, i toni delle luci colorano l’atmosfera che avvolge i reperti archeologici, il dolmen, le stele abbattute, le piattaforme, le tracce delle arature. La visita è un continuo affaccio sul sito archeologico, in una sorta di costante dialogo “interno-museo / esterno-sito”. Spiegazioni, approfondimenti e interpretazioni sono disponibili su apparati didattici e multimediali. L’itinerario si articola in sei sezioni, che seguono e ricostruiscono la periodizzazione del sito: la curva accogliente della cronologia termina indicando il passaggio alle arature, quindi ai pozzi, attraversando poi il lungo ambiente dedicato agli allineamenti di pali, per giungere alle stele antropomorfe e alla conclusiva fase delle tombe.
 

Bibliografia

1) Area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans - museo e ... - Valle d'Aosta.Internet

2) I megaliti di Aosta, sito megalitico di Saint Martin de Corléans, Internet...

3) Area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans - Wikipedia-Internet

4) Raffaella Poggiali Keller,Philppe Curdy, Angela Maria Ferroni, Lucia Sarti:”Area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans- Parco archeologico e Museo”-2016- Regione Autonoma Valle d’Aosta-Assessorato Istruzione e cultura 


Ricordo di Guido Boggiani  così ne parlo oggi…. così canto di lui “Ultimo Ulisside”  l’amico Vate

«Andrò in Oriente per cinque o sei settimane: agli scavi di Delfo e di Micene, alle rovine di Troia. Queste visitazioni votive sono richieste dai miei studi attuali. Mi sono rituffato nell’Ellenismo»: è con tali parole che, il 10 luglio 1895, Gabriele D’Annunzio annunciava al suo editore Treves le motivazioni che lo indurranno a intraprendere il viaggio verso la Grecia.  In realtà l’intento dannunziano non era quello di esplorare luoghi a lui stranieri, ma di osservare con i propri occhi ciò che aveva precedentemente letto nelle opere greche classiche. Il viaggio gli permise infatti di rivisitare i luoghi descritti da Omero e dagli autori greci, precedentemente conosciuti tramite i loro scritti. Prevista tra il 18 o 19 luglio da Brindisi, la partenza, a causa delle pessime condizioni meteorologiche, fu anticipata al 13 luglio: l’imbarco a bordo dello yacht Fantasia1 di proprietà di Edoardo Scarfoglio avvenne dal porto di Gallipoli. Oltre a Scarfoglio, compagni di viaggio furono Guido Boggiani , Georges Hérelle e Pasquale Masciantonio.

Al ritorno da questo viaggio inizierà la stesura di Maia, dedicata a Giosuè Carducci, un lungo poema autobiografico, in ventuno canti, intitolato Laus vitae che risulta  il primo libro de Le Laudi del Cielo, del Mare, della Terra e degli Eroi in cui sono le raccolte poetiche della maturità di D’Annunzio. 

Ma chi erano questi amici? Il più noto di questi amici è certamente Edoardo Scarfoglio, scrittore e giornalista di chiara fama: noto ai più qui solo  ricordiamo che fu marito di Matilde Serao da cui si separò per una sua relazione extraconiugale: curioso poi il fatto che questo viaggio nel Pireo  inizia proprio dopo tale separazione e che per ironia della sorte lo yacht prende il nome dal primo  romanzo  della Serao. Georges Hérelle è stato un letterato francese, professore di filosofia, autore per i tempi di un saggio all’avanguardia e che destò scalpore sulla omosessualità,  traduttore delle opere, in particolare,  di Grazia Deledda, Matilde Serao e dello stesso D’Annunzio, oltre che etnografo e grande appassionato di viaggi. Pasquale Masciantonio avvocato  dopo che ebbe modo di conoscere in quel di Napoli il corregionale Gabriele d'Annunzio a lui  rimarrà sempre legato da un sentimento di profonda amicizia. Merita di ricordare che a  soli ventisei anni, fu eletto sindaco di Casoli e si  dimise dalla carica nel 1899 per partecipare alle elezioni per la Camera dei deputati, candidandosi nel collegio uninominale di Gessopalena: qui vinse al ballottaggio del 22 luglio e risultò essere il più giovane degli eletti della legislatura. Fu confermato nelle elezioni del 1904, del 1909, del 1913, del 1919 e del 1921.

Guido Boggiani. di cui qui si vuole ricordare la figura, era nato con l’Unità d’Italia il 20 settembre 1861 a Omegna: di famiglia facoltosa e di tradizione progressista. A  diciassette anni si iscrive  all’Accademia di Brera per studiarvi pittura, ma era anche un apprezzato pianista, e con uno spiccato interesse per le scienze, ereditato probabilmente dalla madre, figlia di Giuseppe Genè  zoologo italiano e  docente di zoologia dell’Università di Torino. Affermatosi giovanissimo ritraendo paesaggi del Lago Maggiore o di località vicine, conosce a Roma Gabriele D’Annunzio, il quale lo introduce nella bella società romana e nei circoli artistico-letterari dei giovani talenti. Spirito eclettico, D’Annunzio alquanto affascinato dalle sue doti lo volle assieme agli altri suoi amici sullo  yacht in questo giro delle isole greche. Fu proprio durante l’esplorazione delle rovine classiche che si appassionò alla fotografia, ma era e si considerava ancora un pittore:un suo dipinto venne acquistato dal Museo Nazionale di Modena per 6.000 lire dell’epoca (una cifra ragguardevole), e nel 1887 espose una selezione delle proprie opere alla Mostra di Venezia: Gli ulivi a Francavilla al Mare, Sentiero a Lago Maggiore, Villaggio sul Lago Maggiore, e Ortensie. Fu un successo  e l’artista venne invitato ad esporre le proprie opere in Argentina. E fu in Argentina che, parlando con alcuni italiani emigrati in Paraguay,  sentì parlare per la prima volta della regione del Chaco e ne rimase affascinato e così la fame per la ricerca e l’avventura lo portarono lontano dal Verbano, nelle selvagge lande del Paraguay, per studiare popolazioni isolate e primitive. A  26 anni modifica radicalmente la propria esistenza: rinuncia ad un sicuro successo d’artista e si imbarca per il Sud America alla scoperta della tribù dei Caduvèi, spostando i suoi interessi artistici nel campo etnografico. Oltre a realizzare dipinti, durante questo viaggio egli produce una serie di schizzi a matita e china, alcuni ritratti, sugli usi, costumi, attività degli indigeni, e scrive il testo della sua opera principale: Viaggi di un artista nell’America Meridionale: i Caduvèi. In una seconda spedizione realizzerà anche ritratti fotografici di Indios. Nel 1901 parte per il Chaco settentrionale, alla ricerca di una tribù sconosciuta. Ha appena compiuto 40 anni e da quel viaggio non farà più ritorno. ucciso  da un indigeno nel 1902 in Paraguay e in quel di Puerto Casado)


Guido Boggiani
 

Ritornando a quel viaggio, giunti in Grecia l’1 agosto, D’Annunzio e i suoi amici, l’Ulisside, come il poeta si definì e come definirà due dei suo compagni di avventura, scrive: «Siamo finalmente nel mare classico. Grandi fantasmi omerici si levano da ogni parte».

“E COME l’esule torna
alla cuna dei padri
su la nave leggera:
il suo cor ferve innovato
nell’onda prodiera,
la sua tristezza dilegua
616nella scìa lunga virente:
io così sciolsi la vela,
coi compagni molto a me fidi,
in un’alba d’estate
ventosa, dall’àpula riva
ove ancor vidi ai cieli
erta una romana colonna;
623io così navigai
alfin verso l’Ellade sculta
dal dio nella luce
sublime e nel mare profondo
qual simulacro
che fa visibili all’uomo
le leggi della Forza
perfetta.”

L’itinerario scelto da D’Annunzio prevedeva l’imbarco a Brindisi e poi Corfù, Patrasso, Corinto, Delfi, Egina, Nauplia (per visitare le la cittadella fortificata di Micene e le mura ciclopiche a Tirinto), Salonicco, Costantinopoli, le rovine di Troia. Da lì la Fantasia avrebbe dovuto toccare la costa turca fino a Rodi e proseguire verso l’Egitto, la Tripolitania, Malta, la Sicilia e Napoli. Il tragitto fu radicalmente modificato a causa delle variazioni metereologiche e come  ricorda Ornella Rella nel suo commento a questo  viaggio, fatto tappa dopo il diverso peregrinare nautico,  presso le grotte del Parnaso, i quattro viaggiatori soggiornarono ad Atene fino al 16 agosto. Nonostante l’intento di visitare Costantinopoli, furono costretti a modificare i loro progetti a causa delle cattive condizioni meteorologiche; Masciantonio e D’Annunzio, stanchi del tanto viaggiare e dei disagi ad esso connessi, abbandonarono il gruppo non prima, tuttavia, di aver lasciato la Grecia, il 21 agosto i due amici approdarono al porto di Brindisi e giunsero in Italia. Il resto del gruppo ritornò in patria il 24 settembre. Durante la crociera Hérelle e Boggiani scoprirono di avere molte affinità e, forse, un’attrazione velatamente omosessuale.

Sia D’Annunzio, che Hérelle e Boggiani tennero un diario del viaggio. Quello di Boggiani, ora custodito nella biblioteca della Yale University, era anche corredato da mappe disegni. Ne esiste un’altra copia trascritta per Hérelle, ma priva di disegni, che si trova nella Médiathèque de l’Agglomeration Troyenne. I turisti si fermarono una settimana ad Atene: le giornate erano dense di visite a musei e monumenti, le serate erano alla ricerca di donne di facili costumi a cui Boggiani ed Hérelle non partecipavano.


Guido Boggiani, I Propilei, Collezione Privata.

 

Dalle pagine del diario di Hérelle si percepisce una certa idiosincrasia per il narcisismo del Vate, che non perdeva occasione per nuotare e prendere il sole nudo: e la veste di lino erami grave, mi scinsi… Il traduttore annotava: c’è in molti italiani un’assenza totale di pudore che mi sorprende sempre. Lunghe docce di Scarfoglio, di D’Annunzio, di Masciantonio; interminabili lavaggi con il sapone; semi-nudità durante pomeriggi interi, sul ponte. Boggiani, che è del nord, ha tutt’altro carattere: non si stupisce di niente, ma si burla di questo lasciarsi andare e dice ridendo: “Sono dei bambini maleducati!”.

Herelle e Boggiani i due Ulissidi

Così scriveva poco tempo fa Vincenzo Amato sulla Stampa al riguardo di Boggiani:”Fino a pochi anni fa c’era una scuola a lui intitolata. Adesso a Omegna a ricordare Guido Boggiani resta solo una strada. Dimenticato in patria il grande esploratore, etnografo, pittore e fotografo è celebrato in Sud America e la città di Asunciòn, capitale del Paraguay, gli dedica periodicamente diverse mostre.”

Pertanto affinché la sua figura non cada nell’oblio questo il mio ricordo, questi i miei poveri versi   concatenati con quelli aulici  dedicatigli in Maia dal Vate amico:

Ultimo Ulisside

Guido che dalle dolci acque

del Cusio dove di San Giulio

quell’eremo, lì son vergini pie

al silenzio votate lor sol muta

è  concessa a Dio  la preghiera,

si specchia al centro solitario,

e da quelle ceruele acque

del Verbano dall’isole che il

Santo patrono milanese noma

punteggiate a te lidi del patrio

focolare un dì lontan lasciati,

forte il desiderio la brama tua,

ultimo Ulisside, di solcar  mari

nuove acque per lo spirito bere

alla mente  portare nuove ampie

 conoscenze e all’animo di goder

 di luoghi nuovi e di bellezze

 nuove ai più ignote sconosciute

e  ti sorrise così l’Egeo mar  isole

dove si rincorron i Miti antichi,

dove la man tua con abil tocco

 su tela mise  di qualle greca

civiltà le rovine antiche, la man

 che a Olimpia più volte toccò

 di Prassitele il marmoreo Hermes

e gli  occhi chiari tuoi di pianto

si bagnaron  e  da ultimo poi

 l’Oceano oltre le colonne d’Ercole

e ben lontan solcato il piede tuo,

nuov’acqua sconosciuta, toccò

quel fiume quel  Rio Paranà

e alla vision che gli occhi infiamma

la Bolivia selvaggia  del Chaco

gli Indios dalla bella nudità

selvaggia nuove piante insetti

nuovi uccelli dal piumaggio

strano e la giungla del Paraguay

selvaggia ultima meta del tuo

umano viaggio che qui volle

crudel destin fosse da man

violenta la tua luce spenta.

No, no ancor tu Ultimo Ulisside

vivi: questo per te in Maia

 il canto dell’amico Vate:

“Ed uno di noi, che taceva
con fronte ostinata, era sacro
a morte precoce, più caro
d’ogni altro agli iddii come eletto
a perir giovine e in atto
di compier l’impresa cui s’era
devoto con anima salda.
Or quegli nella memoria
più fortemente mi vive;
e lui vedo presso la ruota
del timone in quel punto,
ritto su le gambe sue snelle

e nervose di corritore
del lungo stadio, guatare

con gli occhi chiarissimi il solco.
In verità, fra i compagni
egli era il più pallido. Quasi
esangue appariva il suo vólto;
ma i suoi biondi capelli
sorgevano senza mollezza
su la robusta ossatura

della fronte nata a cozzare
contra l’impedimento;
e di virtuoso rilievo
su’ chiarissimi occhi era l’arco
dei sopraccigli, sobria
la bocca e di netto discorso,
agile il collo se bene
la nuca sì ferma paresse
ch’io le comparai la cervice
d’Eràcle che l’Etra sostiene
tra la bella Espèride e Atlante
nella metòpe d’Olimpia.
Ei ne sorrise. Ma certo
gli sovrastava continua
l’imagine immensa d’un cielo.”

 Or ascolta da lontano questa voce Guido: 

“Son qua, Ulissìde.„

 “Su, svegliati! È l’ora.
Sorgi. Assai dormisti. Odi il vento. Su! Sciogli! Allarga!
Riprendi il timone e la scotta;
ché necessario è navigare,
vivere non è necessario.„

………………………………..

« ἀνάγεσθαι δὲ μέλλων πνεύματος μεγάλου κατὰ θάλατταν ὄντος καὶ τῶν κυβερνητῶν ὀκνούντων, πρῶτος ἐμβὰς καὶ κελεύσας τὴν ἄγκυραν αἴρειν ἀνεβόησε· ‘πλεῖν ἀνάγκη, ζῆν οὐκ ἀνάγκη.’ »

 « Sul punto di salpare, dato che soffiava per mare un gran vento e i timonieri rumoreggiavano, imbarcatosi per primo e ordinando di levare l'ancora gridò: "Navigare è necessario, vivere non è necessario!" »

(Plutarco, Vita di Pompeo, 50, 1

 

 

 

Fonti e riferimenti

1) Gabriele D'Annunzio Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi,  Libro Primo - Maia, Milano, Fratelli Treves Editori,1908. Fonte: Internet Archive

2) G. D'Annunzio, Versi d'amore e di gloria, II, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, Milano, Mondadori, 1984.

3) I taccuini del viaggio di D'annunzio costituiscono la nuova edizione digitale, curata e commentata da Ornella Rella- da Internet

4) Dal Verbano al Chaco. L'avventurosa vita di Guido Boggiani,  ...

5) Maia- Poesia-Wikipedia-da Internet

6) Georges Hérelle — Wikipédia da Internet

7) L'esploratore di Omegna dimenticato nel Cusio e “venerato” in .Paraguay-da Internet


Navigando con D’Annunzio sui versi di Maia

«Andrò in Oriente per cinque o sei settimane: agli scavi di Delfo e di Micene, alle rovine di Troia.
Queste visitazioni votive sono richieste dai miei studi attuali. Mi sono rituffato nell’Ellenismo»: è
con tali parole che, il 10 luglio 1895, Gabriele D’Annunzio annunciava al suo editore Treves le
motivazioni che lo indurranno a intraprendere il viaggio verso la Grecia. In realtà l’intento dannunziano non era quello di esplorare luoghi a lui stranieri, ma di osservare con i propri occhi ciò che aveva precedentemente letto nelle opere greche classiche. Il viaggio gli permise infatti di rivisitare i luoghi descritti da Omero e dagli autori greci, precedentemente conosciuti tramite i loro scritti. Prevista tra il 18 o 19 luglio da Brindisi, la partenza, a causa delle pessime condizioni
meteorologiche, fu anticipata al 13 luglio: l’imbarco a bordo dello yacht Fantasia1 di proprietà di
Edoardo Scarfoglio avvenne dal porto di Gallipoli.Oltre al celebre giornalista, compagni di viaggio furono Guido Boggiani, pittore di fama, fotografo, esploratore poi morto assassinato da un indio in Paraguay , Georges Hérelle, insegnante di filosofia e traduttore ufficiale delle opere dannunziane in Francia, e Pasquale Masciantonio, avvocato. Giunti in Grecia l’1 agosto, l’Ulisside, come il poeta si definì e come definirà due dei suo compagni di avventura, scrive: «Siamo finalmente nel mare classico. Grandi fantasmi omerici si levano da ogni parte».
“E COME l’esule torna
alla cuna dei padri
su la nave leggera:
il suo cor ferve innovato
nell’onda prodiera,
la sua tristezza dilegua
616nella scìa lunga virente:
io così sciolsi la vela,
coi compagni molto a me fidi,
in un’alba d’estate
ventosa, dall’àpula riva
ove ancor vidi ai cieli
erta una romana colonna;
623io così navigai
alfin verso l’Ellade sculta
dal dio nella luce
sublime e nel mare profondo
qual simulacro
che fa visibili all’uomo
le leggi della Forza
630perfetta.”
Al ritorno da questo viaggio inizierà la stesura di Maia, un lungo poema autobiografico, in ventuno canti, intitolato Laus vitae che risulta il primo libro de Le Laudi del Cielo, del Mare, della Terra e degli Eroi in cui sono le raccolte poetiche della maturità di D’Annunzio. Secondo il progetto iniziale dello scrittore le liriche dovevano essere divise in sette libri, quante sono le Pleiadi (Maia, Elettra, Alcione, Merope, Asterope, Taigete e Celeno), ma il Poeta riuscì a comporne solo cinque: Maia, Elettra, Alcyone (1903), Merope (1912) e i Canti della guerra latina (1914-1918). Il tono epico-celebrativo delle liriche appare come la trasfigurazione in poesia del mito della "Rinascenza latina" e del nuovo Rinascimento propri di quell’epoca.
In particolare Maia costruisce la trasfigurazione in chiave eroica e leggendaria di quella crociera con Edoardo Scarfoglio e degli altri amici ed in esso l'ideologia del superuomo, molto frequente nelle opere di d'Annunzio, caratterizza fortemente la forma e i temi trattati ispirati in particolare ai testi scritti dal filosofo tedesco Nietzsche che contrapponevano alle idee cristiane di pietà, rassegnazione e uguaglianza i concetti dell'eterno ritorno, della volontà di potenza, del superuomo.
Una volta raggiunta l’Ellade il poeta immagina un suo incontro con Ulisse e ne fa il simbolo della volontà di potenza, del superuomo che sceglie l’avventura solitaria per mare.
“Incontrammo colui
che i Latini chiamano Ulisse,
nelle acque di Leucade, sotto
le rogge e bianche rupi
che incombono al gorgo vorace,
presso l’isola macra
come corpo di rudi
ossa incrollabili estrutto
e sol d’argentea cintura
precinto. Lui vedemmo
su la nave incavata. E reggeva
ei nel pugno la scotta
spiando i volubili venti,
silenzioso; e il pìleo
tèstile dei marinai
coprìvagli il capo canuto,
la tunica breve il ginocchio
ferreo, la palpebra alquanto
l’occhio aguzzo; e vigile in ogni
muscolo era l’infaticata
possa del magnanimo cuore.”
Si ravviva così nell’animo del Poeta il mito di Ulisse che, giunto a Itaca dopo mille peripezie, non si ferma e riprende di nuovo il mare, come era già stato trattato da Dante e da Pascoli.
Dall’incontro immaginario e immaginato questa l’accorata invocazione fatta anche a nome degli altri amici:
“O Laertiade„ gridammo,
e il cuor ci balzava nel petto
come ai Coribanti dell’Ida
per una virtù furibonda
e il fegato acerrimo ardeva
“o Re degli Uomini, eversore
di mura, piloto di tutte
le sirti, ove navighi? A quali
meravigliosi perigli
conduci il legno tuo nero?
Liberi uomini siamo
e come tu la tua scotta
noi la vita nostra nel pugno
tegnamo, pronti a lasciarla
in bando o a tenderla ancóra.
Ma, se un re volessimo avere,
te solo vorremmo
per re, te che sai mille vie.
Prendici nella tua nave
tuoi fedeli insino alla morte!„
Non pur degnò volgere il capo.

