La Befana:
Dalle antiche fiabe de la Befana tra leggende e letture. La Befana è nel
nostro immaginario una vecchietta che porta doni ai bambini la notte tra
il 5 e il 6 gennaio. Le sue origini si perdono nella notte dei tempi e
spesso sono frutto di credenze popolari e tradizioni cristiane. La Befana,
infatti, porta i doni in ricordo di quelli offerti al Bambino Gesù dai Re
Magi. La sua rappresentazione è ormai la stessa da tempo quasi infinito:
un gonnellone scuro ed ampio, un grembiule con le tasche, uno scialle, un
fazzoletto o un cappellaccio in testa, un paio di ciabatte consunte, il
tutto assortito da coloratissime toppe. La filastrocca a lei dedicata
descrive bene il suo abbigliamento: " La Befana vien di notte con le
scarpe tutte rotte col cappello alla romana viva viva la Befana! La
notte tra il 5 ed il 6 gennaio, a cavalcioni di una scopa, passa sopra i
tetti delle case e, calandosi dai camini, distribuisce nelle calze
lasciate appese dai bambini, giocattoli, cioccolatini e caramelle. Non
mancano comunque carbone e cenere per chi ha fatto troppi capricci durante
l'anno. E' tradizione lasciare alla Befana un piattino con un mandarino o
un'arancia con un bicchiere di vino in modo che si possa rifocillare. Il
mattino successivo insieme ai regali i bambini troveranno il pasto
consumato e l'impronta della mano della Befana sulla cenere sparsa nel
piatto.
La Befana si festeggia il giorno dell'Epifania, una festa religiosa che
ricorre il 6 Gennaio e ricorda la visita dei Re Magi a Gesù Bambino. Tre
re (i Re Magi), Melchiorre, Baldassarre e Gaspare, partirono da paesi
diversi, forse la Nubia, la Godolia e Tharsis, per portare doni a Gesù:
oro, incenso e mirra. Attraversarono molti paesi seguendo una stella, e in
ogni luogo in cui passavano, gli abitanti accorrevano per conoscerli e
unirsi a loro. Ci fu solamente una vecchietta che in un primo tempo voleva
andare, ma all'ultimo minuto cambiò idea, rifiutandosi di seguirli. Il
giorno dopo, pentita, cercò di raggiungere i Re Magi, che però erano già
troppo lontani. Per questo motivo la vecchina non vide Gesù Bambino. Da
allora, nella notte fra il cinque e il sei Gennaio, volando su una scopa
con un sacco sulle spalle, passa per le case a portare ai bambini buoni i
doni che non ha dato a Gesù.
Non in tutte le città del nostro Paese si svolge la stessa
rappresentazione, per esempio, la Befana arriva in moto o in mongolfiera.
A Roma e Firenze la tradizionale sfilata dei Re Magi. Due record: la
sciarpa e la calza più lunghe del mondo.
A ROMA - Tra sacro e profano. Re Magi e Befana, preghiere e caramelle (o
carbone). In lungo e in largo per la penisola si festeggia l'Epifania, e
se qualcuno opta per la tradizione non mancano show decisamente fuori del
comune. A Roma Befana e re Magi hanno sfilato sotto la pioggia in Piazza
San Pietro, dove tra il rullare dei tamburi, è giunto il corteo di carri e
personaggi in costume proveniente da Arcinazzo e Subiaco. Al termine
dell'Angelus il Papa ha salutato con affetto il gruppo in costume.
A MILANO - Qui la vecchietta è moderna e si presenta a bordo di una moto
rombante. La Befana motorizzata è un appuntamento che si rinnova in Piazza
Duomo, Cinquemila centauri si sono dati appuntamento per divertirsi ma
anche per fare del bene: obiettivo della manifestazione è portare un dono
a un saluto a chi è solo o soffre, in particolare agli ospiti della
Fondazione Sacra Famiglia.
A Firenze la tradizionale rievocazione della Cavalcata dei Magi
organizzata dall'Opera di Santa Maria del Fiore. La giornata si è aperta
con l'allestimento sul sagrato del Duomo del Presepe vivente. Segue la
Cavalcata, da Palazzo Pitti e lungo Via Guicciardini, Ponte Vecchio, Por
Santa Maria, via Vacchereccia, e piazza della Signoria, dove ad attenderla
troverà i Bandierai degli Uffizi del Corteo Storico della Repubblica
Fiorentina.
A Mondovì (Cuneo) per esempio la Befana arriva in mongolfiera. Al meeting
partecipano 40 mongolfiere e 60 piloti, con visitatori da tutti gli angoli
del pianeta. La manifestazione, che si svolge sotto l'insegna dei World
Air games, le Olimpiadi del volo che si terranno a Torino nell'estate
2009, ospita anche l'irlandese Pauline Baker, che tenterà il nuovo record
del mondo di altezza, durata e distanza.
A Imola è offerto alla vecchietta tutto il necessario per far fronte al
freddo invernale. In mostra la sciarpa più lunga del mondo: mezzo
chilometro di calore per una creazione in lana realizzata da un gruppo di
cittadine. La sciarpa sarà srotolata di fronte al pubblico nel pomeriggio.
A Urbania (Pesaro-Urbino) c'è la Festa nazionale della Befana, dato che la
città da dieci anni vanta di essere la capitale nazionale dell'Epifania.
Con un primato, quello della calza più lunga. In più laboratori creativi
sull'arte seicentesca della ceramica e a visite guidate ai monumenti e
alle bellezze dell'antica Casteldurante. Infine un gioco: per ricevere a
casa una lettera scritta dalla Befana basta collegarsi al sito
Labefana.com e compilare un modulo. Anche Camerino (Macerata) cerca di
entrare nel Guinness dei primati con un torrone lungo 400 metri, che sarà
preparato nella piazza principale.
A Pistoia la vecchietta ama il rischio e per la quattordicesima volta si
cala dal campanile più alto della città. Appuntamento in Piazza Duomo con
un programma ricco di giochi, musica e divertimento. Come ogni anno,
spiccato il volo dalla torre di Catilina, la scopa della Befana avrà
un'avaria, che la porterà a sbattere contro il campanile del Duomo.
Soltanto il provvidenziale intervento dei vigili del fuoco riuscirà a
farla atterrare sana e salva, con tanto di regali e dolciumi.
Una giornata di giochi e divertimento a Spoleto. Al Teatrino delle sei va
in scena "L'inventafavole", un gioco teatrale interattivo. I bambini non
sono solo spettatori, ma anche autori e ispiratori e collaborano, momento
per momento, con i personaggi in scena.
A Casteldaccia (Palermo) c'è poi la "Festa Multietnica dell'Epifania", con
500 bambini, figli di immigrati e indigenti. Per tutti regali, spettacoli
e dolciumi.
Brutto risveglio invece per la Befana di Ardea (Roma). Nella notte sono
stati rubati i doni dal capannone che avrebbe dovuto ospitare 900 persone
e bambini per la festa.
Come abbiamo visto sopra, quasi in tutta l'Italia, borghi e grandi città,
si è svolta la festa della Befana. Anche qui nel nostro piccolo borgo di
sapore medioevale di Campitello (Mantova), immerso in una densa nebbia
fredda e umida, si è svolta la tradizionale festa detta del " Buriel". Il
"Buriel" consiste in una grossa pila di fascine secche, cassette di legno,
tronchi di vecchi alberi in cima la Vecchia Befana, che a mezzanotte sì da
fuoco e attorno al grande falò, migliaia di persone e soprattutto i
bambini, assistono alla fine della vecchia, che è sacrificata. Ai bambini
sono offerti doni e dolciumi, mentre alla popolazione adulta, si
distribuisce il "Vino brulé". E' una tradizione quella di bruciare la "
vecchia" che si perde nella notte dei tempi pagani, ma che è stata
rivisitata e corretta in questi ultimi anni, per fare rivivere, anche nel
nostro borgo, una tradizione che sembrava dimenticata nel tempo. E' stata
una serata allegra e simpatica, che oltre a scaldare la serata dalla
nebbia, ha scaldato i cuori dei vecchi e dei bambini. Le tradizioni non
dovrebbero mai morire, perché ogni tradizione che muore, muore anche una
parte di noi stessi.
Natale: la festa dei doni
Anche quest'anno siamo giunti a Natale senza accorgercene. Oh si, il tempo
passa così veloce che non ci siamo quasi accorti. Se non fosse stato per
la pubblicità televisiva, che ci inculca, giorno dopo giorno, nel nostro
cervello già saturo e tempestato d'informazioni e di pubblicità, forse non
ci saremmo neppure accorti. Ma Natale è, è la festa più importante
dell'anno e poi è la festa soprattutto religiosa e dei bambini, ma anche
la festa tradizionale del nostro Paese, ma specialmente è molto sentita
nel Mezzogiorno d'Italia, con i caratteristici presepi. La città di
Napoli, è la capitale per eccellenza della tradizione del "Presepe, mentre
qui al nord, dove noi viviamo felicemente da oltre 50 anni, vanno per la
maggiore gli alberi di Natale, ma soprattutto le luminarie del consumismo
e dei regali. Quest'anno anche noi, come del resto lo facciamo ogni anno,
abbiamo addobbato il grande abete del nostro giardino con mille lampadine
variopinte, soltanto per mantenere viva la tradizione dell'albero di
Natale. L'alberello vicino al caminetto non lo abbiamo fatto, perché non
abbiamo neppure il caminetto, ma sul tavolo, come vuole la tradizione,
abbiamo preparato un piccolissimo presepe con le cose più essenziali: la
capanna, Maria e Giuseppe, l'asinello ed il bue, naturalmente, non poteva
mancare la figura più simbolica: il Bambino Gesù.
Quest'anno sotto l'albero ci sono pochi regali, ma facendo una piccola
lista, pressappoco ci sono una diecina di regali da scartare. Ma in
compenso ne è arrivato uno in anticipo. . E' arrivato Martino, ma chi è
Martino? Martino è un bellissimo cagnolino di razza Cocker, che ci fa
impazzire come un bambino. Un bambino e un cagnolino sono due cose
diverse, ma entrambi sono due cuccioli e hanno le stesse esigenze, le
stesse cure e forse anche lo stesso affetto. Adriana ed io, che siamo
avanti con il tempo, avremmo preferito un nipotino, ma non siamo stati
fortunati e abbiamo accolto con molto entusiasmo anche Martino il
simpatico cagnolino.
Adriana , prima che giungesse la festa, lesse e rilesse l'elenco, segnato
da molte correzioni, e lo depose sul tavolo con un gesto di sconforto,
pensando che ogni anno diventasse sempre più arduo completarlo senza
correre il rischio che cadere in dimenticanze.
Si cominciava confrontando le liste dei doni fatti nell'ultimo anno, per
evitare di offrire di nuovo alla stessa persona un oggetto scelto di
recente, poi si meditava un po', e magari si sfogliava qualche rivista o
la pubblicità che era distribuita porta a porta in cerca d'ispirazione: ma
le proposte pubblicitarie erano sempre così banali? D'accordo, "un caldo
plaid scozzese per una persona anziana" come noi. Poteva anche funzionare,
ma per Tiziana no! Non é freddolosa, e non é il tipo da passare le serate
davanti al caminetto con una coperta sulle ginocchia: preferiva piuttosto
mettersi al volante per andare al cinema o a teatro con le amiche. La
novità più assoluta è stata la macchina nuova di zecca, una fuoriserie
monovolume, molto accessoriata, l'abbiamo regalata a Adriana, perché ne
aveva veramente bisogno, perché la vecchia Ford non poteva più circolare
sulle strade e specialmente nelle città, come ha disposto il presidente
della Regione Lombardia. Questa disposizione di legge non ci voleva, è una
legge contro la maggior parte dei pensionati che non hanno la possibilità
di cambiare la macchina. Anche se anziana di età, serviva per andare a
fare la spesa nei Super mercati o per recarsi all'ospedale per essere
sottoposti a cure riabilitative o magari a trovare un amico un parente
colà degente. Così, se vuole la macchina, la deve compere nuove e pagarla
a rate, con quello che oggi costano le autovetture! Lasciamo questo
problema e ritorniamo ai regali per il Santo Natale. Gli unici con i quali
Adriana non aveva mai problemi erano i bambini, perché loro si
preoccupavano sempre di preparare in anticipo un minuzioso elenco di ciò
che avrebbero desiderato ricevere, fornendo con precisioni tutte le
indicazioni sugli ultimi modelli di giocattoli in commercio, anche i più
grandicelli che avevano smesso ormai da un pezzo di credere alla bella
favola di Babbo Natale: trovava solo sconfortante entrare nei negozi con
un elenco infarcito di tutti quei nomi angloamericani così improbabili da
decifrare, che designavano strane trottole giapponesi o videogiochi
complicatissimi, mentre un tempo sarebbe stato tanto semplice chiedere una
bambola o un pallone piuttosto che una biciclettina, dei pattini o una
scatola di costruzioni, i famosi mattoncini!
Ogni anno i più adulti della famiglia si ripetevano, con apparente
convinzione, che sarebbe stato più logico abolire lo scambio dei regali,
lasciandolo casomai soltanto ai bambini, eppure il 25 dicembre, quando
tutti finivano di andare da casa in casa a scambiarsi gli auguri,
apparivano come sempre impazienti di scartare i loro pacchettini colorati
e legati magistralmente da ricchi nastri.
Sarebbe stato divertente provare a non far trovare nulla sotto il grande
albero carico di decorazioni, pensava a volte all'amica Amedea con una
punta di malignità, ma non voleva rischiare di attirarsi le critiche, e
così doveva rassegnarsi a trascorrere qualche pomeriggio in giro per
negozi, per poco convinta che fosse di ciò che acquistava. Una settimana
prima della grande festa consumistica, la città aveva già assunto quel
aspetto festoso che le era sempre congeniale in passato: una profusione di
luci, di ghirlande trasformavano le vie commerciali, e le decorazioni
d'ogni tipo per accennare un riferimento al Natale in tutte le vetrine,
persino in quelle di negozi che avrebbero risentito assai poco della corsa
agli acquisti, come potevano essere i negozietti di cianfrusaglie.
Passeggiando sotto i portici di Piazza Erbe di Mantova, si incontravano
moltissime persone, che ogni due passi si fermavano per ammirare le
vetrine illuminate da troppe luci. In quelle giornate che precedevano la
grande festa, ma vi era troppa confusione. Le strade e i negozi erano
completamente affollate. Per prendere un caffè al Bar della
"Degustazione", si doveva fare persino la coda. Chissà quanti erano, fra
tutte quelle persone che si aggiravano con aria trafelata tra un negozio e
l'altro, coloro disposti a ricordarsi il significato originario della
festa perciò si stavano scalmanando così tanto?
Una festa che si era trasformata in un inno al consumismo, e in una
sequela d'impegni da rispettare.
Pensando a quella folla omogenea e soprattutto caotica e spensierata ma
felice di fare gli acquisti desiderati, mi sembrava che dalla mia
fanciullezza fosse trascorsa un'eternità, e il mondo mi appariva come
trasformato in modo radicale se ritornavo a rievocare i Natali di allora:
I miei ricordi sono chiari, limpidi come l'aria e il mare della My Old
Calabria, dove ero cresciuto nel piccolo borgo medioevale di Cosoleto. La
nostra famiglia era povera, ma il pane, l'elemento essenziale per la vita
non ci mancava. Quello era il periodo critico della Seconda guerra
mondiale ed i miei ricordi parlano di un mondo meno opulento del nostro.
Ma dove esisteva più umanità, rispetto e più amicizia. Ricordo la novena
di Natale, quando gli zampognari, passavano da casa in casa e si fermavano
a suonare con le loro zampogne e la gente era felice di aspettare la
grande festa più bella dell'anno. Lasciatomelo dire: c'era tanta poesia in
quelle zampogne.
La vigilia di Natale, ricordo che la tradizione vuole, che le donne del
mio paese, preparano le famose zeppole. Mia madre iniziava molto presto a
preparare la pasta che faceva lievitare per poi iniziare a trasformarla in
ottime zeppole napoletane, riempite con il baccalà e poi fritte in una
padella colma di olio d'oliva bollente. Appena pronte e fumanti, noi
ragazzi li portavamo ai vicini di casa ed ai nostri parenti. Quella delle
zeppole era e credo che sia ancora adesso, una tradizione che si perde
nella notte dei tempi. Come ho detto sopra, dalle nostre parti non si usa
fare l'albero di Natale, ma il presepe. Noi ragazzi incominciavamo molto
prima raccogliendo il muschio dagli alberi e modellando la creta per
costruire i pastori, per poi collocarli nel presepe. I doni natalizi non
li portava il Babbo Natale, ma la Befana. Noi ragazzi preparavamo la calza
vuota e l'appendevano a fianco del camino. Se durante l'anno avevi
studiato e ti eri comportato bene, sicuramente ricevevi i doni, che
consistevano in due mandarini, quattro fichi secchi, due caramelle e
qualche matita colorata. Quelli erano tempi di carestia, che per via della
guerra mancava tutto.
Allora le strade del borgo non apparivano così riccamente addobbate come
oggi, e lo scambio dei regali comprendeva oggetti utili e necessari
piuttosto che superflui, si trattava sempre di roba mangereccia. Quelli
erano i tempi del ventunesimo secolo, troppo disincantati Esisteva ancora
qualcosa al mondo in grado di stupirci?
I nostri figli e i giovani di oggi siamo cresciuti agli albori della
televisione, molto prima dell'avvento di computer e videogiochi, nei
giorni dell'Avvento capitava ancora di fermarsi a rimirare ingenuamente
quei vecchi presepi meccanici, che gli ambulanti piazzavano agli angoli
delle strade per estorcere qualche spicciolo ai passanti! Questo
particolare lo abbiamo anche girato belle Piazze della meravigliosa città
di Vienna.
Quest'anno avevo pensato di regalarmi un nuovo computer portatile, per
portarmelo nelle vacanze estive, per sostituire la vecchia agenda di
viaggio. Non ne avevo parlato con nessuno di questo mio desiderio, ma
scartando i due pacchetti indirizzati al sottoscritto, sapete che cosa vi
ho trovato? In un pacchetto vi era contenuto, nuovo fiammante, il
notebook. E' stato veramente un dono molto gradito ed inaspettato, ecco
perché è stato doppiamente gradito. Nel secondo pacchetto vi ho trovato
due libri di narrativa di due grandi scrittori del nostro tempo e una pipa
fiammante, una di quelle pipe pregiate inglesi di radica scozzese che è
una vera " Savinelli".
Parlando del notebook, Federico Cella, ecco cosa scrive: Probabilmente
questo è stato il Natale più tecnologico di sempre (banalità, perché il
prossimo lo sarà ancora di più, e via così). Dunque molti - fortunati - si
saranno trovati un pc o un laptop nuovi di zecca sotto l'albero. Io no. Ma
siccome nei giorni precedenti alle feste la motherboard del mio vecchio pc
- per la precisione lo slot in cui si inserisce la scheda video - ha
pensato bene di fare "pfzzzzzzt" e poi emanare odore di bruciaticcio, sono
corso in un grande magazzino per vedere se - invece di insistere con i
problematici "pc assemblati" - riuscivo a raccattare una buona offerta
natalizia. E così è stato: niente pubblicità ma molta soddisfazione per il
nuovo fisso, costato poco e assai potente (con una scheda video da 640
mega dedicati finalmente Neverwinter Nights 2 giga come Dio comanda).
Allora è iniziato il grande momento - temuto e desiderato allo stesso
tempo da tutti gli appassionati - di "costruire" il pc nuovo.
Ormai ho file e programmi che mi trascino da un computer all'altro, ma
visto che di novità interessanti un po' in giro ce ne sono, ho navigato in
Rete per trovare qualche dritta. E mi sono imbattuto in questo articolo di
Life Hacker confezionato alla bisogna: "How to setup your new computer".
Il tutto con programmi rigorosamente "free", gratuiti e scaricabili
direttamente dal Web. Per Windows, Mac e pure Linux. I suggerimenti vanno
dall'ormai assodato Firefox a programmini più semplici e sostitutivi di
quelli "built in" nei vari sistemi operativi - come i PowerToys per Xp -,
fino ad arrivare ai "trucchi" per ottimizzare e personalizzare l'Os al
meglio (questo intervento per esempio è tutto dedicato a Vista). Ci ho
perso un sacco di tempo e mi ci sono divertito, ora tocca a voi".
Noi per fortuna, non abbiamo avuto di questi problemi e poi, non saremmo
forse capaci di assemblarle tutti i pezzi, come ha pensato di fare
Federico Cella. Noi adoperiamo il PC da molti anni, da, quando abbiamo
mandato in pensione la vecchia "Lettera 22 Olivetti", perché era passata
di moda, ma è ancora funzionante dopo 40 anni di lavoro. Ho fatto molta
fatica ad archiviare la vecchia macchina per scrivere, ma i tempi sono
cambiati e la tecnologia avanza, guai se non è stato così Terminiamo
questo nostro racconto di Natale, tra passato e presente, che fanno parte
della nostra vita, con questa bellissima poesia di Ignazio Amico.
Il fascino del Natale
Magiche note piovono dal cielo
e soavi si librano nell'aria
divine melodie, arcani suoni.
Delle zampogne il fiato per le strade
evoca sensazioni già vissute,
ricordi dolci di persone amate.
Fredda la notte illuminata a giorno
dalle mille lucette scintillanti,
vetrine in festa, odori tutt' intorno.
Lieta la gente di scambiarsi un dono,
di porgersi un augurio, un sorriso;
ogni uomo vuol essere più buono.
In ogni casa un albero addobbato
di luci, di colori e finta neve,
con pendenti di nero cioccolato.
E poi il presepe, questa meraviglia
di tenerezza e serena armonia,
che dona gioia a tutta la famiglia:
il cielo con le stelle, le montagne,
i pastorelli in fila con gli armenti,
la vecchietta che vende le castagne;
tutti vanno alla grotta dell'evento,
dov'è nato un Bambino tutto biondo
tra noi disceso per salvare il mondo.
Le slitte delle renne
senza il Babbo Natale.
Oltre a noi del CAI, vi erano altri turisti che furono costretti a
fermarsi a causa della bufera di neve. Spesso la montagna è
imprevedibile, perché da un momento all'altro potrebbe cambia, così è
successo quel giorno. Più tardi, come d'incanto la tormenta cessò ed il
cielo ritornò nuovamente sereno. Nel rievocare quella giornata tra il
sole splendente e la tempesta, in quel paesaggio bellissimo
dell'altopiano di Siusi, dominato dai due grandi giganti della
montagna, il Sassolungo e il Sassopiatto, mi è venuta in mente
l'escursione di diversi anni fa, quando, sempre, con gli amici
escursionisti del CAI di Mantova, siamo andati in Norvegia. Adriana ed
io, come pure altri nostri amici, viaggiavamo in qualità di turisti e
come spettatori, mentre il restante della comitiva gareggiavano nello
sci di fondo in quel paesaggio metafisico e lunare del profondo nord,
dove la neve poté essere rossa o dorata e dove il tempo, d'inverno, si
fermava. Ci è rimasto impresso quel paesaggio bianco e infinito, con i
suoi fiordi, le montagne e le grandi pianure gelate, fatto di acqua
ghiacciata dove sovente s'incontrano le slitte trainate dalle renne e
dai cani da slitta, che sono impiagati nelle grandi distanze del
profondo nord per competizioni, in quel paesaggio lunare ed eternamente
innevato.
Rimembranze del profondo nord norvegese.
Oltre al caratteristico paesaggio coperto di neve, ci sono rimasti
impressi gli spettacolari fiordi. Il mondo dei fiordi è puntellato da
paesaggi incantati, antichi villaggi alcuni dei quali sono oggi adibiti
a musei, porticcioli sperduti ancora in piena attività in cui si
incontrano "lupi di mare" avvezzi a ogni tempesta e a ogni bottiglia,
così autentici da sembrare usciti da un fumetto, cittadine arredate in
tema Moby Dick e cetacei così vicini da poterne sentire il possente
respiro, cacciatori di balene ostili ad ogni regolamentazione
restrittiva sulla pesca, che qui è una pratica irrinunciabile per la
sopravvivenza culturale, più che economica, ed è una delle prime
ragioni del rifiuto della Norvegia di entrare nell'Unione Europea.
Per noi turisti italiani, che non siamo abituati a tanta bellezza
paesaggistica, che potremmo definirla astratta e metafisica, come il
sole di mezzanotte che mozza il fiato, l'aurora boreale che affascina e
sconcerta, le rive sono puntellate di case rosso fuoco, come falò
sparsi in un verde che è "il più intenso che madre natura riesca a
produrre", gli strapiombi di rocce incutono soggezione a guardarli dal
basso, vette ghiacciate si specchiano nell'acqua, isole remote hanno
solo uccelli come abitanti, l'aria limpida e pura dell'Artico crea un
curioso effetto "fata morgana" che fa scherzi alla vista. Un
proverbiale esempio dei miraggi che provoca è quello di un esploratore
svedese, che dopo avere quasi completato sul suo taccuino la
descrizione di "un promontorio scosceso con due insoliti ghiacciai
vallivi simmetrici facenti parte di una grande isola…", si accorse che,
in realtà, stava osservando un tricheco. Lo spettacolo dell'aurora
boreale non era una novità per noi, infatti, lo abbiamo ammirato la
prima volta nel viaggio di ritorno da New York a Milano, e vi assicuro
che è una visione fantastica da presepe nordico. La giornata era grigia
e non c'era quasi differenza fra notte e giorno; ma si iniziava a
respirare aria di Capo nord. I boschi Norvegesi ci avvolgevano come
pure le grosse mandrie delle renne con le caratteristiche corna. Più
oltre, abbiamo incontrato diverse slitte trainate dalle renne e ci
sembrava di incontrare anche Babbo Natale, che portava i regali
natalizi, ma del Babbo Natale nessuna traccia. In questo lungo viaggio,
incontriamo fiordi e alte montagne che si succedono, a 600 metri
d'altezza c'è la stessa vegetazione ( e anche la temperatura!) che noi
troviamo a 2000 metri sui nostri Passi Dolomiti. Splendidi paesaggi e
tanta natura incontaminata, le strade sono sempre abbastanza lente e
pericolose.
Il poeta Tommaso Milani, in questi pochi versi, cos'ì definisce questi
luoghi da favola:
"La primigenia luce sorgeva dai lembi della cecità /
Un cupo abbandono asperge il niveo candore
/ il loro tempo collima con i lenti gesti
/La notte respira nei lunghi fiumi di cenere".
E' veramente difficile per noi mediterranei di descrivere questo
stupendo paesaggio dell'inverno nordico con le nostre parole, ma ci
viene incontro il grande scrittore norvegese Erik Forsnes Hansen, che è
in continua ricerca di un rapporto più autentico con la vita, nel suo
appassionato racconto di viaggio, in un itinerario che attraversa spazi
sconfinati, che noi abbiamo avuto il piacere e la grande gioia di
ammirare nella sua meravigliosa e selvaggia bellezza.
Egli così scrive: "Ciò nonostante l'inverno arriva come il saluto del
nostro immenso e disabitato regno limitrofo, fatto di acqua ghiacciata,
che ogni autunno protende le sue dita verso Sud: la luce del giorno
scompare, i gradi scendono sotto zero e lì rimangono. Non si patisce il
freddo, perché abbiamo imparato a vestirci, le case sono ben
riscaldate; a dicembre si soffre più il freddo a Milano o a Parigi che
a Oslo. Ma si sente la mancanza della luce. Si sente la mancanza dei
colori, soprattutto del colore verde, della clorofilla, dei fiori, come
quella meravigliosa luce del Mediterraneo. Si aspetta l'arrivo della
neve. Questo è comune a tutti gli abitanti del Nord: un inverno senza
neve è una disgrazia, perché è nero come la morte. La neve invece
riporta la luce, le strade e i boschi diventano bianchi e candidi. I
bambini giocano, insegnanti innocenti sono bersagliati da palle di
neve. Avviene una cosa strana: ritornano i colori.
: Noi, che per molti anni, abbiamo praticato l'hobby della pittura,
possiamo dire che il bianco non è propriamente un colore, è la base con
cui si formano i colori chiari, puri, la neve non è bianca, può essere
rossa e dorata, può essere verde smeraldo e azzurra, soprattutto
azzurra, in tutte le sfumature che vanno dal violetto al turchese. La
luce che proviene dal cielo terso o nuvoloso si riproduce e si diffonde
nelle forme che assume la neve. Più si va a Nord, più ricche e limpide
diventano in inverno le impressioni dei colori. Nella breve durata del
giorno, la neve e il ghiaccio si infiammano di colore. Non si sono mai
viste tinte più ricche che nel lontano nord. Di notte riluce l'aurora
boreale: è il vento solare che tinge il cielo notturno di purissime
particelle di luce, di radiazioni cosmiche, catturate nell'atmosfera
dei Poli. Un velo finissimo più verde, che qualunque verde terreno, è
sospeso tra la neve e le stelle. Può ricordare il riverbero proveniente
da una grande città. Poi, senza preavviso, il velo si squarcia, e raggi
di rosso, d'oro e di viola ondeggiano sulla volta celeste,
dall'orizzonte le stelle non si vedono quasi più, tutto si trasforma in
colori in movimento, in vortici e turbini, dove la mutazione dei colori
complementari avviene senza passare per quelli intermedi che compongono
lo spettro, bruscamente e in modo irreale. Di colpo dal cielo è
spazzata via l'aurora boreale, che scompare senza lasciare tracce. I
grappoli di stelle che compongono la Via Lattea scintillano immobili in
tutto quel nero. Prima che, due minuti dopo - forse due ore, nessuno lo
sa - ricompaia nuovamente quella luce irreale, danzante. È sempre stato
così. L'acqua si muta in ghiaccio, seguendo sempre gli stessi modelli,
l'aurora boreale danza. È il gelo stesso dell'universo che si abbatte
sugli abitanti che popolano i territori al confine con l'Artico, in
Siberia e in Lapponia, in Groenlandia e in Alaska: è l'assenza del
tempo, l'eternità. Quassù tutta la vita ne porta l'impronta, gli orsi
polari sono bianchi, le volpi artiche sono bianche, i piccoli delle
foche sono bianchi, come la renna femmina, la pernice di montagna e il
passero delle nevi. Devi sempre tenerti in movimento. Devi coprirti il
naso e la bocca, non dimenticarti, per l'amore di Dio, di mantenere la
sensibilità delle dita dei piedi e delle mani. Devi sempre tenerti in
movimento, se no la tua piccola vita pulsante diventerà in poco tempo
tutt'uno con le forme cristalline, eternamente belle, del ghiaccio. Se
stai fermo troppo a lungo blocchi anche il tempo dentro di te, non sei
altro che il cuoricino impaurito di un mammifero che continua a battere
nell'universo, e l'universo è grande e immutabile; il tempo si può
trovare soltanto là dove i cuori battono le loro piccole e regolari
pulsazioni di orologio. Senza vita il concetto di tempo è privo di
significato. Senza vita esiste soltanto l'eternità.
Nel suo racconto, egli parla della nave polare " Fram"e ne racconta la
triste vicenda: "Per tre estati e tre inverni, dal 1893 al 1896, la
nave polare "Fram" rimase incagliata nei ghiacci polari. C'erano a
bordo 13 uomini e 34 cani. Il capo della spedizione, Fridtjof Nansen,
aveva elaborato la teoria secondo la quale una corrente attraversava il
bacino polare, dalla Siberia al Nord America. La sua idea era quella di
raggiungere il Polo Nord a bordo della nave che aveva fatto costruire
appositamente: l'imbarcazione sarebbe rimasta "congelata" negli ammassi
di ghiaccio, e seguendo il lento movimento del ghiaccio avrebbe
galleggiato verso i 90 gradi di latitudine nord. Per tre anni il mondo
fu una nave dove il tempo si era fermato; non si distingueva il giorno
dalla notte, d'inverno il buio interminabile, d'estate la luce
continua. A bordo si giocava a carte, si mangiava, si facevano
rilevamenti, si languiva di solitudine. "Non esiste nulla di più
straordinariamente bello della notte polare. Una visione da sogno,
dipinta con tutti i toni più fini dell'anima. È come se fosse dipinta
di etere, ogni cosa sfuma, respira nell'altra; non si vede dove
comincia un tono e dove finisce l'altro, tuttavia sono lì. Niente
forme, tutto è albore, musica sognante di colori, una melodia lontana,
interminabile, che sembra scaturire dai toni attutiti di strumenti a
corda. Ma tutta la bellezza della vita non è forse così, alta, fine e
pura come questa notte? Datele colori più forti e non sarà più
altrettanto bella. Come un'immensa cupola il cielo si curva sopra di
te, lassù blu, verde verso la linea dell'orizzonte, nel punto più basso
lilla, viola. Sulle distese di ghiaccio, fredde ombre bluastre e toni
più chiari tendenti al rosa laddove le estremità si svolgono verso il
bagliore del giorno svanito".
Sopra la volta blu, le stelle luccicano con la stessa pace di sempre,
amiche che non tradiscono mai". Fridtjof Nansen ha trentatré anni,
quando scrive queste parole. Si trova davanti al Golgota o a un trionfo
alessandrino, non lo sa. La nave accenna a deviare verso Sud, e con
disperato eroismo Nansen, insieme a un compagno, abbandona la nave
munito di cani e slitte nel tentativo di raggiungere la "terra
promessa", la sommità del globo, il niente assoluto, la pura astrazione
trigonometrica, la meta dei suoi sogni: il Polo nord. Non è possibile.
Dopo sforzi disumani raggiungono 86 gradi 14 primi di latitudine nord;
hanno ormai mangiato gli ultimi cani. Tornano indietro. A piedi
arrivano alla Terra di Francesco Giuseppe, anzi, nuotano, remano,
soffrono il freddo, lottano con gli orsi polari. Si trascinano sulla
terraferma e svernano in un rozzo riparo di pietre che si sono
costruiti. Non hanno nient'altro da leggere che un almanacco e una
tabella logaritmica; "a lungo andare una lettura tutt'altro che
divertente", scrive Nansen. Sopravvivono. Hanno dormito insieme nello
stesso sacco a pelo per più di un anno, quando Nansen propone
finalmente al suo compagno di viaggio, Johansen, di smettere di darsi
del Lei e di passare al tu. Avviene in occasione del Capodanno, sotto
le pietre. Che razza di persone erano? Quale distanza esisteva tra
un'anima e l'altra? Sono ritrovati: Nansen ritorna in trionfo, diventa
la nuova guida della giovane nazione, l'umanista, il diplomatico e il
politico famoso in tutto il mondo. "Osservando lo spazio cosmico in una
notte stellata un giovane può apprendere più sull'umiltà che in anni di
frequentazione di dottrine religiose ed etiche; perché da ciò può
imparare quale insignificante parte dell'universo siamo in realtà noi e
il nostro piccolo mondo. Per questo dovrebbe, fin dalla più tenera età,
imparare a inginocchiarsi ai piedi dell'eternità, ad ascoltare il
silenzio dello spazio infinito". Così scrive Nansen nella sua famosa
conferenza sulla Scienza e la Morale del 1908. E grazie al suo impegno
durante la carestia che si abbatté sulla Russia dopo la rivoluzione,
grazie ai suoi " passaporti Nansen" e al suo operato nella Società
delle Nazioni, salva forse centinaia di migliaia di vite. Perché cos'è
la vita? E' un cuore che batte nel gelo, nel gelo spietato, sotto le
stelle. La vita è sempre sola. " Questa è un'immagine che ritorna",
scrive Nansen nelle sue descrizioni della carestia russa. " Avevamo
visto la sofferenza e la miseria indicibili in uno dei tanti villaggi
agonizzanti lungo il Volga. E la gente diceva che nel villaggio vicino
le condizioni erano persino peggiori, c'erano cadaveri nelle case e
nelle strade, e nessuno per seppellirli. Ci fu indicata la strada e ci
allontanammo con la macchina attraverso la steppa russa coperta di neve
- piatta, piatta, sconfinata, senza alberi, senza variazione alcuna,
senza altre strade se non le tracce lasciate in precedenza dalle ruote
di altri veicoli - quell'enorme, triste distesa disabitata. Continuammo
a procedere fino a, quando l'autista si fermò di colpo: non sapeva dove
eravamo, dove andare. Tentammo diverse direzioni, ma ovunque la stessa
pianura abbandonata senza fine. Non riuscimmo a trovare né villaggi né
esseri umani. Non rimase altro da fare che tornare indietro. Così è la
distanza tra gli uomini, così l'umanità brancola attraverso le steppe
aride. Quello che conta è seguire la strada fino a, quando troviamo il
prossimo. L'amore che conta è seguire la strada fino a, quando troviamo
il prossimo. Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te".
Certi tratti caratterizzano la fisionomia dei volti dei popoli che
abitano nel lontano Nord lungo le coste del bacino polare. Sono stati
in contatto con l'incommensurabile, l'immenso, ciò che è regolato da
leggi severe. Hanno visto la bellezza dell'eternità e hanno imparato
che è fredda e spietata. Ma le zone polari attirano quanto quelle del
Sud: Nassen ebbe molti successori, non soltanto ricercatori polari.
Vorrei conoscere un giovane norvegese che almeno una volta non avesse
sognato di andare al Nord, di cacciare foche in Groelandia o perlomeno
di attraversare la tundra con una slitta, o un'avventura in Siberia.
Quando mio padre preparava gli sci di fondo per una settimana in giro
per le montagne, lo faceva con serietà e con raccoglimento religioso:
ti muoverai nel gelo e nel freddo, dovrai sopravvivere
Qui, nel Sud dell'Europa, sulle nostre montagne dolomitiche, lo sci è
un divertimento allegro, fatto di vino rosso, abiti eleganti e di belle
ragazze che affollano le località mondane e idilliche delle Alpi: qui
invece si tratta di un esercizio religioso- filosofico. E' faticoso,
non divertente. La tua ricompensa sta nel percepire che vivi. Ti
avvicini a qualcosa, a qualcosa di serio, te stesso. E' un anelito
verso il Nord, verso la neve e il ghiaccio. E' lo stesso soffio gelido
di spietata serietà che ti alita sul collo, quando leggi Ibsen o
Strindberg nella loro sinistra, cupa, realista consapevolezza della
morte. Lo vedo nelle immagini che giungono dalla Siberia o dalla
Groenlandia, dalla Svalbard, da Valse o dall'Alaska. Gli stessi
lineamenti, la stessa esperienza che traspare dai loro volti,
indipendentemente dall'etnia. Ma nessun essere umano ride di gusto come
quando uno di questi volti si incrina e comincia a irradiare
un'allegria selvaggia provocata da una storia divertente, dal racconto
di uno spaccone. Sono il ghiaccio che si scioglie e l'acqua che di
colpo riprende a scorrere a fiotti, nuovamente piena di energia e
movimento, è la primavera che arriva, come una buffa commedia, sono
gocce che stillano dal ramo di un abete, soni i fiori e il verde che
spuntano tra i cumuli di neve che si stanno sciogliendo. La "
Primavera" di Vivaldi è un divertimento gioioso, la " Primavera" di
Grieg è un salmo di ringraziamento: " Ancora una volta ho visto
l'inverno fuggire davanti alla primavera: ho visto le fronde del
ciliegio rifiorire di nuovi fiori. Ancora una volta ho visto il
ghiaccio scomparire dalla terra, la neve sciogliersi e la cascata del
ruscello scrosciare tumultuosa. Ancora una volta ho visto l'erba verde
ricoprirsi di fiori. Ho sentito di nuovo gli uccelli di primavera
cantare al sole e all'estate. Tutto ciò che la primavera mi porgesse, e
i fiori che ho colto, pensavo fossero gli spiriti dei padri, che
danzavano e sospiravano. Per questo ho scoperto un mistero tra le
betulle e i rami di conifere. Per questo il suono del flauto che ho
intagliato, mi sembrava un pianto". L'erba è così verde, l'acqua così
pura. E' giunta la primavera e il sole è tornato, cominciano le lunghe
giornate insonni, e tu non puoi sapere che cos'è la primavera senza
aver vissuto nel buio. E' il trionfo caparbio della vita sulle leggi
dell'entropia, la risata innocente di un bambino che riecheggia
nell'eternità".
Anche noi, nella nostra piccola avventura sull'altopiano di Siusi, al
cospetto dei giganti di ghiaccio che bucano silenziosi il cielo,
immersi nel cuore del turbine e coinvolti nella fitta bufera di vento e
di neve, per questo motivo, ognuno di noi, dovrebbe, fin dalla più
tenera età, imparare a inginocchiarsi ai poeti dell'eternità ad
ascoltare il silenzio che giunge dallo spazio infinito, da questo
spazio immenso, perché il silenzio comincia col far chiudere le labbra
e poi penetra fino al profondo dell'anima, nelle regioni inaccessibili,
dove Dio riposa in noi.
Quella grande distesa bianca che era diventata grigia o violetto, una
visione da sogno e nello stesso tempo di terrore, ci accompagnava una
musica celestiale, una melodia lontana, che sembrava scaturire da una
balalaica, era la musica soave del motivo di Lara, che il dottor Zivago,
aveva scritto in quella notte tormentata della passione per la sua
amata Lara.
Un vecchio detto cinese, così recita: "Tutto bene quando finisce bene e
l'ultimo chiude la porta, quando il nostro torpedone lasciava il
piazzale del parcheggio il sole era ritornato, come pure i colori
candidi e sfumati della neve ed il verde degli abeti ed era pronto per
tramontare dietro la grande montagna dentellata delle Dolomiti.
Possiamo dire di aver vissuto, oltre allo spavento delle signore, una
bellissima avventura non prevista in mezzo alla bufera. Possiamo
benissimo affermare che dopo la tempesta ritorna sempre il sereno e la
gioia di vivere, ma soprattutto, abbiamo imparato ad ascoltare il
silenzio dello spazio infinito di questo mondo fantastico e ovattato
dalla candida neve, perché il silenzio è un lembo di cielo che scende
verso l'uomo. Viene dai grandi spazi interstellari, dalle marine senza
risucchi della luna fredda.
Si stava avvicinando la settimana di Natale, la festa dei bambini e nel
rifugio, ai margini della grande montagna innevata del Sasso Piatto,
un'anziana nonnina, stava raccontando ai suoi nipotini, mentre girava
lentamente la polenta nel paiolo, una meravigliosa favola, la favola di
Natale. Ci siamo fermati ad ascoltare anche noi quella meravigliosa
favola, che oggi riportiamo in queste nostre pagine, perché non diventa
effimera, ma soprattutto per farci rivivere quella bella avventura dei
due giovani innamorati.
La favola così inizia:
" Il loro amore era ancora giovane, meraviglioso e intatto allorché
Gabriel e Magdalena, due studenti, decisero di trascorrere per la prima
volta le vacanze natalizie lontano di casa, in una fiabesca valle
alpina per guadagnare qualcosa come maestri di sci e potersi pagare i
libri, l'appartamento e le tasse universitarie.
Il sole del tramonto accendeva le montagne di bagliori di porpora e
d'oro mentre i due giovani su riposavano nella loro camera, esausti
dopo una giornata trascorsa a insegnare, lo spazzaneve a grandi e
piccini. La prima vigilia di Natale lontani dal calore dalle loro
famiglie, senza genitori e fratelli, senza albero e il presepe di
natale, senza doni e cena Natalizia, destava in loro una sensazione
strana e struggente, che nessuno avrebbe saputo come definirsi. La
notte santa calò silenziosa e avvolgente sui riflessi azzurrini della
luna nella neve, mentre i due ragazzi si assopivano, vinti dalla
stanchezza.
Sono già le otto, svegliati, non vorrai passare tutta la notte di
Natale a dormire. Dopo un breve riposo Magdalena scosse l'amico, con
una punta di nervosismo, come se avesse paura di perdersi qualcosa
d'importante. Il tempo era improvvisamente cambiato; il letto caldo è
accogliente esercitava un'attrazione in resistibile, in contrasto con
il vento, la neve e il freddo della gelida notte" "Ma dove andare?"
mormorò Gabriel, ancora mezzo addormentato:
Vieni, mettiamoci la giacca a vento e andiamo a fare una passeggiata
nel bosco. " Gabriel, un po' controvoglia l'ha accontentò, ma quando,
la punta del naso gli si arrossò per il gran freddo, gli tornò subito
il buon umore. " Guarda, tesoro, là ci sono degli slittini!" Si
riscaldava Gabriel, quando arrivarono al punto il sentiero incrociava
la strada forestale, è senza pensarci troppo, tirandosi dietro con la
mano sinistra uno slittino vecchio e malconcio e afferrando con la
destra la mano dell'amica, cominciò a risalire una pista per slittini,
senza sapere dove sarebbero andati a finire. Mentre avanzavano un po' a
fatica il mormorio del bosco innevato e il fruscio della neve li toccò
nel cuore. Erano in due, lontani da casa, senza regali, ma erano
insieme, e questa era la cosa più bella e preziosa. Tacevano; ognuno
dei due ascoltava il respiro e la presenza dell'altro. Gabriel strinse
ancora più strettamente la mano della sua Magdalena. Il ritrovamento
dello slittino era stata come una sorpresa di Gesù Bambino; gli abeti
coperti di neve si trasformarono come in un sogno in migliaia di alberi
di Natale, la ragazza accanto a lui era un dono del Cielo, e
improvvisamente la luna e le stelle tempestarono il buio della notte di
mille luci scintillanti, " La senti anche tu!" domandò Gabriel dopo un
lungo silenzio. " Si", rispose lei in un soffio. Un sì come quello non
lo aveva mai ricevuto in dono in tutta la sua vita; aveva una
meravigliosa eco di eternità in cui sprofondare e addormentarsi e
lasciarsi sommergersi, come dallo scintillio tenue ma fitto della luna
e delle stelle- " Guarda, la davanti ci sono delle luci", sussurrò
Magdalena, " andiamoci". Davanti a loro sonnecchiava un idillico
paesino di montagna; i tetti delle case erano coperte da un metro di
neve e luci nella notte filtravano dalle finestre. Da una delle baite
provenivano voci e canti di Natale. " Vieni, entriamo!" " Non possiamo
farlo, non possiamo chiedere di entrare in una casa di gente che non
conosciamo la vigilia di Natale!", rispose Magdalena timidamente. "
Tesoro, oggi possiamo fare tutto lo sento. E se non ci accolgono a
braccia aperte, non faremo altro che augurare a questa gente buon
Natale e scendere a valle con lo slittino. " E con queste parole
Gabriel bussò alla porta di buon vecchio legno ed entrò in
un'accogliente stube di contadini, sempre tenendo Magdalena per mano.
Dentro c'erano alcune persone sedute intorno ad un tavolo; un bel fuoco
scoppiettava nel caminetto- " Oh, guardate chi abbiamo qui! Presto,
Maria porta ai due innamorati- l'ho capito subito- porta ai nostri
amici del vin brulé ben caldo", disse il vecchio contadino con un
sorriso d'intesa.
I due ragazzi furono accolti con grande calore, dopo che ebbero
conversato e scherzato tutti insiemi, da un angolo della stube si
levarono le note della splendida canzone-.
" It's time to say goodby" di Andrea Bocelli. La canzone racconta
dell'amore che porta la luce nella sua vita, come lo scintillio della
luna e i raggi del sole.
Sono stato cieco anch'io in questi ultimi anni, in cui ho perso tanto
tempo e mi sono fissato su falsi valori " pensava Gabriel, mente si
perdeva nella melodia di Bocelli e la sua ragazza appoggiava la testa
sulla sua spalla. Gli si inumidirono gli occhi. Di fronte a tutta
questa gente, non posso certo mettermi a piangere come un bambino. Si
morse le labbra, inutilmente; una lacrima dopo l'altra gli scese giù
per le guance, sono state causate dal calore della stube. Un dolce
sorriso si disegnò sui volti delle persone presenti nella baita:
avevano capito che la sera della vigilia, per quei due ragazzi, era
diventata un sacro pellegrinaggio nella terra dell'amore.
I sogni dei due innamorati
In quella notte santa
In quella notte stellata,
Illuminata dalla stella Oriorne
Che mandava ancora la sua luce purpurea,
E il cielo si stendeva con quella peculiare.
Limpidezza sulla grande valle innevata,
Forse neppure i sogni
Più lievi e più leggiadri
I sogni dei due giovani innamorati
Nati in quella santa notte di Natale
Palpitanti d'amore
Hanno ali così leggere
Come due capinere
Come i loro pensieri
impacciati
I pensieri degli eterni innamorati.
La grande luce di Orione
Li ha guidati
Nella baita illuminata
E al calore della stube
Un dolce sorriso si disegno
Su tutte le persone presenti
Al grande evento dell'amore
Che è nato spontaneo dal cuore.
Cronaca di ieri e di oggi.
Rapinatori sparano, morti due banditi
L'8 dicembre 2007 due militari feriti al petto, non sono gravi. Altri
due malviventi arrestati
Dopo il "colpo" fuori di una discoteca a Treviglio, in 4 erano stati
raggiunti da una gazzella dei carabinieri.
SERGNANO (Cremona) - Una banda di rapinatori ha ingaggiato un conflitto
a fuoco con i carabinieri al confine tra le province di Bergamo e
Cremona. Il bilancio è di due banditi morti, due carabinieri feriti al
petto (non sono in pericolo di vita) e altri due rapinatori arrestati.
La sparatoria è avvenuta alle 5: 50.
FAR WEST A UN POSTO DI BLOCCO - Tutto ha avuto inizio all'alba, fuori
di una discoteca della Bergamasca, a Treviglio. Alcuni avventori sono
stati avvicinati e rapinati da quattro sconosciuti, che subito dopo
sono fuggiti su una Bmw. L'allarme è giunto poco dopo ai carabinieri
che si sono messi alla ricerca della vettura. Le ricerche sono state
estese anche ai comandi vicini. L'auto è stata rintracciata e raggiunta
da una pattuglia del reparto radiomobile di Treviglio in territorio
cremasco. I due carabinieri a bordo, secondo la ricostruzione fornita,
hanno intimato l'alt e invitato i quattro occupanti a scendere per
controllarli. Era buio e i quattro sono stati tenuti sotto controllo da
un militare, mentre l'altro procedeva alla verifica dei documenti. È
stato in quel momento che uno dei quattro ha esploso alcuni colpi di
pistola contro i carabinieri che, feriti, hanno risposto al fuoco.
Nella sparatoria sono stati uccisi il malvivente che aveva sparato e un
suo complice: un marocchino e un kosovaro. Gli altri due rapinatori (un
turco e un albanese) sono stati bloccati e ammanettati, mentre
arrivavano numerose pattuglie dai comandi di Bergamo e di Crema.
TESTIMONIANZA - "Uno di loro ha aperto il cofano dell'auto e ha subito
sparato. Non mi ero reso conto di essere stato ferito, mi è sembrato é
stato esploso un petardo, ma poi ho visto il mio collega piegato in due
e ho sparato anch'io", ha raccontato a Sky Tg24 il maresciallo
Francesco Ferro, uno dei due militari feriti.
PRESI GRAZIE A DUE CACCIATORI - I due banditi sopravvissuti alla
sparatoria sono stati arrestati grazie alla collaborazione di due
cacciatori. Lo ha spiegato il procuratore di Crema, Benito Melchionna.
"Dopo la sparatoria l'albanese e il kosovaro hanno tentato la fuga - ha
detto il magistrato, ma hanno trovato lungo il loro percorso,
all'incrocio tra il bivio per Sergnano e l'ex statale 591,
Bergamo-Piacenza, un'auto di cacciatori armati di fucili che hanno
sbarrato loro la strada. A questo punto si sono arresi e i carabinieri
hanno potuto ammanettarli". Il procuratore ha precisato che i due
carabinieri saranno indagati per omicidio, "ma è un atto d'ufficio,
puramente dovuto". I due militari sono il maresciallo Francesco Ferro e
l'appuntato Pasquale Busto.
La notizia che abbiamo letto sul Corriere il mattino al Bar Sport del
nostro piccolo villaggio padano, e successivamente l'abbiamo appresa
nel telegiornale di Radio Uno delle ore 13, 30, con più particolari, ci
ha portati indietro nel tempo e ci ha fatto rivivere un altro conflitto
a fuoco, che abbiamo ingaggiato con una banda di rapinatori nel
Supramonte (Sassari) dove prestavamo servizio,presso una Stazione
distaccata. Nessun altro meglio di noi, ha potuto comprendere il valore
dei due militari nell'espletamento del loro dovere, per assicurare alla
Giustizia gli autori delle rapine consumate poco prima nella discoteca.
Prima di essere trasferito in Sardegna, siamo stati a Caravaggio e a
Bagnolo Cremasco, proprio nel territorio dove si sono svolti i fatti di
cui sopra e quindi conosciamo molto bene quel territorio del
Trevigliese e del Cremasco. Nella nostra permanenza in Sardegna,
abbiamo partecipato ad un conflitto a fuoco, soltanto che nell'azione
non vi furono, per fortuna, dei morti, ma soltanto dei feriti. Come
giustamente ha dichiarato il maresciallo Francesco Ferro, non vi sono
eroi, ma soltanto dei militari che svolgono, giorno dopo giorno, il
loro lavoro.
A questo punto ci viene da domandarci, che cos'è la paura? Noi non
siamo biologi, e non conosciamo neppure le trasformazioni fisiologiche
che intervengono, quando un organismo percepisce il pericolo. Sappiamo
soltanto che l'adrenalina invade la corteccia cerebrale, aumentando il
ritmo cardiaco e ordinando al cervello di fare la scelta più antica e
intuitiva: prendere parte ad un'operazione è come il soldato nella
trincea, combattere il nemico che ti sta davanti o fuggire e spesso
l'istinto suggerisce di fuggire, ma noi non eravamo al fronte, quello
era il nostro compito di assicurare ad ogni costo alla Giustizia un
latitante, da molto tempo ricercato e quindi la ragione ci diceva che
eravamo legati a quella operazione, e che comunque bisognava, paura
permettendo, portare a termine nel migliore dei modi.
Nella nostra lunga carriera militare nell'Arma, abbiamo compreso che il
maresciallo comandante di una stazione carabinieri, è come il cronista,
entrambi sono sempre in prima linea, con il bello e col cattivo tempo,
in guerra e in pace, in ogni disastro o calamità naturale, dove urge la
sua presenza. I militari dell'Arma o le altre forze di polizia, devono
portare soccorso, aiutare i bisognosi e informare le Autorità degli
avvenimenti, ma anche il giornalista o il corrispondente deve cercare
di raccontare i fatti di cronaca, per informare i cittadini. Nella
nostra permanenza nell'Arma, abbiamo sempre trovato sul posto degli
avvenimenti, il cronista o il corrispondente della stampa. Nei limiti
del possibile, senza rivelare le notizie di carattere riservate, senza
intaccare il segreto istruttorio, ho cercato sempre di collaborare con
loro, fornendo le informazioni necessarie del caso. Mi diceva un
vecchio corrispondente, nei vari momenti di pausa del nostro duro e
disagiato lavoro in Barbagia o in un'altra località del continente: "E
sempre, ogni volta, quella domanda che torna a occupare i pochi momenti
di ristoro, e che mi riesce a raggiungere " la" risposta. Quel perché
s'è scelta questa professione che ci spinge anche a viaggiare sulle
strade, nei paesi lontani, sui luoghi degli incidenti, delle battaglie,
è solamente per l'informazione diretta, mentre voi al par di noi
cronisti, siete sempre sul piede di guerra e non sapete neanche che
cosa sia la paura. Conoscete solo il coraggio, ma il coraggio non è una
mancanza di paura. La paura è dentro di ognuno di noi.
Quella notte fredda e buia, sulle pendici del "Sopramonte", eravamo
nella attesa del passaggio di un fuorilegge. L'unico riparo era quella
massa di calcarea appuntita che sorgeva all'apice del costone, sotto di
noi scorreva il fiume " Su cologone" a pochi chilometri da Oliena, ai
piedi del Supramonte e da uno spacco nella montagna affiora un fiume
sotterraneo dalle acque gelide, che tra salici e platani si congiunge
al Cadrino, importante fiume che sbocca nella baia di Orosei. Quello
era un vecchio stazzo abbandonato da molto tempo da un vecchio pastore
sardo. Vicino allo stazzo, in una grotta, abbiamo legato i cavalli. Era
il punto ideale d'avvistamento per dominare la vallata del canalone e
soprattutto di sapere attendere, perché da un momento all'altro, come
da nostre informazioni, un noto latitante, con i suoi gregari che
ricercavamo da qualche tempo, da lì prima o poi dovevano passare.
Quello era il posto ideale. La squadra dai caschi rossi,
composta di quattro militari dell'Arma, al comando del comandante della
Stazione e dal sottoscritto, che ero da poco giunto in Sardegna dalla
verde Lombardia e conoscevo poco quelle aspre montagne della Sardegna,
ci eravamo appostati a ventaglio, tenendo sotto costante controllo il
costone e il sentiero che seguiva il fiume.
Era una notte buia e fredda, ma di tanto in tanto, faceva capolino da
dietro le nuvole basse e biancastre che scendevano dalla grande e
brulla montagna la selenica luna. Sulla strada che corre sul costone di
fronte, un'autovettura Fiat 1100, trasformata a furgoncino e alquanto
malandata, forse un relitto o un residuato bellico dell'ultimo
conflitto mondiale, arrancava ansimante sulla salita che da Santa Maria
Navarrese portava a Nuoro. Per esseri più precisi, la macchina
procedeva con i fari spenti, e questo particolare ci ha insospettiti ed
ha attratto maggiormente la nostra attenzione. Con il vecchio binocolo
che avevamo in dotazione, seguivamo il suo avvicinamento alquanto
confuso. Dopo un quarto d'ora circa, il furgone si è fermato nell'ampia
piazzola, dove germogliano alte e bellissime piante di eucalipto,
genere di alte piante che possono raggiungere anche cento metri di
altezza: queste sono piante rare in Sardegna, messe a dimora nel
periodo del regime fascista attorno al piazzale, sotto la quale, da una
grossa rupe sgorga la sorgente, che fornisce l'acqua potabile alla
città di Nuoro. L'uomo che era alla guida del mezzo, è sceso e dopo di
essersi guardato attorno, con la pila ha fatto tre lampeggi
intermittenti di poca durata, segnalando probabilmente ai banditi il
suo arrivo. Il nostro collaboratore e guida locale, che conosceva
perfettamente la montagna come le sue tasche, si è avvicinato e ci ha
comunicato sottovoce, che sul sentiero che scendeva dalla montagna del
Supramonte, probabilmente stavano scendendo le persone che da tempo
stavamo cercando. Quelli erano momenti di spasmodica attesa e anche,
specialmente nei più giovani, di un certo senso di paura frammisto alla
grande attenzione della lunga attesa. Insomma, quello è stato il
momento che l'adrenalina stava invadendo la corteccia celebrale,
facendo aumentare il ritmo cardiaco.
