I ricordi del passato Lo so, che quello che sto per scrivere, per qualcuno potrebbe essere fuori posto, ma non é così. Fra questo struggente spettacolo che la Madre natura ci sta offrendo, mi viene da fare una considerazione sul nostro tempo. Si, perché, noi della Terza età, come scriveva Enzo Biagi, noi "camminiamo su di un tappeto di foglie morte, dove é sepolta la storia del nostro Paese". Fra questi ricordi del passato, mi viene da pensare al nostro presente, che é esattamente come cinquantacinque anni fa, se vogliamo, é una vita fa, ma il ricordo del passato ci viene ricordato dal costo del denaro al 2%, il livello a cui lo ha portato nei primi giorni di questo mese la Bce, che riporta il nostro Paese, sia pure soltanto in termini di tassi di interesse, al 1948, ai tempi del Piano Marshall. Ai tempi in cui il Paese usciva dall'inferno della guerra e riprendeva a guardare al futuro con la speranza nel cuore. Ai tempi delle valigie di cartone legate con lo spago, all'emigrazione dal Sud al Nord, in cerca di un posto di lavoro, ai tempi in cui molti giovani come me non sapevano a quale santo raccomandarsi per sbarcare il lunario. Proprio in quegli anni mi sono arruolato nell'Arma dei Carabinieri e fui trasferito in un villaggio alle pendici del Monviso, dove sgorgano le sorgenti del grande fiume, e dove l'On. Bossi, con le sue emblematiche manifestazioni politiche, da dove sfiorano le sue vecchie idee separatistiche, in quelle sorgenti, ogni anno si reca per riempire le famose ampolle, per poi svuotarle nella laguna di Venezia. Quelli erano i tempi in cui un operaio guadagnava 32 mila lire al mese e lo zucchero, per dirne una, costava la faccia di 260 lire al chilo ed un caffè 25 lire. Era l'epoca dei "Ladri di biciclette", che é proprio del 1948, e la gente tirava la carretta al ritmo del jazz, riprodotto dai primi 33 giri. La Cbs, infatti, fece debuttare il long playng di vinile. Un Paese remoto in tanti sensi da quello di oggi, in piena ricostruzione, con le macerie che costituivano ancora un elemento fondamentale del panorama di tante città, come sta' succedendo oggi a Kabul o Bagdad. Ma quello fu anche un anno di grandi cambiamenti. Il mondo si riorganizzava e lo faceva in blocchi, gettando le basi della Nato e del Patto di Versavia. Gli States buttarono sul piano della ricostruzione del Vecchio Continente ferito oltre 12 milioni di dollari. L'obiettivo era quello di far rinascere l'economia travolta dalla guerra. E di costruire una sicura sfera di influenza. Il 1948 fu anche l'anno delle prime elezioni pubbliche, il 18 aprile, nel quale la Dc raccolse consensi a mani basse. Ma il 14 luglio, mentre i francesi ricordavano la presa della Bastiglia, l'attentato a Togliatti scaraventò brutalmente di nuovo in primo piano tutti i nervi scoperti del Paese, che sfiorò l'insurrezione popolare. Ricordo che quel giorno in tutte le piazze d'Italia , noi eravamo schierati sotto i portici in Piazza Galinberti a Cuneo , per fronteggiare la massa dei rivoltosi. A salvare l'Italia, in quella giornata afosa e caldissima, sembra sia stata la miracolosa vittoria di Gino Bartali, " quegli occhi allegri da italiano in gita", come canterà Paolo Conte decenni più tardi, che al Tour de France recuperò 22 minuti, incoraggiato a correre da De Gasperi e dal Papa. E dopo, comunisti e democristiani, non solo a Torino in Piazza Castello , al Valentino e lungo il Po, ma in tutta l'Italia si abbracciarono tutti. E' memorabile la rivalità con Fausto Coppi , (con il famoso passaggio della borraccia tra i campioni). Chi é che non ricorda quest'atto di vera "amicizia", lasciando per un momento la rivalità che regnava fra i due famosi campioni del ciclismo di casa nostra? Altri tempi. Oh, si, l'amicizia, si direbbe una parola strana di altri tempi, che oggi non é più di moda. Ma, ci domandiamo che cos'è la vera amicizia? L'amicizia é l'amicizia, non ci sono altri aggettivi per poterla definire diversamente. L'amicizia vuol dire Fausto e Gino, oppure Tiziana e Adriana: un legame affettuoso fra due o più persone, nato d'affinità di sentimento e tenuto saldo da reciproca stima e considerazione: essere in amicizia con uno, avere con lui rapporti familiari e di confidenza, questo vuol dire amicizia. I due grandi campione del pedale di tutti i tempi, erano tutto questo. L'antagonismo sportivo, é un'altra cosa, che spesso si trovano in contrasto di due forze opposte, ma l'amicizia é l'amicizia. Dopo quest'inciso storico - politico - sportivo del nostro Paese, veniamo ai grandi scrittori che scrissero del grande fiume. Guareschi iniziò in quel tempo a scrivere quella storia infinita di Don Camillo e Peppone, che rispecchia appunto quell'attuale momento politico - sociale del nostro Paese. Ancora nel 1948 nacque il computer, con il quale sto cercando di scrivere questi miei ricordi e riflessioni dell'altro ieri, di cinquantacinque anni fa, con un programma in memoria e il transistor, che mandò in pensione le valvole e aprì la strada alle radioline portatili. E la Fiat si gettò nella produzione su scala industriale. Ma in Italia il boom era ancora di là da venire, lo stipendio medio era ,come abbiamo detto sopra, di 32 mila lire (864 mila lire del 2000, l'inflazione al 5.77%, per altro un'inerzia rispetto al devastante 244% del 1944. Un chilo di spaghetti veniva 180 lire ( ben più di oggi, poiché corrispondono a ben 4800 lire del 2000) Per non dire della proibitiva carne, che ne costava 1000. Un litro di benzina veniva 116 lire, oltre 3100 lire del 2000. Il biglietto del tram? Venti lire, come il giornale e la tazzina di caffé. Questo é il quadro statistico di come eravamo ieri, quando gli albanesi eravamo noi, quando Guereschi scriveva del grande fiume, illustrando con i suoi personaggi la vita politico - sociale del popolo che abita le sponde del Po: di Don Camillo e Peppne. Moltissimi altri scrittori del nostro tempo e del passato, hanno scritto di questo nostro grande fiume: del fiume della vita. Plinio il Vecchio, ha raccontato della storia del passato e delle moltissime alluvioni, mentre Roberto Bartolini, in un romanzo sanguigno, di pantagruelica accesa carnalità trascinata - strattonata - lungo le rotte di una Padania in odor di guerra tra nemici dell'ultima ora - italiani contro tedeschi - sulle note di un fondaco lirico - grottesco dove la fantasia risulta arma vincente di un'ispirazione condotta - com'è giustamente annotato - "a vanvera". Questo scrittore, in cui rivive la figura del grande pittore Antonio Ligabue, che vive nelle "pioppine", isolato nelle golene, tra Boretto e Gualtieri, proprio sulle rive del grande fiume Po, dove si trovano ambienti naturali molto belli, con lunghi filari di pioppi che si stagliano nelle brume ,e distese di terre che si perdono all'orizzonte. In quelle terre si possono fare delle lunghe passeggiate attraverso le dune, le paludi , la grande spiaggia e gli isolotti e le rive che si creano lungo le insenature del grande fiume. Questo strano pittore, che é sempre alle prese con la fuga dei tedeschi e delle Bande Nere, in un Ducato che é come la geografia di una favola squilibrata, dove la grande fabbrica produce piastrelle da esportare ovunque, ma con metodi da lager. Il Liga si porta appresso Angelica, femmina ricca di un erotismo che regala a tutti tranne che al povero matto ossessionato da tigri e motociclette: é incominciato tutto con la pioggia di rane, seguita dalla scomparsa del coccodrillo tritacrucchi e da un gigantesco mongolo che si spupazzava Angelica e viene poi fatto prigioniero dalle Bande Nere. Mentre Riccardo Bacchelli, con il suo romanzo, avente per titolo " La miseria viene in barca", ispirato dalle storie della povera gente che viveva sulle rive del fiume, ai tempi dei mulini ad acqua, dagli alberi degli zoccoli, delle giacche di fustagno e del passaporto "rosso", gratis per chi voleva andarsene a cercar fortuna oltre Oceano. Cesare Zavattini, scrittore e regista, figlio di quella terra bagnata dal grande fiume, indaga sugli aspetti più umili e intimi della realtà umana e della sua gente in particolare, mentre il grande Mario Soldati, nostro amico carissimo di tempi lontani, altro grande scrittore, documentarista e regista cinematografico, ha illustrato con i suoi documentari, tutta la valle del Po, partendo da Torino e terminando nel grande delta del Polesine, come del resto, stiamo cercando di fare anche noi in questa giornata splendida d'autunno. Potremmo benissimo affermare, che stiamo percorrendo il grande fiume sulla scia dei grandi scrittori, poeti e pensatori del nostro tempo. Sfogliando le pagine ingiallite di un altro romanzo " Matrimonio mantovano" di Giovanni Nuvoletti, altro figlio prediletto della bassa padana. La storia di questo matrimonio é tipica di questa nostra grande provincia italiana che é la mitica Mantova. Il suo territorio si stende dai confini occidentali della Lombardia e dell'Emilia e arriva nel Veneto seguendo il corso dell'Oglio, e non a caso il teatro dell'azione si trova a Gazzuolo, a pochi chilometri da Mantova e a due passi dal nostro borgo di Campitello, da dove noi questa mattina siamo partiti, per imbarcarci sulla bianca motonave fluviale diretti a Venezia, nella città dell'arte, degli artisti e degli innamorati. Gazzuolo, anche se non é solcato dal Mincio e neppure dal Po, é attraversato dal fiume Oglio, che é un'affluente di destra del grande fiume: una terra da sempre alluvionata. " Si apriva, il nostro paese, in una terra di fiumi, di stagni e di acquitrini che le continue bonifiche ridimevano. Fra gli alti pioppi si alzavano i canti dell'antica pazienza, intrecciandosene qualche nuovo delle prime rivolte. Lunghe file di carriolanti uscivano all'alba a scavare nelle umide terre circostanti per rientrare al tramonto grigi di fango e senza più canzoni. In questi e simili luoghi s'era levato cupo il grido dei diseredati, la " boje". Mentre sono seduto sulla prua di questa piccola e bianca motonave, mi vengono in mente le " calamità naturali": terremoti, come quello devastante di pochi mesi fa in Algeria, le alluvioni, gli argini che non reggono, dighe che crollano, colline disabitate che precipitano. E' questo il primo atto del dramma: quelli che seguono non entrano quasi mai nella cronaca. I nostri Signori politici hanno fatto festa per il buon esito delle elezioni amministrative di due mesi fa ( si fa per dire) . Forse neppure i familiari degli scomparsi nelle alluvioni del grande fiume ricordano bene certi particolari dei poveri morti, e d'altronde, non si può piangere sempre, perché la vita deve continuare. Lasciamo questi ricordi tristi e meno tristi, e veniamo al nostro viaggio fluviale sul grande fiume. I grandi scrittori che abbiamo citato sopra, hanno lasciato una traccia profonda e indelebile della loro letteratura del grande fiume, mentre noi che non siamo ne scrittori, ne storici e neppure pensatori o filosofi, ma semplici innamorati della natura, che cerchiamo di riportare su questo foglio bianco, le nostre impressioni, le nostre riflessioni e, tutto quello che maggiormente ci hanno stimolato, rendendoci desiderosi di saperne di più, di questi luoghi, di questi paesaggi piatti e meravigliosi della grande valle dove scorre placito il grande fiume e commentarle con parole semplici, con parole nostre. Come abbiamo detto sopra, noi non siamo scrittori e neppure filosofi, ma amanti dell'arte e della natura. La nostra professione é stata da sempre quella dell'indagatore, del piccolo Maigret con la pipa in mano e la pistola nel cassetto, che svolgeva le indagini empiricamente, che scaturivano proprio dell'esperienza, che si fonda solo sulla pratica, privo di alcun valore scientifico sempre alla ricerca minuziosa e ordinata tendente a far luce su un fatto di cui si vuole acquistare piena conoscenza, ai fini e alla ricerca della verità, in poche parole, del classico " topo d'archivio" , mentre oggi le indagini si svolgono scientificamente. Ma come disse il grande poeta Gesué Carducci - anche se per molti aspetti discutibile e discusso - ma, senza dubbio, grandissimo filosofo, ammoniva, con estremamente acuta intelligenza, i suoi discepoli a non " lasciarsi avvolgere dal gelido sudario della filologia". Chi non sia "addetto ai lavori" difficilmente riesce a cogliere in tutto il suo valore la genialità di questo monito" . Il fatto é che il filosofo é quello scienziato che si occupa della ricostruzione e della corretta interpretazione dei documenti letterari propri di una particolare cultura e di un particolare periodo storico, che é appunto, il complesso delle attività scientifiche che va sotto il nome di " filologia". Il nostro compito era quello di assicurare alla Giustizia il responsabile di un delitto. In un certo senso, il nostro lavoro aveva a che fare con la filologia, mentre lo scrittore é quello che scrive romanzi, inventa personaggi e località astratte, mentre il giornalista nelle sue cronache, racconta i fatti del giorno e illustra una certa località turistica e ambientalista. Esattamente quello che cercheremo di fare noi oggi. Possiamo liberamente definirci uno dei tanti "scrittorucci" improvvisati, uno che cerca di raccontare con parole semplici, con parole sue, un paesaggio o una località che maggiormente lo ha impressionato. A questa schiera , non foltissima in verità, ma pur sempre folta quanto basta a consolarci dei " gelidi sudari" - potremmo dire di appartenere noi modesti " scrittorucci". " Il grande storico Ferdinando Gregorovius, ha così scritto: "La storia parla all'anima più che gli spettacoli della natura e l'uomo non vive che di memorie". E ne é convinto tanto dal profondo, che non esita a confessare di aver provato più intensa emozione nel contemplare le rovine di Siracusa che nello spaziare con lo sguardo su quasi tutta la Sicilia dall'alto dell'Etna"! Ma noi amiamo uno e l'altro: a contemplare le rovine del passato, dove é sepolta la storia del nostro Paese, quanto a spaziare con lo sguardo su questo paesaggio piatto e meraviglioso, prodotto in milioni di anni dal più grande fiume del nostro Paese: il Po. Un viaggio lacustre quindi, un viaggio sul Po, a bordo di una nave fluviale, non é semplice a descriverlo. Seguendo il grande serpentone dalle mille volute, superando grandi pianure, piccoli villaggi e linde cittadine. Dopo Ostiglia, incontriamo Moglia, Occhiobello, Volano e poco dopo transitiamo sotto il grande ponte ferroviario che collega la bella città di Ferrara . Questa bellissima città d'arte, ci rammenta che la Dinastia D'Este, ha lasciato un'impronta indelebile sulla città, che con le sue fortificazioni é una delle più belle della regione. La famiglia prese il potere della città nel tardo XIII secolo con Nicolò II e lo mantenne fino al 1598, quando fu costretta dal Papato a trasferirsi a Modena. Superato il grande ponte in ferro, guardando verso destra, possiamo ammirare i merli del Castello Estense, che fu residenza della signoria, iniziata nel 1385, con i suoi fossati, le torri e le merlature che incombe sul centro storico della città. La storia ci dice che Ferrante e Giulio d'Este furono incarcerati nelle sue segrete, accusati di aver tramato per spodestare Alfonso I d'Este; Parisina d'Este, moglie di Nicolò III, fu giustiziata qui, colpevole di adulterio con Ugo, suo figliastro. Per un momento, ci sembrava di transitare sotto le mura del Castello di Mantova, si, perché, il Castello di Ferrara, potremmo definirlo una copia perfetta di quello di Mantova. Infatti, fu costruito dallo stesso architetto. - Tratto dal libro: "Il fascino e le bellezze del Bel Paese" - Alla scoperta del grande fiume: Il Po. Oggi, in questo mese fresco di settembre, dopo il torrido periodo estivo che ha investito non solo il nostro meraviglioso Paese, ma l'intera Europa, non siamo nel Grand Canyon e neppure sul Verdon, ma ci stiamo accingendo a percorrere il Fiume più grande d'Italia: il Po. Un fiume che nasce sul Monviso, nella parte opposta delle Alpi, dove nasce appunto il meraviglioso Verdon. Abbiamo percorso migliaia di chilometri per ammirare le bellezze del mondo, ma non ci siamo mai accorti che anche qui, nella verde e bellissima Valle Padana, esisteva il meraviglioso fiume della vita. Un viaggio fluviale in quest'angolo verde d'Italia, é una esperienza irripetibile, capace di scatenare l'antica vertigine di fronte al sublime mistero del mondo del grande fiume. Il Monviso, il re delle Alpi Cozie: m. 3841, é la più alta elevazione del gruppo. L'imponente struttura del Monviso, la superba montagna che domina incontrastata buona parte dell'orizzonte della pianura piemontese, é, dopo il Gran Paradiso, la più alta cima situata interamente in territorio italiano. Come tutti sapranno dal Monviso nasce il fiume Po, quel fiume che noi oggi ci apprestiamo ha percorrere nel tratto da Ostiglia a Venezia. Il Monviso é diventato famoso dopo la sua conquista nel 1863 da parte di un gruppo di alpinisti italiani capeggiati dall'allora ministro delle finanze Quintino Sella, al quale, dopo questa impresa, venne la brillante idea di fondare il " Club Alpino Italiano", al quale siamo onorati di essere soci da oltre 15 anni. L'alba, con i suoi magnifici colori, aveva da poco lasciato il posto al sorgere del sole. Il grande disco infuocato era in fase ascensionale, sembrava legato ad un filo di lana tra cielo e terra, e che da un momento all'altro sarebbe emerso da dietro le cime degli alti pioppi al di là del Mincio , ma piano piano, si stava elevandosi verso il cielo. Gli escursionisti Campitellesi, erano fermi sulla panchina del Lago Inferiore della vecchia e cara Mantova, in attesa di imbarcarsi sulla motonave Andes, per l'escursione fluviale diretti a Venezia. Questa escursione, come molte altre, é stata organizzata e in parte finanziata, dall'Ente Valle di Campitello. Questa escursione era stata organizzata per lo scorso mese di luglio, ma in seguito alla grande siccità, che aveva messo in ginocchio l'intero Paese, rendendo il grande fiume ad una vera pozzanghera, fu rinviato ad oggi. Alcuni escursionisti erano ancora assonnati, qualche altro parlava tra il serio e il faceto, alternando il tono serio a quello scherzoso, perché un po' di buonumore non guasta mai. A volte serve per rinfrancare lo spirito, l'animo, rinvigorirlo, dagli nuovo entusiasmo e nello stesso tempo tranquillizzare i più paurosi del lungo viaggio fluviale, che stava per avere inizio. La superficie del Lago Inferiore stava progressivamente illuminandosi dai primi raggi del sole, che creavano fra luci e ombre, un paesaggio da favola. Dietro le nostre spalle c'era la città di Mantova quasi addormentata, che racchiude fra le sue vetuste mura, una pagina della storia d'Italia e dei Signori Gonzaga . Parlare di questa città non é facile. "Ci sono città che tendono a degradarsi senza i guasti portati dagli uomini. Ve ne sono altre che resistono ai tempi, anzi li catturano, li imprigionano nelle altre strutture, li fanno propri, " Mantova é così". Per descrivere Mantova valgono le parole di Giovanni Arpino, da lui scritte per Torino, quando dice: " La città sa spiegarsi con dolcezza e con quel briciolo di mistero inesauribile che ciascuno deve scoprire ed intuire da sé". Ma noi oggi non siamo qui per parlare di Mantova, (ma ci promettiamo di farlo in un altro capitolo) di questa città che é legata in modo indissolubile all'acqua. Un'isola nella pianura é stato scritto, che dell'isola ha mantenuto le caratteristiche proprie. Una grande depressione naturale, colmata dalle acque del Mincio che periodicamente straripava, circondando uno scampolo di terra sulla quale viene costituendo, nei tempi mitici di Ocno e Manto. Ecco, la motonave Andes, ha mollato gli ormeggi ed ebbe così inizio la nostra avventura fluviale, alla scoperta di quel mondo fantastico del Po, con le sue golene, " le pioppine", le insenature e le sue ombrose oasi. Senza volerlo, stavamo percorrendo l'autostrada fluviale del Medioevo, quella via d'acqua, che guarda caso, fu ideata e finanziata dalla contessa Matilde Gonzaga, con le sue chiuse per il passaggio delle navi e dei barconi, che trasportavano le merci nella città di Venezia. Ecco Governolo con le seicentesche chiuse del Mincio, dove nel 1526 fu ferito Giovanni de' Medici detto dalle Bande Nere e dove nel 1848, gli Austriaci furono sconfitti dai Piemontesi. Di fronte a noi c'è il grande fiume: il Po, mentre alle nostre spalle abbiamo lasciato i villaggi di Roccoferraro e di Governolo, con le risaie specchianti , i lunghi filari di pioppi e i vecchi cascinali dai muri di mattoni rossi scrostati. Ovunque, é bellezza di fertili campi ben ravviati al par di giardini e subito si scorge come l'agricoltura sia la principale fonte del benessere; ma qua e là sono sparse anche l'opera dell'umano ingegno. Si, é, proprio vero, stiamo ammirando gli angoli più belli della Pianura Padana, con il contorno lontano lontano delle Alpi e degli Appennini che serve a fondere insensibilmente l'immensità verde del piano con l'immensità azzurra del cielo. La bianca motonave Andes , in questo suo lento procedere, oltre a solcare il grande mare di smeraldo della pianura , sta per concludere il percorso del Mincio che talvolta nel colore, le sue acque si rammentano d'essere state Garda, ma che più spesso hanno la mutevole luce dell'acciaio. Visione eminentemente virgiliana. IL PO: IL LUNGO SERPENTONE PADANO. Qui non ci sono le grandi parete calcarei tagliate in verticale per centinaia di metri, come nel Grand Canyon e nel Canyon du Verdon, ma centinaia di chilometri di fragili argini, di golene e di insenature dove scorre placido il grande fiume, vedi alzarsi timidi svettando per l'aria i chiassosi pioppeti nelle golene. Di tanto in tanto, piccole oasi ed insenature, dove si tuffano nell'acqua quasi stagnante gli uccelli acquatici in cerca di cibo, creando un paesaggio surreale e metafisico. Sono luoghi che non conoscono rumori, se non il sussurro del vento interrotto dal ritmo costante dei motori della nave fluviale e delle grida rauche dei gabbiani, degli aironi e delle oche selvatiche e degli altri uccelli acquatici che vivono sul fiume. Stando seduto sul ponte della Andes, puoi ammirare la natura circostante che diventa grandiosa, seducente, e persino, ti sembra di essere in un'altra dimensione, tra cielo e terra , dove tutto é silenzio e poesia. - Tratto dal libro: "Il fascino e le bellezze del Bel Paese" - Girovagando per il mondo alla scoperta di luoghi dove non conoscono rumore Girovagando per il mondo, abbiamo scoperto luoghi che non conoscono rumore, se non il sussurro del vento fra i verdi pini interrotto dalle grida rauche degli uccelli. Luoghi dove il silenzio é poesia e dove la natura diventa grandiosa, seducente, struggente spettacolo. Tutto questo lo abbiamo trovato camminando lungo le sponde del Gran Canyon, mentre nel grande deserto della California, ci siamo fermati nella Death Vally: una località piena di luce, con colline colorate come gelati, é adorata dagli appassionati di cinema per Zabriskie Point, la zona dove Michelangelo Antonioni girò l'omonimo film nel 1969. Death Valley é un immenso museo geologico. Un enorme periodo di tempo geologico é visibile nelle rocce esposte. Ma gli strati sono così distorti, spezzati e confusi che é difficile leggere la storia. In un periodo di tempo quasi tanto lungo quanto la stessa terra, i materiali rocciosi sono stati depositati dal vento che accarezza quelle dune dorate ed infuocate dal sole, dall'acqua e dai vulcani. I terremoti ed i corrugamenti della crosta terrestre hanno formato la Valle. Quale attualmente si vede. Nella sua forma attuale, Death Valley é relativamente "giovane" - ha 3 a 5 milioni di anni - e si evolve continuamente. Durante le ore del giorno, il fondo della valle brilla silenziosamente nell'intenso calore. L'aria é così tersa, che le distanze sembrano più brevi e, a parte forse un filo di nubi, il cielo é profondamente blu. Mentre il nostro torpedone procedeva in quel paesaggio astratto e metafisico, le montagne si stavano facendo sempre più vicine, e più ci avvicinavano e più ci rendevano conto della loro natura. Alla fine della zona sassosa: sassi bianchi come se fossero dei teschi cotti dal sole, si alzano gradatamente dei soffici monticelli giallastri, come se si trattasse, suggeriva Adriana mia moglie, di panna montata, no, di mucchi di zucchero filato, macché, di cumuli di sabbia messi l'uno accanto all'altro come se fossero foresta. Dietro si elevavano quelle che da lontano sembravano dita, picchi rocciosi, che avevano la cima come un copricapo di roccia più scura, talora in forma di cappuccio, altre volte di calotta quasi piatta, che sporgeva davanti e di dietro. Lo stesso fenomeno prodotto dalla natura, in milioni di anni, lo abbiamo osservato sulle montagne della Provenza, ed in forma più modesta anche sulle Dolomiti. I francesi, questo processo di corrosione della montagna, dovuto agli agenti atmosferici, lo hanno definito "le signorine incappucciate". Procedendo oltre i rilievi erano meno puntuti, ma ciascuno appariva traforato di buchi come un alveare, sino a che si capiva che quelle erano abitazioni, ovvero ostelli di pietra in cui erano stata scavate delle grotte, e ciascuna di esse si perveniva per una diversa scaletta di legno, le scalette legandosi l'una all'altra da ripiano a ripiano e tutte insieme formando, per ognuno di quegli speroni, un intrico aereo che gli indiani, che moltissimi anni fa avevano abitato quella città deserta, vedendoli da una certa distanza, dovrebbero sembrare come una colonia di formiche, specialmente nel percorrere con agilità in su e giu. Quella era un'antica città, scavata nella roccia rossastra e vicino alle loro abitazioni, vi si scorgevano i loculi dove venivano sepolti i loro morti. Nel centro della città si vedevano veri e propri casamenti o palazzotti, ma anch'essi incassati nella roccia, da cui sporgevano poche braccia di facciata, e tutti in alto. Più in la si profilava un massiccio più imponente, di forma irregolare, anch'esso informa irregolare, anch'esso un solo alveare di grotte, ma di fattezza più geometrica, come finestre e porte, in certi casi sporgevano, da quei fornici, altane, loggette e balconcini. Alcuni di quegli ingressi, in passato potrebbero essere sicuramente coperti da un tendaggio colorato, altri di stuoie di paglia intrecciata. Insomma, senza volerlo, ci siamo trovati in mezzo a una chiostra di monti assai selvaggi, e al tempo stesso al centro di una città un tempo popolosa ed attiva, anche se certamente non magnifica come si sarebbe attesi. Oggi gli indiani d'America, non vivono più sulle alture, ma in moderni villaggi in pianura e gestiscono i Parchi Nazionali, come la Monument Vally, altro luogo dove furono girati moltissimi film, come per esempio: " C'era una volta l'America", " Ombre Rosse di Jon Ford (1939) e il Grande sentiero ( 1964) Dopo di aver ammirato a lungo i meravigliosi monumenti più belli dell'America dell'Ovest, ci attendeva un'altra terra da scoprire: il Grande Nord. Dall'oblò del mastodontico aereo 747, che ci stava portando nel Bel Paese, abbiamo ammirato una terra di paesaggi estremi, assolati. Di paesaggi primordiali fatti d'acqua, roccia, ghiaccio. Una terra di fiordi vertiginosi, montagne nude, altopiani sterminati che in inverno si trasformano in abbaglianti distese gelate, solcate da branchi di renne in cammino verso il mare. Col disgelo riappaiono laghi di cristallo, foreste di smeraldo, vallate di velluto tempestate di fiori che fanno da corona a villaggi da fiaba, dove la vita segue il ritmo della luce e dell'ombra, dell'avvicendarsi sereno e sempre uguale delle ore, dei giorni, delle stagioni. Questa terra, capace di dare brividi selvaggi e poetici, é la patria di popoli miti, tolleranti e accoglienti ed é il teatro di fenomeni, come quelli che abbiamo ammirato a dodicimila metri di quota: l'aurora boreale e il sole di mezzanotte. Tutto questo risponde al magnifico richiamo della natura del profondo Nord. Alcuni anni fa, sulle montagne della Provenza, abbiamo scoperto , camminando lungo il greto scosceso del suo fiume, per circa 9 ore, il Canyon du Verdon, per la prima volta. E' d'obbligo il paragone con il Grand Canyon, ma non gli rende del tutto giustizia. Perché se non può rivaleggiare con il capolavoro geologico del Colorado per misure e varietà di stratificazioni, il canyon più spettacolare e profondo delle Alpi vanta molti altri primati. Il colore del fiume che lo ha creato innanzitutto, un mix unico di giada, smeraldo e acquamarina che i francesi hanno tradotto in un nome semplice ma eloquente: Verdon. E poi quella sorpresa delle miscele di contraddizioni e di stimoli che, a due passi dalla Costa Azzurra e dal profumo di mare portato dal mistral, vento e anima della Provenza, che ricrea un ambiente dolomitico orientato verso il basso. Sul fondo delle gole del Verdon, muraglie rovesciate di calcare alte 700 metri culminano in vette surreali e metafisiche attraversate da nuvole di spuma vaporizzata e da squarci verde - azzurri. "Sembra che proprio qui", scrisse il geografo Reclus, " Rolando abbia tagliato la montagna con la sua tipica spada". Si può continuare a guidare lungo la "Corniche", ma per ritrovare la vista del fiume bisogna fermarsi, affacciarsi sul ciglio delle rocce, come ci succedeva nell'ammirare il Gran Canyon, il senso di vuoto e la vertigine. Questo é il Canyon più profondo d'Europa. Che lo rendono unico. Sulle pareti di calcare, i geologi leggono tutta la storia delle Alpi. La roccia bianca, nata dall'accumulo di miliardi di organismi marini e gusci calcari, costituiva 150 miliardi di anni fa, nell'era Giurassica, il fondo della Tetide, un antico mare mediterraneo esteso dall'Europa al Tibet. - Tratto dal libro: "Il fascino e le bellezze del Bel Paese" - Un sogno romantico Sulle rive del lago Maggiore, proprio accanto al più noto giardino di Villa Taranto da cui lo divide solo un muro di pietra costruito a secco, é rimasto lo straordinario complesso dei giardini di Villa San Remigio nato per realizzare il sogno romantico dei marchesi della Valle di Casanova, come da loro stessi affermato nella lapide ancora presente nel piazzale davanti alla casa, dove noi ci siamo fermati ed abbiamo letto la seguente scritta: " Noi Silvia e Sofia Della Valle di Casanova qua dove l'infanzia ci unì questo giardino nato da un comune sogno di gioventù adolescenti ideammo sposi eseguimmo.....". Il gruppo degli escursionisti é stato diviso in due squadre, Adriana ed io, facevamo parte del primo gruppo guidato dalla signorina Alessandra Maddalena. La nostra escursione ha avuto inizio dalla chiesetta romanica di S. Remigio, che sorge sulla cima della Castagnola. La storia ci dice che la prima menzione della chiesa risale al 1132, ed é contenuta in un documento in cui il papa Innocenzo II conferma al vescovo di Novara Litifredo l'elenco delle chiese che sono a lui sottoposte: San Remigio é nominata assieme a S. Angelo, la chiesa ora distrutta, che sorgeva un tempo sull'isolino S. Giovanni, davanti alla riva di Pallanza, presso il castello di S. Angelo ( in realtà la chiesa era dedicata a S. Michele, ma in altri documenti é la chiesa stessa ad essere nominata come cappella di S. Angelo) San Remigio e S. Angelo, dunque, sono in questo documento papale citati entrambi come capellam, non dipendente né della pieve di Intra né da quella di Baveno. La chiesa di San Remigio, orientata con le absidi verso est, presenta una pianta piuttosto insolita: é costituita infatti da due navate asimmetriche; probabilmente era prevista la costruzione di una terza navata verso nord, ma il progetto, come ci spiega la giovane guida, venne abbandonato, forse per le difficoltà tecniche legate al terreno scosceso su cui la chiesa venne edificata: uno sperone di roccia, ben visibile alla base della parete settentrionale, sia all'esterno che all'interno, dove costituisce addirittura un sedile roccioso nel tratto iniziale della muratura. Abbiamo potuto constatare che la chiesa é preceduta da un portico cinquecentesco ed é affiancata sul lato nord da una torre campanaria a base quadrata. La facciata segue l'andamento delle navate: a capanna la maggiore, scandita da specchiature simmetriche e molto più bassa, conclusa da una fila di archetti rampanti la minore. Questa bellissima chiesetta é incoronata da una fila di alti cipressi svettanti nel cielo e da altre piante antropiche. All'interno, abbiamo notato alcuni elementi architettonici che confermano la datazione proposta: la struttura stessa della navatella, stretta e dall'andamento irregolare, le volte delle due campate verso il presbiterio della struttura. Nei semicerchi dell'abside maggiore é conservato un affresco che rappresenta Cristo tra gli Apostoli superiormente, mentre nello zoccolo é visibile un ciclo dei mesi dipinti con immediatezza di linguaggio e con una tecnica semplice di disegno, come si addiceva alla trattazione di figure profane. Di questi frammenti di affreschi, che arricchiscono le rustiche pareti di questa stupenda chiesa romanica di S. Remigio, Maria Pia Zocchi, così scrive: " I dodici apostoli, differenziati nelle fisionomie, sono disposti in pose ripetitive e rivelano nella rigidità delle figure e nell'uso di sigle geometrizzanti nelle pieghe e negli orli degli abiti legami più stretti con certa pittura di maniera bizantineggiante: per essi si può proporre una datazione alla fine del XIII secolo, confrontandoli con le pitture tardo - duecentesche conservate nella rocca di Angera e nella chiesa di S. Leonardo di Borgomanero. Questa iconografia, diffusa in numerosi affreschi e mosaici dell'Italia settentrionale e del Canton Ticino ancora fino al XV secolo inizia a comparire negli edifici sacri del XII secolo, quando la Chiesa abbandona l'atteggiamento di condanna nei confronti del lavoro manuale: il lavoro non é più visto come condanna, ma come mezzo di salvezza. E così, la rappresentazione realistica o simbolica delle attività umane nel corso dell'anno diviene offerta del lavoro dell'uomo a Dio: i mesi vengono raffigurati con immagini immediatamente riconoscibili da un vasto pubblico. Il trascorrere del tempo rappresentato dalla successione nella collocazione nello spazio sacro dell'abside, in posizione subordinata alla raffigurazione dei dodici Apostoli che fanno corona al Cristo". Ci troviamo sul colle piuttosto scosceso della Castagnola di Pallanza,che non é altro che un balcone panoramico da dove con lo sguardo si domina tutto il lago e l'intero gruppo del Monte Rosa bianco di neve, si chiama così perché un tempo germogliavano i boschi di castagno, di quelle piante che fino all'ultimo conflitto mondiale hanno sfamato intere generazioni, mentre oggi hanno lasciato il posto ad una miriade di piante tropicali e a fiori di ogni tipo, riuniti in giardini terrazzati all'italiana e all'inglese, che si sposano meravigliosamente con l'ambiente e il paesaggio del lago Maggiore. Queste colline ospitano numerose ville signorili grazie alla sua panoramica posizione e al microclima dolce del lago, a cavallo fra l'Ottocento e il Novecento, dove gli appassionati coniugi Silvio (1861 - 1929), discendente di una nobile famiglia napoletana, e Sofia Browne (1860 - 1960), originaria di Dublino e nipote di quel Peter Browne che per primo aveva acquistato dei terreni sulla Castagnola e vi aveva fatto erigere dopo il 1860 uno chalet in stile svizzero in modo di poter quotidianamente "possedere un sì bell'orizzonte", riuscirono a realizzare un desiderio da loro cullato sin da quando erano bambini. La storia di questi appassionati della natura, ci dice che infatti, non solo avevano a Pallanza delle proprietà progressivamente acquisite, ma erano anche imparentate, avendo Ester, sorella di Dionigi Browne, figlio di Petr e padre di Sofia, sposato Federico Della Valle di Casanova, il padre di Silvio; i due primi cugini si erano dunque frequentati sin dall'infanzia e avevano tenuto fede all'intento di costruire insieme questo luogo fantastico dove la bellezza della natura si armonizza con le forme foggiate dall'arte, dove le emozioni potessero prendere corpo, colore e profumo nell'accogliente scenario lacustre fatto di acqua e montagna. Una cosa dobbiamo sottolineare, e con nostro rammarico dobbiamo dire, che questa meravigliosa Villa, sta andando alla rovina per incuria come tutte le cose che appartengono all'Amministrazione pubblica. Se confrontiamo questa stupenda Villa con quella di Villa Taranto, troviamo una grande differenza: la prima , si potrebbe dire che é semi abbandonata e priva di manutenzione, mentre la seconda é meravigliosamente curata in ogni minimo particolare, con