Ulisse non li degna come visto di uno sguardo ma il Poeta non s’arrende e questo il suo grido non a nome dei compagni ma distinto, personale:

“Odimi„ io gridai
sul clamor dei cari compagni
“odimi, o Re di tempeste!
Tra costoro io sono il più forte.
Mettimi alla prova. E, se tendo
l’arco tuo grande,
qual tuo pari prendimi teco.
Ma, s’io nol tendo, ignudo
tu configgimi alla tua prua.„
Si volse egli men disdegnoso
a quel giovine orgoglio
chiarosonante nel vento;
e il fólgore degli occhi suoi
mi ferì per mezzo alla fronte.”

Da questa sua invocazione, ecco che solo a lui Ulisse lancia un folgorante sguardo “il fólgore degli occhi suoi mi ferì per mezzo alla fronte.” poi mentre lo stesso Ulisse si allontana:
“Poi tese la scotta allo sforzo
del vento; e la vela regale
lontanar pel Ionio raggiante
guardammo in silenzio adunati.”,
si ha come uno sdoppiamento dello stesso Ulisse in quanto D’Annunzio si identifica con lui e si erge a protagonista del poema “e fui solo” che” a me solo fedele io fui, al mio solo disegno”:

“Ma il cuor mio dai cari compagni
partito era per sempre;
ed eglino ergevano il capo
quasi dubitando che un giogo
fosse per scender su loro
intollerabile.

in disparte, e fui solo;
per sempre fui solo sul Mare.
E in me solo credetti.
Uomo, io non credetti ad altra
virtù se non a quella
inesorabile d’un cuore
possente. E a me solo fedele
io fui, al mio solo disegno.
O pensieri, scintille
dell’Atto, faville del ferro
percosso, beltà dell’incude!”

Da qui inizierà per il “ novello Ulisse”, un Ulisside, questo viaggio sospeso fra mito e realtà, simbolo della volontà di viaggiare, sperimentare e scoprire tutto ciò che è possibile conoscere.
L'io del poeta è volto a inseguire ogni presenza sensibile e spirituale e trasforma il ricordo del viaggio in un'avventura epica vissuta nel segno di Ulisse:
“E contemplai, di contro
a Same dai foschi cipressi,
Itaca petrosa,
il Nèrito aspro nudato,
la patria angusta
di quella incoercibile Forza.
E veder parvemi il tetto
securo, la soglia polita,
le stanze purgate dai morbi
con fumido solfo,
le fanti dai cinti vermigli
intente a forbir seggi e deschi
con le spugne lor cavernose
o a torcere i lor fusi
versatili o a scardassare
le lane, e la tarda nutrice
Euriclèa che valse già venti
tauri, e l’economa Eurinòme,
e Femio il cantore, e nell’orto
cinto di pruni Laerte
curvo a rincalzare l’arbusto.”

Da qui un crescendo per l’esaltazione della vita, delle bellezze della natura quel che è noto come il panteismo dannunziano :
“Cipresso, e parvemi allora
soltanto conoscer la tua
meditabonda bellezza,
commisto al palmite ricco,
sul fianco dei colli silenti,
su le correnti dell’acque,
in contro al zaffiro sublime
dei monti creati alle soglie
dell’aria dal flauto di Pan!
Oleandro, e allora t’elessi
in riva ai ruscelli fiorito
per inghirlandar la mia Musa
che ama danzare e lottare,
che tratta l’incudine e il sistro,
che onora la grazia e la forza,
che loda il pastore e l’eroe;
t’elessi, oleandro, ti colsi
per redimir le mie tempie
di rose e d’alloro in un ramo.
Non mai parso m’eri sì bello!
E un altro da me canto avrai.”

e della storia e del mito:
Peregrinammo da Patre
alla città santa d’Olimpia,
al tempio di Zeus Cronide
con chiusa l’offerta nel cuore.
E tacita era la via;
e il Sole inclinavasi all’onda
occidua, con riaccesa
divinità, Elio nomato
per noi, Elio d’Eurifaessa.
Ed eramo senza parola,
tacenti, ma d’una celeste
melodìa pieni il petto
mortale. E talora dai monti
aerei venivan messaggi
per l’aere; e noi rendevamo
l’orecchio, attoniti, ai suoni
di Pan. Disse un de’ cari
compagni: “Nel plenilunio
che segue il solstizio d’estate
la Festa ha principio„. S’udiva
dietro a noi fragore di carri.


“Era su la via santa
la forza dell’Ellade, mossa
da un ramo d’ulivo selvaggio!
Era il fior della stirpe
quadruplice, la concorde
e discorde anima ellèna
protesa verso il serto
leggiere d’ulivo selvaggio!
Ionii e Dorii, Eolii ed Achei,
il sangue d’Atene di Sparta
di Tebe d’Elice d’Ege;
le genti insulari di Nasso
di Sèrifo d’Andro, di tutte
le Cicladi; e i potenti
di terra lontana, i tiranni
sicelii, i re di Cirene,
i grandi oligarchi
delle città di Tessaglia
e quei di Metaponto di Velia
di Sibari di Posidonia
lambivan l’ulivo selvaggio!”
Alfine per il Poeta e per i compagni ormai forgiati “Ulissidi” varrà un solo e continuo navigare forti di questa esperienza “pronti a combattere, certi
di vincere, in quanto “Vivemmo, divinamente
vivemmo!” nuovi e diversi lidi li attendono:

“Ecco, noi sciogliamo le vele
a dipartirci. Il periplo
è compiuto. Navigheremo
verso Messàna falcata,
verso la vorace Caribdi.
Da questa patria a un’altra
patria ch’è pur sacra agli iddii
veleggeremo, colmi
di vita i precordii, spumanti
e traboccanti d’ebrezza,
pronti a combattere, certi
di vincere, poi che apprendemmo
a cantare il peana
nelle acque di Salamina,
nei piani di Maratona,
e a correre dando l’assalto.
Vivemmo, divinamente
vivemmo! All’antica mammella
ci abbeverammo, ancor piena.
La bestia inferma uccidemmo
nel nostro fango penoso.”


E il Carme si chiude con le lapidarie parole l'esortazione che, secondo Plutarco Gneo Pompeo diede ai suoi marinai, i quali opponevano resistenza ad imbarcarsi alla volta di Roma a causa del cattivo tempo:
“Son qua, Ulissìde.„

“Su, svegliati! È l’ora.
Sorgi. Assai dormisti. Odi il vento. Su! Sciogli! Allarga!
Riprendi il timone e la scotta;
ché necessario è navigare,
vivere non è necessario.„

…………………………………………………………..

Fonti e riferimenti
1) Gabriele D'Annunzio Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi, Libro Primo - Maia, Milano, Fratelli Treves Editori,1908. Fonte: Internet Archive
2) G. D'Annunzio, Versi d'amore e di gloria, II, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, Milano, Mondadori, 1984.
3) I taccuini del viaggio di D'annunzio costituiscono la nuova edizione digitale, curata e commentata da Ornella Rella- da Internet
4) Maia( Poesia-Wikipedia-da Internet
5) Maia-Wikisource-da Internet


Introduzione alla storiografia italiana a cavallo della seconda guerra mondiale

È esistita una cultura fascista e sono esistiti soprattutto gli intellettuali fascisti? Sì: questo lo si è sempre saputo ma era difficile affermarlo, poiché bisognava dover fare i conti con una "vulgata" solida, potente, annaffiata quotidianamente sui giornali e sulle riviste scientifiche e militanti, nelle case editrici, nelle aule universitarie. A tenere in mano l'innaffiatoio erano studiosi autorevoli come Norberto Bobbio(1909-2004) e Eugenio Garin (1909-2004), solo per citare gli esempi migliori, sempre protetti dalla politica culturale egemone nel dopoguerra del Partito Comunista. E proprio da questa "vulgata" parte la ricostruzione di Alessandra Tarquini sul dibattito storiografico (1-2). Questa studiosa , senza anatemi, sotterfugi o distrazioni, con il sobrio linguaggio della storiografia di qualità, ha disegnato nella giusta architettura questo percorso, potrà non piacere ma la storia così è andata. Meglio quindi prenderne atto e così la vecchia tesi del fascismo privo di cultura e dunque privo di ideologia, di un fascismo privo di "consenso" popolare e intellettuale, è diventata un ferro vecchio, inutilizzabile, così come ferraglia arrugginita è l'interpretazione delle arti (e degli artisti) sedotte e poi abbandonate, o peggio corrotte dal fascismo come scritto ed affermato, dopo la caduta del fascismo, da parecchi di questi uomini di cultura di quel tempo che facendo abiura di quel che era stato delle proprie origini in senso culturale divennero espressioni di punta dell'antifascismo militante e giustificando le passate frequentazioni come ineluttabili in una dittatura, arrivando infine a definire quegli ambienti come veri e propri vivai di energie antifasciste. Icone di questo trasformismo sono in particolare le figure dei due massimi esponenti del "negazionismo". "Altro che cultura per me il fascismo fu solo retorica" così scriveva Bobbio nel suo saggio "Cultura e fascismo" e una volta messe a nudo le sue commistioni con il regime fascista, quali la sua lettera a Mussolini su Panorama e altre lettere ai depositari della cultura fascista in cerca di favori e raccomandazioni così si giustificava" su Repubblica "Chi ha vissuto l'esperienza dello Stato di dittatura sa che è uno Stato diverso da tutti gli altri. E anche questa mia lettera, che adesso mi pare vergognosa, lo dimostra. La dittatura corrompe l'animo delle persone. Costringe all'ipocrisia, alla menzogna, al servilismo. E questa è una lettera servile. Per salvarsi, in uno Stato di dittatura, occorrono delle anime forti, generose e coraggiose, e io riconosco che allora con questa lettera non lo sono stato"[" e ecco quel coro di amici che stracciandosi le vesti forte gridando han tentato di soffocare queste verità. Merita tra i "coristi" citare il nome di Gianpaolo Pansa che emulo di questo suo maestro dopo aver mangiato per quarant'anni alle greppia dell'antifascismo in tarda età si dissetato alla fonte remunerativa del sangue dei "vinti". ( 3-7) A sua volta nel 1944 Garin, iscritto al Partito Nazionale Fascista dal 1931, pronunciò al Lyceum di Firenze una commemorazione per la morte del presidente dell'Accademia d'Italia Giovanni Gentile, giustiziato dai GAP (…) Una svolta nelle prospettiva politica, filosofica e storiografica si ebbe con l'uscita de Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci volume fu favorevolmente accolto da vari recensori, tra questi spiccava Roderigo di Castiglia, alias Palmiro Togliatti che lo recensì molto favorevolmente in Rimascita e dopo l'intervento Garin (8-9) assurse al ruolo di intellettuale civile e principale interlocutore culturale del Partito Comunista. Così da più di cinquanta anni storici e meno storici si sono interessati o, per meglio dire si sono appassionati, alcuni criticamente, altri facendo meri interessi di parte e di bottega, alla questione di questa transizione della cultura italiana dal Fascismo alla Repubblica. Ognuno, con riferimento alla vasta letteratura al riguardo si potrà fare un'opinione a riguardo e sicuramente troverà parecchio materiale a suffragio sia di una tesi come pure materiale a sostegno della tesi contraria, ovvero che quell'intellighenzia italiana abbia preferito, alla mal parata, saltare armi e bagagli sul carro del vincitore (10-20). Cosa che non fece il quasi dimenticato Carlo Morandi. tra i maggiori storici italiani dell'Età moderna e del Risorgimento,fortemente influenzato dal pensiero di Benedetto Croce, fu tra i primi in Italia a sottolineare l'importanza della scuola francese degli Annales. Morto a soli 46 anni nel 1950, è considerato un grande innovatore nel metodo e nella ricerca storica. Fondamentali i suoi studi sulle forze politiche moderate dell'Italia unita e sulle relazioni diplomatiche che legavano il nostro Paese all'Europa sin dall'inizio dell'Età moderna. Nacque a Suna, oggi frazione di Verbania, il 6 marzo 1904, da Eugenio Ambrogio, farmacista, e da Maria Carolina Cambieri. Merita al riguardo una postilla su tale figura relativamente al libro di Mirella Serri : "Il libro riprende il filone della vasta pubblicistica che nel tempo si é occupata degli intellettuali italiani che servirono sotto due bandiere: niente di nuovo , se si vuole, di quanto già non si sapesse circa la massima parte di questi protagonisti, ma introducendo per vero, come parziale novità, l'adozione di una particolare loro definizione " I Redenti", l'Autrice offre al lettore ulteriori elementi di discussione. Altro particolare elemento di merito, forse meglio di demerito, é quello di avere riportato alla luce la figura dello storico di origini pavesi Carlo Morandi in quanto, al lettore a digiuno della storiografia italiana a cavallo della seconda guerra mondiale viene offerta una immagine distorta circa l'onestà intellettuale dello stesso. Valga per tutti il giudizio espresso su di lui dall'allievo Giovanni Spadolini:"Carlo Morandi , uno dei pochissimi storici che non abbiano ceduto agli "idola fori" del loro tempo, un uomo di studi che ha mantenuto riserbo e distacco quando non tutti sapevano farlo,...". Ci si domanda il perché l'attenzione della Serri, tra tutti i collaboratori di Primato, si sia quasi unicamente focalizzata sulla figura di questo storico senza un adeguato approfondimento, per usare la terminologia dell'Autrice, della sua completa "vita inautentica" ( breve, essendo nato nel 1904 e laureatosi attorno agli anni '20) e della brevissima "vita autentica" ( morì a Firenze all'improvviso nel 1950. Tra l'altro, per ritornare alla tematica fondamentale del libro ed a quanto posto in evidenza nell'introduzione, sarebbe stato interessante trovare traccia di contrapposizione e di analisi critica tra l'avventura dei "redenti" rispetto a quella dei "convertiti " o dei "voltagabbana", traccia del tutto mancante"

Bibliografia
1) Alessandra Tarquini "Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista", il Mulino, 2009
2) Alessandra Tarquini" Storia della cultura fascista" Il Mulino 201
3) Lettera di N. B. a Mussolini-Panorama-giugno 1982
4) Risposta di N.B. a Panorama in La Repubblica 16 giugno 1982
5) Norberto Bobbio Destra e sinistra, 1994
6) Marcello Veneziani "Sinistra e destra: risposta a Norberto Bobbio,"1995
7) Giampaolo Pansa "Il sangue dei vinti" Milano, Sperling & Kupfer, 2003.
8) Eugenio Garin "Intellettuali italiani del XX secolo" 1974
9) Luciano Mecacci"La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, Milano 2014 (pp. 269-295,
    437-450: Le commemorazioni diEugenio Garin).
10) Delio Cantimori Storici e storia, Torino 1971
11) U.M. Miozzi, La Scuola storica romana (1926-1943). I. Profili di storici 1926-1936, Roma 1982
12) Renzo De Felice Intellettuali di fronte al fascismo,Bonacci 1985
13) Norberto Bobbio "Dal fascismo alla democrazia. I regimi, le ideologie, le figure e le culture politiche" -Baldini
      e Castoldi 2014
14) Davide Lajolo, Il Voltagabbana, Sansoni, 1984,
15) Mirella Serri "I redenti" Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948-Corbaccio 2009
16) Nino Tripodi "Italia fascista in piedi!" Il Borghese, 1972
17) Nino Tripodi "Intellettuali sotto due bandiere" Ciarrapico,
18) Eugenio Di Rienzo "Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica" Le Lettere,2004
19) Ruggero Zangrandi "Il lungo viaggio attraverso il fascismo" Ugo Mursia Editore 2011
20) Gianpasquale Santomassimo, "Gli storici italiani negli anni della guerra: il caso M. e "Primato", in L'Italia in guerra 1940-1943, in Annali della Fondazione Luigi Micheletti, V (1990-1991)


Dalle acque del Nilo a Mettone, sulle rive del Ticinello

"Chi sono i Copti?"

LACCHIARELLA – Andando a zonzo sulle rive del Ticinello, dopo Binasco seguendo l’ultimo tratto di questo figlio del Ticino,  giunti nei pressi di Lacchiarella , più propriamente nella  frazione di Mettone ecco stagliarsi, tra il verde della campagna, uno svettante monastero..il monastero dei monaci Copti. “Chi sono i Copti”?: un sito Internet riporta  quanto segue : “Copti sono i discendenti diretti degli antichi Egizi dei tempi dei faraoni. Sono stati anche definiti “i figli moderni dei faraoni”.


monastero Copto Anba Shenuda (Lacchiarella, Milano)

La parola “copto” significa in realtà semplicemente “egiziano” e deriva dalla parola greca “Aigyptos”, che a sua volta derivava dall’antico vocabolo egizio “Hak—ka—ptah” (la dimora dello spirito del dio Ptah), uno dei nomi della prima capitale dell’antico Egitto, Menfi. Dall’epoca della conquista araba (641 d.C.), i musulmani hanno usato la parola “guipte” (copto) per designare gli Egiziani, che a quell’epoca erano tutti cristiani. A poco a poco si è verificata un’identificazione del termine “copti” con l’essere “cristiani”. Il vocabolo “copto” sottintende anche la lingua, l’arte e la civiltà dell’Egitto tra la fine dell’epoca tolemaica e l’arabizzazione del Paese, cioè dal 30 a.C. Circa fino al Medioevo.”

Quando i Copti accolsero la fede cristiana, la loro brama del mondo venturo aumentò, ma su una base evangelica. Piuttosto di occuparsi del ritorno dell’anima al corpo mummificato, il loro forte desiderio divenne quello di innalzare il cuore e lo spirito e il pensiero divenne quello di godersi la vita celeste anche camminando nella carne sulla terra. Così questo desiderio ha preparato la via alle pratiche ascetiche ispirate al Vangelo nacque così e si diffuse in Medio Oriente il loro monachesimo.

Oggi una delle caratteristiche della Chiesa Copta Ortodossa  è il continuo aumento del numero di coloro che desiderano aderire alle comunità monastiche, tanto che si tende a ravvivare gli antichi monasteri disabitati. Anche monasteri abbandonati da secoli e in rovina sono stati riadattati e ospitano ora nuovamente dei monaci. Monasteri copti sono stati fondati anche all’estero, presso le principali comunità della diaspora. Uno di essi, il Monastero di Anba Shenuda, si trova a Mettone di Lacchiarella, alle porte di Milano.

Inizialmente il luogo era una fattoria e rimase abbandonata per più di 50 anni. Fu così messa in vendita dal proprietario e nel 1989 acquistata dal Santo Patriarca il Papa Anba Shenouda III. Fino agli inizi degli anni ’90 era curato dai preti di quel periodo, ma nel ’96 fu il Vescovo Anba Kirellos ad occuparsene, avviando così la ricostruzione del Monastero. Il terreno venne pulito e curato, costruite le celle per i monaci.

Quindi  questi monaci Copti sono i discendenti di chi vide le acqua del Nilo e di chi si bagnò nelle sue acque. Piace pertanto da questi aspetti storici e geografici poter affermare con entusiasmo:  dalle acque del maestoso Nilo a quelle più lente e modeste del Ticinello  che qui scorre poco  lontano da Mettone in quel di Casirate Olona.

Da Ticino Notizie

 

Il Ticino, fiume generoso.. Ma non per tutti!


Nei secoli il Ticino con le sue acque, le sue sabbie, i suoi boschi e sottoboschi ha offerto e ancor oggi offre, salvo eccezioni, generosamente all’uomo doni preziosi quali: pesci, legname, selvaggina, ciotoli quarzosi,  fiori, frutta e oro. Tutti beneficiari ed anche i comuni mortali? No!

Privilegi di concessioni, autorizzazioni, diplomi elargiti dai tempi antichi fino ad oggi hanno e favoriscono solo alcuni a dispetto della maggior parte.

Per quanto riguarda, ad esempio, lo sfruttamento delle sabbie aurifere, “ la pesca dell’oro”, dopo l’epoca romana allora  prerogativa di Roma che si serviva dell’impiego di schiavi, era nel tempo gestito direttamente dalle Autorità dominanti e/o dato in concessione ad enti o operative locali.