Lasciamo per un momento il nostro racconto e veniamo a spiegare
"L'urlo" di Munch, che è il più celebre dipinto dell'artista norvegese
è giustamente divenuto uno dei simboli della pittura espressionista
europea e del disagio esistenziale contemporaneo. In lui le paure e
l'inquietudine del pittore sono trasformate attraverso l'allucinata
fusione delle linee e la violenza cromatica. Alla base dell'opera è
tutta via mantenuta una logica compositiva di matrice razionale: il
protagonista posto in primo piano al centro della tela, una strada
vista di scorcio con due figure che si allontanano, lo spazio aperto a
destra su un paesaggio. Su questo impianto tradizionale Munch
interviene con quella che si definisce la "linea- forza", cioè l'uso
del segno pittorico in funzione espressiva. La definizione delle forme,
disegnate per mezzo di una pennellata avvolgente e continua, comunica
una sensazione di angoscia e tormento, che potremmo definirla vera e
propria paura. La figura umana perde i propri connotati trasformandosi
in un'immagine spettrale confusa, la cui sagoma sembra risucchiata nel
movimento vorticoso del paesaggio. In questo non è più possibile
distinguere il cielo dalla terra o individuare con certezza la linea
dell'orizzonte: i colori sono usati in funzione antinaturalistica. La
superficie è in realtà il campo dell'espressione di una realtà
allucinata - riflesso sulla tela del mondo interiore del protagonista
del quadro - ottenuta attraverso l'uso del colore, privato di qualsiasi
effetto decorativo.
Dopo quest'inciso, dall'urlo di Panch, ritorniamo a parlare della
paura. Gli esempi di paure tipicamente innate nell'uomo sono molte. In
genere vi é la paura degli estranei, del buio, la paura per certi
animali (ragni e serpenti), il terrore alla vista di parti anatomiche
umane amputate, ma anche e soprattutto nel sapere che da un momento
all'altro ci puoi lasciare anche la pelle, ma in genere a tutto questo
non ci pensi quasi mai e attendi solo il momento che l'operazione ha
inizio.
Improvvisamente, non si capisce per quale motivo, uno dei cavalli che
in precedenza erano stati defilati nei pressi della grotta, si è messo
ad emettere alcuni nitriti. Fu allora che i banditi, compresero di
essere braccati e si misero a sparare alla rinfusa. Ne é nato un vero
conflitto, nel corso del quale sono rimasti feriti due cavalli e tre
banditi, mentre un quarto bandito è riuscito a fare perdere le sue
tracce. Ad operazione terminata, con l'arresto di quattro malfattori,
compreso il capo della banda ho accusato un calore nella regione
inquinale sinistra, proprio vicino al testicolo, mi sono sbottonato i
pantaloni e mi sono accorto che perdevo sangue. Con molta calma e
sangue freddo, alla bella meglio, abbiamo cercato di tamponare la
ferita. Appena giunti in caserma, il medico condotto, ha potuto
constatare che una pallottola nemica aveva raggiunto la ragione
inguinale, fuoriuscendo dalla parte opposta, senza ledere o causare
nessuna lesione. Sono stati sufficienti pochi giorni di riposo, perché
tutto è ritornato alla normalità. E' stato allora, quando ero seduto
nell'ufficio e pensando a quei momenti che hanno determinato il
conflitto a fuco, che sono stato colto da una specie di panico ed il
ritmo cardiaco è aumentato notevolmente, ristabilendosi definitivamente
dopo solo pochi minuti. Quello è stato un fatto naturale, uno stimolo
che deriva da esperienze dirette e che si sono dimostrate penose e
pericolose. Il meccanismo universale responsabile dell'acquisizione di
paure apprese è definito condizionamento, che può trasformare un
qualunque stimolo neutro in stimolo fobico, mediante la pura
associazione per vicinanza spaziale e temporale ad uno stimolo
originariamente fonte di paura. Il coraggio non è una mancanza di
paura.
Con questo termine si identificano stati di diversa intensità emotiva
che vanno da una polarità fisiologica come il timore, l'apprensione, la
preoccupazione, l'inquietudine o l'esitazione sino ad una polarità
patologica come l'ansia, il terrore, la fobia o il panico. Il termine
paura è quindi utilizzato per esprimere sia un'emozione attuale che
un'emozione prevista nel futuro, oppure una condizione pervasivi ed
imprevista, o un semplice stato di preoccupazione e di incertezza.
L'esperienza soggettiva, il vissuto fenomenico della paura è
rappresentata da un senso di forte spiacevolezza e da un intenso
desiderio di esitamento nei confronti di un oggetto o situazione
giudicata pericolosa. Altre costanti dell'esperienza della paura sono
la tensione che può arrivare sino alla immobilità (l'essere paralizzati
dalla paura) e la selettività dell'attenzione ad una ristretta porzione
dell'esperienza. Questa focalizzazione della coscienza non riguarda
solo il campo percettivo esterno ma anche quello interiore dei pensieri
che risultano statici, quasi perseveranti. La tonalità affettiva
predominante nell'insieme risulta essere negativa, pervasa
dall'insicurezza e dal desiderio di fuga.
Ci siamo più volte domandati da dove nasce la paura? Dai risultati di
molte ricerche empiriche, siamo giunti alla conclusione che
potenzialmente qualsiasi oggetto, persona o evento può essere vissuto
come pericoloso e quindi indurre un'emozione di paura. La variabilità è
assoluta, addirittura la minaccia può generarsi dall'assenza di un
evento atteso e può variare da momento a momento anche per lo stesso
individuo Essenzialmente la paura può essere di natura innata oppure
appresa. I fattori fondamentali risultano comunque essere la percezione
e la valutazione dello stimolo come pericoloso o meno
Qualche tempo dopo, abbia chiesto al nostro medico di fiducia, come il
corpo manifesta la paura? Egli così ci ha risposto: "La faccia della
paura" si manifesta in un modo molto caratteristico: occhi sbarrati,
bocca semi aperta, sopracciglia avvicinate, fronte aggrottata. Questo
stato di tensione dei muscoli del viso rappresenta l'espressione della
paura che è ben riconoscibile anche in età precoce e nelle diverse
culture. Le alterazioni psicofisiologiche sembrano differenziarsi fra
quelle che si associano a stati di paura intensi, come il panico e la
fobia, e quelle invece concomitanti alla preoccupazione e all'ansia.
Precisamente, uno stato di paura acuta ed improvvisa caratteristica del
panico e della fobia, si accompagna ad un'attivazione del sistema
nervoso autonomo parasimpatico, si ha quindi un abbassamento della
pressione del sangue e della temperatura corporea, diminuzione del
battito cardiaco e della tensione muscolare, abbondante sudorazione e
dilatazione della pupilla. Il risultato di tale attivazione è una sorta
di paralisi, ossia l'incapacità di reagire in modo attivo con la fuga o
l'attacco. La funzione di questa staticità indotta dallo stimolo fobico
sembra quella di difendere l'individuo dai comportamenti aggressivi
d'attacco scatenati dalla fuga e dal movimento. Paradossalmente, in
casi estremi, tale reazione parasimpatica può condurre alla morte per
collasso cardiocircolatorio. Stati di paura meno intensi invece
attivano il sistema nervoso simpatico, quindi i peli si rizzano, ai
muscoli affluisce maggior sangue e la tensione muscolare ed il battito
cardiaco aumentano; il corpo è così pronto all'azione finalizzata
all'attacco oppure alla fuga.
Quali sono le funzioni della paura? Sicuramente, la paura ha una
funzione positiva, così come il dolore fisico, di segnalare uno stato
di emergenza ed allarme, preparando la mente il corpo alla reazione che
si manifesta come comportamento di attacco o di fuga. Inoltre, in tutte
le specie studiate l'espressione della paura svolge la funzione di
avvertire gli altri membri del gruppo circa la presenza di un pericolo
e quindi di richiedere un aiuto e soccorso. Dal punto di vista
biologico - evoluzionista sia il vissuto soggettivo, attraverso i
processi di memoria e di apprendimento, sia le manifestazioni
comportamentali, indifferentemente fuga, paralisi o attacco, che le
modificazioni psicofisiologiche (attivazione parasimpatica o
attivazione simpatica) tendono verso la conservazione e la
sopravvivenza dell'individuo e della specie. Ovviamente, se la paura è
estremizzata e resa eccessivamente intensa, diventando quindi ansia,
fobia o panico, perde la funzione fondamentale e si converte in sintomo
psicopatologico.
Come guarire dalla paura? La paura, come abbiamo detto, ha un alto
valore funzionale, finalizzato alla sopravvivenza. Per esempio,
ricordarsi che quel tipo di animale rappresenta un pericolo perché
aggressivo e feroce oppure velenoso, costituisce un innegabile
vantaggio. Oppure, preparare il proprio corpo ad un furioso attacco o
ad una repentina fuga può in certi casi garantire la sopravvivenza.
Infine, anche uno stato di "paralisi da paura" può salvarci
dall'attacco di un feroce aggressore che non attende altro che una
nostra minima reazione. Quindi le cure contro la paura si rivolgono
solo a quei casi in cui essa rappresenta uno stato patologico, come ad
esempio attacchi di panico o di ansia di fronte ad uno stimolo
assolutamente non pericoloso.
Nel corso della nostra lunga carriera militare, ci siamo più volte
trovati in casi del genere, ma abbiamo sempre mantenuto un
comportamento di freddezza e di calma. Solo così si riesce a vincere la
paura. Non sappiamo che cosa sia il panico, perché in certe situazioni
non cera tempo per pensare al panico o alla paura, bisogna soltanto
agire con determinazione se si vuole portare a casa la pelle. Come
abbiamo detto sopra, una specie di paura può venire dopo, quando tutto
è terminato e pensi a quello che sarebbe potuto succedere, ma ormai è
tutto passato e dopo la tempesta ritorna sempre il sereno. Sicuramente
anche i nostri colleghi nella sparatoria a Sergnano ( Cremona), hanno
percepito questi sintomi.
Noi non possiamo fare altro che congratularci con i nostri colleghi che
si sono comportati da veri carabinieri e che sono stati fedeli
interpreti degli ordini ricevuti, dando prova di saldo attaccamento al
dovere e cosciente sprezzo del pericolo. Nel corso dell'azione
rimanevano gravemente feriti, ma riuscivano a ristabilire l'ordine
pubblico, con l'intervento di alcuni cacciatori del luogo e altri
carabinieri giunti sul posto, provvedevano ad arrestare gli altri
componenti della ganga malavitosa di giovani ragazzi romeni e Kossovari,
che avevano terrorizzato i ragazzi nella discoteca, rapinandoli persino
del cellulare.
In fine, auguriamo ai nostri carissimi colleghi, una pronta
guarigione.e un Buon Natale e felice Anno nuovo.
AL CARABINIERE
Non potrai essere
Veramente libero
Fino a quando
In tutta la terra
Vi sarà un uomo
Tenuto prigioniero
In una cella o in una grotta.
Non potrai essere
Veramente felice,
Fino a quando
Nel giorno che muore
Un solo uomo
In tutto il mondo,
Verserà in silenzio
Le lacrime amare
Della solitudine
A chi ti chiede
Chi sei?
Da dove vieni?
Dove vai?
Così rispondi:
Il mio passato
E ch'io sono stato
L'ho già dimenticato.
Il mio futuro?
Credo ci sia nessuno
Capace di vedere oltre quel muro.
Del nuovo presente
Mi spiace tanto
Sono in servizio
La Toscana
tra passato e presente.
L'escursione nella verde Toscana, ormai per noi che abitiamo nella
brumosa Lombardia, che non è soltanto la regione dai colori velati
dalla nebbia, ma è un susseguirsi di panorami incantevoli e sensazioni
suggestive, quasi al limite dell'irreale, è diventato ormai un vero
classico. Ogni anno, nel mese di settembre, non possiamo fare a meno di
effettuare la nostra consueta gita turistica, per scoprire un nuovo
borgo antico e soprattutto per ammirare quelle bellissime e verdi
colline, dove regna il mito della viticoltura, che si tramanda da
generazione e generazione, tanto che è diventata la località classica
del famoso Chianti, che è conosciuto in tutto il mondo. La Toscana non
vuol dire soltanto la Maremma, il Chianti, l'Amiata, dove si assimila
l'essenza di un'antica terra, dove si fondono leggenda, storia e
tradizione. Incominciamo a indicare tre itinerari per sentirsi in
sintonia con ciò che ci circonda: l'arte, la buona tavola,
l'artigianato, e soprattutto quella fonte inesauribile di sorprese che
è da sempre il suo meraviglioso paesaggio collinare che si differenzia
dagli altri luoghi del Bel Paese.
Naturalmente, questa non è la prima volta che Adriana ed io veniamo
nella verde Toscana. Qualche anno fa, l'Ente Valle di Campitello, ha
organizzato una bellissima escursione, per non perdere l'abitudine, in
questa terra antica e meravigliosa che si chiama Toscana. Ogni volta
che ci ritorniamo ci piace ammirare dal finestrino del pullman quello
stupendo paesaggio e lo vediamo scorrere davanti ai nostri occhi come
fotogrammi cinematografici, non solo le colline verdi e borghi antichi
barbicati sui pendii che ormai ci sono familiari, perché li conosciamo
da molto tempo. Questi sono i luoghi della storia e della memoria che
abbiamo impresso da molto tempo In principio abbiamo incominciato a
dire che ormai la Regione Toscana, è diventata un'escursione classica.
La prima volta che abbiamo scoperto questa antica terra di Toscana,
abbiamo esplorato, per così dire, la Maremma, che non è più selvaggia
come nell'Ottocento, ma il verde e il mare sono autentici. In più ci
sono i rifugi faunistici, i paesini pittoreschi, e una miriade di isole
che formano l'Arcipelago toscano, con la meravigliosa isola di
Montecristo, che abbiamo visitato di recente e poi c'é la tradizione
artigiana, per non parlare della gastronomia. Che ormai è nota in tutto
il mondo. In quella occasione, abbiamo avuto l'impatto con la verde
natura, cioè con il Parco Naturale della Maremma che comprende la zona
di Alberese e dei monti dell'Uccellina. Quel giorno abbiamo visitato il
borgo medioevale dell'antica Telamon etrusca, dove abbiamo visitato le
rovine sul colle di Talomonaccio, raggiungendo successivamente
l'Argentario percorrendo il pittoresco Tombolo della Giannella,
visitando l'Oasi di protezione della laguna. Non poteva mancare la
visita del convento dei Cappuccini e alla Punta Telegrafo, da dove si
ammirava un paesaggio mozzafiato sulla laguna di Orbetello.
Il Chianti.
Due anni fa, sempre con l'Ente Valle, una comitiva di Campitellesi,
abbiamo visitato la zona del Chianti, che vuol dire buon vino, lo
sappiamo tutti. Ma può voler dire anche dormire in un castello,
andarsene in giro a cavallo, cercare mobili antichi, gustare i sapori
inediti di una cucina di classe. Noi non abbiamo fatto tutto questo, ma
abbiamo ammirato quel tipico paesaggio della verde zona del Chianti,
con le sue celebri cantine medioevali. Proseguendo sul nostro
itinerario, ecco venirci incontro il castello di Meleto che offre al
visitatore un eccezionale colpo d'occhio. Tornati sulla Chiantigiana,
ecco il delizioso borgo di Panzano con la sua pieve di S. Leonino e poi
la Badia a Coltibuono, il castello di Brolio, la pieve di S.Polo in
Rosso, Vignamaggio, il borgo medioevale di Montefiorelle ( patria di
Amerigo Vespucci) il castello di vernazzano. Vignamaggio spicca nel
verde delle colline come un'elegante villa rosa, col magnifico affaccio
tra ulivi e vigneti. Sembra, come ci dice la tradizione che in quella
villa ci abitò Monnalisa, che Leonardo ne dipinse il suo capolavoro, ma
la segnala solo un paletto di legno, quasi invisibile. La discrezione è
una nota di stile che ci accompagna lungo tutto il viaggio nel Chianti.
Questi luoghi, d'altra parte, erano molto frequentati dai grandi
artisti fiorentini, ed è il connubio di arte, storia e natura che li
aveva reso unici. È da qui che il panorama diventa pittura
inconfondibile. Una campagna curatissima, che quasi a ogni curva rivela
squarci di Medioevo: muri, castelli, casali e torri.
Subito prima di Greve, il castello di Verrazzano, col suo borgo, ci
ricorda che partì di qui quel Giovanni che lega il suo nome al ponte di
Brooklyn. Appena usciti dal paese, la strada per Lamole porta a Vigna
Maggio, poi si arriva a Radda, cittadina storica che fu a capo della
"Lega del Chianti", e ci si ritrova nel cuore della Chiantigiana.
Proseguendo il nostro itinerario, per strada e nelle famose cantine
s'incontrano solo turisti stranieri. La nostra guida ci dice che
"Purtroppo da noi vengono tutti, salvo gli italiani". "Ci dispiace,
anche se, è vero, i nostri prezzi sono cari. Cerchiamo di compensarli
con un'offerta di servizi molto alta: il modello è quello della
Borgogna".
La storia ci ricorda che, la riscoperta di quest'angolo di Toscana, che
in ricordo dell'antica rivalità con Siena ancor oggi si considera di
cuore e di civiltà più fiorentina che senese. La nostra guida locale ci
dice che tutto questo si deve agli stranieri. Hanno cominciato gli
svizzeri, negli anni '70, poi gli inglesi, i tedeschi e gli americani.
Trovarono una campagna abbandonata e per questo intatta, con bellissimi
casali dimessi che potevano acquistare per pochi soldi. "Li hanno
ristrutturati con amore", continuo Giovanni, "dimostrando un grande
rispetto per la natura e l'architettura originale quando ancora non era
di moda. Anche oggi, comunque, i proprietari degli agriturismo e dei
casali privati sono in grande parte straniera e in prevalenza inglesi.
Dopo la visita delle stupende colline del Chianti, con i suoi casali e
antiche cantine, il nostro torpedone si dirige verso la città di
Firenze, la più bella città del mondo, dalla quale conserviamo un caro
ricordo, per averci ospitato per sei lunghi mesi presso la Scuola
Sottufficiali dell'Arma. In quel periodo, nei pochi momenti liberi del
corso, abbiamo avuto modo di visitare oltre ai Musei, le sue bellezze
naturali e storici della città.
In queste nostre escursioni di breve durata a volte di una sola
giornata, succede sempre la stessa storia, non c'è mai tempo per poter
visitare con calma i Musei e i siti culturali, per fare tutto questo
occorre dedicare l'intera escursione soltanto ai Musei ed ai siti
culturali, altrimenti succede sempre la stessa cosa: si rischia sempre
di avere solo un'infarinatura dei luoghi e della città e senza
approfondire neppure la storia. Comunque, è sempre una bellissima
esperienza escursionistica che ci ha dato il modo di assimilare
l'essenza di questa antica terra, dove si fondono leggenda, storia e
tradizione, ma soprattutto, di ammirare quegli stupendi spettacoli
collinari, dove l'occhio si perde nell'infinito orizzonte verde di
questa stupenda regione benedetta da Dio.
Escursione nelle calanche, tra storia, religiosità e cucina che vanno
sempre a braccetto.
Mentre cerchiamo di scrivere sulla Toscana, nel nostro ricordo affiora
un'altra escursione effettuata con gli amici del CAI di Mantova, che ci
ha portati dritti dritti a Monte Oliveto, nel cuore delle "calanche"e
anche della spiritualità, ci ricorda che poi si prosegue per il
castello di Meleto, bellissimo esempio di fattoria fortificata
medievale. Da qui, tra boschi e vigneti, si prosegue per il castello di
Brolio, che fu il regno di Bettino Ricasoli, primo ministro del novello
Stato italiano: la foresta s'infittisce di querce e conifere, il
paesaggio diventa più imponente e poi, di nuovo, ci propone il colore
della pietra medievale a Villa di Sesta e San Gusmè, fino a Castelnuovo
Berardenga. Si arriva a Rapolano Terme e poi si prende la superstrada
in direzione Arezzo-Perugia fino ad Asciano. L'orizzonte si apre, si
annunciano già le "Crete", coi calanchi inconfondibili che, assumono un
aspetto lunare e ci ricordano la regione vulcanica della Cappadocia, in
Turchia, con le sue abitazioni e chiese rupestri. Qui non ci sono le
case e le chiese rupestri, ma i calanchi senesi sono inconfondibili,
tanto che ci portano in un'altra dimensione, in un paesaggio lunare e
metafisico, in un paesaggio diverso senza il verde che caratterizza il
paesaggio toscano.
LE CRETE SENESI
Le Crete Senesi, é una delle zone più affascinanti della Toscana, che
custodisce gioielli d'arte come la chiesa romanica di Sant'Agata, ad
Asciano. A pochi chilometri, "perla incastonata nelle Crete", l'abbazia
benedettina di Monte Oliveto Maggiore. La definizione, che vuole essere
più affettuosa che poetica, è di Dino Benincasa, un pensionato di
Asciano che oggi fa il volontario a tempo pieno come guida turistica
all'abbazia. "Anche noi stiamo toccando con mano i problemi del turismo
di massa, disordinato e inconsapevole", dice: "Stiamo pensando di
rendere obbligatoria la prenotazione, di modo che, chi viene, possa
vedere tutto, coi tempi dovuti". Ne vale davvero la pena. Benincasa ci
guida nel percorso tradizionale fino al chiostro grande, affrescato da
Luca Signorelli e Giovanni Bazzi, detto il Sodoma, con le storie della
vita di san Benedetto ispirate all'opera di Alberto Magno, facendoci
gustare ogni particolare. "Vedete quella camiciola quasi invisibile,
appesa alla finestrina? È l'ultima delle sette camicie che sudò il
Sodoma, che su 34 affreschi ne fece 24. Gli avevano affibbiato quel
soprannome per invidia, ma è certo che aveva un caratteraccio, non
faceva che litigare con l'abate. Quello è il suo autoritratto, si vede
che era un uomo bellissimo: indossa la tunica che gli aveva regalato
l'abate per fare la pace".
Ad un certo punto del percorso, chiediamo a signor Benincasa, se si può
visitare la biblioteca. " Si, è vero, stavo proprio per dirvelo, che la
novità è che oggi si può visitare anche la splendida biblioteca, dove è
esposto il candelabro fra Giovanni da Verona, e la farmacia
cinquecentesca: siamo vicini alla via francigena e qui come altrove i
monaci avevano un ruolo fondamentale per l'assistenza dei pellegrini.
Monte Oliveto fu fondata nel 1313 dal nobile Giovanni Tolomei, il beato
Bernardo, che si ritirò qui in preghiera con alcuni amici. "Morì nella
peste del 1348: fu un'epidemia tremenda che spopolò le nostre campagne,
ma è a questa che dobbiamo i calanchi e le Crete che rendono unica la
nostra terra". Parlando della francigena: la più antica autostrada
medioevale della fede, che iniziava da Canterbury, transitando per
Compostela, superando le Alpi, per poi giungere sulle colline della
verde Toscana. I paesi e le città, come Siena, che sono sorti su questa
strada che portava a Roma e a Gerusalemme, sono nati con la Frangigena.
Nell'autunno del 1997, proprio 10 anni fa, la Città di Siena, ha
organizzato, in ricordo della Francigena, un raduno escursionistico, al
quale una squadra del CAI di Mantova, abbiamo partecipato a quel grande
raduno Ricordo che quella lunga passeggiata ebbe inizio da
Monteriggioni, percorrendo il lungo sentiero della vecchia Francigena,
attraversando colline, vallate e la città di Siena, raggiungendo il
Sagrato della più bella chiesa gotica del mondo, appunto il Duomo di
Siena. Naturalmente, Adriana mia moglie e il sottoscritto, siamo giunti
gli ultimi della lunga e rutilante passeggiata commemorativa, e siamo
stati premiati lo stesso. Il premio consisteva in due bottiglie di
Chianti, le magliette e cappellino ricordo. Quella è stata una
bellissima passeggiata, che difficilmente possiamo dimenticare, perché
fa parte della nostra storia escursionistica, sui sentieri della verde
e meravigliosa Toscana.
PIENZA
Visitando la cittadina di Pienza, abbiamo osservato che regna, come in
taluni luoghi della Toscana il turismo usa e getta. Ci ha fatto molta
impressione attraversare il centro storico della splendida città di
Pienza e sentire ovunque l'odore pungente del formaggio pecorino, non
fosse che a noi il formaggio non piace, ma quel odore così pungente ci
ha dato veramente fastidio. Non è un'impresa facile transitare e
fermarsi in quelle strade, eppure la città di Pienza, è una città
bellissima da visitare ed ammirare. Secondo noi, dovrebbero limitare e
circoscrivere tale profumo in un solo angolo periferico della
cittadina, in tale modo nessuno dei turisti si lamenterebbe. Pienza é
un delizioso paese il cui piccolo centro fu riprogettato quasi
completamente nel XV secolo da papa Pio II, al secolo Enea Silvio
Piccolomine, (che è tra l'altro anche il patrono del nostro piccolo
borgo padano di Campitello) Nato nel 1405, egli divenne un grande
studioso e filosofo umanista. Eletto papa nel 1458, un anno dopo decise
di ricostruire il suo paese natale, che allora si chiamava Corsignano,
ribattezzandolo Pienza in proprio onore. All'architetto e scultore
fiorentino Bernardo Rossellino fu commissionata la sistemazione
urbanistica dell'abitato con la costruzione della cattedrale, della
residenza papale e del municipio (tutti completati in tre anni, dal
1459 al 1462), il più grandioso progetto di una città rinascimentale
ideale non venne però mai realizzato. Nel Palazzo Piccolomini, l'ex
palazzo papale, i discendenti di Pio II continuarono a risiedere fino
al 1968. Tra le sale aperte al pubblico c'è la camera da letto e la
biblioteca di Pio II. Da non perdere lo stupendo panorama della loggia
e della corte porticata sul retro del palazzo. Passeggiando lungo le
mura del paese si possono fare piacevoli passeggiate e ammirare
panorami incantevoli, come abbiamo fatto noi. Non può mancare una
visita al duomo, dove sono conservate opere commissionate ai maggiori
artisti del tempo, raffiguranti la Madonna col Bambino e santi.
Rossellino edificò il duomo su un sito limitato, con povere fondamenta:
le crepe apparvero ancor prima che l'edificio fosse ultimato. Ancora
oggi esistono tali crepe, che dall'impressione che prima o poi l'intera
abside può scivolare verso la collina.
MONTALCINO.
Montalcino è posto sulla sommità di un colle e sorge al centro dei
vigneti da cui si produce il Brunello, uno dei più rinomati vini rossi
italiani. Abbiamo degustato diversi vini in un'interessante enoteca
sita nella Fortezza, una struttura del XIV secolo con importanti
bastioni. E' davvero piacevole camminare lungo le antiche strade
cittadine. Molto interessante è da vedere il Palazzo vescovile dove
sono allestiti tre musei che raccolgono dipinti, sculture e pezzi
archeologici rinvenuti nella zona. Sulle bellissime colline di
Montalcino, regno del Brunello, e come abbiamo detto sopra vi é il
museo di arte sacra che è "incantevole", come esclama entusiasta una
turista inglese che abbiamo incontrato nella nostra visita turistica:
Una bellissima Madonna di Simone Martini, dipinti dal Trecento al
Seicento con capolavori di Pietro Lorenzetti e Duccio di Buoninsegna.
Fa parte di una serie di musei decentrati, voluti dalla Provincia di
Siena, che comprendono anche Buonconvento, Montepulciano, Pienza e
Chianciano. Anche ad Asciano sta per aprire il nuovo museo di arte
sacra, un altro aprirà a Radda, mentre a Trequanda c'è un delizioso
museo delle Crete. Operazioni che per ora non pagano, se si pensa che
Montalcino conta un milione di presenze l'anno e non arriva a vendere
diecimila biglietti per il museo. Un'altra curiosità di Montalcino è il
museo del vetro e della bottiglia di Castello Banfi, l'azienda leader
del Brunello, che ha acquistato e ristrutturato il castello di Poggio
alle Mura.
Dopo Montalcino, tornando a Siena lungo la Cassia, vale la pensa
visitare il borgo di Murlo e la fattoria fortificata di Cuna, sorta
nel'300 dall'Ospedale di Santa Maria della Scala di Siena. Oggi è
abitata da privati, ma è ancora possibile salire la scalinata interna
che percorrevano i muli, per portare in salvo il grano nella "grancia",
collocata in alto. Quando sei arrivato lassù, ti accorgi di aver
ripassato un bel pezzo di storia.
Dopo questa lunga carrellata, tra colline coltivate a vigneto, borghi
antichi barbicati sui pendii e antichi castelli trasformati in stupende
e moderne cantine, dove si degusta l'ottimo chianti, coltivato anche
dagli inglesi trasferitisi qui in Toscana, ci viene da domandarci come
si dice Chianti in inglese. La risposta l'abbiamo letta in un sito in
internet dove si parla di vini pregiati prodotti appunto nella "Verde
Toscana".
Come si dice Chianti in inglese?
"Pare che "Chianti" sia la parola italiana più conosciuta all'estero
dopo "Papa", "pizza" e "mamma". Certamente è il vino che più ci
rappresenta, anche perché è piuttosto abbordabile dal punto di vista
del prezzo. Sappiamo che era bevuto già nel'500 alla corte dei Medici e
che nel'700 fu esportato in Inghilterra. Ma il vero padre del Chianti
classico è considerato il barone Bettino Ricasoli, che ne studiò la
formula a base di Sangiovese, Canarolo, Trebbiano e Malvasia, poi
codificata nel 1924 dal consorzio di tutela del Gallo Nero. Erano 33
soci: oggi i produttori sono 700 e 400 gli imbottigliatori. La formula
del barone Ricasoli è rimasta inalterata fino a cinque anni fa, quando
il regolamento è stato cambiato per dare spazio alla "seconda linea"
inventata dagli Antinori col Tignanello. Ma c'è chi ha nostalgia del
passato. "Dobbiamo rispettare la tradizione", spiega Gioia Milani, che
è anche presidente del Movimento del turismo del vino per la Toscana.
Il Brunello, re dei vini, non ha bisogno di presentazioni. Se la
bottiglia più antica della collezione Biondi Santi, uno dei nomi
storici, risale al 1888, è vero che, prima degli anni '60, era un vino
che si vendeva a damigiane e che la commercializzazione si deve in gran
parte a Giovanni Colombini, della Fattoria dei Barbi. Oggi i produttori
sono circa 200. L'azienda leader, per dimensioni del fatturato, è il
Castello Banfi, che produce circa 7.000.000 di bottiglie l'anno, tra
Brunello, Moscadello e Summus. Tra i vini importanti della zona delle
Crete, infine, non va assolutamente dimenticato il Rosso d'oc
Il nostro viaggio sul filo della memoria, finisce qui, ma rimane sempre
nei nostri occhi la bellezza dei luoghi, del magnifico e unico
paesaggio al mondo. Auguro a tutti coloro che visiteranno le splendide
colline toscane di poter godere lo stesso spettacolo, veramente
superbo.
Lo spettacolo su RAIUNO
di ieri sera 29 novembre 2007
Benigni show tra sesso e politica su Rai Uno. Si, veramente é stata una
bellissima serata su Rai Uno, per lo meno non ci siamo addormentati sul
divano, come spesso succede con gli altri programmi televisivi. Il
grande attore, prima dell'inferno di Dante la satira da Berlusconi a
Prodi, dai Savoia a Storace le battute piccanti del comico. Insomma,
abbiamo trascorso una simpatica serata con il simpatico e
intraprendente Benigni. Il giorno dopo abbiamo letto le critiche e la
cronica sulle pagine del Corriere e della stampa locale.
Prodi e Berlusconi, Bindi e Bondi, Veltroni e Storace, Mastella e
Casini, i Savoia. E con loro molti altri. Alla fine c'erano quasi tutti
nel teatrino della politica dello show di Roberto Benigni su Raiuno. Un
fiume in piena tra calambour, satira politica e frequenti richiami a
battute su temi sessuali e "parolacce" volutamente inserite qua e là.
Tema, quest'ultimo richiamato dal quinto Canto dell'Inferno che, nella
seconda parte della serata, Benigni ha commentato telethron, ma è
un'ora circa, a ritmo serrato, Benigni prende di mira con lo scherzo e
l'allusione il mondo politico, tuffandosi nell'attualità. Il primo
affondo è per i Savoia: "Mandate sms da 1 euro per una famiglia
piemontese indigente, vissuta all'estero perché senza permesso di
soggiorno. Si chiamano Savoia, hanno nomi altisonanti, ma sono poveri:
sono in 4, ma con 3 ville, hanno due yacht, ma non possono comprare i
due modelli nuovi usciti. Hanno chiesto 260 milioni per le spese, non
vogliono di più. Il bello è che ora vuole i rimborsi anche il Granduca
di Toscana, ma in fiorini d'oro e pure i Borboni vogliono soldi", Ma
poi, come ci si poteva aspettare si arriva subito a Berlusconi:
"Questione di democrazia: per cinque anni me la sono presa con il
governo, ora tocca un po' all'opposizione". Ecco dunque Berlusconi che
"c'ha avuto cinque mogli, di cui due sue" e che farebbe meglio a
fondare "il partito del popolo dell'armadio", per quante volte ci si è
nascosto dentro. Prodi che ha vinto le elezioni "con uno scarto di 25
mila voti, 25 mila coglioni, tutti omosessuali". E che "prima andava a
messa una volta a settimana, ma ora ha fatto mettere una cappella a
Palazzo Chigi per pregare per la buona salute dei senatori a vita".
Tremaglia che "in An non lo salutano più da, quando gli italiani
all'estero hanno votato a sinistra".
PISELLI - Benigni riprende i fili dei fatti degli ultimi anni e delle
ultime settimane. Non potevano mancare battute su Mastella ( "Mastella
diceva sempre: o faccio il ministro o niente, ho faccio il ministro o
niente. Ve lo ricordate, vero? Bene, è riuscito a fare tutte e due le
cose...".) e D'Alema: "L'hanno candidato alla presidenza della Camera e
ha detto che per il bene delle istituzioni faceva un passo indietro.
Poi alla presidenza della Repubblica e per il bene delle istituzioni ha
fatto un passo indietro. L'avevo invitato qui, poi gli ho detto che
avevo dato il suo posto a Veltroni e mi aveva detto che per il bene
della diretta faceva un passo indietro...". E ancora Francesco Storace:
("è un grande filologo, ha ripristinato il vero saluto romano: 'mortacci
tua, te ceco l'occhì") e Buttiglione ( "Il sesso governa il mondo. Uno
per parlarne dovrebbe possederlo. Buttiglione è un grande filosofo, ma
ha l'aria di uno che non ha neanche il pisello. Per carità, può darsi
ne abbia due. Rocco e i suoi piselli").
.Tra il serio e il faceto, Benigni ci ha fatto ritornare indietro nel
tempo, quando sui vecchi banchi di scuola, il prof d'Italiano ci
spiegava il V Canto dell'Inferno, dove all'ingresso del secondo cerchio
sta Minosse, che giudica le anime e distribuisce le pene. Entrati nel
cerchio, il Poeta trova i lussuriosi che girano continuamente come
travolti da un terribile turbine. A questo punto Francesca da Rimini
gli racconta del suo infelice amore, e il Poeta, per la grande pietà,
cade svenuto. Il grande attore di Benigni, che recita con particolare
enfasi e grande maestria di un vero istrione, ottiene gli effetti
scenici voluti e l'approvazione di milioni e milioni di spettatori, che
ci ha tenuti con il fiato sospeso, per non perdere neppure una virgola
della sua eloquente e profonda spiegazione. Meravigliosi gli ultimi
versi che Francesca si accingeva a spiegare al Divino Dante:
Ci siamo chiesti, ma chi era Minasse? La leggenda ci spiega che era il
re dell'antica Creta dal quale derivò il nome alla civiltà dell'isola (
civiltà minoica) Ai confini tra la leggenda e la storia, da una parte
fu ritenuto figlio di Zeus e di Europa, sposo di Pasifae, padre di
molti eroi ed eroine, tra cui Deucalione, Clauco, Androgeo, Arianna,
Fedra ecc. amante di Scilla, di Procri, ecc; dall'altra fu ricordato da
autorevoli fonti ( Tucidide, Aristotole) come il potente signore di
Cnosso, che, vinti i pirati, primo fra i Greci istaurò una
talassocrazia sull'Egeo, diede una saggia costituzione al suo popolo e
si spinse nella colonizzazione fino alle coste dell'Italia meridionale.
Sempre secondo una tradizione mista di elementi mitici e storici per
vendicare l'uccisione del figlio Androgeo impose agli ateniesi i
tributo ( annuo o novennale) di sette giovanette e sete giovanette
destinate al pasto del Minotauro e, per punire Dedalo fuggito dal
labirinto, lo inseguì con una grande flotta fino a Camico in Sicilia,
dove sarebbe morto per mano del re Cocalo e delle sue figlie per
immersione in un bagno d'acqua bollente o di pece. Per il suo celebrato
senso di giustizia, nell'oltretomba ebbe insieme con i fratelli
Radamanto ed Eaco, il sommo officio di giudicare i morti, secondo una
credenza che perdurò fino al medioevo. Dante lo pone, in tale funzione,
all'entrata dell'inferno, raffigurandolo come demone della lunga coda,
con la quale si cinge il corpo un numero di volte corrispondente a
quello del cerchio infernale cui l'anima fu assegnata. Per molti
critici moderni Minasse non è il nome di un re, ma quello di faraone
presso gli Egiziani, il titolo generico del signore di Creta - Icon.
Minasse appare su monete cretesi come un personaggio barbaro, munito di
scettro, assai simile a Zeus; nei monumenti figurati si trova quasi
sempre in posizione complementare ( vaso apulo di Canosa a Monaco di
Baviera):
Nessun maggior dolore
Che ricordarsi del tempo felice
Nella miseria; e ciò sa il tuo dottore.
Ma se a conoscere la prima radice
Del nostro amor tu hai cotanto affetto,
Farò come colui che piange e dice.
Noi leggemmo un giorno per diletto
Di Lancellotto, come amor lo strinse:
Soli eravamo e senz'alcun sospetto.
Per più fiate gli occhi ci sospinse
Quella lettura, e scolorocci il viso:
Ma solo un punto fu quel che ci vinse-
Quando leggemmo il disiato riso
Esser baciati da cotanto amante
Questi, che mai da me non fia diviso.
La bocca mi baciò tutto tremante
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse;
Quel giorno più non vi leggemmo avante.
Alcuni anni fa, prima di scoprire le infuocate, ventilate e magnifiche
spiagge sulle sponde del Mediterraneo, Adriana ed io, trascorrevamo le
nostre vacanze marine nella bellissima Città di Cattolica, che è stata
definita la Regina dell'Adriatico. Nelle giornate più fresche e poco
assolate, andavamo alla scoperta di siti nuovi disseminati fra le verdi
colline sopra la città di Cattolica. In una di queste escursioni,
abbiamo scoperto il Castello di Gradara, che è ubicato in cima ad una
meravigliosa collina, da dove si ammira un paesaggio mozzafiato sulle
coste dell'Adriatico e l'occhio si spinge fino alle colline di Pesaro.
Più volte abbiamo visitato questo importate e imponente maniero, dove
si incontravano Paolo e Francesca.
Gradara, è un borgo d'aspetto medioevale, chiuso entro una cinta
muraria del XIV secolo, e dominato dalla Rocca, munita di torri e
mastio, eretta dai Malatesta di Verrucchio ( 1307-1325) su un nucleo
originario dei secoli, XI-XII, restaurata nel 1494 dagli Sforza e
quindi nuovamente nel 1923-1925. Nell'interno è conservata una notevole
pala in terracotta invetriata di A. Della Robbia: nella cosiddetta "
camera di Francesca" una tradizione vuole si sia svolta la tragedia di
Francesca da Rimini, interessante, nel municipio, la quadreria.
Così un poeta ( G.Rossellini: "Ode a Gradara") innamorato di Gradara
scrisse una notte di plenilunio sognando nel suggestivo bosco delle
annose querce ai piedi della Rocca, rievocando con il felice aiuto
della fantasia, della leggenda e della storia, figure ben note che,
nella Rocca, hanno lasciato il ricordo della loro vita tormentosa di
passioni e di rinuncie, di odii e di prepotenze, di dolcezze e di
crudeltà. La Roccaforte di Gradara, sita a cavaliere di un colle sul
confine fra Marche e Romagna, ha, a limite del suo orizzonte, a sud
ovest, la severa corona dei Monti di Carpegna e del Montefeltro e, a
nord-est, la distesa inquieta dell'Adriatico, quasi a darle ragione
della sua forza di dominio e di vigilanza. A 25 km. Da Rimini, a 13 da
Pesaro e a soli 3 dalla grande Strada Adriatica che porta a Cattolica,
la Regina dell'Adriatico, e facilmente raggiunta dai turisti e dagli
studiosi, dai sognatori; e a tutti piace rievocare, come del resto
stiamo facendo noi oggi, seduti davanti al nostro personal computer,
rievocare il tempo antico, mentre si compie il giro attorno alle
merlate mura e, superato il ponte levatoio, ci si attarda nell'elegante
cortile e si sosta nelle austere sale che ricordano splendori o tediose
malinconie di potenti corti medioevali; i Malatesta, gli Sforza, i
Della Rovere, nomi che riassumono il più brillante e movimentato
periodo del Feudalesimo italiano.
Chi con interesse e amore storico o con nostalgica curiosità di frugare
nei tempi andati, non vuole soffermarsi con prolissità a seguire date
su date unendo anello ad anello una catena ininterrotta di avvenimenti,
può ugualmente, come noi intendiamo fare, raccogliere con appassionato
interesse i ricordi salienti che illustrarono questo storico monumento.
Nella seconda metà del XIII secolo, accanto alla corrusca figura di
dominatore del vecchio da Verrucchio si rivela e lascia il ricordo più
bruciante, la passione e la tragedia di Paolo e Francesca.
Come ci ha ricordato il grande attore Benigni, nella sua eloquente
esposizione sui meravigliosi versi del V Canto dell'Inferno di Dante,
che rievocano la tragedia di Paolo e Francesca, che il Divino Dante ha
immortalato queste figure nel suo Canto; D'Annunzio ne ha scolpito la
passione del dolcissimo schiudersi alla pienezza compiuta alla morte
violenta; Zandonai ne ha cantato il tormento con la sua musica
toccante; poeti, storici e pittori hanno indugiato su queste due
creature d'amore e di dolore; Come abbiamo potuto constatare, Gradara
ne racchiude e custodisce gelosamente lo spirito che la storia e
leggenda le hanno lasciato in suggestivo retaggio.
Come apprendiamo su documenti e cenni storici. È ormai fuor di dubbio
che la tragedia si svolse in questa Rocca, dalle ricerche storiche del
Tonini, dell'Yriart e di altri meno noti e dall'analisi di documenti
esistenti nelle biblioteche di Rimini e di Pesaro, risulta che può
essere avvenuta tra il 1285 ed il 1289. Nel corso di detto periodo di
tempo, i Malatesta furono banditi da Rimini dove la fazione Ghibellina
aveva avuto il sopravvento. Non avevano quindi che Gradara e se a ciò
si aggiunge che Gianciotto ( Giovanni), lo sciancato e deforme marito
di Francesca, era podestà di Pesaro, risulta logico che tenesse la
moglie nel castello, più vicino alla sua podesteria. Una disposizione
di allora non permetteva ai Podestà di tenere le mogli o le famiglie
nella città dove svolgevano la loro missione.
……soli eravamo
Senza alcun sospetto…
Girovagando per i vicoli dell''antico borgo e conversando con i
Gradaresi, dove questa triste leggenda si tramanda da padre in figlio,
che narra di questo atroce fatto di sangue, perciò lo spirito senza
pace dell'infelice donna vaga ancora, nelle notti di plenilunio, per i
cammini di ronda e sulle torri merlate, si deve dare valore a questa
dolorosa storia di grande amore. Tutte le volte che siamo saliti fin
lassù, ci ha colti una grande malinconia nel visitare i siti
frequentati dai due amanti.
Oltre al castello di Gradara, nel nostro eterno girovagare, abbiamo
compreso che in nessun altro castello Malatestiano si racconta di
simile leggenda. In una lineare cronistoria possiamo ricordare gli
avvenimenti del XIV secolo: a Pandolfo I., l'edificatore di Gradara,
morto nel 1324, successe il figlio Malatesta Antico, detto
Guastafamiglia perché su mise in lotta con i cugini di Rimini, figli di
Malatestino dall'occhio, cui strappò il dominio della città portandoli
a morire nella cupa prigione di Gradara.
Tutto il periodo della signoria di costui che va fino alla morte
avvenuta nel 1364 non è prodigo di letizia per la vita della Rocca;
forse giovani donne gioiosi cavalieri, freschi paggi e adolescenti
avranno celatamente raccolto qualche raggio di sole, ma la grave
oppressione della dispotica tirannia del signore inquieto ed ambizioso
ha velato cupamente questi lunghi anni.
Alcune testimonianze raccolte fra gli abitanti del borgo di Gradara,
riferiscono che effettivamente ancora oggi, lo spirito senza pace
dell'infelice donna vaga ancora, nelle notti di plenilunio, per i
cammini di ronda e sulle torri merlate.
……….Sull'ubertoso colle, solitaria.
Ombra massiccia di mastina schietta
Vigila il sonno, dalle quadre torri
Ardue. Gradara.
Le Alpi Apuane:
dove osano le aquile.
Nelle vecchie pagine ingiallite della nostra agenda di viaggio, dopo
circa 6 anni, leggiamo gli appunti di una giornata di festa, trascorsa
nei boschi della verde Lunegiana, in un posto incantevole, dove osano
solo le aquile. " Dopo le Dolomiti del Gruppo di Brenta, in questa
giornata afosa di luglio, siamo saliti fin quassù al massiccio
appenninico delle chiare forme alpine aspre e dirupate ( non per nulla
gli è stato dato il nome di "Alpi" Apuane) separa tre regioni delle
individualità ben precise: la Lunegiana, la Carfagnana e la Versilia.
A Pontremoli, abbiamo lasciato l'Autostrada della Cisa e ci siamo
immessi su di una strada comunale che porta al vertice del massiccio e
al Santuario della " Madonna del Monte", il più antico della Lunegiana
e della provincia di Massa Carrara. Questa di oggi, non è un'escursione
come quelle che siamo abituati di fare quasi tutte le domeniche, ma è
una giornata di riflessione e anche di festeggiamenti a carattere
familiare: festeggiamo il mio 74 esimo genetliaco, anche se con un mese
di ritardo, ma per festeggiare una ricorrenza non si è mai in ritardo,
sebbene ognuno di noi, non accetta volentieri gli anni che passano, ma
questa è la realtà della vita.
La strada sale ripida e con molti tornanti, che in principio attraversa
piccoli villaggi, grumi di case barbicati nel costone, delimitati da
piccoli orti e oliveti ma man mano che sale, le case si fanno sempre
più rare ed il bosco di castagni di alto fusto invadono perfino la
strada, facendola diventare una galleria di frescura dove le piante
formano un tutto uno con la strada. Il paesaggio è praticamente
annullato dalle fronde vaporose di queste secolari piante, che per
millenni, hanno sfamato la popolazione locale.
L'appartata Lunegiana.
Il nome di questa regione ( che corrisponde all'alta media valle del
fiume Magra) deriva dell'antica colonia romana di Luni, fondata nel 177
a.C. Il paesaggio è abbastanza accidentato: solo qualche ristretta
fascia alluvionale orla i maggiori corsi d'acqua, limitati sono anche
le aree collinari. I valichi che mettono in comunicazione la valle con
regioni limitrofe le hanno riservato una notevole funzione di transito:
il fondovalle principale, infatti, percorso da importanti vie di
comunicazione, fra cui l'Autostrada della Cisa.
La Madonna del Monte.
Per il momento, tralasciamo di parlare della località più suggestiva
della regione e delle Alpi Apuane, e cerchiamo di parlare della
località più suggestiva del Centro Italia, n. 992 sul mare, sul
"Vertice Montis" di Mulazzo che domina la valle del Magra fino al Mar
Tirreno, che dista solo 15 chilometri dall'Autostrada della Cisa (
casello di Pontremoli). Il Santuario della Madonna del Monte ( Mulazzo,
provincia di Massa Carrara), è una località tale che una volta nella
vita bisogna raggiungere e contemplare: una località tale che dopo un
primo incontro, vi si ritorna: per vedere, capire e gustare, come è
successo a Tiziana, la nostra "Principessa", che è rimasta
impressionata di questa magica località montana. Su quella bellissima
località di montagna, dove l'occhio spazia in un paesaggio
meraviglioso, oltre ad un grumo di case e all'ottimo ristorante: " Il
Rustichello", gestito dai simpatici fratelli Pino e Fernando, che non
sono "toscanacci ma dei liguri veraci, trapiantati nella verde
Lunigiana. In quel Ristorante, immerso fra i castagneti, abbiamo
festeggiato il mio compleanno e soprattutto abbiamo scoperto la bella
storia del Santuario della Madonna del Monte di Mulazzo, che è stato
incluso nel novero delle Chiese dove si può lucrare l'indulgenza
plenaria del Giubileo del 2000, ha una storia molto antica, anche se
corredata da una scarsa documentazione.
La Storia.
Coma al nostro solito, abbiamo indagato sulla storia di questo
Santuario e nella nostra piccola indagine, è emerso che il primo
documento che si conosce è del 1282 e presenta i Santuario come "
cella" monastica benedettina alle dipendenze dell'abbazia di S. Andrea
di Borzone presso Chiavari. Il convento, che sorgeva in una zona di
grande importanza strategica, funzionava anche da ospizio e da rifugio
per i viandanti e i pellegrini che si recavano a Roma. La vita
monastica cessò verso alla fine del '400, quando il Santuario passò
sotto la giurisdizione dei marchesi Malaspina, signori di Mulazzo, e vi
restò fino alla fine del secolo scorso. Il 12 luglio il Santuario fu
sottomesso, quale oratorio, alla parrocchia di Pozzo.
Ora il Santuario del Monte è Ente ecclesiastico civilmente riconosciuto
con Decreto del Ministro dell'Interno in data 11 ottobre 2986, col
titolo di Parrocchia- Santuario della Madonna del Monte- Mulazzo, con
un proprio territorio- che comprende oltre il Monte della Madonna, la
frazione " La Crocetta" e "Chiascola"- e con un proprio archivio
parrocchiale.
Non si fa fatica a riconoscere la sua costruzione, che presenta
carattere romanico. Il porticato ed il basso campanile in fronte
richiamano lo stile di alcune costruzioni d'oltre Alpe. Abbiamo
constatato che dietro l'altare dell'attuale Santuario è incisa sul muro
la data del 1302, che molti ritennero probabile anno della fondazione
della Chiesa stessa: tale data invece potrebbe, ciò non è di nostra
intuizione, la studio o di esperti studiosi, ma potrebbe coincidere con
l'ampliamento della "cella" benedettina così come altre due date ( una
del 1502, rilevabile, rilevabile ai piedi di un bassorilievo che
raffigura la Madonna col Bambino e un'altra del 2505 incisa
sull'architrave della porta).La parte più antica del Santuario mostra i
resti di una costruzione a pietre ben squadrate e murate senza calce.
Tale costruzione, ci richiama alla Chiesa Romanica che sorge in
località Castello di Andora, in provincia di Savona, che molti anni fa
visitammo spesso ed era meta di lunghe passeggiate nella pineta
retrostante in cerca di funghi, quando la nostra " Principessa" era
piccola e noi, appunto abitavamo, per motivi del nostro servizio
istituzionale nell'Arma Benemerita ad Andora Marina. Dopo quest'inciso
rievocativo, ritorniamo a descrivere l'interno del Santuario del Monte.
Abbiamo osservato che all'interno di questa Chiesa, le nude pareti
conducono all'altare dominato dalla copia della Madonna col Bambino.
L'originale, di fattura artigianale in stile bizantino, come
apprendiamo da una pubblicazione, è stato oggetto di un furto sacrilego
il 23 luglio 1979, il grave fatto avvenne, mentre si svolgeva, dal 17
al 23 luglio '79, la " Peregrinatio Marie", nella parrocchia di
Filattiera (MS).
Il Santuario fu ed è sempre meta di pellegrinaggi: un tempo i
pellegrini salivano a piedi, come del resto succedeva anche in altre
località, recitando il Santo Rosario e di notte riposavano sotto il
portico della Chiesa. Oggi si sale al Santuario in macchina, come
abbiamo fatto anche noi in questa bellissima giornata d'estate. Come ci
dicono i fratelli Pino e Fernando, proprietari e gestori del "
Ristorante il Rustichello", l'affluenza al Santuario è notevole da
Pasqua a settembre e vi si celebrano feste solenni il giorno di Pasqua,
l'Ascensione del Signore, il 2 luglio ( festa del voto), l'Assunta e i
pellegrinaggi dei sei 13 mensili di Fatima dal 13 maggio al 13
settembre di ogni anno alla Madonna del Monte, con la conclusione il 13
ottobre a Groppoli chiesa" Madonna di Fatima".
Ci siamo domandati, perché il Santuario più antico della Lunigiana è
sorta proprio sulla cima di questo irto monte?
La risposta delle origini di questa costruzione su questa montagna di
un verde lussureggiante, che poi non ç altro che un balcone panoramico
sul Mar Tirreno, sono circondate da un'antica leggenda. Però, come in
tutte queste storie, vi è un racconto popolare che parla di un uomo
genovese che, accusato ingiustamente di omicidio, come spesso succedeva
nel Medio Evo e anche nella nostra Epoca, si diede alla macchia,
oltrepassò il monte Cornoviglio e scese verso Mulazzo, dimorò dai
Malaspina. Si fermò a dormire sul crinale del monte che sovrastò il
paese di Mulazzo, che altro non era che un grumo di case stinte. In
sogno avrebbe visto la Madonna che lo assicurava sulla sua sorte. Al
suo risveglio di mattino, vide una " mista", che la sera non aveva
notato. Quel giorno l'uomo fu avvisato che le accuse nei suoi confronti
erano cadute. Quel fatto destò sorpresa negli abitanti dei paesi
vicini. Gli abitanti di Mulazzo, Pozzo Busatica, Castagnetoli,
Montereggio e Parana, con il consenso dei Malaspina che misero a
disposizione il terreno, decisero di erigere, nel luogo dove l'uomo
aveva trascorso la notte, una chiesa votiva, ma la leggenda continua:
gli operai addetti alla costruzione della Chiesa, alla fine della
giornata lavorativa, riponevano accuratamente nascosti gli attrezzi di
lavoro. Con sorpresa, il giorno dopo, non li trovarono più. Questo
accadde due o tre volte, finché gli operai decisero di scoprire chi
rubava gli attrezzi di lavoro. Una sera si appostarono, non colsero
nessuno in fragrante, ma verso l'imbrunire videro una bianca colomba
dirigersi sugli attrezzi e poi volare sulla sommità del Monte sopra
Pozzo. Un gruppo di persone per scoprire il mistero la seguì, e, giunti
sulla cima dove avevano visto dirigersi la colomba, trovarono gli
attrezzi da lavoro allineati sull'erba. La cosa destò impressione, alla
fine si pensò che forse fosse la Madonna a volere la sua chesetta in
quel luogo. Così fu scelto il " vertice montis", il luogo dove erigere
il Santuario.
Il nostro Paese è disseminato di storie e di leggende come questa a
sfondo religioso o profano, artistico e umano. L'Italia è un Paese
piccolissimo. Con tremila anni di storia, dove ogni luogo, ogni pietra
sono carichi di simboli e di ricordi e noi camminiamo su di un tappeto
di foglie morte, dove è sepolta la nostra millenaria storia del nostra
passato. Le nostre radici e la nostra fede religiosa. Come abbiamo
potuto osservare nei nostri continui spostamenti, nelle nostre
escursioni, abbiamo potuto constatare che ogni singola regione è un
microcosmo.
Il ristorante sul Monte Mulazzo.
Attorno alla villetta del Ristorante, "Il Rustichello" vi è arroccato
il piccolo borgo antico, delimitato da crinali, pianori e meravigliosi
boschi. Quello è un ambiente sereno, un luogo di pace dove regna la
tranquillità, dove i boschi si fondono armoniosamente con i piccoli
orti e i prati verdi. Adriana, lo ha definito un luogo veramente adatto
per stare in compagnia e in pace con il creato. Quasi attaccato alla
montagna e un po' staccato dal piccolo grumo di case del villaggio, che
ospita soltanto dodici abitanti, sorge appunto il ristorante: un
ristorante su prenotazione ed è molto ricercato per le sue specialità
"Porchetta e cinghiale allo spiedo con funghi porcini", nonché salumi e
formaggi caprini di produzione locale, il tutto innaffiato da un
"Chianti rosé". Non è stato un vero e proprio banchetto il nostro, ma
un pranzetto sobrio e alla buona e poi, è stato un motivo di più per
dire, facciamo un giorno di festa in compagnia, tanto per fare
qualcosa, per evadere dalla calura della Valle Padana, che in questo
periodo di grande afosità, è resa in vivibile, mentre quassù, a mille
metri di quota, l'aria è fresca e la vita è più vivibile.
Dopo il pranzo, siamo usciti per una breve passeggiata fra i boschi,
con il pretesto di trovare dei funghi, ma i funghi non si trovano sul
sentiero e poi, bisogna essere bravi esperti per non avere dopo delle
brutte conseguenze. I funghi li abbiamo trovati, ma sul banchetto della
contadina che li aveva raccolti nei boschi e che li vendevano ai bordi
dell'Autostrada della Cisa. Ne volevamo comperare alcuni, come pure
dell'ottimo formaggio caprino per portato a casa, ma non ci siamo
fermati ed abbiamo preferito proseguire la nostra corsa.
Dal vertice del Monte, la cosa più bella di un turista che può ammirare
è il meraviglioso paesaggio: un paesaggio pittura, da dove l'occhio
spazia all'infinito fra cielo monti e vallate, intuendo che oltre la
grande valle di Pontremoli vi era il mare. Immaginavamo che da quella
posizione, se guardi verso destra, si apre una Liguria inaspettata:
orti chiusi da muri a secco, vigne alternate a oliveti e rari cipressi,
case a grappolo sotto un campanile aguzzo o preziosamente barocco.
Bastano dieci minuti di macchina e subito dopo Aulla, una breve
arrampicata sulle colline di Sarzana ed ecco la Riviera di Levante, ed
ecco ritrovato il ritmo sereno della Liguria quasi mitologica che fu
dei turisti e dei letterati inglesi dell'Ottocento. Qui, nel Medioevo,
prosperava una società contadina e pastorale, come quella che abbiamo
trovato nella Valle della Magra con Pontremoli. Oggi si assiste al
dramma del progressivo spopolamento.