aiuole fiorite, giardini curati e viali puliti. Insomma, occorrerebbe maggiore attenzione. Si sa, che ogni cosa ha un costo e spesso, l'Amministrazione pubblica non trova i fondi sufficienti per fare tutto questo. E' un vero peccato. "La costruzione di questa Villa coinvolse un numero elevato di lavoratori, ma in quel periodo, dal 1896, anno in cui Silvio e Sofia diventarono sposi, al 1916, quando si conclusero i grandi lavori per sagomare e arredare i giardini e il parco, la rimunerazione della manodopera non costituiva un ostacolo insormontabile per il ceto nobiliare, mentre oggi, come abbiamo detto sopra, é tutto al contrario. Da come abbiamo potuto osservate, possiamo dire che in quel tempo si resero necessari sostanziosi sbancamenti di terreno, terrazzamenti, erezioni di muri di sostegno, scalinate di raccordo, scavi per gli invasi delle vasche e per addurvi l'acqua, impegnativi trasporti di materiale, piante adulte, statue, obelischi, e altro, naturalmente ricorrendo alla sola forza di uomini e animali, come testimoniano qualche rara fotografia scattata all'epoca. Ci siamo soffermati nel basso Giardino della Mestizia, circondato da canfori e conifere pregiate, doveva essere denso d'ombra, privo di fiori e invita ancora oggi a respirare la malinconia del verde intenso del piano erboso, del bosso sagomato, a soffermarsi in silenzio davanti alla statua di Ercole con l'Idra posta in un'esedra a mosaico tra le piante fiancheggiata da due esedre minori ornate di fontanelle, conchiglie, delfini e coronate da obelischi. La comitiva, estasiata di tutte queste bellezze, si soffermava a lungo ad ammirare queste opere d'arte prima di passare alle terrazze subito sovrastante, i tratti stilistici all'italiana dovevano offrire un ambiente di verde ben potato e scolpito grazie all'impiego di tasso, alloro, bosso, gelsomino mescolati con disinvoltura a specie esotiche quali profumatissimi osmanti, camelie, crotomerie, cipressi americani a conferma di interessi botanici ormai allargati verso oriente ed occidente. In quest'angolo meraviglioso, ci siamo soffermati per ammirare con maggiore attenzione il capolavoro di cesello, fatto dai giardinieri nel potare e mettere insieme le varie piante, creando così delle vere opere d'arte. Leggiamo nella pubblicazione che illustra la Villa, che in questo spazio la marchesa Sofia voleva suscitare un sentimento gioioso e quindi il Giardino della Letizia, intorno alla statua del carro a Conchiglia di Venere (ma forse é Diana la dea che guida la coppia di cavalli marini modellati dallo scultore milanese R. Ripamonti, conoscente dei Casanova), é stato colmato di rose e di altri fiori in colorati parterre fra i ricami di bosso nano. Dal Giardino della Letizia si sale a quello molto sobrio delle Ore, così chiamato per la presenza di una meridiana circolare in pietra che porta la scritta, adesso poco leggibile: " Silvio e Sofia pongono perché ogni dì la luce novella lambisca l'ombra delle ore che furono"; questa terrazza, delimitata sul davanti da una balaustra con le statue di Giunone, Bacco, Venere e Plutone, celebra un periodo di vita felice ma come ogni cosa destinato a finire. Carla Lodari, nel suo articolo che illustra le bellezze dello straordinario complesso dei giardini, così scrive: " Il terrazzo che raccorda il Giardino delle Ore al piano su cui sorge la grande casa costituisce anche il tetto della serra a vetrate che doveva contenere molte piante d'ambiente subtropicale quali felci, begonie, orchidee che in quell'ambiente protetto vegetavano tanto bene quanto, subito all'esterno della serra, le palme esotiche delle specie Erythea armata, una rara " palma blu" della California, Jubaea spectabilus, un'imponente palma dal grosso tronco liscio e grigio, originaria del Cile, o la rampicante cinese Ficus pumila, che ricopre fittamente numerose porzioni di muri, balaustre e scale". Ovunque ti trovi, ovunque guardi, ti rendi subito conto che si fa sentire la mano artistica della marchesa negli spazi molto disegnati dei giardini esposti a nord in cui ricorrono le linee sciolte dello stile barocco ben adatte ad esprimere sentimenti nostalgici del passato. Di fronte a noi domina la bellezza della Villa, dove una scalea con due iniziali diramazioni curve a fiancheggiata da alloro e tasso potati a gradoni scende verso il Giardino dei Sospiri composto da una vasca sovrastata da un'esedra a sette nicchie che accolgono statue e mosaici fra cui si conoscono le effigi dei due sposi, che Don Enrico, continuava a chiamare "i due piccioncini in eterna luna di miele". Ovunque si notava l'eterna atmosfera di decadentismo che viene ripresa nel giardino delle Memorie, sul quale si affaccia lo studio di pittura di Sofia e dove si trova un'altra ampia vasca, dei grandi vasi, delle colonne e degli obelischi; le aiuole colme di colore dovevano celebrare con la bellezza effimera dei fiori l'eternità dell'amore. " Rosae transeunt/ memoria/ rosas dedicamus amori" recita l'interno del contorno in mosaico di due aiuole dove poggiano su piedistalli statue di putti ricoperte di rose che simboleggiano la brevità e l'allegria dell'adolescenza. Don Enrico, nell'osservare il ricco patrimonio botanico di villa San Remigio, era solito chiedere alla guida il nome di quelle piante rare, e poi, rivolgendosi al sottoscritto, mi chiedeva se conoscevo questa o quella pianta. Anche per me , quelle erano piante rare e bellissime, piante che non avevo mai visto prima di allora e al pari di Don Enrico, ero molto curioso di conoscere il loro nome e la provenienza. Sicuramente, osservando tutta quella profusione di tesori artistici, testimoniano che la marchesa oltre ad essere un'abile paesaggista, attenta all'aspetto architettonico delle sue composizioni giardinistiche era anche dedita a studiare degli speciali effetti di luce e di ombra con le forme vegetali perfino al chiaro di luna, era anche una appassionata botanica impegnata a introdurre e coltivare nei suoi giardini delle piante a quel tempo ancora abbastanza insolite sul lago Maggiore, dove tuttavia il microclima favorevole di certo incoraggiava questo tipo di esperimenti. Clara Lodari, nell'illustrare la Villa San Remigio, così termina dicendo: " Quando erano ancora in vita i marchesi, la villa e i giardini di San Remigio si aprivano spesso per accogliere magnificamente le personalità conosciute negli ambienti diversi della cultura europea. Furono ospiti ad esempio pianisti della levatura di Clara Wieck Schumann, Ferruccio Busoni, Wilhelm Kempff; anche Gabriele D'Annunzio frequentò la casa Della Valle di Casanova. In quanto pittrice la marchesa, era stata allieva di Arnaldo Ferraguti, era vicina ad alcuni artisti del suo tempo, come lo scultore Riccardo Ripamonti o il pittore Umberto Boccioni. Ma molto più fitto risulterebbe l'elenco dei personaggi famosi che godettero il privilegio di conoscere la villa San Remigio, incarnazione non di un atto di superbia dei marchesi ma sogno concreto di un'aspirazione a superare la banalità materiale. Questa messa in scena di uno stile di vita ormai estraneo alla realtà attuale può forse ancora, con la forza delle sue immagini, dare uno stimolo ad ambire a sensazioni elevate, a penetrare le ragioni del passato per meglio capire il senso del presente, impedendo che villa San Remigio venga considerata solo come un fatuo sogno del crepuscolo". - Tratto dal libro: "Perché nulla vada disperso" - Il santuario di S. Caterina del Sasso Dopo una descrizione sommaria dei luoghi del Lago Maggiore, veniamo al nostro pellegrinaggio - escursionistico. Alle ore 8,30 circa, il pesante automezzo si é fermato sull'altopiano, cioè poco prima del sentiero da dove incominciano una serie di gradini intagliati nella roccia che conducono davanti al Santuario di S. Caterina del Sasso. Questo piccolo Santuario, sorge in pittoresca posizione sopra ad una roccia a picco sulla sponda orientale del Lago Maggiore, da dove l'occhio può spaziare sul Lago ed ammirare un paesaggio da sogno, con all'orizzonte il massiccio del Monte Rosa, bianco di neve ed illuminato dal sole che completa quel paesaggio senza pari. La leggenda vuole che questo grumo di piccoli edifici religiosi sia stato fondato nella seconda metà del sec. XII da un ricco mercante che, sorpreso nelle acque del lago da una terribile tempesta, fece voto di darsi alla penitenza una volta giunto a riva, la riva appunto dove attualmente sorge il Santuario e dove noi parrocchiani di Campitello, siamo giunti dalla brumosa Valle Padana, per partecipare al pellegrinaggio di S. Caterina.Questo, oltre ad essere un luogo solitario, é un romitaggio, un luogo di pace e di preghiera, e anche un luogo del silenzio e della riflessione: un luogo dove gli uomini si recano per pregare, per riflettere, per trovare loro stessi e per rifugiarsi nella propria interiorità e venerare la Vergine Santissima . Quando siamo giunti in questo luogo dove regna la serenità, oltre alle pie donne che accudiscono a questi luoghi, non c'era nessun altro. Dopo la Santa Messa, officiata dal nostro parroco, é giunta un'altra comitiva di turisti, che dal loro linguaggio gutturale, abbiamo desunto si trattasse di cittadini svizzeri di lingua tedesca, che come noi, sono giunti dalla sponda opposta in questo Santuario, per piegare il ginocchio davanti all'altare della Vergine del Sasso. Dopo la Santa Messa, abbiamo visitato i luoghi del santuario, da dove si può ammirare un paesaggio unico con vista della sponda Occidentale del lago ( Stresa, Pallanza, Isole Borromee..) . Dopo la visita di questo luogo, che é un vero romitaggio, abbiamo attraversato in battello il Lago di Laveno - Intra, dove abbiamo visitato la meravigliosa Villa Taranto, che é sita sulla strada che conduce a Pallanza, che fu costruita alla fine del XIX secolo, alla cui sommità é la chiesetta romanica di S. Remigio. Villa Taranto é uno dei più bei giardini botanici d'Europa con molteplici varietà di fiori: cinerarie, primule, violette, anemoni, rose, limoni, mughetti, magnolie, narcisi, ciliegi, azalee, ginestre, oleandri, ninfee e fior di loto nelle fontane, gardenie, petunie, garofani, zinnie, ortensie, camelie etc... Il parco ha un patrimonio botanico vastissimo, dove abbiamo ammirato fra l'altro, alcune piante della famiglia delle sequoie: albero delle conifere, originario della California, che può raggiungere dimensioni enormi e superare mille anni di vita. Nel Parco Nazionale della California, alcuni anni fa, a cinquanta chilometri da S. Francisco, abbiamo visitato uno dei più importati parchi di sequoie degli Stati Uniti d'America. Questo parco sorge in una località arida nei pressi di Sausolito, di fronte alle coste dell'Atlantico. Questa é una pianta di grosso fusto che richiede molta acqua, ma li di acqua non ce ne a sufficienza per alimentarsi, ma la natura ha provveduto diversamente. La California é un paese temperato, ma é anche una località dove la nebbia fa da padrona, per via delle correnti umide che spirano appunto dall'Atlantico. Queste correnti umide generano la nebbia che a loro volta forniscono, sotto forma di nebbia, l'acqua alle sequoie. Nel Parco della Villa Taranto, germogliano oltre alla sequoia, grandissime cedri del Libano e faggi dalle foglie marrone et cc.. Il parco ha un patrimonio botanico vastissimo (1.000 qualità di piante mai coltivate in Italia e 20.000 varietà di specie) ed é ambientato in giardini terrazzati, con fontane, giochi d'acqua, cascate, serre e con spettacolari fioriture ( di cui sopra) che costituiscono una delle principali attrattiva del lago Maggiore. Adriana, e non solo lei, é rimasta estasiata di fronte a tanta bellezza, proprio lei che ama moltissimo i fiori e i giardini, é rimasta incantata. Osservando questo paradiso terrestre, ci veniva in mente il nostro modestissimo giardinetto: un fazzoletto di terra, che di fronte a questo spettacolo di colori é nulla. Ma oggi, in questa meravigliosa giornata di giugno, non ci troviamo a Campitello, ma siamo sul lago Maggiore, nel luogo più bello del mondo e che tutti ci invidiano. - Tratto dal libro: "Perché nulla vada disperso" - Il lago Maggiore Un vecchio proverbio dice: " Non é mai troppo tardi per scoprire gli angoli più belli del Bel Paese". La storia di questo lago ricchissimo di testimonianze artistiche, la cui riva occidentale é piemontese, quella orientale lombarda, mentre l'estrema punta settentrionale é svizzera, si articola in tre fasi. La prima, quella della "scoperta", vide tra il XVII e il XVIII secolo la costruzione di meravigliosi palazzi da parte delle più facoltose famiglie piemontesi e lombarde. La seconda fase é quella della conquista di una fama internazionale: siamo nella Belle èpoque e la società mondana - riveste le rive di splendide ville, giardini e hotel. La terza fase, odierna, corrisponde all'esplosione del turismo domenicale di massa. Noi, facciamo parte di quest'ultima fase. Dalle tre isole del Lago Maggiore - Isola Bella, Isola Madre, Isola dei Pescatori - la prima é quella più profondamente " ricostruita" dall'uomo. Di proprietà dei conti Borromeo, venne completamente spianata tra il 1630 e il 1670 per trasformarla in un ideale bastimento. Il palazzo barocco, i giardini, la darsena, le dieci terrazze sovrapposte, le scenografie architettoniche dovevano simulare un naviglio ancorato nel lago. Oggi l'isola Bella presenta uno dei più sontuosi giordani all'italiana, una serie di terrazze scenograficamente degradanti, un anfiteatro per le rappresentazioni teatrali, fontane e giochi d'acqua. Il palazzo Borromeo, tipico esempio di barocco lombardo, racchiude sale ricche di arazzi, mobili e preziosi dipinti. Curiose, infine, le grotte, al livello del lago, completamente decorate con motivi acquatici, pesci, alghe. La provincia dei sette laghi- Questa definizione sottolinea la ricchezza, la varietà e il diverso carattere delle acque dei laghi del Varesotto, dalle vaste superficie dei laghi Maggiore e di Lugano ai minuscoli laghetti di Biandronno, a sud, e Dello, a nord, prossimo alla Svizzera. Questi bacini, insieme ai laghi di Varese, di Comabbio e di Monate, il più vicino alla sponda del Verbano, si compongono in un quadro che, pur straordinario, si presenta dolce e armonioso: torbiere e paludi, angoli " preistorici" che hanno restituito testimonianze dell'uomo primitivo, collinette ricche di verde riposante, colture e prati, borghi operosi. - Tratto dal libro: "Perché nulla vada disperso" - Il cervello umano umiliato Molti di noi si domandano, ma che cosa é un era? L'era é quella grande divisione del tempo nella storia dell'uomo. Ogni era ha la sua epoca, incominciando da quella della pietra, del bronzo e del ferro che si lasciarono alle spalle una traccia importante dell'evoluzione dell'umanità. Dopo questi importanti periodi, il 26 agosto del 1789, con l'avvento dalla Rivoluzione francese, che portò alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e all'uguaglianza fra i popoli. Questo periodo fu molto importante per il mondo Occidentale, che porto ad un risveglio culturale, civile ed economico, fu ispirato da diverse ideologie e realizzato da diverse forze. L'uguaglianza fra gli uomini, portò nel nostro Paese al Risorgimento, periodo storico che comprende una serie di avvenimenti politici, ideologici e militari attraverso i quali gli Italiani si liberarono dalla dominazione straniera e conseguirono l'unità e l'indipendenza del Paese. Nel periodo risorgimentale rifiorirono le arti e la scienza. Cento anni più tardi, e precisamente nel 1895, lo scienziato - inventore della radiotelegrafia, Guglielmo Marconi, premio Nobel, ha dato il via e l'inizio dell'era delle grandi scoperte scientifiche e tecnologiche, giungendo alle scoperte del nostro tempo. La nostra é stata definita l'epoca della rivoluzione tecnologica e soprattutto dell'informatica. Ma la scienza non si é fermata al semplice computer, all'internet o alla posta elettronica, ma é andata e va sempre più avanti. L'ultima scoperta - Si chiama " informatica affettiva"- é la rivoluzione nata nei centri di ricerca della California dove si costruisce il primo computer dotato d'intelligenza emotiva. Questa notizia, che abbiamo letto alcuni giorni fa sul quotidiano la " Repubblica", in un articolo di Ferdinando Rampini, il quale così scrive: " Questa nuova scoperta, ci promette un futuro migliore - aiuterà i medici nella diagnosi precoce della depressione, per esempio - ma potrebbe renderci la vita infernale: il marketing delle aziende spierà le reazioni segrete del consumatore di fronte ai prodotti del supermercato; a vostra insaputa il datore di lavoro vi controllerà le emozioni, conoscerà ogni fragilità psicologica. Il nuovo trend tecnologico dell'informatica affettiva ha riformato radicalmente il concetto di intelligenza artificiale. Gli scienziati che costruiscono questi computer non si accontentano più di umiliare il cervello umano sul terreno della potenza di calcolo, della velocità nel risolvere problemi scientifici complessi: qui l'homo sapiens ha già perso la gara da tempo. Le macchine pensanti, pur dotate di una micidiale superiorità logica, sembravano però impotenti di fronte ad un'altra sfida: capire sentimenti, decifrare le motivazioni del comportamento umano. Era un limite grave. Talmente razionale da risultare ottuso, il computer restava escluso dalla sfera degli affetti, dalla psicologia, quindi gli sfuggiva la comprensione delle relazioni sociali e perfino dei grandi problemi internazionali ( come decifrare il conflitto Israele - Palestina senza introdurre elementi di irrazionalità?). Grazie ai problemi dell'informatica affettiva, come viene chiamata quest'ultima scoperta scientifica, questi limiti appartengono ormai al passato. Giorno dopo giorno, ci stiamo rendendo conto che i segreti delle nostre emozioni si stanno aprendo all'assalto dei computer. Ho incominciato ad operare questa macchina moderna da circa otto anni, cioè otto anni dopo che ho lasciato il servizio attivo nell'Arma, per passare in quello di quiescenza. Fino a quel l'epoca, ho adoperato sempre la macchina da scrivere - l'Olivetti - Studio 44 . Non ho fatto nessuna fatica ad inserirmi nel campo dei computer, ma mi sono accorto, dopo quest'ultima invenzione del computer leggi - emozioni che ci scruterà in fondo all'anima, che il mio computer appartiene ormai al passato. Si , é proprio così. Giorno dopo giorno, i segreti delle emozioni umane si stanno aprendo all'assalto dei nuovi computer. " Ha incominciato a tradirci il volto, " finestra dell'anima" tutt'altro che impenetrabile. Uno degli scienziati di punta - come scrive Rampini - in questo campo é Javier Movellan, 41 enne psicologo di origine spagnola, da anni impegnato nella ricerca all'Università of California San Diego. La sua squadra di scienziati ha già studiato e catalogato elettronicamente più di 100.000 volti umani " in azione", scomponendo ogni singola espressione in minuscoli segmenti di movimenti dei muscoli facciali, spostamenti degli occhi e della bocca, rughe della fronte. Il computer ha scannerizzato fino a 30 immagini del volto per secondo, ha immagazzinato in una banca dati milioni di miliardi di immagini e informazioni. Se penso a tutta questa montagna di informazioni e di immagini immagazzinati nel nuovo computer, mi viene da pensare che quella che io credevo fosse una macchina potentissima, non é altro che una piccola scatola, contentante una memoria relativamente breve. Infatti, per inserire nuove immagini, spesso devo scaricare quelle esistenti nel cestino . Ma se pensiamo alla mia cara, vecchia e funzionale Olivetti - Studio 44, che mi ha accompagnato per moltissimi anni, il vecchio computer é da considerarsi una macchina anch'essa infernale. Come apprendiamo, questa nuova macchina infernale, é in grado, ricomponendo quei dati é già in grado di identificare centinaia di modi complessi di esprimere la gioia o la rabbia, la tristezza o la curiosità: ben presto comincerà a capire sentimenti che vogliamo nascondere. Dal Glem della leggenda ebraica a Pinocchio, dall'Olivetti - Studio 44 al Robot di Karel Capek a Frankenstein, é un mito antico della nostra cultura che diventa realtà: la trasformazione dell'oggetto in essere; la macchina con un'anima. Il vero pioniere dell'informatica affettiva é Hal, il supercomputer che dirige l'astronave in "2001" Odissea nello spazio", il romanzo di fantascienza di Arthur C. Clarke portato sugli schermi di Stanley Kubrick nel 1968. Hal era dotato di qualità psicologiche: etica del dovere, intuizione, capacità di interpretare le vere intenzioni dei suoi umani compagni di viaggio, infatti l'angoscia di fronte alla propria morte. Fu uno dei primi a fare il grande salto: dall'intelligenza logica e matematica dello schiavo utile, all'intelligenza emotiva che può portare alla parità con l'uomo. La pagò cara. "Nel laboratorio californiano di Movellan, l'uomo é stato già sconfitto in almeno una occasione. Chiamato a distinguere maschi e femmine, tra una serie di volti da cui erano stati cancellati tutti gli indizi di natura " culturale" ( i capelli lunghi o corti, il trucco, orecchini o collane, ecc.), il computer è stato più perspicace. E' un piccolo esempio rivelatore di una verità importante: a noi la cultura e la storia ci aiutano ma ci fanno anche da velo, il computer può estrarre più facilmente delle convinzioni. Ci siamo cullati a lungo nell'illusione che solo chi priva delle emozioni in proprio può capire la psiche altrui. Gli scienziati dell'informatica affettiva cominciano a sospettare il contrario: per capire l'animo dei nostri simili, siamo spessi handicappati dalla nostra stessa emotività. I pregiudizi, le simpatie e antipatie, le personali nevrosi fanno di noi degli interpreti raramente affidabili della psicologia umana. La macchina é meno fragile. "All'origine di questa rivoluzione tecnologica c'è un lavoro avviato nel 1970 dalla facoltà di medicina di san Francisco per scomporre e classificare le espressioni facciali del volto umano: come tanti tasselli di un mosaico infinitamente più complesso, sintomi di stati d'animo ed emozioni. Ai sorrisi e agli sguardi, si é passati ad aggiungere una gamma più ampia di segnali espressivi come il tono della voce e la gestualità delle ami. Trent'anni di ricerche hanno dato una formidabile " mappatura" delle espressioni umane a disposizione dei nuovi supercomputer. Risulta che un passo successivo ha consentito di incrociare queste apparenze esterne con altri indicatori: la pressione del sangue, il ritmo del respiro, la conduttività elettrica misurata nei piedi. Sono tecniche sperimentali nel lie - detectot, le "macchine della verità" usate con crescente precisione negli interrogatori della polizia americana, mentre nella polizia e carabinieri del nostro Paese, non sono ancora consentite dalla Legge, ( soltanto quando l'imputato vi acconsente). Se fosse consentito in Italia, questa macchina " strizza cervelli" sarebbe stata impiegata per fare luce nel delitto di Cogne o in altri delitti, che sicuramente rimarranno ad opera d'ignoti. Già oggi, nel 80% dei casi il computer " affettivo" risale con precisione dagli indizi esterni agli stati emotivi come la gioia o la paura. Intelligente lo era già: ora comincia ad essere sensibile. E' una promessa o una minaccia? Questo interrogativo rimarrà ancora per molto tempo insoluto. Nel campo commerciale, sembra che la Toyota e Sony lavorano ad un'altra applicazione, montata sul modello sperimentale di automobile Pod. Il computer intelligente integrato nell'auto " riconosce" stati d'animo pericolosi del guidatore ( affaticamento, nervosismo, aggressività) e prende le sue contromisure: suona musica distensiva, accende il condizionatore d'aria, o addirittura rallenta e parcheggia. Non ci sono applicazioni inquietanti. Messi a disposizione del marketing, i computer affettivi usati nei focus group rivelerebbero non solo quello che il consumatore dice di un nuovo prodotto, ma anche i suoi sentimenti più profondi. Se l'intelligenza emotiva penetra nel pc che usiamo tutti i giorni, per i datori di lavoro l'intrusione nella privacy dei dipendenti non avrà più limiti. Figurarsi poi lo stress di chi dovrà affrontare un colloquio per l'assunzione di fronte a due esaminatori: uomo più macchina. E che dire dell'uso di questi computer in mano alla polizia? Gli scienziati californiani sono convinti di essere alla vigilia di una rivoluzione industriale almeno altrettanto importante di quella dell'Ottocento. Allora molti furono sconvolti di fronte alle macchine che potevano sostituire il loro lavoro. Oggi anche il nuovo contratto sociale che lega il computer - schiavo all'uomo potrebbe saltare, sottoponendoci a un tremendo shock culturale. Hal sta per assaporare la sua rivincita?. La realizzazione di questa infernale macchina " dell'informatica effettiva", che ci scruterà in fondo all'anima, é la rivoluzione nata nei centri di ricerca della California, sicuramente ci prometterà un futuro migliore, ma certamente ci sconvolgerà la vita. Ogni innovazione tecnologica, al suo nascere fa sempre discutere, ma col passar del tempo, ci accorgiamo che é portatrice di sicurezza e di benessere. Se andiamo a guardare al nostro passato prossimo e a quello remoto, dobbiamo dire che l'uomo ha reagito nello stesso modo. Queste ricerche innovative e rivoluzionarie, hanno avuto come base gli studi scientifici di Guglielmo Marconi, che con l'introduzione delle onde corte ( per cui creò il nuovo sistema a fascio a onde corte (1916) e delle micro - onde ( 1932), aprì nuove vie all'avvenire della radio, della televisione e dei computer, mentre ora siamo in attesa del super computer dotato d'intelligenza emotiva. La prima macchina calcolatrice elettromeccanica fu realizzata nel 1944 dall'IBM, la stessa società che ha successivamente costruito i computer. Pesa 5 tonnellate. Può sommare due numeri di 23 cifre in mezzo secondo. Oggi, é un pezzo da museo, come la mia vecchia e cara macchina per scrivere l'Olivetti - Studio 44, sostituita dal pc megabyte, che fra non molto, sarà a sua volta sostituito da una macchina che sa decifrare le emozioni e che ci permette di colloquiare a viva voce e di continuare a scrivere i nostri libri senza l'ausilio della tastiera. - Tratto dal libro: "Brani di vita e appunti di viaggio" - Il fluire del tempo Quel catodico fluire senza posa, quasi una girandola o una vertiginosa danza colorata, comincia poi, a poco a poco, a lasciarsi decifrare e diviene la scura forma di un albero sul verde di un prato, diviene un cielo grigio di nubi o di quella nebbiolina caratteristica della grande e meravigliosa Valle Padana, appare il giallo dei cespugli di ginestre, il largo ombrello dal tronco slanciato del pino marittimo della bella Liguria e della natia Calabria o della magnolia che è a dimora nel mio piccolo giardino. Mille altre forme naturale si lasciano codificare. E' in questo preciso momento che il mio animo cessa di essere turbato ed intuisce, o mi pare di intuire, la logica combinatoria di quel fluire, l'algebra dei colori e delle forme, quasi una "characteristica universalis", che mi consente di penetrare in quella infinita riserva di significati e di significanti che è il mondo della natura.. Mi pare di cogliere , in quella disordinata successione delle lettere che si intravedono rovesciate sotto quelle forme e quei colori, i codici delle corrispondenze alfabetiche che spiegano quel mondo, lo riconciliano con la cultura e l'interiorità della coscienza che sono ridotte a sintesi. Oggi, tutti abbiamo la grande voglia di scrivere, tutti sogniamo di diventare scrittori. I politici continuano a scrivere libri, invece di dedicarsi alle loro mansioni per le quali sono stati eletti , e poi dicono che sono stressati con i lavori parlamentari e con quelli della Bicamerale, ma noi li vediamo sempre con fasci di giornali a girovagare e passeggiare nel grande corridoio del "Transatlantico" o seduti comodamente nelle poltrone del bar di Montecitorio, mentre i banchi delle Camere sono sempre vuoti e manca, nelle occasioni importanti il numero legale. Della lotta tra i palazzi di giustizia milanesi e i palazzi romani del potere non si riesce a vedere alcuna fine possibile per una ragione precisa: perché con la sua azione il pool di Mani pulite si è impadronito di fatto della chiave di volta, della pietra angolare su cui poggia l'intera sfera della politica, vale a dire del principio di legittimazione, in particolare della legittimazione che è alla base della cosiddetta Seconda Repubblica. Noi non siamo politici e tanto meno ci intendiamo molto di politica, ma siamo dei buoni lettori e certe cose non ci sfuggono, ma quello che abbiamo maggiormente rilevato e che, in tutte queste cose ci sono molti interessi personali. Chiediamo scusa, per la nostra poca conoscenza politica, ma lasciamo ai politici di fare i politici e ai magistrati di fare i magistrati. Noi proseguiamo a descrivere le nostre impressioni sulla terza età. Quanti non - romanzi scritti bene escono ogni anno? In un articolo di Raffaele La Capria, " Napoli nei mille vicoli del romanzo", pubblicato sul "Corriere della Sera", del 19 febbraio u.s. così ci spiega: " Partendo dal presupposto non dimostrabile, ma per me intuitivo, che oggi è più facile scrivere che leggere bene. Così, anche forse per il fastidio, sono arrivato alla conclusione che scrivere bene può essere anche una tecnica di cui tutti possono virtualmente impadronirsi (e quante scuola di buona scrittura sono nate!) ma leggere bene non è una tecnica, e nessuno può insegnarci a leggere bene." Leggere bene significa mettere in atto tutta la dotazione di esperienza, talento, sensibilità, intelligenza e altre qualità che possediamo in grado diverso e che in modo diverso ci arricchiamo. E mettendo in atto tutte queste qualità e facoltà, che fanno parte della nostra vita e della nostra esperienza, della nostra longevità, che riusciamo ad appassionarci ad un libro e ne possiamo riconoscere l'importanza e la bellezza." Egli ha veramente ragione. E mettendo in atto la nostra scienza della vita che possiamo accedere alla scienza della letteratura, non attraverso schemi e teorie: che possono anche essere utili, non lo nego, così come può essere utile una base culturale, ma non sono proprio esse a soddisfare il nostro primario, fondamentale bisogno di lettori. - Tratto dal libro: "Brani di vita e appunti di viaggio" - Gli anni di piombo Gli anni Ottanta nel nostro Paese, sono stati anni da dimenticare, anni veramente difficili. Giorno dopo giorno, tutte le forze dell'ordine erano sul piede di guerra, di quella guerra silenziosa, dove non si sapeva dove si nascondeva il vero nemico da battere : D i quella senza quartiere che non risparmiava nessuno, incominciando dai politici, perché quella era una guerra soprattutto politica, dell'estrema sinistra. Quindi eravamo tutti sul mirino, dai politici ai giornalisti, ai militari, agli insegnanti e persino ai semplici cittadini. L'Italia in quei tempi bui della politica e soprattutto della nostra storia, era un paese vario, difficile, non si sapeva da dove incominciare e dove si andava a finire. Era tutto un susseguirsi di situazioni scabrose, che impegnava i nervi, l'estro e perché no, anche l'astuzia sino all'esasperazione. Il nostro è un paese che dal punto di vista etnico, geografico, psicologico e soprattutto politico, è diversissimo dagli altri, frastagliato e pieno di imponderabilità, che non si può prevedere, valutare in tutti i suoi più vari aspetti. Certamente è stata una dura guerra, una guerra di nervi, di attese, con aspetti tragici e ripetitivi, perfino anche nel dolore e nella disperazione nel complesso della sua tragicità, causando lutti, paure e disordini di ogni genere. Abbiamo visto impegnati gli uomini migliori, non solo quelli dell'Arma, ma di tutte le forze di polizia, accomunati in un solo sentimento, in quel sentimento di abnegazione verso le istituzioni del nostro Paese. Sicuramente, sono stati tempi difficili, tempi duri da superare, per riportare nuovamente nei nostri villaggi e nelle grandi città, quella pace, quella tranquillità e quella sicurezza agognata dalla nostra gente, che da tempo tendeva ad una giustizia migliore, nella quale l'uomo, ogni uomo e tutti gli uomini, potessero nuovamente sentire e vivere la loro dignità di sempre. Dalle montagne altissime, nevose, ghiacciate dei confini alpini alle piazze iridescenti della Sicilia; dal Carso gelido, sibilante di vento e di tempesta alle isole del Mediterraneo bianche e solare; dai boschi verdi dell'Appennino ai laghi fiabeschi dell'interno; dalle grandi città ai piccoli borghi come il nostro, era un continuo e assillante pensiero, un cruccio, uno stimolo, un incitamento a continuare quella lotta, quella battaglia, a debellare e così sconfiggere, sgominare il tremendo e brutale terrorismo. Quel movimento di contestatori, quella setta terroristica, ha infangato i valori democratici del nostro Paese, trascinato in responsabilità più grandi di loro, in quell'impresa senza ritorno, coinvolgendo nei suoi ingranaggi, centinaia e centinaia di giovani, che ha pescato fra noi, nelle nostre case borghesi, artigiane, impiegati e proletari, studenti e operai, ricchi e poveri, trasformandoli in crudeli e semplici delinquenti comuni, assetati di vendetta e di tragiche azioni criminose. Il bene comune, oggi più che mai, anche in ordine allo auspicato rinnovamento giuridico - politico - sociale dei popoli, si può promuovere e consolidare soltanto garantendo l'autentica maturità politico - sociale. E' terra magica la nostra, divertita dalle sue astruserie, bislacca, mutevole fatta apposta, per quel gioco millenario del rimpiattino che è poi un po' il compendio della sua storia e della sua morale. Ebbene, su questo terreno vario, circospetto, suscettibile, come scriveva Ugo Franzolin nella storia dei Carabinieri : "il carabiniere si muove con pacata cortezza, sapendo bene di cavalcare un capricciosissimo destriero, sulla direzione da prendere. Non concede scarti silenziosi, vede le umane debolezze perché è nato dal popolo e conosce del popolo italiano le angustie dolorose, le prove ingrate, le attese estenuanti la coscienza che il bene comune è un patrimonio inscindibile e che in questo bene tutto è racchiuso, non solo la radiosa, secolare primavera delle nostre atomistiche speranze, ma anche la notte quieta del nostro dolore, le ore buie delle nostre quotidiane disillusioni. Il suo giorno è lungo, come è lunga la sua storia; il suo giorno anzi, non finisce mai, perché per l'Arma il giorno e la notte si confondono per la tutela di questo bene morale e spirituale, di questo bene di tutti che va al di là di ogni limite di tempo e può pretendere la vita stessa dei suoi figli migliori. Quei tempi, quei lontani tempi della contestazione globale; tecnica usata dagli extraparlamentari di sinistra per aprirsi la via del potere, possiamo affermativamente dire che sono finiti nel dimenticatoio del popolo italiano. ( Essi hanno tanto cavalcato la tigre che ella fine caddero e vennero mangiati). Lasciamo il passato, quel passato triste e sofferto, non solo da noi che facevamo parte delle forze dell'Ordine, che notte e giorno eravamo sul piede di guerra, di quella guerra senza nemico da fronteggiare, ma di tutto il popolo italiano che ha subito una tragedia senza precedenti, e veniamo ai nostri giorni, alle polemiche e alle responsabilità che non sono mai venuta a galla. "A sei anni dall'inizio della cosiddetta Rivoluzione italiana, il nostro passato che non passa sta ancora tutto lì, oscuro e intatto, a condizionare pesantemente un futuro che proprio non riesce a iniziare. Anzi: rischia di essere considerato da gran parte dell'opinione pubblica come qualcosa a metà fra un museo degli orrori e un gigantesco bazar dove è possibile attingere ogni sorta di arma politica. Succede, alle false rivoluzioni. Perché a differenza di quelle vere, non sono capaci di farli davvero i conti con i regimi che dovrebbero essersi lasciate alle spalle. E, prima ancora, perché non sono in grado di esprimere nuove classi dirigenti, così scriveva Paolo Franchi, in un suo articolo, apparso sul Corriere della Sera. "Così stanno le cose , ed è inutile lamentarsene. Solo , bisognerebbe avere il coraggio di riconoscerlo apertamente. E comportarsi di conseguenza. Anche, ma verrebbe da dire soprattutto, per quanto riguarda il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro. Che dalla Prima Repubblica, per tanti motivi, sancì l'inizio della fine. Chi decise quel rapimento e quell'assassinio? Quattro processi e un'inchiesta parlamentare, anche se i magistrati considerarono il caso