Così da un interessante libro “I tesori sotterranei d’Italia-Le Alpi”  di Guglielmo Jervis: “In tutto il fiume Ticino, dal Lago Maggiore al Po e relativa lanche, valli e martizze, esiste il diritto della pesca dei pesci e della sabbia a pagliuzze d’oro e d’argento ( oro argentifero) , e ciò per concessione del 1654 di Filippo IV re di Spagna, a favore del marchese Giovanni Pozzobonelli, diritto che già per sentenza del 1635 era dichiarato a favore della R. Camera. Al Pozzobonelli, per eredità e vendita, sono successi alla casa Clerici, i marchesi Arconati Visconti e Busca, il comune di Galliate ed il papa Urbano Crivelli, fondatore della soppressa abbazia di Santa Maria della Pace, in Magenta, ora dei nobili consorzi Crivelli.La competenza Clerici, consistente nella maggior parte di tutto il fiume, venne rivenduta ad enfiteusi perpetua a diversi, che ancora attualmente esercitano economicamente la pesca, e si estende dal Lago Maggiore al territorio di Galliate e Robecchetto con Induno, indi dopo Besate fino al Po”.

Ancora oggi sono ben visibili in alcune campagne dei comuni rivieraschi del fiume  o al limitare di alcuni boschi del Ticino stesso cartelli con scritte “riserva di caccia e pesca”.

“ In particolare il Parco del Ticino possiede tre Diritti Esclusivi di Pesca. Questi riguardano aree particolarmente interessanti ed idonee alla sopravvivenza delle specie ittiche che riproduce.

·          Diritto Esclusivo di Pesca di Turbigo;

·          Diritto Esclusivo di Pesca di Magenta;

·          Diritto Esclusivo di Pesca di Vigevano.

In quanto per la loro localizzazione geografica e la loro estensione questi diritti esclusivi rivestono un ruolo strategico nella gestione e nella conservazione dell’ittiofauna autoctona del Fiume Ticino. All’interno dei loro confini si ritrovano infatti tratti di Ticino e ambienti acquatici laterali al fiume di elevatissimo pregio naturalistico e conservazionistico, come il Ramo Delizia, il Ramo dei Prati, il Canale Nasino ed anche il Ramo Morto, il quale da anni è uno dei corsi d’acqua laterali del Ticino più ricchi di biodiversità, in particolare di specie ittiche pregiate.I diritti esclusivi di pesca vengono gestiti attraverso uno specifico Piano di Gestione, che prevede ripopolamenti di specie autoctone in declino.La pesca sportiva all’interno dei diritti esclusivi del Parco non è vietata, ma per poterla praticare bisogna essere in possesso, oltre che della regolare licenza, del libretto segnacatture (annuale o giornaliero) del Parco.”

I poveri diavoli un tempo  meno oggi, volendo godere o fruire di questi “ben di Dio”,  a loro rischio e pericolo, allora talvolta con l’impiccagione oggi con multe salatissime, eran o sono costretti  costretti alla pesca di frodo o al bracconaggio.

Con questo non si intende certamente perorare la causa dei frodatori e dei bracconieri in quanto il riferimento vale in particolare per i tempi passati dove nella campagne vivevano povertà e miseria, e spesso si era costretti per la cupidigia e la poca carità dei potenti ad essere trasgressivi!

 Come non ricordare quanto nel 1938 la poetessa Antonia Pozzi, nipote per linea materna, del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana  e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo, annotava  sul suo Diario poco prima della morte? : “Ieri, sull’argine del Ticino, dove il fiume fa un’enorme ansa e la corrente si attorce in gorghi azzurrissimi, e ha subbugli, scrosci, rigurgiti improvvisi e minacciosi, sono rimasta per un’ora sulla riva in faccia al sole che tramontava, a chiacchierare con un guardiacaccia che fu al servizio del mio nonno e si ricorda della mia mamma e delle mie zie bambine. Ebbene: era un senso strano pensare che tutta questa smisurata terra, i campi coltivati da Motta a Bereguardo, e i boschi della riva, dal lido di Motta fin giù al ponte di barche, con i diritti di pesca, di caccia, di cava d’oro persino, erano proprietà unica dei miei antenati. Io non so che cosa pagherei per potermi costruire qui, in vista del Ticino, due stanze rustiche e venirci a stare; le mie radici aristocratiche non le sento molto, nemmeno qui, ma le mie radici terriere sì, in modo acuto e profondo, e gli uomini dietro l’aratro mi incantano, non solo per un senso di armonia estetica”.

Da Ticino Notizie

 

Il Castello di Binasco le acque del Ticino

Scampoli di Geografia e di Storia, anche qui Il Ticino muove le sue acque: il Ticinello!

Come si può leggere da Wikipedia, il Ticinello era un canale difensivo costruito nel 1152 da Castelletto di Abbiategrasso  a Landriano da Guglielmo da Guintellino a difesa di Milano dalle incursioni dei Pavesi alleati di Federico Barbarossa. Dove questo canale prendesse acqua non è certo, ma è possibile che lo facesse direttamente dal Ticino e, in questo caso, in una data anteriore a quella il 1179 o il 1177  storicamente indicata come l’inizio dei lavori  a Tornavento di Lonate Pozzolo per il futuro Naviglio Grande.

Congiunto il Ticino con Abbiategrasso, il Ticinello era un canale irriguo, che proseguiva fino a Casorate Olona da dove continuava fino a confluire nel fiume Lambro Meridionale nei pressi di Landriano.  Il canale Ticinello è tuttora esistente, esso deriva le sue acque, come detto, dal Naviglio Grande presso il nodo idrico di Castelletto di Abbiategrasso, dove comincia anche il naviglio di Bereguardo.  In seguito lambisce Morimondo, Bubbiano, Rosate e Vernate dopodiché attraversa il centro di Binasco dove biforcandosi dà origine al Navigliaccio e sottopassa il Naviglio Pavese.

Successivamente bagna Lacchiarella e tra le frazioni di Mettone e di Casorate Olona (che si trovano poco oltre il centro abitato principale di Lacchiarella), riceve le acque del cavo Rainoldi e poco oltre si unisce alla Roggia Carona. Oggi come un tempo, lo scopo del Ticinello è quello di irrigare i campi: infatti, durante il suo corso il canale alimenta numerose rogge.

E’ parso pertanto interessante  dare uno sguardo anche a questi paesi dove seppure a fatica il Ticino muove le sue acque. Ed ecco Binasco, “culla” del romanzo storico italiano. La nascita del romanzo storico italiano si fa generalmente risalire al 1827, anno della pubblicazione dei «Promessi sposi».

Nell’ambito della storia della letteratura italiana c’è posto anche per la scrittrice torinese Diodata Saluzzo Roero e per Binasco ed il suo castello. Infatti, nel 1819 viene data alle stampe ad opera di questa autrice la novella «Il castello di Binasco» dal netto intreccio e sapore di romanzo storico e che anticipa, anche se di ben diverso spessore letterario, la pubblicazione dei Promessi Sposi e che peraltro ebbe il plauso dello stesso Manzoni che con Diodata esercitò un amichevole scambio epistolare.  La novella racconta la triste sorte di Beatrice Balbo Lascaris-Tenda, detta Beatrice di Tenda che sposò in prime nozze il condottiero Facino Cane e dopo essere rimasta vedova nel 1412 si risposò con Filippo Maria Visconti duca di Milano di molti anni più anni giovane di lei, come descritto da Pietro Verri nella sua Storia di Milano.

«Così il duca, da Beatrice Tenda, ottenne la ricuperata sovranità di Milano, Pavia, Lodi, Como, Vigevano, Alessandria, Tortona e Novara. A lei doveva tutto, persino l’esistenza, che gli sarebbe sicuramente stata levata, se non aveva il di lei soccorso. Essa con tutto ciò soffrì il trattamento di essere (malgrado l’età sua e la sua virtù) dal marito incolpata d’avergli violata la fede per un giovine cavaliere, nominato Michele Orombello, che era al di lei servizio… Volle il duca che venisse imprigionata in Binasco l’infelice Beatrice Tenda; e il non meno disgraziato cavaliere fu parimenti posto nei ferri. Furono condannati l’una e l’altro a perdere la testa sotto la scure; il che si eseguì in Binasco nell’infausta notte susseguente al giorno 13 di settembre dell’anno 1418. Ci dice il Biglia che il giovine Orombello, lusingato di potere sfuggire il supplicio calunniando la duchessa, preferisse la vita alla virtù, sebbene in fine perdesse e l’una e l’altra; e che la duchessa, avanti il patibolo, da donna forte e virtuosa, rimproverasse la vile colpa all’Orombello…».  Damiamo Muoni, primo estensore di una Storia di Binasco, fece apporre il 13 giugno 1869 una lapide marmorea all’ingresso del castello binaschino, luogo e teatro di tanta crudeltà: «Con turpe sconoscenza ricambiando la illibata fede l’assecurato trono Filippo Maria Visconti spegneva nella notte del 13 settembre 1418 in queste mura l’onoranda consorte Beatrice di Tenda l’orrore del fatto fecondi e ritempri ne’ figli d’Italia gli affetti più puri i doveri più sacri auspice il municipio alcuni oblatori posero».

Questa, come curiosità, la prima pagina e l’incipit di questo lavoro letterario ripreso da Il Raccoglitore ossia Archivj a cura di Davide Bertolotti( Magiera Dott. Enrico)-Milano, 1818 della Tipografia e Calcografia Batelli e Fanfany :  “Il Castello di Binasco.Novella (inedita) di cui li principali avvenimenti ed i personaggi sono tratti della storia del 1360. ( Della contessa Diodata Saluzzo)

“ Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle” 

                                                             Dante , Inferno, canto 3.

“Diradavano i primi raggi del sole nascente il cielo molle e rosato della feconda Lombardia, e cadevano perdendosi fra le ombre di una nera profonda selva di frassini antichi. Fra quelle piante scendeva la scabra via, dove or lentamente veniva il Sire di Ventimiglia Orombello sovra un generoso corsiero. Tornando egli da Terra Santa bellicoso pellegrino, portava dipinto sulla sua fronte un amore occulto a tutti i viventi, fonte di melanconici entusiasmi e di arditissime imprese.Non raro in quella nobile età era quell’amore, che nasceva in animo egregio dal plauso dei forti, o della  fama dell’altrui virtù. Ben sapeva Orombello che non lontano dalla immaginosa pittorica spiaggia erano le mura di Binasco signoreggiata dalla contessa di Tenda, e l’invitto cuore, che mai tra pugne non palpitò, palpitavagli fra quelle aure, per lui di una soverchia vita ripiene, perché Beatrice circondavano.”

Il fatto storico di riferimento avvenne non già nel 1360 ma negli anni 1412-1418.

Da Ticino Notizie

 

Le colonie elioterapiche lungo il Ticino

Una volta c’erano le colonie! “Le colonie elioterapiche di un tempo sul Ticino: distruzione, ruderi..ma fortunatamente non solo!”

Sì una volta c’erano le colonie! Tempi andati, tempi passati oggi presenti nella memoria di oggi ha più settant’anni come me.

Le colonie nascono come ospizi marini alla fine dell’800 per ospitare bimbi affetti da malattie tubercolari: il mare e il sole avevano funzione curativa sui piccoli tanto da essere definiti ‘antitubercolari’. La funzione terapeutica prosegue anche negli anni trenta, in pieno regime fascista, quando a quella sanitaria si aggiunge la funzione educativa e di propaganda e le colonie montane, lacustri, elioterapiche e marine, che ospitavano “balilla” e “piccole italiane” e furono il fiore all’occhiello della politica igienista del fascismo. Nelle colonie il tempo trascorreva fra adunate, esercitazioni, giochi, bagni di sole. L’opportunità di frequentare le colonie, offerta anche a molti ragazzi figli di italiani residenti all’estero, fu un’efficace operazione di propaganda presso le comunità dell’emigrazione italiana.

 Nel dopoguerra, eliminata la funzione propagandistica, le colonie ebbero una nuova vita dagli anni cinquanta quando si optò per la funzione sanitaria e ricreativa  ma anche  quale aiuto psicologico e morale per ragazze e ragazzi  colpiti dagli effetti del conflitto bellico. La costruzione delle colonie fu inarrestabile. Senza pretese architettoniche come quelle realizzate nel trentennio, le colonie assomigliano più ad alberghi ‘alla buona’  ma verso la fine degli anni settanta si assisterà  alla dismissione e abbandono delle strutture che avevano ospitato fino a quel periodo centinaia di migliaia di piccoli provenienti da tutto il paese e  la maggior parte viene inesorabilmente lasciata andare alle intemperie delle stagioni e al degrado.

A questo degrado è invece sfuggita oltre alla Colonia Enrichetta di Abbiategrasso  la colonia elioterapica sul Ticino di Turbigo come riporta il sito di Ticino Notizie e alla cui nota si rimanda per maggiori notizie e  a G.LEONI, L’Amministrazione comunale durante il ventennio fascista, in ‘Contrade Nostre’, vol VI, pagina 25  qui riprendendo in nuce solo alcune annotazioni storiche:

  ” Quest’anno la gestione di ‘Progetto Vita’ della ‘Colonia’ comunale di Turbigo ha avuto un grande successo (130 iscritti), probabilmente per la capacità animare il periodo con tanti momenti di svago (visita Expo compresa), tanta piscina, partecipazione al ‘Turbigusto’. Una storia quasi secolare, quella della Colonia Elioterapica che l’attuale Amministrazione intende rivalutare affidando la gestione a privati in grado di valorizzare il sito, pur mantenendo in essere la tradizione, che vede i giovani turbighesi passare un mesetto estivo sulla riva destra del Ticino. Ecco, brevemente, la storia di questo servizio che quest’anno è entrato in auge:“Dalla prima circolare del 2 maggio 1931, in cui si invitava il popolo fascista a muoversi nella realizzazione di colonie per bambini, il Fascio locale si fece subito carico del problema. Affittò un terreno di dieci pertiche milanesi adiacente al fiume Ticino, di proprietà del Comune di Galliate e, iniziati i lavori il 6 giugno 1931, mediante le prestazioni di volontari, il 5 luglio la Colonia venne inaugurata e furono accolti subito 58 bambini. La rapidità nella costruzione e le appropriate sistemazioni degli impianti costituiti da un fabbricato centrale adibito a refettorio, di una cucina, di doccia con serbatoio, pompa per l’acqua potabile, di latrine, tutto cintato con rete metallica fanno della colonia denominata Benito Mussolini una delle migliori della plaga. In proseguo i bambini sono continuamente aumentati e così nell’anno successivo si ampliò il fabbricato mediante il concorso di Luigi Gualdoni che volle ricordare con la propria donazione il nome del proprio figlio Giannino tragicamente scomparso …”

Come in altre località dell’attuale “Parco del Ticino” (Abbiategrasso, Samarate, Trecate, e della già citata Turbigo) a Motta Visconti sorgeva sulla riva del fiume, nell’attuale località “Guado della Signora”, una “colonia elioterapica”, i cui edifici sono stati completamente travolti dalle piene o forse, per meglio dire, a mio parere da locali talebani.

 

Infatti da qui corrono i ricordi alla mia fanciullezza e a quei poveri bianchi ruderi ancora presenti negli anni cinquanta sulle sponde del Ticino a Motta Visconti e dopo pochi anni rasi completamente al suolo e a quella ancora presente seppure asfaltata e modificata strada, come riporta il sito del Comune di Motta Visconti a “LA STRÄÄV AD LA COLONIA: Era un sentiero che scendeva dalla costa, nei boschi ed era percorsa dai boscaioli, dai sassaioli e dai pescatori: Fu ampliato e vi fu fatta una strada negli anni ’30 anche perché era stata costruita da poco la “Colonia Elioterapica Emilio Gorla” a cui andavano in estate moltissimi bambini a fare la cura del sole e ad abituarsi a vivere insieme. E così  in modo malinconico riporta al riguardo un altro sito mottese che su internet recita: ” La bellezza perduta della Colonia Elioterapica “Emilio Gorla” composta dal grande padiglione con dormitorio e mensa, un elegante ristorante (negli anni a venire trasformato in discoteca) e il solarium accanto al fiume. La colonia  venne inaugurata il 24 giugno 1932, benedetta dal prevosto di Casorate Primo, don Defendente Tettamanzi. Il sentiero che dal paese portava alla riva del fiume venne ampliato a strada. Il grande sito dedicato “alla cura del sole” (ce n’erano altri simili in provincia di Milano a Cuggiono, Legnano, Cerro Maggiore, Parabiago) era composto da un grande padiglione con dormitorio, cucina e mensa (totalmente scomparso, ubicato pressappoco sull’attuale piazzale al Guado della Signora), un elegante ristorante, sorta di piccolo gioiello con echi di stile”

Un discorso a parte merita  la “Colonia Enrichetta” oggi  diventata il “Centro Permanente di Educazione Ambientale”, fornito anche di posti letto). Così recita un sito che si occupa del Territorio abbiatense:”La vallata di Abbiategrasso che conduce al Ticino si apre in numerosi percorsi ciclopedonali: tutti attraversano le ampie aree agricole per poi immergersi nel fitto dei boschi di querce e carpini. Vicino al fiume la vegetazione si diversifica, alternando bellissimi salici e pioppi. Proprio in questa zona sorge Colonia Enrichetta, su un terreno di 10.000 metri quadri recintati all’interno di un bosco, a circa 300 metri dalle sponde del Ticino (in corrispondenza della radura della Gabbana, tradizionale approdo – ora ormai in crisi – della navigazione leggera e del canottaggio).

“La storia della Colonia Enrichetta parte all’inizio del XX secolo, quando nel lontano 1919 il Comitato Abbiatense della “Lega Nazionale Contro la Tubercolosi” pensa di far costruire un centro elioterapico. L’intento è quello di curare i bambini abbiatensi attraverso i cosiddetti “bagni di aria e di sole”, rimedio ritenuto curativo e preventivo nei confronti di una malattia che mieteva numerose vittime. Il nome stesso della Colonia è scelto in memoria della giovane Enrichetta Chierichetti Pianzola, morta di tubercolosi nel 1914, all’età di diciannove anni.

Per volere del dott. Alessandro Casazza vengono utilizzate alcune tende dismesse dagli ospedali da campo della Grande Guerra. Per allestire il centro elioterapico viene individuato un terreno boschivo di proprietà del Conte Antonio Trivulzio Manzoni, nei pressi del Ticino.

Poi il fascismo dilaga ovunque, e negli anni ’20-’30 Colonia Enrichetta si trasforma in Fondazione fascista. Di fronte alla crescente richiesta di prestazioni, si impone l’ampliamento della struttura, di cui è incaricata la Cooperativa d’Arte Edile: l’intervento fa sorgere diversi edifici, molti dei quali presenti ancora oggi.”

Bello sarebbe se i depositari e i cultori di memorie storiche locali potessero fornire notizie e documentazioni sulle altre colonie elioterapiche dei Comuni rivieraschi del Ticino.

Da Ticino Notizie

 

Una mansio (punto di sosta) lungo la via Francisca del Lucomagno

(La casa del frate)

In tempi recenti, anche sulla scorta del sempre più crescente e diffuso interesse per i cammini storico-religiosi, si è avviata la riattualizzazione della Via Francisca del Lucomagno, su proposta dell’Association Internazionale Via Francigena (AIVF) e dell’Associazione Amici Badia di Ganna,  come riportato di recente  anche da Ticino Notizie.

Com’è noto,  la Via Francisca del Lucomagno con  l’itinerario di Sigerico  o Via  Francigena  era una delle due vie principali percorse  dai Pellegrini  nel Medioevo  che si snodavano in parte attraverso il territorio italiano.