Anche quassù al Santuario della Madonna del Monte, succede la stessa
cosa: i piccoli villaggi barbicati sul costone, sono quasi abbandonati
ed esiste il dramma dello spopolamento come nella vicina Liguria. E
pensare, che questi sono luoghi incantevoli, luoghi dove l'uomo possa
trovare la sua giusta dimensione. Ma vivere quassù, su queste montagne
lussureggianti e nella parte opposta le montagne bianche di marmo, non
ci sono prospettive per il presente e per il futuro dei giovani.
Ricordo gli uomini imbruttiti dalla fatica in quelle gallerie dove si
estraeva "l'oro bianco": il marmo di Carrara. Rivedo ancora il canalone
centrale del monte, sforacchiato, straziato dalle cave dei Mac Guire,
vecchie e nuove, che si aprivano nei suoi fianchi; i fili elicoidali
tesi da una riva all'altra, i cavi delle teleferiche, i canapi delle
lizze, le ruote metalliche che giravano, ronzavano. Poi incominciava un
andirivieni di sentieri, scale, gallerie, che di terrazza in terrazza a
picco sulla testa. Di tanto in tanto, vedevo uscire dalle viscere della
terra anche dei giovani che sembravano vecchi, imbruttiti dal pesante
lavoro. A fare il minatore da quelle parti si incomincia da ragazzi,
perché altrimenti non vi sono altre prospettive di vita. Nelle piccole
piazzette dei villaggi, ho visto tante lapidi, lastre di marmo bianco
con incisi i nomi dei caduti nelle gallerie. Molti di questi morti,
erano appunto ragazzi. Ecco spiegato l'arcano dell'abbandono e dello
spopolamento di questi borghi montani, aspri e selvaggi. Quassù,
rimangono soltanto le donne e gli anziani, i pastori e le capre.
La nostra passeggiata nei boschi è terminata su di una piazzola
panoramica. Da quella posizione una striscia azzurra appariva
all'orizzonte, largo, uguale, oltre la quale c'era il mare! Il mare!
Adriana rideva. Tiziana spalancava la bocca per riprendere fiato,
allungava il collo fuori della blusa quasi scollata. E come mi sentivo
debole sotto i suoi occhi castani pieni di stupore, che mi guardavano
sotto un ciuffo di capelli colorati svolazzanti dall'aria frizzante
della montagna. Con un filo di voce, mi ha detto: " Tanti auguri
"gatto", si, perché, la mia "principessa", non mi ha mai chiamato papà.
Prima di lasciare il sacro Monte, abbiamo piegato il ginocchio davanti
alla Vergine Maria, e abbiamo pregato nel solo modo che noi sappiamo
pregare:
" Oh Madonna benedetta, dolce padrona del monte, fra i fiori gialli e
bianchi blocchi e montagne di marmo, dove si vede il mare brillare
nella sera che muore. Fra odore di erbe aromatiche, di funghi e di
castagne, dolci ricordi sciolgono il nodo alla gola che hai avuto nel
giorno. Quassù, fra questa verde montagna, c'è un posto dove si spegne
la malinconia come il sole nel mare e ti senti libero sotto la tua
protezione, e ti sembra che sia ritornato, ragazzo, a giocare fra le
cose perdute nel tempo.
C'è il tuo piccolo tempio in cima a questa montagna da non scordare mai
perché tra i fiori gialli della sera, ritrovi il dolce incanto della
felicità e della preghiera".
Il sole era ancora alto nel cielo, ma grandi nuvoloni scuri erano
spinte dal vento tiepido verso est. Di tanto in tanto, si sentiva un
tuono lontano, quello era un segnale inequivocabile: il temporale si
stava avvicinando. Quando abbiamo salutato il Signor Pino e Fernando,
incominciavano a cadere le prime gocce d'acqua.
Caravaggio
Racconto di viaggio
Noi sottufficiali dell'Arma Benemerita, si può dire che da quando è
nata l'Arma, siamo stati soggetti ad essere avvicendati da una
provincia all'altra, come pure da una Regione all'altra. Nell'autunno
del 1967, dalla meravigliosa e coloratissima Liguria, la Riviera dei
fiori, del mare e soprattutto del sole e precisamente dall'antica città
di Genova, da secoli uno snodo marittimo di immenso potere, è la sola
grande città ove prestavamo servizio in qualità di istruttore presso il
II Battaglione mobile, arroccato nell'antico forte San Giuliano, da
dove si ammira un magnifico panorama della città e della splendida
spiaggia sottostante di S, Lazzaro e a pochi chilometri più avanti si
trova il meraviglioso golfo di Nervi e delle Cinque Terre. Qui case
color pastello si crogiolano al sole del Mediterraneo, mentre i loro
giardini, fiorenti nel dolce clima , risplendono di piante colorate
Dopo 5 anni di permanenza in questa grande e prestigiosa città, siamo
stati trasferiti nelle linda e medioevale cittadina di Caravaggio, in
provincia di Bergano, dove sorge il famoso santuario della Madonna di
Caravaggio, sorto per l'apparizione della Madonna nel 1432 e
completamente rifatta nel 1575 su disegno di Pellegrino Ribaldi,
terminato nel XVIII sec, ma decorato con affreschi più moderni; è
frequentata meta di pellegrini. La storia ci racconta che Caravaggio
combatté a lungo con Milano e nel 1448 fu teatro di una vittoria di
Francesco Sforza sui Veneziani guidati da Colleoni. Subì devastazioni
da parte delle milizie di Giovanni delle Bande Nere nel 1524 e dai
lanzichenecchi del 1630. Vi nacquero i pittori Polidoro Caldara detto
Polidoro da Caravaggio e, secondo la tradizione, Michelangelo Merisi,
detto il Caravaggio, e il novelliere Gianfrancesco Straparola. Quando
si giunge in una nuova sede, la prima cosa è di conoscere il proprio
territorio e soprattutto gli Amministratori locali e le Autorità laiche
e religiose. Con il passar del tempo, queste conoscenze si estendono
anche nei paesi limitrofi. Essendo appassionati dell'arte, le prime
città limitrofe che abbiamo visitato con la piccola Tiziana e Adriana
mia moglie, sono state le città di Bergano Bassa e quella Alta, dove si
possono ammirare opere d'arte di meravigliosa bellezza. Nella Città di
Bergano, essendo vicina a Caravaggio, come pure la Città di Treviglio,
ci recavamo spesso, sia per motivi istituzionali, quanto per fare delle
compere e per scoprire angoli caratteristici e storici. Oltre alla
città di Bergamo e quella di Treviglio, ci siamo recati più volte anche
in quella di Milano, essendo Caravaggio, collegata a queste città, per
via ferrata e quindi molto comode raggiungerle. Nei nostri spostamenti,
abbiamo scoperto molti paesi caratteristici e storici nel bergamasco e
nell'interland milanese, visitando queste località, abbiamo scoperto un
caratteristico e innovativo villaggio, i cui edifici rispecchiano lo
stile Liberty, che si chiama Crespo d'Adda, che meritava di essere
visitato e annoverato nelle pagine della nostra vecchia agenda di
viaggio. Oggi, spogliando quelle pagine ingiallite dal tempo, abbiamo
trovato gli appunti, che con mano ferma, abbiamo riempito quelle pagine
bianche, affidando per così dire, alla storia del nostro passato
prossimo, quando la vita scorreva con un ritmo meno confusionario di
quello di oggi. Questo villaggio innovativo, sorge sulle sponde del
Fiume Adda, circondato dalla magnifica pianura lombarda. La nascita di
Crespi d'Adda ebbe voluto dall'omonima famiglia, attiva nell'industria
cotoniera. Il villaggio, conservatosi fino ad oggi praticamente
inalberato, fu costruito basandosi sulle precedenti esperienze
anglosassoni e sui principi propugnati dai socialisti a utopistici, tra
i quali spiccò il nome di Robot Open. Secondo questi pensatori, la
considerazione delle necessità lavorative ( servizi sociali, alloggi
ecc.) era la base per la creazione di una comunità ideale nella quale
potevano convivere pacificamente gli interessi della classe operaia e
quella degli imprenditori.
La famiglia Crespa, sensibile alla nuova realtà sociale, non poteva
sottrarsi al fascino di queste teorie. I Crespi conobbero il loro
periodo di massimo splendore ai tempi di Cristofaro Benigno, nato a
Busto Trizio nel 1833 e morto a Milano nel 1920. Questo pioniere
dell'industria italiana fondò la sua prima fabbrica nel 1867 a Vigevano
( Pavia), seguita nel 1870 da quella di Gemme ( Novara) e, nel 1878, da
quella di Canonica d'Adda. Il territorio dove sorse quest'ultima fu in
seguito aggregato a Capriate d'Adda con il nome di Crespi d'Adda.
Nella nostra prima visita, perché siamo andati più volte a Crespi
d'Adda, per visitare la stupenda cittadina, a pianta geometrica, e
divisa al centro di un viale, parallelo all'Adda. Fra gli edifici non
legati alla fabbrica spiccano il "Castello", una delle residenze estive
della famiglia Crespi, progettata in uno stile eclettico ispirato al
neogotico lombardo da Ernesto Provano e realizzata da Pietro Brinati:
fu terminata nel 1897, come leggiamo su di una lapide marmorea, vicino
al castello. Nei dintorni della dimora di Crespi si trova il nucleo
originario delle case plurifamiliari degli operai. Nel 1889, però,
quando dell'impresa faceva già parte in qualità di procuratore legale
il giovane Silvio Benigno, figlio di Cristoforo, fu abbandonata l'idea
iniziale di collocare più famiglie nella stessa casa assegnando quattro
stanze a ognuna, in quanto appariva una soluzione pericolosamente
promiscua e, comunque, poco moderna. Si procedette allora a tracciare
la strada principale, che separa la fabbrica dalle case degli operai,
con un progetto che faceva riferimento ad un piano urbanistico meglio
definito e si rinunciò ai grandi edifici per costruire abitazioni
unifamiliari a due piani, con un piccolo giardino e un orto recintato.
Comunque solo un sesto degli operai poté essere accolta nel villaggio.
Questa scelta era basata sull'idea che il continuo miglioramento delle
condizioni di vita dei lavoratori poteva evitare gran parte dei
conflitti sociali. La concretizzazione di questa filosofia a Crespi
d'Adda diede luogo a un'armonia sempre maggiore, al punto che nelle
fabbriche dei Crespi per più di cinquant'anni non si verificarono
scontri di classe. Oltre all'abitazione, era fornita anche,
gratuitamente agli abitanti anche l'energia elettrica, prodotta da una
centrale sfruttando l'acqua del fiume Adda.
La fabbrica, che al momento di massima produttività richiese l'impiego
di 3200 lavoratori, era divisa in quattro reparti - filatura,
tessitura, tintoria e macchine - ai quali si aggiungevano numerosi
magazzini. Le due ciminiere di mattoni rossi dominano ancora oggi il
paesaggio di Crespi. Nella parte meridionale del villaggio si trovano
le case degli impiegati e dei capireparto, riconoscibili per la
migliore fattura e le rifiniture più accurate. Fra i monumenti più
belli del villaggio, abbiamo ammirato la chiesa, che fu costruita da
Pietro Brinati nel 1893, che si è ispirato a quella di Santa Maria in
Piazza a Busto Trizio ( il paese natale dei Crespi), attribuita al
Bramante. Ubicata nella parte settentrionale della città, in una Piazza
in cui si trovano anche le scuole e il piccolo teatro, presenta un
tamburo esagonale su cui si appoggia la cupola coronata da guglie e
pinnacoli.
Nell'abitato si elevano anche alcuni edifici pubblici come i bagni, la
clinica, un dispensario e la cooperativa alimentare ispirata a quella
creata down nel suo cotonificio in Scozia. Una piccola centrale
idroelettrica, poi, come abbiamo riferito sopra, forniva gratuitamente
l'elettricità agli abitanti. Sono da ricordare anche la zona sportiva e
l'imponente cappella cimiteriale dei Crespi, costruita da Gaetano
Moretti nel 1907. La crisi del 1929 e la dura politica fiscale del
fascismo costrinsero la famiglia Crespi a vendere l'intero complesso.
Oggi, questo villaggio innovativo di Crespi D'Adda, fa parte del
Patrimonio dell'Umanità.
Pensando al passato, quando fu fondato il villaggio di Crespi d'Adda, i
fondatori non hanno pensato soltanto a loro stessi, a riempire i loro
forzieri, ma soprattutto hanno pensato ai lavoratori, agli impiegati e
ai dirigenti di quel grande stabilimento tessile, costruendo
all'interno di quel parco una cittadina con tutti i conforti, dove le
maestranze potevano vivere nella serenità e senza problemi, mentre
oggi, le grandi società industriali, che operante nel territorio del
nostro Paese, non hanno mai pensato all'elemento umano ai bisogni delle
maestranze ed al loro benessere. Sicuramente, dovrebbe prende, come
esempio, questo villaggio innovativo di Crespi d'Adda, per garantire ad
ogni loro dipendente, operaio o impiegato, un comodo alloggio,
costruito nelle vicinanze dello stabilimento, specialmente in questo
periodo di crisi dell'edilizia abitativa e della mancanza di alloggi.
Noi non siamo politici e neppure industriali ma semplici pensionati,
che pensando al passato cerchiamo di vivere il nostro presente nella
completa serenità. Questa è soltanto un'idea, buttata lì di come
dovrebbe essere il futuro di milioni di operai senza casa.
Pochi giorni fa, la grande finestra televisiva di Rai Due, nella
rubrica "Viaggiare", ci ha presentato un bellissimo servizio proprio
sul villaggio di Crespi d'Adda, facendoci conoscere "quest'angolo verde
della Lombardia", perché la Lombardia mon è soltanto la regione dei
colori velati dalla nebbia, ma è un susseguirsi di panorami incantevoli
e sensazioni suggestive, quasi al limite dell'irreale. Oltre alle
bellezze naturali, in quel magnifico servizio, abbiamo avuto modo di
rivedere, dopo 50 anni, quel villaggio innovativo che è appunto Crespi
d'Adda.
Lasciamo il villaggio di Crespi d'Adda, è ritorniamo al periodo della
nostra permanenza a Caravaggio. L'anno successivo, il 1968, è stato
l'anno della contestazione degli studenti, e anche nel piccolo centro
di Caravaggio, come in quello di Groviglio e Bergamo, abbiamo vissuto
quella contestazione. Eravamo, giorno dopo giorno, sul piede di guerra,
ma per fortuna, non sono successi gravi fatti di sangue, ma dei lunghi
cortei per le strade del paese e qualche tentativo di penetrare
all'interno degli stabilimenti industriali della zona.
Chi furono, infatti, i principali protagonisti del '68? Soprattutto
studenti (prevalentemente maschi) che, nella maggior parte dei casi,
fino a quel momento, avevano studiato (seriamente all'interno di quella
scuola, come fu definita "l'orrida scuola di classe così ben descritta
da don Milani, avevano giocato a pallone, avevano goliardicamente
sperato di "conquistare una figa", riuscendoci in genere solo con le
prostitute, o con qualche ragazza di estrazione proletaria speranzosa
di acchiappare uno studente; insieme con loro si erano mobilitati anche
giovani operai che fino a quel momento si erano dedicati (seriamente)
all'odioso apprendistato, avevano fatto il servizio militare (imparare
a sparare può sempre servire), avevano chi "gliela dava" (ma, in
genere, assai sbrigativamente) ed erano approdati, da poco, a una
catena di montaggio (furono, quelli, gli anni in cui la grande
industria richiese la massima quantità di manodopera non
specializzata). Ovvio che, passata la festa, si sono, in genere,
rapidamente integrati. Gli studenti, mettendo a profitto i loro studi;
gli operai più intraprendenti, utilizzando le capacità politiche
acquisite e la forza del movimento per diventare dirigenti nei partiti,
nei sindacati, nella pubblica amministrazione, dove spesso li troviamo,
tuttora, in posizioni di rilievo.
Fra quelle file vi hanno militato diversi giovani che oggi ricoprono
posti prestigiosi nel Governo e nella politica e nella pubblica
amministrazione. Cosa resta di quell'esperienza? Ben poco: la
diffusione delle idee femministe, cominciata già negli anni precedenti
ma resa inarrestabile dal '77; la constatazione che, per creare una
mentalità diversa da quella modellata dal sistema, non basta un breve
movimento di contestazione, ma occorre un lungo periodo di formazione;
l'amarezza che, in quegli anni, tale formazione sia stata portata
avanti comunque in modo piuttosto superficiale ed abbia coinvolto un
numero di persone del tutto insufficiente per trasformare radicalmente
la società. La società è rimasta quella di prima, non c'è stato nessun
cambiamento
"In questa nostra società di contestatori, abbiamo compreso che in
fondo ognuno di noi fosse una pietra a suo modo. Infondo ogni vita lo
è. Le vite sono come i sassi di un torrente in piena che rotolano una
accanto all'altra, cozzano, si rompono in frammenti; e i frammenti si
scontrano con altri frammenti. Ogni vita è ricordo e possibilità di
un'altra vita. Una vita può raccontare altre vite, o esserne il
riassunto. Riassunto di un'identità, dove si capisce cosa porta
qualcuno alle proprie scelte, cosa le comanda, se davvero esiste un
libero arbitrio al di là del vortice dove ogni giorno ruotiamo di moto
proprio che ci hanno toccato nel nostro passato prossimo e che
sicuramente, ci toccheranno sia nel presente che nel prossimo futuro
La grande montagna in
Val Fiscalina
è improvvisamente esplosa
Oggi, non siamo qui per descrivere o parlare di una solita escursione,
ma cercheremo di soffermarci su di un grave avvenimento, per non dire
un disastro apocalittico ed ecologico, che si è verificato, per cause
naturali, su di una meravigliosa cima dolomitica in Val Fiscalina, che
la finestra televisiva del Primo Canale di Rai Uno, ha trasmesso, nel
telegiornale delle 13,30 del 12 ottobre u.s, ma prima di addentrarci
nella triste notizia, vogliamo parlare delle meravigliose Dolomiti,
uniche al mondo per la loro estrema varietà di forme e di contrasti,
che benissimo si possono definire il regno dell'armonia e la fonte di
perenne giovinezza. Arditi profili, rocce articolate, creste
bizzarramente sagomate e frastagliate risaltano ovunque in primo piano
spesso assumendo l'incantevole aspetto di una fiabesca e capricciosa
ricostruzione. Molto complesso sarebbe definire minuziosamente la
struttura geologica di questi gruppi montuosi. Interessante è pero
sapere che le singolari masse rocciose delle Dolomiti si differenziano
nettamente delle normali formazioni calcaree, poiché sono composte di
un insieme di doppio carbonato di calcio e magnesio chiamato "dolomia".
Il loro nome è legato al famoso geologo Dèodat de Dolomieu che nel 1789
analizzò per prima tale composizione. La storia geologica ci dice che
circa settanta milioni di anni fa, le Dolomiti emersero dai flutti di
un profondo mare sotto forma di un fantastico paesaggio chiazzato di
scuro e di verde. Oggi le loro superbe e rosee vette puntano dritte al
cielo e sembrano poi veleggiare nell'aria pura di un silenzioso ed
infinito spazio, ma ci domandiamo, fino a quando queste superbe cime
domineranno l'infinito spazio?
Dopo migliaia di anni, dal giorno della loro emersione da quel profondo
mare azzurro e chiazzato di verde, improvvisamente, la superba
montagna, è scoppiata in Val Fiscalina, la così detta Valle dei vip e
degli escursionisti. Un'enorme frana di polvere e sassi ha coperto il
fondovalle, coprendo ogni cosa. Alcuni escursionisti, che si trovavano
su quei sentieri, sono stati salvati dall'immane catastrofe, come è
stata definita dai tecnici che sono immediatamente intervenuti con ogni
mezzo. Ai loro occhi, come abbiamo potuto osservare dalle riprese
televisive, per un momento ci hanno dato l'impressione di assistere a
quel disastro apocalittico, come quello "dell'11 SETTEMBRE". Una nube
grigia copriva il cielo, la montagna e la grande valle sottostante E'
stato. Drammatico il racconto di due turisti tedeschi che si trovavano
ai piedi di Cima Una quando è caduta la grossa frana dolomitica.
"Sembrava una scena come quando sono cadute le Twin Towers a New York"
hanno detto. Milioni di spettatori come noi, che stavamo seguendo il TG
Uno, siamo rimasti scioccati. Vedendo quelle scene drammatiche da
finimondo.
Noi conosciamo molto bene quella località alpina, per esserci stati più
volte con gli amici del CAI di Mantova. La Val Fiscalina, è situata nei
pressi di Sesto Pusteria, è uno dei gioielli delle Dolomiti e una delle
località turistiche più famose dell'Alto Adige, scelta, oltre che dagli
alpinisti, anche dai Vip in cerca di assoluto riposo. Nella pace di
questi luoghi ha trascorso ad esempio le vacanze la cancelliera tedesca
Angela Merkel. La leader tedesca è ospite da diversi anni di un
rinomato albergo della valle scelta come base di partenza per
escursioni nella zona delle Tre Cime di Lavaredo, da cui Cima Una, in
tedesco Einserkofel, dista un paio di chilometri. Il nome di
questa montagna deriva dalla posizione del sole, quando si trova sopra
la sua cima: chi si trova in Val Fiscalina ed il sole è sopra la
montagna, sa che sono le ore 13. E a fianco ci sono anche la Cima
Undici e la Cima Dodici.
In poco tempo, la notizia ha fatto il giro del mondo e milioni di
persone che conoscono queste meravigliose montagne, sono rimaste
scioccate Sul sito del Corriere della Sera, è apparsa la notizia con un
lungo articolo: Un'enorme frana di sassi di 60 mila metri cubi si è
abbattuta dalla Cima Una (2.598 metri) in Val Fiscalina, nei pressi di
Sesto Pusteria ). Le squadre di soccorso hanno estratto alcuni
escursionisti che non hanno riportato conseguenze. Vigili del fuoco
sono ancora al lavoro, anche se, spiega la Protezione civile, "non c'è
alcun elemento che faccia pensare a vittime o feriti". "La frana è
avvenuta in una zona molto isolata della valle, lontano dai sentieri di
montagna", ha spiegato Friedrich Visentainer, del corpo permanente dei
Vigili del fuoco di Bolzano. "Si è staccato un costone di 100 metri
d'altezza, 30 metri di larghezza e 20 metri di profondità - ha aggiunto
- causando un enorme polverone" che ha complicato il lavoro degli
elicotteri inviati in quota per un accertamento dall'alto della
situazione. Alcune automobili che scendono a valle sono completamente
imbiancate, come dopo una forte nevicata. Si tratta della polvere
calcarea delle Dolomiti dispersa nell'aria dalla frana.
Molte testimonianze dei soccorritori, arrivati sul posto: Vigili del
Fuoco, Carabinieri e agenti dell'ordine hanno affermato che un grosso
costone di roccia è finito nell'area di un parcheggio. In zona c'erano
alcune auto con targa tedesca. La Polizia ha compiuto accertamenti
negli alberghi e nei rifugi vicini per risalire ai titolari e ai loro
parenti in modo da capire dove possono essere i proprietari delle
vetture, ma per fortuna nessuna persona ha subito danni fisici.
Tutto questo disastro apocalittico, si è verificato, a quanto abbia
saputo, per CAUSE NATURALI - "La frana di Val Fiscalina è di dimensioni
assolutamente eccezionali rispetto ad altri fenomeni che si registrano
di continuo sulle Dolomiti": lo ha detto il capo dell'ufficio geologico
della Provincia autonoma di Bolzano, Ludwig Noessing. "Dobbiamo ancora
effettuare una serie di rilievi per stabilire l'esatta causa di questo
evento. Certo è - ha aggiunto Noessing - che la dolomite è una roccia
calcarea estremamente bella ma anche assolutamente fragile perché
porosa. Le infiltrazioni d'acqua seguite dal gelo o il disgelo
provocano delle fratture interne che indeboliscono la consistenza e la
tenuta della roccia". Per il professor Sergio Chiesa, geologo
dell'Istituto di Dinamica dei Processi Ambientali del Cnr, ciò che si è
verificato sulla Cima Una delle Dolomiti "si ascrive in una serie di
fenomeni naturali che possono essere innescati anche da un leggerissimo
sisma". Cambiamenti climatici o interventi sul territorio da parte
dell'uomo sono, per Chiesa, "da scartare tra le cause del crollo: in
quella zona i ghiacciai sono scomparsi da decine di migliaia di anni e
la mano dell'uomo non ha apportato grossi cambiamenti".
Fenomeni simili a quello avvenuto il giorno 12 sono piuttosto frequenti
sulle Dolomiti. Nell'estate 2006 sulla Punta delle Dodici circa 100
mila metri cubi di roccia si staccarono dalla parete, ai piedi della
quale sorge l'abitato di Longiarù. La frana si fermò solo nel bosco
sottostante la parete senza provocare vittime. Anche nell'estate del
2004 si era verificato un crollo di parete sulla Punta delle Dodici,
alta 2.384 metri.
Particolare clamore aveva invece suscitato la caduta, il primo giugno
del 2004, di una guglia del gruppo delle Cinque Torri, sopra Cortina:
si trattava della torre Trephor, una formazione staccata rispetto alla
Quarta Bassa, una delle 'dita' più corte del celebre gruppo roccioso,
in realtà formato non da cinque, ma da una decina di guglie. Sempre nel
2004, era franato un grosso spuntone di roccia, alto un'ottantina di
metri, dalla Forcella dei Ciampei sui monti tra la Val Gardena e la Val
Badia. Nell'estate del 2005 crolli erano stati registrati alla Tofana
del Rozes e alla Cima del Pomaganon, nella conca ampezzana. Con un
salto di circa 400 metri, la roccia si era sgretolata lungo le pareti
della Cima, la montagna di 2.420 metri di quota sopra Cortina D'Ampezzo
Per alcune ore si è temuto per i proprietari di alcune auto con targa
tedesca trovate nei pressi della frana, ma l'allarme è rientrato e non
ci sarebbero né vittime né feriti. "Non c'è alcun elemento che fa
pensare a vittime o feriti", ha detto Friedrich Visentainer della
protezione civile di Bolzano. Circostanza confermata dal questore del
capoluogo altoatesino Piero Innocenti. "La frana si è staccata in una
zona molto isolata della valle, lontano dai sentieri di montagna", ha
aggiunto Visentainer.
Tuttavia 13 turisti che erano partiti poco dopo l'alba e sono stati
sorpresi in quota dalla caduta della frana sono rimasti isolati: "Ho
visto 13 turisti bloccati poco distante dal luogo dove si e' staccata
la frana", ha detto un uomo del soccorso alpino, che con un elicottero
è giunto nella zona. Per loro comunque, hanno assicurati i
soccorritori, non c'è pericolo.
Gli uomini del soccorso alpino hanno provveduto a guidarli facendoli
scendere sul versante opposto della montagna. Per la caduta della frana
sono al momento chiuso gli accessi verso i celebri rifugi Locatelli e
Comici.
Abbiamo letto che, secondo il racconto fatto all'agenzia Ansa da un
testimone, Christian Villgrater, il gestore del rifugio Fondovalle,
"una prima frana si è staccata dalla cima della montagna verso le ore
9. Da allora la montagna non si è più calmata". Sul posto sono
intervenuti gli elicotteri del 118, la Croce bianca e il soccorso
alpino, ma la nube sollevata dai detriti calata sull'intera vallata ha
reso complicato il loro lavoro. Chi è stato in questi ultimi giorni, ha
riferito che la zona di fondovalle, "sembra un paesaggio lunare e
metafisico, un paesaggio dantesco, ma più che dantesco, lo potremmo
definire apocalittico. Ma che cos'è l'Apocalisse. Giovanni apostolo,
scrivendo dell'Apocalisse, uno dei testi più affascinanti e visionari
della letteratura d'ogni tempo, annunciava l'imminenza del ritorno di
Cristo e della Nuova Gerusalemme, mentre la Chiesa dalle origini
ammoniva i propri fedeli a non sposarsi e a non procreare perché il
giorno del giudizio, il giorno dell'Armagedon, era ormai prossimo.
Sicuramente, molte persone che vivono nella Valle Fiscalina, ai piedi
del gigante silenzioso, che improvvisamente è scoppiato, come se
qualcuno avesse messo nei meandri del suo cuore una piccola bomba
atomica, hanno pensato all'Apocalisse di Giovanni. Era dunque scritto:
ci sarebbe stata la fine di questo mondo che si sarebbe tramutata in
una palingenesi che avrebbe segnato l'inizio di un nuovo mondo: Ma
quale mondo? Un nuovo mondo spirituale o un nuovo mondo materiale?
Vedendo scorrere sul nostro televisore le immagini trasmesse da Rai
Uno, abbiamo pensato ad un disastro naturale, ma per fortuna si è
trattato di un fenomeno epocale. Come abbiamo detto sopra, non è la
prima volta che si verificano sulle rosee montagne dolomitiche fatti
del genere. Per chi vive su quelle meravigliose montagne dolomitiche, è
abituato a fenomeni del genere. Anche noi, quando salivamo dal fondo
valle per raggiungere le vette delle cime di Lavaredo, abbiamo
attraversato il grande ghiaione, e quella volta, ci siamo domandati
come si sono formati quelle distese bianche di detriti. Le grande
montagne non stanno mai ferme, ogni giorno si stacca dalle loro cime
una piccola frana i cui detriti vanno ad ingrossare il grande ghiaione
che le circonda. Questa volta, è successo un caso eccezionale, il cuore
della montagna è scoppiato improvvisamente ed ha causato l'immane
disastro.
Il nostro pianeta, come pure le nostre città sono costantemente
minacciate da un'Apocalisse. L'elenco delle minacce temute e ritenute
possibili mi sfilano davanti agli occhi ormai stanchi. L'eventualità
dell'olocausto, la prospettiva della crescita demografica perciò,
secondo i calcoli degli esperti, alla fine del secolo XXI, saremo sei o
sette miliardi con un netto sfavore per la razza bianca,l'inquinamento
con il conseguente disastro ecologico; il degrado della vita nei sempre
più immensi agglomerati metropolitani; la crescente congestione e
possibile rottura dei grandi sistemi organizzativi, tecnologici,
associativi, la cui crisi potrà provocare disastri inimmaginabili come
quello che si è appena verificato nella verde e magnifica Valle
Fiscalina.
''La frana è avvenuta in una zona molto isolata della valle, lontano
dai sentieri di montagna', ha spiegato Friedrich Visentainer del
corpo permanente dei Vigili del fuoco di Bolzano. ''Si è staccato un
costone di 100 metri d'altezza, 30 di larghezza e 20 di profondità ha
aggiunto, causando un'enorme nube di polvere che ha reso più difficile
il lavoro degli elicotteri inviati per accertare dall'alto la
situazione. Alcune delle automobili che sono scese a valle erano
completamente imbiancate, come dopo una forte nevicata: l'effetto ha
dovuto alla polvere calcarea della Dolomiti dispersa nell'aria.
Secondo quanto spiegato all'Adnkronos da Sergio Chiesa, dirigente di
ricerca dell'Istituto dinamiche e processi ambientali del Centro
nazionale delle ricerche, non sono i cambiamenti climatici ma la
morfologia stessa di questo tipo di montagne ad aver provocato la
frana. "Si è senz'altro trattato di un crollo, di un fenomeno
normale tipico della morfologia delle Dolomiti - ha spiegato Chiesa
- torri, pinnacoli, pareti di roccia e gli accumuli di blocchi
accumulati ai piedi delle stesse, fa tutto parte di un processo
naturale che chiamiamo 'genesi morfologia. Trasformazioni naturali che
creano i paesaggi che vediamo - ha continuato l'esperto - e che possono
avvenire in maniera graduale, lentamente, o istantaneamente, come
quella di oggi".
Secondo Chiesa la causa "può essere la cosiddetta 'goccia che fa
traboccare il vaso': la condizione di uno strapiombo è un
equilibrio molto delicato, spesso al limite della stabilità ed è quindi
sufficiente un fatto insignificante come lo spostamento di un sassolino
a scatenare la frana o anche una leggera scossa sismica che induce una
spinta". "Quindi escludo una qualsiasi influenza dei cambi
climatici, poiché l'ambiente in cui è avvenuta la frana è
morfologicamente 'refrattario' a impatti climatici - ha ribadito
l'esperto del Cnr - non come il caso di alcune aree vicine ai ghiacciai
dove pezzi di roccia possono staccarsi improvvisamente con lo
scioglimento del ghiaccio per l'innalzamento delle temperature".
Chiesa ha poi spiegato come le aree montane dove avvengono tali
fenomeni siano state delimitate dai geologi con le 'carte della
pericolosità sulle quali sono indicati i luoghi dove è più probabile
che avvengano certi fenomeni: "Nel caso di morfologie tipo quelle delle
Dolomiti, tale pericolosità è molto elevata perché il fenomeno non dà
segnali premonitori, avviene all'improvviso".
Borgo montano di Zocca
Escursione fra i boschi e i castagneti.
Zocca è un piccolo paese dell'Emilia-Romagna, in provincia di Modena,
situato a 759 metri di altitudine nel Frignano, che sorge sulla dorsale
che separa la valle del Panaro da quella del torrente Samoggia. E' un
grazioso paese ubicato sul cucuzzolo della montagna, da dove si ammira
un paesaggio bellissimo. Ai suoi piedi si stendono una serie di
colline, da dove l'occhio si perde all'orizzonte, creando un paesaggio
da sogno. E' una Stazione di villeggiatura, non solo per la sua
posizione paesaggistica, ma soprattutto per la quiete e l'aria pura che
si respira. E' circondato da boschi cedui di castagneti, di querceti,
dove vivono in libertà, oltre ai cinghiali i fagiani ed altri uccelli
stanziali e migratori. Il CRAL delle Poste di Mantova, ogni anno di
questa stazione autunnale, organizza la sua festa sociale, in giro per
i boschi di castagneti alla raccolta delle castagne.
Per giungere a Zocca, che fra l'altro è la patria del cantante Rock
Vasco Rossi, abbiamo attraversato le stupende colline che sovrastano il
centro agricolo e industriale di Vignola, la patria delle ciliege,
rinomata in tutto il mondo, per questo gustosissimo frutto.
Attraversando questa simpatica e moderna cittadina, abbiamo visto
l'imponente rocca del secolo XIV-XV, il Palazzo Boncompagni del
ZVI-XVII, in cui una caratteristica scala a chiocciola, che abbiamo
avuto modo di ammirare in un'altra occasione. I due pesanti pullman,
uno dietro l'altro, ad andatura ridotta, hanno attraversato la storica
cittadina di Vignola, percorrendo la Strada Provinciale per Zocca,
superando le colline dei ciliegi e una serie di tornanti, dirigendosi
verso il vertice dell'alta collina, dove sorge appunto, il simpatico
borgo montano di Zocca. Dopo una breve sosta, nella zona del
parcheggio, gli organizzatori Signor Papa e Sottili, hanno deciso di
proseguire verso la periferia del paese, dove si trovano i verdi e
colorati boschi dei castagneti, con i bellissimi colori dell'autunno,
per raccogliere le castagne. Tutti gli escursionisti mantovani, con la
gioia nel cuore, armati di bastone e borsino di nailon, ci siamo
immersi nell'ombroso bosco per raccogliere le castagne. Adriana ed io,
ci siamo solo limitati ad effettuare una breve passeggiata sul sentiero
del bosco, per ammirare le bellezze naturali, seguendo i nostri amici,
ma non abbiamo raccolto neppure una castagna. Le castagne in quel bosco
ceduo, erano molto piccole, non si trattava dei famosi "marroni, ma
erano quelle selvatiche ma molto saporite, che non sono più raccolte
come nei tempi passati quando nel nostro Paese regnava la carestia.
Oggi, questi frutti autunnali, molto saporiti, non sono raccolti, ma
sono mangiate dai cinghiali che si aggirano indisturbati per i boschi.
Alla vista di quei boschi di castagneti, rovereti e querceti, il mio
ricordo mi ha portato per un momento indietro nel tempo, ai lontani
anni della mia fanciullezza, quando in quel periodo della Seconda
Guerra Mondiale, avere un pugno di quelle castagne in tasca, voleva
significate la sopravvivenza. Nelle colline del piccolo borgo natio di
Cosoleto, vi sono alberi grandissimi di castagni, che producono le
famose "castagne marroni", molto ricercati oltre che nel campo
dolciario, per sfamare la popolazione che viveva nei villaggi delle
colline aspromontane. Quelli erano altri tempi, altri ricordi, che
fecero parte della nostra vita. Il nostro Paese da Nord a Sud, è ricco
di boschi di castagne, che oltre al frutto, che ha sfamato tutti noi
italiani, fornisce un ottimo legname per l'industria del mobile.
Possiamo benissimo affermare, che quella simpatica passeggiata nei
boschi di Zocca, alla raccolta delle castagne e dei funghi, più che
altro, è stato un diversivo per trascorrere, immersi nella selvaggia
natura, una bellissima giornata d'autunno, una giornata diversa dalle
solite, che a volte possono essere anche noiose e noi pensionati, non
sappiamo che cosa fare oltre che a leggere il giornale al Bar o a casa
propria, mentre qui, fra questa massa omogenea di conoscenti e non
conoscenti, fra queste colline illuminate da un tiepido sole autunnale,
fra questi antichi boschi, dove la natura è rimasta sempre la stessa,
si respira una boccata d'aria diversa, si parla con gli amici e si
conoscono dei nuovi, insomma, è stata una giornata da ricordare. Ma
dopo la bellissima passeggiata, immersi nella meravigliosa natura, come
diceva un fraticello francescano: "Che dopo la mistica viene la
mastica". Quindi, subito dopo mezzogiorno, i due grossi torpedoni,
hanno fatto ritorno nel parcheggio di Zocca, perché al Ristorante Joly,
che è sito nel centro storico del borgo, che era in festa per la "
Sacra del paese", ci stavano aspettando per il pranzo sociale. I cento
escursionisti mantovani, abbiamo preso posto in due lunghe tavolate in
un salone del ristorante. Sul volto degli escursionisti si notava tanta
allegria e felicità, nell'essere tutti riuniti a festeggiare quel
giorno di festa, fuori, in un ambiente diverso e con tanta gente di
diversa estrazione sociale. Abbiamo rivisto i vecchi amici, con i quali
abbiamo a lungo conversato e soprattutto brindato a giorni migliori.
Nei ristoranti, negli alberghi come sulle navi, i pasti costituiscono
una vera e propria cerimonia rituale strettamente codificata. Un bravo
osservatore, può osservare uno spettacolo affascinante, e spesso
desolante, vedere quelle coppie e quelle famiglie ingerire in silenzio,
con gesti forzati, su tovaglie impeccabili, un cibo universale, da cui
è stato accuratamente bandito tutto ciò che può rammentare una ragione
o una stagione. Nel nostro caso rappresentava un pranzo sociale di
termine stagione escursionistica con il CRAL delle Poste di Mantova, ma
anche qui, nel nostro piccolo, abbiamo osservato alcuni commensali, che
rozzamente si ingozzavano, bevendo a profusione e mentre altri si
comportavano molto educatamente come richiede l'etichetta del vivere
civile. La nostra non vuole essere una critica, assolutamente no, ma
una semplice constatazione e nulla più. Al termine del banchetto, con
allegria, rinnovando la nostra amicizia, abbiamo alzato il bicchiere e
abbiamo brindato alla salute di tutti noi escursionisti, con la
speranza di ritrovarci al più presto in un'altra località turistica, ma
per essere soddisfatti non ci vogliono molte cose, ma bastano soltanto
un poco di felicità e di allegria, dimenticando le brutture della vita.
In questo panoramico ristorante che sorge al centro di Zocca, immerso
in un meraviglioso paesaggio autunnale del Parco, mi ha richiamato agli
immortali versi del Decamerone di Giovanni Boccaccio:
" Chi vuol essere lieto sia,
Di domani non c'è certezza".
Uscendo dal ristorante, tutti gli escursionisti ci siamo sparpagliati
per le vie del piccolo borgo montano di Zocca, che era in festa per la
Sacra del paese, dove era invaso da una miriade di bancarelle di ogni
genere, dalla frutta agli oggetti di antiquariato, ma quello che ci ha
attratto maggiormente, è stata una grande padella, posta su di un
grande fuoco, al centro della piazza, con molti montanari che facevano
cuocere le caldarroste e subito dopo erano distribuite ai turisti ivi
convenuti. Anche noi ci siamo avvicinati al grande focolare per avere
la nostra razione delle saporite caldarroste. Abbiamo visto moltissimi
turisti, che come noi, sono giunti da ogni parte dell'Emilia Romagna e
delle province limitrofe. Per le strade affollate da una folla
omogenea, abbiamo visto anche la banda musicale sfilare ed eseguire
brani musicali di importanti maestri musicisti. Insomma, abbiamo
trovato un paese in festa e una folla felice di trascorrere una
giornata diversa dal solito. Verso le ore 17: 30, gli escursionisti
mantovani abbiamo raggiunto il parcheggio degli autobus, per ripartire
alla volta di Mantova. Lungo il viaggio di ritorno, abbiamo ammirato un
paesaggio pittura, un paesaggio colorato con i colori dell'autunno.
Quella visione ci ha fatto rammentare che l'anno precedente, in una
località vicina a Zocca, che fa parte del Parco faunistico di Rocca
Malatina, dove con il CAI di Mantova, abbiamo festeggiato, la festa
sociale. Sul filo della memoria ci vogliamo soffermare, per raccontare
e descrivere quel paesaggio fantastico dei Sassi di Rocca Malatina, ma
prima di addentrarci in quel paesaggio bellissimo, che la natura, in
milioni di anni, ha saputo creare nella sua meravigliosa bellezza,
dobbiamo iniziare a raccontare un po' di storia di questi luoghi. E lo
facciamo, incominciando a parlare della storia della Pieve Romanica, di
questo monumento che si trova inserito all'interno del Parco.
LA PIEVE.
La documentazione archeologica per il medio bacino del Parco, frutto
esclusivo di ricerche ottocentesche, è piuttosto scarsa e la presenza
dell'uomo è attestata solo in località marginali del parco stesso.
Tra i monumenti superstiti è appunto la Chiesa Romanica di Trebbio, che
riveste notevole importanza soprattutto per la ricchezza dell'arredo
scultorio, la cui fondazione, dalla tradizione popolare, è attribuita a
Matilde di Canossa. La Chiesa è dedicata a S: Giovanni Battista, è
documentata come Pieve solo nel XII secolo. La località di Trebbio è
probabile che derivi dal latino trivium, incrocio di tre vie. La Pieve
godette di una florida situazione economica e di notevole potere: pare
accertato che fosse dotata da una collegiata di canonici e che già nel
1291 avesse 19 cappelle dipendenti. I due piccoli villaggi ai piedi dei
Sassi facevano parte di un vasto sistema fortificato disposto attorno
alla Pieve di Trebbio e ai Sassi stessi. Lo storico Mucci ne parla come
di "uno dei più singolari insediamenti della nostra montagna", così
descrivendoli: I tre macigni di arenaria, fortezze naturali protette da
un'unica scogliera, grotte, forni e perfino ampie camere, che ci
ricordano il complesso archeologico e storico, con le chiese rupestri
della Cappadocia, in Turchia, che nel mese di aprile di quest'anno,
abbiamo visitato, in tutta la loro stupefacente e meravigliosa
bellezza.
I Signori di questo complesso furono sicuramente i Malatigni, dal
soprannome Malatigna ( malvagia tignola), di cui si ebbe notizia nel
1170. Nelle vicende storiche militari, essi si schierarono
alternativamente con Bologna e con Modena. Il 1405 segnò la fine della
carriera feudale dei Malatigni e anche il periodo di splendore della
Pieve.
Le borgate intorno ai Sassi lentamente si spopolarono ( nel 500 erano
quasi deserte). Le opere di fortificazione caddero e le rocce dei Sassi
furono utilizzate come cave di pietra. Nemmeno la Pieve di Trebbio
furono risparmiate. L'incuria di cappellani e affittuari aggravò la
generale situazione di decadimento. Nel 1726 iniziarono i lavori di
riparazione che la trasformarono in un edificio di stile barocco. La
chiesa attuale, che abbiamo ammirato per la sua bellezza
architettonica, è il risultato di molti rimaneggiamenti, nel tentativo
di ritornare alla chiesa romanica. Molte parti furono rifatte, aggiunte
e completamente ricostruite: la facciata, il sarcofago sopra il portale
e il battistero, costruito con pietre di recupero della facciata per
contenere la preziosa vasca battesimale. Nonostante queste arbitrarie
ricostruzioni, la Pieve è ancora luogo pieno di fascino, sia per la
bella posizione appartata, sia per la mole severa. All'interno della
Pieve, oltre all'architettura Romanica, ci siamo soffermati ed ammirato
un prezioso organo a mantice, probabilmente del 700, che secondo noi,
avrebbe molto bisogno di essere restaurato.
Dopo la visita di questa splendida Pieve, molti dei nostri amici, hanno
effettuato il giro dei due Sassi della Rocca di Sotto e di Sopra,
raggiungendo alla fine della breve escursione al ristorante.
Incominciamo a dire che i " Sassi di Rocca Malatina", sono un fenomeno
geologico dall'aspetto veramente spettacolare. Essi sono arditi guglie
di arenaria, alte fino a 70 metri, le cui ripide pareti creano un
suggestivo contrasto con le ondulate colline circostanti, dove si
produce un eccellente vino. La geologia che studia questi fenomeni, ci
dice che, quaranta milioni di anni fa l'Appennino Tosco- Emiliano era
occupato, come è successo anche per le meravigliose Dolomiti,
dall'oceano della Teide. I sedimenti marini accumulati sui fondali
iniziarono lentamente a sollevarsi e a spostarsi da Sud Ovest verso
Nord- Est ( l'attuale Liguria, verso l'Emilia) Le rocce dei Sassi, dove
noi del CAI di Mantova, abbiamo effettuato l'escursione di fine
stagione escursionistica dello scorso anno, per festeggiare con il
pranzo sociale, sono quindi da considerarsi di origine marina, chiamate
anche Epiliguridi per via della provenienza. Le guglie recano i segni
dello spostamento nelle grandi fratture e nella posizione quasi
verticale degli strati rocciosi. Una volta emerse le rocce sono state
modificate dal vento e dall'acqua fino ad assumere l'attuale aspetto a
pinnacolo. Quello che noi siamo andati a vedere, tuttavia, è solo uno
stadio dell'evoluzione geologica che, nel tempo e nello spazio, porterà
ad ulteriori modellamenti.
Nel territorio del parco le erte pendici boscose e le rupi, tra cui
quelle singolarissime dei Sassi, contrastano in maniera evidente con le
ampie aree sottostanti, dolcemente prative e calanchive. L'accostamento
di morfologie collinari tanto dissimili lungo un medesimo versante è
legato alla peculiare ossatura geologica dell'Appennino emiliano,
frequentemente caratterizzata dal contatto tra rocce a diverso grado di
erodibilità. Le arenarie che formano le maestose rupi di Monte Guerro e
quelle pronunciatissime dei Sassi sono, invece, visibilmente più
resistenti all'erosione: le loro particelle grossolane sono saldamente
cementate. La giacitura degli strati lungo i versanti puó presentarsi
per lunghi tratti a reggipoggio, come nelle pareti occidentali dei
Sassi, offrendo la massima resistenza ai processi erosivi e franosi.
I complessi argillosi
Le argille che affiorano nel territorio del parco appartengono ai
tipici complessi rocciosi, in prevalenza argillosi, che caratterizzano
gran parte dell'Appennino emiliano. Particolarmente significativo é il
loro assetto caotico, reso evidente dal colore variegato, in cui
argille e altre rocce appaiono mescolate assieme. Anche a distanza é
facile osservare lungo gli affioramenti l'accostamento di argille di
colore rosso, grigio chiaro, grigio scuro, verdastro, bruno, nelle
quali sono dispersi frammenti di altra natura rocciosa che hanno in
comune l'origine lontana.
La sedimentazione di questi terreni é, infatti, avvenuta, durante il
Cretaceo superiore (intorno a 90 milioni di anni fa), in ambienti di
mare profondo prossimi all'antico Oceano Ligure, il piccolo braccio
oceanico dalla cui chiusura ha avuto origine l'Appennino; per questo
sono chiamati Liguridi.
Le arenarie dei Sassi
Leggiamo in un contesto geologico, che le particolari arenarie che
hanno originato gli imponenti torrioni dei Sassi sono composte di
granuli molto grossolani, che si possono distinguere bene anche
osservando un campione a occhio nudo: sulle superfici scabre, spesso
nascosti da chiazze bianche di licheni crostosi, spiccano i granuli di
quarzo grigio chiaro e di aspetto vetroso, e si possono distinguere
quelli feldspatico bianco latte, mentre più rare sono le particelle
scure di altri piccoli frammenti rocciosi. Le arenarie quarzose dei
Sassi, un tempo note come Molasse dei Sassi di Rocca Malatina, prendono
il nome di Arenarie di Anconella, dalla omonima localitá del bolognese
dove esemplari affioramenti ne costituiscono il riferimento
stratigrafico ufficiale. Le Arenarie di Anconella sono osservabili in
una fascia abbastanza continua, che dai fianchi dirupati di Monte
Guerro abbraccia i Sassi, la zona di Castellino delle Formiche e le
pendici in cui é modellato il Dito di Siamone.
Fauna del Parco.
All'interno del Parco, abbiamo potuto apprendere e nello stesso tempo
osservare una notevole varietà di ecosistemi: i boschi, i coltivi, le
rocce, le grotte, i corsi d'acqua. Tali ecosistemi ospitano popolamenti
animali caratteristici, costituiti da specie che si sono adattate nel
corso dell'evoluzione. Numerose specie hanno subito ovunque una forte
diminuzione, ma alcune di loro trovano ancora rifugio e condizioni
ottimali di vita proprio nel territorio del Parco; non mancano specie
che stanno ampliando il loro a reale, come gli ungulati in genere.
Esaminando la fauna dei diversi ambienti, è facile notare come in
alcune situazioni l'intervento dell'uomo influisco pesantemente sulla
distribuzione e sulla consistenza delle varie specie. Alcune aree
boscate sfruttate intensamente in passato, i campi coltivati e le zone
antropizzate, ospitano ad esempio una fauna piuttosto povera di
elementi interessanti. Viceversa, i rari ecosistemi forestali più
vicini alla naturalità, i tratti più integri dei torrenti montani, gli
stagni, le grotte e le pareti rocciose più aspre offrono ancora rifugio
a specie particolarmente interessanti come il Gambero d'acqua dolce, il
Geotritone e il Falco pellegrino.
Flora e vegetazione
Nella nostra breve escursione sui sentieri del Parco, abbiamo visto che
il paesaggio vegetale del Parco tradisce la sapiente e metodica azione
dell'uomo: i prati stabili attraversati da filari di ciliegi e
piantate, i seminativi e le vigne hanno nel corso dei secoli occupato
le aree a minore pendenza e meglio esposte, relegando i boschi nei
punti meno favorevoli. Un elemento di transizione è la presenza di
lembi di castagneto da frutto, con piante anche secolari. In tali aree
oltre al castagno compaiono la Ginestra dei carbonai, la Felce Aquilina
e, più localizzati, il Brugo Arboreo. Ben rappresentato è il livello
arbustivo con Ginepro, Sanguinello, Biancospino e diverse leguminose
(Ginestra odorosa, Citiso a foglie sessili e Vescicaria). Nel cuore
dell'Area Protetta il bosco sfuma in una macchia arbustata dove
affiorano le dirupate pareti arenacee dei Sassi. L'elevata pendenza, la
scarsità di suolo, e le ampie escursioni termiche limitano la
vegetazione a una copertura rada e discontinua, con piante che spesso
presentano precisi adattamenti alla vita rupicola: tra le più comuni
Ginestra, Ginepro, Elicriso e, particolarmente abbondante sulle pareti
a sud, l'Erica arborea che in primavera si copre di piccoli fiori
bianco perlacei. Sulle rocce compaiono anche alcuni alberi: Castagni ma
soprattutto Roverelle e Ornielli, con esemplari dalla chioma ridotta e
dal tronco contorto, oltre a diverse specie del genere Sedum. Tipiche
di questi ambienti sono anche specie aromatiche come Assenzio e Timo.
La morfologia dei Sassi determina una grande diversità nelle condizioni
microclimatiche, sui versanti più ombrosi e umidi vegetano il Faggio e
il Mirtillo solitamente presenti a quote molto elevate.
Felce Aquilina e, più localizzati, il Brugo Arboreo. Ben rappresentato
è il livello arbustivo con Ginepro, Sanguinello, Biancospino e diverse
leguminose (Ginestra odorosa, Citiso a foglie sessili e Vescicaria).
Nel cuore dell'Area Protetta il bosco sfuma in una macchia arbustata
All'interno del Parco è possibile osservare una notevole varietà di
ecosistemi: i boschi, i coltivi, le rocce, le grotte, i corsi d'acqua.
Tali ecosistemi ospitano popolamenti animali caratteristici, costituiti
da specie che si sono adattate nel corso dell'evoluzione. Numerose
specie hanno subito ovunque una forte diminuzione, ma alcune di loro
trovano ancora rifugio e condizioni ottimali di vita proprio nel
territorio del Parco; non mancano specie che stanno ampliando il loro
areale, come gli ungulati in genere. Esaminando la fauna dei diversi
ambienti, è facile notare come in alcune situazioni l'intervento
dell'uomo influisco pesantemente sulla distribuzione e sulla
consistenza delle varie specie. Alcune aree boscate sfruttate
intensamente in passato, i campi coltivati e le zone antropizzate,
ospitano ad esempio una fauna piuttosto povera di elementi
interessanti. Viceversa, i rari ecosistemi forestali più vicini alla
naturalità, i tratti più integri dei torrenti montani, gli stagni, le
grotte e le pareti rocciose più aspre offrono ancora rifugio a specie
particolarmente interessanti come il Gambero d'acqua dolce, il
Geotritone e il Falco pellegrino. I famosi Sassi, come ci ricorda la
storia geologica, sono emersi migliaia di anni fa dal profondo del mare
della Teide, come del resto è successo per la formazione delle
meravigliose montagne dolomitiche.
Anche l'anno scorso, come è successo oggi a Zocca, prima che ci fosse
servito il pranzo, ci siamo fatti un giro nelle due sale da pranzo,
dove avevano preso posto i nostri amici commensali, per salutare tutti
quelli che non avevamo potuto salutare durante l'escursione del
mattino. Possiamo dire che c'eravamo quasi tutti ed erano tutti felici
di essere saliti fin lassù, oltre che per scoprire un paesaggio
fantastico, un paesaggio diverso di quello dolomitico, al quale siamo
affezionati e abituati da sempre. Abbiamo rivisto e salutato con grande
piacere i vecchi amici, che non vedevamo da molto tempo e con loro
abbiamo brindato all'amicizia. Si, è proprio così, perché l'amicizia
vuol dire stare e socializzare con gli altri, e vivere in sintonia con
la meravigliosa natura sui sentieri alpinistici e appenninici come la
passeggiata di oggi, su queste colline ondulate e di grande bellezza
paesaggistica. La filosofia significa amicizia, socializzazione e
soprattutto sviluppare rapporti interpersonali in modo costruttivo con
gli altri, e dove meglio di un'escursione come questa, ma soprattutto
in questo giorno di festa al cospetto di questi stupendi Sassi
arenarie, e colline degradanti verso l'infinito che fecero la storia di
questi paesi barbicati sui costoni dell'Appennino Tosco Emiliano.
Quindi, un bicchiere dopo l'altro per festeggiare, come scriveva il
grande scrittore e carissimo amico da alcuni anni scomparso Mario
Soldati, è quello che ci vuole, come del resto sta succedendo oggi a
noi in questa località sperduta fra i declivi di questi Sassi e colline
incantate, dove regna la pace, la serenità ed il silenzio ovattato dai
rumori. Mentre con Adriana, Marisa e Fabio, sorseggiavamo lentamente
questo nettare dei colli dei Sassi, osservavo il volto di ogni
commensale e mi accorgevo sempre più che oltre ad esseri euforici,
erano felici di vivere in sintonia con la natura e in accordo con
l'armonia dei sentimenti e gli ideali fra gli altri amici. Ho compreso
inoltre una sola cosa, che l'amicizia è un bene prezioso, un sentimento
che accomuna tutte le persone, indifferentemente dalla loro posizione
sociale, ma un vecchio proverbio dice che non è mai troppo tardi per
scoprire le cose belle della vita come l'amicizia. Non ci stanchiamo
mai di ripetere che l'amicizia è una di quelle forme spontanee in cui
si manifesta la solidarietà tra gli uomini. L'amicizia è il legame di
affetto che si stabilisce tra due e più persone, sulla base della
comprensione spirituale, della confidenza, della stima reciproca e con
l'esclusione dell'utile (almeno come scopo diretto).
L'amicizia è una delle occasioni in cui più facilmente si percepisce
l'esigenza umana di solidarietà, di vicinanza di altri esseri, simili a
noi per pensieri e atteggiamenti, il bisogno d'affetto, di
approvazione, da parte degli altri. Una delle contraddizioni più
stridenti della nostra epoca è data dalla condizione in cui si trova a
questo proposito l'uomo moderno: mentre mai come oggi gli uomini sono
avvolti da una fitta rete di comunicazioni, di parole, di immagini, di
presenze di altri esseri viventi in tutto il mondo ( telefonini, radio,
televisione, giornali, città affollate, stadi ricolmi, rapporti di
lavoro e rapporti politici) l'uomo sente come mai prima il peso di una
paurosa solitudine. Specialmente la grande città suggerisce questo
senso di vuoto, le presenze sono quelle di estranei, la folla è
anonima. Sono voci esterne, molto spesso futili, che, però non possiamo
fare a meno di ascoltare, e che mettono in dubbio le certezze del
giorno precedente. In questa zona oscura del nostro essere, in questo
buio insormontabile della certezza: la saggezza è messa in crisi
dall'ambizione la serenità è continuamente aggredita dalle tentazioni;
le passioni si fanno beffe della ragionevolezza. E il passar del tempo
anziché placarsi spalanca nuovi inquietanti interrogativi.
Noi oggi, al cospetto di questa meravigliosa natura selvaggia, ci
domandiamo, come uscire da questo vicolo cieco? Simile ad un treno in
corsa che attraversa fasci di binari, la voce dei desideri apre e
chiude gli scambi, si entusiasma e si deprime, incapace di scegliere il
binario giusto. Ma chi sarà il vero macchinista del treno? Noi
naturalmente, si, siamo proprio noi stessi, con le nostre gioie e anche
con le nostre debolezze. E allora, ben vengono questi raduni, questi
convivi, queste evasioni, questi banchetti per farci dimenticare sia
pure per un solo giorno le sofferenze e le brutture della vita.