tuttora, aperto, e se la maggioranza della Commissione stragi non ne è convinta, sono arrivati alla conclusione che si sia t trattato dell'organizzazione terroristica denominata Brigate rosse. Che fra l'altro era in grado, come tutti gli italiani che si occupavano di politica, di riconoscere in Moro il personaggio - chiave proprio di quella unità nazionale considerata dal partito armato come l'esito estremo del " tradimento" del PCI. Di questo, all'epoca, erano assolutamente convinti non solo Cossiga, Andreotti e Scalfaro, ma tutti gli esponenti del cosiddetto " partito della fermezza", primo fra tutti Enrico Berlinguer. Continua il giornalista dicendo: Se il presidente della Repubblica è in possesso di elementi nuovi che dimostrano come è perché le Br siano state invece il braccio esecutivo di un disegno ordito a ben altri livelli, interni e internazionali? Lo faccia sapere, nelle forme del caso, a chi di dovere, e chi di dovere lo renda noto a tutti gli italiani, che hanno il diritto di conoscere la verità, per sconvolgente che sia. Al contrario, se Scalfaro si riferisce a quel molto di oscuro che tuttora c'è, nella gestione dei cinquantacinque giorni da parte dello Stato, del governo e dei partiti, allora la sua richiesta di far luce è sacrosanta. Ma, in questo caso, non sarebbe stato meglio, molto meglio, avanzarla più chiaramente? A vent'anni dal sacrificio di Moro, gli italiani avrebbero il diritto di sapere esattamente almeno di cosa si sta discutendo". - Tratto dal libro: "Brani di vita e appunti di viaggio" - Venezia: il Carnevale. In questa meravigliosa giornata primaverile, ove tutto risplende sotto un sole caldo e luminoso. Eccoci nel Piazzale San Marco, la piazza più bella del mondo, che nel corso della sua lunga storia ha ospitato spettacoli, processioni, movimenti politici e innumerevoli cortei di Carnevale. Ogni giorno i turisti vi affluiscono a migliaia per due delle più importanti attrattive storiche, la basilica e il Palazzo Ducale. A questi magnifici edifici si aggiungono il campanile, il Museo Correr, la Torre dell'Orologio, i Giardinetti Reali, orchestre all'aria aperta, il prestigioso caffè, come il Quadri e il Florian, e numerosi negozi eleganti. Venezia è una città unica al mondo. Sorge come d'incanto sulle isole della Laguna Veneta, nel mar Adriatico, e il fenomeno dell'acqua alta cui è soggetta contribuisce ad accrescere il fascino. La storia ci racconta che questa incantevole città, nel Medioevo, sotto la guida di diversi dogi, la città espanse il suo potere e la sua influenza a tutto il Mediterraneo fino a Costantinopoli (l'attuale Istambul). L'immensa ricchezza conquistata si manifestò nel fiorire dell'arte e nell'architettura: i soli tesori di san Marco bastano a testimoniare l'influenza di Venezia quale potenza mondiale dal XII al XIV secolo. Dopo aver perso lentamente terreno a favore dei nuovi stati europei, la città cadde nelle mani di Napoleone nel 1797. Entrò a infine a far parte del Regno d'Italia nel 1866, allorquando si realizzò per la prima volta nella storia l'unificazione del Paese. Come è successo a Vienna, dopo la disfatta di Vittorio Veneto, il ( 24 ottobre e il 3 novembre 1918) la battaglia risolutiva della prima guerra mondiale sul fronte italo-austriaco, gli antichi Palazzi di sono ora adibiti a musei, negozi, alberghi e appartamenti e nei suoi conventi si sono aperti centri di restauro di opere d'arte. In 200 anni di storia, tuttavia, poco è cambiato dell'autentica Venezia: i suoni che si odono sono ancora i passi dei pedoni che percorrono strade rimaste pressoché intatte e le grida dei gondolieri, come quelli che abbiamo incontrato sul Canal Grande questa mattina. Gli unici motori sono quelli delle imbarcazioni che operano il rifornimento di provviste o dei vaporetti che attuano servizio passeggeri. Più di 12 milioni di visitatori soccombono ogni anno al fascino di questo luogo fatto in cui le "strade sono piene d'acqua" e tutto ricorda i fasti dell'antica grandezza di questa vecchia Repubblica Marinara. In giro con il vaporetto per la laguna, abbiamo goduto del paesaggio più bello e pittoresco del mondo. Questo paesaggio è dominato dalle "barene", sottili strisce di terra emersa ricoperte della vegetazione tipica del limonio, un'erba perenne diffusa lungo i litorali dell'Europa e dell'Africa settentrionale. Sulle molte isolette che abbiamo visitato, le popolazioni dell'entroterra minacciate dalle invasioni barbariche trasportarono le loro abitazioni, originando gli insediamenti di Torcello, Malamocco, Murano, Burano e, naturalmente, Venezia. La bellezza dell'ambiente e l'importanza dei monumenti fanno della Laguna Veneta qualcosa di unico che si presta a essere visitato in molti modi. Gli itinerari possono infatti essere di natura storico-artistica, con vista alle varie isole, come abbiamo fatto noi, oppure di tipo naturalistico: per affrontarli è comunque necessario l'uso di un'imbarcazione. La Serenissima. Come abbiamo avuto modo di constatare, con questa nostra escursione lagunare, abbiamo compreso che gli itinerari sono legati alla storia di Venezia e si snodano attraverso le sue isole lagunari e nell'entroterra dove, a partire dal XV secolo, una singolare e armonica fusione tra il mondo cittadino e rurale diede vita a uno straordinario fenomeno urbanistico - architettonico, definito " civiltà delle ville venete". Dalle palizzate ai "murazzi". Attingiamo nuovamente alla storia, da dove apprendiamo che l'attuale conformazione della Laguna Veneta deriva dalla secolare, assidua opera della Repubblica di Venezia che, attraverso la severissima Magistratura alle Acque, regolò le foci dei fiumi che minacciavano di interrarla e realizzò opere di consolidamento e di protezione. Le prime difese furono affidate a semplici riporti in terra e sabbia; in seguito si ricorse alle palizzate, legate insieme da "correnti" (listelli di sostegno) e divise in più comparti riempiti di pietrame. Alla fine del XVII secolo la laguna poteva contenere su una difesa a mare sufficiente ma assai dispendiosa per la sua manutenzione. Solo nella seconda metà del XVIII secolo si realizzarono strutture più resistenti : i "murazzi" ,messi in opera su un totale di qualche chilometro a nord e a sud del porto di Chioggia. Si tratta di un robusto muro, protetto verso il mare da una scogliera, alto 4 metri e mezzo. L'opera, particolarmente costosa, non fu proseguita dopo la caduta della Repubblica di Venezia; da allora si preferì dar mano a difese simili ai murazzi ma assai più modeste e meno onerose. Il Giardino di Venezia. Lasciamo per un momento la Laguna e ritorniamo sulla pianura compresa tra la Laguna di Venezia e il Trevigiano, per citare una frase del Goldoni, segnata da borghi distesi lungo il corso dei fiumi e da numerosi canali, veniva chiamata "Giardino di Venezia" dai nobili della laguna, che per tre secoli vi costruirono le loro ville. Molte si possono ancora ammirare lungo la strada del Terraglio, tra Mestre e Treviso, che Goldoni, appunto, definì :" così lunga, così unita, così popolata, con palazzi da città e da sovrani che non ha uguali né in Italia né fuori". Questi meravigliosi Palazzi e Ville, sono state costruiti da un grande architetto: il Palladio. Andrea Palladio (Padova 1508 - Vicenza 1580), architetto. Nel suo stile si fusero armonicamente il severo classicismo suggeritogli dallo studio dei monumenti greco-romani e la ricerca di effetti scenografici propria del suo tempo. Costruì a Vicenza la Basilica, il Teatro Olimpico e numerosi palazzi (Chiericati, Valmarana, ecc.); a Venezia edificò la chiesa del Redentore e quella di san Giorgio Maggiore ed eresse inoltre, come abbiamo detto, numerose ville sui colli l vicentini e nei dintorni di Venezia (Villa Barbaro, La Rotonda. La settecentesca villa Pisani o villa Nazionale, la più bella e scenografica di Stra. Dopo questo lungo giro lagunare, tra canali e isolotti, abbiamo fatto ritorno nel centro storico . Venezia è piccola e molte delle attrattive possono essere facilmente visitate a piedi, come abbiamo fatto noi. Siamo partiti dal cuore della città che è Piazza San Marco, dominata dalla grande Basilica e dal Palazzo Ducale e ci siamo introdotti nei meandri della città medioevale, tra calle, campielli e canali, alla scoperta della sua storia, dell'arte e degli scorci panoramici. In questo lento vagare, abbiamo compreso che ci sono tanti altri luoghi interessanti che valeva la pena di vedere, di scoprire, che si trovano oltre la piazza più bella del mondo, come le gallerie dell'Accademia, Ca' Rezzonico e l'imponente chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari(da frati). Questa grande, semplice chiesa gotica fa sembrare piccola la zona est di San Polo. La prima chiesa venne costruita da frati francescani nel 1250- 1338, ma venne sostituita da un edificio più grande completato entro la metà del XV secolo. L'interno è sorprendente per le enormi dimensioni e per la qualità delle opere d'arte. Tra queste, primeggiano i capolavori di Tiziano e Giovanni Bellini, e una statua di Donatello. Quando siamo usciti da questa bellissima chiesa, il sole declinava verso ponente e i riflessi colorati delle barche a vela, delle case e dei ponti, si riflettevano nel canale dorato. La facciata barocca della Ca' Rezzonico era illuminata dal sole calante, mentre le splendide sale di questo palazzo, che dà sul Canal Grande, sono arricchite con mobilio e dipinti del XVIII secolo, mentre le sale dell'Accademia, dove abbiamo potuto ammirare il ciclo della leggenda di Sant'Orsola (1490 - 51) del Carpaccio è uno dei tesori dell'Accademia, che ha un'ampia collezione di arte veneziana. - Tratto dal libro: "Brani di vita e appunti di viaggio" - Vivere senza sole La frazione di Ponte di Nava, che appartiene al Comune di Ormea, sorge sulla sponda destra del fiume Tanaro, a venti chilometri dalle sue sorgenti. Sulla sinistra, sopra il fiume, si erge un costone roccioso, un contrafforte del massiccio del valico del Colle di Nava, facendo parte delle Alpi Marittime. E una piccola frazione sulla statale che porta a Pieve di Teco. (Una vecchia e cara canzone così recitava: " Il Colle di Nava è vicino alle stelle, le ragazze e le cose sono più belle"). Quella è la zona dove germoglia la lavanda profumata). Dal 15 novembre al 25 gennaio, buona parte della frazione entra nel cono d'ombra. Il sole non ce la fa ad arrampicarsi sulla cima dentata del monte roccioso che sovrasta le poche case della frazione, il campanile ed il piccolo cimitero dietro la chiesa. Allora non c'erano neppure le Scuole Elementari e quindi i bambini, su quella strada ghiacciata e quasi buia dovevano raggiungere il capoluogo di Ormea. Il costone diventa una sentinella gelata, quindi insormontabile: il sole per cinquanta giorni è desiderio, rimpianto, immagine e pensiero; a pochi chilometri, subito dopo il valico del Colle di Nava, subito dopo le massicce fortificazioni, il clima è meraviglioso ed il sole splende tutto l'anno. Da quel costone fortificato incomincia la Liguria, con le sue piantagioni di ulivi, vigneti, alberi antropici, e più a valle, sulla Riviera, i fiori. Quello è sicuramente un altro mondo. Lo stesso fenomeno di Ponte di Nava, abbiamo avuto modo, durante lo svolgimento dei nostri itinerari turistici, di cui parleremo in un altro volume, di constatare che si verifica anche in un piccolo paese del Trentino. Appunto, nel paese di Pieve di Ledro, che rimane in ombra per quattro mesi all'anno, da novembre a febbraio. E' in ombra persino il piccolo cimitero, le lapidi allineate, su ogni lapide il ritratto di chi non c'è più e un mazzetto di fiori che appassiscono in fretta. E' in ombra la scultura ispirata al "Giuarol", il fabbro che fabbricava i chiodi per gli scarponi dei soldati, quando il Trentino apparteneva all'Austria di Francesco Giuseppe. In ombra il campanile della chiesa di san Giacomo, l'orologio, la cabina telefonica, i fienili e i vigneti, che riescono, quasi per una sorta di prodigio, a dare uve generose. Dagli inizi di novembre al principio di febbraio tutto e in ombra a Prè, paese di 200 abitanti, sito nella Valle di Ledro. Il sole come a Ponte di Nava, non ce la fa ad arrampicarsi sul costone, sul monte Corona, dal crinale che somiglia ai denti di uno squalo. E il monte diventa gendarme gelido di un baluardo insormontabile: per tre mesi il sole è molto desiderato e nello stesso tempo rimpianto, esso rimane l'immagine e il pensiero di tutta la popolazione del piccolo borgo. Nella nostra visita a Pieve di Ledro, la gente del luogo ci riferisce che le giornate sono lunghe e tutte uguali; tanti sono emigrati e tanti finestre sono rimaste sempre sbarrate. Alcuni sono pendolari senza rammarico, tutte le sere ritornano perché le loro radici sono in quel pezzo di valle, tra il cimitero, la chiesa e il Carona. C'è un silenzio irreale, interrotto dai rintocchi delle campane e dai vari echi che vengono da lontano. Abbiamo potuto constatare che effettivamente la cooperativa era l'unico esercizio pubblico nel centro storico, in quel centro buio e senza sole. Le persone con le quali abbiamo parlato e conversato a lungo, ci hanno riferito che: " Ci si abitua al silenzio, si impara a considerarlo un compagno inseparabile Passa Natale, passano Capodanno e l'Epifania.. Quando metà inverno è trascorso, la gente comincia a fissare la cima del monte, dove compare l'aureola chiara e poi chiarissima. E' il sole, il sole che si arrampica più in alto, e che, finalmente, sta per spuntare". Ecco l'appuntamento, il 5 febbraio, Sant'Agata, giorno che ha il senso di un compleanno e di un ritorno alla vita. C'è anche un proverbio di quelle parti che recita: " Per Sant'Agata il sole el cioca sula contrà"( Per Sant'Agata il sole batte sulla contrada). Quindi si spalancano le spalancano le finestre e porte e la gente festeggia in strada. Credetemi, è una vera festa molto sentita da quella popolazione, una festa tutta loro. Si ritrovano i giovani e gli anziani, nonni, figli e nipoti. Il vero protagonista è il sole vero; ma anche un sole fatto di polistirolo o da un foglio di masonite, che è appeso a un filo di ferro legato, da una parte, al campanile di San Giacomo, dall'altra parte è annodato al balcone della casa di fronte, e il sole si muove, lento e senza solennità, tra i cigolii di carrucole non oliate. Fioccano applausi di riconoscenza e di ringraziamento, mentre si distribuiscono frittelle e piatti di trippa, vino brulè e focacce fragranti appena sfornate. E' un rito che si tramanda da generazione e generazione con un finale di comici improvvisati che hanno fuggenti attimi di gloria, imitando i politici e i notabili del luogo, prendendo in giro il governo, pratica questa che è diventata luogo comune fra gli italiani, sia nelle trasmissioni televisive che nelle manifestazioni popolari come quella di Prè di Ledro, a cui la nostra storia si riferisce. Ricordo la primavera e l'euforia dell'estate, quando alle sette di mattina i ragazzi inondano il poggio. Sicuramente è un'altra vita e i cuori si riscaldano. In quel villaggio di montanari, di gente forte, d'estate ritorna chi ha scelto un orizzonte diverso, ma senza chiudersi la porta alle spalle. Il paese si riempie, c'è gente e certamente c'è allegria. Piano piano le giornate si accorciano, i destini degli uomini si dividono ancora ed è il momento degli addii, mentre nei cuori di quelli che rimangono ritorna nuovamente la malinconia, il desiderio e il rimpianto; ma c'è sempre la speranza di rivedere il sole sormontare il monte che diventa" gendarme" gelido e insormontabile. In quel tempo, i miei muscoli si erano irrobustiti e gareggiavano brillantemente con i miei colleghi nel percorrere ogni giorno chilometri e chilometri di strade montane. Il mio carattere si era adeguato ai luoghi e, a differenza dei primi tempi, vedevo che le montagne avevano un loro fascino particolare e che meritavano di essere scalate e percorse. Ogni giorno che passava, mi accorgevo che stavo diventando un vero carabiniere, capace di affrontare ogni fatica ed ogni rischio. Quando, dopo circa quattro anni, il Capitano Pietro Pecoraro, comandante della Compagnia di Mondovì, venne a visitare la stazione, forse ricordandosi dei miei lievi trascorsi amorosi e del cicchetto fattomi in occasione di altra visita allorché io; ero da poco arrivato in Ormea, mi disse: " Ora che sei un vero carabiniere, ora che ha compreso, a tue spese un altro aspetto del nostro molteplice servizio, ti chiamerò a Mondovì, per darti la possibilità di poterti dedicare allo studio con più facilità essendo Mondovì, la città degli studi per eccellenza, ove potrai trovare tutti gli indirizzi sulla scuola media superiore, che sicuramente avrai intenzione di iniziare, e anche per impiegarti nel mio ufficio, giacché so che conosci molto bene la dattilografia. Così fu. Lasciai Ormea. Salivo sul treno diretto a Ceva. Sbuffando il convoglio si mosse ed io con il cuore in pena diedi un ultimo addio ai colleghi che mi avevano accompagnato alla stazione e partii ...… Quando il treno si era allontanato parecchio volsi tristemente lo sguardo alla cittadina. Il bel campanile medioevale sembrava mi fissasse, con sguardo maternamente severo, il campanile sito sopra la chiesa posta sulla sommità che copriva tutta un'erta collina spinta a mo' di penisola, alla destra del fiume Tanaro, provai al cospetto dei monti, tante volte scalati insieme sulle tenebrose notti di tormenta, di vento, di pioggia e di freddo, di rimpianto e di riconoscenza nello stesso tempo. Il mio pensiero corse veloce, oltre che alla città, al ricordo di essa, alle sue donne, ebbene sì anche alle sue belle "tuse" cioè alle sue ragazze e alla ormai non più mia donna, ma senza dubbio di cari ricordi. Quelli erano i primi passi della vita di un giovane, direi guidato da mano sicura e ferma nel lungo cammino della sua lunga, anzi direi lunghissima carriera militare. Mentre il treno stava per arrivare alla nuova sede, quei pensieri, quei ricordi, quelle meditazioni, quel grande e primo amore mi fecero avvertire una stretta al cuore; una stretta però diversa e più dolce di quella provata nel lasciare Ormea, perché questa volta nulla la mia coscienza aveva da rimproverarsi - Tratto dal libro: "Brani di vita e appunti di viaggio" - Gli anni del soggiorno a Pisa di Giacomo Leopardi. Il risveglio delle passioni e dei sentimenti del grande poeta, nella città di Pisa. La storia della letteratura italiana, ci dice che Leopardi nel suo soggiorno pisano, provoca quasi un senso di stupefazione, come del resto è successo anche a noi, nella nostra luna di miele. Ci si domanda come il Poeta riuscì a vivere una vita, così piena, durante i mesi trascorsi nella città di quei lungarni che trovò più belli di quelli di Firenze. Città, per lui, prototipo di paesaggio romantico perché mista di villereccio e cosmopolitismo, che al contempo offriva rovine byroniane della latinità e della repubblica marinara, greggi a pascolare sotto le mura e una babele di lingue (tra dieci o venti, sostiene di averne sentite, passeggiando per la città), noi possiamo dire molte , molte di più, provenienti da tutto il mondo, per ammirare le bellezze della città e, soprattutto, della famosa e bellissima Piazza dei Miracoli. In effetti, in quegli anni Pisa era un crogiolo di gente e di culture: la cospicua comunità greca, i russi ortodossi, gli Ebrei, irredentisti di vari Paesi, gli esteri inglesi che avevano eletto Pisa a meta del Grand Tour. A Silvia fu composta nel suo appartamentino di Via della Faggiola, se mai sorgessero dubbi che il " Risorgimento" dei più struggenti sentimenti leopardiani avvenne proprio a Pisa. Alcuni straordinari manoscritti ( fra cui proprio A Silvia) e decine di immagini di quell'anno leopordiona, oltre a numerosi saggi dei maggiori studiosi del Poeta, da Franco Brioschi a Marco Santagata, da Luigi Blasucci a Sergio Romagnoli ( e mi scuso con tutti gli altri se non posso fare un elenco completo). Per seguire questa convergenza tra forza poetica e tensione conoscitiva è necessario affrontare quei tempi essenziali che hanno portato Leopardi, nelle diverse fasi della sua opera, ad approfondire e a sentire fino in fondo le laceranti contraddizioni della condizione dell'uomo, del suo rapporto con la natura, del suo costituirsi in società e la resistenza estrema di "esserci", alla ricerca di una voce, di una presenza, di uno scambio vitale. Oltre a quello del rapporto finitudine infinito, vengono seguiti i temi del riso, della natura, dell'amore, della notte, del mito, del nesso tradizionale/ imitazione: muovendosi tra i "Canti", le "operette morali", lo " Zibaldone" e altri scritti, si nota che Leopardi mostra ( e non solo per via teorica, ma facendone parte viva della propria esperienza mentale e corporea) come la contraddizione sia per l'appunto un dato costituito dell'esistenza, di ogni valore e di ogni rapporto definito della mente umana, di ogni costruzione sociale e di ogni tentativo di capire l'universo. Da una parte la vita appare priva di senso, tutti i valori che a essa attribuiamo appaiono illusioni, la felicità è solo assente in un mondo che è solo dolore: ma dall'altra ci si ostina a capire e a vivere fino in fondo questa mancanza di senso, a invocare quella felicità da sempre perduta, a difendere la verità e a distinguere ciò che vale da ciò che non vale.. Basta ricordare un famoso pensiero dello " Zibaldone" del 22 aprile 1826, descrizione di un giardino la cui bellezza sorge dalla sofferenza di tutti gli esseri che in esso vivono, che rivela il dominio assoluto del male e la crudeltà assoluta della natura, ma nello stesso tempo indica una " fraternità" del patire, " chiama a una partecipazione che strazia": Anche il Leopardi più radicalmente " negativo" distingue tra una natura "nemica" e artefice di male e una natura che patisce, che subisce, che si ribella al male. Inutile ripetere che questa distinzione dovrebbe correggere o almeno sfumare ogni assunzione del pensiero di Leopardi sotto l'etichetta di un puro nichilismo. Questo senso della contraddizione agisce vigorosamente in tutta l'analisi che Leopardi fa della vita di relazione ( a cui è dedicato anche il " Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani"): è oggi avremmo davvero bisogno di prestare più attenzione alla sua spietata denuncia dei condizionamenti reciproci tra gli uomini, degli effetti dello "sguardo altrui" sui comportamenti e sui modelli mentali, degli artifici deformanti e delle derive che costituiscono e corrodono il nostro stare insieme. Giulio Ferroni così scrive, in un suo articolo, apparso nella pagina culturale del Corriere della Sera, su questo tema:" Si sarà ministeriali e "buonisti" se si ripeterà che questo pensiero sociale così "negativo" comporta entro di sé la ricerca di un possibile equilibrio " civile"? Se si ricorda che esso indica la strada di una cultura della responsabilità e della coscienza, di una "cara", per quanto disillusa degli errori, degli inganni, dei disastri, che gli uomini sono abituati ad aggiungere a quelli della natura? Io credo che abbiamo più che mai bisogno di essere leopardiani, oggi che "il brutto/ poter che, ascoso, a comun danno impera", assume le sembianze ingannevoli della virtualità e del consumo totale, di "magnifiche sorti e distruttive". Lo so, che questo intermezzo leopardiano, per la suo atteggiamento più combattivo di fronte alla vita e più solidale nei confronti della società, ma con la sua poesia dal pessimismo individuale , non sono molto entusiasmanti, per una coppia in viaggio di nozze, che non vede altro che la bellezza e l'amore nel loro cammino e non la tristezza e il pessimismo del grande Poeta. Ma tutto questo fa parte della storia di questa meravigliosa città, che ci ha ospitato. La nostra permanenza, in quella città a noi cara, durò alcuni giorni, il tempo necessario per poterla visitare nella sua interezza. Non c'è stato angolo pittoresco e storico e monumento che non sia stato visitato ed ammirato, da noi semplici turisti, innamorati e pieni d'entusiasmo, vigorosi e giovinezza. La nostra seconda tappa era Roma, città eterna. - Tratto dal libro: "Brani di vita e appunti di viaggio" - Ci troviamo in un mondo di longevi. Percorrendo in lungo e in largo i sentieri dolomitici, i villaggi e le città europee come Vienna, Barcellona e Venezia, senza parlare dei grandi Parchi Nazionali degli Stati Uniti d'America, dei deserti dell'Arizona, dello Iuta e dei Gran Canyon, dove sembra che il mondo si è fermato al giorno della creazione, dovunque abbiamo incontrato moltissime persone anziane come noi, assetate di vedere e conoscere le bellezze naturali ed artistiche. A questo punto c'è da chiedersi: questa filosofia della vecchiaia, così pasticciona, è giusta o sbagliata? Domanda difficile. A questa domanda risponde Arrigo Levi, in una intervista rilasciata al giornalista Gaetano Afeltra. " La verità è che fino a cento anni fa, non s'invecchiava, si moriva giovani. Sopravvivere fino a tarda età era miracoloso. Essere anziani voleva dire, oltre ad essere rispettato e venerato, venire considerato il depositario di esperienze, di conoscenze del mondo, di memorie custodite e di segreti sconosciuti ai giovani. L'anziano aveva nella testa quello che oggi si direbbe una "banca dati". Da una cosa però ci si deve guardare: non lasciarsi tentare dal "giovanilismo", anche se la nuova terminologia di "terza età" è solo un eufemismo che aiuta ad allungare il percorso prima di arrivare al traguardo della vecchiaia. La solfa è la stessa: non si usa più la parola "vecchiaia", come non si usa più spazzino, ma operatore ecologico. Una volta, prima di questa riforma linguistica ( si fa per dire), l'uomo passava dall'operosa maturità alla vecchiaia: Poi con la "terza età" si è aperta una nuova stagione quando l'attività lavorativa si protrae oltre i consueti limiti: è un'eccezione che riguarda persone che hanno avuto successo nella loro carriera, nella loro professione, arte o mestiere che sia. Si può essere bravi carpentieri, bravi giornalisti, bravi artigiani, bravi avvocati o dentisti. Ma fino a quando? Viene il momento in cui, per bravo che tu sia e continui a essere, qualcuno dietro di te incomincia a spingere per farsi avanti e, spinta dopo spinta, tende cortesemente a mandarti fuori strada." Lo scrittore Arrigo Levi ha scritto un libro in questi ultimi tempi, con il titolo: " Non parliamo di vecchi nel tempo dei longevi". " Suvvia ragazzi: un po' di pazienza. Anche la " vecchiaia può attendere" dice Levi: questo non toglie che c'è sempre un certo giorno in cui senti bussare. Chiedi: chi è che bussa? E lei risponde: "la vecchiaia". Allora improvvisa e misteriosa, si affaccia la malinconia. " Forse" conclude Levi, è la nostalgia di cose perdute o la paura di perderle". Ecco la risposta al nostro interrogativo, perché incontriamo ovunque noi andiamo tanti anziani come noi? Per ritrovare le cose perdute ,per ritrovare noi stessi, un po' della nostra stessa vita e la gioia di vivere, per ritrovare quelle cose alle quale abbiamo dovuto rinunciare, perché eravamo attaccati al nostro lavoro, alla nostra attività, al nostro dovere e un giorno, che cosa leggi in un articolo sul "Corriere della Sera", del 5 marzo, con il titolo " Sinisi scatena la rivolta dei marescialli dei Carabinieri". "Il Sottosegretario: piccoli comuni rifugio per carabinieri in tranquilla attesa della pensione". Come migliaia e migliaia di altri miei colleghi, leggo e rileggo la notizia, incredulo. Poi ripensandoci sopra, penso che si tratti di uno sbaglio del sottosegretario. Deve essersi sbagliato. O magari è stato fra inteso: non posso credere che un sottosegretario dell'Interno parli così dei marescialli, delle stazioni periferiche, dell'Arma dei carabinieri: noi siamo le cellule vive delle istituzioni. Il baluardo dei paesi. I custodi della legalità. Il mio collega Salvatore Careddu, così commenta l'accaduto: " Il sottosegretario Giannino Sinisi mi deve credere: quando si indossa, la divisa dell'Arma si incolla alla pelle". Nel 1984 siamo andato in pensione, ma per tre anni abbiamo chiesto di rimanere al nostro posto di lavoro, nonostante avessimo raggiunto il limite massimo. Ancora adesso, come moltissimi altri miei colleghi, siamo rimasti nei paraggi. Ancora adesso qui a Campitello, la gente sa dove abito e viene a chiederci consigli, come pure al "Bar Sport, dove .andiamo tutti i giorni a leggere i giornali e fare quattro chiacchiere con gli amici campitellesi. Lasciamo quest'argomento spiacevole e ritorniamo a parlare della "terza età". Non ci siamo mai chiesti quando incomincia la vecchiaia? L'articolo di Gaetano Afeltra, incomincia così: Per Sandro Pertini mai. Nel luglio del 1978, quando a Montecitorio, dopo giorni di votazioni nullo e per le elezioni del presidente della Repubblica, i socialisti presentarono la candidatura del "vecchio compagno" Sandro Pertini, "che noi conoscevamo da molti anni prima che diventasse presidente della Repubblica e, che conserviamo nella nostra teca, quale cimelio una sua pipa ricordo," egli, irato, a Giuliano Vassalli che gli era accanto disse: " Compagno sì , ma vecchio no. Io sono longevo" La parola vecchio l'imbestialiva. Pertini aveva ottantadue anni. E quando, a conclusione del settennato, già vicino ai novanta, si aspettava la riconferma, a chi gli faceva osservare lo scoglio dell'età, ripeteva: " L'età non conta: io sono longevo" E tale fu la delusione di non essere riconfermato che abbandonò il Quirinale con un gesto di rabbia qualche giorno prima della scadenza del mandato. Noi, nella nostra non verde età, ci stiamo comportando come scrive Arrigo Levi nel suo volume sulla vecchiaia appena uscito da Mondadori. Ovvero l'arte di restare giovani. Levi, intellettuale che ha girato il mondo, capita ogni tanto di abbandonare il rigore dell'editorialista di politica estera, per dare sfogo al suo carattere emiliano, occupandosi con ironia, ma anche con grani di saggezza, come nel libro citato, di questioni di costume. Quello però che per la maggior parte delle persone resta drammatico è l'addio al lavoro. Andando in pensione o accettando il prepensionamento, c'è chi vede avvicinarsi al galoppo la vecchiaia, le ore vuote, le tristi passeggiate della solitudine; e chi invece non sogna altro. Ma bisogna arrivare alla soglia della pensione facendo dei progetti per l'avvenire, crearsi degli hobby, delle amicizie e fare come facciamo noi. Noi ci siamo iscritti al CAI ( Al Club Alpino Italiano), a questa grande famiglia di escursionisti. In quest'organizzazione, abbiamo scoperto la vera amicizia. Noi abbiamo scoperto tutto questo quasi al tramonto della nostra vita. Non è che prima non conoscessimo il valore intrinseco di questo sentimento che è dentro nella natura stessa degli uomini, nell'intimità dell'animo umano, ma essendo militari era naturale che i nostri rapporti dovessero mantenersi sempre su di una linea tale da permetterci di conservare ognora quell'indipendenza che è necessaria al tutore dell'ordine e della legge. Oggi che abbiamo lasciato il servizio attivo è tutto cambiato, non ci sono più quelle esigenze di carattere militare, con quella particolare posizione e quella indipendenza che era necessaria al tutore dell'ordine e della legge. Da quando abbiamo scoperto la montagna, abbiamo scoperto dei canali unici per conoscere individui che hanno la medesima tendenza. Camminando insieme ci si accorge che, indipendentemente dalla professione che ciascuno svolge, si hanno gli stessi sentimenti, si hanno delle comunanze tematiche. Abbiamo compreso che non c'è differenza tra vecchi, giovani e anziani. Si vive un'atmosfera che consente all'anziano di vivere i tempi passati ed al giovane di stare con l'anziano e già prefiggersi il suo futuro. Tutto questo affina lo spirito ed abitua i giovani ad aver sempre il culto della natura. Camminando con questi uomini ci siamo accorti, giorno dopo giorno, di aver scoperto la vera amicizia. Dopo questa premessa, veniamo ai nostri hobby. Prima, molti anni prima, che giungesse la fatidica data della collocazione in quiescenza, abbiamo incominciato a crearci degli hobby, per primo abbiamo scoperto la pittura, che ci ha dato molte soddisfazioni, creando sulle nostre tele tante finestre aperte sulla meravigliosa natura che ci circonda, poi venne il momento di modellare l'argilla. E' meraviglioso vedere la trasformazione della materia sotto l'azione tattile e nervosa dei polpastrelli, che le conferiscono una grande sensibilità a contatto con la materia stessa e, piano piano, ti accorgi che la forma suggerita dalla fantasia, prende forma e si trasforma in una piccola e deliziosa opera d'arte. Nel procedere nelle arti figurative con la pittura e la scultura, è nata in noi la grande passione dello scrivere o crediamo e tentiamo di farlo. Lo scrivere giova al nostro animo, lo svilupparsi articolato dei ragionamenti nei paragrafi che si richiamano e concatenano il periodo. E specialmente ci giovano le lettere, minute ed ordinate che appaiono sul monitor del computer. Esse materializzano la orditura del nostro ragionamento, le danno forma estetica e ci consentono, in una rete di richiami sotterranei, di rintracciare le fonti delle nostre certezze. E' come se secoli di storia e di cultura lasciano ai loro frammenti il permesso di incontrarci in quella successione di lettere che si vanno disponendo sul video . Penso con sollievo a quanto lontano da questi segni alfabetici si trovano i disordinati richiami della natura, con le emozioni e le irrequietezze che essi si portano dietro. La stessa cosa mi succede quando, nel mio piccolo studiolo, mi dedico alla pittura. - Tratto dal libro: "Brani di vita e appunti di viaggio" - Boves i fantasmi nel bosco Era sicuramente un periodo transitorio, sia della politica che delle altre forme istituzionali. La guerra era finita da pochi anni, e nell'aria si sentivano ancora gli echi di quel passato prossimo, con quell'eterna paura. A Boves, sempre nella provincia di Cuneo, a margine della pianura a Sud Ovest del Capoluogo piemontese, rinomata per le sue acque radioattive e per le sue origine romane, nonché per la resistenza nel 1944 -45 contro i tedeschi durante l'ultimo conflitto mondiale, venne distrutta da questi ultimi. Per questo motivo la città è stata insignita dalla medaglia d'Oro al valor militare. Alla periferia di questa città martoriata, di questa città risorta, di questa bellissima città piemontese, in mezzo ad una macchia cespugliosa tra le sue colline, vi era ubicata una polveriera militare. A guardia di questo deposito militare, concorrevano a turno, due plotoni di fanti del Presidio Militare di Cuneo. Da un po' di tempo, all'interno della polveriera, specie di notte, si verificavano delle improvvise sparatorie di cui non si riusciva a capire la causa. Il Comando del Gruppo Carabinieri di Cuneo, ha avuto l'incarico di scoprire l'origine e la causa. E' stato istituito un piccolo nucleo di carabinieri, vestiti da militari dell'Esercito, con lo stesso armamento ed equipaggiamento e dotazioni individuali, ed aggregati al Presidio Militare, affinché esso ne disponesse l'impiego. A quel nucleo facevo parte anch'io. E' stata una esperienza anche quella interessante, non posso dire bellissima, ma quando si anno 20 anni, non esistono ostacoli di sorta. Gli esperti militari temevano qualche attentato, in quel momento poco felice, e dubitavano che all'interno, fra i militari di leva ci fossero degli elementi provocatori, quindi, noi dovevamo scoprire tutto questo. Dopo due mesi circa, della nostra aggregazione a tale reparto, abbiamo potuto constatare che non esisteva nessun elemento provocatore e neppure alcuna preparazione di sabotaggio, era soltanto la paura di quei giovani militari di leva. Ad ogni fruscio delle fronde degli alberi, provocato dal vento oppure da altri elementi naturali, i militari di guardia perdevano la testa e si mettevano a sparare. Il nostro rapporto è stato determinante. Per un periodo di tempo, forse tre o sei mesi, non ricordo con precisione, la guardia alla polveriera di Boves è stata effettuata da un semplice plotone dei carabinieri. - Tratto dal libro: "Brani di vita e appunti di viaggio" - Alla scoperta di Picasso. Per caso, passando davanti al Palazzo Grassi, abbiamo notato che il grande portone di rovere era aperto e un grosso tabellone indicava l'apertura della mostra del grande pittore: "Picasso 1917 - 1924 è dedicata la grande mostra, dal I° marzo al 28 giugno." Quello era il primo giorno, infatti era stata inaugurata poche ore prima. Non vi era una gran folla, soltanto i critici, le autorità e le persone invitate. Ci siamo accodati ai fotografi e ai giornalisti, come se nulla fosse, alla chetichella, senza dare nell'occhio ci siamo confusi agli invitati ed abbiamo raggiunto le sale della mostra al piano superiore. Nessuno ha fatto caso, non ci hanno chiesto neppure l'invito e tanto meno il biglietto d'ingresso. Appena ho visto il primo quadro, ho compreso che si trattava di una mostra retrospettiva del più grande artista del '900. Alle radici della pittura antica e degli archetipi di ogni immagine occidentale. Quella mostra, sicuramente per dire addio alla dittatura del cubismo. Il primo quadro che abbiamo visto è stato quello delle "bagnanti" (1918), il secondo quello del Sipario per il balletto di "Parade" (1917), il terzo: Progetto di sipario : Arlecchino sulla pista con ballerina e stalliere (1920), poi il meraviglioso quadro delle "Due donne che corrono sulla spiaggia. (1922), per ultimo abbiamo ammirato moltissimo la "Maternità, (1921). Nel quadro del suo periodo blu, intitolato La vita del 1903, Picasso ha dipinto, questa figura di donna. Tiene in braccio un bambino addormentato con un gesto che sembra voglia difenderlo da qualche male incombente. E' molto magra, emaciata. E' una figura melanconica, e ispira malinconia. In questo dipinto, è come se Picasso mettesse in scena quello stesso " patetico dei poveri" cui certa poesia del tempo aveva ricorso molto spesso anche per dare una concretezza morale alle proprie pulsioni decadenti .