 

L’itinerario di Sigerico  o Via  Francigena  rimanda ad una  relazione di viaggio tra le più antiche  che  risale al 990  ad opera di Sigerico, arcivescovo di Canterbury, di ritorno da Roma dopo aver  ricevuto il Pallio, ovvero la nomina, dalle mani del Papa. In tale documentazione  l’arcivescovo  descrive le 79 tappe  del suo itinerario che  si sviluppa su di un percorso di 1.600 chilometri che parte da Canterbury  arriva a Dover  per attraversare la Manica; da Calais, passando per Reims, Besançon  e Losanna si arriva alle Alpi che vengono passate al colle del Gran San Bernardo. Dalla Valle d’Aosta si scende a Ivrea, quindi Vercelli, Pavia e si attraversano gli Appennini  tra le province di Piacenza e Parma passando per Segalara,  Fornovo di Taro e poi Berceto. Da Pontremoli si prosegue per Lucca, Porcari, Altopascio, Galleno, Ponte a Cappiano, Fucecchio, San Gimignano, Colle di Val d’Elsa, Siena, Viterbo per terminare a Roma. I punti di sosta ( mansiones) con la relativa numerazione progressiva  in Lombardia risultano quattro: uno nella Provincia di Lodi e tre  tre in quella di Pavia: XXXIX Sce Andrea, oggi Corte Sant’Andrea  frazione del comune di Senna Lodigiana, XL Sce Cristine, oggi Santa Cristina, XLI Pamphica, come detto oggi Pavia , XLII Tremel, oggi Tromello: 79 tappe, circa 20 km per tappa, tra Senna Lodigiana e Santa Cristina che risulta essere il  punto centrale del viaggio.

A sua volta la Via Francisca del Lucomagno legata ad un  antico tracciato romano-longobardo, storicamente documentato,  partendo da Costanza, centro dell’Europa, e attraversando la Svizzera mediante il passo del Lucomagno giungeva fino a Pavia con un percorso fondamentale di collegamento dallo stesso  centro dell’Europa con la Pianura Padana; queste erano  le seguenti  tappe principali : Costanza, san Gallo, Coira, passo del Lucomagno, Bellinzona, Agno, Varese e Pavia.Significativo oltre al fatto  della mansio di Pavia quale punto di incontro e di unione di questi due itinerari,   di grande interesse poi, alla luce di antichi e giovanili ricordi, che nell’ambito delle manifestazioni che faran seguito alla lodevole  iniziativa del Comune di Robecco sul Naviglio congiuntamente alla Regione Lombardia sulla valorizzazione di tale via,  nei prossimi giorni si darà l’avvio ad un percorso a  tappe di un  tratto  della stessa  Via Francisca del Lucomagno  da Lavena Ponte Tresa-Pavia; inoltre la mansio di Motta Visconti è stata inserita come arrivo della 8° tappa  Abbiategrasso – Motta Visconti e partenza della non e ultima tappa Motta Visconti-Pavia.

Infatti  il ricordo non può  che andare  alla Cä dal frä (la Casa del Frate), situata al confine tra i comuni di Motta Visconti e di Besate e distrutta negli anni ’50 e di certo per secoli  mansio  lungo la Via Mercatorum ( Magenta-Pavia); inoltre la la stessa Via Francisca del Lucomagno  che dall’Abbiatense portava come da recente ricostruzione storica, snodandosi  parallelamente  al corso del fiume Ticino, alla  mansio di Pamphica ( Pavia).

Pare fosse stata anche in anni sconosciuti anche  la dimora di un eremita da cui il nome, comunque  bello  pensare come qui i viandanti e i pellegrini nel tempo antico vi trovassero  luogo amichevole di sosta, di riposo e di ristoro.

Da Ticino Notizie

 

Il fiume Ticino: il brigantaggio-Tadè il brigante di Motta Visconti

Viaggiatori assaliti dai briganti, dipinto di Bartolomeo Pinelli (1817). da Internet

Alla voce Brigantaggio-Wikipedia (1) così si legge :” Il brigantaggio è una forma di banditismo caratterizzata da azioni violente a scopo di rapina ed estorsione, mentre in altre circostanze esso assume risvolti insurrezionalisti a sfondo politico e sociale. Sebbene il fenomeno abbia origini remote e riguardi periodi storici e territori diversi, nella storiografia italiana questo termine si riferisce generalmente alle bande armate presenti nel Mezzogiorno tra la fine del XVIII secolo e il primo decennio successivo alla proclamazione del regno d'Italia nel 1861. L'attività brigantesca assunse connotati politici e anche religiosi all'inizio del XIX secolo, con le sollevazioni sanfediste antifrancesi. Fu duramente repressa all'epoca del Regno di Napoli e durante l'occupazione napoleonica, borbonica e risorgimentale, quando, dopo essersi ulteriormente evoluta, si oppose alle truppe del neonato Stato italiano. In questa fase storica, sia all'interno che al di fuori di queste bande e mossi anche da motivazioni di natura sociale e politica, agivano gruppi di braccianti ed ex militari borbonici.  Nessuna regione, da Nord a Sud , di quel che sarebbe stato il futuro Regno d’Italia fu risparmiata in questi secoli, pur con ragioni e modalità diverse, dalla piaga del brigantaggio, alla letteratura riportata in margine a tale voce si rimanda per specifici approfondimenti ed in particolare ai riferimenti(2-3-4).  Nella presente nota viene dato uno sguardo a quanto riportato dalle cronache per quanto concerne il brigantaggio nel Lombardo-Veneto ai tempi dell’Imperatrice Maria Teresa e limitatamente ai boschi del fiume Ticino nel tratto che va da Castelletto Ticino fino a Torre d’Isola, ovvero l’abbiatense con punto centrale Motta Visconti tra i suoi boschi rivieraschi e quelli della allora sponda piemontese di Garlasco e Vigevano Il fiume Ticino, le sue sponde, i suoi boschi e sottoboschi come già descritto in alcune note o poesiole  apparse  anche su  Ticino Notizie (5-6-7) furono nel passato spettatori di vite dal diverso aspetto , non solo di oneste figure di cavatori di ciottoli quarzosi, di cercatori di pagliuzze e di piccole pepite d’oro, di gente dedita alla raccolta di legna di funghi, di flora o al taglio di giunchi e  vimini oltre  alla caccia di uccelli e di piccolo mammiferi o alla pesca ma anche di persone al di  fuori o ai margini o ai confini della legalità: briganti e piccoli contrabbandieri .Questo avveniva con particolare attività e  come narrano le cronache, nel Settecento,  tra  quelle zone del Ticino di quel  incerto confine  tra Piemonte e Lombardia.Infatti per il trattato di Aquisgrana, stipulato nel 1748, l’Austria occupava l’antico Ducato di Milano ed i piemontesi potevano estendere il loro dominio fino al Ticino; ma la pace era stata raggiunta dopo lunghe guerre che causarono disastri, sofferenze e disordini gravi alle popolazioni lombarde. I boschi del Ticino erano così diventati il rifugio di bande di briganti ed assassini della peggior specie che rapinavano i passanti, assalivano le abitazioni isolate ed uccidevano facilmente per rubare o per vendetta.(8)  Così come riportano gli Atti dell’Archivio Storico Lombardo, nella seconda metà del Settecento, la lotta al contrabbando, che lungo il Ticino era un fenomeno endemico, rese necessarie  alcune disposizioni e specifici e mirati  interventi delle autorità governative. (9-10) A tal fine fu potenziato, lungo il fiume, il controllo delle forze dell‘ordine e furono istituite le prime « ricevitorie » della finanza per cercare di arginare i « movimenti commerciali clandestini » da e per lo Stato Sardo. In particolare, l’imperatrice d’Austria Maria Teresa volle estirpare la mala pianta del banditismo comminando pene crudeli che, per quanto inflitte da tutti i tribunali degli stati europei, suscitarono un senso di orrore negli stessi contemporanei (8). Mia nonna paterna Carolina Barenghi di Boffalora sopra Ticino  (11) si ricordava che nel passato alcuni suoi parenti per sbarcare il loro povero lunario erano dediti tra le sponde del fiume ad attività di piccolo contrabbando. Ma come detto, oltre al contrabbando una altra  piaga ben più pericolosa per la collettività e per l’ordine sociale  si appoggiava od era in competizione con quest’ultimo: il banditismo. Così riporta l’interessante libro  dello storico Mario Comincini :” Storia del Ticino:la vita sul fiume dal Medioevo all’età contemporanea”-Società storica abbiatense-1981, (7)  :”… briganti sanguinari che non esitano ad assalire non solo i casolari sparsi per le campagne, ma anche grossi villaggi; i loro frequenti e funesti sconfinamenti nel Milanese già nel 1761 avevano indotto il governo austriaco ad istituire un cordone di truppe sulla sponda sinistra del fiume, da Sesto a Pavia, e a chiedere la collaborazione delle comunità locali, invitate a suonare la campana a martello appena veniva avvistata una masnada di quei malviventi”Altri particolari significativi sulle attività di banditismo sono riportate da un altro storico locale Ambrogio Palestra sia  nella sua Storia di Abbiategrasso e sia in alcune pagine della Storia di Motta Visconti e dell’antico Vicus di Campese (12) .“ I boschi del Ticino erano diventati il rifugio di bande di briganti e di assassini dello peggior specie che rapinavano i passanti, assalivano le abitazioni isolate ed uccidevano facilmente per rubare o per vendetta” Tra i più feroci di questi grassatori criminali i due Storici ( 7-12)  ricordano in particolare un brigante di Motta Visconti, così il primo storico :” ……Dal 1754 al 1771 una decina di briganti che terrorizzavano l’Abbiatense finì sulla forca, subendo prima sevizie di ogni genere: Giuseppe Lisso detto Tadè, di Motta Visconti, ladro e grassatore, fu condannato ad essere tirato a coda  di cavallo fino al luogo dell’impiccagione…”Il secondo storico(12) : “ Fra i condannati a morte vi fu anche un feroce bandito chiamato Giuseppe Lisso, detto Tadè, della Motta Visconti, che spadroneggiò  ferocemente sule strade lungo il Ticino, assalì i viandanti, invase le abitazioni dei terrorizzati abitanti dal 1744 al 1760. Aveva con sé la moglie Anna Maria Lisso, unica donna tra tanti truci briganti….condannata a morte la pena le fu poi commutata in una specie di ergastolo a vita…”Ci fu ad Abbiategrasso una confraternita dei Disciplini di San Bernardino che si assunse il compito di assistere questi banditi condannati a morte e della loro opera di assistenza spirituale ci hanno lasciato una dettagliata relazione col nome dei condannati, la descrizione delle torture che venivano loro comminate (8).In conclusione, come curiosità personale  ricordo che ancora negli anni cinquanta, alla fine della seconda guerra mondiale, le mamme di Motta Visconti come minaccia  ai loro  bimbi capricciosi e disobbedienti si rivolgevano a loro con  queste parole ..” ..fai il bravo se no arriva Tada”…“.. attento e buono altrimenti dai boschi verrà a prenderti Tada (13) ”

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Nota 1) Rif (1)Secondo alcuni, il termine "brigante" deriverebbe dal popolo celtico dei Briganti (abitanti della Britannia), insediato presso Eboracum (York) e, sempre per costoro, tristemente famoso presso i romani a causa della loro riottosità[1]; secondo il Devoto per briga è da intendersi una parola che in lingua gallica (il gallico è una lingua celtica estinta, parlata nelle antiche Gallie, praticamente le odierne Francia ed Italia settentrionale), indica "forza", passata poi a significare "prepotenza"[ Il nome Brigantes (Briganti, Βρίγαντες; della Britannia) è affine a quello della dea celtica Brigantia. Comunque il nome viene da una radice celtica che significa altitudine. Il nome Brigantes infatti è collegabile a brig che significa "alto, elevato ed anche colle, altura" e non è chiaro se i nomi derivati erano così denominati col significato di "quelli alti" nel senso metaforico di animi nobili, o col significato di "montanari", oppure col significato di abitanti, luoghi o fortificazioni situati in altura. Anche il nome Brigit ed altri simili avrebbero avuto la stessa origine in Irlanda[. A parziale conferma, Tolomeo nel menzionare i Brigantes, li riconosce come tribù presente anche in Irlanda. Un'altra tribù celtica (da taluni identificata come Brigantii) è citata da Strabone come una sub-tribù presente nel territorio dei Vindelici. Nella geografia pre-romana dell'Europa, Vindelicia era una regione delimitata a nord dal Danubio (e successivamente dal Limes Germanico di Adriano), a est dall'attuale fiume Inn, a sud dalla Rezia e ad ovest dal territorio degli Elvezi. Il suo capoluogo divenne con i Romani Augusta Vindelicorum ("Augusta dei Vindelici", o Augusta). L'origine etnica del Vindelici non è sicura. In ogni caso solo verso la fine del primo secolo d.C. questa regione è stata inclusa nella provincia della Rezia dove erano sicuramente presenti sub-tribù di Brigantes Celti. Nella lingua italiana la parola brigante, da cui, fra gli altri, i nomi inglesi e francesi di brigand e brigade (e poi anche di brigandage) si evidenzia da espressioni derivate dal latino medievale non prima del XIV secolo. Il termine brigante, con la connotazione di "fuorilegge", deriverebbe, come sopra affermato, da "brigare"[4]. Non vi sarebbe dunque un'origine celtica di termini relativi alla parola brigantaggio ed anche se una derivazione celtica fosse possibile, ogni connessione con la tribù celtica dei Brigantes della Britannia appare affatto improbabile in quanto detta tribù non aveva avuto alcuna particolare presenza nella penisola italica ed era scomparsa come popolo da qualche migliaia di anni rispetto al momento in cui comparvero termini correlati con brigantaggio.

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Nota 2)  Rif. (4-9) Nel Ducato di Milano, siamo nel XVI secolo, presso il Bosco della Merlata, che era una distesa boschiva a nord est di Milano e che prendeva il nome del torrente Merlata che vi scorreva, agiva una banda di briganti, i quali avevano la loro base presso l’Osteria di Melgasciada, famosa perché i milanesi facevano tappa per gustare gli asparagi. I capi di questa banda di briganti, tali Giacomo Legorino e Battista Scorlino, furono poi catturati e messi a morte. Il fenomeno però non veniva meno, tanto che nella brughiera di Gallarate i briganti spadroneggiavano, per cui i governatori furono costretti a mettere una taglia di ben 100 mila scudi a chi eliminava questi banditi. Furono loro stessi che incamerarono quel premio, poiché si offersero di entrare a far parte delle guardie dei governatori. Oltre ai due capi sopra ricordati, tra l’altro veri e proprio malfattori, facciamo adesso la conoscenza di altri due briganti, il primo, tale Giacomo Carciocchi, detto “il Carcini”, nativo di Plesio, nel comasco, dove, unitamente al compagno Pacini, operò con la sua temibile banda, il cui nascondiglio era in una grotta ancora oggi chiamata “Bogia di brigant”, sul monte Grona. Il Pacini divenne un personaggio nel teatro dei burattini bergamasco, col nome di “Pacì Paciana”. L’altro, il cui nome era Vincenzo Pacchiana, di origini della provincia di Bergamo, divenne, da oste che era, brigante In seguito a una condanna per furto subita ingiustamente. Un’altra versioneracconta che era un gendarme del governo Veneto, condannato da questi per vari reati, si diede alla macchia e al brigantaggio.

Permettetemi di ritornare un attimo sulla citata Osteria Melgasciada, tra l’altro ancora oggi in attività, poiché dal volume “vecchie osterie milanesi”, di L. Medici, leggo che sull’uscio che immette nella cucina grande, è scritta la seguente strofa:

Qui è murata

la testa della mula

dei celebri briganti

Giacomo Legorino e Battista Scorlino giustiziati nel Maggio del 1566

Ecco un altro piccolo spaccato della nostra storia lombarda, e, prima di concludere, brigante, nel nostro dialetto meneghino si dice “brigànt o sassìn de strada”.

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Nota 3) Rif. (7-8-12) Quando una sentenza di morte veniva pronunciata, il podestà  di Abbiategrasso inviava ai Confratelli copia della sentenza dove erano descritti i crimini dei condannati, invitandoli a compiere il loro pietoso ufficio. Il priore dei Disciplini con alcuni foglietti assegnava ai confratelli i diversi compiti; alcuni giravano per il borgo questuando la somma di denaro necessaria; altri caricavano un altare di legno sopra un carro e si recavano alle carceri di Milano, dove sino al giorno dell’esecuzione assistevano il condannato facendo perfino celebrare messe nella sua stessa cella. Lo persuadevano a confessarsi, a comunicarsi e a recitare preghiere per prepararsi a sopportare pazientemente i terribili tormenti. Comperavano anche cibarie che offrivano ai condannati e prodigavano loro quelle cure che servissero a dare loro un poco di sollievo.

Raccoglievano infine il corpo straziato e gli davano pietosa sepoltura nella stessa chiesa di San Bernardino dove ancor oggi, dinnanzi all’altare del Crocifisso, vi era nel pavimento una pietra tombale che reca incisa una triste parola: Giustiziati. Fra i condannati a morte vi fu anche un feroce bandito chiamato Giuseppe Lisso detto Tadé, di Motta Visconti, che spadroneggiava ferocemente sulle strade lungo il Ticino, assaltando i viandanti, invase le abitazioni dei terrorizzati abitanti dal 1744 al 1760. Aveva con sè la moglie Anna Maria Lisso, unica donna fra tanti truci briganti, la quale seguiva la banda capeggiata dal marito e lo aiutava a commettere i peggiori crimini. Quando venne acciuffata dagli sbirri subì il processo e le fu commutata la pena di morte in cinque anni di “camuccione”, che probabilmente era una specie di segregazione, e nel carcere a vita. Il Tadé suo marito fu condannato ad essere tirato a coda di cavallo fino al luogo dove venne impiccato.

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Riferimenti bibliografici

1)      Brigantaggio-Wikipedia-Internet

2)      Brigantaggio in Treccani.it – Enciclopedia on line-Istituto dell’Enciclopedia Italiana-15 Marzo 2011

3)      Giuseppe Pennacchi-“ L’Italia dei briganti”-Rendine, 1988

4)      Laura Colombo-“ Banditi al bosco della Merlata: un episodio di brigantaggio nella Milano spagnola del XVI secolo-Comune di Milano

5)      Giuseppe Gianpaolo Casarini-“L’oro del Ticino tra realtà e leggenda”-Cultura e Prospettiva-n.48, 2018-Convovio Editore

6)      Giuseppe Gianpaolo Casarini-“ Persone al di fuori o ai margini della legalità”-Ticino Notizie-Internet

7)      Mario Comincini-” Storia del Ticino:la vita sul fiume dal Medioevo all’età contemporanea”-Società storica abbiatense-1981

8)      Punto di Vista-Motta Visconti-Dicembre 2017-Facebook

9)      Oliviero Spada- Brigantaggio e briganti milanesi: storia lombarda-da Internet

10)  G. Solavaggione-“ Brigantaggio e contrabbando nella campagna lombarda del Settecento”-Nuova Rivista Storica.

         11) Carolina Barenghi-Comunicazione personale-Motta Visconti-1950

      12) Ambrogio Palestra-“ Storia di Motta Visconti e dell’antico Vicus Campese”-Motta      Visconti, 1982

     13)  Antonia Scotti – Comunicazione personale-Motta Visconti-1950

 

RICHIAMI DI METALLURGIA NELLA LETTERATURA

Giuseppe  Casarini-Binasco (MI)

 

RIASSUNTO

                                       “ Fragile è il ferro allor ché non resiste/di fucina mortal tempra terrena/
                                         ad armi incorrottibili ed immise/d'eterno fabro)….”
                                                                                
T. Tasso ( Gerusalemme Liberata-Canto VII-vv )

                                     “Ecco Rinaldo con la spada adosso/a Sacripante tutto s'abbandona;/
                                 e quel porge lo scudo, ch'era d'osso/,con la piastra d'acciar temprata e buona./
                                                                                
L. Ariosto ( Orlando Furioso-Canto II)

La scoperta dei metalli, delle leghe metalliche e il loro uso, dall’età del ferro all’era moderna, quella degli acciai inossidabili e delle superleghe, hanno accompagnato ed accompagnano  l’evoluzione e la storia dell’umanità nonché il suo modo di vivere. Nella pratica quotidiana, per limitarci al loro impiego in casa, in ufficio e nei  mezzi di trasporto, i metalli, sotto forma di oggetti e di manufatti, i più disparati, ci sfiorano e  ci sono a portata di mano anche tale continua  familiarità lo fa spesso dimenticare e porta alla ingrata indifferenza.  Tuttavia non solo nella praticità e nel campo della scienza e del mondo industriale  ma anche nel campo delle arti i metalli hanno dato e danno direttamente  un significativo contributo all’appagamento di altri  bisogni e necessità  dell’uomo, quelle dell’estetica e del bello: basti pensare alle statue bronzee della antichità classica ed alle moderne sculture in acciaio inossidabile. Indirettamente, e questo è il tema di questo excursus,   vedremo come sempre  nel campo degli appagamenti culturali e dello spirito i metalli   abbiano offerto ed offrano immenso materiale nel campo della letteratura. Spaziando in questo campo, dall’antichità ai tempi nostri è facile riscontrare, punto di riferimento la  Divina Commedia, nella quale sono state evidenziate e commentate a suo tempo le innumerevoli terzine con  riferimento ai metalli, come gli stessi metalli non siano sfuggiti alla penna di storici, pensatori e poeti per evocare immagini, suggestioni, riflessioni degne della nostra attenzione. Nella presente memoria, data la vastità dell’esplorazione, il campo di indagine è stato confinato  alla classicità greco-romana. Vedremo come questa, attraverso i versi di Esiodo, Omero, Ovidio, Lucrezio,Virgilio e Tibullo,  offra un immenso tesoro di riferimenti alla metallurgia ed alla lavorazione dei metalli: metalli come simbolismo tra dei, miti e leggende, suggestivi versi sull’origine della metallurgia, sull’impiego e l’uso dei metalli, le loro proprietà, l’usura, la corrosione, il riciclaggio, nonché sfolgoranti descrizioni e una profusione di oggetti metallici.Ai poemi cavallereschi della letteratura italiana, se ci sarà, il prossimo appuntamento a cominciare dal Tasso e dall’Ariosto.