Si, è proprio così, lo rammenta la larga partecipazione con cui il
Boccaccio contempla le vicende e i personaggi delle sue novelle che
lascia intravedere dietro di sé una prospettiva di vita raffinata e
intelligente, vagheggiata come traguardo ideale: in cui ben riflettono
le aspirazioni e le tendenze della società borghese della seconda metà
del Trecento, che veniva assumendo le idealità e le norme di decoro e
gentilezza della civiltà cavalleresca e cortese, adattandole alla
realtà e alle esigenze della vita comunale. Allo spirito di questa
società è legato anche quel atteggiamento ottimistico e positivo che
esalta i valori terreni e mondani e induce a un'aperta fede nella
capacità dell'uomo a dominare la realtà e se stesso, che la critica
odierna sottolinea nel Boccaccio, indicandola come base della sua
ardita e duttile accettazione delle vicende umane: così tutte le
novelle - quella più congeniali e solidali ai suoi ideali e quelle più
estranee e lontane - trovano un proprio senso e valore profondo e si
compongono, filtrate dal vigile impegno letterario, in una scrittura
flessibile e vivace e insieme sostenuta e disciplinata secondo i
modelli della prosa d'arte latineggiante, nel variegato e realistico
quadro di un'epoca contemporanea come la nostra. Quindi, fare festa,
vuol dire manifestazione di gioia, di allegria e di giubilo e noi
uomini della montagna, temprati alle dure fatiche, siamo saliti fin
quassù, oltre che per ammirare le bellezze di questo paesaggio
incantato e nello stesso tempo fantastico, per festeggiare la chiusura
dell'anno escursionistico. Abbiamo brindato per il buon esito delle
nostre escursioni e alle fortune delle nostre imprese alpinistiche del
prossimo anno.
All'improvviso, preso dai ricordi, non mi ero accorto che il grosso
torpedone aveva da poco lasciato le meravigliose colline e stava
viaggiando sulla grande pianura verso casa, ma guardando indietro dal
finestrino, ho ammirato ancora una volta quel paesaggio stupendo delle
colline colorate dai caldi colori dell'autunno, rischiarate da un
bellissimo tramonto. La sera calava silenziosa nelle colline colorate,
i boschi di castagne diventavano neri, l'aria e il cielo cambiavano
progressivamente colore, quasi per preparare una stupenda cornice al
dorso collinare, che stava raccogliendo l'ultimo bacio del sole.
…….In giro per la Toscana
Racconto escursionistico2 sett. 2007
Il borgo antico di sapore medioevale di Campitello era ancora immerso
nel sonno placido della notte. La luna piena era da poco tramontata
verso occidente, mentre la lucente stella di Orione mandava ancora la
sua luce purpurea, e il cielo si stendeva con quella peculiare
limpidezza di cui solo la lingua greca, con le parole etere, può darci
la precisa sensazione. L'orologio del campanile della chiesa scandiva
con quel suono argentino, colpo dopo colpo, le ore 5 del mattino.
Quindi, la notte stava per morire lasciando il posto al nuovo giorno
pieno di promesse e di attese. L'ampia Piazza Garibaldi era
completamente vuota e neppure un passante si vedeva ancora circolare.
Soltanto nell'angolo che divideva Via Vitellio con via Kennedy, il
fruttivendolo soprannominato "Il Balilla", si accingeva a scaricare le
cassette della frutta e degli ortaggi dal suo furgone, per preparare il
suo banchetto di vendita. Il "Balilla", è sempre il primo mercatino che
arriva al mercato, ci siamo accorti da molto tempo, perché quando
andiamo in gita partiamo sempre a quella solita ora. Lo salutiamo e
continuiamo oltre, per raggiungere il luogo di partenza del torpedone.
Si, perché oggi è domenica 2 settembre e come tutte le domeniche qui a
Campitello si svolge il mercato settimanale, che richiama molta gente
dai paesi limitrofi. Raggiungiamo "La Pesa", luogo di arrivo e di
partenza. Come il solito, Adriana ed io siamo sempre i primi ad
arrivare sul posto. Poi alla chetichella, ancora assonnati, spuntano
uno per volta dalle varie strade e stradelle gli amici escursionisti.
Non è possibile descrivere con parole povere la magnificenza
vermicolare del cielo ad oriente, la bellezza di quel fenomeno
dell'aurora coloratissima, che precedeva il sorgere del sole.
Il nostro viaggio da Campitello per la Verde Toscana, ha avuto inizio
alle ore 6 precise. Il mattino era di quella bellezza come sola poteva
trovarsi nelle isole della Grecia, da dove siamo appena tornate dalle
vacanze marine, trascorse nel meraviglioso golfo di Stalis, poco
distate da Heraklio, capitale dell'isola di Creta oppure sulle coste
della Sicilia.
Ammirare il paesaggio padano nelle prime luci del giorno è veramente
molto interessante. I lunghi filari di pioppi che seguono i fossati,
offre nel suo aspetto, un paesaggio di forme severe. Tutto vi è
grandioso: l'orizzonte ampio, il mare d'erba vasto, grigie sono le
tinte e la terra chiara appena arata dai potenti trattori. Qua e là, si
vedono ancora appezzamenti di granoturco, che devono essere ancora
trebbiati, ma la grande pianura Padana, non è soltanto la regione dei
colori velati dalla leggera foschia, come quella che stiamo ammirando
questa mattina, ma seguendo la " Sabbionetana" diretti a Parma, per poi
proseguire sull'Autostrada della Cisa, verso il litorale di Viareggio,
raggiungendo alle ore 9: 30 la città di Pisa, per visitare la Piazza
dei Miracoli, con i suoi gioielli che sono conosciuti in tutto il
mondo. Sul piazzale abbiamo trovato una folla omogenea di turisti
provenienti da ogni parte del mondo, quelli che si distinguevano
maggiormente erano gli asiatici, quelli popoli dagli occhi a mandorla.
Quella di ieri, per noi, non è stata la prima volta che visitiamo la
"Piazza dei Miracoli", ci siamo stati molte volte, ma la prima volta è
stata il giorno 8 settembre 1957, in occasione del nostro viaggio di
nozze. Dopo 50 anni, Adriana ed io, siamo ritornati con una squadra di
Campitellesi, per ricordare quello evento che dura ancora nel tempo.
La storia ci racconta che Pisa, per gran parte del medioevo, la marina
pisana si assicurò il dominio del Mediterraneo occidentale. Le vie
commerciali che la collegavano con la Spagna e il Nord Africa ne
fecero, nel XII secolo, una fiorente città, ponendo le basi per una
rivoluzione scientifica e culturale, che si riflette nei suoi
monumenti, quelli che ci stanno di fronte e che migliaia di turisti
stanno immortalando, come stiamo facendo noi, sulla pellicola o sul
cellulare, il duomo, il battistero e Il campanile ( torre pendente). Il
Duomo, il battistero e la torre pendente è ora il monumento più famoso
del campo dei Miracoli, ma in origine essa avrebbe dovuto essere solo
il campanile che completava il duomo. Cominciato da Brunelleschi circa
un secolo prima (1064). Oggi il duomo è uno del più bello edificio
pisano-romanico della Toscana, con quattro file di colonne e archi
ciechi sulla facciata. La tomba di Buschero si trova nell'arco sinistro
della facciata, mentre altrettanto degni di nota sono il Portale di San
Ranieri, che introduce il transetto sud e le porte bronzee (1180), con
rilievi di Bonanno Pisano, il primo architetto della torre pendente.
All'interno abbiamo ammirato e fotografato il bellissimo pulpito
scolpito da Giovanni Pisano (1302-11); la Tomba dell'imperatore Enrico
VII, di Tino da Gamaino e il mosaico di Cristo in Gloria nell'abside,
completato da Cimabue nel 1302.
Il battistero circolare, posto di fronte al duomo, fu iniziato nel 1152
in stile romanico, ma per ragioni economiche, fu terminato oltre un
secolo dopo, in stile gotico, sotto la direzione di Giovanni Nicola
Pisano. Quest'ultimo scolpì il magnifico pulpito mormorio ( 1260), con
rilievi della Natività, dell'Adorazione dei Magi, della Presentazione
della Crocifissione del Giudizio Universale. I pilastri che sostengono
il pulpito recano immagini delle virtù. Gli intarsi marmorei della
fonte battesimale (1264) sono di Guido da Como.
Il Camposanto.
Il camposanto, che si trova ubicato in fondo della Piazza dei Miracoli,
è il quarto elemento del medioevale insieme del campo dei Miracoli,
costruito nel 1278 da Giovanni di Simone. Si narra che all'interno
delle grandi arcate marmoree conservi solo terra proveniente dalla
Terra Santa.
Purtroppo le bombe della Seconda guerra mondiale distrussero tutti i
suoi straordinari affreschi lasciando solo frammenti del Trionfo della
Morte (1360-80). Per ultima, ma non per ordine di grandezza, veniamo a
parlare della torre pendente, che assieme al Duomo ed al Battistero,
compongono le tre grandi opere della Piazza dei Miracoli.
La Torre Pendente.
La Torre pendente di Pisa, fu costruita nel 1173 su una base di limo
sabbioso, la torre pendente iniziò ad inclinarsi prima che il terzo
piano fosse completamente terminato. Nonostante le fondamenta poco
profonde l'edificazione continuò fino al 1350, quando il campanile fu
completato. Il fatto che la torre sembri beffare le leggi di gravità,
ha attirato visitatori per secoli, e tra questi Galileo, che qui ha
condotto l'esperimento sulla velocità di caduta degli oggetti. Negli
ultimi anni l'inclinazione della torre, che ora supera i 5 metri, ha
incominciato ad allarmare gli scienziati che stanno cercando un modo
per stabilizzarla.
Nella visita che abbiamo effettuato circa 15 anni fa, attorno alla
Torre vi era un vero e proprio cantiere, con apparecchiature vari e
tali lavori continuarono per parecchi anni. Nella visita di ieri, non
abbiamo travata alcuna traccia di quel cantiere, ma a giudizio di noi
profani, non abbiamo notato alcun miglioramento, ci è sembrato che non
ha subito alcuna modificazione della sua originale pendenza.
Sicuramente sono state eseguiti interessanti lavori, che durarono molti
anni, per consolidare il terreno sottostante dove appoggia il
bellissimo monumento.
Terminata la visita alla Piazza dei Miracoli, i 54 escursionisti che
comprendevano il gruppo dei campitellesi, abbiamo raggiunto la
periferia della città di Pisa, con l'automezzo navetta, dove erano
parcheggiati i pullman dei visitatori. Dopo di aver sorbito un bon
caffè al Bar delle corriere, ha avuto inizio il nostro lungo viaggio,
che attraversando le bellissime colline verdi, del senese, dopo
Monteriggioni, che è una splendida cittadina collinare di origine
medioevale, che fu costruita nel 1203 e che dieci anni più tardi
divenne sede di presidio. E' completamente circondata da alte mura con
14 torri fortificate, innalzate a guardia dei confini settentrionali
del territorio di Siena, contro l'invasione dei fiorentini. Dante
ricorda Monteriggioni nel suo inferno, con la similitudine della
"cerchia tonda" della cittadella che "…. Di torri si corona" con i
giganti nel fossato. La miglior vista delle mura, in perfetto stato di
conservazione, si gode dalla strada di Colle di Val d'Elsa. La
tranquilla città è costruita di una grande piazza con una graziosa
chiesa romanica, poche case, un paio di botteghe artigianali,
ristoranti e negozi che vendono molti dei vini di produzione locale.
Questa cittadina ci ricorda che il 9 novembre del 1997, con gli amici
del CAI di Mantova, siamo stati invitati a partecipare alla lunga
camminata commemorativa da Colle di Val Densa fino alla Piazza del
Duomo di Siena, percorrendo il vecchio sentiero della Frangigena o
Romea, a traverso il quale i pellegrina provenienti da Canterburi,
raggiungevano Roma.
La località del Colle di Val d'Elsa, possiamo dire, che sorge a circa
una ventina di chilometri dalla città storica di Siena ed è una
località dove si produce un'ottima qualità di vino senese. Quindi,
ancora pochi silometri ed eccomi a Siena, ma prima della mistica, come
recita un antico proverbio francescano, viene la mastica. Infatti,
eravamo attesi, in una silenziosa località, in mezzo al verde, che
sorgeva sotto le mura della famosa Piazza del Campo, dove due volte
l'anno si svolge il famoso Palio di Siena, nel " ….giardino dei Pecci",
da dove si poteva ammirare la bellissima Torre del Mangia, che con la
sua punta caratteristica buca il cielo. In questa località senza
pretese, sorge un ristorantino solitario, dove ci è stato servito un
ottimo pranzo. Per raggiungere questo solitario ristorante, bisogna
percorrere un lungo sentiero che attraversa il vecchio e in disuso
ospedale psichiatrico di Siena: una discesa molto ripida, che
attraverso una campagna verde. Nel ritornare in città, dopo il pranzo,
abbiamo percorso un altro sentiero molto ripido, attraverso il quale si
percorre un sentiero sterrato e poi una serie di scale e scalette, che
ci hanno portato alla grande e famosa Piazza del Campo. Senza dubbio,
quella ripida passeggiata, a stomaco pieno, ci ha sollecitato e ad
alcuni altri bloccato la digestione. All'ombra della Torre del Mangia,
che è la seconda tra le torri medioevali più alte d'Italia, c'era ad
aspettarci la guida locale: la simpatica signorina Giovanna, che ci ha
illustrato i vari monumenti della città. Noi, cioè Adriana ed io, non è
la prima volta che approdiamo nella città di Siena, infatti, siamo
andati molte volte e la conosciamo molto bene. Possiamo dire che le
attrattive principali di Siena si trovano tutte nel labirinto di
stradine e vicoli che si snodano attorno alla celebre piazza del Campo,
a forma di ventaglio. E' una tra le più grandi piazze medioevali
europee ed è posta nel cuore delle 17 contrade cittadine, le cui
antiche rivalità si riaccendono due volte l'anno in occasione del
rinomato palio. I simboli dell'araldica contraiola fanno bella mostra
di sé su bandiere e insegne per tutti i rioni. Siena sorge in posizione
collinare: innumerevoli sono gli angoli nascosti e i panorami inaspettati
che si scoprono camminando per le sue vie e violetti.
Nel parlare di Siena, ci vogliamo soffermare maggiormente a parlare
sulla famosa Piazza del Campo, che è la Piazza più amata d'Italia e
occupa il sito di un antico foro romano, perché la città di Siena, è
appunto una figlia di Roma: per molto tempo fu il principale luogo di
mercato cittadino. Cominciò ad assumere la sua forma attuale nel 1293,
quando il Consiglio dei nove, l'organo di governo, diede inizio
all'acquisto di terra per la creazione di una grande piazza civica. Ci
siamo fermati ad osservare la pavimentazione in mattoni rossi e che è
iniziata nel 1327 e completata nel 1349: i suoi nuovi caratteristici
settori riflettono l'autorità del Consiglio dei nove ed alludono al
manto protettivo della Madonna. La piazza è da sempre il centro della
vita cittadina: è stata in passato teatro di esecuzioni capitali, di
tauromachie e del celeberrimo palio, la corsa di cavalli che si tiene
tuttora due volte l'anno, quella del 2 luglio e il 16 agosto.
Attraversando la città, abbiamo incontrato gli sbandieratori della
contrada dell'Oca, che ha vinto il palio del 16 agosto di quest'anno.
Una grande folla seguiva il corteo colorato al suono dei tamburi e si
accodava a quella lunga processione in costume. Per quaranta giorni,
tutte le domeniche si ripete questa caratteristica e tradizionale
festa.
Dopo Piazza del Campo, attraversando la città tra carruggi e strabelle
e ci siamo diretti verso il Duomo di Siena(1136-1382) che è uno dei più
grandi d'Italia, uno spettacolare insieme di sculture, pitture e
architetture romaniche gotiche di influenza pisana. Tra i tesori del
Duomo figurano capolavori scultorei di Nicola Pisano, Donatello e
Michelangelo. Ci siamo soffermati ad ammirare l'elegante pavimento
intarsiato e un magnifico ciclo di affreschi del Pinturicchio. Abbiamo
fotografato i pannelli del pulpito di Nicola Pisano, con l'aiuto di
Arnolfo di Cambio e del figlio Giovanni, i pannelli del pulpito
ottagonale rappresentano scene della Vita di Cristo. Appena fuori del
tempio, la guida si è fermata a spiegarci l'opera rimasta in compiuta,
relativa all'edificazione di una nuova navata, - ella continua dicendo
- "se i progetti fossero giunti a compimento, si sarebbe realizzata la
chiesa più grande della cristianità. I progetti furono però abbandonati
quando la peste del 1348 dimezzò la popolazione cittadina". Per ultimo
abbiamo ammirato la grandiosa facciata, dove abbiamo saputo che molte
statue sono state sostituite con delle copie; gli originali sono
conservate al Museo dell'opera del duomo.
La nostra escursione nel centro storico di Siena, era praticamente
terminata, bisognava raggiungere i giardini pubblici dove sorgeva la
grande muraglia dell'antica fortezza, dove era fermo il nostro pullman,
per fare ritorno al nostro minuscolo borgo padano.
Nel complesso, possiamo dire, che la nostra escursione " in giro per la
Toscana, è stata positiva, ma soprattutto molto istruttiva sia dal
punto di vista storico-artistico e paesaggistico. Perché oltre ai
meravigliosi monumenti, abbiamo ammirato quel paesaggio pittura, che
solo la Verde Toscana, ci ha saputo regalare. Uscendo dalla città, ci
siamo immessi sull'Autostrada Siena- Firenze- Bologna. Viaggiare su
quella direttrice, è un susseguirsi di panorami incantevoli e
sensazioni suggestive, quasi al limite dell'irreale. Giunti
sull'Appennino Tosco Emiliano, e precisamente a Pian del Voglio, il
nostro torpedone si è fermato in un'ampia piazzola, mentre gli addetti,
come di solito si fa, hanno preparato un piccolo banchetto, dove
facevano bella mostra di sé i panini al salame, le bottiglie di vino ed
altre bevande. In poche parole abbiamo fatto un simpatico spuntino
ristoratore. E'da sempre risaputo, che prima di riprendere o portare a
termine un'escursione molto lunga come quella che abbiamo effettuato
noi, è necessaria una sosta tecnica, per mettere a posto l'apparato
digerente e non c'era posto migliore che l'Appennino Tosco emiliano,
con i suoi meravigliosi paesaggi, da dove l'occhio poteva spaziare
all'infinito. Dopo lo spuntino, la maggior parte degli escursionisti,
stanchi della lunga giornata si sono lasciati andare fra le braccia di
Orfeo, il dio del sonno. Un vecchio proverbio cinese, così recita:
"L'ultimo chiude la porta, mentre il pesante torpedone, continuava la
sua lunga corsa ad andatura turistica verso il piccolo borgo padano di
Campiello.
La macchina per scrivere
Alcuni giorni fa, sul Corriere della Sera, abbiamo letto una curiosa
classifica degli oggetti di uso comune che fino a pochi anni fa, erano
adoperati dalla maggior parte delle persone in tutto il mondo. Di questi
oggetti, è stata fatta una classifica: "Che ci manca di più? Come per
esempio nella grande metropoli di NEW YORK - Che cosa hanno in comune le
cabine telefoniche, le sigarette, i 33 giri, le macchine per scrivere,
Michael Jackson e la carta carbone? Fanno tutti parte della Top 25 di
"oggetti e persone in via d'estinzione" appena pubblicata da Usa Today.
L'hit parade è l'ultima di una lunga serie ideata dal quotidiano più
diffuso d'America per festeggiare il suo venticinquesimo compleanno, che
cade il prossimo 15 settembre. Dopo aver scelto "le 25 persone più
influenti degli ultimi 25 anni" e "le 25 organizzazioni di beneficenza più
importanti del Paese", Usa Today si cimenta con la nostalgia. La sua
classifica parte dal fumo in ufficio, al primo posto ("Un tempo i posti di
lavoro assomigliavano a ciminiere - scrive Usa Today - Oggi chi ha il
vizio è confinato all'aperto, come succede anche nel nostro Paese, grazie
al Ministro Sirchia, anche se piove o nevica") e prosegue con l'Unione
Sovietica, terza subito dopo le "stazioni di servizio" ("In America ormai
non sono altro che l'ennesimo shopping center").
La giornalista americana Alessandra Farkas, nel suo articolo così scrive:
Pare incredibili, ma ormai ci siamo abituati - che oggetti del nostro
vivere quotidiano soltanto fino a qualche anno fa, oggi hanno fatto la
stessa fine dei dinosauri. A partire dalle macchine per scrivere, ormai
relegate ai musei di design, per arrivare ai 33 giri, detronizzati da cd e
mp3. Estinta anche la carta carbone, (e chi l'avrebbe mai detto nell'era,
relativamente recente, pre-fotocopiatrice a basso prezzo?). Sembra ieri
che per fissare un appuntamento con gli amici si componeva il loro numero
sul telefono a disco, ormai irrimediabilmente archiviato, insieme alle
radio transistor (antenate dei Pod) e ai video su MTV, ormai introvabili
nella versione americana del canale musicale. In disuso, non solo in
America, anche le cabine telefoniche ("dove un tempo Superman si
nascondeva per cambiarsi d'abito") e la cortesia, "spazzata via",
sentenzia Usa Today, dall'era del trash tv, tutta insulti, parolacce ed
invettive".
In via d'estinzione, grazie agli sforzi degli ecologisti, anche la benzina
al piombo, messa al bando in America verso la metà degli anni 90. Per
sempre congelato è purtroppo anche il rinoceronte nero dell'Africa
occidentale, che nonostante le crociate per salvarlo da parte degli
ambientalisti è stato dichiarato estinto l'estate scorsa dal World
Conservation Union. Dalla lista non poteva mancare poi Michael Jackson.
"L'ex re del pop ha venduto una quantità incalcolabile di dischi negli
anni 80 - ricorda Usa Today -. Ma è caduto irrimediabilmente in disgrazia
dopo il processo per pedofilia. Oggi nessuno sa con precisione dove vive,
anche se si sospetta che risieda nel Bahrain".
Si, è proprio giusta la domanda: " Che cosa ci manca di più nel XXI
Secolo? In questo secolo consumistico, telematico e tecnologico, ci manca
persino la memoria, perché ce l'hanno rubata con le nuove invenzioni
nell'epoca delle calcolatrici portatili, dei computer e dei telefonini.
Questi nuovi strumenti non ci fanno neanche pensare, perché basta un clic
in un motore di ricerca per trovare la risposta o la soluzione dei nostri
problemi, e poi, ci mancano tutte quelle cose alle quali ci affezionammo e
ci hanno seguito nelle nostre peregrinazioni, ma che abbiamo messo a
riposo in una scansia di un vecchio scaffale, sistemato in un angolo della
soffitta, per seguire, come fece Don Chisciotte della Mancia, sempre alla
ricerca di inaccessibili chimere, dimentico delle esigenze della realtà di
ogni giorno di fronte al sogno di un passato eroico e di un avvenire
favoloso. La stessa cosa facciamo anche noi, che siamo sempre alla ricerca
dei fantasmi partoriti dalla scienza. Noi, per esempio, abbiamo per forza
maggiore e per stare in linea con il nostro tempo, mandato a riposo la
nostra vecchia e cara Olivetti lettera 22, prendendo confidenza con le
nuove tecnologie, ma con l'archiviazione della vecchia e cara macchine per
scrivere, abbiamo archiviato anche una raccolta di oggetti nel tempo, come
le figurine dei calciatori, le scatole di fiammiferi, quelle che danno in
omaggio negli alberghi, come i ricordi di occasioni speciali, altre
utilitarie scartabili o meno. Gli almanacchi profumati, quelli che un
tempo regalavano i barbieri e che riproducevano le belle donnine con il
calendario, che erano dei veri e proprie opere artistiche. Adesso i
calendari li fanno le veline, le figurine o le attrici che vanno per la
maggiore. Oggi i calendari vanno di moda, li fanno anche le Forze
dell'ordine e persino le istituzioni religiose. In fine, le schede
telefoniche che raccoglievamo vicino alle cabine, che nel nostro Paese
funzionano ancora, grazie agli extra comunitari che sono appena arrivati e
che non possiedono ancora il telefonino. Questi oggetti, sono dei piccoli
tesori che abbiamo raccolto attraverso il tempo. Alcuni sono degli oggetti
che conserviamo dall'infanzia e di poco valore commerciali, ma di grande
valore affettivo, che ci ricordano la nostra fanciullezza ed il nostro
passato prossimo
Alla fine del XX secolo, probabilmente a quelli che se ne fanno gli
apologeti, la guerra come, come sempre, contribuisce potentemente al
progresso delle tecniche. Indubbiamente l'elettricità, il telefono,
l'automobile, l'aviazione esistono prima del 1914, ma è la guerra che li
fa progredire formidabilmente e li proietta nel futuro. I secoli hanno
sempre un poco più o un poco meno di cento anni. Il Settecento è breve: si
apre con la morte di Luigi XIV, nel 1715 e si chiude il 14 luglio 1789 con
la presa della Bastiglia. Dopo un intersecolo di venticinque anni, che non
appartiene né al piacere di vivere né all'agognate tempeste, né ai
filosofi né ai romantici, l'Ottocento comincia a Waterloo il 18 giugno
1815 con la caduta di Napoleone e si conclude nell'agosto 1914. La prima
Guerra Mondiale apre, con grandi squilli di trombe, il secolo della
Seconda e della paura della terza. E lo fa entrare in un mondo nuovo in
cui i discorsi di quello vecchio sono coperti delle bombe. Le classi
sociali che s'ignorano sono mescolate nella stessa fornace. Individui che
la vita quotidiana non ha mai messo insieme si incontrano e vivono l'uno
accanto all'altro. Queste miscele esplosive nutrono, in caso di vittoria,
un nazionalismo esacerbato, e in caso di sconfitta, la rivoluzione, come
succede ai nostri giorni con i pacifisti, i centri sociali e i no global,
ma è stato il XXI secolo, l'epoca delle grandi scoperte scientifiche e
tecnologiche che hanno rivoluzionato il mondo intero. L'evento della
televisione, ha aperto varie strade, dalla tecnologia alla letteratura,
all'arte e alla pubblicità, che è l'anima del commercio. Oggi, per
esempio. C'è stata l'invasione dei telefonini dell'ultima generazione, i
telefonini video televisivi e quelli fotografici, senza parlare delle
grandi scoperte spaziali. La scienza non sarebbe tale se si fermasse qui,
essa procedere a passi da giganti per il prossimo futuro. Parlando dei
telefoni, mi viene in mente l'8 Settembre 1943, quando sull'Aspromonte, i
nostri soldati affrontarono una Divisione di militari Canadesi, da poco
nostri alleati, in un duro combattimento. Se ci fosse stato un semplice
telefono a disco oggi archiviato, tanti nostri soldati non sarebbero morti
in vano. Quel otto Settembre, é mancata soltanto la comunicazione dai
comandi superiori e non il loro valore.
Lasciamo il telefono a disco e veniamo a parlare della macchina per
scrivere e della carta carbone. Le nostre prime esperienze nella
dattilografia, li abbiamo fatti con la macchina M1, la prima macchina per
scrivere prodotta dall'Olivetti nel 1911, disegnata da Camillo Olivetti,
che per la sua struttura tozza e robusta la definimmo il " cavallo di
battaglia indistruttibile", per i nuovi dattilografi. Da quando siamo
entrati a far parte della grande categoria dei sottufficiali, abbiamo
acquistato in un negozio, sito in Piazza Caricamento di Genova, l'Olivetti
portatile lettera 22, che fu disegnata da Marcello Nizzoli, nel 1950, che
oggi è esposta nella collezione permanente di design al Museo of Modern
Art di New York. Questa macchina dalla linea elegante, ci ha accompagnati
per tutta la durata della nostra carriera militare nell'Arma Benemerita.
Per alcuni anni, già in quiescenza, abbiamo continuato a scrivere i nostri
racconti con l'Olivetti 22, ma da quando l'abbiamo archiviata, assieme
alla carta carbone, è stata sostituita con il personal computer e la
stampante Epson 500 Stylus: credetemi, non è stato molto semplice iniziare
e risolvere i problemi, tanto che nei primi tempi, abbiamo incontrato
molte difficoltà, che come in tutte le cose, ci vuole molta pazienza,
applicazione e soprattutto studio, ma con la costanza e con la buona
volontà tutto si è reso più semplice. Nel corso che questi anni, spesso ci
siamo domandati, ma che cosa è il computer? Negli anni cinquanta si
trattava di macchine di dimensioni mastodontiche (lunghezze maggiori di 10
metri, pesi superiori alle 4 tonnellate), costi enormi, affrontabili solo
da istituti di tipo governativo o da grosse aziende. Allo stesso tempo,
erano macchine con una potenza di calcolo inferiore a quella di una
vecchia calcolatrice tascabile programmabile.
Un po' di storia
Com'è noto, la storia del libro inizia nell'area mesopotamica tremila anni
prima della nascita di Cristo: qui i libri erano costituiti da tavolette
d'argilla con il testo inciso e poi cotte al forno. Sempre al III
millennio a.C. si può far risalire l'uso del papiro in Egitto. In Cina si
prediligeva l'utilizzo di tessuto (in particolare la seta) in strisce
arrotolate. Altrettanto antico, ma più limitato, è stato l'uso di cuoio e
pelli animali. Le officine librarie, chiamate scriptoria, che nella Roma
antica erano numerose ed efficientissime, nell'alto Medioevo divennero
esclusiva dei monasteri. Nell'XI e nel XII secolo comparvero le prime
cartiere europee e verso il secolo XIII, con la nascita delle università,
si ebbero nuovamente officine librarie "laiche". La sempre maggiore
richiesta di libri stimolò i tentativi di produrne in maggiore quantità,
applicando dapprima i procedimenti della xilografia (1420-1425), e poi
grazie all'invenzione della stampa a caratteri tipografici mobili da parte
di Gutenberg (1445-1460). Successivamente Aldo Manuzio impose formati più
maneggevoli e comodi. Da allora il libro non ha più cambiato le proprie
caratteristiche fondamentali, pur avvantaggiandosi dei mutamenti della
rivoluzione industriale e tecnologica. Con il nostro computer, oltre che
scrivere i nostri racconti, siamo in grado d'inserire le fotografie dei
luoghi descritti ed alla fine di stampare l'intero libro, pronto per
essere rilegato e sistemato nella nostra biblioteca, oppure di inserirlo
nel nostro sito, dando la possibilità ai nostri lettori di poterlo
leggere.
Tutto ciò per quanto riguarda la versione cartacea. L'avvento di Internet
e delle nuove tecnologie ha apportato una novità decisamente interessante,
e cioè il libro elettronico (e-book).
Che cosa sono gli e-book
Il termine e-book è una contrazione dell'espressione electronic book: è il
libro in formato elettronico, che si può leggere sul personal computer o
su un apposito lettore. L'e-book può essere acquistato su supporto
magnetico o scaricato da Internet. Il lettore di e-book Ha le stesse
funzionalità di un classico libro su formato cartaceo (si possono scrivere
note, mettere dei segnalibri, evidenziare i passaggi più significativi,
etc, ma offre anche funzionalità impensabili per i libri cartacei
(cambiare la grandezza e lo stile del font, inserire dizionari specifici),
oltre a fornire un guadagno in spazio (un CD e un lettore possono
sostituire l'intera Divina Commedia).
Oggi, nella vita moderna, nell'epoca consumistica e tecnologica, non si
può fare a meno di questa macchina quasi perfetta. Ormai il computer è
come l'autostrada. Come l'auto ci consente di lavorare e di svagarci, di
visitare una mostra e persino di fare shopping. Ma a differenza delle
quattro ruote, il nostro personal computer non ha davanti a se un futuro
di ingorghi, di traffico caotico, di paralisi che spesso incontriamo nei
nostri lunghi e corti viaggi sulle autostrade e sulle urbane e in quelle
statali e provinciali. Anzi. Le nuove reti telematiche - internet e
intranet, di cui ci riserviamo di parlarne più diffusamente nel capitolo
successivo, - stanno tessendo in tutto il mondo, giorno per giorno, una
tela di comunicazione e di relazioni che ci consentirà di " spostarci" da
una parte all'altra del mondo, restando nei nostri uffici o nelle nostre
case. Il "telelavoro" è già una realtà in crescita, così come le "
vetrine" dei negozi di internet cominciano a essere sempre più
frequentate.
.Prima di avere il primo impatto con il nostro personal computer, ci siamo
documentati, leggendo i fascicoli di " Computer No Problem" - passando
dalla teoria alla pratica dei programmi. Quali sono le caratteristiche dei
programmi principali dei " motori" di queste " automobili" senza ruote,
capaci tuttavia di portarci molto lontano? Acquisire le nozioni di base,
adesso c'è bisogno d'altro ed è ciò che ci hanno offerto i numerosi
fascicoli, " Computer No Problem - dalla teoria alla pratica" Dopo le
nozioni di base cera bisogno di capire quali vantaggi pratici ognuno di
noi poteva trarre, al di là del sentito dire e delle campagne
pubblicitarie. Per noi della Terza età, non è stato molto facile e
comprensivo, ma con tanta pazienza siamo riusciti ad inserirsi in questa
grande autostrada telematica.
Oggi, siamo in grado di navigare, scrivere i nostri racconti, organizzare
un viaggio, conoscere a fondo l'opera di un pittore e soprattutto
effettuare delle ricerche storiche e culturali. Con il nuovo personal
computer "Packard Bell, di nuova generazione, dopo un po' di pratica,
riusciremo sicuramente ad esplorare quelli che ieri erano i nuovi scenari
del futuro, mentre oggi sono gli scenari del presente, come il matrimonio
tra TV e PC ( il teleputer) in un settore che è segnato da un'evoluzione
che non né più irraggiungibile come si pensava fino a qualche tempo fa:
non si fa in tempo a farsi un'opinione su ciò che conviene acquistare che
nuove tecnologie hanno già reso obsoleto il nostro computer, che abbiamo
da qualche giorno archiviato nello stesso scaffale dove è stata collocata
la vecchia e cara macchina per scrivere "Olivetti-lettera 22 "Conoscere il
futuro è ancora un'utopia, ma prepararsi ad affrontarlo è indispensabile.
Sono sicuro, che dopo un lungo tirocinio di apprendimento con il nuovo
personal computer portatile, insieme faremo un lungo viaggio alla scoperta
di nuovi motori di ricerca e navigare sulla grande ragnatela che è
l'internet. Con il quale possiamo spedire da ogni parte del mondo che ci
troviamo, i nostri reportage, le nostre fotografie più belle e le nostre
impressioni di una località o di una nuova città. Basta soltanto un clic,
che il nostro interlocutore ha già visionato ciò che noi gli abbiamo
spedito poco prima. Nei lontani tempi in cui adoperavamo la macchina per
scrivere Olivetti 22, non ci passava neppure per l'anticamera del cervello
una scoperta del genere.
Mini crociera all'isola di Santorini
Racconto escursionistico
Viaggiare, vuol dire scoprire altri paesi e soprattutto raccontare.
Un'escursione nell'isola di Santorini non potevamo non effettuarla nel
nostro soggiorno nello stupendo golfo di Stalis. Nella seconda
settimana della nostra vacanza, con alcuni amici, abbiamo deciso di
effettuare una mini e simpatica crociera giornaliera a bordo di una
motonave che tutti i giorni è in partenza dal porto di Heraklion a
Santorini, l'isola vulcanica dai pendii precipitosi, d'insuperabile
bellezza naturalistica, ritenuta la leggendaria Atlantide.
Il giorno della partenza, il telefono squillò ripetutamente molto
presto. Ancora nel cielo brillavano le stelle, mentre la luna piena
continuava ad illuminare il mare placido del golfo di Stalis. Alle ore
4 del mattino, quando il grosso torpedone ha iniziato la sua marcia
verso la città di Iraklio, verso oriente si notavano i primi flebili
bagliori dell'aurora. Fra non molto stava per incominciare il nuovo
giorno. Verso le ore 5, tutta la comitiva si apprestava a salire
sull'imbarcazione e subito dopo è iniziato il nostro viaggio verso
l'isola di Santorini. Quando stava ad albeggiare eravamo in navigazione
verso l'Egeo. Dopo aver sorbito un caffè caldo, uno di quel caffè molto
lungo che viene servono nell'Hotel. E in tutta la Grecia. Mi sono
immerso nella lettura e cercavo di documentarmi sull'isola che stavamo
per raggiungere, quando improvvisamente un raggio di luce si insinua
sull'oblò dell'imbarcazione che stava navigando in quel mare appena
increspato e rischiato dai colori del nuovo giorno. Lasciai la cabina e
con Adriana mia moglie, siamo saliti sulla tolda dell'imbarcazione per
godere di quel piacevole tepore ventilato. Non eravamo soli, altri
turisti hanno avuto la nostra stessa idea. Mentre la motonave scivolava
dolcemente su quel mare appena mosso, lasciava dietro di se una lunga
striscia di schiuma. Mi sono accorto che da un pezzo uno stormo di
gabbiani grigi dai piedi rossi ci stavano seguendo. Dopo di averci
raggiunti, giravano a bassa quota sopra la tolda del natante e di tanto
in tanto, si buttavano in picchiata, per prendere al volo sulle mani
tese dei turisti i pezzettini di pane. Molti dei turisti li hanno
immortalati sul telefonino. Solo a vederlo, è stato uno spettacolo
irripetibile. Queste docili creature, che vivono in simbiosi con il
mare, ci hanno seguiti fino al piccolo porto di Cantorini.
Percorrendo i vicoli e le stradine dell'isola vulcanica, ci ha
investiti un'emanazione di un accecante biancore calcinato di muri,
foriero di odori di erbe secche e riarse, il raggio di una luce
inconfondibile e assoluta: la luce di Cantorini. Una luce che non trova
ostacoli lungo il brullo profilo di pinnacoli e montagne vulcaniche
dell'isola e si irradia diffusa, riflessa dal mare, dalle case, dalla
limpidezza adamantina del cielo, una luce senz'ombra, neppure
minimamente intaccata nella sua purezza dalle mille macchie di colore
delle bougainville, dei gerani, delle begonie, non scalfita dai blu,
dai verdi, dai rossi delle finestre, delle porte e delle ringhiere
delle case. In quest'isola baciata del sole ne avevamo sentito parlare
l'anno scorso, quando eravamo a Rodi. Passeggiare tra le strette vie
lastricate con pietre dalle fughe imbiancate del capoluogo significa
scoprire che la spessa mano di calce con cui prima di ogni estate gli
abitanti ripassano i muri delle case e delle chiese disseminate nel
borgo fa acquisire alle cose morbidezza e intensità nuove, ne
addolcisce gli spigoli. Abbiamo lasciato il bianco borgo, con le sue
stradine e violetti infiorati e abbiamo raggiunto la sommità ( 400
metri di dislivello del mare) da dove si può godere una vista
meravigliosa e a dir poco magnifica dell'Egeo. Si possono visitato gli
scavi Minoici dell'isola, oppure andare col caicco( il caicco è una
piccola nave di piccolo cabotaggio turco con prora slanciata, poppa
molto alta, attrezzato con un albero e vela a tarchia e fiocco: era
impiegata soprattutto nel Bosforo per il trasporto di persone.
Generalmente è attrezzato con due alberi, con una vela latina ciascuno)
al cratere sommerso del vulcano. L'escursione è stata molto lunga e
direi altrettanto faticosa, specialmente per Adriana ed io, ma la
bellezza di questo luogo ci ha ripagato dalla fatica. Per noi vecchi
alpinisti, amanti della montagna, è come salire sulle vette delle
nostre meravigliose Dolomiti, soltanto che dalle cime dolomitiche si
ammira le bellezze delle cime montuose e innevate più belle del mondo,
ma dal cratere si ammira la vastità del mare azzurro dell'Egeo, dove
l'occhio si perde e si fonde con la grandiosità del cielo e del mare.
L'isola vulcanica di Santorini assume una forma a spicchio in seguito
all'eruzione del 1450 a, C., fu ribattezzata Santorini dai veneziani
che la conquistarono nel XIII secolo, dal nome di Sant'Irene.
Nonostante il grande flusso turistico rimane sempre un'isola
incantevole, con villaggi bianchi barbicati su scogliere vulcaniche e
spiagge di sabbia nera. I paesini barbicati sulle pendici della
montagna vulcanica, sono di una bellezza unica nel Mediterraneo. Per un
momento, ci è sembrato di ammirare i paesini barbicati sulla costa
Amalfitana, soltanto che quelli di Santorini si distinguono per il
colore azzurro come il mare delle porte e delle finestre delle case.
Quelle sparse, sono di una bellezza veramente rara, con i piccoli
cortiletti ricavati nella montagna vulcanica dove germogliano i gerani
coltivati dentro le giare di coccio, che danno una nota allegra e
caratteristica al paesaggio. Abbiamo visto diversi pittori locali che
ritraevano i loro quadri da quegli angoli bellissimi e colorati e per
un momento li abbiamo persino invidiati. Per non perdere l'abitudine,
abbiamo tracciato alcuni schizzi sul nostro taccuino di viaggio.
E' veramente bellissimo ammirare le casette bianche sulla sommità della
scogliera di Firà, o Thira, che da caldera e sull'isola di Nèa Kameni,
che è la capitale dell'isola. Abbiamo appreso che fu fondata alla fine
del XVIII secolo, quando gli isolani si trasferirono dalla cittadella
veneziana di Skaros, vicino all'attuale Imerovigli, in cima alle
scogliere, per un più facile accesso al mare. Devastata da un terremoto
nel 1956, Firà è stata ricostruita a terrazze sulle scogliere
vulcaniche con chiese a cupola e case - grotte con il tetto con la
volta a botte ( scafta) Le terrazze sono piene di alberghi, bar e
ristoranti in bellissima posizione panoramica. Lungo il bordo della
caldera; il panorama non cambia, ma è veramente magnifico, soprattutto
al tramonto. Il minuscolo porto di Skala Firà è situato 270 m. sotto
Firà, collegato ad una funivia o da una salita ripida di oltre 600
gradini, Buona parte di Firà è zona pedonale ed i suoi tortuosi vicoli
e violetti in ciottolato sono larghi appena a sufficienza per il
passaggio dei muli. La piazza principale della città, Platea
Theotokopoulos, è il capolinea dei bus e lo snodo della rete stradale.
E' veramente caratteristico il borgo di Angiou Minà, che con la cupola
blu e la torre bianca, è diventata il simbolo di Santorini, dove si
fermano spesso i turisti, specialmente quelli italiani, per filmare la
località. Di fronte alla stazione della filovia c'è il Museo
Archeologico che raccoglie molti reperti da Akrotiri e della antica
città di Mesa Vounò oltre a statue cicladiche rinvenute nelle locali
miniere di pomice. Si trovano anche una modesta collezione di vasi
attici e figure nere del VI secolo a.C. allestito in una degna dimora
del XIX.
Nonostante il cataclisma del 1956 sono ancora visibili le vestigia
architettoniche della città dei secoli XVII e XVIII secolo. Credetemi,
ne vale veramente la pena di visitare la graziosa cappella ocra di
Agios Stylianos, addossata all'estremità della scogliera, con un
labirinto di porticati. A sud la cattedrale ortodossa è dedicata a
Ypapantì ( la presentazione di Cristo al Tempio). Questa cattedrale
sembra che fu costruita nel 2827, è un imponente edificio color ocra
con due campanili e murali dell'artista del XIX secolo Christoforo
Asimis Il campanile del Domus dopo Thira la parte settentrionale della
città di Agiou Ioannou, per quanto severamente danneggiato dal
terremoto, buona parte del suo interno barocco e stato perfettamente
restaurato.
I cenni storici sull'isola di Cantorini, sono stati tratti dalla
pubblicazione del Corriere della Sera. Dove sono contenute tutte le
isole della Grecia.
La storia di quest'isola vulcanica ci racconta, che in base agli scavi
di Santorini e secondo i vari siti archeologici, la prima presenza
umana risale al periodo neolitico.
Santorini ha un'evoluzione storica e culturale simile alle altre isole
delle Cicladi.
Santorini ha accolto nel 3600 a.C. un'importante civiltà- Gli scavi di
una città importante vicino ad Akrotiri e la famosa Spiaggia Rossa
mostrano la presenza dell'insediamento minoico.
La città ritrovata rassomigliava molto a quelle ritrovate nell'isola di
Creta, con molti affreschi e ceramiche che mostravano paesaggi
naturalistici, animali e uomini. Nell'antichità l'isola di Santorini
era chiamata 'Stroghili'che significava in greco 'rotonda'. Stroghili
era stata vittima di un'enorme eruzione "vulcanica avvenuta nel 1500
a.C. L'eruzione fu cosi violenta che alcuni pensano che in relazione
con Atlantide. Secondo la storia, intorno al 1300 a. C, i Fenici si
stabilirono sull'isola per 5 generazioni. Intorno al 1100 a.C l'isola
fu colonizzata dai Lacedemoni. Intorno all'826 a.C. l'isola che allora
si chiamava Thira, adotto l'alfabeto fenicio.
La storia ci racconta inoltre, che l'isola di Thira nel settimo e sesto
secolo a.C. ebbe rapporti e scambi commerciali con la maggior parte
delle isole greche durante il periodo ellenistico questa sia stata la
principale causa della distruzione della civiltà minoica nell'isola di
Creta lontana 70 miglia nautiche. Gli scienziati pensano che,
l'esplosione, essendo stata cosi forte, creò onde altissime che avevano
inondato le coste delle isole intorno a Creta.
Il centro dell'isola sprofondò e molti terremoti distrussero anch'essi
il resto dell'isola. Alcuni miti affermano che la distruzione
dell'isola possa essere in relazione con Atlantide. Secondo la storia,
intorno al 1300 a.C. i Fenici si stabilirono sull'isola per 5
generazioni. Intorno al 1100 a.C.
La mini crociera giornaliera a Cantorini, l'isola vulcanica dai pendii
precipitosi d'insuperabile bellezza naturale, ritenuta la leggendaria
Atlantide, è stata veramente bellissima. Dalla sommità della montagna
vulcanica, abbiamo goduto ed ammirato una vista magnifica dell'Egeo.
Se il prossimo anno sarà organizzata l'escursione nell'isola di Creta,
senza dubbio, ritorneremo per ammirare quel indimenticabile paesaggio,
dove il cielo si fonde con il mare, creando un tutto uno con il creato.
Escursione all'antico insediamento
di Knossos e al museo di Iraklio
Dopo la prima settimana di permanenza a Stalis, la sera precedete alla
nostra escursione ad Iraklio, abbiamo noleggiato un'autovettura alla
Reception dell'Hotel Anthoussa e nelle prime ore del mattino Adriana ed
io, siamo partiti per Iraklio. Il cielo era serena e l'aria fresca,
quindi c'erano tutti i presupposti per la nostra gita turistica.
La capitale dell'isola è conosciuta col nome di Heraklio o Iraklio sin
dai tempi antichi, nonostante il nome abbia avuto molti cambiamenti da
allora. La storia ci racconta che i Saraceni che occuparono l'isola nel
842 d.c. fondarono una fortezza con un canale attorno( dove adesso c'è
il vecchio quartiere della città) e gli diedero il nome di Handax el
Hendax. Adattato dai veneziani a Candia, sotto il quale l'intera isola
fu conosciuta. Quando Creta si liberò, prese ancora una volta il suo
vecchio nome. Iraklio conta oggi 150.000 abitanti e, grazie alla sua
posizione favorevole nel centro della costa Nord, è la città più grande
dell'isola.e la capitale della Prefettura di Iraklio e dell'intera
isola La sua posizione centrale, nonché i collegamenti aerei e
marittimi giornalieri con il continente e con l'Europa Occidentale
hanno aiutato Heraklion a diventare il centro turistico principale e il
punto e di partenza ideale per visitare l'isola. Nella nostra
escursione abbiamo potuto constatare che la città offre un netto
contrasto tra i quartieri più antichi e il settore commerciale moderno.
Comunque nonostante il suo sviluppo come capitale del ventunesimo
secolo, Iraklio mantiene un forte carattere veneziano, di cui sono
testimonianza le impressionanti fortificazioni, che resistettero
all'assedio turco per ben 21 anni; la Fontana Morosini, che fa bella
mostra di se e il porto Vecchio. Iraklio ed abbiamo visitato, come si
legge appresso, il Museo, Archeologico dove sono custoditi oggetti
dell'epoca minoica.
Le mete di questa escursione sono la capitale Iraklio, con il museo
Archeologico e la città vecchia con il porto veneziano, e il più
importante sito archeologico della cultura minoica, l'antico
insediamento di Cnosso, situato a pochi chilometri di distanza.
Partendo da Chania si percorre la nuova superstrada in direzione est e
in circa 3 ore si arriva a Iraklio, ci sono diverse uscite che
conducono in città seguite quella in cui si fa riferimento al centro ed
arriverete cosi in breve in Piazza Eleftherias, principale punto di
riferimento della città. Su un angolo della piazza si trova il Museo
Archeologico, una tappa che non dovete assolutamente mancare per poter
ammirare i magnifici reperti della civiltà minoica, troverete
l'indicazione per un comodo parcheggio a pagamento poco lontano dalla
piazza, girando in discesa verso la strada che porta in direzione
dell'aeroporto.
All'epoca della civiltà minoica Iraklio era un centro secondario,
satellite della più importante città di Cnosso, con l'avvento della
dominazione greca mutò il nome in Heraklea, probabilmente in onore del
dio Heracles che una leggenda raccontava sbarcare sull'isola per
combattere contro il Minotauro, iniziando cosi ad assumere un maggior
peso politico. Oggi Iraklio si presenta come una città moderna in gran
parte ricostruita dopo il rovinoso terremoto del 1933, la parte più
interessante da visitare si trova racchiusa all'interno del perimetro
delimitato dagli antichi bastioni veneziani. Per visitare con calma il
museo e poter ammirare le opere d'arte tramandate fino a noi dalla
civiltà minoica occorrono almeno due ore, perciò è la prima tappa che
conviene affrontare. Terminata la visita del museo potete continuare a
piedi il giro della città dirigendovi verso Platia Nikiphoros Phokas,
da qui prendendo a sinistra per l'Odos 1821 si arriva alla cattedrale
di Agios Minas ed alla più piccola chiesa di Agia Ekaterini, in una
piazzetta d'angolo sul sagrato della cattedrale stessa, mentre girando
a destra si arriva in una piazzetta laterale dove è collocata la bella
fontana Morosini costruita nel 1628 durante la dominazione veneziana,
con dei bei leoni alati che sorreggono la vasca superiore di epoca più
tarda.
Platia Nikiphoros Phokas è un punto di ritrovo molto frequentato e i
camerieri dei vari ristoranti e bar faranno a gara nell'invitarvi ad
entrare, da qui partono varie strade che portano in direzione del mare,
l'Odos 25 Augoustou è la più diretta per raggiungere il porto, sul cui
panorama si staglia inconfondibile la grande mole della fortezza
veneziana costruita nella prima metà del XVI secolo, tre leoni di
Venezia incastrati nei muri su tre lati ne ricordano l'antica
dominazione. Abbiamo visitato il Museo Archeologico di Iraklio, mentore
della bellezza e dell'ingegno della cultura minoica, che nell'arte,
prima ancora dei greci e dei romani, ha raggiunto uno splendore ed una
raffinatezza senza pari. Già nel 1991 la disposizione dei reperti e dei
manufatti minoici mi era sembrata priva di una qualsiasi valorizzazione
espositiva, racchiusi com'erano in spazi angusti e polverosi, senza
pannelli didattici e storici esplicativi, illuminati da una luce non
adeguata dietro teche poco curate. Nel nostro giro del Museo, abbiamo
incontrato un simpatico signore milanese, il quale ci ha raccontato che
nel 2003, durante la prima visita, ha potuto constatare come a volte il
tempo passo invano lasciando tutto immutato ma tante se devi scegliere
tra qualche anno cosa rivedere questo sarebbe il primo posto che gli
verrebbe in mente e pazienza se come ora non ci sarà uno straccio di
etichetta in italiano ( e sì che di turisti del bel paese ne passano
moltissimi di qui!).Abbiamo potuto constatare che le prime XII sale
sono ordinate per periodo temporale e tutte contengono opere d'arte che
meritano di essere viste. Per citarne alcune, il misterioso disco di
Festos ( Sala III, periodo protopalaziale 2000-1700 a. C.) su cui sono
incisi, a spirale, geroglifici il cui significato rimane ancora oscuro,
le due statuette delle dee dei serpenti ( Sala IV, periodo neopalaziale
1700-1450 a. C., palazzi di Cnosso, Festos e Malia ) provenienti dal
santuario centrale di Cnosso, lo splendido rytón in cristallo di roccia
il cui manico è formato da perle di cristallo infilate su un filo di
rame ( Sala VIII, periodo neopalaziale 1700-1450 a.C. , palazzo di Káto
Zákros ), un'anfora decorata con un polipo in stile naturalistico (
Sala IX, periodo neopalaziale 1700-1450 a.C. , Creta orientale ) e
molti altri piccoli capolavori. La Sala XIII contiene invece sarcofagi
minoici tutti appartenenti al periodo postpalaziale ( 1400-1100 a.C. )
a forma a vasca o a guisa di bauli con coperchio. La visita prosegue al
piano superiore nella sala XIV dove sono esposti gli affreschi
originali che ornava i palazzi minoici, tra i più belli e meglio
conservati si trovano quello dei delfini, rinvenuto nella sala da bagno
della regina nel palazzo di Cnosso, e quello che rappresenta la
tauromachia, rituale a metà strada tra simbolismo religioso e
dimostrazione di coraggio che vedeva un acrobata compiere un doppio
salto mortale sulla schiena di un toro. Proseguendo si trova la Sala
XVII che raccoglie una collezione privata di gioielli e sigilli in oro
d'epoca minoica. Peccato che non ci è stato consentito scattare delle
fotografie, perché il flash potrebbe danneggiare i reperti esposti
nelle teche e nelle pareti.
Terminata la visita della città potete recarvi, a circa 5 Km di
distanza, ad ammirare a Cnosso il sito archeologico più interessante e
visitato dell'isola. Le ore migliori per goderne appieno sono agli
antipodi della giornata, perciò mettetelo in programma nelle prime ore
o nel tardo pomeriggio, eviterete così l'eccessivo affollamento e il
caldo soffocante. Il primo insediamento minoico è datato tra il 2000 e
il 1900 a.C. ma la struttura del palazzo che si può ammirare oggi è di
epoca più recente ed è fatta risalire a circa il 1600 a.C. dopo che
probabilmente il primo palazzo fu distrutto in seguito ad un terremoto.
Il sito prosperò per poco tempo perché in seguito ad un altro evento
drammatico ( forse il grande cataclisma che colpì la vicina isola di
Santorini e che ne determino il parziale inabissamento ) anche questo
secondo palazzo risultò distrutto. La riscoperta dell'insediamento si
deve alla felice intuizione dell'architetto inglese, nonché archeologo
dilettante, Sir. Arthur Evans che iniziò gli scavi, attivi ancora oggi,
agli inizi nel l900. Evans volle però andare oltre la scoperta e
secondo concetti oggi fortemente avversati si mise in testa di
ricostruire parte della struttura del palazzo e degli ambienti attigui.
Così tutto quello che oggi sembra si sia miracolosamente conservato non
è che il frutto della meticolosa opera di ricostruzione avviata dal
novello archeologo. Nel visitare questo sito, troverete alcuni pilastri
in cemento, che a nostro parere di semplice visitatore, nonché amanti
della storia antica, potranno deturpare l'originalità dell'opera.
Questo comunque non toglie nulla al fascino che suscita la visita del
sito archeologico, anche se le classiche colonne, anticamente in legno,
sono ora, come abbiamo detto, di puro cemento e con una bella mano di
vernice rossa ) e anche solo girare tra le antiche strade lastricate
riesce a rendere bene l'idea di come doveva essere la città nel suo
periodo di maggior splendore. Ricordo che nella nostra visita, abbiamo
ammirato una delle cose più particolari ed ingegnose che era situata
nella stanza da bagno della regina, quella dove fu rinvenuto l'affresco
dei delfini il cui originale è ora nel museo Archeologico, in cui era
stato studiato un sistema di canalizzazione d'acqua corrente che
consentiva tra le altre cose l'immediato smaltimento dei prodotti della
digestione della sua nobile fruitrice. All'ingresso del sito
archeologico potete trovare delle guide autorizzate e non (alcune
parlano italiano ) pronte dietro compenso ad offrirvi i loro servigi, a
voi la scelta. Noi avevamo a disposizione un'ottima pubblicazione
dell'isola di Creta, curata dal Corriere della Sera, da dove abbiamo
tratto i cenni storiografici dell'isola che ci è stata molto utile nel
nostro itinerario, non solo del Museo e della città, quanto degli altri
siti e località della bellissima isola. Senza una buona guida, sia essa
cartacea che di esperti conoscitori, non vi sarà certo difficile
districarvi da soli nell'articolata struttura del sito stesso e della
città di Iraklio
Nel tardo pomeriggio, abbiamo parcheggiato l'autovettura nelle
vicinanze del vecchio porto, perché: come disse un vecchio frate
cappuccino in una precedente visita in Umbria " dopo la mistica viene
la mastica". Egli aveva veramente ragione. Nelle vicinanze c'era una
piccola trattoria e seduti ad un tavolo sotto una vetusta pianta di
eucalipto, ci è stato servito un pranzetto a base di pesci di mare, il
tutto innaffiato da un vino bianco locale molto generoso.
Quando siamo rientrati nel nostro Hotel di Stalis, il sole stava per
tramontare, creando una bellissima coreografia nello stupendo golf. Nel
frattempo il cielo si era dipinto di rosso, mentre all'orizzonte si
fondeva con il magnifico mare degli antichi Achei.
L'anfiteatro del Vajolet
Racconto escursionistico
Al rientro delle ferie marine, che quest'anno abbiamo trascorso nella
bellissima isola di Creta, un'isola di contrasti dove picchi altissimi
piombano in acque cristalline, dove chilometri di spiagge dorate, rocce
e valli fertili giacciono lungo le distese sterili. Ne sentivamo
veramente il bisogno per respirare una boccata d'aria fresca delle
nostre meravigliose montagne dolomitiche, per ritemprare le nostre
membra e, per questo, ci ha pensato il CAI di Mantova, organizzando una
bellissima escursione proprio lassù, dove le superbe cime dolomitiche
si fondono con l'azzurro del cielo.