( E all'origine c'era la grandezza veramente tragica di Baudelaire),come scrive Emilio Tadini in un suo reportage su Picasso e la sua mostra veneziana, pubblicata sulla rivista "Sette" del Corriere della Sera". "Confrontiamo quella maternità del 1921 con questa, dipinta dopo il soggiorno in Italia, in pieno periodo classicheggiante. Ogni ombra di malinconia è svaporata, dissolta, dimenticata. E lo spazio di periferia assoluta e senza tempo che si apriva nel dipinto del periodo blu si è fatto spazio localizzato di un interno borghese. Una comoda poltrona. Ha membra solide e robuste, questa donna. E solito e robusto è il corpo del bambino. Nessuna astrazione. Il bambino gioca, stringendo il mento della madre. E la madre è data ai suoi gesti affettuosi, al gesto del braccio destro che sostiene il bambino, al gesto del braccio sinistro, che posa perché il bambino possa, a proprio agio, appoggiarvi il suo piccolo piede. E come se niente potesse insidiare la serenità di questo momento. La maniere classicheggiante, davanti i nostri occhi, si mostra destinata a enfatizzare un clima di forza serena, quasi di invulnerabilità. Ma, forse, alla fine, e proprio nell'enfasi a farci provare un minimo di turbamento, una sensazione di lontananza." La lettura del quadro " Il flauto di Pan, 1923. Il nudo di questi due personaggi è ben diverso dal nudo dei saltimbanchi del periodo blu e rosa. ( Il confronto è ancora indispensabile), e Emilio Tadini, ci da una spiegazione esatta e convincente. Egli così scrive: " Quello era un nudo che figurava una condizione di dolorosa vulnerabilità, di miseria inconsolabile. Questo, ostenta bellezza, forza, equilibrio. Forme architettoniche essenziali, una gran lice, il mare. Siamo in qualche astratta antichità, come sembrerebbe suggerire il flauto di Pan? O siamo ai nostri tempi, come sembrerebbero suggerire le mutandine da bagno? Cerchiamo di pensare, per un momento, il corpo, quale Picasso lo ha raffigurato nei primi due decenni del secolo. Dalle figure melanconiche dei primi periodo alle figure profetiche, animate da una vitalità addirittura terribile nelle maschere nere delle Demoiselles d'Avignon, alle figure in disfacimento del cubismo " sintetico". E adesso, durante e dopo il viaggio in Italia? Adesso, questi modelli classicheggianti è come se si sforzassero di interpretare una immagine rassicurante del "vero". Una forma conciliata del soggetto. Ma è come se dire "io", con la certezza di evocare una entità identificabile in modo chiaro e distinto, fosse sempre più difficile. Anche in pittura, come in letteratura, come in musica. Qualcosa si è spezzata, nel mondo. Qualcosa è andata in crisi. Questo dipinto, in realtà, è la finzione di una finzione. Una scena di teatro, delimitata da due quinte, con sul sfondo un mare da scenografo. A partire da un futuro prossimo, Picasso abbandonerà la maniera - l' illusione - classicheggiante. Solo frammenti ne riemergeranno, ogni tanto, come resti per archeologi. E Picasso si darà a un esercizio di variazioni sul tema della figura. Quasi furiosamente, si accanirà su quel corpo immaginario, con un desiderio ansioso e con una violenza possessiva ogni volta elusa, delusa. Mostrerà, nei suoi dipinti, l'evidenza di una impossibilità. L'impossibilità di figurare una immagine stabile, identificabile, del corpo, della faccia dell'uomo: del soggetto. A dire "io" sarà soltanto la pittura. Nove anni fa, cioè nel 1989, in un'altra escursione a Barcellona, nella Catalogna, come ci tengono a specificare i barcellonesi, abbiamo visitato una grande mostra, che Barcellona aveva dedicato al grande artista del 900. Non dimenticherò mai la ricchezza di quella mostra, che abbracciava diversi periodi della sua pittura, da quella rosa a quella blu, dal cubismo al surrealismo, dall'impressionismo alle radici della pittura antica. Tutte le opere che abbiamo visto esposte a Palazzo Grassi, li abbiamo ammirati a Barcellona, come pure il sipario di Parade. Quella è un'opera strepitosa, inspiegabile e fuori del tempo. Cavalli alati, arlecchini distratti e fanfaroni baffuti, dialoganti in un pomeriggio aperto davanti a un vulcano che potrebbe essere il Vesuvio, ci portano nel periodo puro, geniale capriccio della rappresentazione contemporanea. Il quadro più bello che abbiamo potuto vedere in quella occasione, è stato quello della morente, sul letto di morte , assistita amorevolmente dal medico curante. Quello è un quadro della prima maniera di Picasso, è un'opera strepitosa e fuori del tempo, un quadro che esprime tanta umanità e tanta forza espressiva. Quando siamo usciti dal meraviglioso Palazzo Grassi, gli ultimi raggi del sole illuminavano la meravigliosa facciata della Basilica di San Marco, con Adriana ed altri due nostri amici occasionali, di quelle persona che s'incontrano durante le escursioni di un luogo o di un museo, ci siamo seduti ad un tavolino del prestigioso caffè Florian, dove era solito fermarsi il presidente Sandro Pertini, quando si recava a Venezia, per sorbire una tazza di quel delizioso caffè. Ero seduto quasi di fronte alla Basilica ed ammiravo gli stili architettonici e decorativi occidentali e orientali, che sono uniti per creare uno dei più spettacolari edifici d'Europa. Ammiravo con grande attenzione lo splendido edificio, dove il suo splendore orientaleggiante ai tesori giunti dai territori d'oltremare dall'impero veneziano, si fondevano con la luce del tramonto, formando una incomparabile scenografia. Tra questi tesori spiccavano le celeberrime copie in bronzo dei cavalli portati da Costantinopoli nel 1204, colonne opulente, i bassorilievi e i marmi colorati che costellano la facciata. Mosaici di epoche differenti adornano i cinque portoni, mentre il portale principale è incorniciato da bassorilievi italiani del periodo romanico (1240 - 65). Abbiamo appreso che San Marco e gli Angeli: Le statue che sono ubicate sopra l'arco centrale sono un'aggiunta dell'inizio del XV secolo., mentre la cupola della Pentecoste mostra la discesa dello Spirito Santo sotto forma di colomba. Fu la prima cupola a mosaici. Un pieghevole sulla Basilica di San Marco, ci informa che è la terza chiesa ad essere stata eretta in questo luogo. L'attuale Basilica è costruita a croce greca e con cinque enormi cupole. La prima chiesa, costruita nel IX secolo per custodire il corpo di San Marco, fu distrutta in un incendio. La seconda fu abbattuta per fare posto ad una chiesa confacente alla crescente potenza di Venezia. Quella attuale, ispirata alla chiesa degli Apostoli a Costantinopoli, fu completata e decorata nei secoli. Dal 1075 tutte le navi che tornavano dall'estero avevano l'obbligo di portare dei doni preziosi per adornare " la Casa di San Marco". I mosaici sono per la maggior parte del XII e XII secolo e coprono una superficie di 2440 mq. Alcuni furono poi sostituiti da opere del Tiziano e Tintoretto. Fino al 1807 San Marco fu la cappella privata del doge, usata per le cerimonie di stato; poi divenne la cattedrale di Venezia. Dopo di aver sorbito l'ottima tazza di caffè al Florian, abbiamo deciso di visitare la basilica. Il magnifico interno è ricoperto di splendidi mosaici, che iniziano nel nartece, cioè nel vestibolo, o atrio della basilica, e che culminano negli scintillanti pannelli delle cupole della Pentecoste e dell'Ascensione .Nell'atrio, la cupola della Genesi vanta una straordinaria "Concezione del Mondo" descritta in cerchi concentrici. Abbiamo notato che anche il pavimento è decorato con mosaici in marmo e vetro. Dall'atrio alcuni gradini concludono il Museo Marciano, dove sono custoditi i famosi cavalli della basilica. Tra li altri tesori, sono degni di nota la Pala d'oro, incastonata di gioielli, posta dietro l'altare, e l'icona di Nicopeia: Quest'icona bizantina, trafugata nel 1204, è una delle immagini più riverite di Venezia. - Tratto dal libro: "Brani di vita e appunti di viaggio" - A mie spese Come ho appena detto, nel capitolo precedente, dalla Scuola Allievi di Bari, appena promosso carabiniere mi assegnarono alla Legione di Alessandria e da qui, alla Stazione di Ormea. Ridente cittadina dell'alta Val Tanaro, poco lontana dalla ridente Mondovì, c'era un mucchio di belle ragazze che, per giunta, avevano una speciale predilezione per gli appartenenti all'Arma. Era il 15 agosto ed i primi colori di un precoce autunno cominciavano a farsi notare. La cittadina di Ormea con contava 4500 abitanti, compreso le varie frazioni, era ubicata in una bellissima valle, la Valle Tanaro, fiancheggiata da alte montagne confinante ad Ovest con il Colle di Nava ed il suo valico a quota 934 metri sul livello del mare, nelle Alpi Marittime. Essendo un paese prettamente turistico, la sera, verso le 20, frotte di "tuse", signorine per chi non è mai stato in Ormea, sciamavano puntualmente, come soldati in libera uscita, dalla cento viuzze della cittadina, riversandosi sul lungo Tanaro per la consueta passeggiata. Per tre ore di seguito, fin verso le ore 23, centinaia di persone, in gran parte appartenenti al gentile sesso, percorrevano senza sosta, avanti e indietro e tenendosi a braccetto in fila di 3 -4, un breve tratto di strada costeggiante il fiume, che quasi timidamente al cospetto di tanta grazia, faceva udire il suo lieve mormorio, frangendosi contro le rocce su cui la strada poggiava. Io, nuovo del luogo e delle usanze, passeggiavo stupito con il mio collega Mario Cherci, ne ricordo il nome ancora, che più anziano di me di qualche mese appena, mi aveva preceduto appunto da qualche mese solo dalla Legione Allievi di Torino a quella di Alessandria. Si dava l'aria di vecchio volpone lui ed alle mie esclamazioni di meraviglia nel vedere un si andirivieni di giulive, quasi invitanti, signorine, rispondeva lui pugliese, il che tutto dire… con una certa sufficienza. Eh, caro, come si vede che non ti sei mai mosso dal tuo piccolo paesello Calabrese, qui è così, anzi questa sera, forse perché soffia un Po di brezza il passeggio è meno affollato del solito. "Ma dimmi un po' " facevo io "com'è che gli uomini sono pochi e le donne tante? Ti ho già detto che tutte queste ragazze sono la maggior parte villeggianti. Eppure ci sarebbe tanto da dire su queste ragazze. Ma non vedi che portamento, che? .. che carnagione soda, abbronzate, che gambe, che fianchi … perfetti, che busti, che capelli folti, lucenti quasi resi vivi dalla bell'aria montana? Te l'ho già detto. Questo è un paese, anzi un paradiso terrestre. Io non so da dove incominciare. Ho due o tre ragazze per le mani, una più bella dell'altra, devi sapere … Scusami - l'interruppi io, conosci per caso questa bella bruna che viene verso di noi? Ecco questa in mezzo. Guarda che sembra una santa: che occhi, un'immagine. Ah .. si. L'ho vista qualche volta a passeggio. Mi pare che abiti là in via Nazionale Monte, in quell'albergo che adesso e chiuso, a fianco di quella villa bombardata dai francesi nell'ultimo conflitto mondiale, la vedo quasi tutte le mattine che fa pulizia alle camere. Ritengo che sia una brava ragazza e anche seria. Tornai in caserma quella prima sera di permanenza Ormegese, con la testa confusa e con nel cuore qualcosa di indefinito. Non mi coricai: non ne valeva la pena, dato che ero comandato di servizio - nel turno - 0 - 4 - con un appuntato piemontese di cui ancora ricordo il nome, un certo Giovanni Rossi, il quale mi disse che ci teneva al servizio e che lo faceva a puntino. Mi svestii, e lentamente indossai l'uniforme di perlustrazione. Poi siccome mancava ancora parecchio alla mezzanotte, mi affacciai alla finestra della mia caneretta che dava sul fiume Armela affluente del Tanaro. In quel momento la luna spuntava da dietro la sagoma dentata della montagna che sovrastava la vallata. I primi raggi riflettevano attraverso gli alti olmi della piazzetta, che facevano corona al piccolo monumento ai caduti, che si riflettevano a sua volta nell'Armela muta e pur viva che, increspandosi leggermente pareva solleticata dall'insolito chiarore. Anche i tetti della cittadina incominciavano a rischiararsi ed a formare zone di pallida ombra. Il mio sguardo, ancora inesperto della ubicazione cittadina, vagava verso l'agglomerato urbano e cercava quella villa bombardata. Stavo per orizzontarmi e già la mia mente fantasticava su ciò che in quel momento stesse facendo colei che mi aveva colpito. Mi avrà notato? Penserà a me? mi dicevo. Come corrono gli innamorati! quando il campanello del portone della caserma squillò secco, facendomi quasi sobbalzare. Era l'appuntato che, puntualissimo giungeva per intraprendere il servizio. Indossai la bandoliera, misi il berretto in testa, adattai il sottogola, afferrai il mitra, di corsa scesi le scale. Comandi appuntato, feci presentandomi al superiore. Durante le quattro ore che a me parvero assai lunghe, il graduato mi parlò molto del servizio e delle mancanze da cui dovevo rifuggire, prima fra tutte le relazioni amorose. Ma chi ascolta i saggi consigli di un vecchio appuntato? Feci anzi di tutto per avvicinare, nei giorni successivi, la dea fatata e riuscì ad iniziare con essa una relazione amorosa che, pur rendendomi follemente felice, mi faceva vivere in un'ansia continua, logorandomi piacevolmente, ma inflessibilmente. Tale era il tormento causatomi dalla relazione peraltro non consentita a me giovane carabiniere, che poco o nulla mi avvedevo dalle attrattive e delle comodità che Ormea offriva: clima magnifico, territorio molto vasto e pittoresco, incantevole posizione montana, negozi di ogni genere, superiori molto bravi, colleghi fra cui regnava una reciproca armonia, popolazione progredita, affidabile ed ospitale. Ma io nulla gustavo o vedevo all'infuori di quella ragazza bruna che con la sua femminilità, mi procurava, insieme momenti di soave ebbrezza e sofferenza non comuni. Confesso che la sua rete cominciava ad essermi di qualche impiccio, ma come rinunciare alle calde braccia di una si bella creatura? Quasi ogni sera la vedevo e certi suoi modi di fare, certi suoi gesti, il suo sguardo ancora ho presente. Il comandante di stazione - maresciallo maggiore Roberto Rossi, che non era un fesso, seguiva il mio comportamento ed un bel giorno, mi invitò nel suo ufficio e senza tanti preamboli mi dissi che non potevo più rimanere ad Ormea e che dovevo " cambiare aria" e, forse, essere punito. Rassicurai il comandante, promettendogli che avrei messo la testa a posto e che non avrei più rivisto quella ragazza. Infatti, così feci. Nei giorni che seguirono, iniziai un corso di studi, sotto la valente guida del prof. Romano Valenti, preside della scuola media " Carducci" di Garessio, un comune a 10 chilometri da Ormea. Nella sessione estiva, dell'anno successivo, ho sostenuto gli esami di licenza media, riportando degli ottimi voti e quindi guadagnandomi anche una licenza premio. Con quella ragazza, non è che ci siamo lasciati così bruscamente, ma siamo rimasti ottimi amici e di tanto in tanto ci vedevamo in gran segreto. Sicuramente non era più quell'amore folle e pazzo, ma una sincera e grande amicizia. Anche il comandante fu contento di quella mia promozione e nel formularmi gli auguri, tra l'altro, mi ha confessato, che gli avrebbe dispiaciuto perdermi in quanto aveva compreso che ero - lo diceva lui - un bravo ragazzo intelligente e che, mettendo la testa a posto, sarei potuto un giorno diventare un bravo sottufficiale. Doveva però constatare che la strada su cui mi ero incamminato appena all'inizio della mia carriera era del tutto errata. Non mi scoraggiai, comunque, e riprendessi la retta via, come del resto avevo iniziato, ritornando sui vecchi banchi di scuola. In quella bella valle, dell'alto Val Tanaro, ci sono rimasto quattro anni. Si può dire che avevo iniziato una nuova vita, fatta di lunghissime perlustrazioni, di notte e di giorno fra gente, specie nella lontana frazione di Carnino e Viozzene, sulle montagne delle Alpi Marittime, al confine con la Francia, con la quale non si poteva scambiare neppure una parola, perché poco o nulla capivo del loro dialetto - un patuà -.ostrogoto, incomprensibile. Da Ponte di Nava a Viozzene è una valle stretta, chiusa e avara. La sua storia è una storia di sofferenze e di miseria. Lassù, tra il Pizzo di Ormea, il massiccio del Marguareis, il Redentore, a quota 1600 metri sul livello del mare, nasce il maggiore affluente del Po, il Tanaro, nelle Alpi Liguri e quelle Marittime, al confine italo - francese, territorio, in buona parte compreso nella nostra giurisdizione. Durante l'ultima guerra mondiale, quella era zona di operazioni. La popolazione rimase nei loro villaggi, nelle baite a custodire il bestiame e a coltivare qualche piccolo campo di patate. Oltre a questo tubero, a quelle altitudini non si produce altro. Quando non c'era la strada, perché la carrozzabile è stata costruita dopo, nel 1948, la gente scendeva a Ponte di Nava lungo sentieri impervi, " per capre". Non c'erano nemmeno gli animali da soma e gli uomini, calzando pesanti zoccoloni, si caricavano sulla schiena i pochi prodotti della terra, erbe, patate, povere cose del bosco, e li vendevano, anzi li scambiavano con altri generi alimentari per la loro sopravvivenza. Più tardi, come ho accennato sopra, fu costruita la strada carrozzabile, non per portare una comodità a quelle popolazioni, ma per sfruttare e portare a valle il legname del grande bosco secolare del "bosco nero", così era chiamato: bella, panoramica, suggestiva, ma scolpita nella roccia friabilissima. Curve, contro curve e continue frane. Quando questa era interrotta, bisognava fare come prima, percorrere i vecchi sentieri insidiosi e ripidi fino a Viozzene e di qui sulla cresta dei monti fino a raggiungere Carnino, altra piccolissima frazione, appunto, alla sorgente del Tanaro. I ragazzi che studiavano, l'unica scuola elementare, era quella di Viozzene, partivano alle sei del mattino e ritornavano nelle loro baite alla sera, stanchi e affamati. - Tratto dal libro: "Brani di vita e appunti di viaggio" - Il mulo nero Nel periodo estivo, tra gli altri servizi istituzionali, eravamo chiamati anche a fare la scorta e dare assistenza al veterinario Comunale di Ormea, il quale, doveva sottoporre il bestiame a vaccinazione contro "L'Afta Epizootica", malattia infettiva estremamente contagiosa che, in breve tempo, colpisce in un vasto territorio un gran numero di animali della stessa specie, gli animali vaccini nel nostro caso. I bovari, con il sopraggiungere della primavera, trasferivano dalle loro baite, sul pascolo alpestre, il loro bestiame, raggiungendo le pendici del "Pizzo di Ormea" e il massiccio del Marguareis, ove crescono spontaneamente erbe che forniscono ottimo nutrimento; però, sovente, questi pastori erano molto restii e riluttanti e persino si rifiutavano di sottoporre il loro bestiame alla prescritta vaccinazione, per tali motivi prestavamo tale genere di assistenza al veterinario, rimanendo per intere settimane sulle Alpi. Era una continuo spostamento, alla ricerca dei piccoli nuclei di bestiame, quasi allo stato brado, sulla pendice dei monti e a convincere i pastori a collaborare per una buona riuscita della campagna sanitaria. Per tutto il periodo ci toccava trascorrere la notte sotto le stelle, oppure in qualche baita, vicino alle mucche e cibarci dai pochi viveri che portavamo nei nostri zainetti tattici. L'alimentazione di quella popolazione era estremamente povera e si basava su una ciotola di patate bollite, condite con il latte e un pizzico di sale. Il burro e il formaggio che riuscivano a ricavare dal latte delle magre mucche non poteva essere consumati per la loro alimentazione giornaliera, ma servivano per lo scambio, con i negozianti del paese, con gli altri di prima necessità E' stato in una di quelle sere, mentre mi sistemavo il giaciglio per la notte, allo interno di una piccola baita costruita di pietre , fango e sterco dei bovini, a ridosso di un costone, in un piccolo pianoro nel gruppo del massiccio del Marguareis, a dieci chilometri circa della frazione di Carnino, che notai, vicino al bestiame raggruppato nel piccolo recinto, un mulo, un bellissimo mulo di colore nero corvino, legato ad un palo di una piccola mangiatoia. Era un vero esemplare di quadrupede, tanto che aveva attirato la mia attenzione e la curiosità di osservarlo da vicino. Mentre lo osservavo attentamente, notavo che nello zoccolo del piede destro anteriore, portava incisi a fuoco le lettere " E.I" ; quindi quell'animale aveva appartenuto, nel periodo bellico, all'Esercito Italiano. Il giorno successivo, ne parlai del fatto con il veterinario, ed anche lui, nei giorni che seguirono ebbe modo di osservare da vicino l'animale con più attenzione. Il dott. Liporio Triosi, durante l'ultimo conflitto mondiale - "1940 -45 " - aveva prestato servizio - quale Ufficiale Sanitario - nel 21^ Reparto someggiato degli Alpini, nella campagna della Russia e successivamente in quella della Grecia, quindi un vero esperto in tale settore. Infatti, egli, mi confermava che il quadrupede apparteneva all'Esercito. Finita la campagna delle vaccinazioni dell'Afta Epizootica, ritornammo alla nostra sede di Ormea. Nel mio rapporto informativo, tra l'altro, informai il Comandante della stazione, circa i sospetti che mi erano sorti sulla non chiara provenienza del mulo in possesso dei fratelli Beccaria, residenti a Ormea, e domiciliati nella frazione di Carnino. Da qui ne è nato il caso del " MULO NERO". Nei giorni che seguirono, iniziarono una serie di accertamenti del caso, intesi a stabilire con esattezza l'esatta provenienza del mulo, e se nel caso vi fossero emersi altri reati. I fratelli Beccaria, in più riprese, sono stati sottoposti ad una serie di interrogatori, ma tutte le volte con esiti negativi. Mano mano che gli accertamenti prendevano un certo sviluppo, le indagini portavano a nuovi indizi ed il fascicolo si faceva sempre più grosso. Le indagini furono estese in tutta la vallata, da Viozzene a Carnino, da Uppega a tutti gli altri piccoli centri abitati dell'alta Val Tanaro. Nel corso delle quali, si è potuto accertare che i fratelli Beccaria vennero in possesso del quadrupede, in circostanze poco chiare, nel periodo turbinoso, dopo l'otto settembre del 1943, quando ci fu lo sbandamento di molti reparti dell'Esercito Italiano. In quelle zone, in quei periodi bui, turbolenti della nostra storia, molti militari sbandati si trovavano a dover transitare per quelle montagne, per portare a casa, in salvo, la loro pelle. Fu in uno di questi giorni che nella frazione di Uppega, nell'osteria del "Cino", si fermò per rifocillarsi un Alpino sbandato, con il suo mulo, forse quello che aveva avuto in consegna al momento del suo richiamo alle armi. Anche il vecchio parroco Don Giuseppe Rossi, diede assistenza a molti giovani sbandati, e si ricordava benissimo di un soldato con il cappello piumato, non da bersagliere, ma d'alpino, che una sera arrivo in groppa ad un mulo nero. Da quel giorno, in quella valle, si sono perdute le sue tracce, egli non è stato notato da nessun'altra persona, in quel lontano periodo, in quella giornata fredda e piovosa del mese di settembre 1943. Quindi, l'alpino, in groppa al mulo nero ha dovuto assolutamente transitare davanti alla baita dei fratelli Beccaria, non c'erano altri sentieri che portavano a Viozzene e successivamente a Ponte di Nava e alla cittadina di Ormea. Le nostre indagini, si può dire che si sono fermati lì, in quella piccola baita, alle falde del Pizzo di Ormea, dove del resto erano iniziate qualche mese prima. La storia è una triste vicenda, fatta di sofferenze, di miseria, di quell'estrema miseria che a volte porta l'uomo ai confini della realtà, ai margini della società e della Legge, in un mondo primitivo, in quel mondo che è rimasto avvolto nel velo della ignoranza e dell'egoismo. Quella lontana notte fredda e piovosa, qualcuno bussò alla porta rustica della piccola baita dei fratelli Beccaria, per chiedere riparo e un minimo di assistenza e di calore umano. Egli fu accolto con il suo mulo, in quel piccolo focolare acceso, di quella valle sperduta, lontano dalla sua famiglia e della società civile. Non siamo in grado di spiegare che cosa è successo di preciso, ma lo possiamo intuire, in quella notte piovosa e fredda, in quella piccola capanna; ma sicuramente menti malate dei due fratelli balordi, storditi dal miraggio della cavalcatura idearono, mettendo in atto il delitto, quel delitto atroce, mentre stava dormendo vicino al focolare. Dopo il delitto, nella stessa notte, all'interno della stalla, venne scavata una buca e quindi seppellito l'alpino e sopra la sua tomba, per modo di dire, fu collocato il mulo; in quella notte, fra quelle montagne, lontano dal mondo, con il silenzio interrotto dallo scroscio della pioggia battente sulle tegole di ardesia, si era consumato un assurdo e strano delitto, in quel momento brumoso e critico della storia del nostro meraviglioso Paese. Dagli esami necrologici dei resti del cadavere, si è potuto constatare che l'alpino venne soppresso con un solo colpo contundente, nella regione temporale sinistra. Egli aveva ancora al collo la catenina con appesa la piastrina di riconoscimento, che ci diede così la possibilità di poterlo identificare ed informare la famiglia e le Autorità Militari competenti. Si chiamava Franco Bruscolin ed era nato a Treviso, in data 21 -1 -1922. Apparteneva al 18^ Battaglione Alpini di Pieve di Cadore. Quindi, il movente del delitto, come abbiamo detto sopra, si è concretizzato in quella notte piovosa all'interno della baita, in quell'estrema miseria, in quel mondo primitivo e nella mente malata di due balordi montanari. I fratelli Beccaria, furono arrestati e condannati all'ergastolo. - Tratto dal libro: "Brani di vita e appunti di viaggio" - Il cognome Noi eravamo molto conosciuti nel circondario, non solo perché mia madre facesse la panettiera, e specie in quei tempi di guerra, il pane era la cosa più preziosa che esisteva, ma per via del cognome Cocolo, che era ed è molto raro. Per questo motivo, in questi ultimi anni, operando sullo studio della origine del nome, va ricordato che come il cognome può aver variazioni dialettali, forme contratte, diminuitivi, lenizioni, errori dovuti ad errata trascrizione. Dagli accertamenti araldici, praticati presso gli archivi nazionali dell'Araldica in Roma, abbiamo scoperto che il cognome Cocolo sia verosimilmente originario da Coco sul quale sono state rinvenute le seguenti notizie storiche ed araldiche tratte appunto dalle fonti bibliografiche di Araldis. Abbiamo scoperto che il nostro cognome deriva dalla famiglia di ( Dara le cui notizie risalgono al secolo XVII. Del 1727 ottenne il cavalierato ereditario e la nobiltà con Pietro Diego de Baro, giudice e cancelliere apostolico. Lo stesso nel 1732 ottenne l'amministrazione della tanca regia di Paulilatino per suo nipote Teodoro. I discendenti di quest'ultimo continuarono a vivere a Paulilatino fino alla fine del secolo XIX, dopo della quale data non si ebbero più notizie della famiglia. Casata di sicura origine nobile o notabile riportata dalle tradizionali fonti bibliografiche conservate negli archivi di Araldis che comprovano come la famiglia Coco abbia lasciato traccia di se nel tempo. Il fatto che del ceppo Coco sia nata l'origine, indicata dai testi in Sardegna, rivela come abbiano sentito l'esigenza di legarsi ad una datazione dell'origine storica e della sua collocazione in territorio, al fine perpetuare il fasto, le gesta ed il valore della famiglia. E solo con l'inizio del XV secolo che si fanno più frequenti le concessioni di titoli a persone e famiglie non provviste di feudo. La conferma della dimora certa della famiglia Coco in (Dara (SS) viene quindi a confermare come ci si trovi di fronte ad un casato che seppe legittimamente innalzare per diritto la propria arme al rango di Nobili. La corona di pertinenza è formata da un cerchio d'oro, puro, velato, rabescato, brunito ai margini, sostenente otto grosse perle in giro, di cui cinque visibili, posate sul cerchio. Il blasone è la lettura dell'arme e nel caso della famiglia Coco risulta essere d'oro con l'albero di cocco al naturale. Gli stemmi, semplici in epoca più antica e con un numero limitato di figure, si complicano in seguito, con ripartizioni e maggiore varietà di figure, colori ed ornamenti. In questo caso, la prevalenza dell'oro rappresenta la fede, la clemenza, la temperanza, la carità, la giustizia oltre che alla felicità, l'amore, il gaudio, la nobiltà, lo splendore, la gloria, la sovranità essendo il più nobile tra i metalli, E' il simbolo del sole. " EX ARABORE FRUXTUS" Adesso, che abbiamo approssimativamente accertato l'origine del nostro casato, ritorniamo a parlare di Cosoleto. Si, l'amicizia, in quel piccolo borgo regnava l'amicizia, la fratellanza ed il rispetto. Tutti quei valori, di un popolo laborioso e rispettoso, nonché ospitale, in questi ultimi tempi hanno perduto la credibilità agli occhi del mondo, per via di una piccolo minoranza di delinquenti, di uomini dal cuore indurito come le pietre dell'Aspromonte. Sicuramente bisogna attendere ed avere fiducia nella giustizia e nella collaborazione internazionale degli organi di polizia. Solo così, con un'azione drastica, coraggiosa ed uniforme, dotata di "grinta" ed appoggiata ad una efficiente collaborazione della giustizia criminale di tutti i Paesi della nuova Europa Unita, perché si tratta di una "mafia "internazionale, dall'Europa agli stati Uniti d'America. Solo con tale collaborazione si può sperare di fronteggiare con successo la grande offensiva della repressione di questa piaga che ci corrode. Si arriverà a tanto? forse la posta in gioco, che si può alla lunga identificare nella stessa sopravvivenza dell'umanità, è di tale rilievo che si sapranno superare differenze, rancori ed incomprensioni fra i Popoli. Potrebbe essere il primo passo per superare lo stadio ferino che ancora qualifica l'attuale era dei rapporti fra i Popoli. E' un augurio e una speranza. La "roba", la proprietà, il denaro e il casato, erano tre cose da venerare, la dove aver del suo costituiva il primo titolo al rispetto. L'anima degli uomini era piena, salda, uniforme come il paesaggio, la grande distesa di vasti ed enormi uliveti, castagneti, vigne e boschi. Non vi erano industrie allora, come del resto, mi risulta che non vi siano adesso. In quei lontani anni della mia fanciullezza, l'unica industria e fonte di lavoro, per i residenti di tutta la fascia dell'entroterra e della pianura, era appunto l'industria olearia, i lavori agricoli stagionali dei campi, in qualità di braccianti. Con l'inizio del mese di novembre, inizia anche la campagna per la raccolta delle ulivi. Anche il lungo inverno, ricordo, stava puntualmente fermentando nell'aria umida e piovosa. Il mattino presto, prima che il sole spuntasse dietro la sagoma dentata dell'Appennino Calabrese, che circonda appunto la grande "Piana", partendo dalle Serre Catanzaresi fino a congiungersi con il Gruppo del Montalto e quindi con l'Aspromonte, una lunga fila di donne con i foulard sgargianti in testa, appena svegliatesi dal lungo sonno notturno, perché allora non esisteva la televisione e poche persone disponevano dell'apparecchio radio, scendevano giù per le valli, per iniziare la raccolta delle ulive, facendo ritorno al tramonto del sole, stanche e infreddolite, mentre le cavalcature con il loro carico trasportavano il raccolto ai vari frantoi della zona per la loro trasformazione. - Tratto dal libro: "Brani di vita e appunti di viaggio" - Le zeppole Le feste natalizie si annunciavano con un profumo casalingo, diffuso per le strade, le viuzze e i modesti vicoli del paesello aspromontano. Tutte le donne, sia nelle case ricche quanto in quelle povere, meschine e infelici, che si trovavano in misero stato, erano indaffarate alla preparazione e alla diffusione del gran profumo su cui correvano le prime letizie della vigilia della grande e sentita festa di Natale. Si trattava della confezione e perpetrazione delle appetitose e gustosissime "Zeppole" calabresi. Nella ricorrenza di tale festività, si vedevano i bambini che portavano da una casa all'altra, quale reciproco omaggio di buon vicinato, mutuo riconoscimento di antichi vincoli di amicizia e di rispetto, i cestini di vimini avvolti in un candido tovagliolo di bucato, contenente le appetitose zeppole di natale. Non si possono definire un dolce e neppure una pietanza, ma un bocconcino dal profumo di vaniglia e di squisito sapore di erbe aromatiche, baccalà precedentemente bollito e ridotto ad un semplice impasto. Tale impasto serve da ripieno di una pasta lievitata e successivamente bollita, non fritta, in una padella colma di olio extravergine di oliva. Dai più modesti focolai, alle case più agiate, la spontaneità di quei sentimenti di antica tradizione, forse di origine ellenica o addirittura araba, si ripetono. Ogni gesto, ogni parola, in quel simbolismo pieno di significati sacri e profani sulla base di secolare memoria, richiamava alla presente immagine del passato che ricordava contenuti, sentimenti ed emozioni. Il significato dell'offerta delle zeppole, si perde nella notte dei tempi, forse il vero significato è racchiuso in una sola parola, in una frase, in un sentimento che vuol dire amicizia e pace nella notte più bella dell'anno: nella notte di Natale. - Tratto dal libro: "Brani di vita e appunti di viaggio" - Il contributo dell'Arma alla Resistenza e alla Guerra di Liberazione. "Lasciamo la Sicilia e veniamo all'otto settembre 1943 all'aprile 1945 l'Arma dei Carabinieri visse uno dei periodo più difficili e al tempo stesso più esaltanti della sua storia. Duramente provata nel secondo conflitto mondiale, trovò la forza e la coesione morale di organizzarsi tempestivamente per la Resistenza e la Guerra di Liberazione. Confermò, così, le sue tradizioni di secolare fedeltà alle istituzioni dello Stato. Con l'attivazione di tutte le proprie strutture, con l'impiego di nuclei e formazioni clandestine, a volte di consistenza massiccia, a volte di entità esigua, con l'instancabile azione di migliaia di stazioni, tenenze, compagnie e unità dei singoli, i Carabinieri dettero un impulso rilevante alla lotta contro le forze nazi - fasciste. In queste pagine é tracciata una sintesi degli avvenimenti più significativi e sono illustrati alcuni episodi di lotta e di valore che colpirono profondamente non soltanto l'opinione pubblica, ma gli stessi avversari. Durante tutta la Resistenza e la Guerra di Liberazione, i Carabinieri riaffermarono ogni giorno il loro radicato senso dello Stato, il profondo spirito di abnegazione, la loro illuminata dedizione al dovere, fornendo un altissimo, generoso contributo di sangue. A Napoli i Carabinieri lottano eroicamente contro i nazisti. A seguito dell'armistizio, le truppe tedesche di stanza a Napoli tentano di occupare i centri nevralgici della città per assicurarsene il controllo, ma i comandi dell'arma reagiscono immediatamente. Nella difesa di Roma, il Comando Generale dell'Arma, su ordine dello Stato Maggiore Esercito, dispone che la Legione Allievi Carabinieri invii subito nell'area delle operazioni un Battaglione in rinforzo ai Granatieri di Sardegna che