 

INTRODUZIONE

Fluit aes rivis aurique metallum, vulnificusque chalybs vasta fornace liquescit ( Scorrono a ruscelli il bronzo e l’oro, l’acciaio atto a ferire si liquefa nel vasto forno): questo frammento di un famoso distico tratto dall’Eneide virgiliana ,  risulta impresso, quale motto, sulla moneta etrusca raffigurante Vulcano, il dio dei metalli, adottata come stemma dall’Associazione degli Industriali Metallurgici, primo atto di quella che sarà in seguito l’Associazione Italiana di Metallurgia ed è apparso per la prima volta nel numero di settembre del 1917 della nostra rivista La Metallurgia Italiana a testimonianza del connubio che sempre dovrebbe ricercarsi tra  scienza ed arte.

A partire da tale frammento,  già citato a suo tempo nelle ricerche su Dante, i suoi mentori e la Divina Commedia (1-3) cercheremo di scoprire, con riferimento alla classicità greco-latina, le  immagini, le  suggestioni e le riflessioni che i metalli hanno evocato e prodotto nei versi dei poeti di quel tempo antico. Tale breve ricerca, oltre che sprone per i giovani cultori della metallurgia ad una più approfondita ricerca in questo campo, vuole rendere un modesto omaggio a tutti quegli studiosi che in passato non hanno disgiunto l’amore della scienza con quello della letteratura, primo fra tutti l’Ing. Giuseppe Cozzo e poi: E. Crivelli, A. Uccelli, G. Somigli e I. Guareschi (4-7)

 

I METALLI COME SIMBOLISMO: TRA DEI, MITO E LEGGENDA

L’antropologia moderna analizzando la preistoria e la protostoria dell’umanità, classifica la sua evoluzione attraverso le seguenti età: età della pietra ( paleolitico, mesolitico, neolitico), età del bronzo e età del ferro in funzione della natura dei primi utensili impiegati dall’uomo e dalla cronologia della scoperta e dell’uso dei metalli. Anche nell’antichità seppure strettamente legata a superstizioni, suggestioni di interventi divini tra miti e leggende varie, l’importanza dei metalli, come fattori di progresso, era già stata fortemente sentita e percepita nonché tradotta anche in componimenti epici o liriche nostalgiche ed accorate.

Inizialmente, sia nel  mondo greco e poi in quello latino, al pari della visione biblica dell’Eden o Paradiso terrestre, la prima fase della storia dell’umanità veniva confinata nell’età dell’oro, età ove regnano pace e serenità, seguita poi, come punizione divina, a periodi di guerre e di discordie: metalli sottratti all’aratura dei campi e trasformati in armi letali.

Classicità Greca

 Per primo, Esiodo, epico greco della fine dell’VIII sec. A.C., nelle “Opere ed i giorni” (8) enumera cinque età del mondo, fondate proprio sull’uso dei metalli, ed nelle quali si sarebbero avvicendate altrettante “specie umane”, o in altre parole, altrettanti stadi della civiltà. La prima detta “età dell’oro” in cui vecchiaia, preoccupazioni ed affanni della vita erano stati risparmiati agli uomini e dove il suolo fertilissimo avrebbe offerto spontaneamente erbe e frutta in abbondanza. A questa sarebbe seguita la stirpe “ dell’età dell’argento” distrutta da Zeus per la pochezza della sua intelligenza e per il disprezzo verso gli Dei; terza “l’età del bronzo”, vigorosa ed indomabile e dal cuore duro conclusasi tra lotte tremende e crudeli.Ad esse seguiranno una quarta, come fase di transizione, per poi ultima “l’età del ferro”, quella in cui visse il poeta, piena di sofferenze, di miserie, di delitti e di empietà.“Prima una stirpe aurea di uomini mortali/ fecero gli immortali che hanno le olimpie dimore...come dèi vivevano, senza affanni nel cuore,.. il suo frutto dava la fertile terra../Come seconda una stirpe peggiore assai della prima,/argentea, fecero gli abitatori delle olimpie dimore,..vivevano ancora per poco, soffrendo dolori../né gli immortali venerare volevano,/ né sacrificare ai beati sui sacri altari,../ Zeus padre una terza stirpe di gente mortale/fece, di bronzo, in nulla simile a quella d'argento,..di bronzo eran le armi e di bronzo le case,/col bronzo lavoravano perché il nero ferro non c'eradi nuovo una quarta, sopra la terra feconda,/fece Zeus Cronide, più giusta e migliore,/di eroi, stirpe divina, che sono detti semidei, …/combattendo per le greggi di Edipo,…./là il destino di morte li avvolse;/ma poi lontano dagli uomini dando loro vitto e dimora/il padre Zeus Cronide della terra li pose ai confini./…Zeus, poi, pose un'altra stirpe di uomini mortali/dei quali, quelli che ora vivono.../perché ora la stirpe è di ferro; né mai di giorno/cesseranno da fatiche e affanni, né mai di notte,/affranti; e aspre pene manderanno a loro gli dèi.”

Classicità Latina

A quella medesima e felice età dell’oro ricordata da Esiodo si richiameranno più tardi anche  i poeti elegiaci latini. In particolare, Ovidio ( 43 A.C.-18 D.C.)  nel Libro I delle Metamorfosi sembra ripercorre, descrivendo le varie età dell’evolversi dell’umanità , gli stessi versi e le stesse evocazioni dell’epico greco: “Per prima fiorì l'età dell'oro, che senza giustizieri/o leggi, spontaneamente onorava lealtà e rettitudine./………non v'erano trombe dritte, corni curvi di bronzo,né elmi o spade: senza bisogno di eserciti,la gente viveva tranquilla in braccio all'ozio/Quando Saturno fu cacciato nelle tenebre del Tartaro/e cadde sotto Giove il mondo, subentrò l'età d'argento,/peggiore dell'aurea, ma più preziosa di quella fulva del bronzo./…….Terza a questa seguì l'età del bronzo: d'indole/più crudele e più proclive all'orrore delle armi/,ma non scellerata. L'ultima fu quella ingrata del ferro./E subito, in quest'epoca di natura peggiore, irruppe/ogni empietà; si persero lealtà, sincerità e pudore,/e al posto loro prevalsero frodi e inganni,/”.  (9)

Tibullo ( 55-18 A.C.) nel suo accorato carme” In terre sconosciute” mette anch’egli a confronto il suo periodo e lo spensierato periodo di un tempo antico: l’umanità viveva in un mondo idilliaco, senza pericoli,  animali e piante elargivano doni  in abbondanza ed il metallo non era stato ancora forgiato sotto forma di armi dedite alla morte.“Com'era felice la vita sotto il regno di Saturno,/…nessuna casa aveva porte e/…Stillavano miele le querce/e spontaneamente le agnelle/gonfie di latte offrivano le poppe/…Non c'era esercito, né rabbia, guerre/o un fabbro disumano/che con arte crudele foggiasse le spade.”  ( 10 ).

Anche Virgilio (70-19 A.C.),  nell’Eneide (LibroVIII), ricorda come Saturno e la sua età dell’oro abbiano influenzato la nascita della civiltà nel Lazio, civiltà poi degradatasi progressivamente:”Saturno il primo fu che in queste parti/ venne, dal ciel cacciato, e vi s'ascose/ E quelle rozze genti, che disperse/ eran per questi monti, insieme accolse/ e diè lor leggi: onde il paese poi /da le latèbre sue Lazio nomossi. Dicon che sotto il suo placido impero/ con giustizia, con pace e con amore si visse un secol d'oro, in fin che poscia/ l'età, degenerando, a poco a poco/ si fe' d'altro colore e d'altra lega. ( 11)

Tema dell’età dell’oro ripreso poi dallo stesso Virgilio in  una sorta di profezia messianica, anche nelle Bucoliche ( IV Ecloga) :”O Muse sicule, cantiamo poesie più elevate: non a tutti piacciono gli arbusti e le basse tamerici;/se cantiamo i boschi, siano boschi degni di un console. /E' giunta l'ultima età / di nuovo nasce un grande ciclo di secoli e già torna la Vergine, tornano i regni di Saturno, già una nuova generazione viene fatta scendere dall'alto cielo./Tu, casta Lucina, sii propizia al bambino  che sta per nascere / al tempo del quale inizierà a scomparire la generazione del ferro/ e in tutto il mondo sorgerà quella dell'oro; il tuo Apollo regna già./”(12).

 

LA METALLURGIA NEI GRANDI POEMI DELL’ANTICHITA’

La nascita della metallurgia : la lavorazione dei metalli e l’uso dei metalli

 Il poeta latino Tito Lucrezio Caro ( 98-54 A.C.) nel suo De Rerum Natuta (13),  fedele al pensiero di Epicureo e partendo dall’analisi delle particelle minime ed indivisibili, gli atomi, ed  analizzando  i processi della conoscenza umana ed i meccanismi che presiedono ai fenomeni naturali, ci introduce, poeticamente nel Libro V alla nascita della metallurgia ed alla lavorazione dei metalli.:”Comunque sia, quale che fosse la causa per cui l'ardore/delle fiamme aveva divorato con orrendo fragore le selve/dalle profonde radici e aveva cotto a fondo col fuoco la terra,/colavano dalle vene bollenti confluendo nelle cavità della terra/rivoli d'argento e d'oro e anche di rame e di piombo./E quando gli uomini li vedevano poi rappresi/risplendere sul suolo di lucido colore,/li raccoglievano, avvinti dalla nitida e levigata bellezza,/e vedevano che erano foggiati in forma simile a quella/che aveva l'impronta dell'incavo di ognuno./Allora in essi entrava il pensiero che questi, liquefatti al calore,/potessero colando plasmarsi in qualsiasi forma e aspetto di oggetti,/e che martellandoli si potesse forgiarli in punte di pugnali/quanto mai si volesse acute e sottili,/sì da procurarsi armi e poter tagliare selve/ed asciare il legname e piallare e levigare travi/ed anche trapanare e trafiggere e perforare/.

 

Le proprietà dei metalli

Di seguito e sempre nel Libro V, Lucrezio mette in evidenza come, dopo la scoperta della metallurgia, gli uomini abbiano imparato a conoscerne subito  le caratteristiche e l’utilità:” E dapprima s'apprestavano a far queste cose con l'argento e l'oro/non meno che con la forza violenta del possente rame,/ma invano, poiché la tempra di quelli vinta cedeva,/né potevano sopportare ugualmente il duro sforzo./Difatti ‹il rame› era più pregiato e l'oro era trascurato/per l'inutilità, perché si smussava con la punta rintuzzata./”  ma, come mette in evidenza Lucrezio  i tempi cambiano :”/Ora è trascurato il rame, l'oro è asceso al più alto onore./Così il volgere del tempo tramuta le stagioni delle cose:/ciò che era in pregio, diventa alfine di nessun valore;/”…

 Usura e corrosione dei metalli

L’osservazione di Lucrezio sui metalli e sul loro decadimento con specifico riferimento alla concezione atomistica delle cose, si fa ancora e più profonda ( Libro I) : qualsiasi sia la natura del metallo o della lega: oro, ferro, bronzo,  al pari delle pietre, tutto ciò,  con l’impiego e nel tempo,  si usura e si corrode senza che noi ne possiamo conoscerne il perché :“Per di più, nel corso di molti anni solari l'anello,/a forza d'essere portato, si assottiglia dalla parte che tocca il dito;/lo stillicidio, cadendo sulla pietra, la incava; il ferreo vomere/adunco dell'aratro occultamente si logora nei campi;/e le strade lastricate con pietre, le vediamo consunte/dai piedi della folla; e poi, presso le porte, le statue/di bronzo mostrano che le loro mani destre si assottigliano/al tocco di quelli che spesso salutano e passano oltre./Che queste cose dunque diminuiscano, noi lo vediamo,/perché son consunte. Ma quali particelle si stacchino in ogni/momento, l'invidiosa natura della vista ci precluse di vederlo./ “

Riciclaggio

Virgilio, nel Libro VII dell’Eneide, ci offre un saggio poetico sui riciclaggi del ferro e dell’acciaio: il nemico incombe e bisogna difendersi : attrezzi agricoli e mezzi per dissodare il terreno vengono rifusi e trasformati sotto forma di armi e di corazze: “ Cinque grosse città con mille incudi/ a fabbricare, a risarcir si dànno/ d'ogni sorte armi: la possente Atina,/ Ardea l'antica, Tivoli il superbo,/ e Crustumerio, e la torrita Antenna./ Qui si vede cavar elmi e celate;/ là torcere e covrir targhe e pavesi:/per tutto riforbire, aüzzar ferri,/ annestar maglie, rinterzar corazze,/ e per fregiar piú nobili armature,/ tirar lame d'acciar, fila d'argento./ Ogni bosco fa lance, ogni fucina/ disfà vomeri e marre, e spiedi e spade/ si forman dai bidenti e da le falci.”/

Sfolgoranti descrizioni

Omero (IX sec. A.C.),  nell’Iliade come nell’Odissea e parimenti Virgilio, nell’Eneide, quasi gareggiando tra di loro, ci offrono a profusione, “forgiando” indimenticabili versi, una sfolgorante descrizione di metalli in varie forme e dalle fogge e decorazioni le più diverse:armi, scudi, cocchi divini, vasellame, suppellettili, abitazioni, strumenti musicali;  per brevità  ci si dovrà  limitare solo   ad alcuni rimandi: al lettore diligente la voglia ed il compito di dar seguito a personali approfondimenti.

Gli scudi di Achille e di Enea

Di seguito sono riportati i versi  che descrivono il lavoro di Efesto-Vulcano nell’atto di forgiare, su richiesta di Teti, la madre di Achille,  il nuovo scudo del Pelide dopo che quello indossato in sua vece da Patroclo era stato preda di Ettore a seguito dell’uccisione del fraterno amico.”Eran venti che dentro la fornace/per venti bocche ne venìan soffiando,/e al fiato, che mettean dal cavo seno,/or gagliardo or leggier, come il bisogno/chiedea dell'opra e di Vulcano il senno,/sibilando prendea spirto la fiamma./In un commisti allor gittò nel fuoco/argento ed auro prezïoso e stagno/ed indomito rame. Indi sul toppo/locò la dura risonante incude,/di pesante martello armò la dritta,/di tanaglie la manca; e primamente/un saldo ei fece smisurato scudo/di dèdalo rilievo, e d'auro intorno/tre ben fulgidi cerchi vi condusse,/poi d'argento al di fuor mise la soga./Cinque dell'ampio scudo eran le zone,/ (14 )

Non da meno è l’abilità poetica di Virgilio, nell’VIII libro dell’Eneide, nel descrivere il lavoro dei Ciclopi, intenti nelle nere fucine etnee del dio Vulcano, a forgiare , su richiesta di Pallade-Atena, le armi di Enea: “Tosto che giunse: «Via, - disse a' Ciclopi -/ sgombratevi davanti ogni lavoro,/ e qui meco guarnir d'arme attendete/ un gran campione. E s'unqua fu mestiero/ d'arte, di sperïenza e di prestezza,/ è questa volta. Or v'accingete a l'opra/ senz'altro indugio». E fu ciò detto a pena,/ che, divise le veci e i magisteri,/ a fondere, a bollire, a martellare/ chi qua chi là si diede. Il bronzo e l'oro /corrono a rivi; s'ammassiccia il ferro,/ si raffina l'acciaio; e tempre e leghe/ in piú guise si fan d'ogni metallo./ Di sette falde in sette doppi unite,/ ricotte al foco e ribattute e salde,/ si forma un saldo e smisurato scudo,/ da poter solo incontro a l'armi tutte/ star de' Latini. Il fremito del vento /che spira da' gran mantici, e le strida/ che ne' laghi attuffati, e ne l'incudi/ battuti, fanno i ferri, in un sol tuono/ ne l'antro uniti, di tenore in guisa /corrispondono a' colpi de' Ciclopi,/ ch'al moto de le braccia or alte or basse/ con le tenaglie e co' martelli a tempo fan concerto, armonia, numero e metro/”

Una profusione di oggetti metallici

Poi in un crescendo di citazioni,  sia in Omero che in Virgilio, appaiono magnifiche descrizioni di: cocchi divini, vasellame, suppellettili, abitazioni, strumenti musicali: 

Iliade

Nel bel mezzo della battaglia tra Achei e Troiani, ecco intervenire in aiuto dei due schieramenti, alcune divinità armate di tutto punto ( Iliade-Libro V):“Immantinente al cocchio Ebe le curve/ruote innesta. Un ventaglio apre ciascuna/d'otto raggi di bronzo, e si rivolve/sovra l'asse di ferro. Il giro è tutto/d'incorruttibil oro, ma di bronzo/le salde lame de' lor cerchi estremi./Maraviglia a veder! Son puro argento/i rotondi lor mozzi, e vergolate/d'argento e d'ôr del cocchio anco le cinghie/con ambedue dell'orbe i semicerchi,/a cui sospese consegnar le guide./Si dispicca da questo e scorre avanti/pur d'argento il timone, in cima a cui/Ebe attacca il bel giogo e le leggiadre/pettiere; e queste parimenti e quello/d'auro sono contesti. Desïosa/Giuno di zuffe e del rumor di guerra,/gli alipedi veloci al giogo adduce./Né Minerva s'indugia. Ella diffuso/il suo peplo immortal sul pavimento/delle sale paterne, effigïato/peplo, stupendo di sua man lavoro,/e vestita di Giove la corazza/di tutto punto al lagrimoso ballo/armasi. Intorno agli omeri divini/pon la ricca di fiocchi Egida orrenda,/che il Terror d'ogn'intorno incoronava/”

Odissea

 Oro, argento, rame: questa l’offerta, segno dell’opulenza delle case di Ilio,  di un prigioniero   troiano onde aver salva la vita  come descritto nel libro VII: “L'aggiungono anelanti i due guerrieri,/l'afferrano alle mani, ed ei piangendo/grida: Salvate questa vita, ed io/riscatterolla. Ho gran ricchezza in casa/d'oro, di rame e lavorato ferro./Di questi il padre mio, se nelle navi/vivo mi sappia degli Achei, faravvi/per la mia libertà dono infinito.”

Sempre nello stesso libro:“Palagio chiara, qual di sole o luna,/Mandava luce. Dalla prima soglia Sino al fondo correan due di massiccio/Rame pareti risplendenti, e un fregioDi ceruleo metal girava intorno./Porte d'ôr tutte la inconcussa casaChiudean: s'ergean dal limitar di bronzo/Saldi stìpiti argentei, ed un argenteo Sosteneano architrave, e anello d'oro/Le porte ornava; d'ambo i lati a cui,Stavan d'argento e d'ôr vigili cani:/Fattura di Vulcan, che in lor ripose” … “Canto arricchillo. Il banditor nel mezzo/Sedia d'argento borchiettata a lui/Pose, e l'affisse ad una gran colonna:/Poi la cetra vocale a un aureo chiodo/Gli appese sovra il capo, ed insegnagli/,Come a staccar con mano indi l'avesse.”