Quando abbiamo lasciato il Casello autostradale di Mantova, le stelle
erano quasi scomparse dal cielo, ma c'era ancora la grande stella di
Orione i cui raggi sprizzavano come fuoco d'artificio. Intanto s'alzava
la brezza mattutina, il cielo si imbiancava ad oriente, si diradavano
le tenebre e fra non molto il grande disco del sole si alzava
dolcemente verso il cielo. La notte era finita ed incominciava per noi
un nuovo giorno fatto di gioia e di emozioni. Le valli del Trentino
erano verdi e bellissime e illuminate dal sole. La Valle di Fassa è
stato il nostro punto d'arrivo e di Partenza. Da Pera, con i minibus
navetta, abbiamo raggiunto la splendida conca Gardaccia, dove sorge
l'omonimo Rifugio, posta nel cuore del gruppo ingentilita dal verde e
dominata dalla grande parete EST del Catenaccio, è comunque l'accesso
più noto e frequentato poi un comodo sentiero ci ha portati al Rifugio
Vajolet, che è situato a 2243 metri, nell'ampio e meraviglioso
anfiteatro del Catenaccio. Adriana e io, seguivamo la lunga e rutilante
fila degli amici escursionisti, che si arrampicavano nella scarpata
come tanti caprioli per raggiungere quell'angolo, che noi più tardi, lo
abbiamo definito di paradiso terrestre. Appena abbiamo raggiunto il
Rifugio Vajolet, per noi è stata una grande sorpresa, ma soprattutto
una grande gioia di trovarci per la prima volta in quel luogo incantato
dove tutto è poesia e dove l'uomo cerca da sempre il silenzio per
meditare e di fare silenzio nella propria mente, nel silenzio della
montagna incantata. Oh sì il silenzio? Ma che cosa è il silenzio?
Il Catenaccio d'Antermoia m. 3004 è la vetta più elevata e possente. La
sua posizione centrale consente un maestoso dominio su tutto il gruppo
nonché su lontane catene montuose, che orlano il grande orizzonte.
Seconda per altitudine ma più slanciata ed elegante si erge non molto
lontana la Cima del Catenaccio m. 2981. Oltre che dare il nome a tutto
il gruppo, questa sublime montagna costituisce il punto d'incrocio fra
il nodo settentrionale e quello meridionale.
Detto questo però non si può sopprimere il forte richiamo offerto dalla
Tre famose sorelle che costituiscono la parte meridionale dell'ardita
catena delle Torri del Vajolet. Battezzate col nome dei loro primi
solitari le Torri Delogo, Stabeler e Winkler regalano da una zona
selvaggia, una grande purezza di linee ed un impulso incomparabile. Se
questi nomi hanno da sempre suscitato, come è successo oggi a noi,
entusiasmo è bene però sapere che sparsi in tutto il Gruppo del
Catenaccio, come ci spiega un vecchio montanaro, ci sono ancora luoghi
pressoché sconosciuti dove moltissime cime baciate soltanto dai rossi
tramonti, attendono ancora l'amore e l'ardore dell'uomo.
Qui, su questo anfiteatro dalle tante sfumature, abbiamo incontrato il
futuro vescovo di Mantova, Monsignor Roberto Busti. Il successore di
monsignor Egidio Caporello, che ha celebrato il rito religioso al
rifugio Vajolet, per commemorare i due alpinisti mantovani Carlo Moccia
e Renzo Morari morti in una scalata 30 anni fa.
Confuso fra la folla degli alpinisti mantovani, cera il giornalista
Nicola Corradini, che ha scritto un bellissimo articolo, apparso il
giorno successivo sulle pagine della Gazzetta di Mantova, che
riportiamo qui di seguito:
"Alla commemorazione, organizzata dalla sezione del CAI di Mantova,
hanno partecipato oltre cento alpinisti mantovani arrivati con un
pullman organizzato dal Club alpino di Mantova, Suzzara e Bozzolo.
Erano presenti i familiari e molti amici dei due alpinisti scomparsi
trent'anni fa e ricordati con una lapide nei pressi del rifugio. E a
celebrare la funzione religiosa che ha concluso la commemorazione è
stato proprio monsignor Busti, che in questo periodo sta trascorrendo
le vacanze in Val Gardena e che ha accolto l'invito che gli è arrivato
dall'ex presidente del Cai mantovano, Sandro Zanellini, nei giorni
scorsi. Il futuro vescovo della città ( il suo insediamento è previsto
per il giorno 7 ottobre), tra l'altro amante della montagna e delle
scalate ( è iscritto ai Ragni di Lecco) ha impartito la benedizione
alla Madonnina degli Alpini e celebrato quella che, a tutti gli
effetti, è stata la prima messa alla comunità cattolica mantovana (per
quanto in trasferta). Nell'omelia, durata una decina di minuti,
monsignor Busti ha fatto riferimento alla disgrazia di trent'anni fa (
dopo la messa hanno preso la parola il figlio di Renzo Morari e il
fratello maggiore di Carlo Moccia, Antonio) dicendo che " il dolore e
la sofferenza vanno accettate pensando che la nostra aspettativa è l'al
di là. Proprio come fece il famoso terzo uomo crocifisso tra due
ladroni" Alla cerimonia erano presenti, tra gli altri, gli imprenditori
Mario Levomi, gli imprenditori edili Alberto e Giuseppe Bottoli, Luigi
Biancardi, Sandra Berini Biancardi ( assessore all'attività
produttrice), l'avvocato Dionigi Biancardi, Franco Amadei: tutti
iscritti al Club alpino".
Al termine del rito religioso, come fecero altri amici del Cai,
anch'io mi sono avvicinato al piccolo altare, per salutare il neo,
Monsignore Roberto Busti, dicendogli:
Monsignore, non cera altare più alto, per poter iniziare il suo lungo
cammino pastorale fra la comunità mantovana. Ci auguriamo di rivederla
presto nella nostra piccola parrocchia di Campitello. Egli mi ha
ringraziato, stringendomi fortemente la mano, come fanno gli uomini
forti della montagna.
La Tragedia.
Le vittime erano due istruttori: Carlo Moccia e Renzo Morani, che
furono travolti da una frana sul Catenaccio.
" La montagna li ha inghiottiti l'11 agosto del 1977 durante una
scalata e li ha restituiti dieci giorni dopo Carlo Moccia aveva 22
anni, abitava in Via Bernardo de Canal e studiava agraria
all'università di Bologna. Renzo Morari di anni ne aveva 45, e svolgeva
l'attività di negoziante di Malavicina di Roverbella, era sposato e
aveva due figli. Sono morti assieme travolti da una frana staccatasi
dal monte Catinaccio, mentre imperversava un violento temporale.
Entrambi istruttori della scuola alpina della sezione mantovana del Cai,
erano partiti la mattina di quel maledetto giovedì di trent'anni fa dal
rifugio Gardeccia, per raggiungere il Vajolet, vicino a Vigo di Fassa,
e da qui scalare la parete est del Catinaccio attraverso i 600 metri
della Via Kiene, un percorso non particolarmente difficoltoso per due
alpinisti come loro. Poi il temporale, con saette e violente raffiche
di vento. Sulla cima del Catinaccio cadono anche una ventina di
centimetri di neve. I due alpinisti non rientrano alla base e scatta
l'allarme.
Le ricerche dureranno una decina di giorni, con l'arrivo sul posto
anche di molti alpinisti mantovani che partecipano. Le speranze di
ritrovarli vivi si attenuano col passare dei giorni, fino la sera del
21 agosto, quando i soccorritori vedono affiorare sotto lo strato di
neve vicino ad un canalone il tessuto color blu. Erano i jeans del
giovane Moccia e, a mezzo metro di distanza dal suo cadavere, fu
rinvenuto anche quello di Morari".
La commemorazione dei due amici alpinisti Moccia e Morari, è iniziata,
come abbiamo detto sopra, con la deposizione di un mazzo di fiori da
parte di una staffetta del Cai di Mantova, è seguita con la posa in
opera e la benedizione della Madonnina degli alpinisti da parte di
Monsignore Busti, il quale in loro suffragio, ha celebrato la Santa
Messa al campo. Un vecchio frate francescano, diceva che " dopo la
mistica viene la mastica", in fatti, il raduno si è concluso al
ristorante del rifugio il Vajolet.
La storia della madonnina.
Al termine del raduno, mentre ci apprestavamo a scendere verso valle,
la signora Karin, la moglie del gestore del rifugio, con il suo
fuoristrada ci ha gentilmente offerto un passaggio. Nel corso del
viaggio, parlando della commemorazione e della benedizione della
madonnina degli alpinisti, ci ha raccontato una singolare storia. Ci ha
raccontato che diverso tempo fa, mentre si trovava nel suo piccolo
paese in provincia di Bolzano, un pomeriggio dopo di aver riassettato
la cucina e fatto le dovute pulizie, ha preso il sacchetto
dell'immondizia e le ha deposte, come facciamo anche noi tutti i
giorni, nel cassonetto, sistemato vicino alla sua abitazione. Quando ha
alzato il coperchio, si è accorta che fra la spazzatura si trovava una
statua raffigurante la madonna. Ha cercato di tirarla fuori, ma essendo
pesante non è stata capace, quindi si è fatta aiutare da un signore suo
conoscente. Portata nella sua abitazione, ha proceduto con cura alla
sua pulizia e al termine l'ha sistemata su di un piedistallo di legno
nel cortile della sua abitazione. Nei giorni seguenti, ha chiesto ai
vicini di casa e ad altre persone del villaggio, ma nessuno ha saputo
dare una spiegazione. Un mattino di primavera, quando la neve si era
sciolta ed il sentiero era ritornato transitabile, ha fatto caricare la
madonnina sul suo fuoristrada e l'ha portata al rifugio Vajolet.
Sicuramente non si tratta di un caso eccezionale, come quello della
madonnina piangente di Civitavecchia, di cui hanno molto parlato i
giornali o delle varie apparizioni della Madonna. Secondo il mio punto
di vista, potrebbe trattarsi di una persona atea che si è venuto a
trovare quella statua nella propria abitazione e si è sbarazzato
buttandola nel cassonetto dei rifiuti. Oggi, nella nostra epoca
consumistica, nei cassonetti dei rifiuti si butta di tutto, sono
buttati non solo i gattini o i cagnolini appena nati, ma a dirittura i
bambini rifiutati per ovvi motivi dalle loro madri. Il caso della
madonnina che abbia trovato la signora Karin nel cassonetto del suo
piccolo paese in Alto Adige, le nostre reminiscenze di Polizia
giudiziaria, ci porta a pensare che senza dubbio si tratti di un furto
vero e proprio e che l'autore dell'atto criminoso si è venuto a trovare
alle strette dagli inquirenti e per non essere incriminato, ha creduto
di disfarsene alla svelta della refurtiva trafugata in qualche chiesa o
abitazione del luogo, buttandola nel cassonetto dell'immondizia.
Molti anni fa, nel corso della nostra carriera militare nell'Arma
Benemerita, casi del genere erano all'ordine del giorno. A Genova, per
esempio, nel corso di un'indagine, nella discarica lungo il fiume
Bisagno, abbiamo trovato sotto la spazzatura alcuni quadri di carattere
religioso di grande valore artistico, trafugati in varie chiese e
abitazioni private della Liguria.
La statuetta rinvenuta dalla signora Karin, si tratta di un calco in
cemento dipinta, di scarso valore commerciale, ma di grande significato
religioso, perché riproduce l'immagine dell'Immacolata concezione.
Oggi, è diventata la guida spirituale degli alpinisti che si apprestano
a scalare quella meravigliosa montagna dolomitica del Vajolet, che con
le loro alte cime bucano il cielo. Lo scrittore Mario Scarpa, così
scrive delle Dolomiti: "E' un territorio grandioso, spettacolare ed
intatto dove il romantico, il pittoresco e lo scenografico si fondono
in armoniosa composizione. Se l varie ed infinite sono le catene
montuose distribuite sulla terra, le Dolomiti risultano un particolare
e prezioso dono che la natura ha minuziosamente modellato per rendere
felice e gradevole la vita di una moltitudine di persone".
Creta:
L'isola di Minosse
Il mese di luglio, senza dubbi è il mese più indicato per le nostre
vacanze. Nel passato abbiamo sempre scelto questo periodo per
trascorrere le nostre vacanze estive e anche quest'anno non potevamo
tradire le nostre abitudini. Siamo sempre stati tradizionalisti, ma
come recita uno spot pubblicitario " è meglio cambiare"Noi non siamo
esterofili Da due anni a questa parte abbiamo scoperto le bellissime
spiagge della Tunisia, mentre l'anno scorso quelle dell'isola di Rodi,
dove ci siamo sentiti come a casa nostra, non solo per la cucina, ma
soprattutto per la lingua, dove tutta la popolazione, sia nei villaggi
che nelle città parlano molto bene l'italiano, specialmente quelli
della nostra generazione, per averlo imparato a scuola, quando l'isola
era amministrata dal vecchio regime fascista. La sera, intrattenendoci
nei negozi o nei bar, abbiamo notato che ancora oggi è vivo il ricordo
degli italiani, che li ricordano non da invasori ma da veri italiani.
Quest'anno, per non tradire il loro ricordo e l'affetto che hanno per
il nostro Paese, abbiamo deciso di ritornarci, cambia la località, ma
non la cortesia del popolo greco, scegliendo l'isola di Creta, l'isola
più grande della Grecia, posta al centro del Mediterraneo, proprio
vicino alle coste della bella Sicilia e della Calabria, dove affondano
le radici dei coloni che fondarono la Magna Grecia. Creta, fu la culla
della prima civiltà mediterranea, quella minoica, oltre alla
possibilità di visitare siti archeologici come Knosson, offre diversi
paesaggi e bellissime spiagge.
Creta è un'isola bellissima, ma soprattutto é un'isola mitologica dove
visse Minosse, in greco ( Minos, re dell'antica Creta, dal quale derivò
il nome alla civiltà dell'isola ( civiltà minossiana). Ai confini fra
leggenda e la storia, da una parte fu ritenuto figlio di Zeus e di
Europa, sposo di Pasifae, padre di molti eroi ed eroine, tra cui
Deucalione, Clauco, Androgeo, Arianna, Fedra, ecc. amante di Scilla, di
Pocri, ecc. dall'altra fu ricordato da autorevoli fonti ( Tucidide,
Aristotile) come il potente signore di Gnosso, che, vinti i pirati,
primo fra i Greci istaurò talassocrazia sull'Egeo, diede una saggia
costituzione al suo popolo e si spinse nella colonizzazione fino alle
coste dell'Italia meridionale. Sempre secondo una tradizione mista di
elementi mitici e storici per vendicare l'uccisione del figlio Androgeo
impose agli ateniesi il tributo ( annuo o novennale) di sette
giovanetti e sette giovanette destinati al pasto del Minotauro e, per
punire Dedalo fuggito dal; Labirinto, lo inseguì con una grande flotta
fino a Camico in Sicilia, dove sarebbe morto per mano del re Cocalo (
il nome di questo re siciliano ha un'affinità con il nostro Cocolo,
probabilmente in passato vi è stato un errore di trascrizione) e
delle sue figlie per immersione in un bagno d'acqua bollente o di pece.
Per il suo celebrato senso di giustizia, nell'oltre tomba ebbe insieme
con i fratelli Radamanto ed Eaco, il sommo officio di giudicare i
morti, secondo una credenza che perdurò fino al medioevo.
Le nostre reminiscenze scolastiche ci ricordano che il divino Dante lo
pone, nel V Canto, in tale funzione, all'entrata dell'inferno,
raffigurandolo come demone della lunga coda, con la quale si cinge il
corpo un numero di volte corrispondente a quello del cerchio infernale
cui l'anima è assegnata. Per molti critici moderni Minosse non è il
nome di un re, ma come quello di faraone presso gli Egiziani, il titolo
generoso del signore di Creta
"Stavvi Minos orribilmente, e ringhia;
Esamina le colpe nell'entrata,
Giudica e manda, secondo chi avvinghia".
Minosse appare su monete cretesi come un personaggio garbato, munito di
scettro, assai simile a Zeus; nei monumenti figurati si trova quasi
sempre in posizione complementare ( vaso apulo di Canossa a Monaco di
Baviera.).
Come abbiamo detto sopra, Creta è l'isola più grande delle isole
greche, la quinta di tutto il Mar Mediterraneo. Abbiamo scoperto che
l'isola di Creta è un mondo a sé, con tradizioni, cultura e storia
indipendenti dal resto della Grecia. Riassumere con una parola
quest'isola o in poche righe non è facile, anzi è impossibile, il suo
fascino, lontano dai soliti allettamenti preparati in altri luoghi, è
lento ma duraturo. Il fascino del suo paesaggio, dei suoi siti
archeologici che ci riportano indietro di migliaia di anni, dei suoi
antichi e coloratissimi borghi, insenature e spiaggette; è come quei
profumi, che sembra debbono subito svanire, eppure resistono al tempo e
penetrano di sé ogni cosa.
Nell'isola di Rodi, abbiamo ammirato un paesaggio con delle colline
brulle ma ricco di uliveti e di pinete, qui a Creta il territorio è
attraversato da tre catene montuose con cime che raggiungono i 2500
metri, ampi ferirteli vallate si estendono con brulle montagne e le
dune di sabbia di Vai. Lungo le coste abbiamo ammirato nel nostro tour,
ampie spiagge di sabbia e le baie rocciose di Lindos, che pressappoco
sono come quelle della Sardegna e splendide calette, lambite dal mare
di ogni sfumatura dal blu. Possiamo dire che Creta è una terra di
contrasti e dai mille volti, con un clima eccezionale. Anche qui come a
Rodi, abbiamo trovato un venticello ristoratore che attenuava i raggi
cocenti del sole di luglio.
L'Hotel Anthoussa Resort, che ci ha ospitati per le nostre vacanze
estive, si trova tra Chersonissos, Stalis- Malia una cittadina ai piedi
di una collina bruciata dal sole, da dove si ammira il meraviglioso
mare blu delle Cicladi', e dista soli 30 chilometri a est di Heraklion
e a 25 km dall'aeroporto internazionale di Heraklion. E' un golfo
meraviglioso, dove la vista si perde all'orizzonte tra cielo e mare.
Malia è la continuazione del borgo di Stalis, e come Stalis è meta
privilegiata dagli amanti della vacanza organizzata, la vivace Malia,
sita sulla costa orientale di Creta, in questo periodo brulica di
turisti internazionali che affollano le spiagge di giorno e le
discoteche di notte. La località è circondata da un'atmosfera del tutto
diversa. Qui si trova il Palazzo minoico, meno visitato, giace in
rovine lungo la pianura costiera a est. La storia ci racconta, che il
primo palazzo fu costruito nel 1900 a, C., ma come tutti gli altri
grandi palazzi, venne distrutto nel 1700 a,C. e ancora nel 1450 a.C.
Abbiamo visitato il sito che presenta molti elementi caratteristici
degli altri palazzi minoici: la grande corte centrale con altare
sacrificale, gli appartamenti reali, i bacini illustrati e i lucernari
(corti). In un piccolo santuario nell'ala ovest del palazzo, è visibile
sui pilastri il simbolo minoico religioso della doppia ascia. Oltre al
palazzo, si notano i resti di una città ancora in fase di scavo, mentre
a nord si trova il luogo di sepoltura di Chrysolakkos ( grotta d'oro).
Qui furono rinvenuti importanti tesori, come il famoso ciondolo d'oro
con le api, ora esposto al Museo Archeologico di Iraklio.
Le nostre serate in Hotel, erano rallegrate da un gruppo di animatori.
Nel paese vi è un classico trenino, uno di quei trenini che si trovano
in tutte le località turistiche e che è costruito in una località
veneta. Con questo mezzo di locomozione, abbiamo visitato Stalis e
Malia in lungo e in largo. Una sola strada collega queste due località,
che praticamente sono unite. Ti sembra di percorrere una strada di Las
Vegas in miniatura, per via della grande illuminazione. Ogni esercizio
pubblico, commerciale e Bar, erano in gran pavese. In ogni locale vi
era una piccola orchestra che diffondeva musica locale. Insomma, ci
dava la sensazione di trovarci in una festa di paese. Questa strada era
affollata da una massa omogenea di turisti, che come noi trascorrevano
le loro vacanze turistiche e culturali.
Passo S. Pellegrino.
Escursione
Alle ore 6 del mattino del primo Luglio, i due grossi torpedoni hanno
lasciato il piazzale del Palasport di Mantova, e si sono diretti al
Passo di S. Pellegrino. Per la prima volta, abbiamo visto che due
prestigiose associazioni mantovane, il CAI e il CRAL delle Poste, hanno
deciso di organizzare insieme una facile escursione fra le montagne più
belle delle Dolomiti. Questa escursione di oggi, non è una vera e
propria escursione, ma una classica passeggiata, che ha visto giovani
ed anziani escursionisti di entrambi i due sodalizi camminare fianco a
fianco. Noi conosciamo molto bene questo itinerario, perché di solito
il CAI, lo propone nel periodo invernale, quando c'è la neve.
Per chi non è mai stato in questo piccolo paradiso terrestre tra cielo,
valli e montagne bellissime, al rifugio Fuciade ( m 1998), diremo che è
una semplice e bellissima camminata di circa un'ora, partendo dal Passo
S. Pellegrino, da quota 1919 m) Il percorso si svolge su di una comoda
strada forestale, che s'inoltra in mezzo ad un bellissimo bosco di alte
e chiassose abetaie. Percorrendo questa stupenda vallata fra antiche
malghe e famose montagne e si raggiunge il rifugio Fuciade situato in
una bellissima conca o altopiano, dove si può prendere il sole,
mangiare al sacco o approfittare dell'ottima cucina dello stesso
rifugio.
Giunti al rifugio le Fuciade, il numeroso gruppo, si è diviso in due
tronconi, i più baldanzosi si sono diretti verso la splendida
traversata della Malga Ciapela, ai piedi della Marmolada. Da Fuciade si
prosegue fra un paesaggio da favola, lungo la bellissima Alta Via n. 2
delle Dolomiti, fino a raggiungere il Passo Forca Rossa dove,
spettacolare ed imponente, gli è apparsa la parete sud della Marmolada.
Da come spiega il programma, procedendo sempre per un bel sentiero
senza difficoltà si scende a Malga Ciapela. Se lo desiderano, si può
prendere la funivia e salire sulla Marmolada a 3229 m.: una esperienza
unica, indimenticabile e se la giornata è tersa si vedono tutte le più
belle cime delle Dolomiti. Oppure in pochi minuti si può raggiungere
l'incredibile sentiero in mezzo alle alte, verticali e strette gole (Serai)
di Sottoguida. Dislivello in salita 600 m- in discesa 1000. La
traversata si prevede in 4/5 ore.
Quando Adriana, Marisa ed io, eravamo giunti al rifugio delle Fuciade,
il grosso della comitiva era già transitato da un pezzo. Il nostro è
stato un passo lento e sereno, una passeggiata distensiva e non era
necessario sforzare le nostre stanche membra, perché, come recita un
antico proverbio, "chi va piano va lontano". Una volta che si esce dal
tunnel del bosco e ti appare quel paesaggio da sogno, ti sembra di
essere in un altro mondo, in un mondo nuovo e meraviglioso, senti
soffiare quel venticello che si era appena svegliato durante la nostra
entrata nell'altopiano che degrada dall'alta montagna verso la valle da
dove spunta maestosa e superba una delle meravigliose Pale di S.
Martino. Non avrei mai pensato che sarei nuovamente ritornato fin
quassù ad ammirare per l'ennesima volta le bellezze del creato in
quest'altopiano bellissimo, dove si ammirano le montagne alte e
meravigliose delle Dolomiti. Siamo saliti molte volte fin quassù, ma
sempre d'inverno quando l'altopiano era ammantato di una coltre bianca
di neve e dove il vento freddo soffiava dalla gola del Monte Omo. Il
paesaggio era tutto livellato e ti dava la sensazione di percorrere una
di quelle pianure della steppa russa, senza alberi, ma punteggiata da
piccole Isbe. Oggi non è la solita escursione sulla neve, ma come
abbiamo detto sopra, una distensiva passeggiata nel giardino incantato
delle fate e dei folletti. Al posto della neve vi abbiamo trovato un
mare d'erba e di fiori di campo. Ai margini piccoli queruli ruscelli
scorrono fra i cespugli dell'erba e piccoli fiori che nascono a queste
altezze: allora significa che ci ritroviamo più vicino al cielo.
Il grande altopiano è punteggiato da piccole baite, fienili e case
d'abitazione, che nel periodo invernale ed estivo sono aperte dai
proprietari per soggiornarvi e trascorrere al cospetto della
meravigliosa natura la loro vacanza. Appena lasciato il bosco ed
abbiamo iniziato ad avanzare sullo stretto sentiero di quel mare
d'erba, uno stormo di taccole ci è venuto a salutare. Ormai, con tutti
i turisti che ogni giorno e specialmente il fine settimana che salgono
numerosi fin lassù, anche questi simpatici uccelli neri sanno come fare
per accattivarsi la simpatia degli umani. Sono come i colombi che si
incontrano nella stupenda ed unica Piazza al mondo come quella di S.
Marco di Venezia, si posano sulle mani per prendere le briciole di pane
e poi con il loro volo di formazione ti seguono fino al rifugio Fuciade.
Luogo d'arrivo e di partenza per i turisti come noi. I contadini
falciavano il fieno, mentre le mucche ruminavano vicino alla polla.
Quello era un bellissimo quadretto quasi bucolico, idillico e
dolcemente naturalistico, uno di quegli ambienti amati dal grande
pittore Giovanni Segantini, figlio prediletto di queste montagne del
Trentino. I suoi soggetti preferiti erano paesaggi montani,
pastorellerie, idilli, del 1886 è la prima opera dipinta con tecnica
divisionista, ma realizzò anche opere apparentemente naturalistiche,
come la Raccolta del fieno o lo stupendo trittico allegorico "La natura
la vita e la morte" rimasto incompiuto per la morte del pittore.
Proseguendo il sentiero che porta al rifugio Fuciade, abbiamo
incontrato le moto slitte che dal Passo di S. Pellegrino, portavano i
turisti che non in grado di raggiungere l'altopiano perché impediti da
vari tipi di patologie al Ristorante del rifugio. Al loro passaggio, ci
siamo accostati sull'argine e nell'occasione abbiamo ammirato le
bellezze delle Pale di S. Martino, che in un certo senso, possiamo dire
che erano ai nostri piedi. E guardando quasi da vicino i poderosi
fianchi delle principali cime, e raccogliendo una serie di rare visioni
panoramiche, ci sembrava che erano state scolpite da un grande artista,
ma quello scappellino altro non è stato che il trascorrere del tempo e
soprattutto dagli agenti atmosferici.
Il gruppo delle Pale è la denominazione più breve e comune di un
insieme montuoso e compatto, che con la sua posizione meridionale
chiude il settore delle Dolomiti occidentali. L'arditezza
dell'architettura e la schietta espressione dolomitica, distinguono
nettamente questo grandioso ed austero complesso, dal restante ed
adiacente ambiente alpino. Dalla nostra posizione si poteva ammirare un
susseguirsi di vallate e passi, e delimitando più o meno questo
spettacolare mondo roccioso. Soltanto questa panoramica e spettacolare
visione, ci ha ricompensati dalla fatica di raggiungere questo luogo,
che abbiamo definito paradisiaco.
Passo dopo passo, seguendo il sentiero in mezzo ai prati verdi, siamo
giunti alla meta. Davanti al rifugio e alla chiesetta dedicata ai
caduti della montagna, cerano molte persone che aspettavano che un
posto nel ristorante si rendesse libero. Per noi con c'era questa
preoccupazione, perché l'amica Marisa, due giorni prima aveva prenotato
un tavolo. Mancava Fabio il marito di Marisa, perché non si è sentito
di rinunciare la splendida attraversata dal Passo San Pellegrino alla
Malga Ciapela, che si trova ai piedi della Marmolada. Ha fatto molto
bene, perché il prossimo anno non si sa quello che possa accadere e per
fare un pranzetto ci sono altre occasioni. Quel giorno erano nostri
ospiti, volevamo brindare e fare festa per il nostro genetliaco,
festeggiato alcuni giorni fa in famiglia, ma anche senza l'amico Fabio,
abbiamo brindato lo stesso al termine del pranzo, al cospetto delle
meravigliose montagne che ci videro sempre in prima linea. Dopo pranzo
ed il brindisi augurale, il caffè ci è stato servito sulla veranda, da
dove lo sguardo si perdeva all'orizzonte tra cime scolpite dal tempo e
prati verdi. Il giornalista scrittore Romano Battaglia, così scrive
della montagna: "C'è un posto in cima al monte, fra fiori gialli e
bianchi blocchi di marmo, dove si vede il mare brillare nella sera che
muore. Fra odori di erbe selvatiche, dolci ricordi sciolgono il nodo
alla gola che hai avuto nel giorno". Aveva ragione nel dire che c'era
un posto in cima al monte dove si spegne la malinconia come il sole nel
mare e ti senti libero perché sei ritornato ragazzo. Anche a noi,
stando seduti sulla veranda a sorbire quel delizioso caffè, è successo
la stessa cosa e abbiamo rievocato una pagina della nostra vita,
ritornando ragazzo a giocare fra le cose perdute nel tempo. Si, ha
proprio ragione, anche noi oggi abbiamo trovato in cima al monte un
angolo bellissimo fra cielo ed alte cime da non scordare mai, perché
tra i fiori gialli di questo splendido prato che ci sta di fronte e
l'aria del meriggio, abbiamo ritrovato il dolce incanto di una felicità
che dura da oltre 50 anni, di quella felicità che abbiamo condiviso con
Adriana mia moglie e che non ci ha mai abbandonato.
Qui non c'è il mare all'orizzonte come si ammira dall'alto delle
montagne della Versilia o da quelle della colorata e magnifica Liguria,
ma un tempo molto lontano, circa settanta milioni di anni fa, le
Dolomiti emersero dai flutti di un profondo mare sotto forma di un
fantastico paesaggio chiazzato di scuro e di verde. Oggi le loro
superbe e rosee vette puntano dritte al cielo e sembrano poi veleggiare
nell'aria pura di questo silenzioso ed infinito spazio.
Un antico proverbio africano dice che " una montagna va salita passo
per passo, la ricchezza si acquista passo per passo, la saggezza si
raggiunge passo per passo". Abbiamo lasciato a malincuore quel angolo
verde dove regna tanta pace e serenità, e passo dopo passo, come recita
appunto, l'antico proverbio africano sopra citato, nel tempo stabilito,
abbiamo raggiunto il Passo S.Pellegrino, dove il torpedone era nella
attesa per andare a recuperare il gruppo degli escursionisti nella
vallata dove sorge la Malga Ciapela.
Concludiamo questo nostro reportage di questi luoghi incantati con le
parole di Guido Rey. Egli così scrive: "La montagna è fatta per
tutti, non solo per gli alpinisti, per coloro che desiderano il riposo
nella quiete, come per coloro che cercano nella fatica un riposo più
forte".
Le spiagge del Fiume Po.
Oggi è sabato 23 giugno 2007, nelle ore pomeridiane, per digerire il
lauto pranzo che Adriana ha preparato per il mio compleanno, ci siamo
concessi una breve passeggiata lungo l'argine destro del Fiume Po. E'
una giornata tipicamente estiva, il cielo é limpido e sgombro di nubi,
ma il sole si faceva ancora sentire ed era splendente. Anche se intorno
avevamo il mondo senza orizzonte della Bassa padana, e quello senza
grandi picchi, con i suoi lunghi argini che fiancheggiavano il vecchio
fiume. Dopo l'attraversamento del Po, siamo entrati in quel mondo senza
orizzonte, descritto da Giovanni Guerreschi, e senza grandi picchi, di
una prosa letteraria italiana che raramente era incline alle virtù di
una secca agilità. Lui aveva un mondo linguistico tutto suo, qualcosa
inventato dal niente e riprodotto con l'astuzia e la perizia
dell'artigiano di genio. Proseguendo sull'argine sinistro, un
cartellone pubblicitario stradale dove era riprodotta l'immagine di Don
Camillo e Peppone, ci indicava che stavamo attraversando il borgo di
Brescello, molto caro allo scrittore. Siamo entrati nel borgo e abbiamo
rivisto i luoghi descritti, dove sono stati girati i numerosi film.
Abbiamo rivisto la bellissima chiesa davanti alla quale sostava,
tenendo per mano la bicicletta, un anziano sacerdote con la tunica
nera, ma non era Don Camillo dei nostri ricordi e neppure Don Matteo.
Attraversiamo il centro abitato di Brescello e ritorniamo sull'argine e
all'incrocio, dove il grande ponte attraversa il vecchio e grande
fiume, proseguiamo verso il borgo medioevale di Boretto. Adriana
parcheggia l'autovettura in una traversa del centro storico e a piedi,
ci siamo diretti verso il Porto Turistico- Fluviale - Regionale di
Boretto, in provincia di Reggio Emilia, che è situato nel tratto
centrale del fiume Po, che attraversa la Regione Emilia Romagna da
Piacenza a Ferrara.
Boretto ha il più importante ed attrezzato Porto Turistico Fluviale
che, con annessa vasta area del Lido Po, ne fa un punto di riferimento
strategico per chi voglia scoprire le province di Reggio Emilia,
Modena, Ferrara e Venezia. Posto sulla sponda destra del Po, il Porto
di Boretto si trova direttamente a ridosso dell'argine maestro su cui
scorre la S.S. 62 della Cisa, che lo divide dal centro storico del
paese servito dalla linea ferroviaria Parma-Suzzara-Mantova.
Mentre seduti al tavolo del Bar del lido, prospiciente il grande fiume,
il cameriere che ci ha servito il caffè, ci ha parlato della recente
manifestazione nazionale, 47° Gran premio motonautico che si svolge
annualmente lungo il fiume. Egli, ha continuato dicendo: Se fosti
venuti pochi giorni fa vi saresti sicuramente divertiti. Infatti,
domenica 13 maggio, a Boretto Po, si è svolto un appuntamento della
motonautica Circuito: il Campionato Mondiale della F500, il Campionato
Europeo della F/250 e le prove di Campionato Italiano delle classi F2 e
Osy 400. Organizzatore di questa manifestazione è stata la Motonautica
Boretto Po, in collaborazione il Comune di Boretto e le Infrastrutture
Fluviali S.r.l. - A.R.N.I. A rappresentare i colori azzurri sono stati
due piloti di grande esperienza, il friulano Tiziano Trombetta,
vice-campione mondiale in carica nella F500, e il reggiano Mauro Bacchi
(che ha vinto il titolo iridato dell'F500 nel 2002). Tre in totale le
manches affrontate (ciascuna di 8 giri, km. 12, circuito di 1500 Mt.)
per questa prima prova. La sfida principale è stata dunque proprio tra
Havas e Trombetta, il quale era ben intenzionato a riprendersi il
titolo che non è riuscito ad ottenere lo scorso anno. Del resto il
pilota della Motonautica Boretto Po è stato campione del Mondo nella
F500 per ben 5 volte nell'arco della sua carriera (nel 1992, nel 2000,
2003, 2004 e 2005)
Nell'occasione il cameriere ci ha mostrato alcune fotografie della
competizione, regalandoci alcune che alleghiamo a questo nostro piccolo
racconto di viaggio. Il simpatico cameriere, ci ha parlato inoltre dai
vecchi tempi, quando Guareschi girava i suoi film a Bresciello e con il
cast spesso venivano in questo locale per prendere il caffè. I critici
letterari lo hanno così definito: "Pochi fronzoli letterari, molto
ritmo, lessico da quotidiano, qualche sbandata nel sentimentale,
miracolose accelerate nel comico, Con una macchina del genere ha
raccontato storie che si sono bevuti in ogni angolo del pianeta, anche
là dove la Bassa non se la possono immaginare, e un crocifisso non
l'hanno mai visto, e la Fiera di Milano è un nome senza significato".
Spesse volte ci siamo trovati, senza volerlo, nelle vicinanze del set,
per motivi d'ordine pubblico, dove si giravano i suoi famosi film
Peppone e Don Camillo, In un locale di Villastrada, In una di quelle
occasioni, abbiamo avuto modo di conoscere il grande attore Gino Cervi.
Il sole era prossimo a tramontare e prima che la luce cessasse, abbiamo
fatto quattro passi lungo la spiaggia. Durante il nostro percorso,
abbiamo avuto modo di ammirare degli angoli veramente incantevoli,
mentre le ombre si facevano sempre più lunghe. Sulla spiaggia c'erano
ancora gli ultimi ritardatari che dopo una lunga giornata di sole, uno
per volta lasciavamo l'arenile. La nostra passeggiata è proseguita
lungo la sponda destra del fiume e di tanto in tanto, dalla sabbia
emergevano pezzi di vecchi battelli, di barche, di elettrodomestici, di
tronchi seppelliti da molto tempo sotto la sabbia. Causa la siccità,
anche quest'anno il grande
Fiume si è molto ridimensionato, non è il fiume di una volta, quando le
stagioni si susseguivano regolarmente e non c'erano queste grandi
spiagge di sabbia e tutto questo materiale inquinante. Quando abbiamo
lasciato le sabbie bruciate dal sole, per fare ritorno alla nostra
autovettura, vicino al fiume c'era ancora una coppietta sotto
l'ombrellone, sebbene il sole fosse tramontato da un pezzo.
Nel tardo pomeriggio del giorno dopo, siamo ritornati sulle sponde del
vecchio e caro fiume ma questa volta siamo ritornati con il piccolo
cavalletto di campagna, per ritrarre un angolo stupendo che ci aveva
impressionato moltissimo il primo giorno, e con quel acquarello,
apriamo questo nostro racconto escursionistico. In una delle tante
golene abbiamo inoltre fotografato un campo di bellissimi girasoli, che
ci richiamavano a quelli del grande pittore Vincent Van Gogh
Il Po si racconta.
Il Po. Non è facile come a dirsi, non è breve come il suo nome. E' il
nostro grande fiume, il più importante di tutta la penisola, e questo
tutti lo sanno. E' anche il più presente, il più visto, basta muoversi
come abbiamo fatto noi quel pomeriggio. Per noi è stato molto semplice
raggiungerlo, perché il nostro borgo di sapore medioevale di Campitello
(Mn) dista appena 30 km. ma basta muoversi da o verso qualche grande
città del nord e subito si attraversa su lunghi e moderni ponti
autostradali che lo lasciano intravedere di sfuggita. Sicuramente a
cento e più chilometri l'ora, dal finestrino di un'automobile sì dalla
rapida sensazione di un'enorme corrente gialla e pigra, bianca di
ghiaioni o di sabbia se si osserva in questo periodo estivo, gonfia e
limacciosa durante le piene primaverili, che quest'anno non si sono
verificate come era giusto fosse avvenuto e le spiagge si presentavano
come si presentano oggi. Quello che si osservano sono le fuggevoli
impressioni subito seppellite dietro i pioppeti delle rive delle verdi
golene. Queste immagini lasciate alle spalle accumulando all'infinito
piatti campi coltivati, appezzamenti regolari di mais e frumento cinti
da chiassosi e lunghi filari di pioppi svettanti nel cielo sereno di
Lombardia o del Veneto. Così con queste fugaci immagini, sempre le
stesse, ripetute a ogni rapido attraversamento del Po, come succede,
quando si attraversa la meravigliosa costa della coloratissima Liguria,
in tutti gli innumerevoli affacci, quando si esce dalle lunghe gallerie
e subito dopo si rientra nuovamente. Tutti abbiamo l'errata impressione
di conoscere almeno un poco il grande fiume della vita. E' difficile
fare la sua conoscenza perché nonostante le sue dimensioni in realtà è
un fiume nascosto. Noi che abitiamo nella Valle padana da oltre 50
anni, a pochi chilometri dalla riva sinistra, il paesaggio coltivato
spesso inganna, il fiume non si vede, un occhio attento lo indovina
dietro un'altra fascia di pioppi che si snoda verso l'orizzonte. Per
ammirare il fiume Po, nella sua bellezza ed interezza, bisogna andare
direttamente sulle sue sponde o visitare uno dei tanti borghi che si
affacciano sul fiume, come abbiamo fatto noi. Il suo è un paesaggio
occulto, la sua atmosfera quieta e nascosta, e non concedendo spazio
alla fretta, alle visite improvvisate. Il modo più indicato per
conoscere questo grande serpente verde della Valle padana, bisognerebbe
imbarcarsi su di un battello e navigare fino alla sua foce, oppure
sbarcare nel porto di Venezia. La prima volta che l'abbiamo visto nella
sua interezza, ci siamo imbarcati su di un Catamarano nel lago
Inferiore di Mantova, navigando lungo il fiume Mincio e proseguendo
lungo il Po fino a Venezia. E' stata un'esperienza unica nel suo
genere.
Viaggiando lungo il fiume Po e sul Mincio, di uomini se ne incontrano
sempre parecchi. Ma si tratta, in genere, di persone che con il fiume
non hanno molto da spartire. Sono ben pochi, quelli nati sulle sue
sponde: anche fra loro, quasi nessuno v'e l'ha più nel sangue, sia il
fiume Olio come pure il Po. Come si faccia a essere innamorati di un
fiume così, a sentirselo scorrere nelle vene, e poi, è una cosa
difficile da capire. Siamo troppo abituati a seguire i richiami di una
vita convulsa e diverso senso, per poter amare la quiete semplice del
fiume, amare magari anche i suoi lati negativi, le zanzare che si
levano dagli stagni, le nebbie persistenti e le piogge d'autunno, il
limo vischioso lasciato dalle piene. Anche i figli degli ultimi
fiumaroli la pensano così, in gran parte; e lavorano magari in una
fabbrica o in uno stabilimento del Petrolchimico della città di
Mantova, che abbiamo appena lasciato alle nostre spalle, o fanno i
camerieri a Milano.
Mentre stavamo navigando nel cuore del parco del Mincio, il parco più
bello del mondo, le due hostess del catamarano, si succedevano nel
raccontarci la storia di Mantova e nell'illustrarci le bellezze del
Parco, mentre una miriade di uccelli rari volavano da una pianta
all'altra liberi e felici di vivere nel loro ambiente naturale. Sulla
riva del fiume, di tanto in tanto, si vedevano i pescatori della
domenica che attendevano che il pesce abboccasse. Guardando a destra e
a manca, ovunque fosse bellezza di fertili campi ben ravviati al par di
giardini e subito si scorge come l'agricoltura sia la principale fonte
del benessere; ma qua e l'à sono sparse anche l'opera dell'umano
ingegno, e su questo ci soffermeremo in breve. Mentre la pioggia
continuava a scendere con una certa intensità, eccoti giunti a
Governalo con le secentesche chiuse del Mincio; ecco l'industriale
Ostiglia, che fu patria di Cornelio Nipote. Siamo nell'oltre Po; nei
domini della contessa Matilde. E di lei scorgiamo subito i due segni
caratteristici: l'amore per la sua terra che volle redenta
dall'invadenza delle acque e dalla sterilità dello sterpeto, e la sua
grande pietà edificatrice dei templi
Superiamo Governalo con la sua chiusa, e raggiungiamo la grande foce
dove il Mincio diventa Po. Guardando quella acqua limacciosa che
scorreva pigra e fiaccata, tanto che sembra di aver perso le sue forze.
Quello è il luogo dell'incontro di due fiumi, é il luogo dove il cielo
si fonde con il fiume ed il fiume si fonde con il cielo, ma soprattutto
ti dà la sensazione di ammirare un paesaggio astratto e metafisico
A questo punto, il capitano dell'imbarcazione ci comunica che non è più
possibile proseguire la navigazione lungo il fiume Po, poiché a causa
delle continue piogge, il fiume ha raggiunto quattro metri d'altezza e
quindi era pericoloso proseguire fino a Ferrara, a causa anche del
galleggiamento in superficie di tronchi e alberi. Il catamarano, ha
effettuato un largo giro nel centro della foce del grande fiume Po ed
ha invertito la rotta, facendo ritorno nel piccolo porticciolo di
Governalo, dove sull'argine il nostro pullman era nell'attesa, per
proseguire il nostro viaggio fino alla città di Ferrara. Peccato di
questa interruzione fuori programma, ma è stato necessario questo
cambiamento di rotta, per garantire l'incolumità di noi turisti e del
natante. Possiamo essere altresì contenti, perché non è stato tutto
perduto. Abbiamo navigato nelle acque del vecchio fiume Mincio, in
quello che nel medioevo era stato definito l'autostrada fluviale che
collegava Mantova a Ferrara. Siamo transitati in mezzo a quel
meraviglioso parco, in quel incantevole luogo dove regna il silenzio,
la bellezza, la fauna, la flora, la poesia e dove il paesaggio si fa
aperto e desolato, gli alberi cedono a un'immensa campagna piatta,
emergono dopo l'argine le cuspidi dei campanili, le facciate delle
chiese, le case e le corte sparse di mattoni rossi lungo il fiume, i
piccoli orti, i cortili con il forno a legna ed i filari di viti
carichi d'uva pronta per essere vendemmiata, mentre i pescatori
continuano pazientemente a pescare quel pesce che non abbocca mai.
Mano mano che ci si avvicina al delta, aumentano i luoghi degni di una
visita più approfondita, e magari di una visita non affrettata, ma
attenta: di conseguenza, aumenta anche il tempo che bisognerebbe
dedicare all'itinerario, possibilmente in una giornata splendida di
sole e non come quella sotto un cielo plumbeo, grigio e piovoso. Magari
solo a Mantova e dintorni, infatti, anche a prescindere dai valori
architettonici e storici, la bellezza dei famosi laghi, che abbiamo
ammirato nella loro stupenda bellezza, il corso e la foce del Mincio,
già da soli giustificano abbondantemente una giornata di vagabondaggio
per la pianura.
Arrivando poi fino ad Ostiglia, un appassionato naturalista non può
lasciarsi sfuggire all'occasione di visitare, finché resiste, quel
ultimo splendido frammento delle antiche foreste padane, che è
costituito dall'isola Boschina. Si, è vero, occorre la barca,
naturalmente, ma può essere noleggiata sul luogo. Un lungo ponte
collega Ostiglia con Revere, sulla sponda opposta, antichissima
cittadina che risale all'epoca etrusca, e che nel suo pregevole palazzo
ducale ospita il Museo del Po.
Da Ostiglia si può ritornare verso Mantova in sponda destra, per Pieve
di Coriano, Quincetole, San Benedetto Po. Oppure, per la splendida
vista sul fiume e sui terreni golenari, di percorrere verso valle
l'argine sinistro del Po, che venendo da Ostiglia si può imboccare
prima di Melara, continuare di qui fino a Bergantino e Castelmassa,
spingendosi magari fino allo storico paese di Ficarolo, dove avvenne
una delle più tremende rotte del Po. In quel ultima escursione, che
abbiamo effettuato molti anni fa, ci è rimasto impresso il grande
campanile di Ficarolo che domina fin da lontano la campagna, con la sua
caratteristica siluette inclinata come la torre pendente di Pisa.
Sono passati i tempi del mulino del Po, sono praticamente scomparsi i
traghetti con la fune tesa da una sponda all'altra, anche gli ultimi
ponti di barche sono ormai rimpiazzati da alti ponti di cemento armato
con le loro campate proiettate a sfuggire al fiume, come per paura di
bagnarsi i piloni. Così accade, invece, che due o più persone come noi
vadano in cerca proprio di un ponte di barche, col lanternino, e dopo
di averne trovato uno. Senza fare tanta strada, ne troviamo uno proprio
a due passi da Campitello, dietro casa nostra, sul fiume Oglio, a
duecento metri circa dove l'Oglio in aperta pianura sfocia e si fonde
con il grande fiume Po presso Gazzuolo, formando un angolo tranquillo
dove gli uccelli acquatici hanno trovato il loro habitat naturale e
allora, siamo tutti felici come bambini sulle giostre. Poco tempo fa,
le autorità locali e provinciali, hanno minacciato di fare sparire
anche questo, come è successo con gli altri ponti e i famosi mulini del
Po, di cui il grande scrittore Riccardo Baccelli, nel suo libro " Il
mulino del Po" (1938-1940), ne racconta la trilogia in cui è narrata la
storia e la vita di tre generazioni di " molinari", ma per fortuna, non
si sa fino a, quando, il ponte di Torre d'Oglio è ancora in piede e
funzionante. Questa località, come Boretto, Brescello, Viadana,
Commessaggio, Gazzuolo, Pomponesco e Torre d'Oglio. Sono tutti luoghi
dove Giovanni Guareschi si è ispirato per scrivere il suo libro: "Peppone
e Don Camillo". Concludiamo questo brano con le stesse parole in cui lo
abbiamo iniziato: " anche se intorno aveva un mondo senza orizzonte
della Bassa padana, e quello, senza grandi picchi, di una prosa
letteraria italiana che raramente era incline alle virtù di una secca
agilità. Lui aveva un mondo linguistico suo particolare, qualcosa
inventato dal niente e riprodotto con l'astuzia e la perizia
dell'artigiano di genio. E' doveroso citare un altro grande scrittore,
Giovanni Nuvoletti, figlio prediletto di queste antiche terre della
Bassa padana, che ha saputo guardare in quel mondo che fu per
attingervi quel colore di verità che rende viva e durevole ogni
rappresentazione. La storia di questo libro " Matrimonio mantovano" è
tipico di una grande provincia italiana. Il suo territorio si estende
dai confini occidentali della Lombardia e dell'Emilia e arriva nel
Veneto seguendo il corso del Po: e non a caso il teatro dell'azione si
trova appunto a Gazzuolo, bagnato dal fiume Oglio, che a pochi
chilometri si getta nel grande fiume Po, il fiume della vita.
La nostra passeggiata di un giorno di festa, termina qui tra ricordi ed
incantevoli visioni di un paesaggio senza tempo. Il poeta così scriveva
del grande fiume:
"C'era una volta….
Ieri",
una vecchia canzone d'amore sempre viva,
sentita su le cime dei pioppi
alte su le golene del nostro vecchio fiume,
Il fiume della vita
Le Grotte di Toirano.
Racconto escursionistico
Maggio e giugno sono i mesi che preludono non solo alla stagione più
calda, ma anche a quelle dell'escursionismo, sia sui sentieri alpini
che nelle località turistiche del nostro bellissimo Paese. Ben ha fatto
il Cral delle Poste di Mantova, dopo la magnifica esperienza del Gran
Tour di primavera nella Turchia, dove abbiamo visitato la bellissima
città-stato di Istanbul, dove l'occhio si perde tra cielo e mare,
l'Asia Minore con la Cappadocia e le coste del mare Egeo, dove si
trovano i maggiori siti archeologici Greco Romani, che abbiamo visitato
uno ad uno. Dopo questo bellissimo viaggio, non potevamo esimerci dal
visitare alcune località a noi molto care della bellissima Riviera dei
fiori in questa gita organizzata dallo stesso ente alle Grotte di
Tirano.
La Lombardia, da dove noi oggi 2 giugno, nelle ore antilucane, siamo
partiti alla volta della coloratissima Liguria, non è soltanto la
regione dei colori velati dalla nebbia, ma in questo periodo è un
susseguirsi di panorami incantevoli e sensazioni suggestive, quasi al
limite dell'irreale, dove si ammira un paesaggio bellissimo dove lo
guardo si fonde all'orizzonte tra cielo e terra, ma la Liguria è
un'altra cosa e per chi non la conosce è una regione da scoprire, per
gustare l'essenza della sua bellezza.
Giove Pluvio, in questo fine settimana, sicuramente era adirato con
Nettuno il dio del mare e con Tritone, che nella mitologia classica,è
un'altra divinità marina, che é rappresentato mezzo uomo e mezzo pesce
e così li ha voluto punirli con una serie di temporali e pioggia
scrosciante, interessando alcune località della verde Valle Padana, ma
il mattino del due giugno, pioggia e non pioggia, il nostro grosso
torpedone sfrecciava ad andatura turistica verso l'Autostrada dei
fiori, sotto una pioggerellina che quasi accarezzava il paesaggio. I
primi raggi del sole ci colsero in quella lunga e sottile striscia di
costa ai piedi di montagne coperte di pini, ulivi, vigneti e sormontata
da bellissimi e caratteristici borghi antichi e colorati, che
dall'alto, come vedetta guardano il mare. Qui case color pastello si
crogiolano al tiepido sole del Mediterraneo, mentre i loro giardini,
fiorenti nel dolce clima, risplendono di piante colorate. In contrasto
con la località come Portofino, Portovenere e Sanremo, la laboriosa
città di Genova, per secoli uno snodo marittimo di immenso potere, è la
sola grande città. Oggi, protette dalle scoscese scogliere che si
innalzano sul mare, case di sbiadita eleganza si estendono lungo la
costa, specie a Sanremo e Bordighera, dove gli aristocratici solevano
trascorrere i loro inverni alla fine del secolo scorso. Parlando di
queste eterne e chiassose scogliere, ci vengono in mente gli immortali
versi del grande poeta Eugenio Montale, un figlio prediletto di
quest'antica e meravigliosa terra. Egli così scriveva di Portovenere:
" Là fuoriesce il Tritone
Dai flutti che lambiscono
Le soglie di un cristiano
Tempio, ed ogni ora prossima
È antica. Ogni dubbiezza
Si conduce per mano
Come una fanciullezza."
La moderna e panoramica Autostrada, che scorre sulla cresta della
costa, il pullman corre più sovente sottoterra che sopra. Ma quale
incanto! Allorché sbuchi fuori di una galleria ti si presenta una
fuggente visione: sono rocce aspre, dirupati, precipizi, aridi uliveti
o verdeggianti distese, pini chiomati e un mare di un azzurro
scintillante, che in modo continuo ora lentamente si frange a riva ora
si presenta in tutto il suo furore; e su, in alto, un grazioso
villaggio annidato fra il verde; poi un fruscio ed eccoti di bel nuovo
al buio.
La costa è disseminata di insenature e, qua e là, s'incontrano popolose
cittadine che attestano la fluorescenza della riviera occidentale.
Attraversiamo lunghi noti ed altissimi viadotti e poi una lunghissima
galleria che attraversa la montagna e la pianura dell'entroterra di
Alberga e subito dopo di quella di Capo Mele, che non ci permette di
vedere la bella cittadina balneare di Alassio e quella di Laigueglia,
ma subito dopo, come d'incanto, dall'alto del lunghissimo viadotto,
possiamo ammirare sulla nostra sinistra la verde vallata e la bella
cittadina di Andora, la nostra Andora, che ci ha accolti per diversi
anni nel suo seno e dove affondano le radici della nostra famiglia.
Negli anni Cinquanta dalla bellissima città di Alessandria, in seguito
al nostro matrimonio,siamo stati trasferiti nell'incantevole Borgo
marinaro di Andora, dove abbiamo prestato servizio istituzionale
nell'Arma Benemerita, e la nostra permanenza in quella località di
mare, si è protratta fino al 1967. In questo periodo, è nata nostra
figlia Tiziana. Andora è formata da un complesso di una trentina di
piccole ridenti borgate, raggruppate in cinque frazioni o parrocchie:
S. Pietro, il capoluogo, S: Giovanni, Rollo, Conna e S: Bartolomeo,
disseminate sopra un territorio ora pianeggiante ed ora montuoso, ricco
di olivi, di vigneti, di ortaggi e di frutta. Abbondante vi è la pesca.
Oggi, in quella verdeggiante vallata è nata una grande città di mare,
con palazzoni che deturpano quel ridente paesaggio bucolico. Andora,
oltre che una località di mare, è una località storica. Nel 967
l'imperatore Ottone I, perdonando alla propria figlia Adelasia la fuga
d'amore con Aleramo, assegnava a costui il Marchesato del Monferrato,
al quale incorporava il territorio di Andora, che successivamente passò
al Marchese Teti del Vasto, quindi ai Clavesana. In seguito poi a
guerre fra Genova guelfa ed Alberga ghibellina, i Clavesana, nel 1252,
cedettero alla Serenissima il feudo di Andora per otto mila lire
genovesi. Così Andora seguì le sorti di Genova e quindi dei Savoia.
Il grosso torpedone ha attraversato il lungo viadotto panoramico e poi
di nuovo è sparito nel lungo tunnel per apparire subito dopo nella
piana di Cervo e di San Bartolomeo, un borgo medioevale immerso fra i
verdi uliveti e poi, di nuovo è sparito e riemerso sopra la città
balneare di Arma di Taggia, centro della Liguria. L'abitato si prolunga
nel lungomare fino allo scoglio di Santo Stefano, ove si apre una
grotta preistorica o arma, da cui la località prende nome; oggi è
parzialmente occupata dalla chiesa dell'Annunziata. Stazione climatica
e balneare e centro di floricoltura industriale, dove lasciamo
l'autostrada e attraversiamo la moderna cittadina di mare per
raggiungere il borgo medioevale di Castellaro, barbicato su di un
grazioso poggio di verdeggianti uliveti. Per raggiungere l'Hotel
Castellaro, base d'arrivo e di partenza, dove il nostro torpedone che
ha dovuto percorrere una strada stretta e tortuosa con delle curve a
gomito che faceva venire persino le vertigini alle nostre signore.
Raggiunto il culmine, la strada si restringe e le curve e contro curve
si susseguono in una discesa molto ripida, ma finalmente, verso le ore
11 circa, la nostra corsa è terminata nel piazzale di fronte all'Hotel
di nuova costruzione, che dista appunto da Taggia 4 km. Di lassù si
ammira un paesaggio bellissimo tra cielo, terra e mare, dove
germogliano gli eterni ulivi. Dopo il benvenuto e l'assegnazione delle
camere, ci è stato offerto un aperitivo nella attesa del pranzo.
Quest'Hotel, è posizionato in una zona collinare molto panoramica, con
vista mare, circondato dal verde del campo di golf, che offre ai suoi
ospiti un insieme di servizi di altissimo livello. Il Campo Golf è un
percorso a nove buche con ampi campi pratica illuminati e club house in
posizione centrale rispetto all'intero complesso. Leggiamo in un
depliant, che il Resort è formato da un hotel con 64 camere e da 120
appartamenti vacanza costruiti nel tipico stile dei borghi liguri,
splendidamente inseriti in un parco di 25 ettari L'albergo, posizionato
strategicamente, ci ha accolti in un'ampia reception,dove si trova
l'elegante sala ristorante con vista sul mare,il bar e gli ampi
soggiorni che completano lo charme. La grande piscina esterna si trova
davanti all'hotel, circondata da un bellissimo giardino verde e
punteggiato da piccole piante d'ulivo . Il centro congressi, con
reception ha sale modulari per banchetti e riunioni, feste e spettacoli
fino a 800 posti, dotate delle attrezzature più moderne per accogliere
adeguatamente ogni evento. Sport e relax, sono garantiti, inoltre, da
tennis, calcetto, squash, basket, pallavolo, parco bimbi, biciclette e
percorso salute. Per gli amanti dei cavalli, adiacente al complesso,
troviamo un maneggio per equitazione ed escursioni verso l'impagabile
entroterra, ricco di natura e tradizione, ma quello che incornicia
questo luogo è il meraviglioso paesaggio, il paesaggio tipico della
Liguria, con i suoi borghi antichi , la costa e il mare blu.