si stanno battendo valorosamente. Alle ore 23,30 il II Battaglione Allievi Carabinieri é già pronto in pieno assetto di guerra. Gli effettivi sono giovani allievi dai 18 ai 20 anni, carabinieri appena promossi e ufficiali e sottufficiali di inquadramento. L'unità su tre compagnie, é al comando del ten. Col. Arnaldo Frailich, valoroso combattente della I^ Guerra Mondiale, durante la quale più volte ferito, era stato decorato di una Medaglia d'Argento e una Medaglia di Bronzo al valor militare. Alcuni giorni dopo, in un articolo, rievocando gli avvenimenti di quella notte, il colonnello dei carabinieri Adolfo Vasco scriverà: "... I giovani imberbi e da poco giunti alle armi, andarono incontro al battesimo del fuoco con animo di provati veterani e si dimostrarono ansiosi di incontrarsi con i teutonici". Le pagine della storia dell'Arma, sono pieni di atti eroici nella febbrile attività delle forze clandestine nell'Italia del Nord. Nella stazione di Milano, per esempio, in violenti scontri con i tedeschi, i carabinieri catturarono 60 prigionieri. Per elencare tutte le operazioni in clandestinità dei carabinieri, contro i tedeschi, ci vorrebbe la penna scorrevole di un bravo storico, ma noi non siamo storici, ma semplici appassionati della storia del nostro Paese. Tratto dal libro: "Il fascino e le bellezze del Bel Paese") Ma i Carabinieri non ruppero le righe Qualche anno dopo dalla fine del conflitto al 31 dicembre del 1985, feci parte della grande famiglia dell'Arma Benemerita. In quel tempo, mi sono domandato: ma i "Carabinieri Reali", che cosa fecero durante l'invasione Angloamericana in Sicilia? Naturalmente non ruppero le righe, ma stettero al loro posto. I Carabinieri riaffermarono ogni giorno il loro radicato senso dello Stato, il profondo spirito di abnegazione, la loro illimitata dedizione al dovere, di quel dovere che fin dal 1814, anno della fondazione dell'Arma, ha saputo sempre mantenere fede allo stato e alle Istituzioni. Ecco perché gli é stato attribuito l'appellativo di "Arma Fedele". Il giornalista Andrea Castellano, in un suo articolo, apparso sulle "Fiamme d'Argento", così scrive: "Dal 14 al 23 gennaio 1943, ad Anfa, un sobborgo di Casablanca ( Marocco), si incontrarono Churchill e Roosevelt e nonostante la mal curata cardiopatia di quest'ultimo e forse qualche drink in più bevuto da Churchill, decisero, tra l'altro, lo sbarco in Sicilia. Il momento era favorevole poiché in italiani e tedeschi, pur di conservare il traballante dominio in Africa, avevano fatto affluire nel Nord di questo Continente numerose risorse di uomini e mezzi, sguarnendo il fianco meridionale europeo. Di conseguenza quando il 12 maggio 1943 in Tunisia le truppe italo-tedesche si arresero, gli Angloamericani ebbero via libera verso la Sicilia. Infatti,, l'11 giugno occuparono Pantelleria ( Trapani). Le perdite furono di un solo ferito: un soldato USA morso da un asino. Il giorno successivo fu presa anche Lampedusa ( Agrigento) per opera di un aviatore USA, costretto ad atterrare sull'isola per mancanza di carburante: il resto é immaginabile. La conquista della Sicilia iniziò alle ore 4,45 del 10 luglio 1943. Le truppe Alleate ( 12 Divisioni) sbarcati contemporaneamente in 6 punti diversi, il 17 agosto successivo avevano già il dominio di tutta l'isola. Come avvenne con Garibaldi e le sue Camicie rosse, la Sicilia capitolò in pochissimo tempo (39 giorni) sebbene pure questa volta le forze di contrasto fossero numerose (198.000) tra italiani e tedeschi), ma male " armate" anche moralmente e gli Alleati avevano il dominio assoluto del cielo e del mare. Appena ultimata la conquista dell'Isola, per l' "Allied military governement occupied territory" si pose ,tra gli altri, il problema dell'ordine e la sicurezza pubblica. In ciò gli Angloamericani furono fortunati in quanto poterono contare sui Carabinieri ( quelli dell'organizzazione territoriale) i quali non avevano " rotto le righe", convinti che il loro dovere istituzionale, pure in quelle giornate caratterizzate da gravi sconvolgimenti, fosse di difendere i cittadini ed i loro beni. Gli Alleati avrebbero potuto, anzi dovuto, farli prigionieri poiché appartenenti ad un'Arma combattente, ma non intervennero forse perché a conoscenza della loro professionalità, indispensabile in quei momenti. Al riguardo é indicativo un servizio, dalla Sicilia, di un corrispondente del " Times" al seguito delle truppe. Leggiamo la parte di interesse: " i Carabinieri sono stati un forte e stabile fattore nel mantenere l'ordine". Lo stesso Ministro degli esteri inglese rispondendo alla Camera ad una critica dell'opposizione circa l'impiego di militari dell'Arma nei servizi d'ordine affermò, tra l'altro: " se non avessimo usato i Carabinieri che cosa avremmo dovuto fare? Avremmo dovuto impiegare almeno 10.000 soldati britannici a svolgere il loro compito, non altrettanto bene". Peccato che quest'ultimo giudizio del "nemico" non sia molto ricordato! In ogni modo se volete un'idea delle difficoltà in cui vennero a trovarsi nella Trinacria i " vincitori" fate mente locale all'attuale situazione in Iraq dove, non a caso, é stata invocata la presenza dei Carabinieri. Dice Leonardo da Vinci: " Chi semina virtù fama raccoglie". Ma torniamo alla Sicilia. Qui il 2 agosto 1943, a Palermo, il Generale dell'Arma Ernesto Sannino, nella sua qualità di Ufficiale più anziano ( di grado) presente, istituì a Palermo ( d'intesa con gli Alleati) il " Comando Superiore Carabinieri Reali della Sicilia", per coordinare l'attività dei militari dell'Arma in tutta l'Isola. All'epoca, c'era già stato l'arresto di Mussolini ( 25 luglio 1943) ed ormai si parlava chiaramente della resa italiana ( venne firmata il 3 settembre 1943 a Cassibile di Siracusa) Il 13 ottobre successivo ci fu la grande svolta: l'Italia liberatasi dal Governo fascista, dichiarò guerra alla Germania e venne riconosciuta dagli Angloamericani come " Nazione cobelligerante ", Pertanto i Carabinieri della Sicilia si trovarono ad operare con una maggiore legittimità e minore difficoltà poiché i loro rapporti con gli Alleati non erano più fra vincitori e vinti, ma tra combattenti contro il medesimo nemico, sebbene non proprio da alleati ( ciò non fu possibile per non alterare in modo sostanziale il contenuto della resa italiana). La scelta dei Carabinieri di non abbandonare la popolazione al caos ed alle vendette, fu frutto di serie riflessioni. Infatti il "Comando Superiore" della Sicilia fu chiamato " Reale", come per porre l'accento che esso si considerava a tutti gli effetti rispettoso dell'Istituzione che allora rappresentava la Nazione. Tale precisazione, chiaramente condivisa dagli Angloamericani, avveniva mentre molte Amministrazioni locali siciliane ( divennero circa il 90%) subivano il " fascino" di uomini politici separatisti e qualche testa " calda" gettava le basi di quei movimenti, definitisi patriottici, come l' "Esercito Volontario Indipendenza Siciliana" "EVIS". Il 5 dicembre 1943, il " Comando Superiore dei Reali Carabinieri della Sicilia, fu soppresso ed i militari dell'Arma di stanza sull'Isola, vennero inquadrati nel "Comando Arma Carabinieri Reali dell'Italia Liberata", istituito a Bari il 15 novembre 1943. La "favola bella" che scaturisce da questi avvenimenti, anche se narrati in maniera sintetica, é che mentre il Piemonte fu la culla dei Carabinieri del primo Risorgimento italiano, la Sicilia fu di quelli del secondo. Tratto dal libro: "Il fascino e le bellezze del Bel Paese") Sessant'anni fa gli Alleati sbarcavano in Sicilia. Il grande scrittore americano James A. Mischener, per raccontare la guerra nel Pacifico, ha incominciato il suo libro: " Il Mondo è la mia casa", raccontando una pagina della sua vita con la fuga della natia Pennsylvania per la terra promessa, la Florida, da allora James Mischener non ha mai smesso di viaggiare; per mare, nelle acque dell'oceano Pacifico, lungo le rotte dei corsari e degli eroi alla Melville, nelle isole della Polinesia o nelle lande sperdute della Scozia e della Polonia, alla ricerca di luoghi inesplorati e selvaggi, annotando ossessivamente su un taccuino le proprie impressioni sui luoghi e le persone che ha conosciuto. Noi, sicuramente non siamo il grande scrittore James A. Michener, ma un figlio della povera e Old Calabria, che fu costretto a lasciare il paese natio per esplorare e conoscere più a fondo il nostro meraviglioso Paese. "Si va avanti, allegri e frementi, riconoscendo le orme di chi ci ha preceduto, accogliendo il bene e il male insieme - le rose e le spine, come si dice - la variopinta sorte comune che offre tante possibilità a chi la merita o, forse, a chi ha fortuna". Io ho avuto fortuna. Quello che mi ha maggiormente stimolato a seguire quel sentiero che tutti avevano percorso prima di me. Come era già accaduto tante volte nella mia vita, nei versi del divino Dante, trovai una traccia, sia mentale sia emotiva, non nei Vangeli, ma nel XXVI Canto dell'Inferno, dove il poeta incontra Ulisse. Quello che maggiormente mi avevano colpito erano i versi di quello splendido canto: " Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a viver come bruti, Ma per seguir virtute e conoscenza". Come erano appropriate quelle parole! Tali e tanti era gli argomenti di cui volevo scrivere che si poteva meritatamente definire fertile anche la mia mente. L'Arma Benemerita, mi ha dato la possibilità di esplorare gli angoli più belli del nostro Paese, e non solo di esso. Abbiamo esplorato alcuni Paesi della Vecchia Europa, spingendoci fino all'oceano Atlantico, visitando anche le coste del Pacifico con la Città di San Francisco, il deserto del Colorado, il Grand Canyon, la Monyment Vally, la città sfolgorante di luci di Las Vegas. Quella sfida così sentita, quella determinazione a "presentare il mio conto fedele" sono riuscito a definire lo scopo dei miei scritti in modo così radicato da farlo diventare lo scopo permanente della mia vita. Oggi, che vivo la vita dell'anziano pensionato , non faccio altro che rievocare gli anni più belli, gli anni della fanciullezza. Aveva ragione lo scrittore Enzo Biagi, quando scriveva: " Noi della Terza età, camminiamo su di un tappeto di foglie morte, dove é sepolta la storia del nostro Paese, i nostri ricordi, le nostre passioni e i nostri amori". Gianni Bisiach, nel suo minuto di storia, alla fine del Telegiornale del TG Uno, delle ore 8, del 10 luglio 2003, ci ha presentato una pagina rievocativa dello sbarco degli Alleati in Sicilia, mentre il giornalista della carta stampata Fabrizio Rondolini, in un suo articolo, apparso sulla " Stampa di Torino", del 9 corrente, ci presenta uno spaccato dello sbarco in Sicilia. In quel tempo avevo 16 anni e vivevo con la mia famiglia nel piccolo borgo aspromontano di Cosoleto, e come tutti i ragazzi del borgo, stavamo con il naso all'insù a guardare le fortezze valanti che andavano a bombardare le città della Sicilia e quelle della Costa della Calabria. Le città di Reggio e Messina, erano continuamente sotto bombardamento aereo. Tutti questi bombardamenti in Sicilia e le Coste della Calabria, servivano per preparare lo sbarco degli Anglo - Americani. Infatti, il 10 luglio, l'apparecchio radio dell'amico Domenico Pindilli, gestore della tabaccheria e generi alimentari del paese, annunciava lo sbarco sull'isola: non fu una campagna lampo e i combattimenti furono aspri. Qualche mese più tardi, quando le truppe tedesche e quelle italiane, incominciavano a ritirarsi verso il Nord 'Italia, il nostro piccolo paese era diventato un campo di sosta per le truppe in ritirata. Ricordo che i mezzi corazzati dei tedeschi, erano stati defilati sotto i secolari oliveti come pure i reparti di fanteria e quelle someggiate. Una divisione di paracadutisti auto trasportata della Nembo, si era schierata in località " Zilastro". Percorrendo l'Altopiano dell'Aspromonte, dopo cento metri, nella pineta, si incontra il monumento che ricorda quella storica battaglia, e poco più avanti, sorge quello che ricorda l'impresa , dei volontari garibaldini, le leggendarie " Camicie Rosse", alla guida del generale Giuseppe Garibaldi, che da Palermo passarono lo stretto di Messina. In quella località Giuseppe Garibaldi fu fermato, ferito e fatto prigioniero da soldati italiani nel 1862 . Se il telefono, introdotto in Aspromonte all'inizio del " 900 per la ricerca del brigante Musolino, fosse stato utilizzato per comunicare l'avvenuto armistizio con gli americani, non ci sarebbero state tante vittime. Infatti, il conflitto era già stato sospeso quando i paracadutisti della Divisione " Nembo", inviata in Calabria per fermare l'avanzata delle truppe alleate, dopo aver affrontato nel Come di Santo Stefano d'Aspromonte due reggimenti canadesi, ingaggio una cruenta battaglia sull'altopiano dello Zilastro. Circa 400 valorosi soldati della " Nembo", stremati anche per i lunghi giorni di cammino e con poche scorte alimentari, andarono all'assalto, dando prova di incredibile coraggio, di un terzo reggimento canadese ( " Nuova Scozia" composta da 5 mila unità. Terminate le munizioni, fecero uso delle armi bianche ingaggiando un violento corpo a corpo. Ordinato il " cessate il fuoco", il comandante del reggimento canadese espresse il suo apprezzamento per il valore dimostrato dai soldati italiani: Su quell'altopiano dove cresce orgoglioso il pungitopo ( " u silastru"), insieme ad una stele posta per ricordare quei valorosi paracadutisti, sembra aleggiare ancora tanta amarezza. Per questi episodi di autentico eroismo. il nemico gli ha concesso l'onore delle armi, il massimo riconoscimento ottenuto sul campo di battaglia da un reparto militare. Dopo quest'inciso, veniamo allo sbarco in Sicilia dagli alleati. Il giornalista Fabrizio Rondolino, nel suo articolo commemorativo, ne ha tracciato una vera pagina della storia che non é mai stata scritta ed insegnata nelle scuole del nostro Paese. Moltissimi dei nostri ragazzi, non sanno neppure che in Sicilia si é svolta una battaglia memorabile, che ha messo in luce l'onore dei nostri soldati. Egli così scrive: " Occupanti o liberatori? Nemici a cui resistere finché possibile, e con ogni mezzo, o fratelli da accogliere fra sventoli di bandiere e fanfare di paese? Come vanno giudicati gli eserciti stranieri che liberano, o che occupano, un paese retto da una dittatura? La questione é stata sollevata, e con clamore, nel corso della guerra in Iraq, e tuttora non sembra trovare una soluzione condivisa. Ma non si tratta certo di un caso isolato. Ripercorrere i momenti dello sbarco alleato in Sicilia può aiutarci a comprendere anche l'Iraq di oggi". La storia si sa, la scrivono i vincitori: ma non sempre é chiaro chi siano i vincitori. O meglio: nella rilettura del passato - che é, essa stessa, parte integrante del farsi della storia - anche il confine fra vittoria e sconfitta può essere attraversato, nell'una come nell'altra direzione. L'Italia ha infatti perso e vinto la Seconda guerra mondiale: l'ha persa come Italia fascista e alleata dei tedeschi, l'ha vinta come Italia badogliana e, ancor più, partigiana. Lo sbarco alleato in Sicilia, avvenuto nella notte fra il 9 e il 10 luglio 1943, si colloca all'incrocio fra queste due Italie: non c'è stato ancora il 25 luglio, e dunque Mussolini é ancora il capo del governo, e tantomeno c'è stato l'8 settembre, e dunque il nostro esercito é fedele alleato della Wehrmacht. Dev'essere a causa di questa scomoda collocazione cronologica che di quello sbarco si sa tutto sommato molto poco. Non appartiene alle date da ricordare e da celebrare, né é entrata a fare parte dell'epopea e del mito, diversamente da altri episodi, anche meno significativi, che hanno segnato la Seconda guerra mondiale e la sua conclusione. Eppure l'operazione " Italy freedom" - se é lecito ribattezzarla in questo modo - cominciò proprio quella notte, e fu tutt'altro che facile. Il piano " Husky" ( questo é il nome in codice dello sbarco in Sicilia) scattò all'indomani della conquista alleata, avvenuta a giugno, di Lampedusa e di Pantelleria. Dopo il bombardamento di Catania, l'8 luglio, tremila paracadutisti dell'ottantaduesima divisione avio trasportata precedettero di poche ore, nella notte fra il 9 e il 10 luglio, lo sbarco vero e proprio. Fra Licata e Scoglitti, nei pressi di Gela, le truppe americane della VII Armata, agli ordini del generale Patton, iniziarono il primo sbarco, cui ne sui immediatamente un altro, nel tratto di costa fra Capo Passero e Cassibile, ad opera degli inglesi dell'VIII Armata del maresciallo Montgomery. Nel complesso, quella notte raggiunsero la terraferma 160.000 uomini, 14.000 veicoli e 18000 cannoni, appoggiati da un ingente spiegamento di navi da guerra e di forze aeree. Le forze angloamericane, nei primi giorni della battaglia, raggiunsero rapidamente le 470.000 unità, e riuscirono a vanificare la controffensiva italo - tedesca messa in campo l'11 luglio nei settori di Licata, di Gela e di Siracusa. La controffensiva, tuttavia, ci fu: e, soprattutto, ci fu una sanguinosa resistenza dell'esercito italiano, anche dopo che i tedeschi del maresciallo Kesselring si erano ritirati senza avvertire gli italiani, all'indomani del 25 luglio e dell'arresto di Mussolini. Liberare la Sicilia fu assai più difficile, e cruento, che liberare l'Iraq. La " campagna di Sicilia" durò infatti 38 giorni ( due giorni in meno di quanti ne servirono ai tedeschi per arrivare a Parigi e conquistare la Francia), fino alla notte fra il 16 e il 17 agosto, quando le ultime truppe italiane sgomberarono Messina per trasferirsi sul continente. Gli angloamericani ebbero più di cinquemila morti e quasi diecimila feriti; nei cimiteri dell'isola furono sepolti più di quattromila italiani e altrettanti tedeschi. Se questo sono le cifre, é evidente che non si trattò di una semplice passeggiata. E che una certa iconografia ufficiale, che vuole gli alleati accolti come liberatori, va quantomeno rivista. Mussolini, pochi giorni prima dello sbarco, dichiarò con disinvolta sbruffoneria che le truppe nemiche, se solo avessero osato affacciarsi sulle coste siciliane, sarebbero state " stese sul bagnasciuga": così naturalmente non fu, anche perché la disparità di forze era schiacciante. E tuttavia gli stessi angloamericani rimasero stupiti e negativamente sorpresi dalla forza di resistenza degli italiani: l'intelligence alleata - probabilmente anche grazie a contatti con esponenti mafiosi - avevano infatti offerto agli alti comandi un quadro di tutt'altro tipo, assai più vicino alle ricostruzioni che si faranno a guerra finita che non alla realtà incontrata sul campo di battaglia.. Vi furono, da parte italiana, episodi di autentico eroismo, come quello del sottotenente Sergio Barbadoro, ventitreenne, che con dodici commilitoni tenne a bada un'intera divisione per nove ore, fra Monreale e San Giuseppe Jato. Molto si é discusso sul ruolo della mafia siciliana - che certo non amava Mussolini - nella preparazione dello sbarco e, soprattutto, nella successiva avanzata angloamericana; così come é noto che, non senza furbizia, fra le truppe da sbarco americane non erano pochi gli oriundi di origine siciliana. A maggior ragione, dunque, colpisce la consistenza e, ancor più, la durata - ben oltre il 25 luglio e la caduta del fascismo - della resistenza italiana. Soltanto dopo l'8 settembre, e soltanto a guerra oramai decisa, l'opinione pubblica italiana passò, almeno nella sua maggioranza, della parte degli americani. Le scene di folla festante, le lenzuola bianche esposte alle finestre di Palermo, le manifestazioni spontanee che accoglievano gli alleati ci furono senz'altro - e non per caso la liberazione di Bagdad suggerì a molti un paragone proprio con l'arrivo degli angloamericani in Italia . Ma vanno probabilmente attribuite più alla gioia per la fine di una guerra divenuta sempre più cruenta e dolorosa, che non ad un genuino sentimento di amicizia e di riconoscenza per l'avvenuta "liberazione". Gli storici affermano che d'altro canto, che il fascismo godesse di un discreto consenso non é più un mistero né un tabù storiografico. E' l'abitudine della folla a correre in soccorso dei vincitori, in sé peraltro non del tutto esecrabile, impiegò quantomeno qualche settimana prima di prendere piede in Sicilia. Ciò naturalmente non significa che quello sbarco fosse, e venisse inteso, come un'azione ostile nei confronti dei siciliani e degli italiani: ma il racconto di quegli anni lontani, e la rievocazione di vicende che, al contrario, suonano di strettissima attualità, dovrebbero farci riflettere non soltanto sul ruolo e, perché no, sulle virtù dell'esercito italiano " fascista", ma anche sul significato e ancor più sulla percezione di un'invasione, qualunque ne siano l'origine, lo scopo, il contesto. Quelle truppe erano nemici da contrastare o fratelli da salutare? In quello specifico momento politico, erano nemici da contrastare. Ricordo che le manifestazioni di gioia ci furono anche nel piccolo borgo aspro montano di Cosoleto, come ci furono a Napoli o a Roma. Forse erano allo stesso modo di quelle, avvenute ultimamente a Bagdad, salutavamo soprattutto la fine del conflitto, ma la fine del conflitto c'è stato ma la guerriglia continua. Sono morti più marines dopo il pronunciamento della fine della guerra dal presidente degli Stati Uniti d'America e tutti i giorni uno o due militari americani muoiono negli attentati. E' uno stillicidio continuo. (Tratto dal libro: "Le bellezze e il fascino del Bel Paese") Bizzarrie nell'arte A Innsbruck ci siamo fermati a visitare la chiesa di corte o dei francescani, eretta nel 1553 - 63 su progetto del trentino Andrea Crivelli. Nel suo interno è racchiuso il grandioso monumento funebre dell'imperatore Massimiliano I, capolavoro del Rinascimento tedesco, circondato da una splendida cancellata in ferro battuto ( del 1573) e da 28 colossali statue in bronzo ( del 1509 - 30 ) raffiguranti personaggi storici. Si può dire che in ogni museo del mondo c'è un'opera d'arte che attira l'attenzione del visitatore, a volte per la sua bellezza e anche per la sua stranezza. Così è stato anche per noi nella chiesa mausoleo, la Hofkirche, di Innsbruck, dove traspaiono nella sua bellezza quelle linee architettoniche che si fondono magistralmente con il severo barocco della chiesa ed il gotico delle statue, formando un tutt'uno fra le due espressioni artistiche. Si tratta di un vero mausoleo artistico, come lo dimostrano sia il monumento funebre, con le sue 28 colossali statue in bronzo, quanto la bellissima cancellata in ferro battuto. E' stata una di queste statue che ha attirato la nostra attenzione e precisamente la seconda da destra, per chi entra nella chiesa - mausoleo. Essa presenta una caratteristica diversa delle altre. Lo scultore, evidentemente, come succede a volte nell'arte, ha voluto mettere in evidenza un particolare anatomico del personaggio raffigurato, ha lasciato scoperto uno dei testicoli, e precisamente quello di destra. Noi non siamo in grado di interpretare il pensiero dell'artista nel momento della sua creazione, ma un frate francescano che si trovava all'interno del tempio, ci è venuto in aiuto dicendoci: " Qui nel Tirolo, toccare una parte dei genitali maschili porta bene, non come fate voi italiani, che lo fate per scaramanzia. Le donne che vogliono ritornare nella nostra città sfiorano con la mano quella parte in questione". I fatti lo dimostrano e sono molto evidenti. Quella parte anatomica si differenzia dal resto della scultura perché per via dello strofinamento, è diventata lucida e consumata. Mi sembra di vedere il piede della statua di San Pietro, che si trova all'ingresso della Basilica vaticana, che a furia di toccarlo con le mani, in segno di devozione, si è consumato. Si bacia il piede della statua bronzea di San Pietro per devozione, è un sentimento religioso che rende a quella divinità, ma strofinando l'organo sessuale del personaggio storico mi sembra di violare la santità di quel luogo di culto. Come diceva il frate francescano: " In ogni paese che vai usanze che trovi". Aveva veramente ragione. Per quanto riguarda la scultura in questione, non è altro che una licenza artistica dell'autore e nell'arte non c'è nulla che offende la dignità umana. Lasciamo questa storia di sapore bizzarro e ritorniamo alla nostra escursione artistica - culturale. Sul lato sinistro della basilica vi è collocata la tomba di Andrea Hofer, sormontata da una statua raffigurante l'eroe, il Garibaldi altoatesino. La storia ci racconta che quest'eroe nel 1809, insorse contro Napoleone e fu sconfitto con i suoi alleati e si rifugiò in Passiria, nella sua valle natale, fu catturato dai francesi sulle Alpi Pfandler e fu imprigionato a Mantova, nel carcere militare della cittadella di Porto. Condannato a morte, fu fucilato nei pressi di Porto Giulia il 20 febbraio 1810 ed inizialmente sepolto nella chiesa parrocchiale di San Michele; le sue spoglie si trovano ora nella Hofkirche di Innsbruck . E' quasi sera quando superiamo il valico del Brennero, che è sito fra le Alpi Retiche e le Noriche, importante via di comunicazione, fra l'Italia e l'Europa, nota sin dall'antichità ed entriamo nel nostro Paese. Percorriamo nella sua interezza la Val d'Isarco che è stretta e tortuosa nella prima parte, specie subito dopo il Brennero, la Valle si allarga progressivamente verso Bressanone. Il versante settentrionale è formato da ampi terrazzi coltivati a vigneto e frutteto, quello meridionale da alture boscose che raggiungono elevate altezze, dietro alle quali, di fronte al villaggio di Valturno spuntano in lontananza le cime dolomitiche illuminate dagli ultimi raggi del sole calante. Vogliamo concludere questo nostro Week -End culturale delle tre nazioni con il CAI, con un bellissimo brano, tratto dal libro " Dolomiti" di Mario Scarpa : " La sera cala silenziosa tra i monti. I boschi d'abeti diventano neri, l'aria ed il cielo cambiano anch'essi colore, quasi per preparare una stupenda cornice" all'alpe che sta raccogliendo l'ultimo bacio del sole". (Tratto dal libro: "Dolomiti e Sentieri d'Italia") Le "Cime Bianche" del gruppo delle Odle. Il mattino del I° maggio il cielo era limpido e senza nessun turbamento. Il sole si era appena alzato da dietro la montagna che sovrasta il villaggio romano di Malles Venosta. Quando noi siamo usciti sul balcone della camera dell'albergo "Tyrol", il sole illuminava le cime più alte del complesso montagnoso del Gruppo delle Odle. Esse offrono sempre suggestive visioni alle graziose e tranquille località della Val Venosta. Assai primitiva ed altamente salubre risulta l'analisi di questo versante innevato a cui le Odle offrono sempre scenari d'inestimabile bellezza, con le loro forme snelle, i numerosi spigoli e guglie taglienti. Già dai solchi vallivi dove scorre il placito Adige si può captare la quantità di potere attrattivo che emana questo formidabile Gruppo Montagnoso. Quest'insieme di forme armoniose a volte ferite dalle profonde striature dei canaloni, già da lontano sanno così con nobiltà toccare il cuore di tutti i passanti. Dalla vetta di questo essenziale monte, appaiono in tutta la loro maestosità i maggiori colossi dolomitici, sicché da questo balcone panoramico, lo sguardo ha veramente di che riempirsi . Dal piazzale antistante l'albergo "Tyrol", il "caino" Gabriele Cimarosti, mi informava che la colazione era pronta, interrompendo così bruscamente la mia riflessione con la grande montagna. Dopo l'abbondante e ricca colazione, siamo partiti alla volta dell'Austria, seguendo la strada statale nr. 40 del Passo Resia, che si presenta a larghi tornanti. Sulla nostra sinistra appare, dapprima, la bianca ed imponente Abbazia di Monte Maria. L'altopiano è un paesaggio che ho definito "paesaggio lunare", per via dei numerosi conoidi e cilindroidi, che non sono altro che delle piccole gobbe di natura glaciale dell'epoca del Quaternario, costituiti dai detriti che così si sono deposti e sono rimasti al regredire del ghiaccio. La statale costeggia il Lago Muta ed il vasto bacino artificiale del Lago di Resia: dalle sue acque emerge il campanile trecentesco del vecchio paese di Quron Venosta. Al Passo di Resia abbiamo attraversato la frontiera di Stato e quindi siamo entrati nel territorio dell'Austria. Il Passo di Resia è costituito da una ampia sella prativa e segna lo spartiacque tra l'Adriatico con il fiume Adige ed il Mar Nero con il fiume Inn - Danubio. Il versante austriaco inizia con la vallata del fiume Inn. Il primo paese che abbiamo incontrato è stato Nauders, dominato dal gotico castello del XIV secolo e della parrocchiale di ST. Valentin del 1512. Alla confluenza tra il fiume Inn, che proviene dalla Bassa Engadina, in Svizzera, ed il fiume Sanna, che percorre la Stanzeeral, si trova la cittadina di Landeck, importante nodo di comunicazione e centro di villeggiatura, ove si trova la chiesa parrocchiale dell'Assunta, eretta in forma tardo - gotico nel 1471 - 1521 . Proseguendo lungo l'ampia vallata dell'Inn abbiamo incontrato gli abitanti di Imst ( pittoresco centro di escursioni verso la Ptztal e nelle Otstaller Alpen), come ci spiega la nostra guida Gabriele Cimarosti, Stams ( celebre per la Zisterzienserabtei, abbazia cistercense fondata nel 1273 dalla imperatrice Elisabetta di Baviera in ricordo del figlio Corradino di Svezia. Abbiamo visitato l'abbazia e vi devo confessare che è un capolavoro dell'architettura barocca all'interno e gotica nella costruzione del grande edificio. Il villaggio di Telfs, è una località di villeggiatura ed è situato ai piedi delle Hohe Munde, con belle case arricchite di frontoni a cuspide e di affreschi, mentre alle porte di Innsbruck, abbiamo incontrato il villaggio di Zirl, altro centro di villeggiatura, sovrastato dalle rovine delle castello di Fragenstein, del secolo XIII e delle vette nevose delle Alpi di Stubai, per fermarci a mezzogiorno ai margini di una piazzola, sul greto del fiume Inn, per un abbondante spuntino offerto dal CAI. Verso le ore 14 circa, la comitiva ha raggiunto la bellissima città di Innsbruck, che in tedesco vuol dire "ponte sul l'Inn", residenza degli Asburgo duchi del Tirolo e capitale politica e culturale della regione tirolese. Poco prima di Innsbruck, sulla nostra destra, ha inizio la Stubai tal meta cara agli alpinisti tirolesi. E qui nel cuore del Tirolo, ben visibile dal centro della città tirolese ed a due passi dalla più importante via di comunicazione che attraversa le Alpi, la Stubaier Alpen vigilano sulle umane faccende fin dalla notte dei tempi. Questo importante massiccio, che domina come un gendarme la cittadina sottostante, collocato ad ovest del Brennero sulla linea di confine ed a torto spesso accomunato all'Otstal, ha un suo carattere ben definito. Presenta due facce assai diverse tra loro con un versante meridionale, calcareo, aspro e dirupato, selvaggio e difficile, dagli accessi complessi e battuto dal Fon, come giustamente cerca di spiegarci il presidente Sandro Zanellini, mentre a nord le sue architetture granitiche si stendono fino ai piedi della cittadina di Innbruck da dove possiamo benissimo, in questa giornata bellissima illuminata da un sole caldo e splendente, ammirare la sua selvaggia bellezza con ampi ghiacciai poco inclinati ed in parte occupati dagli impianti di risalita della Stubaier Cletscherbehn, All'imbocco della valle a Shoberg si percepisce fin dall'inizio la presenza, se ne vedono laggiù in fondo agli scorci, degli ottanta ghiacciai e dei quaranta monti oltre i tremila. Anche Gabriele Cimarosti, in questa sosta, ci parla diffusamente della bellezza di questi luoghi e anche delle difficoltà che gli alpinisti incontrano nelle loro escursioni. Abbiamo potuto constatare che in questa escursione culturale che l'Austria è un paese ordinato e la sensazione che abbiamo avuto nel percorrere da nord a sud le sue valli, ci ha dato l'impressione di percorrere una montagna popolata da sempre. Dappertutto, in ogni villaggio o borgata, ci ha colpito l'ordine. Nella sua parte inferiore, l'Austria è aperta e luminosa, i villaggi che abbiamo incontrato lungo il nostro percorso danno l'idea di essere lindi e laboriosi, tutto sembra nuovo. Eppure la presenza umana risale all'età del bronzo, di qui sono passati celti, romani, bavaresi, in tempi recenti c'è stata una importante estrazione mineraria, ferro ed oro, che ha lasciato, soprattutto a Fulpmen, forti tradizioni di lavorazione dei metalli ed insediamenti di piccole industrie, la storica Stubai valga ad esempio. Mentre visitiamo la cittadina del Tirolo, ci rendiamo conto che oggi è il turismo, ovviamente, l'attività economica principale, come del resto lo è in Trentino e Alto Adige. Apprendiamo che il turismo è iniziato il secolo scorso istituito e perseguito con tenacia come risorsa in grado di fare uscire dalla miseria le popolazioni locali. Quello che ci colpisce maggiormente, in questa terra antica è la presenza umana, che ai nostri occhi forse superficiali e forse turistici sembra cercare nelle regole rigidamente rispettate, nel conservatorismo delle forme un modo per convivere con un ambiente fragile e nello stesso tempo depauperato. Lasciamo a malincuore il Tirolo con il suo acrocoro circondato da montagne bellissime, che svettano alte e superbe verso il cielo, in un paesaggio meraviglioso. (Tratto dal libro: "Dolomiti e Sentieri d'Italia") La notte delle streghe. La sera del 30 aprile di ogni anno, in tutto l'Alto Adige, si festeggia la notte delle streghe. E' una tradizione medioevale che si perde nella notte dei tempi. Negli incroci delle strade del villaggio di Malles Venosta tutto si ferma, per lo svolgimento della rituale dello schioccare degli scudisci: una lunga bacchetta costituita da strisce di cuoio con una cordicella in cima che serve per incitare i cavalli. E' una vera tenzone che generalmente si svolge fra due scudisciatori, creando un armonioso effetto scoppiettante, come il crepitio di un'arma da fuoco, e l'eco prodotto, la riflessione delle onde sonore si diffondono per tutta la vallata. La tradizione vuole, che con lo scoppiettare degli scudisci vengano scacciate nel cuore della notte, le streghe malefiche, che nei tempi lontani si credeva potessero compiere atti di magia e fossero in relazione con le potenze infernali. Sicuramente è una ricorrenza pagana seguace della religione greco - romana antica, ma che ancora oggi, fra questa popolazione ladina - tirolese, questa ricorrenza viene rinnovata nella storia. E' una ricorrenza come tante altre che si ripete nel tempo. Anche nei borghi della grande Pianura Padana, c'è l'usanza di fare il famoso "Buriel" della Epifania che ogni festa porta via, cioè di bruciare in un grande falò acceso in mezzo alla piazza del paese la grande e buona vecchia. Quella vecchia immaginaria che si fa credere ai bambini che venga volando a cavalcioni di una vecchia scopa a portar loro i regali la notte della Epifania. Con questa manifestazione popolare, sentita da vecchi e bambini, vuole sensibilizzare i bambini, ma anche gli adulti verso quel mondo della fantasia che ricrea lo spirito e che si può trasformare anche in realtà evidente. Quindi, per una sera meno televisione provocatrice e demolitrice dei sogni dei bambini, della loro poesia e delle cose pulite della vita. Queste sono storie che fanno parte integrante della cultura di ogni paese. Noi non siamo etnografi che studiano le origini, gli usi e costumi, le manifestazioni culturali dei vari popoli, ma cerchiamo di comprendere, dove è possibile, le regole di un antico costume, ecco perché nel corso dei nostri itinerari ci soffermiamo con curiosità nelle tradizioni dei luoghi per attingervi quel colore di verità che rende viva e durevole ogni rappresentazione. (Tratto dal libro: "Dolomiti e Sentieri d'Italia") Giro culturale delle Tre Nazioni Dopo la meravigliosa escursione delle Cinque Terre, eccoci pronti a partire per la splendida gita turistica e culturale, per la visita di alcuni centri storici di notevole importanza. Castel Coira ha Sluderno in Alto Adige, il monastero di Musteir in Val Musteir in Engadina nella Svizzera Ladina, i castelli e le regie di Innsbruch nel Tirolo austriaco. Oggi è una bellissima giornata piena di sole, dopo una settimana piovosa e fredda di questa primavera anomala. Dalle pendici della montagna che sovrasta la città di Merano, un gruppo di nuvole cirriforme, che si presentano bianche e filamentose, simile a lana cardata, copre una parte della città, mentre il villaggio di Tirolo, che è barbicato sulla collina è illuminato dai raggi del sole. Poco prima del villaggio, da dietro una curva, vediamo svettare il