Ecco, nel libro X dello stesso poema, la munificenza di oro, argento, bronzo, che arreda le maritali stanze della maga Circe dove Ulisse riprende le vigorose forze:“Bei tappeti di porpora, cui sotto/Bei tappeti mettea di bianco lino:/L'altra mense d'argento innanzi ai seggi/Spiegava, e d'oro v'imponea canestri:/Mescea la terza nell'argentee brocche/Soavissimi vini, e d'auree tazze/Coprìa le mense: ma la quarta il fresco/Fonte recava, e raccendea gran fuoco/Sotto il vasto treppié, che l'onda cape./Già fervea questa nel cavato bronzo,/E me la ninfa guidò al bagno, e l'onda/Pel capo mollemente e per le spalle/Spargermi non cessò, ch'io mi sentii/Di vigor nuovo rifiorir le membra./Lavato ed unto di licor d'oliva,/E di tunica e clamide coverto,/Sovra un distinto d'argentini chiovi/Seggio a grand'arte fatto, e vago assai,/Mi pose: lo sgabello i piè reggea/.E un'altra ninfa da bel vaso d'oro/Purissim'acqua nel bacil d'argento/ “

Eneide

E non da meno, come descrizioni di opulenza e di splendori metallici, risultano questi vrsi tratti dal libro II dell’Eneide:Poscia che ciò come profeta disse,/ comandò come amico ch'a le navi/ gli portassero i doni, opre e lavori/ ch'avea d'oro e d'avorio apparecchiati/, e gran masse d'argento e gran vaselli /di dodonèo metallo: una lorica/ di forbite azzimine; e rinterrate/ maglie, dentro d'acciaro e 'ntorno d'oro/, una targa, un cimiero, una celata,/ ond'era a pompa ed a difesa armato/ Nëottòlemo altero”. 

 

CONCLUSIONI

La letteratura della classicità greco-latina, come messo in evidenza,  offre un immenso tesoro di riferimenti alla metallurgia ed alla lavorazione dei metalli: metalli come simbolismo tra dei, miti e leggende, suggestivi versi sull’origine della metallurgia, sull’impiego e l’uso dei metalli, le loro proprietà, l’usura, la corrosione, il riciclaggio, nonché sfolgoranti descrizioni e una profusione di oggetti metallici.Ai poemi cavallereschi della letteratura italiana, se ci sarà, il prossimo appuntamento a cominciare dal Tasso e dall’Ariosto.

 

 BIBLIOGRAFIA

1 1) G. Casarini :” Riferimenti ad arti e mestieri alchemici metallurgici nella Divina Commedia: Fabbri e Ferraioli”-28° Convegno Nazionale A.I.M.-Milano Novembre 2000-Atti-Vol.2-pagg 635-541

2 2)   G.Casarini:” Metallurgia e scienza nei gironi danteschi”-Civiltà degli Inossidabili-Ediz. Trafilerie Bedini-Dic.1992

3 3)  G. Casarini:” Dante Alighieri e la Metallurgia”- Pianeta Inossidabili-Ediz. Acciaierie Valbruna-Giu.1995

4 4)   G. Cozzo:” Le origini della metallurgia-I metalli e gli dei”-Editore G.Biardi-1945 Roma

5 5) E. Crivelli:” La metallurgia degli antichi”-Supplem. Ann. Enciclopedia della Chimica-Unione Tipografica Editrice- 1913 Torino

6 6)  I. Guareschi :”Storia della Chimica-I colori degli antichi”- ”-Supplem. Ann. Enciclopedia della Chimica-Unione Tipografica Editrice- 1905 Torino

7 7)  A. Uccelli-G.Somigli:”Dall’alchimia alla chimica-Storia della Metallurgia e delle lavorazioni meccaniche nel medio-evo”-Enciclopedia storica delle scienze e loro applicazioni”-U. Hoepli Editore-Milano

8 8) Esiodo: “ Le opere e i giorni”-Trad. G. Arrighetti-Ediz.Garzanti-1985

9 9) Ovidio:” Metamorfosi”-Ediz.varie

1 10) Tibullo: “Elegie”_Ediz.varie

1 11) Virgilio:”Eneide”-Trad.A.Caro-Ediz.varie

1 12) Virgilio: “Bucoliche”-Trad. L.Canali-Fabbri Editori

1 13) Lucrezio: “De Rerum Natura”

1 14) Omero: “Iliade”-Trad. V.Monti-Ediz.varie

1 15) Omero: Odissea”-Trad.I.Pindemonte-Ediz.varie

1 16) T. Tasso: “ La Gerusaleme Liberata”-Ediz. varie

1 17) L. Ariosto: “ Orlando Furioso”-Ediz.varie

 

Cesare Angelini e Il Ticino: Elegia del Ponte Rotto.


Nel corso della stesura di una nota volta alla ricerca di riferimenti al fiume Ticino nella vasta produzione letteraria del Vate di Albuzzano, Monsignor Cesare Angelini, nota apparsa in una versione preliminare su Ticino Notizie, un contatto epistolare con un pronipote del grande critico e scrittore, il Dr. Fabio Maggi,  mi  ha dato l’opportunità di “impreziosirla” tramite l’invio di prezioso materiale e in particolare, di una copia de  L’Elegia del Ponte Rotto, scritta, nel 1949, con bella e nitida calligrafia.  L’Elegia fa riferimento al bombardamenti delle forze alleate che  nel settembre 1944, durante la  seconda guerra mondiale, danneggiarono l’antico ponte trecentesco e ne fecero crollare un’arcata e nasce in quel clima particolare che si respirava in Pavia in quanto al termine della guerra  si svolse un aspro dibattito sull’opportunità di ripristinare il vecchio ponte o di demolirlo. Per timore di crolli che avrebbero potuto far straripare il Ticino, nel febbraio 1948, il  Ministero de Lavori Pubblici fece demolire con la dinamite l’antico manufatto. Alcuni resti dei piloni del vecchio ponte sono visibili nelle acque del fiume ed è rimasta anche la base del portale. Nel 1949 si iniziò la costruzione del nuovo ponte, che fu inaugurato nel 1951 . Sul portale d’ingresso dalla parte della città un’epigrafe cita: “Sull’antico varco del ceruleo Ticino, ad immagine del vetusto Ponte Coperto, demolito dalla furia della guerra, la Repubblica Italiana riedificò.

 

 

Dell’Elegia se ne riporta  qui solo una prima perché merita, come spero di fare nel tempo,  di essere trattata  nella sua interezza con  un ampio commento, direi, quasi, con un saggio esegetico!

 “ E’ lì, da due anni, costernato nella sua sofferenza drammatica, nel silenzio improvviso delle sue arcate; ma con uno strano pudore d’esser guardato, come ogni bellezza devastata. I suoi diritti sono quelli dei mutilati, dei grandi mutilati di guerra, che vanno assistiti, guariti, rifatti. Se no,  è una ingiustizia in terra e in cielo. Ma ha pazienza ; nella sua maestosa stanchezza di rudere, dà tempo al tempo. Sa che un ponte non si rifà in un giorno  e in una notte, a meno d’affidarne la costruzione al diavolo come i vecchi favoleggiavano di lui, ma lui non vuole. Era, nei secoli, il motivo  lirico della nostra città; il suo volto, la sua distinzione; il simbolo nella geografia e nell’arte. Era la firma di Pavia. Un ponte coperto su un bel fiume, non è cosa di tutti i giorni né di ogni città. C’è  il ponte di Bassano, il vecchio ponte di Firenze, ma il nostro che era il terzo e basta ( “ i ponte dei sospiri” è un’arcata tenuta su dagli innamorati”) li batteva tutt’e due per imponenza e figura. E quelle cento colonne di granito che ne sorreggevano il tetto, se nelle notti di luna gli davan lievità di sogno  di visibile favola, di giorno creavano una balaustra di freschezza per i poveri che vi sostavan volentieri. Era l’edificio più ammirato dallo straniero, quando lo straniero si chiamava Petrarca che invitava un certo Boccaccio a vederlo come opera insigne; o si chiamava Leonardo che provava malinconia di non essere arrivato in tempo a metterci una mano anche lui; o si chiamava Montaigne che, ritornato in Francia, lo lodava tra i suoi. Era l’edificio più ammirato dai concittadini, quando i concittadini si chiamavano Cherubino Cornienti, Pasquale Massacra, Faruffini, Tranquillo Cremona, Ezechiele Acerbi, Erminio Rossi, Romeo Borgognoni: che Dio li ha tutti nella sua pace.”

All’inizio dell’Elegia  ci viene presentato  un Ponte sofferente, stanco in quella “maestosa stanchezza di rudere”,  ma paziente in attesa di essere guarito..sa che ci vuole tempo …a meno che..” ma lui non vuole” con riferimento al diavolo e  alla favola della sua primitiva costruzione (da Wikipedia:” Secondo una leggenda, la notte di Natale dell’anno 999 molti pellegrini volevano recarsi alla messa di mezzanotte in città, ma, per la fitta nebbia, le barche non potevano effettuare il tragitto. All’improvviso arrivò un uomo vestito di rosso, che promise di costruire immediatamente un ponte in cambio dell’anima del primo passante. L’uomo era il diavolo e solo l’arcangelo Michele accorso dalla chiesa poco distante lo riconobbe; finse d’accettare il patto e, quando il ponte fu costruito, fece passare per primo un caprone. In realtà, il nuovo ponte fu costruito a partire dal 1351 sui ruderi del ponte romano, su progetto di Giovanni da Ferrera e di Jacopo di Cozzo”).

Poi  dalla penna, dal cuore di Angelini,   ecco uno slancio accorato,  un amore  forte immediato, per questa “creatura” mutilata  che “Era, nei secoli, il motivo  lirico della nostra città; il suo volto, la sua distinzione; il simbolo nella geografia e nell’arte. Era la firma di Pavia.”

Sì solo amore, certezza, nessun dubbio, nessun sciocco campanilismo in quel affermare con decisione la sua supremazia nei confronti degli altri due ponti coperti “su un bel fiume” italiani:” . “ C’è  il ponte di Bassano, il vecchio ponte di Firenze, ma il nostro che era il terzo e basta ( “ i ponte dei sospiri” è un’arcata tenuta su dagli innamorati”) li batteva tutt’e due per imponenza e figura”

E poi quel lirismo: “ se nelle notti di luna..”. Balaustra di freschezza per i poveri, bello questo riferimento, ai poveri poco importa la bellezza architettonica ma la sua funzionalità ..punto di ristoro, bellezza, imponenza architettonica che invece richiamano l’attenzione e lo stupore dei visitatori “stranieri” e che stranieri: Petrarca, Leonardo, Montaigne! Cosi nelle loro invocazioni qui parzialmente espresse e  a quegli inviti agli amici di venire in quel di Pavia per ammirarlo par di sentire  la trasmissione e la condivisione della  gioia  di chi ha trovato un tesoro ma che non lo tiene gelosamente per sé.. sì anche voi amici ne dovete godere quindi venite a vedere!

“Era l’edificio più ammirato dai concittadini, quando i concittadini…”, qui Angelini sembra sospirare in quel nostalgico ricordo di quei concittadini, quei bei nomi di valenti pittori , tutti orbitanti in tempi diversi attorno della Civica Scuola di Disegno e di Incisione in seguito divenuta Civica Scuola di Pittura,  alcuni morti giovanissimi: Massacra patriota in combattimento, Cremona, l’iniziatore della scapigliatura in pittura,  avvelenato da coloranti tossici, e sembra dire “i tempi sono purtroppo cambiati” e diventa nel ricordo un “laudator temporis acti”. 

 

Cesare Angelini e Il Ticino: Elegia del Ponte Rotto. Parte seconda.
 

 “Congiungeva le due rive -come dire la città e la campagna- con un senso vivo di umana solidarietà. E i boschi vicini, rimbiondendo in primavera, gli mandavano vento di giovinezza. Giunta qui, l’acqua del fiume-nato in alto e lontano- rimormorava attonita: “Nel mio percorso non ho visto cosa più bella”; e si metteva a giocare fanciullescamente coi piloni, coi sette archi, che parevano un invito alla danza. Poi più a valle, si cancellava nel Po, ma consolata d’aver visto tale maraviglia. Da piazza Leonardo, da via luigi Porta lo guardavano le torri coetanee con compiacenza di sorelle superstiti; e il tiburio di San Michele e di San Teodoro ogni giorno allungavano il collo per meglio vedere e assicurarsi che era sempre lì.

Ed era sempre lì; un po’ vecchio, un po’ stanco, con quelle sue forme a dorso di mulo. Ma il mulo è sempre più tenace che stanco. E quella schiena curva che portava la dolcezza d’una chiesa fatta a barca, vinceva il peso e il passo dei secoli. In pace temevano che i suoi nemici fossero le piene che d’autunno aggredivano i piloni e invadevano gli archi ponendo quasi storcerli e ruinarli. Ma poi era niente.

Le onde sfogavano le forze radunate a Sesto Calende e qui,rompendosi contro il tagliamare, scoppiavano in una fragorosa orchestra di tuoni sommersi. Ma in guerra i suoi nemici furono i mostri precipitanti da cieli apocalittici; e ne hanno slogato le vertebre, sciancate le arcate, mutilato il canto.”

“Congiungeva le due rive -come dire la città e la campagna”, ecco la sua  funzionalità   sociale e di comunicazione, quindi  non solo balaustra di freschezza per i poveri in estate, non solo monumento simbolo da ammirare e ammirato, ma quell’unire  le due rive  quel andirivieni di persone, di  merci, di  mezzi di trasporto di vario genere. un tempo impedito o difficoltoso , ora diventa  possibile grazie a lui che agisce  “ un  senso vivo di umana solidarietà” tra due mondi diversi, fin qui separati, l’opulenza della città e la povertà della campagna. E  nel commento giunge in soccorso, grazie a quanto inviato da  un suo pronipote, il Dr. Fabio Maggi, Angelini stesso che  nel capitolo “Pavia sotto la neve” così scrive “Dal Ponte vecchio arrivano lenti i carretti insaccati in tendoni carichi di neve; scendono dai paesi di collina dove ne è caduta di più, e ne sono una memoria poetica. Ma fate che un gregge di pecore, sceso da Zavatarello, da Varzi, passi lento sul Ponte coperto; Pavia prende l’aria d’essere ancora nella favola, o appena uscita da una stampa del nostro Giovita Garavaglia o del suo maestro Fausto Anderloni, incisori d’alta statura, che nel grande Ottocento, come i poeti, sapevano ancora commuoversi davanti a queste scene cosmiche, a queste nevi cristiane, vantamento e ricchezza dei nostri siti settentrionali.” Poi ti par di sentire anche tu e di essere sfiorato come il ponte da quel vento di giovinezza che arriva dai boschi in quanto son queste  due righe di pura poesia! Acqua che nel suo lungo percorso, circa 200 km, prima di giungere a Pavia, il Ticino nasce nella lontana Svizzera, dalle due sorgenti dei passi di Novena e del Gottardo, ne bagnate di meraviglie con  il figlio suo il lago Maggiore ( Intra, Pallanza, le isole Borromee e altro )  ha da lontano visto  monumenti, torri, castelli, piazze,  abbazie delle lontane Stalvedro e Bellinzona o delle vicine Vigevano e Morimondo. ma…  “Nel mio percorso non ho visto cosa più bella”  acqua che poi  gioca “fanciullescamente coi piloni, coi sette archi, che parevano un invito alla danza” non è anche questa poesia? Acqua che infine muore, muore nel Po ma dolcemente e serenamente  dopo aver visto tanta “maraviglia” ! Bello quel animarsi, prender vita delle torri, delle chiese di Pavia che, come piene di timore, vogliono  tranquillizzarsi  e assicurarsi che sia sempre lì.

 E l’Elegia diventa elegia: stupenda la similitudine con il mulo: po’ vecchio, un po’ stanco”. ma “sempre più tenace che stanco”, “quella schiena curva che portava la dolcezza d’una chiesa fatta a barca, vinceva il peso e il passo dei secoli.” Sì le sue battaglie vinte vittoriosamente nei secoli e in tempo di pace durante le piene d’autunno che ” aggredivano i piloni e invadevano gli archi ponendo quasi storcerli e ruinarli. Ma poi era niente. Le onde sfogavano le forze radunate a Sesto Calende e qui, rompendosi contro il tagliamare, scoppiavano in una fragorosa orchestra di tuoni sommersi.” Vittorioso nei secoli e  in tempo di pace poi, in un sol giorno e in soli  pochi minuti, in guerra, “ i suoi nemici… i mostri precipitanti da cieli apocalittici.. ne hanno slogato le vertebre, sciancate le arcate, mutilato il canto.”

Tutta la sofferenza di questo passo dell’Elegia è raccolta in questo  “mutilato canto.”


 

Cesare Angelini e Il Ticino: Elegia del Ponte Rotto. Parte finale
 

 “Ora dice la gente:-Bisogna abbattere i ruderi e farne uno nuovo e diverso, che serva agli interessi più di prima- Come se le opere d’arte nascessero per servire gli interessi,o, meglio non servissero all’interesse più vero che è quello dell’anima ossia della bellezza. Dice ancora la gente:-Bisogna costruire non guardando al passato che non torna, ma all’avvenire che incalza- Eppure ha scritto un grand’uomo che solo chi salva il passato e i suoi acquisti, può dirsi intenditore del presente e costruttore dell’avvenire. Signori del Comune,un giorno le ragioni della bellezza si affidavano ai poeti come a difensori naturali. Ora, se mi guardo intorno , non vedo più poeti tra noi, o sono tutti nascosti. Quelle ragioni son quindi affidate a voi e al vostro sentimento. Salvare il ponte, pur nei suoi ruderi, è un modo di rimanere pavesi e di sentire la religione della città perché quel ponte è solo di Pavia; un altro d’ogni altro luogo. Salvate quel ponte come il più grande monumento alla nostra sofferenza , come la lapide più attonita e viva che si possa incidere sull’acqua e sull’aria a memoria della nostra tragedia. Un giorno gli occhi dei poveri a guardarlo, si consolavano come di una cosa bella che anch’essi potevano godere.E in repubblica democratica sarà lecito vergognarsi di ponti ornamentali? Salvate quel ponte. Restituite quel sogno alle nuove generazioni. E’ un invito alla musica, alla bellezza che è parola uscita dalla bocca di Dio. Questa, la vedete. non è poesia.

Non è nemmeno polemica. Forse è un grido di dolore. Certo è un grido d’amore: amore di Pavia.

Cesare Angelini

Diversi sono i pareri della gente: “Bisogna abbattere i ruderi e farne uno nuovo e diverso, che serva agli interessi più di prima”, ”Bisogna costruire non guardando al passato che non torna, ma all’avvenire che incalza”, cancellare il passato, non guardarsi indietro, servire gli interessi più di prima, guardare all’avvenire: questo dice la gente. Qui nascono all’animo, al cuore di Angelini amarezza e delusione, perché “l’interesse più vero che è quello dell’anima ossia della bellezza” e segue poi un severo monito:” solo chi salva il passato e i suoi acquisti, può dirsi intenditore del presente e costruttore dell’avvenire.” Queste parole derivano da un passo delle “Considerazioni inattuali” di Friedrich Nietzsche contenuta ne “L’utilità e il danno della storia per la vita” e così tradotto da Benedetto Croce, “quel grand’uomo” e suo carissimo o amico “La parola del passato è sempre simile a una sentenza d’oracolo; e voi non la intenderete se non in quanto sarete gli intenditori del presente, i costruttori dell’avvenire”. Merita di ricordare al riguardo che, nel 1946, nel secondo dopoguerra il poliedrico intellettuale Giovanni Pugliese Carratelli fonda La Parola del Passato con Gaetano Macchiaroli, editore rigoroso, impegnato nel sociale e nella politica, rivista ottiene rapidamente un posto di primo piano nel mondo culturale italiano. Il significato e il profilo della rivista sono racchiusi e chiariti in tale frase, che troviamo in epigrafe nella terza di copertina di tutti i fascicoli; è un indirizzo di ricerca: lo studio delle Humanae Littarae non si deve limitare alla mera erudizione, ma alla promozione dell’istruzione morale ed estetica, perché non sia fuga dal presente, ma dia il suo contributo al dibattito contemporaneo; esso può modificare il presente e ha l’obbligo le basi del futuro. Il significato e il profilo della rivista sono racchiusi e chiariti in tale frase, che troviamo in epigrafe nella terza di copertina di tutti i fascicoli; è un indirizzo di ricerca: lo studio delle Humanae Littarae non si deve limitare alla mera erudizione, ma alla promozione dell’istruzione morale ed estetica, perché non sia fuga dal presente, ma dia il suo contributo al dibattito contemporaneo; esso può modificare il presente e ha l’obbligo le basi del futuro. Ritornando alla Elegia Angelini così amaramente si sfoga “… un giorno le ragioni della bellezza si affidavano ai poeti come a difensori naturali. Ora, se mi guardo intorno , non vedo più poeti tra noi, o sono tutti nascosti”. Ma come diremo un poeta vi è ancora e neanche tanto nascosto: è Cesare Angelini! Ed ecco nascere il suo accorato grido agli Amministratori di Pavia:” Salvare il ponte, pur nei suoi ruderi, è un modo di rimanere pavesi e di sentire la religione della città perché quel ponte è solo di Pavia; un altro d’ogni altro luogo”, ma è pure un grido, sì di dolore, per questo ponte dolente:”quel ponte come il più grande monumento alla nostra sofferenza”, un grido infine addolcito da quel nostalgico ricordo:”un giorno gli occhi dei poveri a guardarlo, si consolavano come di una cosa bella che anch’essi potevano godere. E in repubblica democratica sarà lecito vergognarsi di ponti ornamentali?”