GROTTE DI TOIRANO
Nel pomeriggio, siamo ripartiti da Castellaro, e a ritroso abbiamo
raggiunto Borghetto Santo Spirito, da dove s'inerpica la strada
provinciale che porta alle Grotte di Toirano. In passato, parlo di
molti anni fa, quando eravamo di stanza ad Andora Marina, con Adriana
mia moglie, in una giornata caldissima del mese di luglio, in sella
alla nostra Vespa 150 Special, raggiungemmo la grande vallata di m
Toirano, chiusa fra due alte montagne, dove spirava un venticello
fresco e delizioso, che faceva piacere fare quattro passi fra quei
sentieri dove sorgono le grotte di Toirano. Quindi, da tempo,
conoscevamo le bellezze di quelle famose grotte, come pure Borghetto
Santo Spirito, che è una ridente borgata, situata alla foce del
torrente Varatela, alle falde del Monte Piccaro; mutò l'antico nome di
Capo d'Anzio nell'attuale traendolo dall'antichissimo ospedale di Santo
Spirito costruito sul vicino capo omonimo. La storia ci racconta che
fin dal 1440 si resse con statuti propri. Nel 1600 fu occupato dai
Saraceni. Nel 1794 i francesi fortificarono la linea detta di Santo
Spirito che dal Monte Croce va alla Bocca Barbena e di là resistettero
ai fierissimi assalti delle truppe austro-sarde.
Gli abitanti sono dediti all'agricoltura, specializzati specialmente
nella produzione di pesche pregiatissime per varietà e squisitezza. Di
olio e di ortaggi, specialmente asparagi primaticci, come quelli che si
producono ad Alberga.
La pittoresca strada tagliata nella rupe di Capo S. Spirito, su cui
sorge il castello Borelli, in un susseguirsi d'incantevoli panorami che
conduce a Ceriale, mentre quella a monte ci porta dritto alle Grotte di
Toirano. Percorrendo la strada che da Borghetto S. Spirito raggiunge
Toirano salendo poi verso il Giogo di Toirano si rimane subito colpiti
dall'eccezionale paesaggio rupestre circostante. Sono le rocce calcaree
e dolomitiche a conferire un aspetto spesso aspro e tormentato alla
valle, così come è da imputare a questo tipo di roccia, facilmente
erodibile dall'acqua, la presenza di uno dei più importanti complessi
di cavità naturali d'Italia, le cavità carsiche. Ai piedi del grazioso
borgo di Toirano si trovano una serie di grotte straordinarie che
contengono reperti dell'era Paleontolica, risalenti a 80.000 anni a.C.
In questa località i nostri amici erano attesi dalla guida locale che
li ha guidati attraverso la Grotta della Badsura, che gli hanno
permesso di ammirare chiare impronte umane e di animali, e una
collezione di ossa e denti d'orso preistorico nel " cimitero degli
orsi". Nella Grotta di S. Lucia, anch'essa meta di visite guidate,
hanno ammirato in tutta la loro bellezza le luminose e colorate
stalattiti e stalagmiti. In fine hanno visitato il Museo Preistorico
della Val Varatela, che all'entrata della Grotta della Basura espone i
ritrovamenti avvenuti nelle grotte, e un modello di orso preistorico.
Questo Museo è ubicato nel Piazzale delle Grotte ed è aperto tutti
giorni.
Le Grotte di Toirano. Quest'ultime si raggiungono con una breve
deviazione lungo la strada per il Giogo di Toirano ed offrono la
possibilità di effettuare al loro interno un suggestivo percorso della
durata superiore ad un'ora. Le grotte, infatti, sono state attrezzate e
predisposte alla visita. Soprattutto ciò è stato fatto per la Grotta
della Basura (o della Strega) al cui interno si susseguono affascinanti
concrezioni di stalattiti A partire dal "cimitero degli orsi", un
enorme accumulo di ossa di Ursus Spelaeus, per passare al "corridoio
delle impronte", caratterizzato di calchi di torce, unghiate d'orso e
impronte umane che dimostrano come l'uomo di Cro Magnon, circa 14.000
anni fa, cacciasse l'orso nelle caverne, illuminandole con torce.
Questo fantastico mondo meta di geologi, antropologici e archeologi da
tutto il mondo è stato collegato, con un traforo artificiale, alla
grotta di S: Lucia Inferiore.
Una volta superato Borghetto Santo Spirito, per raggiungere le famose
grotte bisogna percorrere un sentiero asfaltato e alquanto ripido e
superare un dislivello di oltre 400 metri, su per una montagna brulla e
alquanto faticosa. Adriana ed io, per un tratto del sentiero, abbiamo
seguito i nostri amici, ma quando il sentiero si è fatto più ripido, e
una pioggerellina incominciava a cadere, rendendo il selciato
scivoloso, abbiamo desistito e siamo ritornati indietro fermandoci nel
Bar Ristorante delle Grotte, dove al coperto e comodamente seduti ad un
tavolino, abbiamo atteso l'arrivo del gruppo dei mantovani. Al Bar
delle Grotte, ci è stato servito un buon caffè, che ci aiutasse a
digerire il pranzo di mezzogiorno.
I nostri amici Maria e Fabio, grandi amici di una vita escursionistica
sui sentieri dolomitici, come pure gli altri nuovi, con il gruppo dei
mantovani, accompagnati dall'amico Ignazio Finocchiaro, hanno visitato
le decantate Grotte. Tutta la comitiva, la maggior parte costituita da
anziani, è ritornata alquanto provata dalla faticosa escursione ma
felici di aver ammirato le bellezze della natura, custoditi gelosamente
all'interno di quelle grotte create in milioni di anni dalla natura.
Dopo la visita di queste bellissime grotte, la comitiva ha fatto
ritorno nella cittadina di Arma di Taggia, raggiungendo la località di
Castellaro, dove ci attendevano per la cena. Dopo cena, il programma
prevedeva un'escursione nella città dei fiori di Sanremo, meglio
conosciuta dalla maggior parte degli italiani, come la capitale del
festival della canzone italiana, che dista soltanto dall'Hotel
Castellaro, solo 5 km, per visitare quella rinomata città di mare, con
le sue bellissime Piazze e i famosi carruggi, ma per motivi tecnici non
è stata effettuata. Noi che conosciamo molto bene questa stupenda città
di mare, cerchiamo di raccontare qualcosa di lei. La città si divide in
antica e moderna. La parte antica sta sul colle con viuzze e case alte,
vetuste. Vi si ammirano ancora gli avanzi della Porta S. Giuseppe. La
moderna invece si estende lungo la spiaggia, sopra un terreno
pianeggiante ed è ricca di monumenti di famose passeggiate lungo il
mare, di ville con giardini coltivati a diverse e rare vegetazioni.
In passato, quando abitavano ad Andora, abbiamo ammirato i grandi e
lussuosi alberghi, un tempo dimora prescelta da principi e da re, oggi
è frequentatissima dagli stranieri, che numerosi vengono a chiedere
salute e pace al tiepido clima sanremese.
Bello il monumento a Garibaldi di Leonardo Bistolfi e quello ai Caduti
della grande guerra; attraente la chiesa russa con splendide cupole
dorate e ricca decorazioni esterne; imponente il Casinò, che per
eleganza e frequenza di giocatori, gareggia con quello di Montecarlo ed
è fonte di un notevole cespite, che dà modo al Comune di accrescere il
patrimonio di naturale bellezza e rendere quel soggiorno sempre più
delizioso e desiderato.
La storia ci racconta che Sanremo era floridissima fin dal tempo della
repubblica genovese. E' meraviglioso passeggiare al chiaro di luna
lungo i giardini fioriti prospiciente il mare placito e sereno.
Il giorno successivo, dopo la prima colazione, siamo partiti alla volta
di Montecarlo, per visitare la stupenda Rocca e il centro storico. Nel
nostro tragitto, abbiamo attraversato, dopo Sanremo, la bella città di
Bordighera, che ci ricorda il nostro lungo soggiorno nella primavera
del 1946. La città è adagiata a poggi e ricoperti di ricchi uliveti,
disseminati di giardini, di eleganti ville, di palme che prosperano un
po' ovunque, è stazione invernale preferita specialmente dagli
stranieri e primi fra tutti dagli inglesi, per il clima mite e
costante, per gli incantevoli panorami e le solatie passeggiate
La città di Bordighera, d'origine preromana, fu fondata sul Capo di S.
Ampeglio da pochi villici convenuti dal vicino contado. Subì ripetute
invasioni dai Saraceni, fu distrutta e poi riedificata sotto la breve
dominazione della vicina Ventimiglia; nel 1499 passò a Carlo VIIII,
verso la fine del 1504 ai Genovesi, quindi ai Savoia per ritornare, nel
secolo XVII, a Genova, da cui otteneva, nel 1686 d'essere staccata da
Ventimiglia e di costituirsi comunità indipendente.
Al centro della sua attività, vi è l'industria alberghiera, nelle
frazioni prevale la cultura degli ulivi, ma più ancora quella dei
fiori: rose, garofani, mimose, e delle palme, le cui estremità sono
annodate per preservare i getti dai raggi solari e far loro acquisire
quella bianchezza che tanto piace, prezioso prodotto che ogni anno
prende la via di Roma, per la Domenica delle Palme.
Attraversiamo le vallate di queste due bellissime città, le colline e
la fascia costiera coltivate a fiori, le cui serre in vetro riflettono
i raggi del sole e proseguiamo verso l'antica e storica città di
Ventimiglia attraversata dal Fiume Roya. Oltrepassiamo il confine di
Stato con l'a Francia ed entriamo nel territorio del Principato di
Mantecarlo.
IL PRINCIPATO DI MONACO
Dopo il confine di stato, tra l'Italia e la Francia, da un affaccio
sulla Costa, ci appare nella sua meravigliosa bellezza e incassato tra
la montagna e il mare, il Principato di Monaco che è divenuto, col
passar degli anni, un polo d'attrazione internazionale ed un centro
turistico molto famoso in tutto il mondo. Il pesante pullman, sul quale
stavamo viaggiando, ha lasciato l'Autostrada che porta a Nizza ed ha
svoltato verso sinistra, entrando nella stupenda città Monegasca di
Monte Carlo.
All'altezza delle piscine, dove c'erano ancora tutte le impalcature del
Gran premio di Monte Carlo, la strada che porta sulla Rocca, devia
verso destra e penetra con una lunga galleria nel cuore della montagna
e si ferma nel posteggio sotterraneo. Scendiamo dal pullma e una scala
mobile ci porta in superficie, proprio dietro la Cattedrale e il
meraviglioso giardino botanico, dove ammiriamo piante esotiche e di
ogni genere, nonché un paesaggio mozzafiato tra cielo e mare. Seguiamo
la strada che ci porta al Castello del Principe. La grande Piazza è
affollata di turisti di ogni nazionalità. La giornata è meravigliosa ed
il sole illumina la storica rocca. I turisti armati da cinepresa e
macchine fotografiche scattano in continuazione fotogrammi su
fotogramma, per portarsi a casa come souvenir l'immagine di questo
sperone dove sorge il palazzo del Principe. Nella precedente visita,
avvenuta molti anni fa, i muri del Palazzo e delle case circostanti
erano scrostate e scolorite dal tempo. Oggi, è tutto restaurato, come
pure la grande Piazza e i carruggi del centro storico che ci raccontano
la sua storia.
La storia del Principato di Monaco si perde nella notte dei tempi ed è
legata inesorabilmente alla Famiglia Grimaldi.
Il nome di Monaco proviene, a quanto pare, da quello di una tribù
ligure che si stabilì in questa regione. Anticamente, secondo Strambone,
l'antico porto di Ercole di cui parlarono molte leggende del bacino del
Mediterraneo, ebbe il nome di Portus Heruculis Monaci. Da questo porto,
frequentato da tutti i navigatori dell'antichità, fenici, greci,
cartaginesi, massoliori, romani, nacque l'importanza di Monaco. Il
resto della storia di Monte Carlo, ce là raccontata magistralmente la
nostra guida locale, signorina Marianna, mentre viaggiavamo sul nostro
torpedone da Castellano verso Monte Carlo:
"Nel XII secolo, i genovesi si fecero concedere dall'imperatore e Re di
Germania Enrico VI la sovranità del porto e dello sperone roccioso di
Monaco. Nel 1215 crearono la fortezza, trasformata attualmente in
Palazzo dei Principi. Nel 1295 i Grimaldi, grande famiglia genovese del
partito dei guelfi, si esiliarono in Provenza, quando il partito dei
ghibellini assunse il potere a Genova. È infatti questa casata che ha
dato una dimensione di regno e stato, a questo scoglio roccioso su cui
già popolazioni liguri avevano eretto una fortificazione. L'epopea
della Famiglia Grimaldi sembra iniziare con un certo Grimaldi, Console
di Genova che ha dato il nome alla nobile discendenza. Siamo nel
Medioevo, ed è durante gli scontri tra Guelfi e Ghibellini che a Monaco
arriva Francesco Grimaldi di parte Guelfa, fuggito da Genova e fautore
di una rocambolesca avventura che lo vide camuffarsi da frate
francescano per poter entrare nella rocca di Monaco e conquistarla.
Questo astuto stratagemma, regalò alla Famiglia Grimaldi, il possesso
della rocca e a Francesco, l'appellativo di "Malizia". Da allora questo
promontorio roccioso di grandissima importanza a livello strategico, ha
subito continue dispute di casati locali, ma la grande destrezza
militare ed abilità diplomatiche dei Grimaldi, hanno garantito sino ad
oggi, il possesso di questa zona. Commercianti, pirati, condottieri di
ventura, Ammiragli e Principi, la Famiglia Grimaldi è stata, ed è, una
delle famiglie storicamente più interessanti nel panorama della nobiltà
mondiale. Lo stemma della famiglia Grimaldi, in cui sono rappresentati
due monaci armati, ricorda questa impresa. L'occupazione dei Grimaldi
durò solo quattro anni, e nel 1301 dovettero evacuare la piazza e
restituirla alla Repubblica di Genova.
Dopo numerosi peripezie, i Grimaldi tornarono a Monaco guidati da Carlo
I considerato come il vero fondatore della Casa di Monaco. Fu questo
sovrano che realizzò le modifiche più importanti nello sperone di
Monaco e nelle sue fortificazioni, e ingrandì i suoi possedimenti
comprendo la Signoria di Mentone e quella di Roccabruna. Nel 1524, per
il Trattato di Burgos, Monaco si mise sotto il protettorato spagnolo.
Nel 1633, la Spagna riconobbe ad Onorato II il titolo di Principe. Il
trattato di Peronne del 14 settembre 1641 assicurò, a sua volta,
l'amicizia protettrice della Francia col Principato. Il 15 febbraio
1793, il Principato fu annesso alla Francia secondo la Convenzione.
Monaco fu allora ribattezzato con il nuovo nome di Fort d'Ercule. Dopo
21 anni, il Principe Onorato V assunse i suoi diritti. Il Principe
Alberto I promulgò la prima Costituzione del 5 gennaio 1911. Gli
successe nel 1922 il Principe Luigi II, sotto il cui regno ebbe luogo
il Primo Gran Premio Automobilistico di Monaco (1929). Suo nipote.
S.A.S. Principe Raniere III, è salito al trono il 9 maggio 1949, e ha
fatto del suo paese uno Stato moderno pronto ad entrare nel terzo
millennio.
Oggi, questa importante e prestigiosa tradizione, è portata avanti da
S.A.S. il Principe Alberto II di Monaco che con grande generosità e
semplicità, porta avanti il percorso inaugurato da suo padre Ranieri
III nel rendere Monaco, un centro di attrazione turistica a livello
internazionale ed un florido punto di riferimento per l'imprenditoria
mondiale
Monte Carlo, quartiere del principato di Monaco, che si estende a NE
della vecchia Monaco, dove noi oggi ci troviamo, per la bellezza della
sua posizione è divenuto uno dei più famosi centri turistici
internazionali, soprattutto per il suo casinò, eretto nel 1858. Vi
sorgono anche i più importanti alberghi del principato.
Dopo l'escursione nel borgo antico di Monte Carlo, con i suoi carruggi
come quelli che si possono ammirare nella città di Genova e nei borghi
della Costa ligure, con le stradine acciottolate e l'indicazione delle
vie, è bilingue: in francese e in genovese. Prima del cambio della
guardia, abbiamo visitato il Museo dal Palazzo, con le sue bellezze
artistiche, mobili d'epoca, ritratti dei principi, la sala del Trono,
dove Ranieri III ha sposato la defunta Principessa Grace di Monaco.
Verso le ore 12.30, abbiamo lasciato la Rocca di Monte Carlo e abbiamo
visitato il resto della Città di Monaco, con i suoi alti palazzi e le
ville ottocentesche, con il Casinò, da dove si ammira un paesaggio
mozzafiato. A malincuore abbiamo lasciato quest'angolo di pace e di
grande bellezza paesaggistica e percorriamo a ritroso la panoramica
Autostrada con tutti i suoi affacci mozzafiato per fare ritorno
all'Hotel Castellaro, dove eravamo attesi per il pranzo.
Come abbiamo detto in precedenza,quella località è situata su di un
poggio da dove due colline degrado e convergono senza incontrassi a
forma d'imbuto, formando un triangolo di mare. Incorniciate da un cielo
azzurro e dove l'occhio spazia all'orizzonte fra cielo e mare e dove
regna tanta serenità. Nel grande salone ricavato nell'interrato
dell'Hotel, abbiamo trovato una grande confusione. Era affollato dai
tifosi di tre Club dell'Inter, che facevano festa, allietata da un
bravo cantante, seduto alla pianola. Il direttore dell'Hotel, ci ha
aggregati a quella massa di tifosi, che facevano festa, per
l'inaugurazione del nuovo Club di Cipressa: un caratteristico borgo che
sorge sulla collina panoramica a pochi passi da San Lorenzo al mare.
Olttre ai tifosi di Cipressa, c'erano anche quelli del Club di San Remo
di un altro borgo limitrofo.
E' proprio giusto quel vecchio proverbio che recita: quando ci sono
tanti commensali, naturalmente c'è anche tanta confusione. I camerieri
non erano sufficienti a servire quella folla e quindi le portate si
faceva attendere. Spesso, è successo che in qualche tavolo gli sono
stati serviti due antipasti e ad altri due primi, mentre altri
attendevano che arrivasse il cameriere con l'antipasto. Insomma,
regnava tanta euforia e anche tanta confusione e nervosismo. Al
microfono, come succede in queste feste dello sport, si sono succeduti
diversi oratori. Per l'occasione, c'era anche il figlio dell'ex Vice
presidente dell'Inter Giuseppe Prisco, deceduto alcuni anni fa, al
quale è stato intestato appunto il Club di Cipressa. Per concludere,
diremo che il pranzo di mezzogiorno è terminato verso le ore 16 circa e
quindi, come è successo per l'escursione serale di San Remo, è saltata
anche l'escursione nel Borgo Marinaro di Noli. Il nostro
accompagnatore, Ignazio Finocchiaro, al microfono del torpedone, mentre
stavamo viaggiando verso Savona, ci ha comunicato che non era possibile
effettuare la fermata prevista sulla tabella di marcia a Noli, perché
non c'era il tempo necessario, e per questo, si è scusato con gli
escursionisti. Fra i viaggiatori, ci è stato un po' di amarezza, per la
mancata visita, ma contro il tempo non c'è nulla da fare. Se non si
fosse presentato il contrattempo organizzativo nel ristorante, forse
avremmo avuto la possibilità di visitare quel piccolo angolo marinaro
di Noli. Chiarito questo piccolo inconveniente, il torpedone ha
proseguito la sua corsa verso Mantova
La mancata visita di Noli.
E' stato un vero peccato non poter visitare il borgo medioevale di
Noli, perché ne valeva veramente la pena: Questo borgo conserva tutt'ora
le caratteristiche del vecchio borgo marinaro con i suoi caratteristici
carruggi, le stradine acciottolate, le Piazzette, le torri e le case
originali di un tempo, i suoi Palazzi e le vecchie mura ammantati di
leggenda. E poi, nel centro storico si incontrano i suoi caratteristici
negozietti, dove fa bella mostra di se la gustosissima focaccia alla
genovese e poi, vi sono gli accoglienti ristorantini, dove si pratica
la cucina tradizionale ligure. Anche se non abbiamo avuto il tempo
necessario per una veloce visita, cerchiamo nel miglior modo possibile,
sul filo della memoria, di raccontare, con parole nostre, le sue
bellezze naturali e la sua storia. Noi conosciamo molto bene questo
Borgo molto rinomato, per esserci stati più volte nel corso della
nostra permanenza nella Costa di Ponente della stupenda Liguria, dove
abbiamo trascorso gran parte della nostra vita, al servizio della Legge
e della comunità ligure.
Ogni volta che si visitano questi borghi, dall'impressione che il tempo
si è fermato, infatti, è proprio così. Il tempo si è proprio fermato,
anche se ci troviamo nel XXI Secolo, perché in questi luoghi sono
ancora vivi i costumi e le antiche tradizioni, ma soprattutto la sua
cucina e con gli antichi aromi, nonché le sue specialità a base di
pesce, che si tramanda dai tempi lontani, ( altro che la cucina
dell'Hotel Castellaro. Come complesso turistico, ci togliamo tanto di
cappello, ma la cucina lascia molto a desiderare, insomma, non ha
incontrato i nostri gusti).
Noli, la quinta Repubblica Marinara.
Incominciamo a dire che, Noli è un antico borgo marinaro medioevale,
situato una quindicina di chilometri a sud-ovest di Savona, poi
divenuto centro climatico e balneare, in un'insenatura in forma di
mezza luna tra la Punta del Vescovado e il capo omonimo. La Via Aurelia
divide la spiaggia, di sabbia mista a ghiaia, dall'abitato che conserva
torri e palazzi medievali e un tratto di mura dell'epoca che salgono
all'antico castello.
Le origini, ammantate di leggenda, si rifanno alla figura di San
Paragorio, un martire giunto sul luogo in epoca bizantina. Il borgo, un
tempo pagus romano, ebbe dapprima il nome di Neapolis - nel senso di
"nuova città" - poi mutato in Naboli, Nauli e infine Noli.
Distrutta dai Longobardi nel VII secolo, fu ricostruita vicino al mare.
La partecipazione alla Prima Crociata nel 1097, portò a Noli parecchi
privilegi fino alla costituzione in Repubblica Marinara nel 1192.
L'alleanza con Genova contro la comune rivale Savona e nelle battaglie
contro Pisa e Venezia per il dominio del Mediterraneo, ne consolidò la
potenza e l'autonomia, che durò, di fatto, fino al 1797 con l'invasione
napoleonica di Noli e della stessa Genova.
Le nostre reminiscenze lontane, ci richiamo alla mente le diverse
visite nel borgo marinaro e ci suggeriscono che una visita non
affrettata, ovviamente a piedi, è molto raccomandabile, ancora meglio
se lontano dalla stagione balneare. Il clima è sempre mite specialmente
in autunno che si può persino passeggiare tranquillamente in maniche di
camicia e sicuramente é il momento migliore per immergersi nei ritmi
pacati della quotidianità: attendere le barche variopinte dei
pescatori, osservare i gesti quotidiani e antichi del traino a riva
delle reti, curiosare (e, perché no, acquistare) tra le improvvisate
bancarelle con i pesci ancora guizzanti, perdersi tra i "carruggetti"
acciottolati e i portici del borgo ammirando le eminenze
architettoniche ma anche i particolari dell'urbanistica tradizionale,
magari sgranocchiando una fetta di focaccia fragrante accompagnata da
un bicchiere di vino bianco della zona.
Prima di intraprendere il percorso, è opportuno recarsi alla APT, in
Corso Italia 8. Tra le pubblicazioni disponibili, è particolarmente
utile il prospetto dei pannelli esplicativi, numerati da uno a dieci,
ubicati nei punti più strategici per illustrare con dovizia di
particolari, la storia e architettura, curiosità del borgo. La sfilata
di case che si affaccia su Corso Italia - parallelo all'Aurelia - ha
alla sua base i bassi portici (o Loggia della Repubblica), che
richiamano in piccolo, per struttura e funzione, la "Sottoripa"
genovese che prospetta su Piazza Caricamento: infatti, come quella,
erano destinati a ricovero per le barche, le reti e le attrezzature da
pesca. Oggi sono meta di una gradita passeggiata tra caratteristici
negozietti e laboratori artigiani.
La continuità dei portici è interrotta dalla Porta di Piazza, risalente
al sec. XIII e sormontata da un affresco con lo stemma, i santi
protettori della città e la Madonna: è il principale varco che immette
al centro storico vero e proprio. Ci si trova subito nella Piazza
Milite Ignoto, uno slargo scenografico pavimentato con piastrelle e
ciottoli raffiguranti gli stemmi delle "altre" quattro Repubbliche
Marinare (Genova, Amalfi, Pisa e Venezia), sul quale si affaccia il
Palazzo della Repubblica, oggi sede del Comune. Sotto la bella Loggia
ad archi una lapide ricorda la partenza da Noli per l'Olanda il 31
maggio 1476 di Cristoforo Colombo, viaggio che per una serie di
vicissitudini ebbe fine in Spagna e Portogallo, dove il grande
navigatore trovò l'appoggio per la sua impresa.
Dopo questi cenni storici, si può proseguire l'itinerario seguendo i
pannelli descrittivi, alla scoperta del borgo che, com'è tipico di
tanti analoghi in Liguria, conserva l'impianto medioevale con il
reticolato di stradine perpendicolari alla linea costiera che di tanto
in tanto si allargano in suggestive piazzette: particolarmente bella la
Piazzetta Morando, circondata da palme che in lontananza sembrano
incorniciare il castello e caratterizzata dalla Torre del Canto (canto
sta per angolo) dall'originale pianta trapezoidale. Le torri sono del
resto sempre state una peculiarità di Noli, dovuta anche agli influssi
urbanistici genovesi: nel Duecento si contavano ben 72 case-torri, di
cui oggi sono superstiti solo otto. Perfettamente integra è la Torre
Comunale in pietra verde e mattoni a vista, alta 33 metri e sormontata
da un coronamento di merli ghibellini. Se non ci fosse il mare, ci
darebbe l'impressione di percorrere le stradine acciottolate del centro
storico di San Geminiano, che sorge sulle colline Senesi, con le sue
alte torri, che stanno a indicare la grandezza del casato di ogni
torre. Qui a Noli, le torri hanno lo stesso significato, ma soprattutto
servivano quale rifugio per gli abitanti, quando erano attaccati dai
Saraceni e dagli Arabi. Viaggiando per la Liguria, spesso s'incontrano
di queste torri, come quella che abbiamo visto nel borgo di Castellaro,
barbicato sull'alta collina e ombreggiata dagli alti uliveti sopra Arma
di Taggia.
Ritornando a parlare di Noli, diremo che all'estremità a levante del
paese è ubicato un gruppo di edifici significativi. Percorsa l'intera
palazzata che prospetta sul mare, si imbocca attraverso un arco la Via
Deferrari che in breve conduce alla Porta e alla Torre del Papone,
tozza e ben conservata; da qui in breve al Palazzo Vescovile e alla
Chiesa delle Grazie, dal cui piazzale si gode un colpo d'occhio
stupendo sul borgo antico e su un ampio tratto della bellissima e
colorata costa. Continuando oltre la Porta San Giovanni, ci si immette
sulla panoramica strada a tornanti che ha termine ai 121 metri del
Castello di Monte Ursino: : del complesso, non visitabile all'interno e
parzialmente in rovina, rimangono la torre cilindrica del XII secolo
già ben visibile da lontano, l'imponente mastio e un tratto di mura
merlate che scendono fino al borgo. Visitando questo borgo, ti senti
proiettato nel passato, in un mondo diverso dal nostro, ecco perché
l'uomo contemporaneo rimane stupito di fronte a tanta bellezza che ci
richiama alle nostre origini.
Altrettanto, se non di più, rilevante all'estremità a ponente di Noli è
la chiesa di San Paragorio, considerata uno dei migliori esempi d'arte
romanica in Liguria; risale nelle forme attuali al Mille, anche se la
struttura originaria è dell'VIII secolo. La facciata (lato monte) è
decorata con archetti pensili, lesene e maioliche islamiche, così come
i fianchi e le absidi rivolte verso il mare; sul lato sinistro vi è un
portico quattrocentesco fiancheggiato da tombe medievali. All'interno,
che annovera anche un bel soffitto di legno, rilievi marmorei dell'VIII
secolo, affreschi quattrocenteschi rimaneggiati, l'opera di maggior
pregio è il Volto Santo, un espressivo crocifisso ligneo policromo del
Millecento di ispirazione orientale. Nell'area circostante, come
leggiamo in un piccolo opuscolo, sembra che fu scoperta negli anni
Settanta una vasta necropoli, a tutto oggi oggetto di scavi. Un'altra
chiesa simile dello stesso periodo, esempi d'arte romanica in Liguria,
l'abbiamo vista in località Castello di Andora, che sorge in mezzo agli
antichi uliveti, in un promontorio rivolto verso il mare, mentre a
valle. Un magnifico potente a schiena d'asino, dello stesso periodo
attraversa il torrente.
Al di là delle architetture più evidenti, è però interessante aggirarsi
per le vie del borgo alla caccia di particolari. Belle sono ad esempio
le indicazioni delle strade, placche che riportano, accanto al nome
della via, il simbolo della Torre Comunale e la dicitura "Noli V
Repubblica Marinara"; presso il Comune, la Lampada di N.S. di Piazza,
un tempo unico fanale pubblico della città posto davanti a un'edicoletta
votiva a simboleggiare il sacro fuoco della libertà; la Raiba, un tempo
edificio destinato a custodire le risorse alimentari della città, sulla
cui facciata sono ancora oggi visibili tre begli archi a tutto sesto;
casa Garzoglio e Casa Maglio, due case-torri del Trecento con logge e
bifore; e infine i pochi rimasti tra i cosiddetti "bacini murati",
pregevoli ceramiche islamiche e bizantine policrome - forse ex-voto o
trofei di guerra - inserite ad ornamento delle facciate di palazzi,
chiese o torri.
Non è la prima volta che visitiamo la cittadina marinara di Noli. In
passato, con la nostra minuscola famiglia, nel periodo in cui
prestavamo servizio nella meravigliosa città di Genova, spesso ci
recavamo a trascorrere la giornata festiva nel borgo antico di questo
piccolo gioiello marinaro. Qui a Noli si svolgono due importate
manifestazioni: Il Con fuoco. La celebrazione risale al dominio della
Repubblica di Genova ed è rimasta praticamente immutata fino ad oggi.
Ha luogo nel periodo natalizio e consiste nell'offerta alle autorità di
ceppi di alloro, pianta fin dall'antichità ritenuta beneaugurate. Il
legname è poi bruciato e, secondo l'antica credenza, si possono trarre
auspici buoni o nefasti per l'anno che sta per iniziare
LA REGATA STORICA
Nell'autunno di molti anni fa, siamo capitati per caso a Noli, proprio
il giorno dei festeggiamenti della Repubblica Marinara, che si tiene
ogni anno nella prima domenica di settembre e rievoca la nascita della
Repubblica, con la sfilata nel centro storico di cavalieri, dame,
guerrieri nei costumi dell'epoca. Il corteo si porta infine sulla
spiaggia: sullo specchio di mare antistante dove ha luogo la sfida tra
i quattro Rioni (Burgu, Main-a, Ciassa, Purtellu), una vogata di due
chilometri sui gozzi, le tradizionali barche da pesca liguri. In quel
tempo, la nostra principessa Tiziana, frequentava le elementari e a
tutti i costi voleva salire su di uno di quei gozzi, per provare
l'emozione dell'impresa marinaresca. L'amico Baciccia (Francesco), che
era il capitano di uno di quei gozzi, la fece salire a prua della sua
barca solo per il tempo di scattarle una fotografia. Come tutti i
bambini, era veramente felice. A volte basta un non nulla per fare
felice una persona, figuriamoci una bambina, quando scopre qualcosa che
prima non aveva mai vista.
Quando abbiamo ripreso il treno diretto a Genova, il sole si apprestava
a declinare dietro le montagne macchiate di verde e di marrone della
costa, mentre i suoi riflessi si specchiavano e galleggiavano sulle
piccole onde di quel mare azzurro. Il convoglio era pronto per la
partenza e aspettava il fischio del Capostazione. La nostra passeggiata
domenicale nella bella Riviera ligure finisce qui, fra cielo, terra e
mare di quest'angolo sereno del borgo marinaro di Noli. Adesso potevamo
ripartire con la gioia nel cuore, per aver trascorso una bellissima
giornata in una delle più antiche e prestigiose Repubbliche Marinare
del Mediterraneo. Il nostro ricordo nel tempo, termina qui, con questi
pochi versi di Eugenio Montale, che così scrive:
" Il cammino finisce a queste
prode
Che rode la marea col moto alterno
Il tuo cuore vicino che non m'ode
Salpa già forse per l'eterno.
Le Risaie specchianti.
Negli anni critici della fine della Seconda Guerra Mondiale, il nostro
Bel Paese era ridotto ad un cumulo di macerie, città distrutte, ponti e
vie di comunicazione ridotte ai minimi termini, ma quello che era più
grave era la grande miseria che avanzava a passi da gigante, ma
soprattutto scarseggiavano ovunque qualsiasi tipo di generi alimentari
e ognuno si arrangiava come poteva, per portare a casa qualcosa per
fare bollire la pentola e per sfamare il resto della famiglia. Alla
borsa nera si trovava quasi tutto, ma mancava quel veicolo che si
chiamava " moneta" per acquistare il necessario per la sopravvivenza.
In quel triste periodo post-bellico 1944/45, esisteva solo il caos e
non si sapeva cosa fare. Il lavoro non esisteva, ma esisteva lo
sbandamento di una massa omogenea di persone che si spostava dal nord
al sud e la delinquenza faceva proseliti, commettendo rapine e furti di
ogni genere. Se andiamo ad esaminare questo problema criminalità, oggi
non è che stiamo meglio, anzi, la situazione è peggiorata con
l'invasione del nostro Paese dagli extra comunitari. Dobbiamo chiarire,
che non tutti gli extra comunitari fanno parte di quella categoria
dedita alla criminalità, anzi, la maggior parte di loro, sono persone
rispettabili e laboriose. Se non ci fossero li dovremmo inventare.
Questa massa eterogenea dei nuovi cittadini, in un certo senso ci
ricorda: " quando gli albanesi eravamo noi". Quello che ci preoccupa
seriamente, è l'invasione dilagante nelle nostre città dalla
prostituzione e della criminalità giovanile, che per pochi spiccioli,
scippano le persone anziane e più delle volte, nello strattonarle
cadono pesantemente a terra riportano gravi lesioni.
Nell'inverno del 1946, ci trovavamo nella bella città di Bordighera ed
eravamo ospiti in casa di nostra sorella Angela, che prima del
conflitto mondiale coltivavano i fiori. Nelle serre al posto dei fiori,
si coltivavano degli ortaggi sufficienti per la famiglia, ma per
fortuna in Liguria il clima era dolce e non occorreva il riscaldamento
domestico. Con un gruppetto di amici, un bel giorno, abbiamo deciso di
recarci nelle località di produzione per acquistare del riso e della
farina per superare l'inverno. Ad Alessandria, per raggiungere il
vercellese, abbiamo cambiato treno, quello era un treno a vapore che ci
ha portati nel cuore della grande pianura innevata dove si produce il
riso, il grano e i legumi. Verso sera ci siamo fermati alla stazioncina
di Stroppiana, un piccolo paese immerso nella grande pianura bianca di
neve. Eravamo giunti nella provincia di Vercelli, che a me e non solo,
ci sembrava di essere giunto nella steppa gelata della grande e
sterminata Russia. Per noi, che non avevamo mai visto tanta neve, ci ha
dato la sensazione di ammirare un paesaggio lunare e metafisico, un
paesaggio astratto e silenzioso, dove si sentivano solo di tanto in
tanto, il gracchiare dei corvi neri che sorvolavano la grande pianura
in formazione alti nel cielo. Gli ultimi bagliori del sole che da poco
era tramontato dietro gli alti filari di pioppi spogli, ma quello
improvviso e rapido splendore di luce, illuminava oltre che il manto
nevoso, anche il campanile del piccolo borgo, creando una visione
celestiale.
Appena scesi dal piccolo convoglio, abbiamo chiesto informazioni al
Capostazione, il quale ci ha indicato una grossa cascina, dove avremmo
potuto trovare quello che ci occorreva. Il proprietario ci ha accolti
con molto garbo e cortesia. Abbiamo acquistato dieci chilogrammi di
riso, un sacchetto di farina a testa e altre derrate alimentari.
L'agricoltore, con il suo carro, trainato dal cavallo, l'ha trasportato
alla piccola stazione i nostri bagagli. La moglie dell'agricoltore, ci
ha invitati ad una frugale cena senza esigenze e siamo stati inoltre
ospitati anche per la notte nel tepore della stalla, dove ruminavano le
mucche. Nelle prime ore del mattino, siamo stati svegliati dal canto
del gallo del vicino pollaio e con il primo treno per Alessandria,
siamo partiti su quel trenino sbuffante, che lasciava dietro di se una
lunga scia intensa di fumo nero agro e pungente, nonché soffocante di
carbone fossile. Osservando quel paesaggio innevato, in quella pianura
dove l'occhio si perdeva all'orizzonte e nell'osservare tutto questo,
mi sembrava di sognare uno di quei paesaggi descritti da Boris
Pastarnak, nel suo bellissimo libro " Il Dottor Zivago, ma quella non
era la steppa della grande Russia, ma la grande risaia specchiante, ma
che di specchiante aveva soltanto il riverbero di un pallido sole
invernale che stava sorgendo verso Oriente. Però i presupposti di una
bella giornata c'erano tutti. Lasciamo quei momenti tristi del nostro
passato prossimo e veniamo a parlare delle risaie, ma soprattutto delle
mondine.
Mondine e risaie
Le mondine, che hanno ispirato, e continuano ad ispirare nel ricordo,
scrittori, pittori e musicisti, hanno rappresentato una novità dal
punto di vista sociale ed economica per l'Italia dall'inizio del
Novecento agli anni sessanta: molte donne per la prima volta lavoravano
fuori casa e per la prima volta, slegate dai vincoli famigliari,
potevano godere di una libertà mai conosciuta. Il loro durissimo lavoro
consisteva nel mondare le coltivazioni risicole dalle erbacce
infestanti: l'insolita presenza di queste donne ravvivava per alcuni
mesi il paesaggio delle colture allagate: su melodie notissime, si
cantavano non solo il lavoro spossante e l'odio per i potenti
(generalmente rappresentati dal padrone e dal caporale, che poi non era
altro che un salariato agricolo), ma anche la distanza da casa
(eserciti di giovani si spostavano per alcuni mesi dall'Emilia, dal
Veneto e del basso Mantovano nelle zone più a ovest della Pianura
padana, nel Vercellese, nel Novarese, nel Pavese e nel Monferrato), gli
amori per i giovanotti conosciuti, i brevi flirt, la vita quotidiana.
I siti che riproducono le più rigorose ricerche storiche sull'argomento
comprendono necessariamente una sezione dedicata ai canti di monda. Tra
questi ne va segnalato uno molto composito e ricco, interessante e ben
costruito, sulle mondariso di San Nazzaro de'Burgondi e della Lomellina,
dal titolo Mondine lomelline, curato da un privato. Vi si affrontano
gli aspetti storici, economici, sociali del lavoro delle mondine con un
cospicuo corredo di fotografie: questo "reportage" è frutto di una
ricerca condotta in buona parte sulle testimonianze orali delle
mondariso, che si sono anche cimentate per i ricercatori in alcuni dei
più famosi canti, sebbene in un'intervista dalla Gazzetta di Mantova,
apparsa giorni fa, corredata da fotografie ingiallite dal tempo, dove
si afferma che le donne erano talmente stanche che difficilmente
riuscivano la notte a dormire su quelle povere brande o sulla paglia
nei grandi cameroni della cascina padronale, generalmente ubicata
vicino alla risaia. Anche le Mondine di Valle Lomellina (Pv) hanno
inciso il loro repertorio su musicassetta: hanno ricostruito i propri
vissuti musicali in un continuo riemergere di ricordi, a volte nitidi,
a volte frammentari, talvolta contrastanti tra loro. Oggi si esibiscono
in pubblico, non limitandosi a cantare, ma spesso, con una buona dose
di autoironia, rievocando momenti di vita quotidiana, dal lavoro nei
campi ai momenti di relax.
Non si può che citale gli aspetti economici e sociali del lavoro di
monda nella risaia vercellese, delle lotte per le otto ore, che nel
1906 sfociarono in imponenti scioperi, delle differenti condizioni di
vita delle mondine locali rispetto a quelle provenienti da altre
regioni. Oltre ai siti dedicati interamente alla storia delle
mondariso, ve ne sono alcuni che si occupano dell'argomento entro più
generali ricerche sulle donne, sul lavoro e sul folklore.
Anche il cinematografo si è interessato dalle mondine. Ricordiamo il
film "Riso amaro",una pellicola recentemente restaurata, è certo il più
famoso film dell'immediato dopoguerra ambientato nella risaia
vercellese: il regista Giuseppe De Santis ricordò in un'intervista,
rilasciata al vercellese Guido Michelone, l'aspetto di forte realismo
nella scelta delle attrici e della fedele riproduzione del contesto. La
cultura delle mondine era quella riflessa nel film: seguivano la moda
con chewing-gum, boogie-woogie, fumetti in un mondo che incominciava a
filtrare gli usi d'oltreoceano.
Come abbiamo potuto constatare, in quel tempo lontano, ci riferiamo al
periodo posto-bellico 1948, quando giovane carabiniere, in forza al
Comando Tenenza CC, di Milano Duomo, siamo stati assegnati ad una
squadra alle dipendenze dell'Ispettorato del lavoro, addetti alla
vigilanza sull'impiego e il trattamento economico e lavorativo delle
mondine nelle risaie del Monferrato e della Lomellina. In quel tempo,
nelle campagne adibite alla coltivazione del riso, tutto si svolgeva
manualmente e con mezzi rudimentali. Non esistevano ancora mezzi
meccanici o se esistevano, erano in stato sperimentale. Insomma , il
riso si trapiantava a mano, si mondava a mano e si mieteva a mano,
oppure con una mietitrice trainata da un cavallo. Con il cavallo o con
le mucche, si trasportavano i mazzetti di riso nella risaia per essere
trapiantato dalle mondine e dove ebbe risaltato l'ampia illustrazione
della vita e del lavoro dei braccianti, dei salariati fissi e delle
mondine, figure talune, ormai scomparse dal mondo della produzione
agricola padana. Ricordo che a sera, quando tramontava il sole le
mondine raggiungevano la cascina, si lavavano come potevano alla pompa,
una tirava su l'acqua e le altre si lavavano alla meglio. Dopo la
frugale cena, che consisteva in una ciotola di riso e un pezzetto di
pane bianco anch'esso di riso, si sedevano attorno all'aia e alle note
scandite da una vecchia fisarmonica o da una chitarra si ballava, si
amoreggiava e si cantava, per fare passare la serata in allegria,
lontane dalle loro famiglie e dagli affetti famigliari. L'anima delle
mondine era piana, solida, uniforme come il paesaggio, tutto invaso
dalle acque, che il poeta cantava:
" Acque serene ch'io corsi sognando
Nella dolcezza delle notti estive/
Acque che vi allargate fra le rive/
Come un occhio stupito, a quando, a quando./
Oh! Nostalgiche acque di sorgiva,/ acque piemontesi e lombarde".
Una campagna immersa nel silenzio fervore del trapianto del riso,
riposante paesaggio invaso dalle acque da cui per la gran distesa si
possono ascoltare sia di giorno che di notte i lunghi concerti eseguiti
dalle rane e si possono scorgere anche lontani profili delle colline
del Monferrato e le cime delle Alpi discoste e nevose.
Molti scrittori hanno scritto sul lavoro agricolo e sulle mondine, essi
hanno il merito di averci consegnarci le immagini, ad esempio, di quei
"sanmartino, quando scadevano i contratti per i salariati fissi, con le
teorie dei carri che si spostavano da un cascinale all'altro con le
povere masserizie, che costituivano la casa dello schiavandaro, e quei
quattro animali da cortile che ne rappresentavano l'eventuale
patrimonio, oltre alla forza delle sue braccia ed al numero di quelle
valide che la famiglia poteva mettere, in suo aiuto, a disposizione del
conduttore. Od ancora - ed è una delle documentazioni più suggestive ed
interessanti - quella delle campagne per la monda e la raccolta del
riso. Tutto questo, per chi non lo ha visto direttamente in quei
luoghi, lo ha appreso sicuramente nella visione dei film "Gli alberi
degli zoccoli" del regista Olmi, oppure nel film Novecento, che sono
due capolavori della cinematografia italiana.
Operando, come abbiamo fatto noi in uno o più centri della piana
risicola padana, abbiamo la possibilità di documentare in modo
sistematico il lavoro e le condizioni di vita delle mondine. A dir la
verità negli anni del dopoguerra furono in molti a cimentarsi sul tema
[...] Tutti affronta[ro]no, pur con risultati formalmente diversi, gli
aspetti della vita quotidiana: i dormitori, la cucina, il bucato ed il
bagno nella roggia, la fatica del lavoro, l'abbigliamento
caratteristico, il riposo festivo, la festa sull'aia e poi le singole
figure quali il caporale e l'acquaiola, frugando spesso più che nella
realtà nelle fantasie che la figura della mondina suscitava soprattutto
negli osservatori di sesso maschile: essa era femmina, giovane, spesso
bella, altrettanto spesso sessualmente emancipata.
Oltre ad avere il compito di vigilare sull'osservanza delle
disposizioni di legge, senza volerlo, ma in qualità di agente
dell'ordine, che per natura siamo portati ad osservare tutti quegli
aspetti meno oleografici, certamente meno appetibili per le cronache
illustrate di costume. Aspetti quali il viaggio su carri ferroviari per
il bestiame; l'arrivo notturno in squallide stazioncine appositamente
istituite in prossimità dei grossi cascinali; gli sguardi smarriti di
queste donne che tutto desiderano evidenziare tranne la propria
avvenenza spesso inesistente, il più delle volte soffocata
inesorabilmente dalla fatica. È un disvelamento che dal punto di vista
della conoscenza visiva, non di quella del fenomeno, è indubbiamente
sorprendente. Avevamo inoltre l'assoluta peculiarità di registrare
puntualmente l'avvicendarsi regionale, nel tempo, della mano d'opera
reclutata per le campagne di monda; con l'ultima fase, quella dei tardi
anni cinquanta, che vede l'arrivo delle mondine assunte persino in
Calabria.
L'Era della locomozione.
Dopo gli anni Cinquanta,come leggiamo in una documentazione dell'epoca,
periodo sotto il quale, i coltivatori del riso in Lomellina e anche in
Monferrato,per aderire alla sperimentazione di prototipi si sono
rivolti alle grosse case produttrici internazionali che fabbricano
macchine agricole per le diverse fasi della coltura del riso e che
vengono a collaudare i prototipi nel Vercellese. Esse affidano
all'agenzia Fotocronisti Baita la cura della documentazione fotografica
tecnica, sulla base delle garanzie che, in un certo senso, forniscono
analoghe prestazioni dell'agenzia per aziende meccaniche italiane del
settore, operanti nel Vercellese. Questo tipo di documentazione è
databile al ventennio che va dalla fine della guerra alla metà degli
anni sessanta. Le aziende che utilizzano le capacità
tecnico-professionali dell'agenzia sono olandesi, francesi, tedesche ed
anche spagnole, oltre che italiane. Le principali: la Cantone di
Vercelli la quale, dopo un certo periodo, diviene anche la
rappresentante italiana della società Claas, la Claas stessa, la Braud.
Si parte dai primi carri motorizzati con ancora un forte concorso da
parte della forza fisica dell'uomo - "erano mezzi prodotti da piccole
ditte artigianali del Vercellese" ricorda Giachetti - e si arriva, nei
primi anni cinquanta, ai trattori immessi a lavorare in risaia con il
grosso problema, da risolvere, del tipo di motricità: "Si iniziò a
sperimentare l'impiego di cingoli, ma con risultati disastrosi, poi
vennero le ruote dentate" testimonia sempre il fotografo. Vengono
successivamente le macchine più complesse che dovevano operare in
risaia - "era il settore più problematico!", sottolinea Giachetti - e
nella pianura coltivata a frumento e mais. Il tipo di documentazione
fotografica prodotta spazia dalle capacità operative generali della
macchina, alla ripresa del dettaglio (ad esempio la reazione dei vomeri
al terreno; L'affondamento delle ruote motrici nel fango).
Le macchine documentate sono seminatrici, mietitrebbia, macchine per il
diserbo semiautomatico ed automatico, fino alla supercoltivatrice
progettata dalla Cantone che tenterà di sviluppare contemporaneamente
in risaia operazioni di taglio, sgranamento, solcatura, diserbo e nuova
semina. Tra le diverse curiosità che l'archivio fotografico racchiude è
un sistema di trapianto del riso che prevedeva il trasporto motorizzato
di una squadra di mondine che operavano sedute sulla macchina
Dall'esame della documentazione ciò che colpisce è l'elevata frequenza
di collaudi effettuati palesemente di notte, in località isolate.
Circostanza questa confermata da Giachetti stesso e che trovava ragioni
non solo nel tentativo di proteggere da occhi indiscreti eventuali
innovazioni tecnologiche, quanto nella necessità di sottrarre questi
esperimenti alle possibili sanzioni dei lavoratori e delle loro
organizzazioni in lotta contro una meccanizzazione spinta. Gli anni
cinquanta, sotto questo aspetto, sono anni di scontro sociale
durissimo. In risaia la resistenza alla sostituzione del lavoro manuale
con quello meccanizzato si combatte senza esclusione di colpi: dal
reclutamento di mano d'opera in forme clandestine, o quasi, a basso
costo, operato da parte padronale, al di fuori dei controlli sul
mercato del lavoro, fino al sabotaggio, da parte dei lavoratori,
praticato ad esempio conficcando nel terreno della risaia, sotto il
pelo dell'acqua, picchetti di acciaio che spezzavano facilmente le lame
delle mietitrebbia.
Non meno rilevante è la documentazione del progressivo modificarsi del
paesaggio agricolo in conseguenza dell'introduzione ed applicazione di
nuove tecnologie meccaniche e chimico-biologiche. Queste ultime con
l'introduzione di tutta la drammatica fenomenologia dell'inquinamento
ambientale che comportò la scomparsa di alcune specie vegetali ed
animali dalla campagna. E basti pensare alla scomparsa dei filari di
alberi lungo i cavi irrigui in seguito al diserbo od alla quasi
estinzione della fauna acquatica nella piana irrigua. Ma soprattutto -
più rilevanti dal punto di vista dell'immagine - il modificarsi, ad
esempio, delle dimensioni spaziali della risaia in seguito allo
spianamento delle stesse imposto dall'impiego delle nuove macchine
agricole che dovevano operare su terreni ampi e non sconnessi.
Un ultimo tipo di documentazione tecnica prodotta da Fotocronisti Baita
riguarda invece esperimenti di laboratorio. Le maggiori commesse, anche
queste databili tutte al ventennio tra la fine della guerra e la fine
del boom economico, vennero dal Centro sperimentale di risicoltura nato
inizialmente come consorzio volontario dei grandi coltivatori
vercellesi e successivamente trasformato in struttura pubblica. Tali
commesse erano rivolte a documentare particolari tipi di additivi o
aggressivi chimici (fertilizzanti, diserbanti, fitofarmaci) o il ciclo
biologico di qualche particolare coltura di tipo sperimentale. [...]
Insomma, per giungere ai giorni nostri, l'agricoltura, non solo quella
risicola, ha fatto dei grandi passi da giganti: Oggi, il ricordo delle
mondine, è come un sogno che è sfumato nel tempo. A documentare quel
triste periodo, è rimasta soltanto la memoria di poche persone, oppure
la documentazione storica negli archivi provinciali dei luoghi di
produzione. Oggi per produrre questo cereale e diventata una cultura
molto semplice come quella del grano e delle barbabietole. Sono
sufficienti pochi addetti ai lavori e per il resto ci pensano le nuove
tecnologie. In un recente documentario, abbiamo visto che ancora oggi
in certe località collinare della Cina o della Tailandia, il riso si
coltiva come si faceva mille anni fa. Il tempo sembra che si abbia
fermato alle origini della storia.
Dopo gli anni Cinquanta, ci siamo ritornati in quel mondo fantastico
delle risaie, ma non abbiamo più ritrovato le allegre, esuberanti e
belle mondine, quelle mondine che avevamo conosciute nei primi anni
della nostra carriera militare, ma questa volta non siamo ritornati in
veste di agente della forza pubblica, ma come pittore. Abbiamo dipinto
alcuni scorci della bellissima Val Padana, ma non era la stessa che
avevamo conosciuto, perché senza le mondine aveva perso la sua
caratteristica. Abbiamo trovato le macchine operatrici che avevano
sostituito totalmente le braccia dell'uomo. Abbiamo rivisto vecchie
conoscenze, ma nelle grandi cascine c'era una grande desolazione, solo
macchine operatrici, trattori, trebbiatrici e un gran puzzo di petrolio
che sovrastava quello naturale e biologico degli animali della stalla.
Si vede proprio che i tempi sono cambiati e l'inquinamento atmosferico
avanza velocemente.
La festa d'addio.
Mentre osservavo tutto questo, ho rievocato dentro di me la festa
d'addio o dell'arrivederci delle mondine. Un lungo tavolo sistemato in
centro della corte e diverse donne che sistemavano le stoviglie. Più in
là, vicino alle cucine, alcuni mezzadri che macellavano alcune oche,
donne che sbucciavano i piselli appena colti nell'orto, le damigiane di
vino sul carro e tanti bambini che si rincorrevano. Le ragazze che si
appartavano per dare l'ultimo saluto all'innamorato, sì perché nella
risaia, oltre che germogliare il riso, nasceva anche l'amore.
Quel giorno non era come gli altri, era un giorno di festa e come tutte
le feste e i banchetti che si rispettavano, non c'era sul tavolo
soltanto la famosa ciotola di riso come tutti i giorni, c'era anche il
ragù di oca, il vino e anche la torta. Alla fine del grande banchetto,
al centro dell'aia erano allineati i carriaggi, sembrava un reggimento
della someggiata che stava per partire in guerra. La guerra con i
moscerini e le zanzare, era finita, adesso si ritornava a casa dopo
quaranta giorni di duro lavoro nella risaia Dopo l'ultimo brindisi, la
colonna dei carriaggi si è mossa, si è diretta verso la piccola
stazione ferroviaria del paese. Il piccolo treno sbuffante si ferma e
le carrozze di terza classe sono state prese d'assalto dalle mondine,
mentre i bagagli sono stati caricati con cura nel vagone bestiame che
fungeva da bagagliaio. I finestrini si sono abbassati e le braccia tese
a salutare le persone e i conoscenti. Arrivederci! Ci vediamo il
prossimo anno! Ricordo che una ragazza bionda nel salutare il suo
innamorato, gli ricordava di non dimenticarla, di aspettarla, perché la
prossima stagione sarebbe ritornata. Quello era per i partenti e per
gli astanti, un attimo di commozione. Avevano tutti gli occhi arrossati
e forse qualcuna stava piangendo, non si sa se per la gioia di
ritornare a casa oppure per il rimpianto di un amore finito.
" C'era una volta…… ieri", una vecchia canzone d'amore sempre viva,
sentita sulle cime dei pioppi alte sulle verdi risaie dell'acqua
stagnante, dove abitavano le rane, che rallegravano con il loro lungo
ed infinito canto i caldi meriggi e le notti serene, saltavano da
un'erba all'altra a cibarsi di zanzare che torturavano le mondine nelle
risaie.
Il grande match di Atene.
Noi non siamo grandi tifosi del calcio, ma quando si tratta di partite
come questa e quelle dei campionati del mondo, come milioni di altri
tifosi ci entusiasmiamo al massimo. Da giovani, come tutti i ragazzi
eravamo più appassionati del calcio, e persino, facevamo la raccolta
delle figurine dei calciatori e a scuola ce li scambiavamo con i nostri
compagni. Negli anni Cinquanta, quando eravamo in servizio nell'Arma
Benemerita ad Alessandria, andavamo spesso a vederci la partita al "
Moccagatta", per vedere giocare il nostro idolo, il fuoriclasse Gianni
Rivera. Da quando il calcio è cambiato, perché non è più il calcio di
una volta, quando allo stadio si andava per vedere giocare il vero
calcio e per applaudire quelli della squadra del cuore e tutto finiva
lì. Negli anni successivi, quando prestavo servizio al Btg CC: di
Genova, il calcio era totalmente cambiato, non era più il calcio che
amavano la massa dei tifosi, non c'erano più i veri tifosi, ma sulle
curve per una fesseria si scatenava l'inferno e incominciava la
guerriglia. A Genova, come a Milano e Torino, tutte le domeniche
eravamo impiegati per Ordine pubblico allo stadio di Marassi e ogni
domenica era la stessa cosa: disordini, sia dentro lo stadio che fuori.
Fu in quel periodo che mi disamorai dal gioco del calcio, perché il
calcio non era più un divertimento popolare, ma una continua guerriglia
fra le varie tifoserie, come del resto, se non peggiorato, continua
ancora ad essere violento. Giorno dopo giorno, siamo chiamati ad
assistere a violenze, a caroselli da parte degli addetti all'O.P. e a
vere battagli sugli spalti e nelle adiacenze degli stadi, come è
successo il 14 febbraio u.s. davanti allo stadio di Catania. È dovuto
intervenire il Governo con un decreto, per mettere un po' d'ordine. Il
Consiglio dei Ministri si è riunito per discutere del problema calcio.
Sì, proprio dopo i gravi fatti di Catania e l'uccisione del poliziotto
Filippo Raciti, con un colpo micidiale all'addome. Una sprangata, forse
un calcio. È stato questo a uccidere Filippo Raciti. Quando la bomba
carta era esplosa accanto al suo fuoristrada, il poliziotto era già
stato ferito. E proprio in quel momento, l'emorragia provocata dalle
lesioni al fegato gli ha fatto perdere conoscenza durante gli scontri
con gli ultras, qualcosa andava cambiato in questo sistema. Ecco allora
che dal governo sono arrivate le nuove misure di sicurezza per evitare
che altra Catania succedono in altre città italiane. Siamo sicuri che
queste regole salveranno il mondo del calcio?