Castel Tirolo, costruito nel secolo XII dai conti di Venosta, che dette il nome alla regione. La Val Venosta gareggia in bellezza con la Valle d'Aosta, con la quale ha tratti in comune: un ampio solco longitudinale scavato dai ghiacciai nel cuore di queste montagne, dalle quali scendono splendide vallate laterali, un clima caldo e asciutto e una cornice naturale tipica delle valli alpine. Ultima analogia, i castelli: arroccati su alture strategiche o adagiati nel fondo valle, ridotti e pittoresche rovine o perfettamente restaurati, sono parte integrante del paesaggio. All'imbocco della valle, nei dintorni di Merano, sorgono Castel Scena, con una interessante collezione di armi, e Castel Tirolo, nella cui cappella è conservato il più antico affresco raffigurante l'acquila rossa, simbolo del Tirolo. Risalendo la Val Venosta si scoprono molti altri castelli, tra i quali Castelbello, Castel Coidrano, singolare maniero di fondovalle con cortile rinascimentale, e Castel Coira, a monte di Sluderno, il meglio conservato dell'Alto Adige. Fondato verso la metà del XIII secolo dai conti Trapp, si compone di diversi fabbricati romanici, gotici e cinquecenteschi raccolti intorno al cortile a tre ordini di loggiati: di particolare interesse quello del primo piano, ornato di affreschi rinascimentali, che è stato molto ammirato e fotografato da noi del gruppo. Le sale del castello custodiscono una delle più importanti armerie d'Europa. Nel nostro itinerario fino a Sluderno, abbiamo incontrato molti piccoli borghi di sapore medioevale. I nuclei abitati sono costituiti da casine linde dipinte a colori luminosi, delineate da strutture in legno, con vasti tetti spioventi, e spesso raccolti attorno ad una chiesa con il campanile sovrastato da una cuspide a cipolla o a punta e con i piccoli cimiteri con le croci bianche che riflettono la luce del sole. Per noi che veniamo dalla grande Pianura Padana, sono inconsueti i piccoli cimiteri raccolti in un fazzoletto di terra dietro l'abside della chiesa ed al centro della borgata. Mentre il nostro torpedone freccia verso la meta, notiamo una serie di ramificazioni laterali che consentono, come ci riferisce Sandro Zanellini, di penetrare nei più remoti angoli delle Alpi confinarie, paradiso degli scalatori, a nord, o di spingersi, sul versante est, sin nel cuore dei parchi dolomitici. Il versante settentrionale è formato da ampi terrazzi coltivati a vigneto e frutteto, quello meridionale da alture boscose che raggiungono elevate altezze, dietro le quali, di fronte al villaggio di Sluderno spuntano in distanza le cime dolomitiche coperte di neve ed illuminati dal sole. E' uno spettacolo indescrivibile quello che si presenta davanti a noi, a destra e a sinistra della carreggiata, iniziando subito dopo Merano, le grandi piantagioni di mele e di pere sono nel massimo fulgore, una fioritura eccezionale, un tappeto rutilante che riempie gli occhi. Alle ore 10 circa, come previsto sulla tabella di marcia, la comitiva è giunta a Sluderno. Sluderno è un centro di villeggiatura estivo, sito in Val Venosta a quota 921 metri sul livello del mare. E' famoso il suo Castello Coira, costruito nel XIII secolo dai vescovi di Coira e ricostruito, come lo abbiamo visto noi, nel 1500. Il Castello ( in tedesco Schluden) è ricco di preziosi arredamenti d'epoca e dotato di una delle più belle collezioni d'armi. CASTEL COIRA ACCENNI STORICI. E' doveroso soffermarci un momento per parlare più diffusamente di questo maniero, che come ci racconta la storia fu abitazione di signori feudali in campagna, inoltre è stato un avamposto militare, per la difesa della valle. La millenaria appartenenza della Val Venosta all'episcopato di Coira viene ricordato in questa terra non soltanto dalla frequente venerazione dei santi Lucio e Florino, i due patroni della diocesi svizzera, ma in modo particolare dal nome di questo Castello. I balivi di Matsch, il cui dominio comprendeva la Valle Venosta, l'Engadina, la Val d'Adda e la zona di Prattigau, dopo una faida perduta nel 1253 con il vescovo Heinrich IV von Montfort, dovettero concedergli il diritto di costruire una fortezza in un punto qualsiasi dell'alta Val Venosta. Per motivi strategici fu scelta quell'area d'insediamento allo sbocco della val Mazia e posta su un'altura dominante il paese di Sluderno. Sei anni più tardi, nel castello appena costruito viene eseguita la prima sigillatura: il 21 febbraio 1259 il vescovo Heinrich redige a "Curberch" la convalida della donazione della parrocchia di Passiria a favore del vicino convento benedettino di Monte Maria. Quindi l'edificazione del castello è sicuramente avvenuta negli anni tra il 1253 ed il 1259. Non passa però neanche mezzo secolo, che il castello a metà finisce in possesso dei Signori di Matsch, mentre l'altra metà, nel 1297, viene data loro in feudo dal capitolo di Coira. Dalla loro originaria residenza del castello di Matsch nella inospitale val Mazia, i Signori di Matsch si trasferiscono al castel Coira, pur mantenendo il loro nome d'origine al quale aggiungono quello dei conti von Kirchberg riferito ad un altro loro possedimento in Svezia. Nel 1348 vengono però costretti a sottomettersi al principe regnante del Tirolo rinunciando al loro stato di franca nobiltà e perdendo per tre anni le loro potenze di Tarasp, di Mazia di Sotto e dello stesso Castel Coira. Il Castel Coira è considerata una delle più importante fortezze inespugnabili dell'alta val Venosta. Importante testimonianza di epoche passate è l'armeria. Essa contiene, fra l'altra, una grandiosa serie di armature gotiche, che per la loro qualità sono quanto di meglio esiste in questo campo; tra i fabbricanti, da citare Petrajolo da Missaglia, Corrado e Adriano Treytz, Gaspare Rieder,Jorg Wagner, Corrado Seusenhofer. Il pezzo più antico dell'armeria, risalente al 1350, è un cimiero in cuoio di un conte di Matsch, adornato da due corna di bufalo. Il soffitto a fondo del loggiato, nel primo piano, è sostenuto da sedici colonnine scolpite in un singolare miscuglio di stili, dal romanico e tardo - gotico a forme rinascimentali. Vi sono dipinti lungo la volta a costoloni, l'albero genealogico dei Matsch e dei Trapp, stemmi d'alleanza, cartigli, lo stemma dell'allora regnante Ferdinando del Tirolo sovrastato dalla corona arciducale e circondato dalla collana dell'ordine del Toson d'Oro. Sarebbe troppo lungo citare ogni particolare che orna il maniero in queste nostre poche pagine, e preferiamo proseguire nel nostro itinerario storico - culturale verso il villaggio di Males Venosta, sito in una felice posizione sopra la piana di Glorenza, sul fiume Adige, a 1051 metri di quota. In questo grazioso villaggio abbiamo pranzato e pernottato. Dal terrazzo dell'albergo "Tyrol" si gode di una vista meravigliosa. Di fronte a noi si vedono nettamente le cime innevate del gruppo dolomitico delle Odle, che in espressione ladina vuol dire aghi. Esse offrono suggestive visioni alle graziose e tranquille località turistiche della Val Venosta e dell'Enghedina che ne sono pregiati esempi. La valle sottostante inizialmente si presenta sotto forma di stretta forra e poi gradatamente si apre, mostrando le sue magnifiche pinete e verdi pascoli, che risultano, specialmente oggi, motivo di serena distensione. A pochi metri della nostra postazione panoramica sorge il centro storico, una torre cilindrica e i resti di quello che fu un castello medioevale, probabilmente del XII secolo. Sulla sinistra del rudere fa bella mostra di se la chiesa parrocchiale con la torre campanaria in stile gotico e fra le sue mura il piccolo cimitero. Sulla destra svettano altri due campanili poco lontani fra di loro, che delimitano il borgo. Nelle prime ore del pomeriggio, a bordo del torpedone la comitiva si è trasferita in territorio svizzero ( Valle Engadina) attraverso la Via Monastero, Val glaciale delle Alpi Retiche, laterale alla Val Venosta, percorsa dal Rio Rom, affluente di destra dell'Adige, attraverso la frontiera di Tubre, percorrendo la carrozzabile per il Passo del Forno, in una lussureggiante vegetazione di boschi e prati. La Val Monastero ( Val Mustair) è parte integrante del Cantone dei Grigioni e costituisce l'unico lembo di terra svizzera, che manda le sue acque nell'Adige; geograficamente possiamo dire che fa parte del Tirolo meridionale, anche se i suoi abitanti hanno sempre avuto rapporti tutt'altro che amichevoli con i tirolesi. E' stata terra aspramente contesa per molti secoli, prima dei vescovidi Coira e dai cantoni del Tirolo e, poi, dagli imperatori asburgici, che cercarono di impossessarsi non solo di questa valle, ma di tutta la confinante Bassa Engadina. L'appartenenza politica alla Svizzera ha avuto profonde ripercussioni, anche sul piano culturale: la Val Musteir ( come del resto la Bassa Engadina) è oggi compattamente romancia e, più precisamente, di parlata " valader", che è la variante del ladino diffusa in questa zona. Nella vallata abbiamo incontrato, oltre il villaggio di Musteir, Santa Maria, Valcava, Fuldera, Tschierv e Lu ( m. 1920, il più alto villaggio della Svizzera) sono i suoi Comuni nei quali è suddivisa la vallata. In tutti questi villaggi abbiamo trovato ed ammirato soprattutto, le tipiche case in stile engadinese, massicce e possenti, ornate di graziosi "sgraffiti" spesso colorati. Molti tradizioni hanno resistito in questo territorio: come la "mastraila", la tipica usanza svizzera delle votazioni per alzata di mano in piazza, e l'intaglio nel legno di delicatissimi fiori e splendide statuine. Come abbiamo potuto accertare attraverso alcune pubblicazioni che illustrano quella località, la Valle Mustair prende il nome dal grande monastero di San Giovanni, che sorge appunto a Musteir. Secondo la tradizione, sembra che sia stato fondato da Carlo Magno tra il 780 e il 790, e poi affidato all'Ordine benedettino per divenire, nel 1163, abbazia femminile. Il monastero si presenta come un serrato e grandioso gruppo di edifici, chiuso di mura merlate dotate di torri e raggruppati intorno a due cortili. La chiesa conventuale, gioiello di architettura carolingia, ma con diverse aggiunte di epoca gotica barocca, è una costruzione triabsidara, a tre navate su esili pilastri che si aprono nelle nervature delle volte. Lungo le pareti si possono ammirare preziosi affreschi del secolo IX e pitture gotiche nelle absidi. Parte di questi affreschi sono stati asportati con la nuova tecnica dello strappo e sistemati nel piccolo museo, ove abbiamo potuto ammirare, oltre che gli affreschi, una statua romanica in stucco di Carlo Magno, risalente al 1165, ed un rilievo romanico del battesimo di Cristo, del 1087. Prima di fare rientro all'albergo "Tyrol", la comitiva ha visitato la cittadina fortificata di Glorenza. Glorenza (Glurnes) è situata su di un conoide al cospetto dell'Ortles e delle Alpi Venoste, a metri 907 sul livello del mare, ed è l'esempio centro-alpino più tipico e celebrato di città fortificata, che ha conservato intatta la forma urbanistica come è stata realizzata nel '500. La storia è legata al passaggio della Lombardia alla Germania, a presidio di un nodo strategico di frontiera; fu punto di smistamento del transito del sale tirolese, del grano e di altri prodotti e manufatti lombardi, veneti, tedeschi e svizzeri. Nel 1304 era già elevata al rango di città. Abbiamo potuto osservare nel corso della nostra escursione alla cittadina fortificata, che ha una pianta di forma trapezoidale, disegnata dalla cortina muraria alta 7 metri, intercalata da tre massicce porte-torri quadrangolari ( Porta di Tubre, Porta di Malles, Porta di Sluderno) e da quattro torrioni semicircolari. I fossati settentrionali e occidentali furono compiuti all'inizio del '600, mentre a sud la cittadina era difesa dall'Adige. Abbiamo percorso le due strade interne ( la Florastrassen e la Malsergasse) che collegano le tre porte e si incrociano sulla piazza principale ( Stadt-Elatz ), dove si condensa lo spettacolo della minuscola città : la fontana-monumento con due enormi ippocastani, le facciate delle case romaniche, gotiche, barocche e ottocentesche, decorazioni ed affreschi, torricelle, sporti di varia forma, la policromia dei tetti. Altra strada da citare è la Laubengasse, dotata di portici medioevali a lunetta, che le conferiscono una forte atmosfera rustica - signorile tipicamente alpino - venostano. Fuori porta Tubre, altro, oltre l'Adige, che si raggiunge percorrendo un piccolo ponticello in legno coperto, che in miniatura sembra quello di Bassano del Grappa, sorge la quattrocentesca chiesa di S. Pancrazio, con affreschi coevi ( alla base del campanile, un grande affresco del Giudizio Universale, del 1496). Appena la comitiva è giunta a Glorenza, una leggera acquerugiola cadeva dolcemente sulla città, portata da una massa nuvolosa grigiastra che scendeva dal vertice della montagna, ma ben presto le nuvole cumuli formi che hanno dato luogo a quel piccolo temporale si sono subito dissolte ed i raggi del sole sono ritornati ad illuminare la collina di Malles Venosta. Terminata la visita alla città fortificata di Glorenza, il torpedone ha fatto dietro front, ha ripercorso una parte del fondo valle e si è diretto verso Malles Venosta. Era uno spettacolo meraviglioso, reso più vivo dai raggi del sole morente che parevano accendere di mille nuove luci policrome il quadro che ci veniva offerto. Il fiume che serpeggiava in basso, a fondo valle, acquistava uno splendore trasparente di agata, di quella pietra preziosa che si rinviene nelle cavità delle rocce eruttive basiche e di argento. Sembrava quasi metallo fuso che ancora avesse bagliori di fiamma e vampe di calore. Ad un certo tratto si adagiava in un laghetto raccolto e terso come uno specchio: ed era veramente uno specchio, che rifletteva tutti i pini e la grande abetaia del costone che si affacciava sulla riva. A valle tutta la campagna verdeggiava: e, sul verde dei pascoli, piccoli greggi e una modesta mandria di mucche e vitelli chiazzati sparsi davano una nota riposante di arcaica memoria: giungeva da lontano il suono metallico, squillante di una campana. Mentre il grosso torpedone si allontanava dal fiume la campagna cambiava colore: si vedeva ora seminata ora appena mossa dall'aratro, d'un colore di terra scura; ora composta in tanti solchi eguali ove le prime piantine si allineavano in ordine: ora cosparsa qua e là di mucchi di paglia gialla della passata stagione e verdastri di fieno appena falciato. Risalendo verso la collina, si inargentava tutta di una piantagione di meli, anch'essi in filari eguali, con i lunghi rami contorti coperti da una meravigliosa fioritura, come braccia che offrissero quel loro dono prezioso. Il Castello medioevale, sul cocuzzolo della collina, stava come su di un piedistallo naturale. Visto dal fondo della vallata appariva come un gran fabbricato ad angolo. Sul fianco aveva la chiesetta ed il campanile in quello stile caratteristico ed inconfondibile del gotico del XIII secolo, con prevalenza delle linee verticali su quelle orizzontali e dei vuoti sui pieni, caratterizzato da guglie e pinnacoli, dall'arco a sesto acuto delle finestre, e nel mezzo era il chiostro col giardino, ma l'uno e l'altro appena si indovinavano di dietro all'alto muro di cinta sgretolato. Oltre il fabbricato principale e dietro l'abside della chiesa si scorgeva il piccolo cimitero, con tutte le bianche croci allineate accanto ai cipressi. Ogni paese ha le proprie abitudini, ovvero il complesso delle usanze, dei costumi, delle credenze che vengono trasmesse da una generazione all'altra oralmente, per iscritto o nella pratica. Non era la prima volta che vedevamo il cimitero sistemato dietro la chiesa del paese. La prima volta che ne abbiamo visto uno è stato nell'Alto Adige. Quello di costruire il cimitero dietro le chiese, nel centro del villaggio, è una tradizione dei popoli nordici e specialmente dagli austriaci. Ecco perché in questa nostra escursione culturale nel Tirolo, nell' Engadina ( Svizzera) ed in Alto Adige, abbiamo potuto constatare che è una loro tradizione seppellire i morti dietro le chiese, al centro del villaggio. Da lontano si scorgevano le case del villaggio di Malles Venosta. il torpedone aveva rallentato la sua andatura in vista delle prime case ed ora stava percorrendo la strada principale che attraversava il borgo medioevale. La strada era stretta, lastricata di porfido e pulita, come del resto sono tutte le strade di questi villaggi. Sulla soglia delle case qualche donna in costume tirolese stava guardando il torpedone, cercando di capire forse la nazionalità dei turisti che viaggiavano sopra. Ormai il tramonto si era fatto crepuscolo quando il torpedone si è fermato davanti all'albergo "Tyrol" e le luci delle strade si erano accese, prima che fosse interamente notte. (Tratto dal libro: "Dolomiti e Sentieri d'Italia") Baselga di Pinè e le valli del Trentino La Valle dell'Adige era ancora addormentata, si notavano appena le perfette geometrie dei vigneti e dei frutteti mentre le siepi si diradavano, apparivano qua e là nude rocce della montagna brulla di arenaria rossa che più in alto culminano con il Monte Baldo. Ormai la pianura Padana rimaneva lontana anche dai nostri pensieri. Tutto quel mondo piatto, silenzioso e velato da una nebbiolina leggera, aveva l'apparenza di un sogno. Mentre guardavo quelle montagne brulle e velate attraverso il finestrino del torpedone, a tratti una voce pareva ripetermi le parole di Khalil Gibran: " Forse hai sentito parlare della montagna Benedetta. Qualora tu ne raggiungessi Mai la cima, proverai un solo desiderio: Scendere e ritrovarti con chi abita a valle. Ecco perché si chiama la montagna benedetta". Quando abbiamo attraversato la Città di Trento, il cielo era completamente coperto e la città quasi addormentata. Man mano che i due grossi torpedoni dell'APAM di Mantova, arrancavano su per i tortuosi tornati alle pendici di Pergine, mentre il cielo incominciava a rischiararsi da deboli raggi di un sole pallido. I scenografici spalti rocciosi, torri, pinnacoli, vedrette e circhi glaciali: il Gruppo di Brenta, rientra di diritto nelle Dolomiti, di cui costituisce la sentinella occidentale. Tutto questo spettacolo prodotto dalla natura in milioni di anni mentre emergeva da una grossa nuvolaglia biancastra e lasciava intravedere le sue bianche cime illuminati dai primi raggi del sole. Superato il costone parzialmente imbiancato di neve i due grossi pullman procedevano uno dietro l'altro a velocità di crociera. Sulla nostra sinistra, oltre alle cime meravigliose del Gruppo di Brenta, come pure la grande valle Rutiliana si andava schiarendo. Il sole era già alto nel cielo, quando improvvisamente la visione delle superbe cime dolomitiche sono state coperte dalle montagne che sorgono ai lati della stretta valle che porta a Baselga di Pinè. Questo villaggio montano, che sorge sulla riva del lago omonimo che era completamente gelato, é il principale dei centri sviluppatasi sull'altopiano dolcemente ondulato che si estende a sud del Lago di Serraia. Abbiamo potuto constatare che parte dell'abitato conserva ancora caratteristiche medioevali. La parrocchiale é di forme gotiche, con elementi romanici. Nei dintorni, la Riserva Naturale Laghestel, zona umida residuo di un antico lago, di grande interesse botanico. Alle ore 9,30, come previsto sulla tabella di marcia, i due grossi automezzi si sono fermati sulla sponda sinistra del Lago di Baselga di Pinè. Sull'unica strada che delimita il lago, vi erano parcheggiati alcuni automezzi della Protezione Civile, mentre una piccola folla di curiosi e di allievi sommozzatori ed appassionati di parapendio si stavano avviavano verso il centro del lago, per eseguire degli esercizi sportivi nelle acque gelide del lago gelato. Ma la massa degli escursionisti mantovani, che sembravamo come uno sciame di api che si aggirava attorno ad un alveare, abbiamo invaso pacificamente gli unici due Bar del paese, per sorbire un buon caffè caldo e degustare una buona fetta del loro dolce locale. Subito dopo di esserci rifocillati, il grosso sciame della comitiva, piano piano scemava e si avviava verso il lago che oltre ad essere gelato era bianco di neve fresca, la piccola squadra di noi Campitellesi, abbiamo imboccato un facile sentiero innevato, che in poco tempo ci ha portati al vertice della collina, da dove si ammirava un meraviglioso panorama con le alte cime bianche di neve e i villaggi barbicati nei pendii illuminati da un pallido sole quasi primaverile. La nostra, é stata una semplice passeggiata senza pretese, una passeggiata in mezzo ai boschi, che ci ha permesso di sgranchirci le gambe e preparare lo stomaco alla grande buffata di mezzogiorno presso l'Agriturismo "La vecchia quercia", che sorge a ridosso di un picco a guardia della valle di Baselga di Pinè. Dopo un'ora circa di cammino, siamo ritornati al punto di partenza e ci siamo fermati ad ammirare una famigliola di cigni bianchi, di anatre e capi verdi acquatiche palmipede, selvatiche e domestiche che immerse nel canale di scarico del lago, erano in un continuo evoluzione con i turisti che buttavano loro del mangime. Ammirare quelle creature nell'acqua, alla ricerca del cibo, é stata una visione veramente bellissima. Alcuni di questi volatili esemplari, nelle loro evoluzioni aeree, riuscivano persino a prendere il cibo al volo dalle mani dei turisti. Dopo l'evoluzione degli uccelli acquatici, abbiamo raggiunto gli allievi sommozzatori che nelle acque gelide del lago gelato, effettuavano delle esercitazioni sotto il ghiaccio. Questi giovani allievi e soprattutto appassionati sommozzatori, si esercitavano con il respiratore a raggiungere , nuotando sotto la calotta ghiacciata del Lago di Baselga di Pinè ,corpi, oggetti ed altro che si trovano ad una certa profondità . Ci spiegava un giovane atleta, facente parte del gruppo degli allievi sommozzatori, che gli stessi esercizi vengono effettuati nel mare, sul fondo del lago, di un canale o di un fiume, eseguendo così il recupero di persone annegate o di un antico relitto storico. Ci siamo congratulali con loro e abbiamo fatto ritorno sulla strada dove i due grossi pullman dell'APAM, erano pronti per partire verso il ristorante dove eravamo attesi per il pranzo. La nostra, praticamente, é stata una vera invasione del grande e moderno ristorante, che come abbiamo detto, sorge sulle pendici della montagna di fronte alla distesa bianca del Lago Serraia. Servire il pranzo ad una comitiva di 110 persone, non é una cosa semplice, ma dobbiamo dire con nostra soddisfazione, che il personale del locale é stato all'altezza della situazione, come pure l'organizzazione del Circolo dell'APAM di Mantova, che ha organizzato l'escursione in un luogo così diverso, in una zona bellissima della valle di Baselga di Piné. L'ultimo tratto collinare che si fonde con il bianco del lago gelato é di una bellezza infinita e la natura, in questo periodo invernale, é nel suo massimo splendore. Lungo gli argini non ci sono i profumati fiori di campo di varie specie e colori, che in primavera il loro profumo é intenso, inebria il cuore e fa bene all'anima, ma gli argini e i sentieri sono ornati di candida neve che danno una nota di bellezza, di allegria e soprattutto di poesia. Tratto dal libro: "Cenni storici e il fascino del Bel Paese" Anche l'ozio può essere creativo. Abbiamo approfittato di queste vacanze per recuperare l'essenza naturale della vita, che i ritmi frenetici della nostra società stanno seriamente compromettendo. Un filosofo, di cui non ricordo il nome, ha detto: " Viaggiando, oltre a conoscere il mondo, conosci gli uomini". Giovanni Iacomini, ci suggerisce come individuare il miglior modo di impiegare il tempo libero in questo mese che, per la maggior parte di noi, costituisce l'unica lunga interruzione dell'anno lavorativo. Per noi, che siamo della Terza età, non interrompe nulla, anzi ci da l'occasione di viaggiare e di oziare nelle località più belle del nostro Paese. "Chi si reca in una località di vacanza sa che in altri periodi dell'anno il soggiorno potrebbe essere senz'altro migliore: le strade sono intasate, gli aerei e i trasporti pieni, i servizi congestionati. Il tutto, poi, a prezzi notevolmente elevati. Il fatto é che non molti possono scegliere un momento diverso dalla inflazionissima " quindicina d'agosto" per le ferie: una serie di ritardi e resistenze si oppone ad un più razionale scaglionamento delle vacanze. Non sono però infrequenti i casi di chi, quasi masochistica mente, si lascia trascinare in modo più o meno cosciente nei bagni di folla. Perché invece non cominciare da questo break vacanziero per ritrovare alcuni spazi di riflessione - fondamentalmente per la nostra esistenza - che nella società di oggi sembrano definitivamente accantonati? Il professor Domenico De Masi, preside della facoltà di Scienze della Comunicazione e Sociologia presso l'Università " La Sapienza" di Roma, ha dedicato molti studi a queste problematiche solo apparentemente secondarie. La cultura manageriale del potere e del denaro, l'idolatria del mercato, il primato dell'utile e del profitto, l'attenzione maniacale per la sfera lavorativa, continuano a sfornare persone ricche di merci ma profondamente infelici, sopraffatte da insoddisfazione, stress, disagio mentale. Predomina lo stile di vita anglosassone, tipicamente calvinista, che porta a mortificare i nostri desideri e annullare la nostra umanità per " rendere" al massimo dal lunedì al venerdì e poi magari darsi agli eccessi nel fine settimana: eccessi così perniciosi soprattutto per i giovani, che sempre più spesso finiscono contro un guard rail. Si delega, si procrastina la propria vita e momenti migliori che non arrivano, purtroppo, quasi mai. Il modello " vincente" che ci viene proposto é quello di chi lavora come un ossesso, sacrificando tempo prezioso ai rapporti familiari e sociali, per poi bearsi dell'acquisto di un'auto di grossa cilindrata o di qualunque altro status symbol. Assillati dai tempi della produzione, siamo sempre più disabituati a lasciarci cullare dell'armonia che il nostro meraviglioso pianeta ci offre. Non riesce a sdradicarsi la malintesa idea di " modernità", che porta qualcuno a preferire una spiantata di cemento a un prato verde, uno spruzzo d'intonaco ad un muro di pietre, una corsia di accelerazione a un ciottolo di sampietrini. Pulizia, sviluppo, velocità, efficienza, motori rombanti: di fronte alla violenza di tali concetti dobbiamo riappropriarci della capacità e ascoltare, riflettere, dialogare, attribuendo la giusta importanza a quelle che De Masi chiama " forme creative di ozio". Jeffrey Eugenides, nel suo romanzo Middle Sex, racconta un'antica leggenda cinese: un giorno la principessa Si Ling -Chi sedeva sotto un gelso quando il bozzolo di un baco da seta cadde nella tazza di tè. Nel tentativo di tirarlo fuori, la principessa vide che nel liquido caldo il bozzolo cominciava a dipanarsi. Porse l'estremità alla cameriera e le disse di camminare. La ragazza uscì dal giardino, attraversò il cortile, varcò le porte del palazzo e uscì dalla Città Proibita, spingendosi per quasi un chilometro nella campagna prima che il filo finisse. In Occidente, nel corso di tremila anni, questa leggenda si trasformò, fino a diventare la storia di una mela. Il significato é lo stesso: le grandi scoperte, quella della seta come quella della legge di gravità, piovono sempre dal cielo. Capitano a chi ozia sotto un albero. E allora? Non possiamo accontentarci di vivere in una società in cui contano solo la precisione, la risoluzione dei problemi pratici, la competività distruttiva, i confronti, le scadenze, i controlli, le valutazioni. Nei termini cari a Pasolini, per evitare la nostra " degradazione antropologica", lo sviluppo va accompagnato, completato, impreziosito dal progresso. Creare i propri passatempi, ammirare un paesaggio, guardare il cielo, leggere un buon libro, ascoltare musica, seguire il volo degli uccelli.... Non é tempo perso! La vita, non sembri ovvio ripeterlo, é fatta soprattutto di questo. Un saggio apparso su Micromega, De Masi pone l'attenzione sulla dimensione del "pressappoco". Con il passaggio della società moderna a quella industriale si sarebbe avuto anche il passaggio dal mondo del pressappoco a quello della precisione. Fino al Settecento l'umanità viveva all'insegna del misterioso, del magico, la sfera emotiva prevaleva su quella razionale. Con l'illuminismo e l'industrializzazione il "pressappoco" della società rurale é stato sostituito dalla precisione di quella industriale. Certo, oggi sono stati compiuti enormi progressi; tuttavia quasi tutti hanno riguardo in prevalenza, se non quasi esclusivamente, settori ben determinati, che poco hanno a che vedere con la felicità dell'uomo. E' probabile sia una questione di investimento: nell'antichità le migliori intelligenze venivano educate per la soluzione di problemi etici, estetici, filosofici. La società odierna seleziona, concentra e gratifica le capacità tecniche, atte alla soluzione dei problemi pratici. Noi oggi sappiamo " misurare", ma non sappiamo vivere , amare, riflettere meglio di quanto si facesse in alcune società antiche. Eppure, non é affatto detto che oggi si viva meglio: non c'è stato un parallelo avanzamento della convivenza civile e della umana felicità. Avendo delegato a macchine portentose tutte le operazioni che richiedono velocità, ripetitività e precisione, l'uomo occidentale potrebbe finalmente godere, per la prima volta nella storia, la fortuna di essere ricco, sano, colto, longevo e, allo stesso tempo, sereno, contemplativo, solidale. Senza sfruttare nessuno potrebbe ottenere dalle macchine tutti i beni materiali che gli occorrono, dedicandosi alla produzione di idee, all'introspezione, all'amicizia, al gioco, alla creatività, alla convivialità. Con la distribuzione e l'esternazione, caratteristiche della società post industriale ben individuate dall'economista Jeremy Rifkin, nascono nuove opportunità di organizzare il lavoro secondo le esigenze dei cittadini, in tempi più ridotti a parità di produttività. I nostri sistemi economici sono in grado di produrre sempre più beni e servizi con meno lavoro, al punto che c'è già chi parla di jobless growth, sviluppo senza lavoro. Ma il progresso materiale, come raccontava ai primi del '900 il film di Fritz Lang, Metropolis non si é tradotto nel miglioramento della qualità della vita. De Masi propone allora di " bonificare" la nostra esistenza, coniugando estetica, etica e filosofia con tecnica ed economia. Fatto tesoro dei risultati positivi dell'esperienza industriale, occorre inaugurare nuove forme di organizzazione e nuove forme di ozio creativo. Il valore del tempo libero non potrà sfuggire ad una cultura progredita e raffinata come quella dell'antica Roma. Non a caso il latino, notoriamente capace di racchiudere concetti profondi in formule linguistiche efficaci quanto sintetiche. Definiva il nec - otium ( da cui il nostro negozio, espressione archetipica dell'attività commerciale) come antitesi dell'otium E' dall'assenza ontologica dell'ozio che nasce l'attività economica e non viceversa. Oggi, al contrario, si é portati ad attribuire connotazioni negative al concetto di ozio, a considerarlo uno spreco del tempo lasciato libero dall'attività lavorativa. Anche se forse sarebbe necessario rimarcare che, quando De Masi parla di questioni come la fine del lavoro, della tendenza al rifiuto del consumismo e delle mode, per privilegiare forme di vita più discrete ed eleganti, la sua analisi é limitata a quella parte minoritaria dell'umanità che ha la fortuna di vivere nei pochi Paesi ad economia avanzata di cui anche noi, in Italia, in qualche modo facciamo parte". Oggi, noi che facciamo parte di quella grande categoria degli ultra settantenni, abbiamo la fortuna di vivere in questo meraviglioso Paese che tutti ci invidiano, che si chiama Italia, e che é stato definito il giardino più bello del mondo, per il paesaggio, per il clima, per il suo cielo e per il mare. Noi non facciamo altro che osservare tutte le regole dell'ozio", che per noi, come scrive Giovanni Iacomini, é soprattutto creativo. Noi abbiamo molti hobby: per esempio, l'escursionismo sui sentieri delle Alpi e delle Dolomiti, dove vivono zone intatte e silenziose. Le Dolomiti del Brenta, per esempio, sono nate dal fondo del mare invece che sulle sue rive , sono meno soggette all'erosione atmosferiche, sono affilate come coltelli. Queste montagne hanno un carattere difficile e vanno avvicinate con pazienza e con prudenza, ma sono capaci di offrire anche il loro lato più gentile: i borghi di Madonna di Campiglio e di Molveno, per esempio. E poi, sono il luogo prediletto per l'incontro con camosci e cervi, aquile e gipeti. Uno scenario grandioso, che lascia spazio alle leggende e a uno spirito religioso decisamente fuori dal comune. Oziando su questi freschi sentieri e soffermandosi ad ammirare le suggestive cime, le sorgenti, i queruli ruscelli e le cascate, ti viene spesso di fare una riflessione creativa sulla meravigliosa natura. Quanti poeti e scrittori, hanno tratto ispirazione per le loro opere letterarie o poetiche da questi luoghi del silenzio. Oltre all'escursionismo, amiamo la pittura , la letteratura e la scultura, ma soprattutto amiamo viaggiare, perché viaggiando, si conosce il mondo e le persone. Amiamo molto ammirare le bellezze della madre natura con i suoi meravigliosi paesaggi , come é successo nelle recenti escursioni sul motoveliero Mob Dik nell'Adriatico, antistante la bella città di Cattolica. Oltre ad ammirare quel paesaggio di colline ricamate, che ha forgiato l'uomo, con la sua intuizione , la sua intelligenza e la sua fatica. Su quelle colline, che hanno per sfondo l'Adriatico, il Rinascimentale, ha punteggiato la storia dell'umanità. E' stato altrettanto bello seguire il volo dei bianchi gabbiani nell'immensità del cielo e del mare azzurro ..... Non é stato sicuramente tempo perso oziare su quel vascello fra le onde del mare! La vita, é fatta soprattutto di queste piccole cose. L'introspezione, non é altro che l'analisi, l'esame del proprio intimo, della propria coscienza, che poi non é altro che un'indagine psicologica di ognuno di noi. In tutto questo fa parte l'amicizia, il gioco, la creatività, la convivialità, la socializzazione con gli altri. Tutte queste cose fanno parte dell'ozio creativo, del tempo libero di queste nostre vacanze. Ormai, le nostre vacanze non hanno limiti di tempo, per noi l'ozio non é il padrone dei vizi, come si suol dire, ma un momento di riflessione e di creativi - Tratto dal libro: "Cenni storici e il fascino del Bel Paese" - Balla coi muli Un trekking nel Parco dei Monti Sibillini, una nuova esperienza - un'iniziativa fuori programma. Sandro Zanellini, ideatore di questo trekking nei Monti Sibillini, non é nuovo a queste iniziative fuori programma, che in un certo senso, ha le caratteristiche del trekking nel cuore della natura , come in quella della selvaggia Sardegna meno conosciuta, nel circondario di Santa Maria Navarrese, fra le falesie e le piccole spiaggette silenziose. Tiziana Viviani, in quella occasione così scriveva: " C'era una Sardegna dalle spiagge di sabbia impalpabile, o dei bianchi sassi levigati da un'acqua cristallina, o dagli scogli contro i quali si infrangono spumeggianti onde e c'è una Sardegna meno conosciuta, ma altrettanto bella. E' quella delle bianche strade che a volte seguono il tracciato delle antenate romane, quella dei sentieri dei carbonai che, tra cespugli di cisto e mirto, si inerpicano inesorabilmente sino alla cima dei monti. Svela i suoi tesori solo a chi sa conquistarsi faticosamente, appagato dagli esaltanti profumi e colori del rosmarino, e dalla menta , del cisto. Della rosa canina, dell'elleboro, del finocchietto, della digitale, della peonia, e da una serie di altri fiori Quando ci s'addentra nei territori che da lontano sembrano solo un largo manto verde punteggiato spesso dal rosso e giallo delle euforbie, si scoprono giganteschi e secolari olivastri, nodosi ginepri, querce da sughero, corbezzoli, stupendi lecci, ornielli, fichi, maestosi oleandri e prati di felci. Insolita e stupefacente la convivenza di varie piante radicate su uno stesso masso, ogni piccolo anfratto di roccia ospita alberelli e fiori. Si può sostare alla grotta del vento " Sa Oche", inoltrarsi nella gola del Corroppu, creata dal Flumineddu nel corso di milioni di anni e lì fermarsi ad osservare i balestrucci che vanno e vengono incessantemente dai loro nidi. Ci si può tuffare nelle acque del Flumineddu dopo un lungo cammino sotto