Se nel grido che richiama alla bellezza, al grido sofferente, al nostalgico grido volto al passato e, infine, se nella invocazione:”Restituite quel sogno alle nuove generazioni” si può far riferimento al Foscolo dell’inno alla bellezza, dell’Ortis, dei Sepolcri, della pavese esortazione “ Italiani vi esorto alle storie” Nel “ E’ un invito alla musica, alla bellezza che è parola uscita dalla bocca di Dio.” vi è tutto il Poeta Cesare Angelini!

 Un sentito grazie al Dr. Fabio Maggi pronipote di Cesare Angelini per le varie documentazioni inviatemi

Da Ticino Notizie


Il Ticino di Lucio Mastronardi (1° parte)

Nel Maestro di Vigevano innumerevoli le citazioni del fiume azzurro

Lucio Mastronardi merita un posto a parte nella nostra  ricerca volta a trovare le citazioni del fiume Ticino  nella letteratura italiana: nasce a Vigevano, quindi è un figlio del Ticino, il Ticino infine segnerà la sua vita terrena quale suicida nelle acque del fiume azzurro. Nei suoi tre principali romanzi Il Maestro, Il Calzolaio, Il Meridionale, nei titoli domina Vigevano, nelle pagine forte emerge il suo fiume.

Bello e gustoso il paragone tra Vigevano e Parigi come, nel Maestro di Vigevano,  il giornalista Pallavicino “la stava menando” mentre il campanone  della torre suonava la mezzanotte:” Io vi dico che Vigevano vale duecento Parigi.

Cosa c’è a Parigi che non vi sia a Vigevano? A Parigi c’è Pias Pigal; a Vigevano ioma Pias Ducal; a Parigi c’è la Senna; a Vigevano  c’è il Tisin; a Parigi c’è  la tur Eifel, num ioma la tur Bramant.” E così sempre nel Maestro il protagonista, il maestro Mombelli, nel suo solitario camminare e “nei miei pensieri” “Scendo per una discesa rapidissima e mi trovo nella vallata del Ticino”  ed ecco la Centrale Edison che ritroveremo nuovamente nelle pagine del Calzolaio “  .” ..Annibale sconfisse i Romani dove ora c’è la Centrale Edison, sul Ticino, che pur essendo vicina a Milano, Vigevano, geograficamente parlando,  è in Piemonte, al di qua del Ticino”. 

Nel Maestro dopo la vista della Centrale Edison il protagonista prosegue nel suo cammino.  “Sono seduto ora su di un ponticello. E’ un ponticello d’irrigazione che posa su due fiancate; messo per traverso. Sotto ci passa la trincea  ferroviaria. Sono in alto; il mio sguardo abbraccia tutta la vallata del Ticino: fiume, boschi, ponte.” Più avanti nel racconto del Maestro “ Sono tornato sul ponticello…Dal Ticino venne un rombo di barche che rompeva quel’armonia. Infine nel Meridionale di Vigevano ecco nuovamente la vallata:” Ci affacciammo sulla terrazza. Si vedeva un pezzo della vallata del Ticino qualche arcata del ponte; le boscaglie; un tratto della Nuova Circonvallazione”.

 

Il Ticino e Lucio Mastronardi (parte seconda)
 

Ancora qualche riferimento al fiume Ticino, dopo i primi,  presente nei tre più noti romanzi di Lucio Mastronardi: Il Ticino dove lo scrittore  vive, sogna, spera, soffre, muore suicida; Il Ticino dove Antonio il maestro, Mario il calzolaio, Camillo il meridionale, vivono, sperano, sognano, soffrono ma ancor oggi  vivono figure nitide e presenti nelle pagine di Mastronardi.

Ecco Mario che ritorna ai suoi anni giovanili e ricorda:” Andiamo a Ticino in camporella nei boschi.Tornare giovani. Gli venne in mente una scappata che aveva fatto da ragazzo., l’unica, con una morosetta, proprio nelle boscaglie del Ticino.” Quel dialogo pieno di speranze e incertezze tra Netto il fratello di Menchina, e  Luisa, la moglie di Mario, dopo il richiamo di questi alle armi ed i dissapori ed i continui  screzi con il socio Pellegatta:” Piare un po’  di terra in Santa Giuliana, sul stradone per Novara- diceva il Netto” – Costruire adesso coi bombardamenti, che sfanno giù tuttecose!”  “-Ma sono tanti che costruiscono. Basta costruire nò verso Ticino. Loro hanno di mira il ponte, mica i nostri fabbrichini.”


La favola, il sogno, l’incubo sui tradimenti di Ada la moglie  di Antonio:” Fisso la casa e mi accorgo che è una casotta del Ticino…” “ …..l’industrialotto guida sempre più forte: centottanta, duecento, duecentoventi, finché arriviamo sul ponte del Ticino, ma il ponte è senza parapetto. La macchina corre sull’orlo del ponte, in bilico, finché con un urlo mi sveglio, bagnato, come fossi caduto davvero nel fiume.” E le belle e intense riflessioni dello stesso Antonio:” Ogni epoca ha i suoi sensi di vita. L’uomo ha costruito questa trincea, questa ferrovia, questo ponte di irrigazione, quel ponte sul Ticino, quella torre che intravedo…” “  So che prima era ancora chiaro, ora è buio. La luna è grandissima, si riflette nell’acqua del Ticino; so che prima gli alberi erano silenziosi, ora la natura canta; e sono grilli e sono civette e sono amorici che cantano.”

Quella affannosa ricerca della donna scomparsa dalla casa in cui era ospite Camillo:” Poco dopo scendevamo la vallata del Ticino.Una luna forte schiariva la campagna. Arrivammo al fiume in silenzio.” “..Il fiume era una massa scura e lucida.” E poi quel girovagare notturno sempre di Camillo:” Arrivai ad un bivio. Da una parte lo stradale proseguiva per il ponte del Ticino; dall’altra, cominciava una strada di periferia.” “ Sullo sfondo c’è nebbia: sale dalla vallata del Ticino” Quel dialogo tutto particolare tra l’industrialotto e Camillo” –Dottore è libero incò? –Perché?- Per portavi a Ticino.Voglio farvi provare un motoscafo!”

Da Ticino Notizie

 

Ada Negri e Antonia Pozzi: Poetesse del Ticino

 Ada Negri (Lodi  1870- Milano 1945) e Antonia Pozzi (Milano  1912-Milano 1938) le  Poetesse del fiume Ticino: ne videro entrambe le azzurre acque, ne respirarono l’aria, ne odorarono i profumi del boschi e dei sottoboschi, trassero godimenti del canto degli uccelli e di quelle vite che ne popolavano le rive. Antonia, figlia dell’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e della  contessa Lina, a sua volta figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana  e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo,  volgendo lo sguardo da questo luogo giù verso il fiume, Ada, sia agli esordi della sua attività di insegnante elementare, dall’alto della costa che attraverso una ripida discesa ne portava alla sue rive sia durante periodi  di soggiorno in quel di Pavia. Cosi ricorda nei suoi scritti Monsignor Cesare Angelini, a partire dal primo incontro nel 1927,:” Sul filo dell’amicizia con una gentildonna pavese — Luisa Boerchio — un giorno Ada Negri venne tra noi a Pavia col suo dono poetico. E da non so quanti anni, al giungere dell’autunno, quando sulla nostra terra i giorni si fanno più nudi e l’umido e le nebbie fanno cercare un angolo accogliente, ella lasciava Milano e tornava nel tiepido nido che l’amicizia le preparava. Vi si fermava due mesi, tre mesi, cinque mesi. Magari s’annunciava a qualcuno: «La settimana prossima lascerò il mio solaio di Viale dei Mille e Bianca e Donata [la figlia e la nipote, ndr], e verrò a Pavia. Vivere nella vostra città è un premio che mi voglio concedere anche quest’anno. Pavia mi chiama. Le strade, le torri, il ponte...». Pavia le piaceva e la sua natura rustica e preziosa, il suo silenzio così idoneo alla meditazione dei poeti. Vi trovava tranquillità, raccoglimento, riposo dell’anima e del corpo, e ispirazione.

Anime belle e buone dalla vita sentimentale travagliata:  Antonia morirà suicida in giovane età per l’amore contrastato studentessa  nel liceo classico Manzoni di Milano  intreccia con il suo professore di latino e greco Antonio Maria Cervi, una relazione che verrà interrotta nel 1933  a causa di forti ingerenze da parte dei suoi genitori, il padre in particolare, e da qui poi più tardi  seguirà quel fatale gesto; Ada, segnata da quell’intenso e forte amore giovanile con Ettore Patrizi,  un amore pieno, intenso, appassionato, una lunga corrispondenza epistolare, che dopo la partenza del Patrizi per l’America, nel 1893  terminerà nel 1896 con l’ultima lettera e  che sancirà la fine di questo rapporto d’amore, sarà infine  “vittima” di uno sbrigativo e presto fallimentare matrimonio con Giovanni Garlanda,industriale tessile di Biella, dal quale ebbe la figlia Bianca, ispiratrice di molte poesie, e un'altra bambina, Vittoria, che morì a un mese di vita.

Rimandando il lettore esigente alla loro estesa biografia e alle loro  complete fatiche letterario ci limiteremo nel riportare in questa breve pagina “frammenti” della loro prosa o versi dal dolce e sapore romantico per questo “loro” fiume qui riportiamo solo brevi notizie.

Antonia Pozzi compie studi classici presso il Liceo Manzoni, ha una cospicua preparazione musicale, segue lezioni private di disegno e scultura; a partire dalla fine degli anni Venti si dedica alla fotografia e a molti sport: scia, nuota, cavalca, pratica tennis e alpinismo; la circonda una colta cerchia di amici fra i quali Paolo e Piero Treves.
Al 1929 risalgono le prime prove poetiche. Sono anche gli anni in cui stringe significative amicizie, come Elvira Gandini e Lucia Bozzi, le sue migliori amiche. Nel 1930 si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo milanese. L’università sembra assorbire le sue energie più significative e incanalarle entro un alveo di rinnovate, benché problematiche, sicurezze: esperienze decisive sono per lei la frequentazione dei corsi di Antonio Banfi e la vicinanza dei suoi allievi più importanti (Enzo Paci, Remo Cantoni, Alberto Mondadori, Alba Binda; altri compagni e conoscenti sono Luciano Anceschi, Mario Monicelli, Giulio De Padova, Maria Corti, Daria Menicanti); in questi anni le sono inoltre molto vicini Vittorio Sereni e a partire dal 1935, Dino Formaggio, anch’essi legati a Banfi. Come già ricordato si tolse la vita mediante ingestione di un flacone di barbiturici in una sera di dicembre del 1938, nel prato antistante all'abbazia di Chiaravalle: nel suo biglietto di addio ai genitori parlò di «disperazione mortale»; la famiglia negò la circostanza «scandalosa» del suicidio, attribuendo la morte a polmonite. Il testamento della Pozzi fu distrutto dal padre, che manipolò anche le sue poesie, scritte su quaderni e allora ancora tutte inedite.

Ada Negri una tra le più affascinanti poetesse della letteratura italiana rappresentò, nel vasto panorama letterario una donna che visse liberamente, componendo versi e rime straordinari. Sin dalla pubblicazione di “Fatalità”, nel 1892, prima raccolta di liriche, la maestrina di Motta Visconti ebbe un successo di pubblico straordinario per quei tempi. Si parlava con entusiasmo della “vergine rossa”, dei suoi temi che erano pienamente inseriti nel contesto storico-culturale di fine ottocento. Libertà, uguaglianza, giustizia sociale erano gli argomenti trattati dalla Negri che, coi suoi versi, risvegliava le coscienze invitandole alla ribellione verso i soprusi e le sofferenze delle masse. Poetessa oggi dimenticata, merita  di riportare  quanto scrive  Giacomo Properzj:” Due giorni dopo al suo funerale c'era pochissima gente: qualche autorità della Repubblica Sociale a cui lei aveva aderito, i parenti e pochi altri. Eppure si trattava di una Accademica d'Italia, la prima e l'unica donna che fece parte di questo altissimo consesso culturale. Tutti possono ancora vedere il suo volto serio e smunto in mezzo a Guglielmo Marconi e a Giovanni Gentile nelle fotografie dell'epoca.. La Poetessa, che era stata per tanti anni sugli altari della letteratura, cominciava ad essere dimenticata. La sua adesione al Fascismo, che ne aveva favorito il successo, ora diventava una colpa, i suoi libri non sarebbero più stati pubblicati, nelle scuole per molti anni non si sarebbe parlato di lei così come nel mondo della cultura secondo lo stile fazioso che ha sempre accompagnato la nostra storia: Ada  aveva avuto un rapido anzi rapidissimo successo perché a 25 anni era già la più nota poetessa italiana. Successo determinato dalle sue prese di posizione in politica, molto cariche di impegno sociale e di polemica contro lo stato borghese e, in generale, contro i ricchi. Da Motta mandò al Corriere della sera la poesia “Gelosia”, aveva già pubblicato qualcosa sul Fanfulla da Lodi; il direttore Barbiera del supplemento letterario Illustrazione Popolare la pubblica con un lusinghiero giudizio. Un anno dopo la scrittrice e letterata Sofia Bisi Albini viene a Motta per conoscerla e da quel momento partono una serie di giudizi positivi sulle maggiori riviste letterarie italiane. Nel '94 il giovane anarchico Sante Caserio di Motta Visconti uccide il presidente della repubblica francese Carnot. Si attiva immediatamente una polemica dei giornali clericali contro la Negri, accusandola di aver influenzato in senso sovversivo Motta Visconti e il giovane Caserio. Il Secolo e il Corriere della Sera la difendono, Caserio nato nel '73 non era mai stato suo allievo, ma tutta questa polemica non fa altro che aumentare la fama della giovine “Vergine Rossa”, che incomincia ad essere tradotta anche all'estero. Dopo la separazione dal Garlanda si trasferisce in volontario esilio a Zurigo al seguito della figlia Bianca. Alla fine della Prima Guerra Mondiale ritorna in Italia e riprende i contatti, che non aveva mai interrotto con le amiche“sovversive”: Anna Kuliscioff - che avrà su di lei una grande influenza, positiva nel senso letterale della parola, perché la dottoressa russa era notoriamente positivista. Riprende contatto anche con Margherita Sarfatti, molto autorevole nel mondo culturale milanese che gli presenterà, vedi un po', Benito Mussolini. Questi, all'uscita del libro Stella Mattutina che è l'autobiografia giovanile della Negri con tutti i suoi risvolti di frustazioni sociali, scrive una lunga recensione entusiastica sul Popolo d'Italia il 9 luglio del 1921. Poco prima o poco dopo - secondo la testimonianza da me raccolta dalla maestra Cecilia Monguzzi - Ada Negri viene a Motta. Ci ritornava spesso, accompagnando Mussolini: una riunione in una delle molte osterie del Paese con un piccolo gruppo che gli resterà fedele fino alla fine. Bene ha fatto l'Amministrazione di Motta Visconti ad organizzare per il 25 settembre una rievocazione della “Maestrina di Motta Visconti”, con letture di alcuni suoi testi e accompagnamento di romanze dell'epoca. Bene ha fatto questa Amministrazione, perché la quasi dimenticata poetessa, sovversiva, socialista rivoluzionaria, fascista, repubblichina, scapigliata, impressionista, forse lesbica certamente disperata è stata la più grande poetessa italiana del '900 alla faccia del politicamente corretto.”

Ed ecco frammenti di come le due Poetesse parlarono o cantarono del fiume Ticino:

Così annotava nel 1938 Antonia sul suo Diario poco prima della morte : “Ieri, sull’argine del Ticino, dove il fiume fa un’enorme ansa e la corrente si attorce in gorghi azzurrissimi, e ha subbugli, scrosci, rigurgiti improvvisi e minacciosi, sono rimasta per un’ora sulla riva in faccia al sole che tramontava, a chiacchierare con un guardiacaccia che fu al servizio del mio nonno e si ricorda della mia mamma e delle mie zie bambine. Ebbene: era un senso strano pensare che tutta questa smisurata terra, i campi coltivati da Motta a Bereguardo, e i boschi della riva, dal lido di Motta fin giù al ponte di barche, con i diritti di pesca, di caccia, di cava d’oro persino, erano proprietà unica dei miei antenati. Io non so che cosa pagherei per potermi costruire qui, in vista del Ticino, due stanze rustiche e venirci a stare; le mie radici aristocratiche non le sento molto, nemmeno qui, ma le mie radici terriere sì, in modo acuto e profondo, e gli uomini dietro l’aratro mi incantano, non solo per un senso di armonia estetica”

Anni prima ( Milano, 24 Aprile 1929) così metteva in versi:

“Ricordo che, quand’ero nella casa
della mia mamma, in mezzo alla pianura,
avevo una finestra che guardava
sui prati; in fondo, l’argine boscoso
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
c’era una striscia scura di colline.
Io allora non avevo visto il mare
che una sol volta, ma ne conservavo
un’aspra nostalgia da innamorata.
Verso sera fissavo l’orizzonte;
socchiudevo un po’ gli occhi; accarezzavo
i contorni e i colori tra le ciglia:
e la striscia dei colli si spianava,
tremula, azzurra: a me pareva il mare
e mi piaceva più del mare vero.”

 

Durante il suo soggiorno a Pavia così scriveva Ada in “Gente di Fiume”:

“ Le lavandaie di Borgo Basso hanno tutte ugual foggia  di vestire: sottana scura di rigatino, con la parte superiore rialzata e tenuta gonfia sui fianchi dal nastro del grembiale: alti zoccoli, fazzoletto bianco pendente dalle cocche ai lati del viso, e, sul fazzoletto, un largo cappello di paglia gialla. La faccia, le braccia, le mani, lavorate ben ben dal vento, dal sole dagli strapazzi: le voci, rauche: il colore della pelle un di mezzo fra il rame e la terracotta. Le loro figlie sembrano d’un’altra razza: snelle e graziose,  portano calze fini, scarpette scollate, tuniche corte senza maniche e lavorano nelle fabbriche. Abitano nelle rustiche ma ridenti casucce del borgo, sulla riva destra a specchio del Ticino: fette di case, dipinte a capriccio, con una porticina, una stanza a terreno, due di sopra, un balcone e una finestra. Nei cortili aperti sulla riva, rampe esterne di scale, pergolati di glicine e vite vergine, rozze insegne d’osteria con frasche: giochi di bocce, stracci stesi ad asciugare, cataste di legna raccolta a spizzico nei boschi, monelli che ricorrono gatti e galline, vecchi che sulle soglie si godono il sole. La riva è occupata da panchette, su alti e solidi trampoli: nei tre giorni regolamentari della settimana le lavandaie vi stanno inginocchiate, dorso e spalle curvi sull’acqua; e insaponano immergono torcono strizzano  panni, battendoli anche, a tutto spiano con una mazzuola. Nelle prime ore del mattino, i reiterati colpi s’odono da lontano, attraverso le nebbie che salgono dal fiume; e fanno malinconia.