Nel decreto di legge che contiene "misure urgenti per la prevenzione e
la repressione di fenomeni di violenza connessi a competizioni
agonistiche" si leggono molte decisioni che faranno discutere.
Innanzitutto la decisione, già annunciata alla vigilia, di chiudere al
pubblico gli stadi non a norma di legge. Nella maggior parte degli
stadi si giocherà dunque a porte chiuse. Niente tifosi per Milan e
Inter, per Fiorentina e Napoli, per la serie A, mentre per la serie B
sarebbero a norma solamente lo stadio olimpico di Torino e lo stadio
Marassi di Genova.
Bandita la vendita di biglietti alle squadre in trasferta: tutti i
rapporti tra società e gruppi ultras dovranno sparire. Non si potranno
più vendere blocchi di biglietti. La flagranza di reato è estesa a 48
ore. Queste alcune delle misure prese per la sicurezza negli stadi
italiani e votate all'unanimità dal consiglio dei Ministri. Con questa
nuova legge si fa la storia, del tifo, e in teoria non si dovrebbe
morire più, anche se il calcio italiano è un malato grave e si vede
benissimo che ci vorrà una vita a guarire. Ne sia sicuri che guarisse?
Si, è proprio vero, il calcio italiano è malato e non è più quello di
una volta. Per questi motivi, le partite importanti, cerchiamo di
vedercele tranquillamente seduti in poltrona davanti al televisore.
Come è successo nella partita di Coppa ad Atene. Abbiamo gioito e
abbiamo anche sofferto nel corso della partita. Si, ha proprio ragione
il cronista, quando dice: Com'è dolce Atene. Per capitan Maldini, che a
39 anni alza un'altra Champions League. Per Inzaghi, che con due gol
dei suoi schianta il Liverpool. Per Ancelotti, che dopo un anno
difficile si prende la rivincita più bella. Per Kakà, che aggiunge
questo trofeo al suo curriculum da Pallone d'Oro. E per tutti i tifosi
rossoneri, che oltre alla vittoria festeggiano anche la vendetta contro
i Reds due anni dopo la sciagurata finale di Istanbul. Sì, il Milan è
ancora sul tetto d'Europa. Due a uno contro il Liverpool e la Coppa più
bella finisce per la settima volta nella bacheca rossonera.
IL MATCH - Un trionfo che arriva dopo una partita difficile. I
rossoneri, meno spettacolari rispetto alle ultime uscite europee,
soffrono la partenza aggressiva del Liverpool che si fa vedere
pericolosamente dalle parti di Dida. Ma la difesa tiene e Kakà prova a
mettere in apprensione le retrovie della squadra di Benitez. A due
minuti dalla fine del primo tempo la svolta: punizione di Pirlo,
deviazione vincente di Inzaghi. La squadra di Ancelotti va al riposo in
vantaggio. Nella ripresa il Milan soffre meno l'aggressività dei Reds
anche se la partita resta in bilico. A una decina di minuti dalla fine
Inzaghi parte sul filo di fuorigioco, dribbla Reina e infila in rete.
Sembrafatta, e invece c'è ancora da soffrire. A due minuti dalla fine
Kuyt accorcia le distanze. Qualcuno teme una nuova Istanbul, stavolta,
però il finale è diverso. Al triplice fischio esplode, finalmente, la
festa. Applausi e abbracci con gli sconfitti (con i tifosi inglesi che
cantano "You'll Never Walk Alone" nonostante la delusione), ma la Coppa
è nelle mani di Paolo Maldini. Per la settima volta. Un trionfo che
consente al club rossonero di diventare, in Europa, quello con la
bacheca più ricca di trofei. Alla fine dell'incontro calcistico più
atteso dai milanesi e non soli. Alla fine della partita, Adriana mia
moglie, è saltata su dalla poltrona come una molla, ha preso il
campanaccio e sì e messa a suonare, con la noncuranza dei vicini di
casa, ma la Coppa è la coppa e un po' di baccano non guasta mai. Nel
frigorifero c'era ancora una bottiglia di moscato, che lo tenevo in
serbo per qualche ricorrenza speciale, la ricorrenza si è presentata
con il trofeo più ambito per una squadra di calcio come il Milan.
LA GIOIA ROSSONERA - "Alla faccia di chi diceva che il calcio italiano
era in crisi". È di Gattuso la prima battuta a fine gara: "In un anno -
dice il centrocampista rossonero - abbiamo vinto la Coppa del Mondo e
la Champions League. La sconfitta di Istanbul rimarrà tutta la vita, ma
oggi piangono loro come noi due anni fa". "Non è stato facile - ammette
Ancelotti - anche perché abbiamo iniziato la stagione ad agosto con
tante incertezze. Adesso però godiamo molto, più che nel 2003 contro la
Juve". Maldini guarda già avanti: "Giocherò anche la prossima stagione
perché adesso ci sono una Supercoppa ed una Coppa Intercontinentale da
vincere". Ultima parola all'eroe della serata: "Il primo gol? Uno
schema" scherza Inzaghi. Che poi ammette: "Due gol in finale: stento a
crederci!". Credici, Pippo: stasera, ad Atene, è successo dai Galliani:
"Abbiamo vinto al Champions, basta parlare di certe cose"
La finestra del Primo Canale TV, ci ha fatto vedere in diverse
schermate la meravigliosa Piazza Duomo di Milano, dove era situato un
Max schermo, con oltre 100 mila tifosi per il Milan campione.
Il giorno successivo, il Corriere della Sera, pubblica un articolo
molto bello del bravissimo giornalista Gianni Cantucci, con il titolo:
Si spengono le luci. Si aprono le bacheche. San Siro è un catino buio.
Gonfio di urla, carico di canti. E allineati sul prato, sei
piedistalli, con le sei Coppe dei Campioni della storia rossonera.
Giocatori chiamati per nome. Federica Fontana li bacia. Teo Teocoli dà
il cinque. Scroscia un acquazzone. Sale assordante "We are the
champions ". Si riaccendono i riflettori e inondano l'erba di luce
bianca. Entra la settima Champions. È un enorme diamante che cattura
gli occhi di cinquantamila tifosi. Vittorie passate, trionfo presente.
Boato. Il culmine di una festa stile Usa. Ma con l'aria che si mescola
a un eroismo classico, nello slogan della celebrazione: "Il Milan in
vetta all'Olimpo".
Fuochi d'artificio. Atmosfera da concerto rock. Apre uno spettacolo da
circo. Uno show declinato in immagini infernali: diavolesse in costume,
forconi, ballerine con le corna, mangiafuoco che sputano fiamme. Un
circo infernale che rappresenta il paradiso del Diavolo milanista,
sette volte campione d'Europa. Vent'anni di trionfi che rivivono nei
volti di Roberto Donadoni, Franco Baresi, Ruud Gullit, Marco Van Basten.
Ma questa settima Champions ha un sapore originale. È la vittoria che
nessuno ha messo in conto. Carlo Ancelotti è l'unico a prendere il
microfono: "Grazie a tutti". Poi ammette: "Il Milan che ha perso a
Istanbul forse è stato il migliore delle ultime finali, ma questa
vittoria ci ha ripagato". Come l'abbraccio fremente della città, che è
durato due giorni. Senza interruzione. Dalla balconata del Duomo,
l'altra sera, alla baraonda di San Siro. Roba da scalfire anche
l'aplomb del mister: "Carlo è impazzito", sorride la moglie. E Paolo
Maldini: "L'abbraccio di Milano è impressionante, emozione
incredibile". Kaká si volta a guardare gli spalti che traboccano.
Applaude. Ogni tifoso il proprio vessillo. Bandiere, sciarpe,
magliette. Nomi più gettonati: Gattuso e Kaká. Protagonisti sugli
striscioni: ancora Gattuso, osannato "guerriero a vita". E Inzaghi, il
cui nome è utilizzato con un continuo doppio senso per le sensazioni
"stupefacenti " del trionfo. "Un solo vizio. Pippo", "Pippo anche io",
"Mamma mia quanto Pippo". Unico assente, quello che nessuno poteva
immaginare. Ma a volte le ragioni della politica prevalgono su quelle
del calcio. Silvio Berlusconi ha passato la serata a Genova per il
comizio conclusivo della campagna elettorale. "Gli hanno telefonato
tutti, a partire da Galliani-spiega il portavoce Paolo Bonaiuti -
perché fosse in campo con i calciatori del Milan".
In curva non compaiono le storiche insegne dei gruppi ultrà. Un solo
messaggio a riassumere il vuoto: "Assenti, presenti ", firmato Brigate
rossonere. Il riferimento è ai sette capi della curva arrestati alla
vigilia della finale di Atene per una tentata estorsione ai danni della
società. Enormi scritte ricordano i loro nomi: "Svizzero, Peso, Pablo,
Markino, Mario, Gianka, Barone". "Liberi", chiedono i Guerrieri ultras,
il gruppo che nell'ultimo anno ha provocato un terremoto degli
equilibri in curva Sud.E pure con i capi in carcere o agli arresti
domiciliari, è evidente che i colonnelli hanno ancora potere: l'intera
curva, che nel pomeriggio si è via via riempita, è fatta svuotare come
manifestazione di dissenso all'inizio della festa. E resta deserta per
una buona mezz'ora. Quando gli spalti tornano pieni riesplode la festa.
Adriano Galliani parla di un'ipotesi di derby, in estate, per mettere
di fronte campioni d'Italia e d'Europa. Kaká è pronto. I compagni,
spenti i fuochi artificiali, gli fanno calciare un rigore. Porta vuota.
Gol. Ultima ola".
E' proprio vero, quest'incontro calcistico di Coppa ad Atene, è stato
un'apoteosi di derby, uno spettacolo grandioso e trionfale, perché
c'era la gioia nel cuore di ogni tifoso, di ogni spettatore presente e
lontano. Non serve la violenza per ottenere qualche cosa, bisogna
meritarsela, come è successo nel bellissimo stadio di Atene. Questa
grande vittoria il grande Milan sì la è meritata, perché i giocatori
tutti, nessuno escluso, hanno giocato con il cuore e il cuore ha sempre
ragione.
Anche qui nel nostro piccolo borgo di sapore medioevale di Campitello(
MN), i giovani tifosi del Milan, hanno festeggiato la grande vittoria
di Atene. Abbiamo visto che a questa festa, si sono aggregati anche
tifosi che simpatizzano per altre squadre di calcio, come per il
Mantova e per l'Inter. Tutto questo, vuol dire sportività e amore per
lo sport, per quello sport che fa onore al calcio del nostro Paese.
La Valle Scura
Racconto escursionistico
Dopo il nostro "Giallo di Paese", dove con il nostro sogno onirico,
abbiamo cercato di raccontato la nostra interpretazione nell'indagine
degli inquirenti, relativa a quel caso, ritorniamo al nostro vero
amore: all'escursionismo, raccontando una meravigliosa passeggiata
nella "Valle Scura", dove la natura domina su ogni cosa e dove il tempo
sembra che si sia fermato il giorno della creazione, quando le
meravigliose montagne del Trentino, emersero migliaia di anni fa da
quel mare profondo, chiazzato di verde. Verde è il sentiero che stiamo
percorrendo, un sentiero stretto che costeggia il torrente che da
origine al fiume della vita.
Con gli uomini del Club Alpino Italiano, camminare fra boschi e gli
anfratti è sempre una gioia, in ogni passeggiata è un susseguirsi di
nuove avventure, di scoperte di cose e luoghi già esistenti, ma a noi
non ancora noti.
Si è appena conclusa l'escursione alle "Cinque Terre", ove abbiamo
percorso un sentiero difficile ma fantasmagorico e di grande effetto
paesaggistico e pittorico, di luoghi e di colori: uno spettacolo
meraviglioso offerto dalla madre natura. L'itinerario del 23 maggio, ci
ha portati nella parte opposta della Liguria, in quella terra dei
patrioti irredentisti, nella vallata del Trentino. La nostra meta è
stata la Valsugana, una valle bellissima, che fa parte delle Alpi
Dolomitiche, dai laghi di Velico e quello di Caldonazzo.
La giornata si presentava sotto i migliori auspici, sebbene il cielo
fosse leggermente coperto da nuvole cirriformi, di quelle nuvole che in
poco tempo si disperdevano con il primo soffio di vento. Subito dopo la
galleria autostradale sulla nostra sinistra, ci appare come d'incanto
la bella città di Trento, la famosa Tridentum romana, che sorge sulla
sinistra del medio corso del fiume Adige. Attraversiamo la città nella
parte Nord proprio seguendo sulla statale che porta a Pergine e
successivamente al lago di Caldonazzo, che costeggia sul lato sinistro,
quindi superiamo l'alto corso del fiume Brenta e raggiungiamo il
sentiero Europa, che percorriamo fini alla località " Albergo alla
Vedova", ove il nostro bravo conducente Flavio, detto il codino,
(perché portava i capelli raccolti sulla nuca come il grande Baggio),
parcheggia il suo pesante automezzo con grande professionalità.
Prima di descrivere le nostre impressioni sul percorso, che più tardi
ci porterà nel piccolo Canyon della Valle Scura, vogliamo brevemente
tracciare a grandi linee, un cenno storico della città di Trento, che
riteniamo sia doveroso da parte nostra.
Come sappiamo, Trento è una città antica e nello stesso tempo moderna,
fu fondata dai Galli o dai Goti e successivamente fu conquistata dai
Romani nel 222 a.C. Dal 1810 al 1815 fece parte del regno d'Italia;
ritornata all'Austria nel 1815, fu occupata dalle truppe italiane il 3
novembre 1918.
Il Concilio ecumenico vi fu convocato da Paolo III nel 1542.
Con la conclusione del Concilio si costituirono le direttive della
Controriforma e si gettarono le basi del Cristianesimo che furono
valide fino ad oggi.
La storia di questa italianissima città, ci dice che la romanizzazione
di Trento avvenne gradualmente e senza scosse eccessive, anche perché
il sostrato gallico esistente acquisì facilmente le istanze provenienti
dal mondo romano. Al tempo di Druso Flavo Nerone, che vinse i Reti nel
15 a.C. e fu detto Germanico per le vittorie riportate dal 12 in poi
sulle popolazioni stanziate oltre il Reno e di Tiberio che fu
imperatore romano, che successe ad Augusto il 14 d.C. e consolidò i
confini al Reno ed in Oriente, la città di Trento, posta
sull'importantissima Via Claudia Augusto, costituì un saldo presidio
militare nelle campagne alpine contro le riottose popolazioni Retiche.
Più tardi, con l'estensione della " Civitas romana" alle popolazioni
circonvicine ( I sec. d.C.) si legittimava lo status delle genti
trentine, che divenivano parte integrante della Decima Regio Italica,
mentre i territori dell'attuale Provincia di Bolzano andavano a formare
le province della Retia e del Noricum.
Il Cristianesimo si diffuse nel Trentino attorno al IV secolo a, C.
Dopo le alterne vicende della storia, giungiamo alla Terza Guerra
d'Indipendenza che sembrarono preludere all'imminente liberazione di
Trento, ma l'armistizio del 1866 congelava sulle labbra di Giuseppe
Garibaldi lo storico "Obbedisco".
Come abbiamo detto, il 3 novembre 1918 Trento fu definitivamente
liberata dalle truppe italiane.
Dopo questa breve divagazione storica, ritorniamo al nostro itinerario
escursionistico, sul sentiero Europa E5. Trattasi di uno dei vari
percorsi di ampio respiro che congiunge Costanza, sull'omonimo lago in
Svizzera, a Venezia. Questo sentiero, fu evidentemente l'autostrada del
passato che congiungeva l'Italia alla Svizzera, attraversando le alte
montagne del Trentino.
Da Levico Terme, a quota 506 metri, l'itinerario sale fino all'albergo
Monte Rovere, a1255 metri, passando dapprima per l'albergo alla Vedova
e risalendo i fianchi del monte Pergola, a 1199 m. lungo il
Kaiserjagerweg ( antica strada militare austriaca). Dall'albergo Monte
Revere, che fu teatro nella Grande Guerra Mondiale, l'itinerario
conduce a Lucerna, 1339 m. La nostra comitiva non ha percorso l'antica
strada militare austriaca, ma il sentiero nr. 233, il quale è
classificato "EE", e significa che tale sentiero è per escursionisti
esperti. Subito dopo l'albergo alla Vedova, percorriamo un sentiero
immerso in un bosco ceduo di faggi e solcato da un piccolo torrente
delle fresche acque, che porta nella Valle Scura. Trattasi di un
sentiero che in principio è pianeggiante e segue quasi sempre il
torrente, dando l'impressione che non si tratti di un percorso
difficile. Il torrente è molto guadoso e più volte siamo stati
costretti a guadare il corso d'acqua, ma sempre con molta facilità. Non
indifferente è la presenza di una flora particolare e di una
vegetazione rigogliosa, tipica delle valli del Trentino, poi il
sentiero sale gradatamente, il bosco si fa sempre più rado e le
difficoltà aumentano. I sentiero n. 233 si presenta attrezzato con una
serie di passerelle, scale di ferro, passi ferrati e ponticelli sospesi
nel vuoto di profonde voragini, che inghiottono ciò che vi precipita.
La struttura geologica della voragine che abbiamo scalato e della
montagna del trentino, varia notevolmente secondo la sua ubicazione ed
é in stretta correlazione con l'orogenesi ed il corrugamento alpino nel
suo insieme. Mentre ad occidente del solco vallivo predominano i
basamenti cristallini sovrastati da rocce sedimentarie, nella parte est
di questa linea si hanno situazioni differenti.
Da nord si spingono le propaggini dell'estesa piattaforma porfirica
dell'Adige e si riscontrano formazioni denotate origini vulcaniche (
rocce metamorfosate del Logorai. Più il sentiero sale verso il vertice
della montagna, e maggiormente notiamo i grossi graniti isolati che
costituiscono e formano i contrafforti delle pareti rocciose. Il solco
vallivo o meglio possiamo definirlo il piccolo Canyon scavato dal
torrente che scaturisce da una sorgente perenne, che ha eroso la grande
valle, venendo a formare nel corso dei secoli, un paesaggio dantesco e
metafisico in tutta la sua selvaggia e meravigliosa bellezza.
Dalla curvatura della roccia basaltica, formatasi nell'Eocene Superiore
dell'era Terziaria, circa 40 milioni di anni fa, quando la montagna
trentina era in fase di sollevamento dal mare e quindi è stata soggetta
a consistenti fenomeni vulcanici, lasciando i segni profondi di tale
movimento sismico, tanto che l'escursionista può ammirare la bellezza
prodotta da tale fenomeno.
Con il passar del tempo le condotte verticali si ampliarono sempre più,
mentre catturavano tutte le acque superficiali che avevano già sciolto
ed asportato il " Biancone", venendo a creare i bellissimi salti del
torrente, che un dislivello di 750 metri, raggiunge la vallata e quindi
il Brenta.
Questo dislivello è superato da tutta una serie di bellissime cascate,
in successione una dopo l'altra, nel grande canalone. Nella sua
posizione selvaggia, orrida e primitiva, quella forra stretta e
profonda tra dirupi e pareti rocciose, prodotta dall'erosione
dell'acqua corrente nel corso di milioni di anni, era di grande effetto
scenografico e paesaggistico, ma soprattutto ci portava indietro nel
tempo e nel giorno della creazione.
La vista di quella scenografia naturale, prodotta dalla natura e dagli
agenti atmosferici, mozzava il fiato e toglieva il respiro.
Dopo tre ore di marcia, in quel sentiero particolarmente difficile, in
quella gola irta di dirupi e passaggi difficoltosi e nello stesso tempo
pericolosi, luoghi dirupati e scoscesi, la comitiva si è concessa una
breve sosta. Il posto per la pausa era quello ideale, un altro migliore
non esisteva in tutto il percorso della Valle Scura. Ci siamo fermati
all'ombra di una grande parete granitica, dal fondo della quale
sgorgava un getto d'acqua freschissima: un'acqua ristoratrice. Quella
fonte da origine alla formazione del torrente della Valle Scura. La
musicalità dell'acqua del ruscello faceva da sottofondo ai consueti
rumori dei bambini che gioiosi facevano le capriole sull'erba, mentre
le taccole si posavano sempre più vicini e aspettavano la loro razione
di briciole di pane, intanto, era anche arrivato alla sorgente l'amico
Giovanni, con il suo passo lento e appesantito dall'equipaggiamento da
vecchio alpino.
L'ultimo tratto di quella montagna aspra e selvaggia era là sembrava
che si potesse toccare con la punta delle dita, ci stava aspettando,
per essere scalata nella sua interezza e finalmente è stata vinta.
Dall'ultimo pianoro, da quel balcone naturale che domina il grande e
meraviglioso scenario della vallata, mi sono fermato un momento, solo
il tempo necessario per fissare l'ultimo fotogramma nella macchina
fotografica e anche per imprimere nella mente quelle meravigliose
immagini e sensazioni che non si possono facilmente dimenticare. Esse
rimangono indelebili nella nostra memoria.
L'escursione è stata preparata e diretta dal presidente del CAI Sandro
Zanellini, coadiuvato di consiglieri Carlo Borghi, Luciano Messora,
Gabriele Cimarrosti ed altri esperti alpinisti.
Noi escursionisti in erba, che da poco abbiamo iniziato a praticare
questo nobile sport, dobbiamo dire grazie a questi uomini, per la loro
disponibilità, generosità e per il loro animo nobile. Sono sempre
pronti ad aiutare, soccorrere e soprattutto donare con munificenza e
liberalità. Allo Spiazzo alto, a quota 1290 metri, gli amici Borghi,
Messora e Cimarosti, erano lì, all'ombra di un grosso abete, intenti a
preparare un piccolo buffe da campo, opera di Messora e si affrettavano
a preparare i famosi panini al salame, che la signora Attilia aveva
provveduto a vettovagliare.
IL MONTE ROVERE
Alla fine dello spuntino, abbiamo raggiunto la sommità del monte
Rovere, che è stata una semplice passeggiata distensiva, percorrendo
una strada militare che porta al vertice del colle, ove abbiamo
visitato quello che rimane del forte austriaco, fatto costruire nel
1895 da Francesco Giuseppe. Quella località e le vallate circostanti,
sono state teatro di guerra nel 1915/18, ove i nostri soldati hanno
scritto una pagina gloriosa della storia del nostro Paese.
Attorno alla collina appuntita di pietra, dove sorge quello che fu il
forte austriaco, si è presentato al nostro sguardo un paesaggio lunare
e metafisico, ma più che lunare, ci dava l'impressione di trovarci
sulle montagne del Carso, dove sui sentieri s'incontrano le famose
"doline": cavità chiuse dal terreno a forma approssimativamente di
imbuto, frequente nelle regioni carsiche, ma quelle che abbiamo visto
tutto attorno ai resti del forte, non era un paesaggio lunare e neppure
le doline carsiche, ma erano state prodotte dal continuo
cannoneggiamento dell'artiglieria pesante italiana, che giorno e notte
martellavano quel forte, che rappresentava una località strategica da
conquistare.
Oggi, quelle cime dolomitiche, che con le loro superbe e rosee vette
puntano dritte al cielo e sembrano poi veleggiare nell'aria pura di un
silenzioso ed infinito spazio. Questi meravigliosi tesori creati dalla
madre natura, che nel corso dei secoli, hanno sfidato disastrose guerre
e tempeste, sono state definite le "Dolomiti di Pace", una
manifestazione che si ripete anche quest'anno, dopo una prima edizione
che ha richiamato sui prati, nelle conche e sulle rocce del Trentino,
teatro di scontri e battaglie durante la Grande Guerra, un pubblico
numeroso, appassionato e impegnato a partecipare, dialogare, capire. Un
percorso dedicato alla pace, oltre che all'escursionismo, che
quest'anno si arricchisce abbinando agli incontri e alle riflessioni
anche appuntamenti musicali. I luoghi e gli scenari che abbiamo in
passato molto amato e ammirato, oggi accolgono questo progetto sono
quelli del Sentiero della Pace, un itinerario di 350 chilometri che
unisce tutti i fronti trentini del conflitto del 1915-1918 e, come
sempre, centro ideale di questa grande area della Marmolada
all'Adamello, dal Pasubio al Passo dello Stelvio è la Campana dei
Caduti di Rovereto che da ottanta anni lancia ogni sera il suo
messaggio di fratellanza al mondo con cento rintocchi a significare che
la pace è una conquista continua. Così negli otto incontri che
quest'anno caratterizzano Dolomiti di Pace ci si interroga su come
costruire la pace, su cosa si può fare nella vita di tutti i giorni per
capire e risolvere problemi come la povertà, la fame, la salute,
l'ambiente, la convivenza tra popoli e culture. La vacanza e
l'escursionismo diventa in questo modo un momento di arricchimento,
riflessione e confronto che rigenera anche lo spirito oltre che il
fisico. Quindi un sentiero della memoria alla scoperta dei forti, delle
trincee, dei capisaldi, delle strade e delle cittadelle militari dove
dal 1915 al 1918 si dettero battaglia gli eserciti italiano e
austroungarico. Un percorso di pace per riflettere sulla follia della
guerra, di tutte le guerre, e riconciliarsi con una natura
straordinaria, allora violata. Oggi tutelato nella sua bellezza e nella
sua serena forza rigeneratrice. Dal Passo del Tonale a Riva del Garda,
da Mori a Rovereto, dal Pian delle Fugazze a Caldonazzo alla Marmolada:
trentatré tappe da affrontare a piedi, in alcuni tratti anche in
mountain bike, senza affanno e indipendentemente una dall'altra, con il
passo misurato e pacifico del trekking di montagna. Guidati e
accompagnati dal simbolo di una colomba, giallo quando è disegnato
sulla roccia, bianco se inciso sul legno. Un'occasione per arricchire
la vacanza di stimoli nuovi, ambientali. Un motivo in più per ritrovare
lungo quei chilometri, passo dopo passo, la serenità del corpo e dello
spirito. E la speranza in un mondo che, come è avvenuto in Trentino,
sappia sostituire i fronti della guerra con altrettanti Sentieri di Pace.
La Cima del Monte
Lassù sulle rocce appuntite
Dalle doline carsiche
Ho colto un piccolo fiore
Un fiore azzurro come il cielo che profumava
D'aria pura di montagna
Il cielo era striato di nuvole sfilacciate.
Bianche e rosa come l'abito di una sposa.
Quel fiore significava un piccolo saluto
Di quel mondo incontaminato e lontano
Dalle nostre soffocanti e in vivibili città.
Sulla grande cima appuntita
L'alpinista è come l'acqua di questo ruscello:
Non può ritornare sui suoi passi,
E' come la vita
Bisogna andare sempre avanti fino a
Quando non si raggiunge la meta.
Solo allora potrai dire c'ero anch'io
Le confessioni di un Armeno
Racconto di viaggio
Dopo pranzo, con altri due amici di viaggio
mantovani, siamo usciti nel cortile per divagarci un po’, approfittando in
questo lasso di tempo per fumare la vecchia e cara pipa, che portiamo
sempre con noi, restando lontano dalle persone che non sopportano il
profumo del tabacco. Nel cortile del Caravanserraglio,
proprio dove un tempo erano sistemati le cavalcature, abbiamo incontrato
dei cittadini armeni, che cercavano di vendere i loro tappeti ai turisti
in sosta. In quella occasione, abbiamo fatto conoscenza con un anziano e
canuto armeno, ma molto addentrato nella politica internazionale e
soprattutto quella del suo Paese ed inoltre si esprimeva molto bene nella
nostra lingua, ci ha voluto parlare della loro persecuzione e sterminio da
parte dei Turchi, sessanta anni fa. Proprio in questi mesi si discute se
accettare la candidatura all'ingresso nell’Unione europea della Turchia.
Egli ha così proseguito nel suo discorso dicendo:
“Confesso che, in generale, a questa nostra “Unione” non mi sono mai
particolarmente appassionato, riservando sentimenti ed emozioni ad altre
realtà, diverse da quel mix di interessi economici spesso egoisti o
corporativi, di farraginose e pacatissime burocrazie, dì ipocrisie
politicamente corrette, quel mix, dunque, di carte e funzionari che si
muove tra Bruxelles e Strasburgo. Dunque, non mi scalderò più di tanto
neppure per le "cose turche" di cui si dibatte e si dibatterà. Neppure
questa volta farò ciò che mai ho fatto e mai farò: firmare, cioè,
manifesti indignati o partecipare a rumorosi cortei di protesta.
Mi limito a dirmi sconcertato (per usare un eufemismo) nel vedere presa
sul serio - e magari, alla fine, accettata - la richiesta di entrare
nell'Europa da parte di quel Anti-Europa per eccellenza che, storicamente,
e stato l’ex-Impero Ottomana. Solo per una finzione geografico-politica
l'attuale Turchia è considerata come parte del Vecchio Continente, avendo
la sovranità della regione attorno a Istanbul”.
Ma proprio questo brandello di terra è il testimone di una delle più
grandi tragedie europee: dal 1453, Costantinopoli, la Nuova Roma, la terza
Città Santa della Cristianità, è stata conquistata dai Turchi che l'hanno
resa musulmana con la forza, che ne hanno fatto per secoli sia la loro
capitale politica che quella religiosa per tutto l'Islam come sede del
Califfato, che hanno trasformato in moschea (e poi in museo) la veneranda
basilica di Santa Sofia e con lei centinaia di altre chiese, che le hanno
persino mutato il nome.
Che si direbbe di noi cristiani, noi sempre sotto accusa e sempre pronti a
chiedere scusa per quelle puntate difensive che furono le crociate (e
Gerusalemme, per noi, era ben altro che Costantinopoli per i musulmani),
se avessimo fatto, e continuassimo impunemente a fare, la stessa cosa per
Baghdad, per Damasco o - il paragone non è improprio - per La Mecca
stessa? Sono quegli stessi Turchi che per secoli hanno oppresso,
dissanguato, martirizzato la Grecia, i Balcani, una vasta parte
dell'Europa orientale e che sì sono ritirati attorno al Bosforo solo in
seguito a una serie sanguinosa di guerre e di rivolte. Sono quei Turchi
che, per secoli e secoli, impedirono la navigazione e desolarono le sponde
del Mediterraneo con le loro incursioni piratesche: una delle cause del
sottosviluppo del Sud del nostro Continente fu proprio la necessità di
abbandonare le coste, in continuo pericolo, ritirandosi nell'interno, su
montagne impervie e inospitali.
Sono quei Turchi che sin quasi alla metà del XIX secolo strapparono ogni
anno un bambino a ogni famiglia cristiana, lo trasformarono in musulmano
fanatizzato e ne fecero un soldato dell'Islam nel corpo di elite dei
Giannizzeri: una delle trovate militari più perverse, perché dava ai
Sultani la soddisfazione di massacrare i battezzati servendosi di
guerrieri spietati che erano i loro stessi figli.
Strana organizzazione davvero, questa Unione europea che discute
seriamente sulla richiesta della Turchia di entrare a farne parte e che,
pure, nel 1999, ha riconosciuto ufficialmente come "genocidio" la
soppressione, tra il 1915 e il 1917, di almeno un milione e mezzo di
cristiani armeni proprio per mano dei Turchi. Mentre altre centinaia di
migliaia erano stati massacrati negli anni precedenti. Il riconoscimento
di quella spaventosa tragedia da parte dell'Europa, e di alcuni Stati
nazionali, è stato tardivo ed è contestato aspramente dai governi
ottomani che si sono succeduti sino ad oggi. Gli Stati Uniti non vogliono
tuttora sentire parlare di "genocidio armeno" (il presidente Clinton
stesso è intervenuto per bloccare un'iniziativa del Senato) perché contano
sulla Turchia come alleato fedele nel Medio Oriente. Ma anche perché,
negli Usa, è intervenuta la potente lobby ebraica che difende aspramente
il monopolio della parola "genocidio " che, si sostiene, deve essere
riservata solo alla persecuzione nazista degli ebrei. La Shoah, come la
chiamano, deve essere considerata uniche, tutte le altre persecuzioni non
hanno lo stesso significato incommensurabile e la stessa intensità di
patimento.
Questo non lo diciamo noi curdi: non glielo permetteremmo mai. Lo dice un
ebreo, figlio di sopravvissuti allo sterminio, Norman Finkelstein, del
quale la Rizzoli ha appena pubblicato quel dossier scandaloso" che è
L'industria dell'Olocausto, con sottotitolo Lo sfruttamento della
sofferenza degli ebrei (da parte di altri ebrei). Scrive, tra l'altro,
Finkelstein: «La difesa ebraica della unicità dell'Olocausto è indegna da
un punto di vista morale e finisce col costituire una sorta di "terrorismo
intellettuale", eppure persiste. Il punto è capire perché. In primo luogo,
una sofferenza unica conferisce diritti unici. Il male "unico"
dell'Olocausto pone gli ebrei su un piano diverso rispetto agli altri e
concede loro anche una rivendicazione nei confronti di tutti questi altri.
Per Edward Alexander, l'unicità dell'Olocausto è "un capitale morale" e
gli ebrei devono "rivendicare la sovranità" di questo "patrimonio
prezioso". In effetti, l'unicità dell'Olocausto serve a Israele come
alibi...». E così via, in un crescendo implacabile di accuse.
Parole dure, come si vede, che a nessuno che non fosse ebreo come questo
studioso (è docente alla City University di New York) sarebbe oggi
permesso di dire.
Osserva ancora, questo ebreo "politicamente scorretto", che nel gigantesco
Holocaust Memorial di Washington, finanziato e gestito dal Governo
Federale, si è praticamente eliminato ogni riferimento agli armeni, così
come agli zingari che pure, con oltre mezzo milione di vittime per mano
nazista, ebbero in proporzioni perdite più alte degli israeliti. "Ma",
scrive sempre Finicelstein, "riconoscere il genocidio dei gitani, nello
stesso periodo e con gli stessi colpevoli, avrebbe comportato la caduta
dell'esclusiva ebraica sull'olocausto, con una perdita cospicua di
"capitale morale"». Così, aggiunge lo scrittore, mentre ogni anno, in
tutti i 50 Stati dell'unione nordamericana si celebra il "Giorno della
Memoria dell'Olocausto", «i lobbisti ebraici del Congresso impedirono
l'istituzione di una giornata di ricordo del genocidio armeno» oltre che
di quello zingaro.
In un recente, informatissimo e pacato studio della Civiltà Cattolica
proprio sulle resistenze che trova ancora oggi lo sforzo per non
perdere la memoria della terribile strage perpetrata dai Turchi, ci si
dice «molto colpiti» perché il ministro israeliano Shimon Peres, in una
visita ad Ankara, «ha definito "senza senso" le richieste degli armeni,
che pretendono l'uso dei termini olocausto e genocidio anche per il loro
milione e mezzo di morti su una popolazione totale, presente allora in
Turchia, di due milioni e centomila persone».
Peres, in un'intervista, ha ribadito: «Quella del popolo armeno è stata
una tragedia non un genocidio». Non si dimentichi che, almeno sino a ora
(ma le recentissime elezioni, con la vittoria del partito islamico,
mandano messaggi inquietanti) la Turchia è stata per Israele il solo
alleato nel mondo musulmano e il fornitore di molto di ciò che serve a
mantenere il suo agguerritissimo esercito.
In realtà, poiché, secondo la stessa definizione delle Nazioni Unite,
«genocidio è lo sterminio di un gruppo nazionale, etnico o religioso»,
poche volte il termine è adeguato come nel caso dell'Armenia. Lo riconobbe
anche Giovanni Paolo II nella sua visita, alla fine del 2001, dove non
esitò a parlare di un popolo martire per la sua fede.
L'obiettivo cui si mirò (raggiungendolo: non ci sono più armeni nelle
province turche dov'erano o maggioranza o minoranza particolarmente
numerosa) fu la soppressione totale, con una strage di massa che cancellò
sino il ricordo della più che millenaria presenza armena in quel
territorio che divenne dei Turchi ottomani, arrivati come intrusi e
invasori, soltanto a partire dal XIV secolo.
Quello che i Turchi si proposero prima durante la Grande Guerra fu
proprio, ed esplicitamente, una "soluzione finale".
Per un credente, il popolo armeno non è uno come tanti altri: qui nacque -
nel 301, dunque ancor prima delle leggi di tolleranza costantiniane - il
primo regno cristiano della storia. Qui, in terre tormentate e di confine
(scosse, tra l'altro da continui terremoti) questa gente seppe restare
fedele sotto le aggressioni e le dominazioni brutali di innumerevoli altre
culture e religioni. In particolare, continuò paziente a persistere nella
sua fede, a stringersi nella sua Chiesa (che per molti armeni fu quella
cattolica) anche nei secoli in cui al Turchi ottomani dovette pagare il
pesante tributo di dhimmi, sottomessi, e accettare l'inferiorità e
le umiliazioni consuete per tutti i battezzati sotto il giogo islamico.
Dai Sultani d'Istanbul ottenne addirittura il titolo di "comunità più
fedele": in effetti, pur di essere lasciata in pace a vivere da cristiana,
dava a quel Cesare con turbante quel che pretendeva, senza troppo lagnarsi
e senza cercare di ribellarsi.
Il "Grande Male" (come gli armeni chiamano il loro Olocausto) cominciò con
la crisi dell'Impero ottomano e il sorgere, per compensazione, del
nazionalismo turco, cui da parte cristiana si cercò di reagire. Alcuni
partiti, di ispirazione socialista e condannati dalla Chiesa, ricorsero
anche al terrorismo. Così, tra 1894 e 1896, una serie di massacri ordinati
da Istanbul portò a una prima strage di 300 mila armeni e a migliaia di
conversioni forzate all'Islam.
Ma il genocidio vero e proprio sarà consumato dai "Giovani Turchi", il
partito nazionalista e razzista che intendeva procedere a una vera e
propria "pulizia etnica". Nel 1909, si fece un'atroce "prova generale",
con lo sterminio di 30 mila armeni della Cilicia, sotto l'occhio
indifferente delle Potenze sedicenti cristiane, impegnate in un gioco
politico tra Turchia e Russia. Come già in precedenza, la Chiesa cattolica
fu la sola a levare la voce per denunciare e per protestare, con
documenti, passi diplomatici e articoli ufficiosi sulla Civiltà
Cattolica. Allo scoppio della guerra. Nel 1914, la Turchia, alleata di
Tedeschi e Austro-Ungarici, subisce una disfatta sul fronte caucasico,
dove gli armeni sono da sempre a casa loro, in assoluta maggioranza.
L'occasione e propizia per liberarsi finalmente del problema. Mentre i
soldati armeni nell'esercito ottomano sono tutti disarmati, usati come
bestie da soma sino a esaurimento delle forze e poi fucilati, per il
milione e duecentomila di altri armeni sul Caucaso giunge da Istanbul
l'ordine di deportazione nel remoto deserto asiatico. Ne seguono eventi
spaventosi: chi non è ucciso dalle baionette, dalla fatica o dalle
percosse, troverà la morte per fame, sete, prostrazione giunto al "punto
d'arrivo", dove in realtà non c'è nulla se non la sabbia.
Alla fine della guerra, non ci sono più armeni sul Caucaso: lo sterminio,
li, è terminato, con più di un milione di morti, i pochi superstiti sono
fuggiti verso la Russia o sono andati a ingrossare la già cospicua
diaspora. Ne restano però, nelle zone occidentali della penisola anatolica:
a loro provvederà Kemal, l'eroe nazionale, detto Ataturk, cioè "Padre dei
turchi", con nuove stragi e con la cancellazione della sentenza
dell'immediato dopoguerra, con cui lo Stato ottomano, riconoscendo la
terribile strage, aveva condannato a morte i politici che ne erano stati
responsabili.
Da allora, parlare di "genocidio armeno" è ufficialmente vietato in
Turchia: una negazione contro ogni evidenza che, come abbiamo visto, conta
ancora su potenti appoggi anche all'estero. Intanto, gli Eurocrati
discutono se accettare o no sotto la bandiera azzurra con dodici stelle
coloro che non sono, certo, personalmente colpevoli ma che sinora non
hanno voluto riconoscere quanto fecero i loro padri.
Noi non siamo storici e tanto meno politici, ma per approfondire
maggiormente quanto ci ha raccontato l’anziano e canuto armeno, venditore
di tappeti orientali, e a nostro parere, molto addentrato nella politica
del suo Paese, abbiamo letto il libro, storico-politico, frutto di anni di
ricerche del giornalista e scrittore Diego Cimara, di recente
pubblicazione, dove denuncia il "genocidio" la soppressione, tra il 1915 e
il 1917, di almeno un milione e mezzo di cristiani armeni proprio per mano
dei Turchi. Mentre altre centinaia di migliaia erano stati massacrati
negli anni precedenti. Il riconoscimento di quella spaventosa tragedia da
parte dell'Europa, e di alcuni Stati nazionali, è stato tardivo ed è
contestato aspramente dai governi ottomani che si sono succeduti
sino ad oggi. Il libro di Diego Cimara, è una vera e propria denuncia al
mondo intero dell’olocausto di un pacifico popolo, di quel popolo errante
che si chiama armeno.
Come abbiamo detto sopra, noi non siamo politici e tanto meno ci
interessiamo di politica, ma la storia che ci ha raccontato in quella
lunga conversazione l’anziano ed erudito armeno, venditore di tappeti e
souvenir. Alla fine del suo racconto, abbiamo salutato la piccola comitiva
degli ambulanti nomadi, che erano accampati nel “caravanserraglio”,
con i quali abbiamo amichevolmente conversato, e saliti sul moderno
pullman, ci siamo diretto verso la città di Urgup Cappadocia, proseguendo
così il nostro tour attraverso la grande e bella Turchia. Leggendo e
rileggendo quegli appunti, per onor di cronaca, abbiamo deciso di scrivere
questo racconto di viaggio. Lasciamo la storia del popolo turco e di
quello armeno e proseguiamo il nostro viaggio verso l’Egeo, per visitare
le ultime località del nostro lungo Tour in quell’antica e meravigliosa
terra chiamata Turchia.
Le ultime località che abbiamo visitato, sono state l’antica città di
Efeso, Didima, Afrodisia, Pamukkale, Konya sono solo
alcuni nomi nell’universo degli incontri che abbiamo avuto lungo le
antiche strade turche. Così come le vicende legate ai miti: Creso re della
Lidia, Re Mida, Alessandro e il nodo gordiano, San Nicola (Babbo Natale),
la cui storia ha origine a Demre e fu esportata a Bari dai crociati. Vi
sono poi molti luoghi piccoli, oggi quasi dimenticati ma considerati sacri
dagli abitanti. Non trascureremo la cucina turca e le danze (1.500 i tipi
di danza popolare esistenti in giro per la nazione) e tanto meno la sua
natura. La solitudine e le lande desertiche della Turchia danno a
chiunque la sensazione - esatta! - che quei luoghi, oggi abbandonati,
siano stati un tempo il centro di una civiltà opulenta.
Delle molteplici città antiche che si trovano
in Turchia, Efeso è sicuramente la meglio conservata, anzi è la più bella
città classica di tutto il Mediterraneo. La greca Ionia era già un florido
centro culturale che, durante l'Impero Romano, divenne un'attiva capitale
di provincia, apprezzata per la sua bellezza e la sua ricchezza. Il Tempio
di Diana di Ionia era una delle sette meraviglie del mondo. A Ionia San
Paolo e San Giovanni iniziarono a scrivere, e pare che Maria passasse qui
qualche anno verso la fine della sua vita. Per girare tra le rovine
s'impiega almeno tre ore circa per visitarle. Passeggiando abbiamo
incontrato la Grotta dei Sette Dormienti, nella quale hanno dormito per
due secoli sette giovani cristiani perseguitati che al risveglio andarono
in città a mangiare, scoprendo poi che tutti quelli che conoscevano erano
morti da tempo. Abbiamo visto inoltre l'imponente Ginnasio del Porto, la
maestosa Via Arcadica, lastricata di marmo, il possente Tempio di Adriano,
una serie di fontane, piscine, bordelli, biblioteche, bagni pubblici.
Selçuk, cittadina di 27.700 abitanti, molti dei
quali sono instancabili procacciatori di clienti d'albergo, è il
principale centro turistico della regione di Efeso. In centro si trovano
un bel museo, vari edifici romani, cristiani, musulmani, come la Basilica
di San Giovanni e l'Acquedotto Bizantino. La grande città più vicina è
Smirne. Oltre ai monumenti storici, abbiamo ammirato un paesaggio
bellissimo, dove, come abbiamo detto sopra, germogliano secolari e
contorte piante di ulivo, che sono stati definite, per antonomasia,
“l’albero della pace, di quella pace molto agognata che però non
c’è mai stata per via delle guerre intestine.
Il mondo e la sua storia si rinchiudono a
cerchio attorno a noi, per spiegarci che cosa è questa guerra, il massacro
più formidabile dopo il diluvio e la grande peste, dopo le carestie della
Cina e dell’India e le campagne di Napoleone, che cosa sia stata questa
guerra, prova generale molto puntuale di ciò che sarebbe accaduto, per
completare l’opera, appena vent’anni dopo, non ho bisogno di
raccontarvelo. Lo sapete tutti a mena dito. I grandi storici hanno detto e
scritto quasi tutto ciò che era possibile dirne. La Seconda Guerra
mondiale che la nostra generazione a vissuto fino in fondo, è stata una
macchia nera e rossa che si estende all’infinito prima di restringersi,
una ferita che si apre prima di chiudersi, un flussi seguito da un
riflusso. La prima è un corpo a corpo che trova il suo punto d’equilibrio,
s’affossa nelle trincee e non la smette più di uccidere nell’immobilità.
La vittoria rimane continuamente sul filo del rasoio. Più volte, basta un
nonnulla perché il campo dei vinti divenga il campo dei vincitori. Nel
corso di quella disastrosa guerra, qui in Turchia, oltre un milione di
armeni furono deportati e trucidati, quello fu un vero e proprio
“genocidio” di un popolo perseguitato. La stessa cosa è successa nella
Seconda Guerra mondiale, con il “genocidio” e l’internamento nei campi di
concentramento tedeschi, con l’eliminazione di cinque milioni di ebrei. Lo
scrittore Primo Levi, nel 1943 si unisce a un gruppo di partigiani
operanti in Val d’Aosta, ma è arrestato e deportato, in quanto ebreo,
prima nel campo di concentramento di Fossoli, presso Carpi, e poi, nel
febbraio 1944, nel lager di Auschwitz. Liberato da soldati russi nel
gennaio 1945, torna a Torino e lavora come chimico prima alla Montecatini
e poi in una fabbrica di vernici, la Silva, che dirigerà fino al 1975. Nel
1947 pubblica presso il piccolo editore De Silva, di Salvo Antonicelli,
Se questo è un uomo. Questo è prima di tutto, il racconto
minuzioso e asciutto, la cronaca sommessa e a volte volutamente dimessa,
di un’esperienza estrema: un anno trascorso di Primo Levi nel lager di
Auschwitz, vittima e testimone della massima quota di orrore che il XX
secolo produce. Ed è un orrore che risalta in tutta la sua evidenza
“naturale”, proprio per il fermo rifiuto da parte dell’autore di ogni
forma di amplificazione retorica, di ogni pur legittima “ finzione”
letteraria; un orrore nudo e crudo, e totalmente autentico: tanto più,
perciò, terrorizzante, tanto più in eludibile e non esorcizzabile.
Così la critica ci presenta questo libro. “Se
questo è un uomo”, il giudizio morale, naturalmente, non cancella né
ignora le responsabilità individuali e collettive, ma riesce sempre e
comunque a valutarle sulla base semplicissima eppure difficilissima della
coscienza umana: l’inappellabile tribunale dei giusti che giace nel fondo
di ognuno di noi, e che Primo Levi sa interamente e miracolosamente
esporre alla luce del sole”.
Lasciamo il passato e ritorniamo al presente, al
nostro presente, di un’Europa trasformata, senza confini e senza le mura.
Quello di Berlino è stato abbattuto diversi anni fa, mentre oggi è
crollato anche quello di Cipro. Sembra che la guerra nella piccola isola
del Mediterraneo, tra la Grecia e la Turchia, sta ritornando alla
normalità. Ma ci domandiamo dove va l’Europa? L’allargamento la
trasformerà sicuramente in un super mercato, in una zona di libero scambio
un po’ più burocratizzata delle altre, o è ancora possibile avanzare verso
la creazione di un’Unione federale?
Chi deve guidarla? L’asse Parigi-Berlino, gli
interessi intergovernativi, la Commissione o il popolo europeo ( ammesso
che ve ne sia uno)?
Quel che è certo è che il treno della vecchia
Europa, quella dei fondatori, della CECA, dei Mitteran, dei Kohl e dei
Ciampi si è fermato. Non solo per aggiungervi nuovi vagoni, ma anche
perché è arrivato a destinazione: l’Europa è oggi pacificata,
stabilizzata. Adesso tutto può essere rimesso in discussione. Ma una cosa
è certa, come il vecchio Orient Express che un tempo portava da Parigi a
Istanbul passando per Budapest e Bucarest, lo spazio vitale dell’Europa
sta ad Est. E le prossime fermate si chiamano Turchia, Bulgaria, Romania,
Balcani e poi chissà.
Se vogliamo sapere se il viaggio andrà a buon
fine, non restiamo seduti, cambiamo carrozza, giriamo per il treno. E
prendiamo un buon caffè – un espresso, perché no?- tra cechi e italiani,
francesi e tedeschi, polacchi e estoni, ciprioti e turchi.
Terminiamo questo capitolo, con il quale
concludiamo questo nostro libro escursionistico “ Sulle vie del
mondo”, con la significativa poesia di Primo Levi:
Considerate se questo è un uomo
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a casa
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un No.
Considerate se questa è una donna.
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpite nel nostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
Primo Levi
Anatolia: la via della seta e il caravanserraglio
Dopo il Gran Tour della Turchia, con la visita dei maggiori monumenti
della città stupenda di Istambul, dove Dio e l'uomo, la natura e l'arte
hanno creato il più meraviglioso panorama di sguardo umano possa
contemplare sulla terra, in quel angolo del Bosforo, dove si fondono
l'Europa e l'Asia in un abbraccio fraterno lungo le due rive del Corno
d'Oro. Il nostro itinerario ci ha portati sulla scia del passaggio dei
Greci e dei Romani, lasciando a testimonianza della storia meravigliosi
monumenti, dove abbiamo scoperto un angolo geologico annoverato fra le
meraviglie del mondo per i paesaggi naturali scolpiti dagli agenti
atmosferici e i tesori d'arte bizantina di cui è custode e la Cappodocia
da sola giustifica un soggiorno in Turchia. Nella nostra lunga
escursione, oltre ai singolari monumenti storici e naturalistici, in
quella antica terra di vulcani, abbiamo ammirato vasti campi coltivati a
cereali e a frutteti con il tronco attorcigliato su se stesso e la sua
figura contorta, che sembrava quasi simboleggiare, nel vegetale, la
figura umana: la fatica di crescere, la difficoltà di vivere e le rughe
del tempo. Nelle campagne di fronte all'Egeo, abbiamo visto germogliare
gli uliveti contorti dal vento. Forse è per questo che tale pianta è
così cara agli uomini mediterranei. Per questo forse, l'olivo ha una
valenza simbolica tanto ampia e diversificata, traversale in tutte le
cultore. E' c'è probabilmente qualcosa d'antico, una reminescenza per
certi versi genetica, che ci fa restare sempre ammirati e stupiti
davanti a quelle distese di ulivi che ornano quelle colline assolate e
bruciate del sole sulle sponde dell'Egeo, come pure sulle colline della
My Old Calabria, la meravigliosa terra di Puglia e di tanta parte del
nostro meraviglioso Paese. Guardando quegli antichi alberi secolari e
contorti del tempo, mi sono domandato: sono stati gli antichi Greci, gli
invasori Arabi o i Turchi con le loro scorribande che hanno terrorizzato
nel Medioevo, gli abitanti delle coste della Toscana, del Sud e della
bellissima Liguria, a trapiantare l'albero della pace nel nostro Paese?
Di sicuro sappiamo che sono stati gli antichi Greci, i coloni che hanno
fondato la Magna Grecia, portandosi dietro non solo i virgulti
dell'ulivo, ma anche la vite, i limoni e gli agrumi. Il giornalista
Angelo Bianco, in un suo interessante articolo, parlando dell'olio e
dell'ulivo, così scriveva: " Per chi, come me, che viene da una regione
dove la coltivazione dell'olivo è antica, dove le radici aggrovigliate e
possenti di questa pianta sembrano quasi scavare nella storia dei
popoli, parlare di olio è un po' come fare un viaggio nel passato, nel
mio passato che poi è anche quello della mia famiglia. Egli aveva
veramente ragione, perché tutti noi che proveniamo dalle regioni del
meridione d'Italia, dove germoglia questa antica e meravigliosa pianta,
ci riconosciamo tutti in questa storia millenaria dei popoli
mediterranei.
Proseguendo il nostro viaggio in quelle terre arse e bruciate dal sole,
dove pascolavano le capre e i greggi, restando all'ombra dei resti delle
antiche città fondate dai Greci e dai Romani, degli antichi uliveti,
contorti dal vento, in un certo senso ci sembrava di ripercorrere a
ritroso nel tempo, i sentieri, le verdi colline e le vallate del nostro
piccolo borgo di Cosoleto, che sorge alle pendici del massiccio
dell'Aspromonte, ma quello era solo un sogno molto lontano nel tempo e
nello spazio. Qui tutto é agreste, antico e primitivo, che non è stato
ancora toccato dalle moderne tecnologie, è un paesaggio come quello
descritto da Carlo Levi, nel suo libro " Dio si è fermato ad Emboli".
Nella visita al grande Museo della Civiltà Anatoliche di Ankara, situato
presso la porta della cittadella, questo vecchio e bel bedesten (
mercato coperto) è stato trasformato in un museo che accoglie
inestimabili collezioni di opere paleontoliche, hatti, ittite, frigie,
urate e romane, come ci ha spiegato la nostra guida turca Erol, un tempo
molto lontano, prima che diventasse un mercato coperto e poi trasformato
in Museo, altro non fosse che uno dei "caravanserraglio" che collegava
la città di Istambul all'altopiano dell'Anatolia. Il lettore, se un
lettore ci sarà, certamente si domanderà che cosa è un
"caravanserraglio"? E' soltanto un edificio che nell'Europa nel
Medioevo, erano identificati le fermate di posta, dove cambiavano i
cavalli e i passeggeri trovavano un luogo caldo per rifocillarsi e per
trascorrere la notte. Questi "caravanserraglio" svolgevano lo stesso
servizio. Dalla città di Istambul, passando per la città di Ankara,
transitava la via della seta, che portava i viaggiatori nell'Oriente e
nella Cina. Nel nostro itinerario di marcia era compreso l'altopiano
anatolico centrale, che é di un bel colore giallo bronzo reso impervio
dai burroni e dominato dai picchi vulcanici, che costituì il cuore della
Turchia. Percorrendo questa lunga e interminabile strada, abbiamo
incontrato vastissimi campi di frumento contornati da file di pioppi, la
steppa audacemente delimitata è di una solitudine maestosa. Questo
altopiano è considerato come uno dei nidi della civiltà umana. Lungo il
percorso, prima di entrare in Cappadocia, è stata effettuata una breve
sosta tecnica ad un di questi caravanserraglio, la cui costruzione
risale al XIII secolo. Oltre a sgranchirci le gambe del lungo viaggio e
provveduto ai bisogni corporali, abbiamo visitato questa specie di
albergo -fortezza medievale, dove i carovanieri diretto verso l'Oriente
trovavano ospitalità e assistenza. Quello che sorge attorno a questo
imponente edificio è un piccolo villaggio dell'altopiano dell'Anatolia,
vale a dire il paese che si trova a est di Istambul, penisola
occidentale dell'Asia chiamata anche Asia Minore. Il nome Anatolia
cominciò ad essere usato durante il Basso Impero e fu preferito durante
le epoche bizantina e turca. Al contrario, nell'antichità, allorché la
penisola conobbe la sua maggiore prosperità, era chiamata Asia Minore o
semplicemente Asia. Presso i Turchi, nell'uso odierno il nome Anatolia
indica il territorio asiatico della Repubblica Turca, Armenia e
Kurdistan inclusi, e non coincide più col significato geografico
primitivo, limitato alla sola penisola dell'Asia Minore. Proseguendo il
nostro lungo viaggio in quelle lande assolate e desertiche, bruciate dal
sole, abbiamo attraversato la moderna e simpatica città di Avanos, che
sorge sulle rive del Fiume Kizilirmak, che presenta un'architettura
autoctona ed è conosciuta per il suo artigianato di pregiati tappeti che
i nomadi tessevano centinaia di anni fa. Ci troviamo proprio nel cuore
della Cappadocia, dove violente eruzioni dei vulcani M. Erciyes ( m.
3916) e M Hasan ( 3268), avvenute tre milioni di anni fa, avevano
ricoperto l'altopiano intorno a Nevehir con tufo, una polvere composta
di lava, cenere e fango, pressappoco, come è successo nel nostro Paese
con il Vesuvio, che ha sepolto la città romana di Pompei. I venti e le
piogge, erudendo queste rocce friabili, hanno creato dei paesaggi
surrealistici e spettacolari di rocce a forma di cono, di pinnacoli, di
burroni scoscesi, dipinti con dei toni che variano da rosso all'oro e
dal verde al grigio. Quello é il Parco di Goreme, conosciuto al tempo
dei romani sotto il nome di Cappadocia, è uno di quei rari luoghi al
mondo nei quali l'opera dell'uomo si mescola sapientemente al paesaggio
circostante. Delle abitazioni furono scavate in questa roccia a partire
dal 4000 a.C. Ai tempi di Bisanzio, cappelle e monasteri furono
anch'esse scavate nella roccia; i loro affreschi con toni ocra,
riflettono i colori del paesaggio circostante. Ancora oggi si vedono
emergere armoniosamente nel paesaggio abitazioni scavate nei coni di
roccia e villaggi di tufo vulcanico. Insomma, ti sembra di ammirare un
paesaggio astratto e metafisico, uno di quei paesaggi che ha dipinto il
grande pittore Giorgio De Chirico. Il grande maestro, volle esprimere il
senso profondo delle cose in netta e voluta contrapposizione al loro
senso apparente. Il fatto interiore nel quale sensazione, vita remota e
vita attuale tentano di eguagliarsi nel sogno e doveva costituire
l'essenza della pittura; e l'invenzione fantastica, anima del dipinto,
non comportava una tecnica speciale, ma soltanto la necessità,
l'espressione adeguata, mentre la natura, senza volerlo, ha creato in
milioni di anni l'età metafisica, che secondo Comte, passa
necessariamente la storia umana, caratterizzata dalla tendenza a
spiegare i fenomeni naturali mediante astrazioni entificate.