il peso di uno zaino zavorrato da alcuni litri di indispensabile acqua; gustare una cena a base di porcellino o capretto servito su un letto di foglie di mirto. Incontrate, lungo il tragitto verso Teletottes, branchi di maiali bradi ed uscire precipitosamente dalle tende di notte per impedire loro il loro pasto delle tue pedule. Si può scendere lungo il torrente che forma la Codula di Luna percorrendo una valle sommessa da oleandri in fiore, fino ad arrivare a Cala Luna per poi tuffarsi in acque limpidissime e trovare refrigerio nelle sue immense grotte. Si può avere la fortuna di vedere l'aquila che volta alta nel cielo e sentirsi in quel momento libero come lei,, e quando a S'Archideddu Lupiro si vede il mare attraverso il foro della roccia, si ha la sensazione che qui cielo, terra e mare vivono in simbiosi. Si può sentire il canto della civetta e quello dell'assiolo notturno, sotto un cielo stellato. Prima di tuffarsi per un bagno corroborante e si ammira l'opera del pastore che, con massi, tronchi e rami contorti di ginepro, ha saputo creare un piccolo capolavoro d'architettura. Non si può dimenticare " Olobissi", dove, all'ombra di un grande olivastro su piatti di pane carosau si gusta una favolosa ricotta freschissima, ancora calda, con miele ed innaffiata da un ottimo vino Cannonau" Quando si arriva a Golgo, dove vi é la sede della Coop Goloritzè, superato un costone a picco sulla valle, a bordo di un fuoristrada, come abbiamo fatto noi che non abbiamo partecipato alla lunga escursione, ed appare la bianca ed antica chiesetta di S. Pietro con i suoi caratteristici ricoveri per i pellegrini, il forno ed i maestosi olivastri, si respira misticismo e pace, Però non spiace interrompere l'atmosfera con una gustosissima pecora cucinata con patate, verdure e accompagnata da buon vino locale, finendo come il solito, con uno spiritoso mirto. In quella occasione, abbiamo visitato, oltre al meraviglioso paesaggio dell'altopiano, alcuni nuraghi e abbiamo accarezzato gli asinelli neri che si abbeveravano nel piccolo laghetto dietro la chiesetta di San Rocco, che secondo la leggenda, sembra che gli etruschi, forgiavano il rame che scavavano nelle miniere del monte. La vista mozzafiato che si gode dall'alto con la guglia di Punta Goloritzè fa sentire all'unisono con questo maestoso paesaggio roccioso. Alla fine del trekking - continua Tiziana Viviani - dopo sette giorni di cammino, quando si lascia l'imponente guglia di Peda Longa emergente dal mare, si ha la netta sensazione di tuffarsi nel solito mondo di tanti problemi, ma si é consapevoli di aver vissuto una indimenticabile vacanza con i cari vecchi e nuovi amici del Cai. Ad ogni tappa percorsa si é sempre più grati alla Coop. Goloritzè del Golgo, a questo gruppo di intraprendenti ragazzi che, sicuramente tra tante difficoltà, ti ha fatto vivere una simile esperienza. Da non dimenticare: Mariano Lai, Antonio Cabras, Gino l'altro Mariano e tutti gli altri che una presenza mai invadente e tanta competenza, hanno condotto per sentieri, illustrato l'ambiente dal punto di vista storico, naturale, archeologico, hanno fatto gustare i loro eccellenti piatti tipici ed hanno accomunato due regioni di diversa tradizione con la possibilità di potersi capire meglio: Si lasciano con la chiara intenzione di estendere agli amici di tutto il Cai, che non hanno ancora vissuto questa esperienza, l'invito di rivolgersi a loro ed avvalersi della gran competenza dimostrata, per vivere l'arricchente avventura dei " Caini di Mantova". Per maggiormente far comprendere le bellezze di quei luoghi della selvaggia e meravigliosa Sardegna, abbiamo riportato integralmente l'articolo della nostra amica Tiziana Viviani, che ringraziamo vivamente. In un articolo, di Sandro Zanellini, apparso sul Notiziario della nostra Sezione CAI di Mantova, numero 2 autunno 2003, egli ci racconta la loro avventura, tra magia e natura dei Monti Sibillini: " Circa un anno fa Carlo Borghi mi ha proposto un'idea nuova: un trekking di alcuni giorni nel Parco Nazionale dei Monti Sibillini, con pernottamenti in tenda, accompagnati da muli. Al primo momento mi é sembrata un'idea un pochino diversa dalle solite escursioni a cui siamo abituati, ma, dopo alcune considerazioni, ho incominciato ad entusiasmarmi. Complice la facilità di informazioni che offre Internet, ho iniziato a studiare il programma prendendo contatti con l'organizzazione. Più m'informavo e più mi entusiasmavo, visto che il costo era contenuto e che il mese d'agosto non avevamo alcun programma preciso, abbiamo deciso di affrontare quest'avventura. Di avventura si può proprio parlare, perché alla nostra età, ormai non più giovani, si andava a fare una cosa per lo meno bizzarra. Parlando del progetto con alcuni amici, abbiamo formato un gruppetto di 12 persone. Il programma prevedeva quattro giorni organizzati da una cooperativa locale:" La Mulattiera", la quale metteva a disposizione sette muli per il trasporto delle tende, delle vettovaglie e di quant'altro potesse servire durante l'escursione, più un cavallo sellato disponibile per coloro che si fossero trovati in difficoltà. Il quinto giorno, alla fine del trekking con i muli, abbiamo approfittato della vicinanza della famosa Gola dell'Infernaccio per una breve escursione a questa meraviglia della natura. Partiti da Mantova di buon ora il 13 agosto, abbiamo raggiunto nel primo pomeriggio Castelluccio di Norcia. Come abbiamo superato la Fossa di Presta, siamo rimasti sbalorditi dallo stupendo panorama che ci si presentò: una gran vallata, il Parco Grande, tappezzata di campi dai molteplici colori adibiti a pascoli e alla coltivazione delle famose ( e molto costose )lenticchie di Norcia, circondati da una catena di monti. L'appuntamento per il ritrovo era fissato per le ore 9 del 14 agosto. Oltre a noi, il gruppo di escursionisti, totale 21, era completato da altre persone provenienti da varie località, quattro giovani, tra cui una coppia di sposi in viaggio di nozze e due giovani e belle ragazze arrivavano addirittura dall'Estonia. Dopo le rituali presentazioni, l'organizzatore, Roberto, ha dato le prime istruzioni. Ha esordito ricordando che il gruppo doveva impegnarsi a collaborare, per la buona riuscita dell'escursione, aiutando al montaggio delle varie tende, compresa una grande che fungeva da sala da pranzo per la sera, di lavare sempre tutte le stoviglie comuni, di aiutare i due stallieri che accudivano ai muli al carico e scarico del materiale, inoltre le signore dovevano impegnarsi a contribuire alla preparazione dei pasti serali. Al primo momento siamo rimasti tutti un po' perplessi, ma alla fine si é dimostrata una cosa molto simpatica e divertente che é servita ad amalgamare ancor più il gruppo. Impressione sul trekking. (....) Questo percorso é stato studiato per offrire un itinerario che fosse alla portata di tutti: non servono cognizioni di tecniche alpinistiche, é sufficiente avere un discreto allenamento. Non si é mai presentato alcun problema tecnico, nessun passaggio delicato su roccia: due tappe, la seconde e la terza, si sono dimostrate un po' faticose, per i numerosi saliscendi. L'organizzazione é stata perfetta, l'accompagnatore, Roberto Canali, ha dimostrato professionalità e una profonda conoscenza, sia naturalistica che storica, del territorio. L'acqua, salvo durante la terza tappo, si é sempre trovata abbondante. Il percorso offre continuamente panorami stupendi. Gli spuntini durante le escursioni e le cene, preparate dall'organizzazione, ottimi. Ritengo che valga la pena proporre una simile esperienza nel programma della nostra Sezione nel prossimo futuro." Sandro Zanellini, nel suo articolo, ha parlato delle Gole dell'Infernaccio, ma che cosa sono le Gole dell'Infernaccio? Altro non sono che delle gole profonda, chiuse tra i ripidi versanti rocciosi del Monte Sibilla e del Monte Priora, l'Infernaccio é il più grande e conosciuto dei canyon dei Sibillini, e insieme uno dei più noti e frequentati d'Italia. Lungo una decina di chilometri, il vallone si allunga in alto in una bella conca di pascoli, e si stringe verso valle in una forra impressionante, chiusa da pareti rocciose alte un centinaio di metri. Come molti altri canyon appenninici, l'Inferno ha il suo punto più spettacolare proprio all'inizio dove l'antro delle " Piscarelle", chiuso tra due alte pareti di roccia che arrivano quasi a toccarsi alla sommità, offre un bello spettacolo a base di cuscini di muschio e cascatelle. Un'ora e mezzo, tra andata e ritorno, é sufficiente per raggiungere le gole dal posteggio e percorrere la parte più suggestiva. Tre ore e mezzo, invece, occorrono se si vuole proseguire fino a Capo Tenna, dove la stretta forra si allarga per lasciare il posto a una splendida conca dove ampi pascoli fanno da contorno a una bella faggeta. Dopo la strettoia principale, una breve ma suggestiva deviazione porta a circa mezz'ora all'Eremo di san Leonardo, in posizione estremamente suggestiva, dove vive l'ultimo eremita dei Monti Sibillini. Da Capo Tenna, un lungo ma spettacolare sentiero permette di proseguire in salita verso i Monti Sibillini. Splendido ( e affollato) in estate, l'Infernaccio va assolutamente evitato d'inverno, quando grosse valanghe possono precipitare sul sentiero. La cosa più bella é che in quei luoghi del silenzio e della bellezza, non esistono ne streghe e neppure fantasmi, ma paesaggi dove l'orizzonte é infinito e la natura é veramente incontaminata e meravigliosa. - Tratto dal libro: "Cenni storici e il fascino del Bel Paese" - Escursioni Il nostro non é un Paese qualunque, un paese come gli altri, ma un vero paradiso terrestre, dove la natura si sposa con la meravigliosa bellezza del paesaggio, che il mondo intero ci invidiano. L'Italia é un Paese piccolo, bellissimo, con tremila anni di storia, dove ogni luogo, ogni pietra sono carichi di simboli e di ricordi. Ogni singola regione é un microcosmo. La Lombardia, per esempio, dove noi oggi viviamo felicemente de oltre quarant'anni, ha i colossi innevati e la pianura nebbiosa. La Toscana montagne di marmo e coste coperte di pini. La Sicilia le rocce nere di Catania e quelle di Palermo, senza parlare delle isole Eolie, con i suoi "giganti fumanti", i vulcani fantastici e le montagne bianche di pomice, e poi c'è Ustica, Linosa , Lampedusa, Pantelleria, scagliate così lontano da toccare quasi le coste dell'Africa, che punteggiano il grande mare, il pelago degli antichi. Le preziose pietre che il dio Nettuno ha staccato dalla collana e gettato a ventaglio intorno alla Sicilia per adornarla con una corona. Ma noi oggi, non siamo qui per ricordare e cercare di descrivere questi luoghi fantastici, come le vide Ulisse. E su questo territorio variegato, sono cresciute, nell'arco dei millenni, le civiltà greca, etrusca, romana, bizantina, medioevale, rinascimentale, barocca, moderna, città Stato e imperi. Una bellezza in miniatura, vulnerabile dal turismo di massa. Che, perfino - come scrive il sociologo F. Alberoni- quando non costruisce niente, ne altera comunque lo spirito. Pensiamo a Venezia, l'orgogliosa capitale di un impero i cui palazzi, sul Canal Grande, erano le dimore delle potenti famiglie patrizie le cui navi hanno dominato il Mediterraneo e combattuto, in cento battaglie, i turchi. Oggi questi stessi palazzi sono alberghi e quello del doge é un elegante contenitore per mostre e convegni. Chi arriva incontra folle di turisti anonimi che mangiano, prendono fotografie e comperano souvenir. Se vuol evocare il passato, se vuol vedere l'antica Venezia, deve appartarsi, cercare la solitudine. Noi andiamo sulle spiagge tropicali per trovare il sole, il mare, l'eccitante pesca del barracuda. Non ci interessano i dettagli delle chiese, le forme delle case, l'armonia di un giardino. Ci siamo domandati più volte, ma cosa vede un turista a Lucca, a Roma, a Caserta, a Capri, a Napoli se non é capace di percepire il valore simbolico delle forme? Il turismo, in un Paese come il nostro, richiede preparazione. Richiede di percepire l'armonia delle forme architettoniche, il colore delle case, degli alberi, del cielo, le ombre e i chiaroscuri. Richiede di sentire le vibrazioni del passato davanti a un monumento, a una fontana, a una vecchia chiesa. Di lasciarsi penetrare dal mistero dei volti e dei corpi. Per cui, quello che abitualmente appare un tessuto uniforme, dispiega la sua ricchezza di particolari e di significati. Per sviluppare turisticamente il nostro Paese, le strade, gli alberghi, i giardini dovrebbero amplificare questa percezione. O, perlomeno, non disturbarla. Evitando tutto ciò che é violento, volgare, moderno, chiassoso. Come i grandi condomini, i centri commerciali sgargianti, le luci alogene che distruggono la notte. Si tratta, in fondo, di rifare la scelta che alcuni dei nostri più celebri luoghi turistici hanno già fatto. Prendete il golfo di Napoli. La costa che va da Pozzuoli a Castellammare costruita, cementificata, congestionata, povera, non ha più turismo. Questo vive a Sorrento, Ravello, Amalfi, Positano, Capri, Ischia e anche, in tutta la costa della meravigliosa Liguria, dove noi oggi, siamo giunti per rivedere e godere, mentre per altri scoprire questo microcosmo di bellezza e di armonia. Si, lo so, non é più la vecchia Liguria dell'Ottocento, con la povera e rozza gente: pochi agricoltori, pochi pescatori, che sanno di vivere amaro, fatto di stenti, di sacrifici, di privazioni, di lavoro duro e continuo. Ma il verde e il mare sono autentici. In più ci sono i paesini antichi e pittoreschi, barbicati sui pendii, la tradizione artigiana. Per non parlare della gastronomia e soprattutto dal clima. Non manca però non di una grazia tutta sua, che le viene dai colli degradanti vagamente verso il mare. - Tratto dal libro: "Perché nulla vada disperso" - Mantova: un percorso d'arte nella città dei Gonzaga Nel capitolo precedente, nell'introdurre la nostra escursione fluviale alla scoperta del grande Fiume Po , abbiamo iniziato dando un breve cenno sulla città di Mantova. "Essa é una città legata in modo indissolubile all'acqua. Un'isola nella pianura che dell'isola ha mantenuto le caratteristiche proprie. Una grande depressione naturale, colmata dalle acque del Mincio che periodicamente straripava, circondava uno scampolo di terra sulla quale si venne costituendo, nei tempi mitici del passato di Ocnno e Manto ( Mantua mantois quondam fabricata diablis, Baldus, II,62) una città. Le nostre origini non sono mantovane, ma viviamo in questa provincia da oltre 30 anni, per ragioni del nostro lavoro. Conosciamo molto bene la città di Mantova e le sue opere d'arte, come pure tutti i paesi e i sobborghi di questa provincia della bassa padana. E' stato scritto che la Lombardia non é soltanto la regione dai colori velati dalla nebbia, ma é un susseguirsi di panorami incantevoli e sensazioni suggestive, quasi al limite dell'irreale. Il verde fiume cantato dal poeta Virgilio scorre attraverso un paesaggio che non colpisce al primo impatto, fatto di pochissimi elementi, ma dal sottile incanto: acqua, prati. Il fiume virgiliano, con le rive ornate di pioppi e salici, il Mincio ci accompagna attraverso secoli di storia: dai ponti viscontei al contrafforte della stupenda chiesa - museo delle Grazie, dalla risorgimentale Goito alla città dei Gonzaga, che ha per sfondo il suggestivo scenario dei tre laghi formati dal fiume ( Superiore, di Mezzo, Inferiore) dove un tempo si svolgevano feste sfarzose: E nella sua valle il contatto con la natura diventa totale: canali tagliati nel verde delle canne, erbe lacustri che creano strettoie, ampi spazi che si aprono in distese di fiori di loto (avete letto bene, fiori di loto!), che sbocciano in estate. Solo chi entra in città da oriente o da settentrione per le porte di San Giorgio attraverso il lungo terrapieno, sigillo tombale d'antico ponte medioevale ivi sotto da non molto sepolto, o da Mulina percorrendo il caratteristico ponte coperto impostato su di una diga millenaria, sol chi entra in città da queste due direzioni provenienti dal Veneto o da Brescia, ha l'esatta sensazione di Mantova. Un profilo basso, allungato, solo segnato dall'elevarsi d'alcune torri che si rinserrano quali a protezione dell'alta cupola centrale che tutto domina; non colori vivaci colpiscono la vista del turista; un sottile velo di vapore ricopre tutto il panorama ed attenua e smorza ogni vivacità di tinta; il grigio domina su tutto, ma un grigio fatto di chiarezza, di trasparenza; la diresti una città d'argento. Un profilo basso, allungato, appoggiato su di un tappeto di tenere canne il cui verde subito sfuma in giallo mollemente aurato, tappeto cui fan corona l'acqua del Mincio che talvolta nel colore si rammentano d'essere state Garda, ma che più spesso hanno la mutevole luce dell'acciaio. Visione eminentemente virgiliana; e se volgi lo sguardo a mezzogiorno, e di là dal ponte ferroviario vedi alzarsi timidi e svettanti per l'aria i primi pioppi, dietro i quali sorge la città di sogno e di leggenda; anche la sua origine é avvolta nei misteriosi veli della leggenda, come abbiamo detto sopra, e se pur ebbe tempi di splendore, conobbe anche ore di profonda miseria; ma pur nella sventura mai non le venne meno quella giorgica serenità di spirito che fece sbocciare dal suo seno dolci poeti, da Virgilio giù giù fino ai più scuri tempi del medioevo. E proprio a Mantova, prima ancora che alla corte di Federico, si va poetando d'amore in quella lingua che non é più latino e presto sarà il bellissimo idioma italico. E' stato scritto, che " Mantova terra negletta nella bassa padana, con la forza del suo volere ha saputo affrancarsi dalle paludi invadenti il suo territorio, come é successo a Gazzuolo, Belforte , San Martino dell'Argine, come pure a Marcaria. Sin dal Mille han cominciato a por argini all'irrompere dei suoi fiumi, a rompere lo sterpeto, ad abbattere le boscaglie. La lotta millenaria non é pur anco compiuta, e i moderni sistemi di bonifiche han fatto sì che Mantova sia all'avanguardia di quante provincia han saputo redimere dalla palude il loro territorio. Navigando prima sul Mincio e poi sul Po, abbiamo potuto constatare tutto questo. Oggi, con il suo risanamento del passato, queste campagne sono un vero giardino fertilissimo di messe. Mantova come dama decaduta, conserva ancora le sue bellezze di cento e cento anni or sono.; l'ossatura della città é ancora quella che vollero creata i suoi magnifici signori. A questo punto, dopo una sommaria descrizione di questa stupenda città d'arte, corre l'obbligo di indicare agli eventuali turisti che non conoscono ancora questa città, dove andare e per dove transitare e, se per caso l'itinerario volessimo limitarlo ad un percorso d'arte che non tralasci natura e storia, proviamo a suggerire Mantova. Il giornalista Massimo Carlesi, parlando dei monumenti di Mantova, così scrive: " E' un'indicazione e un consiglio questo; scelto solo perché é stata cronologicamente Mantova l'ultima città visitata da chi scrive, il quale, fresco di memoria, di sensazioni e di emozioni, prova a darvi qualche essenziale informazioni su questa nostra bella località italiana. Avremmo voluto continuare noi nella descrizione dei maggiori monumenti, tante volte descritti nelle pagine dei nostri libri, perché in ogni libro che cerchiamo di scrivere, dedichiamo sempre un capitolo alla nostra città di adozione. Ma, volutamente, per nostra scelta, vogliamo riportare le impressioni di Massimo Carlesi. " Mantova é la città dei Gonzaga, che in circa quattro secoli di supremazia seppero dare un'impronta aristocratica a tutto l'insieme urbano della città: ancor oggi elegia nelle sue piazze e nei suoi palazzi del potere l'aria ducale. Per Mantova e per Gonzaga hanno lavorato Brunelleschi e Leon Battista Alberti, Mantegna e Giulio Romano. Circa la storia della città, tralasciando la sua incerta origine etrusca perché non vi é sicuro riscontro, ricordiamo invece " Mantua me genuit" di virgiliana memoria che rammenta il dominio romano al quale seguirono, dopo la caduta dell'Impero, le invasioni dei Goti, dei Longobardi e dei Franchi Dal successivo periodo feudale non si può tralasciare di menzionare che Mantova fu territorio dei possedimenti della contessa Matilde di Gonzaga, nota ai più quale guerriera della Fede e quale mediatrice dello storico incontro tra Papa Gregorio VII e l'Imperatore Enrico IV. Di questa antica e nobile città non é possibile ricordare tutti i luoghi: si rischierebbe di dimenticare alcuni, mentre tutti andrebbero menzionati perché nessuno é primo rispetto all'altro. Gli innumerevoli palazzi gentilizi, le tante torri, le sognate strade, le belle piazze, i canali, le chiese e i giardini sembrano aver fermato il tempo e tutto parla d'arte, di prestigio e di ricchezza; é un'eredità culturale, questa, importante ed impegnativa, lasciata alla storia e ai mantovani di ogni epoca, dai Gonzaga. Accenniamo ad un solo edificio, quello che potrebbe essere il più antico e comunque di molto antecedente il predominio dei Gonzaga: la rotonda di San Lorenzo". Quante volte, con il nostro cavalletto portatile, ci siamo fermati di fronte a questo edificio, per riportare sulla tela le nostre impressioni pittoriche. Ogni angolo del centro storico e del Rio, lo abbiamo ritratto. I quadri dipinti, sono catalogati nel nostro studio a futura memoria. " La rotonda di San Lorenzo, é uno splendido monumento d'origine romanica che si presume sia stato edificato tra il 1078 e il 1151, sopra un preesistente tempio pagano, come si legge in un documento mantovano del 1741 ".... Fabbricarono un tempio di figura rotonda, dedicato alla dea Diana presso il luogo ove veggiamo presentemente la torre del pubblico orologio, la quale rotonda fu poi convertita in chiesa dedicata al martire S,. Lorenzo". L'edificio é interamente in cotto, materiale comunemente usato per le costruzioni romanico - lombarde; il materiale utilizzato e la geometria circolare hanno a tutto l'impianto, nella sua semplicità una solenne staticità. La compattezza volumetrica, con i pieni ed i vuoti, dovuti alle non casuali asimmetrie delle aperture, arricchita dalle parastre semi cilindriche, dagli archetti pensili terminali, e della cupola anch'essa ricca di semplici motivi architettonici fa della pur notevole massa costruttiva un gioiello di elegante e raffinata plasticità che ben si inserisce nel contesto della piazza delle Erbe accanto alla bella torre dell'orologio e al palazzo delle Ragione. L'interno, egualmente semplice ed essenziale nella struttura, ripete la pianta circolare esterna ed é scandito armonicamente da un cerchio di colonne a sostegno delle volte che si ripetono al piano superiore, nel matroneo. Non si può abbandonare questa nota su Mantova senza ricordare Verdi e il suo Rigoletto e il mantovano Baldesar Castiglione autore del " Libro del Cortigiano" ove definiva il modello rinascimentale della " città ideale". Come nel nome dei Gonzaga s'impernia tutta la storia e la vita cittadina dal Tre al Settecento, così in quella che fu la loro dimora s'assomma oggi quanto più bello. Più artistico, di più dilettevole all'occhio custodisce la città virgiliana. Questi signori che amavano circondarsi dai geni più eletti ( Guido ospitò Petrarca; Gian Francesco accolse il Pisanello; Mantegna più che padovano può dirsi mantovano per il lungo soggiorno fatto alla corte dei Gonzaga; Alberti fu intimo di Ludovico; famose son le relazioni d'Isabella con tutti i più grandi artisti del suo tempo; Federico chiamò Giulio Romano; il Rubens fu il consigliere di Vincenzo, e questo sol per null'altra seconda in Italia, se si eccettua la dimora vaticana. Reggia dei Gonzaga, fastosa dimora dei più fastosi principi, dedaleo intrico di costruzioni sorte in quattro secoli, palestra di tutti gli artisti convenuti a Mantova nelle più varie epoche, fulcro intorno a cui gravitarono le cupide brame di soldatesca predatrici, asilo e rifugio del Tasso cacciato da Ferrara, ultima tappa del calvario dei Martiri di Belfiore innanzi di salir il patibolo, già immensa ruina cantata da D'Annunzio ed oggi tutta rinnovellata per la passione costante e tenace de suoi custodi, chi non vorrà scendere a' tuoi cancelli per visitarti? E chi non vorrà fare quattro passi fuor della Pustella per soffermarsi a quella villa in mezzo al folto di secolari platani dallo strano nome Te, villa che fu casino di piaceri principeschi dopo che fu resa splendida dal genio di Giulio Romano? L'ultima volta che siamo stati al Te, é stata la scorsa primavera, per visitare ed assistere ad un evento straordinario: alla mostra " Gonzaga. La Celeste Galeria. Il museo dei dichi di Mantova" L'esposizione, ha raggruppato oltre trecento opere, ha ricostruito in parte una delle più prestigiose collezioni del Rinascimento italiano. Questi capolavori, sono stati dipinti dai più grandi artisti dell'epoca, che soggiornarono ed operarono alla corte dei Gonzaga. Questi capolavori, oggi, si trovano sparsi nei Musei di tutto il mondo e nelle collezioni private. La "Celeste Galeria", ci ha dato la possibilità di poterli ammirare per la prima volta da vicino. Questa felice iniziativa, ha avuto una vasta risonanza, ha suscitato larga eco, grande interesse internazionale. Ha richiamato a Mantova, migliaia e migliaia di appassionati dell'arte di tutto il mondo. I turisti, e gli appassionati dell'arte, oltre alla mostra " Gonzaga. La Celeste Galeria, il museo dei duchi di Mantova", hanno potuto scoprire una città fantastica, un luogo meraviglioso, una vera e propria città - monumento. Conoscere Mantova e saperne apprezzare i sui palazzi storici, il valore artistico e culturale delle opere custodite nei suoi musei, i monumenti, le piazze, i segreti e la storia delle sue zone più caratteristiche. É stata un'occasione unica. Un luogo magico circondato dai laghi che danno a Mantova un aspetto affascinante e unico. - Tratto dal libro: "Il fascino e le bellezze del Bel Paese" - L'ultima laguna. Dopo Ferrara, seguendo il corso del grande fiume, ti accorge subito che il paesaggio era cambiato. Infatti, la grande pianura si andava pian piano restringendo e ci stavamo avvicinando verso la grande foce, dove il fiume si sposa con il mare dell'Adriatico, formando una grande spiaggia assolata e semivuota, che mi dava l'impressione di osservare un paesaggio lunare. Questa località, a partire dalle valli di Comacchio, é nota come la "Camargue italiana" ed é in progetto di trasformare l'intera area di 30.000 ettari in un grande parco naturale che si estenderebbe dalla laguna di Venezia alle pinete intorno a Ravenna. A Nord di Ravenna si trovano appunto le Valli di Comacchio. Questa località é costellata da ampi specchi lagunari: le deboli correnti marine non riescono a portare a largo tutti i sedimenti che i fiumi trasportano con sé. E ti rendi subito conto, che quel paesaggio assomiglia sempre di più ad un paesaggio fantastico e metafisico. La pianura ha lasciato il posto ai campi di canneti verdi, che lambiscono la laguna. Ti rendi conto che la terra avanza nel mare, costruendo quei "lidi ferraresi" che rinserrano le lagune. La più Orientale é quella di Grado. Sono pochi qui, gli elementi salienti del paesaggio: pare di trovarsi in un deserto d'acqua, dove gli alberghi e i campanili sembrano quasi dei miraggi, dove il gioco delle maree crea " barene" e dove l'uomo si limita spesso a costruire "casoni" di paglia, effimeri come la terra che li sostiene. Eccoci alla foce. Il paesaggio é cambiato radicalmente ancora una volta. La vegetazione lentamente si é diradata fino a scomparire del tutto. Adesso c'è soltanto erba robusta, abituata ai venti e alle correnti, giunchi, salici, altre piante selvatiche aggrappate alla terra e inclinate verso l'acqua. La piccola nave bianca scivola lentamente sulle acque calme di questa miriadi di canali le cui rive sono verdeggianti dalla folta vegetazione dei canneti, che rendono con la loro macchia un paesaggio diverso dal solito, che più avanti si fondono con la laguna grigiastra. Questo é il punto dove le acque del grande fiume si mischiano, si sposano con le acque salmastre che diventando mare. Il grande fiume, nel suo ultimo tratto, é diviso in diversi bracci: quello centrale e quelli laterali. L'incontro con il mare non é mai traumatico perché le onde cominciano a salire e a lambirlo con l'alta marea. Il delta é sempre un luogo magico, luminoso: le acque cantano il loro ultimo inno alla vita, all'amore, all'eternità. Strani uccelli nidificano fra l'erba alta e pesci sconosciuti risalgono la corrente; ogni tanto si sente il grido dell'airone che vola basso, sull'acqua ed altri esemplari sfiorano la ciminiera della motonave. Anche la pesca é più abbondante in questi luoghi. Quei ruscelli che più volte abbiamo incontrato nelle nostre escursioni sulle alte montagne innevate, si sono fatti fiumi ed ora incontrano l'immensità del mare. Le nuvole biancastre e cirri forme che si stanno avvicinando verso la foce, sicuramente stanno attingendo acqua dal mare, per portarla sotto forma di pioggia alla montagna, assistono al suo ritorno; " é il destino eterno della vita che si ripete all'infinito: tutto torna al luogo d'origine, anche le foglie tornano alla terra e i più piccoli uccelli muoiono in mezzo ai rovi dove sono nati". In un momento di riflessione, mentre la bianca nave fluviale scivolava lentamente sulle acque del grande fiume, mi é venuto in mente una pagina bellissima del libro " Il fiume della Vita" di Romano Battaglia, dove egli così scrive: " Sono qui, davanti a te, dolce fiume che ti disperdi nel mare. Fra poco non ci vedremo più. Le mie labbra tremano e i miei occhi sono lucidi di pianto. Sono giunto con te sino alla foce, dove la tua vita si fonde nell'immensità del mare. Ma il mio viaggio non é finito. So che dovrò a ancora camminare come tu mi hai insegnato. "Vorrei essere una barca per seguirti oltre il confine col mare e sentire ancora la tua voce. Mi mancheranno le tue parole, il tuo respiro, il rumore fresco delle cascate. Alla fine del viaggio le tue acque sono chiare come all'origine. Il principio e la fine hanno la stessa luce. Ricordo ancora quello che mi dicesti all'inizio: " Nacque un giorno di primavera fra le montagne bianche di neve e il silenzio assoluto delle grandi altezze. Nella pace della montagna percepivo il respiro del Creatore" E quel respiro che non ti ha mai abbandonato lungo il percorso, mi ha guidato verso la serenità. Ti devo molto, fiume". Nel brulicare in questo strano dedalo di canali nella foce, il puzzle della mia fantasia si organizza lentamente. Seduto vicino a me c'è l'amico Maurizio, mentre le nostre signore continuano a chiacchierare ed ammirare questo paesaggio fantastico e metafisico. Altri turisti sono alle prese con la macchina fotografica, per inquadrare la foto ricordo dell'ultimo lembo creato dal Po. LA MERAVIGLIOSA VENEZIA. Nelle interminabili conversazioni con gli amici Campitellesi, rivedo delle immagini, riallaccio tra loro persone ed eventi, risuscitando il mio passato prossimo. E questo passato si confondeva con la mia piccola principessa Tiziana e con Adriana mia moglie, con tutti i lenti artefici di quel tempo lontano eppure tanto reale in cui noi tre , trascorremmo la nostra prima e breve vacanza a Venezia. Il disco del sole stava declinando verso Ovest, quando all'orizzonte ci é apparsa la sagoma allungata e colorata dei vetusti edifici con i campanili delle chiese della città più bella del mondo , amata dagli artisti e degli innamorati: Venezia. Il bacino si San Marco si stendeva davanti a noi, A sinistra, la riva degli Schiavoni conduceva all'Arsenale, protetto da tutte le sue belve di pietra, asimmetriche oltre ogni dire: tre da una parte, una sola dall'altra. In lontananza si distingueva l'isolotto degli Armeni che lord Byron, (malgrado il piede zoppo e forse a causa di esso, un tempo si ostinava rabbiosamente a raggiungere a nuoto), e, dietro ancora, il Lido, dove in questo periodo é affollato da un mare di ombrelloni, dove un tempo nascondevano gli amori dell'aristocrazia, mentre oggi sono sdraiati, al riparo del sole, i turisti internazionali e le dive del cinema. Diritto davanti a noi, avanguardia della Giudecca, l'isola di San Giorgio innalza il suo alto campanile di fronte alla Piazzetta e alle due colonne sormontate dall'effigie di san Teodoro e del leone di san Marco. A destra, la Dogana marittima e la chiesa della Salute, un monumento propiziatorio e commemorativo della fine dell'ultima pestilenza, segna l'inizio del Canal Grande che srotola poi fino a Palazzo Labia il suo inverosimile corteo di splendori e di favole tagliato a metà dalla schiena d'asino del ponte di Rialto. Conservo dentro di me un grande ricordo e anche una grande emozione della meravigliosa chiesa della Salute, quando, molti anni fa, seduto a fianco ad un pontile di barche, la ritraevo sulla tela. Quell'insieme di cupole e campanili, dopo piazza San Marco, al tramonto é il paesaggio più bello di Venezia. Nell'escursione della città, mentre il sole tendeva verso il tramonto, con Adriana, ci fermavamo per ascoltare i rumori della riva e del bacino. Ci dicevo, Su, guarda: non é bello? Questa luce sui mattoni, questo rosa che si mescola all'azzurro, questa natura minerale .... Sembra un immenso giardino, con i suoi alberi, le sue grotte, i suoi cespugli, i suoi fiori dappertutto e invece sono pietre e la mano dell'uomo". Quello che stavamo ammirando, é un paesaggio da favola . Quella é stata l'occasione giusta per osservare la città da un punto di vista privilegiato. E per rivivere le storie che ancora riecheggiano oltre le facciate degli antichi palazzi affacciati sul Canal Grande. Ognuno ha la sua. Vicende fantastiche oppure orribili. Di amore e di morte. Che vanno scoperte lungo questa via d'acqua dove le immagini sfumano e il tempo assume contorni da favola. In quell'ora del meriggio, Piazza San Marco brulicava di turisti, la maggior parte dei quali erano stranieri ed erano alle prese con gli stormi di colombi, per la fotografia ricordo con lo sfondo di san Marco. In quella immensa piazza, la squadra dei Campitellesi si é dispersa, sparpagliata qua e là senza ordine fra la folla, per poi ritrovarci in uno specifico punto della città. Con l'amico Maurizio ed altri amici, dopo di aver sorbito un ottimo caffè al " Florian", nel bar preferito del rimpianto presidente Pertini, dove era di solito fermarsi quando si recava a Venezia, ammiravamo i meravigliosi palazzi Risorgimentali , la Basilica di san Marco e guardavamo il tramonto del sole sul palazzo del Doge e sull'isola di San Giorgio. Quella intensa luce, creava una visione irreale, un paesaggio bellissimo, che rimarrà impresso nella nostra memoria, come se fosse un quadro del Canaletto. Con quella visione negli occhi e nel cuore, la squadra degli escursionisti padani, si avviava verso la fermata del nostro torpedone, per fare ritorno nella calda e brumosa valle Padana. Addio Venezia, città delle mille bellezze. Il nostro viaggio fantastico sul grande fiume Po si é concluso qui, fra cielo, terra e mare. E' l'ora del tramonto, anche il sole calerà nel mare e tutto a poco a poco svanirà, come in un sogno. UN SOGNO: Venezia: La città dove nasco i sogni. Occhi profondi come stelle sperdute Nell'infinito, dove nascono i sogni di chi É triste e solo, occhi che ti guardano Per indicarti il sentiero della vita. Occhi che brillano, Per illuminare la tua notte. Arrivederci Venezia ! Città dell'amore, Perla della Laguna, Rischiarata da questa pallida luna, Che sta sorgendo all'orizzonte, E che ci augura buona fortuna. - Tratto dal libro: "Il fascino e le bellezze del Bel Paese" - Dove non si conosce il rumore Girovagando per il mondo, abbiamo scoperto luoghi che non conoscono rumore, se non il sussurro del vento fra i verdi pini interrotto dalle grida rauche degli uccelli. Luoghi dove il silenzio é poesia e dove la natura diventa grandiosa, seducente, struggente spettacolo. Tutto questo lo abbiamo trovato camminando lungo le sponde del Gran Canyon, mentre nel grande deserto della California, ci siamo fermati nella Death Vally: una località piena di luce, con colline colorate come gelati, é adorata dagli appassionati di cinema per Zabriskie Point, la zona dove Michelangelo Antonioni girò l'omonimo film nel 1969. Death Valley é un immenso museo geologico. Un enorme periodo di tempo geologico é visibile nelle rocce esposte. Ma gli strati sono così distorti, spezzati e confusi che é difficile leggere la storia. In un periodo di tempo quasi tanto lungo quanto la stessa terra, i materiali rocciosi sono stati depositati dal vento che accarezza