E ancora durante uno dei suoi soggiorni a Pavia così mette in nota:

“Dalle mie scorribande per calli e callette,chiese e chiesette, piazze e chiassuoli non vorrei mai ritornare, non avvertendo neppur la stanchezza fisica, per il giubilo delle scoperte: se non fosse per ritrovare la postierla della casa ospitale, gli stanzoni di largo fiato, dove il riposo è veramente riposo del corpo e dell’anima.

Spesso, qui, mi viene incontro qualcosa di me,qualcuno ch’era me, e che credevo di aver dimenticato. Quei boschi del Ticino, che oltre e campi e gli orti scorgo dal balcone della mia camera al limite dell’orizzonte, chiamano di frequente il mio sguardo. Non riesco a vedere il fiume. Ma mi sorprendo a navigare lungo la limpida corrente, come nel tempo in cui ero, laggiù, maestrina in un villaggio di battellieri. A un punto perduto del fiume, un guado: una spiaggetta ghiaiosa, e foreste percorse dal brivido delle acque divise in rami di canaletti: le foreste di Motta Visconti. Nome che mi porta alle narici odor di pane caldo, appena tolto dal forno nelle prime ore dell’alba: odore di giovinezza.

Così poi canterà  in “Ritorno a Motta Visconti”:

“Ella dintorno si guardò, tremando,
e riconobbe la selvaggia e strana
terra che a fiume si dirompe e frana
entro l'acque, che fuggon mormorando.
Il guado antico riconobbe e il prato
e le foreste, azzurre in lontananza
sotto il pallor dei cieli:
e il passato di lotta e di speranza,
il suo ribelle e splendido passato
ricomparve, senz'ombra e senza veli.
Piegavano gli steli
intorno, ed ella respirava il vento:
vento di libertà, di giovinezza,
soffio di primavere
sepolte, belle come messaggere
di gloria, piene d'ali e di bufere
violente e d'immemore dolcezza!...

Ora, silenzio. - Un battere di remi,
solitario, nel fiume: un lontanare
di cantilene lungo l'acque chiare,
e nel suo petto il cozzo de' supremi
rimpianti. - Oh, prega, anima che t'infrangi
a l'onda dei ricordi travolgente
come tempesta a notte:
anima stanca in vene quasi spente,
così giovane ancora, oh, piangi, piangi
con tutte le tue lacrime dirotte
qui dove i sogni a frotte
ti sorrisero un giorno!... Ora è finita. -
... E strinse fra le mani il capo bruno:
a lei da la profonda
coscienza, com'onda chiama l'onda
nel plenilunio a fior de l'alta sponda,
salivano i ricordi ad uno ad uno.

E rivide la vergine ventenne
con la fronte segnata dal destino
sfioran diritta il ripido cammino,
baldo aquilotto da le ferme penne.
La nuda stanza fulgida di larve
rivide, e il letto da le insonnie piene
di cantici irrompenti;
ed il sangue gittato da le vene
robuste, il sangue di veder le parve,
ne la febbre de l'arte sugli ardenti
ritmi a fiotti, a torrenti
gittato. - E i versi andarono pel mondo,
da la potenza del dolor sospinti;
e parvero campane “

……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………

Fonti di riferimento

1)     Ada Negri-Wikipedia

2)     Antonia Pozzi-Wikipedia

3)     Giacomo Properzj, “ Perché non si deve dimenticare Ada Negri, la maestrina di Motta Visconti”- da Internet

4)     Cesare Angelini,

5)     Biografia | Antonia Pozzi

      Poesie | Antonia Pozzi

1.                          

Antonia Pozzi. Poesia che mi guardi | Doppiozero

1.                          

Antonia Pozzi: vita d`amore e di poesia - Rai Letteratura

Antonia Pozzi | enciclopedia delle donne

Antonia Pozzi un suicidio annunciato - la Repubblica.it

Antonia Pozzi, la poetessa che amiamo male | Tropismi


Il grande Ticino

Difficile dire quanti siano i riferimenti e  le citazioni negli  scritti letterari e nella corrispondenza epistolare con gli amici  di Cesare Angelini, sacerdote, poeta, critico, letterato, al fiume  Ticino. La presente è solo una nota esplorativa con le prime e immediate spigolature.

Parlando di Pavia scrisse:” A Pavia, la luce trova il suo condensatore o cassa di risonanza nella presenza del fiume. Privilegio delle città che nascono e crescono lungo le acque è quello di rispondere al richiamo della luce; e il Ticino, che è il primo ad accendersi e l’ultimo a spegnersi, si beve da millenni tutte le nostre aurore e i nostri tramonti. Un giorno, se mi prenderà l’estro, vorrò farci su qualche componimento poetico.” Non risulta che poi lo abbia fatto a differenza di quella  bella pagina dal sapore decisamente poetico scritta sull’Adda in uno dei tanti suoi  magistrali commenti ai Promessi Sposi dell’amato Manzoni. Sul Ticino allora sono i suoi  riferimenti asettici e “anonimi” ? Per nulla come vedremo anche se alcuno, non si sa perché,  è giunto a dire che Monsignor Angelini non amasse il Ticino. Dubbi in tal senso parrebbero sorgere ad una lettura frettolosa della lettera scritta  il 12 gennaio 1923 a Giuseppe Prezzolini:” Non ha voglia, Signor Prezzolini di spingersi sino a Pavia? Con alcune dolci lentezze provinciali, l’aspettano basiliche stupende con gallerie che salgono ad archetti  interzati come le rime di Dante verso Il Paradiso.

E ci sarebbe il caso, entrando da Porta Santa Giustina, di imbattersi in Petrarca, ospite dei Visconti e un poco invecchiato, caracolla s’un cavallo candido più che neve per consolarsi di Laura salita da un poco in Paradiso. E poi c’è il Ticino…tutto un compasso insomma.” Di fatto il Ticino è lasciato per ultimo come una appendice ma non è cosi: qui prevale lo spirito del critico letterario tenuto conto del dotto interlocutore. Ticino che sarà però reso vivido negli anni della tarda età in quella intervista impossibile:”La confidenza dei pavesi col fiume è raccontata dai cronisti di ogni tempo, cui s’aggiungono le testimonianze dei pittori. Insomma, una città di barcaioli e pescatori, mentre sull’altra riva del Ticino le lavandaie del Borgo, sbattendo alle-gramente camicie e lenzuola, aiutavano il folclore” .

 

Difficile dire quanti siano i riferimenti e  le citazioni negli  scritti letterari e nella corrispondenza epistolare con gli amici  di Cesare Angelini, sacerdote, poeta, critico, letterato, al fiume  Ticino. La presente è solo una nota esplorativa con le prime e immediate spigolature.

Parlando di Pavia scrisse:” A Pavia, la luce trova il suo condensatore o cassa di risonanza nella presenza del fiume. Privilegio delle città che nascono e crescono lungo le acque è quello di rispondere al richiamo della luce; e il Ticino, che è il primo ad accendersi e l’ultimo a spegnersi, si beve da millenni tutte le nostre aurore e i nostri tramonti. Un giorno, se mi prenderà l’estro, vorrò farci su qualche componimento poetico.” Non risulta che poi lo abbia fatto a differenza di quella  bella pagina dal sapore decisamente poetico scritta sull’Adda in uno dei tanti suoi  magistrali commenti ai Promessi Sposi dell’amato Manzoni. Sul Ticino allora sono i suoi  riferimenti asettici e “anonimi” ? Per nulla come vedremo anche se alcuno, non si sa perché,  è giunto a dire che Monsignor Angelini non amasse il Ticino. Dubbi in tal senso parrebbero sorgere ad una lettura frettolosa della lettera scritta  il 12 gennaio 1923 a Giuseppe Prezzolini:” Non ha voglia, Signor Prezzolini di spingersi sino a Pavia? Con alcune dolci lentezze provinciali, l’aspettano basiliche stupende con gallerie che salgono ad archetti  interzati come le rime di Dante verso Il Paradiso.

E ci sarebbe il caso, entrando da Porta Santa Giustina, di imbattersi in Petrarca, ospite dei Visconti e un poco invecchiato, caracolla s’un cavallo candido più che neve per consolarsi di Laura salita da un poco in Paradiso. E poi c’è il Ticino…tutto un compasso insomma.” Di fatto il Ticino è lasciato per ultimo come una appendice ma non è cosi: qui prevale lo spirito del critico letterario tenuto conto del dotto interlocutore. Ticino che sarà però reso vivido negli anni della tarda età in quella intervista impossibile:”La confidenza dei pavesi col fiume è raccontata dai cronisti di ogni tempo, cui s’aggiungono le testimonianze dei pittori. Insomma, una città di barcaioli e pescatori, mentre sull’altra riva del Ticino le lavandaie del Borgo, sbattendo alle-gramente camicie e lenzuola, aiutavano il folclore” .

Ha voluto essere sepolto a Torre d’Isola paese a lui caro per i tanti ricordi ed affetti familiari  e di cui scrisse a suo tempo come nacque (Dal giornale cattolico “Il Ticino” del 26 luglio 1969): “ La prima notizia di Torre d’Isola, che ce ne racconta la nascita e spiega il nome «fluviale», risale al Mille o giù di lì; quando la Lombardia era sotto il dominio di Re Ottone e della Regina Adelaide, che risiedevano in Pavia. Pare una favola tant’è bella. Dice che ogni notte, partendo dal ponte, solcava le acque del Ticino una barchetta guidata da un lume e, dopo alcuni chilometri, approdava a una piccola isola poco lontana dalla sponda. Vi calava una donna che si raccoglieva nel bosco, rimanendovi fin verso il mattino quando tutto spariva, il lume e la barca.”Ora, vuoi per caso o per amorevole destino,  poiché  Torre d’Isola si trova nel Pavese occidentale e si estende lungo la riva del  Ticino piace immaginare che il fiume poco distante dal luogo dove riposa Don Cesare,  con il suo continuo lento scorrer mormorio, voglia cullare il suo eterno sonno. Nel narrare dei giorni del Foscolo a Pavia il Ticino è nominato di fretta quasi distrattamente:” E al Ticino, al non ancora «varcato» Ticino, giunse da Milano, in legno, la sera del 1° dicembre, ch’era un giovedì…” E poi riferendosi sempre al Foscolo:” Intanto Pavia riempie le sue lettere, anche se guardata con un senso di disagio.

All’Arrivabene, il 21 ottobre dà notizia d’una rapida corsa che vi ha fatto: «Sono andato a Pavia ad apparecchiarmi la prigione e ad onorarla». Al Pindemonte: «Io andrò a Pavia all’apertura dell’anno scolastico, non prima». Al Brunetti: «Non penso a Pavia senza vedere nell’Università mille accusatori giusti contro di me, senza udire mille maligni esagerati. Ma, caschi il cielo ad opprimermi, non verrà dicembre senza ch’io non mi trovi a Pavia». Al Monti: «Io vo dì e notte pensando come provvedere alla mia traslocazione in Pavia». Al Giovio: «Al conte Giulio scriverò quel giorno ch’io moverò verso il Ticino». E qui è invece il Foscolo a nominare con un certo senso di disagio il Ticino. Con nostalgia e pare anche con un certo senso di rimpianto per i tempi passati riappare il nome del Ticino assieme a caratteristici personaggi nel Diario del Novecento a cura di Luciano Simonelli:” Ma i rimpianti di Cesare Angelini scompaiono al ricordo di alcuni personaggi caratteristici della Pavia di un tempo e sta parlando di loro quando arriviamo in piazza Borromeo:” C’era il professor Balanzone. D’estate portava il cappotto come d’inverno e andava sempre in giro a raccogliere giornali…poi il professor Peo che sul ponte del Ticino vendeva i “brassadè”, dei dolci…”
 

In “Conoscere la provincia”-Panorama del Pavese il suo scrivere  è un inno d’amore per Pavia  e indirettamente per il suo fiume:” Poniamo, questa mia provincia, che sulla carta geografica della Lombardia presenta la forma stravagante d’un triangolo con la base in su e il pizzo in giù; con una capitale che non invecchia perché antica (antica capitale di regni) e un contado così prosperoso di vita e di opere tutte al vento e al sole, che ogni giorno qualcuno rinnova il gusto d’esserci nato contadino. Ma smorziamo ogni tentazione di lirismo, e parliamo  con calma di questa provincia che, fatta di sindaci e parroci e d’un mezzo milione di anime, è naturalmente quella di Pavia.  calma di questa provincia che, fatta di sindaci e parroci e d’un mezzo milione di anime, è naturalmente quella di Pavia La quale, come la Gallia di Cesare, divisa est in partes tres. Quarum unam…, anzi due — il Pavese propriamente detto e la Lomellina — sono le parti soprane del triangolo; la terza o parte sottana, è l’Oltrepò. Maravigliosa provincia che, al nord, scappa verso i fiumi — il Ticino e il Po — con la sua pianura di praterie, di boschi, di marcite, di risaie e rogge e nebbie basse; e, al sud, sale coi festanti filari dei suoi vigneti verso i dorsi dell’Appennino.. Al capoluogo, Pavia, basti aver accennato. Descriverlo, il discorso sarebbe trattenuto nella soggezione delle Guide vecchie e nuove, a cui ben poco c’è da aggiungere, o nulla; fuorché l’ammirazione per la città regale che intreccia il superbo capriccio delle sue torri medievali alla sapienza delle basiliche e alla maestà bonaria del suo fiume nel momento più bello. E par sempre una memoria poetica la notizia che il paese di Bereguardo sul Ticino ospitò nel suo castello un pittorone come Filippo Brunelleschi, chiamatovi da Firenze per certi restauri.”

Anche nella “Lombardia di Carlo Cattaneo” dove “… assistiamo alla nascita di questa nostra terra che, collocandosi tra il Piemonte e la Venezia sorte per opera d’altre eruzioni, entra, sotto il sublime arco delle Alpi, nel panorama settentrionale, «quasi adempiendo un disegno unitario della natura». Così, tra il Verbano e il Ticino da una parte, il Benaco e il Mincio dall’altra, corsa da giovani fiumi e dal poderoso Po che la lega all’Adriatico, sparsa di laghi che ne specchiano la bellezza, ricca di mirabili attitudini d’aria e di cielo, la Lombardia, che ancora non si chiamava così, preparava il destino agricolo del popolo che doveva abitarla. «Poiché in ogni parte del globo giacciono predisposti gli elementi di qualche grande compagine che attende solo il soffio dell’intelligenza nazionale” il Ticino “ giovane fiume”  da il suo contributo gioioso alla nascita di “questa nostra terra”!

Chiudiamo questa nota riportando quando scrive nel suo “Andar per chiese” :” Visita San Lanfranco. È la basìlica più visitata dai forestieri, anche per il posto poetico dove sorge: sul Ticino, fra campi e alberi e balli campestri…..La facciata, come la massiccia torre quadrata che le sorge a fianco, è del secolo XIII

e, divisa in tre campate verticali, è sparsa di tazze o scodelle iridate che riflettono il

sole quando tramonta nei boschi del fiume. Ma tutta la facciata ha indelebilmente

sopra di sé i colori bruciati dei tramonti” Non si respira forse  in queste poche righe aria di poesia?
 

Da Ticino Notizie

 

Le marcite
 

Negli anni cinquanta percorrendo in bicicletta la ex-Strada Provinciale dell’est-Ticino da Bereguardo fino ad Abbiategrasso si notavano , anche in pieno inverno, qua e là verdi prati verdi lussureggianti: le marcite!

Come noto e come ben recita Wikipedia alla voce marcita:La marcita è una tecnica colturale caratteristica della pianura padana impiantata per la prima volta nelle grange che erano grandi aziende agricole di proprietà delle abbazie; essa consiste nell’utilizzo dell’irrigazione a gravità effettuata utilizzando l’acqua proveniente dalle risorgive anche nella stagione invernale. Nella stagione estiva i prati vengono irrigati periodicamente, mentre in quella invernale sono irrigati in modo continuato. L’acqua di risorgiva, che generalmente sgorga per tutto l’anno ad una temperatura costante compresa fra i 9 °C (in inverno) e i 14 °C (in estate), viene mantenuta in continuo movimento dalla conformazione dolcemente declinante del terreno, impedendo in questo modo che il suolo ghiacci; lo sviluppo della vegetazione prosegue così anche durante l’inverno rendendo possibile effettuare annualmente almeno sette tagli di foraggio (ma spesso anche nove), contro i 4-5 ottenuti dalla coltivazione del migliore prato stabile. Non è noto chi abbia inventato la tecnica della marcita; tuttavia si attribuisce comunemente ai monaci provenienti dalla Francia, in particolare Cistercensi il merito di aver contribuito grandemente alla sua diffusione nelle campagne del nord Italia.

In particolare per quanto riguarda i territori rivieraschi del fiume Ticino  le marcite furono introdotte in Pianura Padana intorno all’anno mille per merito delle popolazioni contadine lombarde e piemontesi. Infatti in quegli anni i monaci che abitavano le Abbazie e ricavavano dalle terre circostanti il loro sostentamento, affinarono queste pratiche agricole preesistenti, praticandole loro stessi, descrivendo la marcita nei loro testi e contribuendo in maniera decisiva alla loro diffusione. In particolare qui nella nostra zona il centro dal quale si diffuse poi rapidamente tale tecnica si deve identificare  con l’Abbazia di Morimondo in provincia di Milano: territorio posto sulla riva sinistra del Ticino, con orografia dolcemente digradante verso il fiume interrotta sporadicamente da collinette, depressioni e arginature. Il territorio comunale è vasto e prevalentemente destinato ad uso agricolo. Ancora oggi La vegetazione comprende, a partire dalle sponde del fiume, salici, robinie e pioppi,questi ultimi coltivati per la produzione di carta. Si possono osservare diversi boschi con pioppi dal fusto diritto disposti in regolari file parallele.

Dal punto di vista storico merita di ricordare come all’inizio dell’ottocento in quel di Besate comune rivierasco del Ticino e poco  distante da Morimondo, dopo le piene del Ticino del 1814 e del 1824 che avevano rovinato molte delle colture besatesi e distrutto completamente le cascine Ghisalba e Ghisalbetta, il duca Carlo Visconti di Modrone escogitò un sistema per sbarrare la forza d’urto delle acque del fiume,  riducendo la costa e inclinandola verso la corrente, convertendo quei terreni che erano di sua proprietà a marcite.

Difficile impossibile oggi rivedere quei verdi prati invernali!

Infatti oggi il significato agronomico della marcita e dell’erba ivi prodotta come alimento del bestiame bovino è scomparso, perché sono cambiati i sistemi di alimentazione e quindi non c’è più interesse da parte degli agricoltori a mantenere le marcite, pratica colturale oltremodo faticosa da attuare, non potendo impiegare completamente i mezzi meccanici, dato il particolare assetto a “valli e dossi” tipico dei campi dedicati a questo tipo di coltivazione.

Infatti oggi il significato agronomico della marcita e dell’erba ivi prodotta come alimento del bestiame bovino è scomparso, perché sono cambiati i sistemi di alimentazione e quindi non c’è più interesse da parte degli agricoltori a mantenere le marcite, pratica colturale oltremodo faticosa da attuare, non potendo impiegare completamente i mezzi meccanici, dato il particolare assetto a “valli e dossi” tipico dei campi dedicati a questo tipo di coltivazione.

Tuttavia data l’importanza  per il loro valore storico-tradizionale, paesaggistico e faunistico, recentemente in alcune zone a noi vicine è stata messa in atto  una risistemazione di fontanili e rogge in modo da continuare la pratica delle marcite. In particolare quelle  che ancora oggi  sopravvivono  sono situate nel Parco del Ticino e nel Parco Agricolo Sud Milano con due gruppi consistenti (circa 500 ha). Infatti  il Parco del Ticino negli anni 90, anche grazie ai riferimenti normativi già citati del P.T.C., decise di intraprendere un percorso di collaborazione con gli agricoltori più attenti e sensibili, finalizzato alla salvaguardia di oltre 300 ettari di marcite. Con il 2015 sono quasi trenta anni che il Parco assegna agli agricoltori un contributo economico per il mantenimento o il recupero delle marcite e pertanto sono quasi trenta anni che nel Parco sopravvivono ambienti unici in Pianura Padana, patrimonio di queste regioni e di queste popolazioni, testimonianza di un mondo agricolo capace di tramandare fino ad oggi un bene dalle radici antiche, ma dal valore attuale inestimabile.
 

Da Ticino Notizie

 

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