quelle dune dorate ed infuocate dal sole, dall'acqua e dai vulcani. I terremoti ed i corrugamenti della crosta terrestre hanno formato la Valle. Quale attualmente si vede. Nella sua forma attuale, Death Valley é relativamente "giovane" - ha 3 a 5 milioni di anni - e si evolve continuamente. Durante le ore del giorno, il fondo della valle brilla silenziosamente nell'intenso calore. L'aria é così tersa, che le distanze sembrano più brevi e, a parte forse un filo di nubi, il cielo é profondamente blu. Mentre il nostro torpedone procedeva in quel paesaggio astratto e metafisico, le montagne si stavano facendo sempre più vicine, e più ci avvicinavano e più ci rendevano conto della loro natura. Alla fine della zona sassosa: sassi bianchi come se fossero dei teschi cotti dal sole, si alzano gradatamente dei soffici monticelli giallastri, come se si trattasse, suggeriva Adriana mia moglie, di panna montata, no, di mucchi di zucchero filato, macché, di cumuli di sabbia messi l'uno accanto all'altro come se fossero foresta. Dietro si elevavano quelle che da lontano sembravano dita, picchi rocciosi, che avevano la cima come un copricapo di roccia più scura, talora in forma di cappuccio, altre volte di calotta quasi piatta, che sporgeva davanti e di dietro. Lo stesso fenomeno prodotto dalla natura, in milioni di anni, lo abbiamo osservato sulle montagne della Provenza, ed in forma più modesta anche sulle Dolomiti. I francesi, questo processo di corrosione della montagna, dovuto agli agenti atmosferici, lo hanno definito "le signorine incappucciate". Procedendo oltre i rilievi erano meno puntuti, ma ciascuno appariva traforato di buchi come un alveare, sino a che si capiva che quelle erano abitazioni, ovvero ostelli di pietra in cui erano stata scavate delle grotte, e ciascuna di esse si perveniva per una diversa scaletta di legno, le scalette legandosi l'una all'altra da ripiano a ripiano e tutte insieme formando, per ognuno di quegli speroni, un intrico aereo che gli indiani, che moltissimi anni fa avevano abitato quella città deserta, vedendoli da una certa distanza, dovrebbero sembrare come una colonia di formiche, specialmente nel percorrere con agilità in su e giu. Quella era un'antica città, scavata nella roccia rossastra e vicino alle loro abitazioni, vi si scorgevano i loculi dove venivano sepolti i loro morti. Nel centro della città si vedevano veri e propri casamenti o palazzotti, ma anch'essi incassati nella roccia, da cui sporgevano poche braccia di facciata, e tutti in alto. Più in la si profilava un massiccio più imponente, di forma irregolare, anch'esso informa irregolare, anch'esso un solo alveare di grotte, ma di fattezza più geometrica, come finestre e porte, in certi casi sporgevano, da quei fornici, altane, loggette e balconcini. Alcuni di quegli ingressi, in passato potrebbero essere sicuramente coperti da un tendaggio colorato, altri di stuoie di paglia intrecciata. Insomma, senza volerlo, ci siamo trovati in mezzo a una chiostra di monti assai selvaggi, e al tempo stesso al centro di una città un tempo popolosa ed attiva, anche se certamente non magnifica come si sarebbe attesi. Oggi gli indiani d'America, non vivono più sulle alture, ma in moderni villaggi in pianura e gestiscono i Parchi Nazionali, come la Monument Vally, altro luogo dove furono girati moltissimi film, come per esempio: " C'era una volta l'America", " Ombre Rosse di Jon Ford (1939) e il Grande sentiero ( 1964) Dopo di aver ammirato a lungo i meravigliosi monumenti più belli dell'America dell'Ovest, ci attendeva un'altra terra da scoprire: il Grande Nord. Dall'oblò del mastodontico aereo 747, che ci stava portando nel Bel Paese, abbiamo ammirato una terra di paesaggi estremi, assolati. Di paesaggi primordiali fatti d'acqua, roccia, ghiaccio. Una terra di fiordi vertiginosi, montagne nude, altopiani sterminati che in inverno si trasformano in abbaglianti distese gelate, solcate da branchi di renne in cammino verso il mare. Col disgelo riappaiono laghi di cristallo, foreste di smeraldo, vallate di velluto tempestate di fiori che fanno da corona a villaggi da fiaba, dove la vita segue il ritmo della luce e dell'ombra, dell'avvicendarsi sereno e sempre uguale delle ore, dei giorni, delle stagioni. Questa terra, capace di dare brividi selvaggi e poetici, é la patria di popoli miti, tolleranti e accoglienti ed é il teatro di fenomeni, come quelli che abbiamo ammirato a dodicimila metri di quota: l'aurora boreale e il sole di mezzanotte. Tutto questo risponde al magnifico richiamo della natura del profondo Nord. Alcuni anni fa, sulle montagne della Provenza, abbiamo scoperto , camminando lungo il greto scosceso del suo fiume, per circa 9 ore, il Canyon du Verdon, per la prima volta. E' d'obbligo il paragone con il Grand Canyon, ma non gli rende del tutto giustizia. Perché se non può rivaleggiare con il capolavoro geologico del Colorado per misure e varietà di stratificazioni, il canyon più spettacolare e profondo delle Alpi vanta molti altri primati. Il colore del fiume che lo ha creato innanzitutto, un mix unico di giada, smeraldo e acquamarina che i francesi hanno tradotto in un nome semplice ma eloquente: Verdon. E poi quella sorpresa delle miscele di contraddizioni e di stimoli che, a due passi dalla Costa Azzurra e dal profumo di mare portato dal mistral, vento e anima della Provenza, che ricrea un ambiente dolomitico orientato verso il basso. Sul fondo delle gole del Verdon, muraglie rovesciate di calcare alte 700 metri culminano in vette surreali e metafisiche attraversate da nuvole di spuma vaporizzata e da squarci verde - azzurri. "Sembra che proprio qui", scrisse il geografo Reclus, " Rolando abbia tagliato la montagna con la sua tipica spada". Si può continuare a guidare lungo la "Corniche", ma per ritrovare la vista del fiume bisogna fermarsi, affacciarsi sul ciglio delle rocce, come ci succedeva nell'ammirare il Gran Canyon, il senso di vuoto e la vertigine. Questo é il Canyon più profondo d'Europa. Che lo rendono unico. Sulle pareti di calcare, i geologi leggono tutta la storia delle Alpi. La roccia bianca, nata dall'accumulo di miliardi di organismi marini e gusci calcari, costituiva 150 miliardi di anni fa, nell'era Giurassica, il fondo della Tetide, un antico mare mediterraneo esteso dall'Europa al Tibet. - Tratto dal libro: "Cenni storici e il fascino del Bel Paese" - Il lancio dei razzi di segnalazione. Nei giorni che seguirono lo sbarco degli angloamericani sulla Costa Viola, le truppe tedesche e quelle italiane si ritirarono verso Napoli e si attestarono nei pressi di Salerno. Quel mattino quando il piccolo borgo di Cosoleto si é svegliato, non c'erano più le truppe accampate sotto gli oliveti. Anche gli uomini della milizia contraerea, abbandonarono il posto di avvistamento che sorgeva sulla collina del paese. Noi ragazzi, per curiosità, siamo saliti fin lassù. Non c'era più nessuno, mentre le apparecchiature erano ancora intatte. Solo la linea telefonica e la radio trasmittente erano state rese inservibili. Esisteva soltanto l'apparecchiatura di lancio dei razzi di segnalazione a distanza. In quel tempo, l'età del gruppetto di noi ragazzi, non superava il sedicesimo anno d'età. A 16 anni, non si é più ne ragazzi e neppure uomini, eravamo solo " ominicchi", piccoli uomini irresponsabili. "Solo i giovani hanno di questi momenti. Non parlo dei giovanissimi. No. I giovanissimi, per essere esatti, non hanno momenti. E' privilegio della prima gioventù di avere in anticipo sui propri giorni, in tutta una bella continuità di speranze che non conosce pause né introspezioni. Si va avanti senza ragionare, senza fare alcun esame del proprio animo, della propria coscienza, senza pensare a cosa si può andare in contro, insomma, si é irresponsabili. Uno di noi, così per gioco, prese un razzo, lo collocò nel supporto di lancio e diede fuoco alla miccia. Partì il primo razzo, poi il secondo e così via fino all'esaurimento dei razzi sistemati nella rastrelliera. Dopo la bravata, ritornammo in paese. Gli abitanti erano allarmati, non sapevano che cosa fosse successo, si pensava fossero gli americani che cannoneggiavano il piccolo borgo di Cosoleto. Mentre il sole stava per tramontare, dalla piana di Gioia Tauro, dove erano accampati gli angloamericani, partirono alcuni motociclisti in avanscoperta ed in poco tempo, giunsero nel piccolo borgo alla ricerca della fantomatica e inesistente postazione militare. I due carabinieri che erano rimasti al loro posto, tranquillizzarono i militari americani. Non si seppe mai chi furono gli autori di quella bravata, che avrebbe potuto innescare un probabile bombardamento della zona. Questo é il periodo della vita che può portare i momenti ai quali ho accennato. Quali momenti? Momenti di tedio, di irresponsabilità, di incoscienza, di avventatezza e dissennatezza. Parlo di quei momenti nei quali i giovani sono propensi a commettere atti inconsulti, come appunto quelli citati. Un altro fatto del genere, meno grave di quello citato, si é verificato nel borgo medioevale di Gazzuolo (Mantova), dove per dieci anni, abbiamo comandato la locale stazione Carabinieri. Il paesotto dove si svolge la nostra piccola storia, così é stato definito dallo scrittore Giovanni Nuvoletti: "Paese che in fondo non era che una strada, tutto una lunga strada ordinata e abbellita di qualche palazzotto, di un nobile porticato e di tante dignitose casette. Si apriva, il nostro paese, in una terra di fiumi, di stagni e di acquitrini che le continue bonifiche redimevano. Fra gli alti pioppi si alzavano i canti della antica pazienza, intrecciandosene qualche nuovo delle prime rivolte. Lunghe file di cariolanti uscivano all'alba a scavare nelle umide terre circostanti per rientrare al tramonto grigi di fango e senza più canzoni. In questi simili luoghi s'era levato cupo il grido dei diseredati, la "boje". Fino ai giorni nostri non si notano radicali cambiamenti, tutto é rimasto come allora, come cento anni fa. Non ci sono più le paludi e neppure i cariolanti ed é un paese salubre dove la vita scorre serenamente. E' un paese di anziani, come del resto é anche il nostro Paese. Non si verificavano e non si verificano situazioni gravi nel campo dell'ordine pubblico ad eccezione di qualche sporadico caso di poco conto o di qualche ragazzata. Di momenti di tedio, di irresponsabilità, di incoscienza e di sventatezza. Questi due ragazzi gazzuolesi, oggi entrambi laureati: il primo in ingegneria meccanica, mentre il secondo in ingegneria elettronica, all'epoca studenti del Liceo scientifico di Mantova, per sperimentare la lezione di chimica, pensarono di sperimentare la lezione di chimica direttamente sulle cassette della posta, che ognuno di noi abbiamo collocato vicino al cancello d'entrata, facendole saltare. Il mattino successivo all'esplosione, ritornavano sul luogo " del delitto",( si fa per dire) per constatare l'effetto ottenuto. In tal senso, abbiamo ricevuto diverse segnalazioni di danneggiamento da parte dei proprietari, per cui siamo stati costretti a svolgere una piccola indagine con esito positivo. Sentiti i ragazzi, accompagnati dai rispettivi genitori, hanno liberamente ammesso questo loro esperimento didattico. Non c'era dolo e neppure premeditazione, era semplicemente un modo per verificare se quello appreso sui banchi di scuola funzionasse. I due ragazzi gazzuolesi, che oggi sono diventati uomini e bravi professionisti, dopo molti anni li ho incontrati sui sentieri dolomitici. - Tratto dal libro: "Cenni storici e il fascino del Bel Paese" - Una serata diversa sul Golgo Quando Mario, il factotum dell'Hotel S. Maria, una persona molto simpatica e disponibile, che svolge molte mansioni diverse, stava sistemando i fuoristrada per trasportare i commensali per la cena all'ovile sull'altopiano del Golgo, il sole stava tramontando dietro la montagna granitica, chiamata dagli abitanti di S. Maria: "Sa petra", e gli ultimi raggi stavano illuminando gli Scogli Rossi: la Scogliera di porfido rosso che si protende sul mare, di fronte alla spiaggia dell'Ogliastra di S. Maria Navarrese e alle spalle del molo di levante del porto di Arbatax. Questi scogli sono unici nel loro genere, bellissimi, che sono il simbolo di S. Maria e di Arbatax. Durante le mareggiate e specialmente al tramonto diventano un incanto di spuma e luce e, come oggi, che c'è un sole meraviglioso, il loro colore rosso in eterna lotta con i flutti, sta preparando una stupenda cornice a questo mare azzurro e profondo, che sta raccogliendo l'ultimo bacio del sole. Nel giardino antistante l'Hotel S. Maria, che é una piccola oasi di piante rare e sempre verdi, c'è un po' di confusione, un po' di trambusto, gente che va gente che viene. C'è chi vuole salire sul fuoristrada condotto dal direttore dell'Hotel ,Antonio e chi su quello condotto da Mario. Adriana ed io, siamo saliti su quello condotto da Mario. Subito dopo l'abitato di S.Maria, seguiamo la Strada statale Orientale Sarda che ci porta a Baunei: un grosso borgo barbicato sulle pendici del monte calcareo che sembra fosse fondato nel I secolo a C. dai Greci. Infatti, come abbiamo riferito in un altro capitolo, il nome Baunei deriva dal greco Baunens, che vuol dire fornace, perché fino a molti anni fa si facevano cuocere le pietre calcaree per ricavare la calce per costruire le case. Da Baunei, una strada asfaltata con una serie di ripidi tornanti sale verso l'altopiano carsico del Supramonte, raggiungendo la quota di 700 metri circa. Da quel balcone panoramico, oltre all'abitato di Baunei, si abbraccia un vasto panorama bellissimo fino alla sottile fascia costiera, verdeggiante, dove si susseguono insenature, falesie e strapiombi, mentre verso Tortolì , si ammirano spiaggette pianeggianti, contornate da splendide pinete. L'intensa attività della fascia costiera, che era ancora illuminata dagli ultima raggi del sole calanti, ti dava l'impressione di una lotta continua per conquistare fra le montagne aspre e rocciose uno spazio che manca. Vedendo questo paesaggio ci sembrava di ammirare la vecchia e tanto amata Liguria, per l'insufficienza dello spazio é forse il problema fondamentale che condiziona e aggrava tutti gli altri. Ci vuole spazio per gli insediamenti industriali, per le attrezzature, per il turismo in continua espansione, per l'insufficienza rete stradale. Ora che siamo ritornati a casa, ripensiamo all'incanto della costa del meraviglioso Golfo di Orosei con le sue bellezze naturali, formatosi nel corso dei secoli e poi c'è il suo clima mite, adatto alla prospera floricoltura; ricordi la vocazione marina; ti sorprende di aver calcato i sentieri del Soprammonte, dell'altopiano del Golgo, dove forse é nata la cultura e la civiltà portata dai colonizzatori greci duemila anni prima della venuta di Cristo; ma soprattutto ti emozioni di aver messo i tuoi passi sulle orme degli Etruschi, dei Romani, dei Cartaginesi e di altri popoli a noi sconosciuti. Riportiamo lo sguardo alle case di Baunei inerpicate in gradinate su per i pendii, i campi scavati a terrazze, da diventare anch'essi giganteschi gradini, ti prende ancora il fascino. E poi, oltre al paesaggio e alle stupende coste, impreziosite dalle Cale e Calette, falesie e cime calcaree altissime. Ma oltre a tutto questo ti vengono ancora in mente i volti di tanti amici e colleghi della vecchia guardia, che come noi hanno militato nell'Arma Benemerita, che abbiamo conosciuto sul quel promontorio roccioso sovrastante la scogliera, dove sorge appunto la torre edificata dagli Spagnoli nel 1591 a difesa della popolazione nei confronti dei pirati saraceni che frequentemente effettuavano incursioni e razzie e violenze sulla pacifica popolazione di S. Maria Navarrese. Quello é il salotto buono per gli amici pensionati di S. Maria, dove nei pomeriggi infuocati dal sole del mese di Agosto, si ritrovano sul quel promontorio roccioso sovrastante la scogliera, dove soffia un'aria sottile e fresca e dove si raccontano i loro trascorsi. Dopo quest'inciso, ritorniamo alla nostra escursione serale sull'altopiano del Golgo. La strada asfaltata prosegue fino al centro dell'altopiano, raggiungendo la Chiesa di S. Pietro, ma noi non abbiamo percorso interamente quella strada, ma subito dopo il balcone panoramico, Mario ha svoltato a destra, percorrendo una strada sterrata in mezzo alla brughiera aspra e selvaggia. Lassù, difficilmente si incontra anima viva ad eccezione di capre, cinghiali, mucche e maiali che vivono allo stato brado. Percorsi un paio di chilometri su quella strada sterrata e impraticabile, finalmente siamo giunti in località " Dolocaccaro", sopramonte di Baunei, presso l'Ovile del signor Silvio B. Quella era una cena organizzata dal proprietario dell'Hotel S. Maria, quindi eravamo attesi in quello stazzo immerso in mezzo alla fitta e bassa boscaglia, che se non conosci la strada potresti anche smarrirti. E' una località impervia, una località adatta per nascondere eventuali rapiti in attesa di riscuotere il riscatto. Anche nella mia vecchia Calabria, sulla grande montagna dell'Aspromonte, ci sono luoghi simili, luoghi che solo i delinquenti conoscono e gestiscono. Ma per fortuna, da un pezzo non si verificano delitti del genere. Qui sull'altopiano del Golgo, vivono e lavorano persone oneste e rispettabili. Siamo stati ricevuti con tanta cortesia e cordialità dal signor Silvio, nel suo Stazzo - ovile, che ci ha fatto subito visitare: E' un Ovile caratteristico, costruito interamente a pietra in bella vista, mantenendo la tecnica adoperata dai vecchi pastori sardi. A noi, é piaciuto moltissimo il locale adibito a cucina, con un grande focolare accostato al muro, dove la famiglia del pastore si riunisce nelle sere lunghe e fredde d'inferno e dove si stava completando la cottura allo spiedo di un maialino e di una capra. Ma quello che ha attirato la nostra attenzione e curiosità, non é stato il maialino e la capra che stavano completando la cottura, ma la cupola della stanza circolare, costruita sapientemente ed interamente con grossi pezzi di legno ricavati da vecchie piante di ginepro. I commensali siamo stati sistemati in un piccolo locale rustico tipo "barchessa padana": una specie di tettoia attaccata al corpo centrale dell'Ovile, con la parte anteriore scoperta. A quella lunga tavolata, abbiamo partecipato circa 15 persone, naturalmente clienti dell'Hotel S. Maria. Oltre a noi, cioè Adriana ed io, vi erano una simpaticissima famiglia di toscani, due coniugi reggiani, due signore austriache, e i due simpatici maestri musicisti, (che tutte le sere allietavano con il loro programma i clienti del nuovo e bellissimo locale del Sig. Erittu, costruito completamente in legno, sullo stile canadese, su di un piccolo promontorio, da dove si gode una vista stupenda sul piccolo e moderno porto di S. Maria). Alla cena agreste, hanno partecipato inoltre l'organizzatore e la sua simpatica figliola Chiara, nonché Mario, l'autista del fuoristrada. Ecco il menù: antipasto con salame, olive e prosciutto sardo; Primo piatto: gustosissimi "cullurgionis", a base di formaggio e ricotta, una specie di ravioli senza verdura. Appena mi sono stati serviti, devo confessare che li avevo scambiati per uova sodi conditi con il sugo di pomodoro. Dopo il primo piatto, ecco arrivare servito su di un piatto di legno di ulivo rettangolare, regolarmente spezzettati, il maialino e la capra allo spiedo. Il tutto innaffiato con un ottimo e generoso vino "cannonau", che al secondo bicchiere sei già quasi brillo. Per concludere la cena, ci é stato servito un delizioso dolce a base di formaggio e miele, che viene chiamato " Sabadas". Quando ci é stato servito il caffè fatto con la Moca, credetemi, eravamo tutti allegri e felici di aver trascorso una bellissima serata allo stazzo del signor Silvio. Ma, per concludere la cena in bellezza ed allegria, mancava ancora qualcosa, che cosa? Il bicchierino della staffa, l'ultimo prima di andarsene. Ma per non sfatare la tradizione sarda, é subito arrivata la bottiglia del mirto, con il cabaret con i bicchierini di carta, di quelli usa e getta. Il signor Antonio, ha documentato i vari momenti del convito, perché si é trattato di un vero e proprio banchetto: mancava solo il discorso conviviale, per chiudere in bellezza la piccola festa agreste lassù all'Ovile, con la sua macchina fotografica digitale. E' stata una serata di festa all'insegna dell'allegria e dell'amicizia. Abbiamo trascorso una bellissima serata fra la boscaglia e la selvaggia natura, lontano dal caos cittadino: una serata diversa sull'altopiano del Golgo, una sera da non dimenticare. Nel rievocare quei momenti di semplice felicità e di allegria, abbiamo ancora negli occhi l'immagine di quel luogo rustico e silenzioso, ma soprattutto, ricordiamo i volti felici e sorridenti degli amici occasionali, di quegli amici che s'incontrano in vacanza e poi, con il trascorrere del tempo, finiscono per essere dimenticati, ma in ognuno di noi, ne sono sicuro, rimarrà sempre il ricordo di quella piccola avventura gastronomica sull'altopiano del Golgo, immerso nella selvaggia brughiera. The Butterfly Questo nostro nuovo racconto lo abbiamo intitolato " La farfalla", nome generico di tutti i lepidotteri, cioè di quegli insetti a quattro ali variamente colorate, che ogni giorno, specialmente in primavera e per tutta l'estate, troviamo nei nostri giardini, nei boschi e nelle campagne e ci portano tanta allegria e serenità nell'ammirarle per la loro bellezza e soprattutto per il loro fascino. Questi simpatici e coloratissimi insetti hanno spirato nel tempo grandi poeti e musicisti, ma la nostra farfalla ha un significato diverso, un significato che ci fa pensare a qualche cosa di astratto, per esempio all'anima, a quel principio vitale di tutti gli esseri viventi: secondo la dottrina cristiana e altre concezione filosofiche e religiose, la parte spirituale e immortale dell'uomo, distinta dal corpo. Dopo la morte, spesso ritorna sulla terra sotto forma di farfalla, per assicurare alle persone più care che é sempre presente con loro. E' un segno di premonizione della coscienza che anticipa fenomeni o fatti che accadranno in un prossimo futuro o che sono appena accaduti, fatti collegabili a situazioni psichiche paranormali. Questa é una storia tragica, una storia dolorosa che si verifica tutti i giorni, specialmente sulle strade di tutto il mondo. Succede che quattro baldanzosi giovani trevigiani, quattro ragazzi pieni di vita e di voglia di evadere per conoscere altre città della vecchie Europa. Un bel giorno di primavera decidono di trascorrere un week -end in Germania. Viaggiano di notte e si succedono a turno alla guida della loro autovettura, ma per eccessiva velocità e sotto i fumi dell'alcol, un loro coetaneo tedesco, alla guida della sua autovettura, tampona violentemente l'auto dei quattro giovani italiani, uno dei quali rimane ucciso mentre riposava sul sedile posteriore, mentre gli altri tre riportano ferite lievi. Il giorno successivo, il padre del giovane deceduto si trovava nel giardino della sua abitazione, sita nella periferia di Treviso, a potare una pianta. Appena terminato tale operazione e guardando la pianta potata, gli ha dato l'impressione di vedere la morte fra i tronchi recisi. Mentre faceva tale riflessione, una grossa e coloratissima farfalla si é posata sulla sua spalla e non aveva intenzione di volar via. Più tardi, la figlia minore, gli ha comunicato la triste notizia dell'incidente stradale ed il decesso del loro congiunto. Da quel giorno, alla stessa ora, quella farfalla si andava a posare sulla sua spalla e non si allontanava dal suo giardino. Sarà stato un caso? Sarà stato un segno premonitore? Sarà stata l'anima del figlio amatissimo? Il fatto sta' che quella farfalla é diventata un simbolo della famiglia. Dopo alcuni giorni d'assenza, la farfalla é ritornata nel giardino ed era tutta spennacchiata, come se avesse subito un trauma, una trasformazione. Da quel giorno non é più tornata, é sparita per sempre. Sulla tomba di granito grigio, sopra il ritratto del giovane, fa bella mostra di sé una bellissima farfalla di vetro colorata, opera dei maestri vetrai di Burano. I visitatori si fermano, quasi incuriositi, per ammirare quello strano simbolo e si domandano che significato ha quella farfalla sulla tomba di un ragazzo che sognava la vita, ma che per uno strano destino ha trovato la morte. Giovanni, il padre del ragazzo, tutti i pomeriggi alla stessa ora, esce di casa e dice alla maglie: "Esco, sai dove vado! Vado a spolverare la farfalla e a deporre un fiore sulla tomba di Mario". Sono passati diversi mesi ed il dolore é ancora forte. I due coniugi hanno cercato di reagire incontrando amici e conoscenti per trovare un motivo per cui valesse la pena di vivere. In questi giorni, durante il nostro soggiorno marino a Santa Maria Novarrese, in provincia di Nuoro, nel nostro stesso albergo S. Maria, sono approdati due coppie di trevigiani, che per la loro simpatia, quello spontaneo sentimento di attrazione verso gli altri e l'inclinazione naturale verso di essa, ispirano subito fiducia e conquistano la simpatia degli altri . Abbiamo subito simpatizzato con quelle brave e simpatiche persone e siamo stati contraccambiati. Insomma, fra di noi é nata una nuova amicizia. L'ultimo giorno del nostro soggiorno a Santa Maria Navarrese, con Adriana mia moglie, come di solito facevamo tutti i giorni, nelle ore più calde della giornata, lasciavamo l'ombra degli ombrelloni e salivamo su in un piccolo promontorio dove sorge la grande torre saracena, che fa parte di una serie di torri costiere spagnole. Sono state fatte costruire lungo le coste, in punti strategici, in funzione anti - incursioni saracene tra il 1500 ed il 1600 dal Viceré don Juan Colonna Barone di Elda e da don Miguel de Moncada per volere del Re di Spagna Filippo II. Quella località é un vero balcone panoramico di grande bellezza paesaggistico, incorniciata dagli Scogli Rossi, una scogliera di porfido rosso che si protende sul mare, alle spalle del molo di levante del porto di Arbatax. Unici nel loro genere, bellissimi, sono quasi il simbolo di Arbatax. Durante le mareggiate diventano un incanto di spuma e luce e, se c'è il sole, il loro colore rosso e dominante. Da quel balcone panoramico l'occhio spazia nel grande orizzonte, dove il cielo si fonde nell'immensità del mare. Quello é un luogo fresco, dove soffia un leggero venticello ristoratore. E il luogo dove si incontrano gli anziani del paese, per fare quattro chiacchiere e nello stesso tempo godere un poco di frescura. Mentre chiacchieravamo con alcuni pensionati, dal sentiero che porta agli scogli, é salito il signor Giovanni. Ci ha salutati e si é seduto vicino a noi nella stessa banchina. É stato allora che ci ha raccontato la storia della farfalla e dell'incidente stradale, inseguito al quale sua figlio Mario, perse prematuramente la sua giovane vita. Egli ha concluso dicendo: "In questi pochi giorni che ci avete conosciuto, vi siete fatto un concetto diverso di noi, per la nostra allegria, per la nostra disponibilità, per il nostro modo di vivere la vita. Abbiamo riso, abbiamo raccontato delle piccole storielle e abbiamo brindato alla vita e all'amicizia, perché questo é il nostro modo di essere veneti. Ma é stato solo un modo per allontanare dalla mente, rimuovere: esorcizzare il nostro dolore. I nostri amici hanno insistito per venire in vacanza con loro in questo luogo di pace e di serenità, per allontanarci per qualche giorno dalle nostre continue sofferenze. Come vi ho detto, ogni giorno vado al cimitero per parlare con mio figlio, per portare un fiore sulla tomba e spolverare la farfalla. La gente si ferma ad ammirare quella farfalla colorata di vetro di Burano, e spesso si domandano quale affinità abbia con la devozione ai defunti. Non mi chiedono nulla, guardano e si allontanano. Mia moglie, ogni volta che mi vede uscire con la macchina, e lo sa benissimo dove vado, mi dice sempre: Scusami, mio caro. Chi é morto non é solo tuo figlio, é nostro figlio, e nulla ce lo potrà restituire; però potremmo continuare a vivere ricordandolo sempre; lui non sarà più presente nella nostra casa, non andrà più con i suoi amici a divertirsi come é logico che fanno i giovani, ma lo sarà sempre nel nostro cuore; é una tragedia che affronteremo insieme con l'amore che ci siamo sempre voluti e che ora ci vorremo di più, per noi, per lui. Andare tutti i giorni al cimitero, ha un grande significato d'amore e di rispetto verso colui che non c'è più, ma non ti sembra che stiamo esagerando? La vita deve continuare come sempre, perché questo era il desiderio di Mario, nostro figlio " Ecco perché, cari amici, vi ho raccontato una pagina triste della nostra vita; ecco perché siamo venuti qui in Sardegna, per trascorrere questa breve vacanza, per divagarci un po', perché nostro figlio voleva così, come dice sempre mia moglie. Egli, come noi, amava moltissimo la compagnia e l'amicizia. Sognava sempre di aprire un giorno un locale pubblico, per stare sempre fra la gente, fra gli amici e conoscenti e stare in buona armonia e in pace con tutti. Oh si, l'amicizia. L'amicizia é una delle occasioni in cui più facilmente si percepisce l'esigenza umana di solidarietà, di vicinanza di altri esseri , simili a noi per pensieri e atteggiamenti, il bisogno d'affetto, di approvazione, da parte degli altri. Questa é l'intenzione mia e di mia moglie, di realizzare il sogno di nostro figlio". L'ho lasciato parlare a lungo senza interromperlo, ma osservavo la sua espressione, il modo di atteggiare il viso per manifestare il suo stato d'animo: espressione triste, ma anche l'intonazione della voce che denotava il suo stato di turbamento. Non era più quel signore che avevamo conosciuto nella sala da pranzo dell'Hotel Santa Maria. Egli, di tento in tanto, si asciugava gli occhi arrossati e tristi e con la voce rotta dall'emozione, ci ha detto: "Scusate il disturbo, ma avevo bisogno di sfogarmi, di parlare con voi, di sentire una voce amica...." Il signor Giovanni, prima di salutarci guardava fisso verso l'orizzonte, al confine fra terra, cielo e mare, alla ricerca di qualche cosa che non c'era: la farfalla colorata. Egli ci ha detto: "Da molto tempo non vedo più la mia farfalla, quella farfalla che si posava sulla mia spalla. Signor Diego, so che Lei si diletta a scrivere dei racconti, mi farebbe piacere che inserisse in uno dei suoi racconti, un piccolo brano, una citazione di questa storia triste e dolorosa che il destino ha voluto colpire la nostra famiglia". La saluto e la ringrazio molto, signor Diego. Ci siamo salutati in silenzio, senza nessun commento. Ci siamo guardati a lungo negli occhi, e quello sguardo voleva dire tante cose.... Si, ma che cosa é il silenzio? Il silenzio é un lembo di cielo che scende verso l'uomo. Viene dai grandi spazi interstellari, dalle marine senza risucchi della luna fredda. Dove vivono e volano le bellissime farfalle: Le farfalle colorate. Piccola riflessione. Sono un vecchio tutore dell'ordine, ora in pensione, che in tutta la mia vita non ho fatto altro che proporre e diffondere e stimolare in tutti noi sensibilità e attenzione ai grandi temi della giustizia, della solidarietà, dell'amicizia , della carità e della pace fra le famiglie e sulla natura. C'è anche del celato cristianesimo in questa mia breve riflessione, me lo diceva sempre Don Paolo, un vecchio parroco di campagna come me. Oggi siamo, in un mondo in cui la lettura del negativo tende a creare impotenza, assuefazione, stanchezza e purtroppo anche passività. Ogni giorno vediamo i TG e, pochi minuti dopo, le immagini sono già dimenticate. Dobbiamo sbloccarci da questa apatia, riprendere coscienza di tutto quello che ci sta' girando intorno. Sono certo che di saldi timonieri, nella rotta verso questa beatitudine, ce ne sono. Tanti e veri costruttori di pace da ascoltare e seguire. E poi, non dimenticare la fede, perché questa è capace di far rovesciare pregiudizi e ci rende l'entusiasmo di estendere i confini dell'amore. L'anno del gran Giubileo volge a termine, ma ci lascerà bellissimi ricordi. Trascorriamo una primavera dello spirito; vivremo la stazione del raccolto, la stagione della nostra vita. Abbiamo gustato tutta la gioia del "prodigio" riabbracciato dal Padre e riconciliato col fratello. Continuiamo quindi la " festa dei veri pentiti riconciliati", e a guardare la vita sempre come dono divino e viverla sorridendo". - Tratto dal libro: Il vento della sera - Cercando l'isola dell'amore in un mondo di rancore e violenza Quando, voltandoci indietro, ricordiamo i momenti più felici della nostra vita, troviamo essenzialmente i periodi dell'amore. I giochi con gli amici d'infanzia, con i fratelli o con i cuginetti, le vacanze al mare e le gite con i compagni adolescenti, il batticuore dell'amore, l'estasi dell'innamoramento. Per le donne, la dolce attesa del figlio e, per entrambi i genitori, l'incantesimo dei bambini piccoli. Oh si, come erano dolci quei momenti, quando facevo ritorno a casa dal mio servizio e, mi stringevo fra le braccia la mia piccola "principessa", che immancabilmente mi pisciava sulla divisa, ma quelli erano e sono momenti indimenticabili, perché sentivi il calore di un piccolo esserino che ti apparteneva, che era sangue del tuo sangue e la gioia della tua vita. Poi veniva la moglie, la gioia della casa e la dolcezza della vita. Ricordi indelebili, che nemmeno i dissapori successivi riescono a cancellare. Eppure non ci rendiamo conto di quanto questi periodi dell'amore siano brevi, se paragonati a tutto il resto della nostra vita quotidiana, fatta di ostacoli, di ansie, di conflitti. Di quanto poco spazio essi occupino rispetto al mondo del rancore e della violenza in cui siamo immersi e dal quale siamo permeati. E' come se la vita fosse costituita da un grande mare di difficoltà e di conflitti, dentro cui ci sono soltanto poche isole dell'amore, dolce, luminose, serene. E poiché non siamo coscienti di questa sproporzione, non le apprezziamo per quello che valgono, non le difendiamo come dovremmo, spesso li dimentichiamo, li trascuriamo e d infine li tradiamo. Spesso noi crediamo che ci siano categorie di persone che sfuggono al grande mare della violenza. Pensiamo che, scendendo verso il basso, rinunciando alla ricchezza e all'ambizione, possiamo sottrarci al conflitto. Ma non è vero. Esiste una lotta fra i poveri, perfino fra i barboni, per uno spazio sul marciapiede o anche solo per un cartone in cui dormire. Oppure pensiamo che il conflitto sparisca quando sei salito tanto in alto da dover vinto tutti i tuoi nemici. La gente immagina la vita del Sultano come un paradiso dorato, un succedersi dei piaceri e di delizie senza preoccupazioni. In realtà anch'essa è stata sempre avvelenata dalla lotta per la successione, dalle congiure, dagli intrighi, dai tradimenti, dagli assassini. La storia ci racconta, che più di metà degli imperatori romani sono periti di morte violenta. E Marc'Aurelio, l'imperatore filosofo che odiava la guerra, ricordava con mestizia che, in venticinque anni di regno, ne aveva passati soltanto sei in pace. Il sociologo Francesco Alberoni, così scrive: " Allora la vita più pacifica è quella che troviamo a livello intermedio? No, no, anche qui ci sono invidie, tradimenti, trascuratezze, dimenticanze, lotte, sopraffazioni, soprusi, meschinità. Però, al confine tra il mondo dell'amore e quello del conflitto, ce n'è un terzo che, per il suo fine, per il suo spirito, appartiene all'amore, e per le lotte che deve sostenere è inserito nella competizione. Pensiamo a coloro che hanno costruito non per sé, ma per gli altri. Fondando ospedali, comunità per il recupero dei drogati, orfanotrofi, scuole in tutto il mondo. Persone come il dottor Schweitzer, madre Teresa di Calcutta, ma anche Muccioli, don Gelmini e tanti altri. Essi sono mossi dall'amore, creano comunità di fratelli, di amici, grandi famiglie ricche di colore. Ma per farlo hanno dovuto sostenere dure lotte contro i cinici, contro gli avversari e perfino contro i traditori che stavano accanto a loro. Allontanandoci da queste aeree preziose, più ci immergiamo nel grande oceano della lotta e più troviamo i violenti, i traditori, i disonesti, che ricavano piacere dal conflitto, i subdoli che amano il gioco degli inganni di piaceri di vedere il nemico umiliato e sconfitto. Poi quelli che aspirano al puro dominio sugli altri, e infine i fanatici, pronti a compiere qualsiasi infamia. Sono costoro i signori del mare della violenza, in cui siano costretti a vivere, pur aspirando all'isola dell'amore". - Tratto dal libro: Il vento della sera - |