Dopo Avanos, in direzione sud si giunge ad un interessante
caravanserraglio selgiuchide, il caravanserraglio Sarihan, sulla Strada
Nevsehir- Urgup. In questa stazione di posta, dove in passato si
fermavano le carovane dirette verso l'Oriente e viceversa, perché, come
abbiamo detto sopra, questa era la via della seta e delle spezie.
Probabilmente, in questo caravanserraglio, come negli altri due che
abbiamo incontrato, si sarà fermato sicuramente il grande viaggiatore
veneziano Marco Polo. Non abbiamo trovato nessuna indicazione del suo
passaggio, ma leggendo il suo libro il " Milione", fra le righe, si può
comprendere che proprio in questo locale si sia veramente fermato nel
suo lungo viaggio verso la Cina. Comunque sia, non può essere
diversamente, perché la via della seta e delle spezie passava proprio da
Avanos. Marco Polo, viaggiatore veneziano 1254-1324, figlio di Nicolò.
Giovinetto di diciassette anni, accompagno il padre e lo zio Matteo nel
secondo viaggio nella lontana Cina. Raggiunta per mare Lajazzo, allora
frequentatissimo porto ( l'od Ayas sul golfo di Alessandretta), i Polo
iniziarono nel 1271 il viaggio verso l'interno, con la compagnia di due
domenicani inviati dal papa che però, spaventati dalle prime difficoltà
incontrate sul cammino, tornarono indietro quasi subito. Attraversata
l'Anatolia e l'Armenia, i Polo scesero il Tigri, toccando probabilmente
Mosul e Bagdad, oppure Tabriz, e giungendo al porto di Ormuz, forse con
intenzione di proseguire il viaggio via mare; decisero invece di
continuare lungo la via terrestre e, attraverso la Persia e il Khorasan,
raggiungendo Balkah e il Badakhshan, in quaranta giorni di durissimo
cammino superando molti difficoltà, il cui percorso compare per la prima
volta sul " Milione". Quindi, è accertato che proprio in quella località
è transitato il nostro grande viaggiatore. Oggi questo antico albergo di
posta, è stato trasformato in un rustico ristorante, che ha le stesse
caratteristiche di una vecchia osteria degli anni 50, che s'incontravano
lungo il grande fiume Po e nei villaggi di confine del nostro Paese. In
Val d'Aosta, in Piemonte e in Alto Adige, si incontrano ancora di queste
antiche locande di posta, dove un tempo lontano i viaggiatori trovavano
rifugio, assistenza, pernottamento e il cambio dei cavalli. Oggi, questi
luoghi hanno la funzione di rifugi alpini, dove gli alpinisti e gli
escursionisti trovano la base di arrivo e di partenza. Sulle montagne
della Provenza, dove scorre il serpentone detto il "Gigante verde"; il
fiume che nasce sul Monviso e percorre le vallate delle Alpi, un'antica
strada romana collegava la Costa all'interno della Francia. Lassù sul
costone de " La Maline", esiste ancora un grande rifugio che conosciamo
molto bene ed è funzionale, dove gli alpinisti e gli escursionisti
possono pernottare e trovare assistenza. Alcuni anni fa, con il gruppo
escursionistico del CAI di Mantova, abbiamo pernottato in questo antico
e panoramico rifugio, mentre a poca distanza è funzionante l'antica
osteria con alloggio, gestita dal CAI francese. In quella occasione
abbiamo esplorato e percorso il lungo sentiero che costeggia il "Gigante
verde: gole profonde e picchi metafisici a forma di coni rovesciati, in
un paesaggio particolare, diverso degli altri fiumi che in passato
abbiamo percorso. Il Gran Canyon, è spettacolare nella sua vastità e
nella sua meravigliosa bellezza, ma il "Gigante verde", non è da meno.
Percorrerlo nella sua interezza, si prova la stessa sensazione di
percorrere quel paesaggio "dantesco", illustrato dal pittore francese
Gustave Doré, disegnatore di ricca invettività.
"Nulla di più romantico dell'armonia
Di queste rocce ed abissi,
Di queste acque verdi ed ombre di porpora.
Del cielo comparabile al mare omerico
E di questo vento che parla
Con la voce della divinità morte."
Cappadocia - Konya -Pamukkale
Ephesos
Racconto di viaggio
Il mattino del 11 Aprile, del sesto giorno. Dopo la prima colazione siamo
partiti di buonora per Konya. Lungo il percorso sulla tabella di marcia
era stata prevista una breve sosta al caravanserraglio di Sultanati lungo
la via della seta (secolo XIII), lasciando dietro di noi quel paesaggio
metafisico e lunare della Cappadocia, con i suoi siti rupestri, dove vi
sono custoditi i primi elementi della cristianità, con le sue bellissime
scolpite nella roccia. Abbiamo ripreso il nostro viaggio verso Konya,
l'antica Iconio della predicazione Paolina, e visita al mausoleo di
Mevlana, grande figura della spiritualità musulmana. Per le loro proprietà
curative le acque termali sono state sfruttate dall'uomo fin
dall'antichità e la maggior parte dei luoghi in cui sgorgano vantano una
lunga storia di presenza umana. E' il caso di Pamukkale, dove le rovine di
una città ellenica del II secolo a.C. si innalzano al centro di un
paesaggio di rara bellezza, formato dalle concrezioni calcaree che le
acque hanno depositato nel corso dei millenni. Adriana mia moglie e le
altre signore, sono rimaste molto impressionate di quei luoghi di grande
bellezza.
Ai piedi dei monti Cokelez, non lontano dalla costa Egea della Turchia,
sulla pianura di Curuksu si staglia un dirupo di 200 metri di altezza. E'
un luogo che possiede un fascino del tutto particolare e che un piccolo
dettaglio geologico rende unico al mondo: nella parte alta del dirupo si
trova una sorgente di acque minerali calcaree che scendono alla pianura
lasciando dietro di sé un "lastricato" di sedimenti calcarei dalle forme
fantastiche e una serie di piscine tiepide che, per il colore della
roccia, sembrano scavate nel ghiaccio. Quando nell'XI secolo, i Turchi
conquistarono l'Anatolia costruirono qui una fortezza e diedero alla
località il suo nome definitivo: Pamukkale, che nella loro lingua
significa il " castello di cotone".
L'Eredità degli Attalidi.
Fin dall'antichità si conoscevano le virtù delle acque di Pamukkale che,
oltre a essere indicate per la cura delle malattie degli occhi e della
pelle, servivano per sgrassare la lana e fissare le tinture. Di questa
località la storia ci racconta che quando Eumene II, re di Pergamo tra il
197 e il 159 a. C, decise di fondare una città intorno alle sorgenti, fu
assicurata anche la prosperità del luogo. Fin dalle origini, Eeirapolis è
stata un'importante stazione termale, un luogo di culto per i suoi
numerosi templi e anche un attivo centro della produzione tessile. La
qualità delle acque permetteva di ottenere, mediante una tintura vegetale
estratta da Rhus coticus ( una pianta della famiglia delle Anacardiacee)
una tintura di un rosso intenso con costi più accessibili rispetto a
quelli della porpora di origine animale utilizzata dai Fenici.
Hierapolis entrò così a far parte dei domini asiatici di Roma dopo la
morte dell'ultimo re di Pergamo, Attalo III (138.133), che volle legare il
proprio regno a quella che oramai si andava ponendo come la maggiore
potenza del Mediterraneo. Sotto il governo romano, la città non smise di
crescere e si trasformò in un centro popoloso e cosmopolita in cui
convivevano Anatoli, Greci, Romani e Giudei. Nemmeno i due terremoti che
nel primo secolo d. C, la rasero al suolo riuscirono ad annullare la sua
prosperità. Hierapolis fu precocemente evangelizzata dall'apostolo
Filippo, crocifisso proprio qui nell'(7 d.C, durante la persecuzione di
Domiziano.
I secoli II e III furono quelli dell'apogeo della città, che tuttavia
cominciò la sua decadenza dopo il trasferimento della capitale dell'Impero
nella vicina Costantinopoli nel 330. Durante il periodo bizantino ebbe
ancora una certa importanza come sede di una diocesi e come uno dei centri
principali della Frigia, ma non riuscì più a recuperare l'antico splendore
e i vecchi edifici della civiltà ellenistica e romana caddero via via in
rovina.
Oggi, per la prima volta, un gruppo di mantovani, ha avuto la fortuna di
ammirare, toccare con mano e fotografare i ruderi di quel mondo che è nato
attorno a una sorgente miracolosa. La maggior parte dei turisti che
visitano Hierapoli, come noi è attratta, principalmente dal meraviglioso
spettacolo delle formazioni calcaree di Pamukkale e dalla possibilità di
fare un bagno nelle piscine di acqua tiepida. Tuttavia, le rovine
dell'antica città meritano una visita, costituendo un'eccezionale
testimonianza di quella che, nell'antichità, era una città termale greco-
romana. Naturalmente al centro del complesso urbano si trovano le terme,
con la solita struttura suddivisa in tepidarium, calidarium e frigidarium
e ricoperta interamente da marmo bianco. Nel corso della nostra visita,
per un momento, ci siamo dimenticati di trovarci così lontano del nostro
Paese, ci ha dato la sensazione di ammirare un sito archeologico, uno di
quei siti che si trovano nei pressi di Roma, come la Villa Adriana o le
Terme di Caracolla.
Ci sono rimasti impressi negli occhi, le fantastiche architetture: boschi,
minerali, cascate di pietra che si alternano a una serie interminabile di
figure bizzarre e spettacolari. Le rovine dell'antica città di Hierapolis,
sono un'eccezionale testimonianza di quella che fu un'importante stazione
termale greca romana. L'Hotel Halici -Karahaiyt - Pamukkale, dove abbiamo
soggiornato, è una stazione termale, che mantiene le antiche tradizioni e
di grande bellezza e modernità. Sia all'interno che all'esterno fra i
giardini di tulipani fioriti, vi sono sistemate le piscine termali che
sembrano dei piccoli vulcani fumanti, dove alcuni dei nostri amici si sono
tuffati per un bagno ristoratore. Dopo cena, nel salone delle feste, la
serata è stata allietata dalle bellissime danzatrici svolazzanti di veli
colorati, come farfalle innamorate che si esibivano in quel arcano segreto
nella danza dei setti veli, accompagnate dalla musica intrigate orientale.
Lo spettacolo è stato molto apprezzato, specialmente dai turisti italiani,
francesi e cinesi, presenti nel salone delle feste. Si tratta di una danza
molto interessante per l'originalità e la fecondità della ritmica, che
genera un'espressione gestuale e musicale ed erotica spesso spontanea. Non
possedendo testi sufficienti, si tramanda nel tempo dalle corti dei Marayà
e dei sultani, ma per lo più dai nomadi orientali. Oggi questa danza
gestuale e in un certo senso anche erotica è praticata anche nel nostro
Paese e nell'Europa. Molti turisti hanno fissato quel attimo fuggente
sulle pellicole delle macchine fotografiche e cineprese. Insomma, se
volgiamo, si potrebbe dire che ci " siamo fatti gli occhi", e ciò non
guasta.
Il mattino molto presto è suonata la sveglia, per raggiungere i siti
archeologici che sono ubicati sulla Costa dell'Egeo.
Città di Ephesos (Efeso).
Il mattino del settimo giorno del 12 aprile, quando siamo partiti da
Pamukkale per Ephesos e Kusadasi Area, nel cielo brillavano ancora le
stelle ed i primi raggi del sole ci colsero in un paesaggio diverso e a
noi più congeniale. Avevamo ancora negli occhi assonnati le bellezze delle
famose "cascate pietrificate" ed i resti dell'antica Gerapoli con la
grande necropoli. I due grossi pullman viaggiavano a velocità di crociera
alla volta di Efeso ( Ephesos), città dell'Asia Minore, alla foce del
Castro, sul mare Egeo. Ai primi raggi del sole, attraverso il finestrino,
ci siamo subito accorti, che il paesaggio era completamente cambiato, per
un momento ci è sembrato di percorrere quel bellissimo paesaggio
dell'interno della Paglia o della My Old Calabria, con i suoi eterni e
verdi uliveti, vigneti e frutteti, pure l'aria ed il sole erano diversi,
come pure i villaggi e le case sparse, ma gli uomini anche qui raccolgono
i sassi disseminati sui campi, e i sassi ripullano, li diresti tuberi che
si moltiplicano smossi dall'aratro. Essi sono le rughe. Le crepe, i
bitorzoli, i porri, le chiazze di faccia che è stata sbattuta dalla
sofferenza, che non si è ripristinata nella fatica e nelle privazioni, che
non ha avuto il tempo di truccarsi, come fanno spesso le donne di mattino.
Prima di giungere a Efeso, ci siamo fermati per esplorare il tempio di
Afrodite che sorge a pochi silometri da Efeso, in una campagna in mezzo
agli ulivi e le rovine dell'antica città Tetrapyion " Afhrodisias", con il
suo bellissimo teatro greco romano. Afrodite, era la Dea dell'amore, della
bellezza e della fecondità, venerata in tutto il mondo greco sotto aspetti
che riflettevano l'influsso della fenicia Astante è collegata con il culto
di Adone. Afrodite attenuò nel tempo il suo carattere violento per
divenire l'incantevole dea che si aggirava nel mondo della natura e tra
gli uomini suscitando con spensierata letizia l'eterna vicenda d'amore
Ephesos é sorta presso un veneratissimo santuario di una dea asiatica
della fecondità, identificata in seguito dai Greci con Artemide, fu
colonizzata verso il 1000 a.C dagli Ioni e governata dapprima da re (
(Basilici), poi da un'aristocrazia, quindi, nei secoli VII e VI a.C. da
tiranni. Posta allo sbocco della "Via Regia" di Lidia, Efeso dovette la
sua fortuna all'attività economico - commerciale e alle intese relazioni
con l'Oriente. Già nel VIII secolo a. C, essa era diventata il grande
centro finanziario dell'Asia Minore. I suoi banchieri, che operavano
secondo la tradizione babilonese di antica origine sumerica, erano
potentissimi e la famiglia Mela, in particolare, i cui discendenti di ogni
generazione sposavano principesse lidie, aprì ai Mermnadi di Sardi i
crediti necessari per la loro politica monarchica. Efeso restò così legata
a Sardi, dalla quale dipendeva il traffico che l'arricchiva.
Delle mille e mille città antiche che si trovano in Turchia, Efeso è
sicuramente la meglio conservata, anzi è la più bella città classica di
tutto il Mediterraneo. La greca Ionia era già un florido centro culturale
che, durante l'Impero Romano, divenne un'attiva capitale di provincia,
apprezzata per la sua bellezza e la sua ricchezza. Il Tempio di Diana di
Ionia era una delle sette meraviglie del mondo. A Ionia San Paolo e San
Giovanni iniziarono a scrivere, e pare che Maria passasse qui qualche anno
verso la fine della sua vita. Per girare tra le rovine s'impiega almeno
mezza giornata, per fortuna che siamo in aprile e quindi la temperatura
non è eccessivamente calda e si può camminare tranquillamente senza
sudare. La nostra guida ci dice che se fossimo venuti in estate l'ora di
pranzo il caldo eccessivo ci avrebbe impedito di proseguire. Passeggiando
in quella località, abbiamo incontrato la Grotta dei Sette Dormienti, dove
la leggenda dice che nella quale dormirono per due secoli sette giovani
cristiani perseguitati che al risveglio andarono in città a mangiare,
scoprendo poi che tutti quelli che conoscevano erano morti da tempo.
Abbiamo visto inoltre l'imponente Ginnasio del Porto, la maestosa Via
Arcadica, lastricata di marmo, il possente Tempio di Adriano, una serie di
fontane, piscine, bordelli, biblioteche, bagni pubblici fatti costruire da
Vespasiano. Soltanto che in quel tempo nessuno pagava per accedere a quel
servizio, mentre oggi, nel nostro lungo tour in Turchia, ovunque ci siamo
fermati per la sosta, abbiamo dovuto pagare un Euro, per fare pipì o altri
bisogni corporali. Vespasiano si finanziava con il concime ricavato dai
pozzi neri, mentre le orine erano adoperate nelle concerie per sbiancare
le pelli Dopo di quest'inciso veniamo alla nostra escursione nella
bellissima città di Efeso. Alla fine del grande viale colonnato e
lastricato di marmo, si trova il frontale della imponente biblioteca, che
era la più grande dopo di quella di Alessandria. In centro si trovano un
bel museo, vari edifici romani, cristiani, musulmani, come la Basilica di
San Giovanni e l'Acquedotto Bizantino, nonché il grandissimo piazzate
colonnato dove sorgeva il mercato e sul lato destro l'imponente teatro
romano che sorge sulla collina da dove si ammira il mare Egeo e un
paesaggio mozzafiato. Durante la nostra passeggiata, attraverso quelli che
furono i resti dell'antica Città di Efeso, il sole non ci ha dato tregua.
Era molto caldo e non spirava un filo d'aria. Bene ha fatto Adriana mia
moglie ad aprire il suo ombrellino, che avrebbe dovuto servire per la
pioggia, ma che è stato utilissimo per ripararsi dai cocenti raggi del
sole.
Durante il nostro percorso, un fotografo locale, mediante l'autorizzazione
della nostra guida, si è sbizzarrito a scattare moltissime fotografie e
alla fine dell'escursione si era piazzato vicino i nostri pullman con le
foto stampate. Egli è stato molto esoso, per ogni fotografia pretendeva la
somma di 5 Euro, ma nessuno ne ha acquistato. Così le fotografie scattate
sono rimaste invendute. La stessa cosa è successa nella Cappadocia,
soltanto che qui il fotografo è stato più onesto e le foto le ha fatte
pagare soltanto un Euro.
La storia ci racconta inoltre che qui a Efeso, nel V secolo si tennero due
concili. Il concilio del 431 fu il terzo concilio ecumenico. Convocato
dall'imperatore Teodosio II, doveva porre fine alle controversie sollevate
da Nestorio, arcivescovo di Costantinopoli, riguardo alla persona di
Cristo e al titolo da conferire alla Vergine Maria. Si riunì il 22 giugno
del 431 sotto la presidenza di Cirillo, vescovo di Alessandria. Nestorio
fu condannato e deposto e il concilio stabilì che in Cristo vi fu una sola
persona e due nature e che la Vergine Maria è veramente madre di Dio. Un
gruppo di vescovi e Candidiano, rappresentate dall'imperatore, si
ribellarono a queste decisioni. Ma i legati del papa Celestino, arrivati
qualche tempo dopo, confermarono la definizione del concilio. Nestorio,
che aveva riunito intorno a sé i suoi seguaci, si rifiutò di
sottomettersi. Fu mandato in esilio, dove morì. Ma solo dopo l'unione del
433 fu ristabilita la pace nella Chiesa d'Oriente. Il concilio del 449,
conosciuto come il "latrocinio di Efeso" ( secondo la definizione di san
Leone Magno), fu un'assemblea di vescovi favorevoli all'eresia di Eutiche,
riuniti sotto la presidenza di Dioscoro, patriarca di Alessandria; fu
condannata la distinzione delle due nature di Gesù Cristo. I legati papali
furono costretti alla fuga. Due anni dopo, però, il concilio di Calcedonia
(451) annullò gli atti di questo concilio.
Dai siti archeologici di Efeso, per giungere all'Hotel Club Maxima,
abbiamo percorso una parte del litorale dell'Egeo. Ci sembrava di
percorrere le Coste della nostra meravigliosa Liguria, con le sue pinete,
le insenature, i piccoli arenili e le cale e calette nascoste fra le
pinete e le insenature. Nell'interno, abbiamo ammirato una campagna
meravigliosa, dove sono coltivate gli ulivi, gli aranci, la vite e gli
ortaggi. Una lunga e ampia striscia di costa, ai piedi di colline verdi.
Qui case e villaggi color pastello si crogiolano al sole dell'Egeo, mentre
i loro giardini, fiorenti nel dolce clima, risplendono di piante colorate
Un paesaggio bellissimo incorniciato da un mare azzurro e spumeggiante.
Sul litorale pinete verdi e ulivi argentati, dove si possono trascorrere
in tranquillità le sospirate vacanze, in una località senza rumore, dove
regna tanta pace e serenità.
Kusadasi Area/ Izmir/ Istambul/ Venezia/ Mantova. Oggi, venerdì 13 aprile,
è l'ultimo giorno di permanenza in questa terra antica e meravigliosa. La
grande città più vicina è Smirne, in turco Izmir a un'ora di autobus che
dista pochi chilometri da Efeso. Eccoti giunti nell'antica città di
Smirne, ultima tappa del nostro lungo Tour della Turchia. L'antica Smirne
sorse in un sito già abitato in età preistorica. Conquistata da Ioni di
Colofone e di Efeso verso 688 a.C. entrò quindi a far parte della
Confederazione ionica, ma verso la fine del secolo fu presa e distrutta da
Aliatte, re di Lidia. Fu ricostruita, sul sito odierno, solo in età
ellenistica per opera di Antigono Monoftalmo e di Lisimaco e divenne
allora rapidamente una delle principali città dell'Asia Minore. All'età
romana appartengono alcuni grandi acquedotti, il tempio di Zeus in stile
corinzio, il teatro, lo stadio; di particolare interesse l'agorà con
portici e una basilica e tre navate del II secolo d.C, di cui restano, tra
l'altro, i colossali rilievi d'altare raffiguranti divinità come Positone,
Demetra e Artemide. All'aeroporto di Izmir, dopo le formalità d'imbarco,
siamo partiti con volo di linea alla volta di Venezia con cambio
aeromobile a Istambul. Purtroppo siamo alle ultime battute, come si vuol
dire, il nostro viaggio è terminato, il nostro gruppo composto di
mantovani di nascita e di adozione come Adriana ed io, non ci sono tra noi
altre persone di altre città, quindi siamo un gruppo di amici che ci
conosciamo da vecchia data ed altri nuovi, ma soprattutto siamo tutti
compatti. Il nostro accompagnatore del Cral delle Poste di Mantova, Papa
Francesco, che é originario dalla bellissima Puglia, quindi, é molto
gioviale, come del resto lo sono tutti i pugliesi. Ci aspettavamo che
lanciasse una proposta, quella di ritrovarci tutti, appena sarà possibile,
attorno ad un tavolo di un tipico ristorante padano, per lo scambio delle
fotografie e le considerazioni su di un viaggio che si è subito rilevato
molto interessante: soprattutto per l'emozione di conoscere i luoghi dove
nei millenni passati si sono succeduti popoli e civiltà diversi, ma
soprattutto dove si è consolidata nei secoli la religione cattolica ma
questa proposta non è stata avanzata. Il ritorno a casa non è però triste:
mi aspetta l'emozione di vedere le foto scattate, di trascrivere i
molteplici appunti contenuti nella vecchia e cara agenda di viaggio e,
soprattutto, di pensare ad una nuova meta.
Vorrei elencare uno dopo l'altro i compagni di questo bellissimo viaggio
in Turchia, ma essendo tanti, riempirei una pagina di questo contesto
letterario-escursionistico soltanto di nomi. Comunque, é difficile
dimenticarli, come è difficile dimenticare i meravigliosi luoghi e i
monumenti della bellissima città di Istambul, dove l'Europa e l'Asia si
incontrano, continuando a espandersi lungo le due rive del Corno d'Oro,
dove Dio, l'uomo, la natura e l'arte, hanno creato il più meraviglioso
panorama di sguardo umano possa contemplare sulla terra, come pure le
bellezze naturali a cielo aperto della Cappadocia, di Pamukkale e di
Efeso. Luoghi, monumenti e persone, indimenticabili, essi rimarranno
impressi nella nostra memoria, come pure i volti dei nostri amici di
viaggio.
Ascoltando il racconto degli uccelli fra i pinnacoli della Cappodocia e le
rive del mare Egeo e le millenarie rovine di questi siti naturali e
archeologici, mi tornarono in mente le parole di Destoieski.
Ama tutta la creazione di Dio, il tutto in ogni
Granello di sabbia. Ama ogni foglia, ogni raggio
Della luce di Dio. Ama gli animali:
Dio ha dato loro la vita. Non turbarli, non
Tormentarli, non privarli della loro gioia.
Ripensando alle bellezze del Corno d'Oro, dove l'Europa finisce e
incomincia la terra arida e bruciata dell'Asia Minore, dove il sole
illumina il giorno, scalda la terra, matura i frutti, ma rimane lontano
nel cielo e noi ci siamo fermati ad ammirarlo nell'ora del tramonto,
quando tutto si tinge di rosso e scende il silenzio della sera nelle
marine senza risucchi della luna fredda su quel braccio di mare che mette
in comunicazione il Mar Nero con il mar di Marmara separando l'Europa
dall'Asia. Ogni sera i bianchi gabbiani appollaiati sugli scogli, come
pure tutte le altre creature del mare lo ringraziano per la luce del
giorno. L'amore è una fonte inesauribile di riflessioni, profonde come
l'eternità, altre come questo limpido cielo, vaste come l'eternità. Noi
diremo con grande nostalgia a quest'angolo di cielo e di mare una sola
cosa: arrivederci alla prossima escursione, perché sicuramente ci sarà una
prossima gita, per completare questo Gran Tour nella bella e interessate
città di Istambul, con le sue meravigliose luci, ma anche e soprattutto,
con le sue ombre, che ancora oggi sono motivo di contestazioni delle varie
etnie. Sicuramente, fra non molto, quest'angolo stupendo del Bosforo, che
altro non è che un piccolo paradiso terrestre, entrerà a far parte della
grande Europa.
Ankara
Racconto di viaggio
Nel tardo pomeriggio del 9 Aprile, la comitiva degli escursionisti
mantovani ha raggiunto la moderna città di Ankara, la capitale politica
della Turchia, che sorge nel mezzo della semidesertica Anatolia centrale.
Gli ottomani non riconoscerebbero la loro antica Angora, un tempo
tranquilla cittadina che viveva dell'allevamento di pecore a pelo lungo,
la cui lana è famosa in tutto il mondo. Da quando nel 1920 Atatürk insediò
qui il suo governo provvisorio, Ankara vive di amministrazione e di
burocrazia, ma non mancano luoghi interessanti da visitare. La provincia
di Ankara è circondata al nord da Cankiri e Bolu, a sud da Konya e Aksaray,
Kirikkale e Kirsehir a est, e Eskisehir a ovest. La grande e moderna città
si estende a vista d'occhio fino alla collina che circonda la valle. Si
eleva a 850 metri di altezza. A dispetto del suo aspetto di città nuova,
le origini di Ankara sono molto antiche. La storia ci racconta che fu
abitata sin dall'Età del Bronzo dagli Hatti, ed in seguito dagli Ittiti.
Di questi ultimi ci sono rimaste numerose vestigia ( Il millennio). Poi
sullo stesso territorio si sono succeduti i Frigi, i Lidi, i Persi, e i
Galati.
I Frigi occuparono la regione nel X secolo a.C. successivamente i Galati,
appartenenti al ramo dei Celti, s'istallarono lì e fondarono la città.
Essendo antichi marinai, scelsero il nome di Ancora che significò appunto
" ancora", e ne fecero la loro capitale nel III secolo a. C. Più tardi i
Romani s'impossessarono della città. Gli scavi archeologici attualmente in
corso hanno permesso di riportare alla luce parti di teatro, belle statue
e busti esposti al Museo della civiltà anatoliche, che abbiamo visitato il
mattino successivo al nostro arrivo in questa moderna città. Questi
ritrovamenti permettono d'affermare che Ankara era, all'epoca romana, un
centro d'arte e di commercio importante. Ai Romani seguirono poi i
Bizantini e, nel 1071, con l'insurrezione, di piazza e la vittoria a
Malazgirt l'Anatolia aprì le porte ai Turchi selgiuchidi diretti dal
Sultano Alpasslan. Nel 1073 Ankara diventò un'importante roccaforte
militare e logistica per i trasporti e le risorse naturali in tutto il
territorio Turco. Ma è soltanto all'indomani della Prima Guerra Mondiale
che Ankara fece la sua reale entrata nella storia, diventando prima il
centro della resistenza turca contro lo smembramento del Paese, con la
Rivoluzione Nazionale di Mustafà Kemal, detto Ataturk e, il 13 ottobre
1923, la capitale.
La zona più turistica è Hisar, la cittadella bizantina in cima alla
collina che domina da est il centro storico; nei dintorni si trova il
Museo delle Civiltà Anatoliche di eccezionale interesse per la ricchezza
delle collezioni che vi sono conservate e che abbracciano tutte le civiltà
succedutesi nell'Asia Minore. Procedendo verso sud di un paio di
chilometri, si arriva al Mausoleo di Atatürk, un bel edificio semplice e
monumentale al tempo stesso, che riprende i tratti caratteristici delle
varie architetture dell'Anatolia. La Casa Presidenziale è ancora come
quando la usava Atatürk ed è arredata con mobili e accessori degli anni
'30; ci sono pure un tavolo da biliardo e un salottino intimo per "brandy
e sigari. Ad Ankara non manca la storia antica: ai tempi dell'Impero
Romano era una città piuttosto importante e oggi rimangono rovine romane
sparse tra moschee e altri edifici musulmani. Gli alberghi e i ristoranti
economici sono concentrati prevalentemente nella città vecchia, un km
circa a nord-est della stazione ferroviaria. Ankara è una città moderna,
dai viali spaziosi ed é proiettata verso il futuro.
Nel pomeriggio, partenza in pullman alla volta della Cappadocia,
costeggiando per un buon tratto il lago salato ed al tramonto del sole
siamo giunti a destinazione. Lungo il viaggio sull'altopiano
dell'Anatolia, dove abbiamo ammirato l'immensità dell'altopiano costituito
da un tavoliere di ocra chiara, occupato al centro dalla vasta depressione
del lago salato, che si estende per oltre 50 Chilometri, interrotto da
valli e dominato da massicci di origine vulcanica, costituisce il cuore
della Turchia. L'altopiano è coperto di campi di cereali e interrotto, a
grandi intervalli, da filari di scarni e sparuti pioppi dietro ai quali si
dissimulano i villaggi rurali che, questa steppa possiede talvolta un
aspetto severo e aggressivo. E' un paesaggio ripetitivo senza orizzonte,
dove cielo e terra si fondono in un amalgama perfetto e dove pascolano
migliaia di greggi ed é punteggiato da sassi vulcaniche, tanto che ti
dalla sensazione di percorrere un paesaggio lunare e metafisico. È un
paesaggio dove sembra che il tempo si è fermato, dove non esiste neppure
una piccola dacia per centinaia di chilometri, ma finalmente siamo giunti
nel Parco Nazionale di Goreme e Chiese Rupestri della Cappadocia.
Il moderno torpedone, ha portato il gruppo dei mantovani dalla città di
Ankara, al Parco Nazionale di Goreme nella Cappadocia.
Appena giunti in questo paradiso terrestre, ci siamo domandati: che cosa è
la Cappadocia? La storia ci racconta che in Cappadocia era stanziata una
colonia semitica già prima del III millennio a.C. Kultepe a NE di Kayseri
( Cesarea), sono state trovate numerose tavolette di carattere economico,
redatte in una lingua che è la forma più antica dell'assiro, vicino
all'antico babilonese. Esse attestano un'intensa attività commerciale con
carovane; gli scambi decaddero all'inizio del II millennio con le
invasioni dei Cassiti e degli Hyksos. La Cappadocia divenne il focolare
dell'impero ittita, il cui punto centrale era l'attuale villaggio di
Bogazkov o Bogazkale. Conquistata dai Lidi, poi dai Persiani (VI secolo
a.C), fece parte dell'Impero di Alessandro Mago, tocco quindi in sorte a
Ecumene e fu compresa nel regno di Antigono e dei Seleucidi. Indipendente
sotto la dinastia indigena degli Adirati, subì in seguito il protettorato
romano ( I secolo a.C). Provincia romana sotto Tiberio, la Cappadocia, il
cui centro più prospero era Cesarea, fu uno dei primi centri di diffusione
del cristianesimo. Nel IV secolo diede alla Chiesa tre dottori, poi santi,
Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Gregorio di Naziano o Nazioanzeno.
Per i dipinti bizantini delle sue chiese rupestri ( secolo X-XIII) forma
una provincia importante dell'arte cristiana d'Oriente.
La regione della Cappadocia si trova nel cuore della penisola Anatolica,
nel triangolo che ha per vertici le città di Nevsehir (Nella cittadina di
Avanos e Urgup, sorge una moderna Cooperativa, dove avviene la lavorazione
dei pregiati tappeti della Cappadocia. Abbiamo visitato quel moderno
laboratorio ed abbiamo acquistato una bellissima passatoia) Dopo di
quest'inciso ritorniamo alla nostra descrizione dei luoghi. La sua
conformazione geologica è il frutto delle eruzioni dei vulcani Ercivyes e
Hasan Dagi, che hanno depositato sul terreno spessi strati di cenere, tufo
e altri prodotti piroclastici, modellati e disgregati nel corso dei
millenni dall'azione erosiva dei venti. Quando il turista come noi
arrivava in questi luoghi fantastici e con le sue cime irreali e
metafisici, spesso si domandava che cosa era quello che stavamo ammirando,
era un paesaggio lunare, oppure un'apparizione fantastica. La forma
perfetta di quelle cime levigati dagli agenti metereologici, ci ha
richiamati ai villaggi di Alberobello, solo che ad Alberobello, quelle
caratteristiche costruzioni furono creati dall'uomo, mentre qui è stata la
natura. Tutto questo spettacolo che stiamo ammirando l'ha creata la roccia
vulcanica, sottoposta all'azione degli agenti atmosferici, che ha creato
un paesaggio particolarmente suggestivo, fatto di camini, cupole,
pinnacoli e colonne che danno a tutta la regione un aspetto quasi da
fiaba. Le valli di Goreme, con una superficie approssimativamente di 150
chilometri quadrati, rappresenta il miglior esempio di paesaggio vulcanico
di tutta la Cappadocia. Quello che maggiormente ha attratto la nostra
attenzione, è stato il paesaggio fantastico che emergeva tra i vigneti, le
piante di albicocche e i campi di cereali da dove spuntavano alti i camini
di roccia che bucavano il cielo, mentre i pioppeti con le loro chiome
verdi che fanno da contrappunto al colore ocra della pietra tufarica.
Abbiamo appreso che nel corso dei millenni gli abitanti di queste terre
hanno scavato all'interno delle torri coniche e delle pareti rocciose
centinaia di aperture comunicanti tra loro, alle quali si poteva accedere
tramite ripidi scalette ricavate nella roccia viva. La storia ci racconta
che i primi insediamenti risalgono a più di 4000 anni fa, ma il periodo di
massimo splendore si ebbe tra il X e il XII secolo d. C. In un primo tempo
si trattava di semplici rifugi, poi di abitazioni, chiese, monasteri o
addirittura di intere città.
CITTA' SOTTERRANEE
Tra il II e il IV secolo la penetrazione del Cristianesimo determinò lo
stanziamento in Cappadocia di numerose comunità religiose, eremitiche e
monastiche, attratte dalla grandiosità e dall'austerità delle vallate
vulcaniche. Durante il VII secolo, all'epoca dell'invasione araba, le
comunità cristiane riuscirono a sopravvivere scavando nel tufo vere e
proprie città sotterranee nelle quali rifugiarsi in caso di pericolo.
Le città meglio conservate si trova a Kaymakli, circa 15 chilometri a sud
di Nevsehir: dall'esterno l'accesso era consentito solo tramite angusto
corridoi che, nel sottosuolo, si aprivano una serie di tunnel, nicchie e
cavità distribuiti su sette piani a formare una città di dimensioni
impressionanti. Le stanze erano raggruppate intorno a un pozzo di
aerazione in grado di assicurare una buona ventilazione, e alcune
fenditure permettevano agli abitanti di controllare i passaggi con
l'esterno ed eventualmente di colpire i nemici che tentavano di
avvicinarsi. La città poteva ospitare circa mille persone ed era servita
da un efficiente sistema di rifornimento idrico che funzionava mediante un
complesso di cisterne sotterranee situate a differenti profondità. Il
nostro gruppo, come pure altri gruppi di turisti giapponesi e cinesi, con
la guida in testa, siamo entrati in questa città scavata nella roccia ed
abbiamo toccato con mano quei siti. Siamo rimasti stupiti per la tecnica e
la laboriosità con la quale sono stati ideate questa città fantasma.
Sicuramente, gli indigeni di quel tempo remoto, si sono ispirati alle
marmotte, che abbiamo avuto modo di osservare nelle nostre escursioni
sulle Dolomiti. Questi piccoli e simpatici animali, scavano nella montagna
piccoli rifugi per ripararsi dai predatori. Quando escono al pascolo,
alcune di loro rimangono nei punti più alti come vedette e quando vedono
che qualche pericolo incombe, danno l'allarme e tutta la comunità si
rifugia nelle loro tane. La stessa cosa avveniva in queste città
sotterranee e come recitava un proverbio cinese, l'ultimo chiudeva la
porta con pesanti pietre precedentemente preparate.
L'ARTE RELIGIOSA
Oltre che per la struttura, le città scavate nella roccia della Cappadocia
sono degne di nota anche per le decorazioni pittoriche dei luoghi di
culto. Si possono, ad esempio, citare gli affreschi di ispirazione
religiosa di Cavusin (nell'adiacente territorio di Urgup), e in particolar
modo quelli della piccola chiesa di San Giovanni Battista (V secolo),
scavata a mezza altezza lungo la parete di tufo alta 60 metri che domina
l'abitato.
Nel726 d.C. quando l'imperatore Leone III Isaurico ordinò la distribuzione
dell'effigie di Cristo posta all'ingresso principale del palazzo imperiale
di Bisanzio, cominciò il periodo iconoclastico, che si concluse solo
nell'82, con la sua condanna da parte dell'imperatrice Teodora. Durante il
periodo iconoclastico la decorazione dei templi fu limitata a essenziali
motivi ornamentali geometrici e a simboli religiosi.
Una volta ripristinato il culto delle immagini, dal IX secolo al XII
secolo si ebbe in Cappadocia una ricca stagione pittorica: gli artisti
cristiani cominciarono ad aggiungere nuove raffigurazioni, dando origine
ad un nuovo stile molto policromo e di carattere popolare che rivela anche
influssi dell'arte bizantina.
Le rappresentazioni di maggior valore si trovano a Goreme, nella Tokali
Kilise ("chiesa della fibbia"), con volta a botte: sulle pareti si
ammirano alcune scene della vita di Cristo con riferimenti anche a vicende
narrate nei Vangeli apografi (X secolo). Molto interessante per l'apparato
iconografico, questa chiesa si distingue anche per i giochi cromatici che
illuminano le figure spesso tratteggiate in modo sommario.
Molte di queste chiese rupestri, come pure delle piccole abitazioni, sono
stati oggetto di grande interesse da parte della nostra comitiva
mantovana. Quello che maggiormente abbiamo ammirato, soffermandoci con
molto interesse, sono state le chiese rupestri, perché ci richiamano alla
nostra religione, costruite in un Paese completamente mussulmano. Abbiamo
fissato sulla pellicola delle nostre macchine fotografiche la bellezza
pittorica e architettonica di queste chiese primitive, ma per quanto
riguarda l'architettura, riteniamo che sono alla avanguardia nel campo
pittorico e architettonico anche in questo nostro tempo.
Ne valeva veramente la pena effettuare un così lungo viaggio, ma che più
che un viaggio, è stato un pellegrinaggio, alla scoperta di quei siti
costruiti dai primi cristiani, ma soprattutto della fede.
Il nostro lungo viaggio, non termina naturalmente qui con la visione di
questo paesaggio unico al mondo, ma nei prossimi giorni ci attendono altri
siti storici da visitare, dove c'è sepolta la grandezza e la storia
dell'antica Roma.
Istambul
Lungo tour in
Turchia
Quest'anno, le feste pasquali li abbiamo trascorse in Turchia, visitando
Istambul, la Cappadocia e tutti gli altri luoghi turistici più importanti
di questo antico e meraviglioso Paese.". E' qui che Dio e l'uomo, la
natura e l'arte hanno creato il più meraviglioso panorama che sguardo
umano possa contemplare sulla terra". E' con queste parole che Lamartine,
poeta, diplomatico e politico francese, presenta Istambul: una città che
si estende lungo il Bosforo, là dove Europa e Asia si incontrano,
continuando a espandersi lungo le due rive del Corno d'Oro. Dopo lo sbarco
all'aeroporto internazionale di Istambul, che anticamente era l'antica
Bisanzio, ribattezzata Costantinopoli in epoca romana e divenuta Istambul
all'avvento dei Turchi è passata più volte da una denominazione all'altra,
è stata saccheggiata e distrutta, colpita da incendi e terremoti, ma si è
rivelata sempre in grado di risorgere dalle proprie ceneri come aura
Fenice, per stupire il mondo intero con le sue meraviglie. Oggi, tutto il
mondo guarda questo antico Paese, metà europeo e metà islamico, che si
appresta a diventare un membro dell'Unione Europea. Dopo la recente visita
del Papa Benedetto XVI, anche il nostro presidente del Consiglio Romano
Prodi, si è recato a Istambul, per un incontro politico relativo
all'ingresso della Turchia nell'Unione europea. La Turchia, secondo quanto
abbiamo appreso, dovrebbe riconoscere il fatto che quel Paese si deve
riconoscersi colpevole di uno dei più tragici massacri del XX secolo
contro il popolo curdo e dare maggiori garanzie di pacificazione con le
minoranze e garantire maggior sicurezza. Proprio in questi mesi si discute
se accettare la candidatura all'ingresso nella Unione europea della
Turchia.
Lasciamo la storia e la politica e veniamo a nostro tour in questa antica
e leggendaria terra della Turchia, per conoscere le sue decantate bellezze
artistiche e naturali. Dalla brumosa Valle Padana e della splendida
Venezia, siamo sbarcati in quest'angolo felice sulle sponde del Bosforo,
dove abbiamo visto e ammirato una città popolosa che si estende sulle due
rive e che pertanto divide i suoi quartieri fra due continenti l'Europa e
l'Asia.
La posizione strategica fra due continenti è il motivo principale
dell'importanza storica di Istambul e dei molteplici tentativi di
conquista di cui è stata fatta oggetto. Il primo ad aver ragione della
città fu il re persiano Dario I nell'anno 513 a. C; trenta anni più tardi
lo spartano Pausania conquistò il territorio, ma ben presto dovette cedere
il controllo agli Ateniesi. Nel 339 a.C. Filippo II tentò una sortita
notturna per spugnare la città, ma fu tradito dal chiarore della luna
piena.
Proprio in ricordo di questo avvenimento i Bizantini adottarono come
simbolo l'immagine della luna con una stella, che campeggia ancora oggi
nella bandiera turca, su quella bandiera che vedemmo sventolare sull'alto
pennone dell'aeroporto e su tutti gli edifici di Istambul, appena siamo
sbarcati in questa stupenda e meravigliosa città di confine. All'arrivo e
dopo le formalità d'imbarco ed il pagamento di 10 Euro pro capite, ci
siamo avviati verso il terminal, per il ritiro dei bagagli, mentre nel
grande e moderno atrio dell'aereo - stazione, eravamo attesi dalla nostra
guida locale Erold, che si esprimeva molto bene nella nostra lingua. Egli,
infatti, da molti anni è residente con la sua famiglia nella città di
Vicenza, egli, ci ha dato il ben venuto nel suo Paese. Due grossi pullman,
ci stava attendendo fuori dell'Aeroporto per il trasferimento in hotel. La
squadra dei mantovani, dopo la sistemazione nelle camere a noi riservate,
ci siamo ritrovati per la cena. Dopo cena, un piccolo nucleo dei
mantovani, abbiamo aderito all'escursione notturna sulla spianata delle
Moschee e lungo le due rive del Corno d'Oro, dove Dio e l'arte hanno
creato il più bello panorama di sguardo umano possa contemplare sulla
terra. Quello è un angolo splendente di luci, di colori e di giardini
fioriti, dove si radunano migliaia di persone provenienti da tutto il
mondo per ammirare quello spettacolo senza pari. Un panorama che si
estende lungo il Bosforo, là dove l'Europa e Asia si incontrano e si
fondono in un'unica città, collegate da tre ponti, uno dei quali, il più
grande e suggestivo del mondo è di nuova costruzione, che con una sola
campata collega i due continenti. Le campate di questo imponente ponte
sospeso, abbiamo appreso che i manufatti, sono state costruite nei
cantieri de La Spezia ed è l'opera più imponente che abbiamo ammirato
nella caotica e grandiosa città di Istambul: una città caotica, immensa e
senza fine.
Il mattino successivo, dopo la prima colazione, la giornata è stata
dedicata interamente alla visita di questa meravigliosa città che fu
capitale di tre imperi successivi, Romano, Bisanzio e Ottomano - Istambul
conserva fieramente l'eredità del suo passato pur avanzando verso un
avvenire moderno. Molto di più che una semplice città storica, Istambul è
il centro economico della Repubblica Turca. Ogni giorno, un andirivieni
continuo di petroliere e navi mercantili solcano le difficili acque del
Bosforo. Forse questa è stata la nostra impressione, che è la varietà di
Istambul che affascina il visitatore. I suoi musei, le sue chiese, i suoi
palazzi, le sue grandi moschee, i suoi bazar ed i suoi siti naturali che
sembrano inesauribili. A sera, quando stava per tramontare il sole, ci
siamo fermati sulle rive del Bosforo per ammirare la luce rosseggiante che
si riflette sulle finestre delle case di fronte, si capisce perché gli
uomini hanno scelto secoli fa questi incantevole luogo. Noi che abbiamo
girato una piccola parte del mondo, possiamo benissimo dire che in questi
momenti la città di Istambul è una delle più splendide città del mondo che
noi abbiamo visto nel corso della nostra vita.
Costantinopoli, così era chiamata la città all'epoca degli antichi romani,
autentica linea di confine tra oriente ed occidente. Dopo millenni di
storia si presenta al nostro sguardo come una città dall'atmosfera
surreale e metafisica, dove suggestive moschee convivono con reperti
archeologici risalenti alla dominazione romana. Camminando attraverso il
centro storico di quest'antica città, abbiamo potuto osservare che il
fascino di Istambul è anche e soprattutto nella gente, nella frenesia
delle vie e dei mercatini rionali, primi fra tutti vi è il Gran Bazar o il
mercato delle spezie. Parlando delle spezie, ci viene in mente il
commercio che nel Medioevo esisteva fra le Repubbliche Marinare del nostro
Paese e specialmente le compagnie genovesi e Istambul. Sul colle, Galata,
sorge, infatti, un'antica Torre che prende questo nome che ha il
significato di una qualità di caramella. È una costruzione genovese del
1348, si eleva a m. 62 dal suolo, sull'altra riva del Corno d'Oro.
Dall'alto, si ammira il panorama sul Corno d'Oro ed il Bosforo è
straordinario. La sera i turisti apprezzano il suo ristorante, i suoi
night club ed il suo bar. Quindi, nel centro di questa immensa e
antichissima città, esiste ancora oggi, un angolo d'Italia. Su questo
colle, che guarda verso il Bosforo, attorno all'antica fortezza, con
un'alta muraglia difensiva dove erano sistemati, oltre ai magazzini
contenenti le spezie e le varie merci da esportare a Genova. Le strade, i
negozi, i bar, i ristoranti che sorgono attorno a questa fortezza, sono
indicati nella lingua genovese. In quel quartiere, vivono ancora oggi e da
molti anni, moltissimi nostri connazionali. Per un momento, ci è sembrato
di camminare nella vecchia e bella Genova. Nell'agglomerato urbano,
un'insieme di edifici e strutture di vari stili architettonico, attorno
alla fortezza, non potevano mancare i classici carruggi genovesi. Nel mese
di febbraio del corrente anno, abbiamo letto un servizio giornalistico del
corrispondente da Istambul Sergio Remondino, nel Telegiornale di Rai Uno,
nel quale, il cronista, ha fatto vedere nel suo servizio, la fortezza dei
genovesi, che probabilmente rischia di scomparire una parte della muraglia
a causa del passaggio della metropolitana di Istambul se il tracciato non
subirà un'eventuale deviazione. Probabilmente, non ne siamo certi, sarà
scavato un tunnel sotto la fortezza o il tracciato subirà una
modificazione, evitando così di fare sparire un pezzo di quel monumento
storico genovese, proprio dove sorge la torre di Galata ( Sarayburnu). Nel
piccolo porto sul Bosforo, recentemente, sono state rinvenute delle
antiche navi della Repubblica di Genova, che oggi si trovano custodite in
un piccolo museo.
La storia ci racconta che nel 196 dell'era cristiana l'imperatore romano
Settimo Severo distrusse al suolo la città e le sue antiche mura, mentre
un secolo e mezzo più tardi fu Costantino a entrarvi da vincitore, con
intenzioni ben diverse da quelle dei suoi predecessori.
Il mattino del giorno successivo, che è stato l'ultimo giorno della nostra
permanenza ad Istambul, prima di partire per le varie località dell'Asia
Minore, siamo ritornati sulla spianata delle moschee, per completare la
visita ai monumenti e alle moschee. Sul promontorio ove confluiscono, il
Corno d'Oro ed il Mar di Marmara, sorge il Palazzo di Topkapi, labirinto
di costruzioni e centro del potere dell'Impero Ottomano tra il XV ed il
XIX secolo. In questo ricco e meraviglioso ambiente i Sultani che si sono
preceduti e le loro corti vivevano e governavano. Il primo cortile ( o
cortile esterno) racchiude un magnifico giardino e piante bellissime, che
era in via di rifacimento sia del viale che delle aiuole ed il tappeto
erboso. Sulla destra del secondo cortile, ombreggiate da cipressi e
platani, le cucine del Palazzo che custodiscono oggi le collezioni
imperiali di cristallo, d'argento e di porcellane cinesi.
Seguendo il viale alberato, sulla sinistra abbiamo incontrato l'Harem,
quartiere separato delle mogli, e delle concubine e dei figli del sultano,
ci ricorda a noi visitatori gli intrighi della Corte. Il terzo cortile
contiene la Sala d'Udienza, la Biblioteca di Ahmet III, una esposizione
dei costumi imperiali dei Sultani e delle loro famiglie, i famosi gioielli
del Tesoro e una inestimabile collezione di miniature e di manoscritti
medievali. In questo " Santo dei Santi", il padiglione del Mantello Sacro
conserva le reliquie del Profeta Maometto, riportate a Istambul, quando
gli ottomani assunsero il califfato dell'Islam.
Abbiamo ammirato moltissimo la bellezza della facciata del Palazzo di
Dolmabahce, costruito nella metà del XIX secolo dal Sultano Abdulmecit I
si estende per circa 600 metri lungo la riva europea del Bosforo.
L'immensa sala dei ricevimenti con le sue 56 colonne ed il suo enorme
lampadario di 4 tonnellate e mezza con 750 luci, affascina i visitatori.
Sembra che un tempo uccelli del mondo erano racchiusi nel Padiglione degli
" Uccelli" per il piacere degli abitanti del palazzo. Come ci riferisce la
guida Erol, è qui che è morto Ataturk, fondatore della Repubblica Turca,
il 10 nov. 1938.
Prima di visitare le moschee, ci siamo soffermati l'ungo l'antico
Ippodromo, utilizzato per le corse dei carri e centro della vita pubblica
bizantina, si ergeva sulla spianata di fronte alla Moschea Blu, nel
quartiere attuale di Sultanahmet. Tre dei monumenti che lo decoravano,
esistono ancora oggi; l'Obelisco di Teodosio, la colonna Serpentina in
bronzo e la Colonna di Costantino. Ci siamo soffermati ad ammirare le
vestigia del muro curvo dell'ippodromo a sud-est di questi tre monumenti.
Questo luogo, oggi costituisce il centro storico, culturale e turistico di
Istambul. Tutti i giorni, per raggiungere la spianata delle moschee, il
nostro torpedone transitava sotto le arcate dell'acquedotto romano di
Valente, che fin dal 368 d.C. forniva l'acqua ai palazzi bizantini, poi
ottomani. I 900 metri di archi a due livelli che sono rimasti,
attraversano una delle vie principali della città vecchia, Una volta
impenetrabile, le Mira di Istambul si estendono per 7 km. dal Mar di
Marmara al Corno d'Oro.
Le Moschee.
La basilica di Santa Sofia, oggi Museo Ayasofya, è indubbiamente uno dei
più splendidi monumenti di tutti i tempi. Fu costruita da Costantino il
Grande e ricostruita da Giustiniano nel VI secolo, la sua immensa cupola
si eleva a 55 metri dal suolo su di un diametro di 31 metri. A furia di
ammirare la bellezza della cupola, ci è venuto il mal di collo, ma,
credetemi, ne valeva la pena. Di primo acchito, il turista rimane confuso
di tanta bellezza architettonica, ma bisogna attardarsi un po' al suo
interno per cogliere in pieno la sua serenità maestosa è ammirare i
meravigliosi mosaici bizantini, che sono dei capolavori d'inestimabile
valore artistico.
Di fronte a Santa Sofia, si trova l'imperiale Moschea Sultanahmet, slancia
verso il cielo i suoi sei minareti di un'eleganza suprema. Fu costruita
tra il 1609 e il 1616, dall'architetto Mehemet, è spesso conosciuta con il
nome di Moschea Blu, per i suoi splendidi pannelli interni in ceramiche di
Iznik blu e bianche. La cupola ed i quattro minareti slanciati
dell'imperiale moschea di Suleymaniye, dominano l'orizzonte della riva
ovest del Corno d'Oro. Edificata tra il 1550 e il 1557 da Sinan, celebre
architetto dell'età d'oro ottomana, è considerata come la più bella di
tutte le moschee imperiali di Istambul. E' ben visibile anche di notte
dall'alto della sua collina, con i suoi quattro minareti agli angoli del
cortile. All'interno, il mihrab ( nicchia indicante la direzione della
Mecca) e il mimber ( pulpito) sono di marmo bianco finemente scolpito: in
questa moschea abbiamo ammirato una cosa molto rara: splendide vetrate che
colorano i raggi del sole filtrati all'interno. Creando una stupenda
coreografia. Il mausoleo di Solimano e di sua moglie Hurrem Sultan e la
tomba di Sinan, si trovano nei verdi e colorati giardini della moschea.
Abbiamo notato che questo complesso comprende anche quattro medrese (
collegi teologici), una scuola di medicina, un ospizio, una mensa per i
poveri, un caravanserraglio e dei bagni turchi. Prima di rientrare in
Hotel per il pranzo, il plotone degli escursionisti mantovani, abbiamo
visitato il museo Ayasofya, un tempo anche Museo di Sant'Irene era una
chiesa tra le prime di Istambul. Costruita da Costantino nel IV secolo e
restaurata più tardi da Giustiniano, pare che si erga sulle rovine di un
tempio pagano.
Dopo il pranzo, i due grossi torpedoni erano fermi davanti al nostro
Hotel, e caricati i bagagli, abbiamo lasciato a mal cuore la città
bellissima di Istambul. Ancora una volta, abbiamo attraversato il centro
storico e siamo passati attraverso il ponte sospeso più grande del mondo,
entrando così nell'Asia Minore, diretti nella città di Ankara. Abbiamo
lasciato il paradiso terrestre e siamo andati a scoprire un altro mondo,
quel mondo metafisico e lunare che è la Cappadocia.
La battaglia sull'Aspromonte dopo l'8 settembre
1943.
Il Regno del Sud 1943-1944.
Racconto
Quando ci destiamo, il sole è già a mezza strada sulla via del tramonto. I
bambini aiutano sua madre e il padre a pigiare l'uva nel grande tino di
doghe di legno, sistemato all'interno di un capannone al margine del
vigneto, dove si trovava anche il torchio e il pozzo dove defluiva il
mosto. E' arrivato in quel momento un ragazzo più grandicello, forse
avrebbe avuto la mia stessa età, un altro figlio del contadino: si lava i
piedi e poi anche lui sale sul tino e si mette a pigiare l'uva con il
fratello. Io stavo lì vicino a guardarli come erano allegri e felici di
pestare i grappoli d'uva, non è che non conoscessi quel modo di pigiatura,
anzi, devo dire, che qualche volta anch'io come altri ragazzi in passato,
ci siamo divertiti un mondo a fare quel simpatico lavoro nel periodo della
vendemmia. Una dopo l'altra arrivano le cavalcature nel basto i recipienti
di legno a forma di barili colmi d'uva appena vendemmiata. Il conducente
degli asinelli si accinge a scaricare i recipienti e versare l'uva dentro
il grande tino per essere pigiata. Tutto intorno nell'area si diffonde il
profumo intenso del mosto che incomincia a fermentare. Comperiamo un
paniere di frutta appena racconta dall'albero da portare a casa. La
contadina, oltre a prepararci un frugale spuntino sul tavolo sotto
l'ombreggiante e secolare pianta di fico, ci prepara anche due grappoli
d'uva appena colti dalla pergola che ombreggia l'abitazione. Nel piatto vi
ha sistemato alcune fette di pane casereccio e del salame nostrano. Al
centro della tavola faceva bella mostra di se, oltre ad una bottiglia di
vino nero, un cestino di fichi. Facciamo merenda e dopo con Giovanni ci
accingiamo a riparare una gomma del vecchio autocarro, una vettura Fiat
501 trasformata in furgone, che intanto andò giù, paghiamo e ripartiamo
con tristezza: al nostro risveglio l'incanto di quel paesaggio bucolico
era già rotto.
La Strada Provinciale che da Palmi ci porta al borgo Aspromontano di
Cosoleto ora è percorsa, in un senso e nell'altro, da file quasi
ininterrotte di camion dell'Esercito Italiano, seguiti da una colonna di
automezzi tedeschi in ritirata verso la Piana di Gioia Tauro, per poi
proseguire verso il fronte di Salerno. Questi mezzi scendevano dai piani
delle Gambarie, dove erano accampati dopo lo sbarco degli alleati dalla
Sicilia. Abbiamo saputo che il giorno precedente sull'Aspromonte, proprio
nei pressi del cippo che ricorda la storica battaglia dei Garibaldini e il
ferimento del generale Giuseppe Garibaldi il 29 agosto 1862 e fatto
prigioniero con la maggior parte dei suoi (ridotti a poco più di un
migliaio) dopo un breve scambio di fucilate con un battaglione di
bersaglieri, che ha provocato una dozzina di morti e cui Garibaldi pose
fine per evitare una lotta fratricida. L'episodio provocò grande
commozione nell'opinione pubblica mondiale: Garibaldi fu rinchiuso al
forte di Verignano ( La Spezia, ma pochi mesi dopo un'amnistia liberò,
insieme con lui, tutti i volontari. Non fu così, dopo l'8 Settembre 1943,
per gli uomini della Divisione Nembo, proprio nella stessa località che
affrontarono coraggiosamente gli uomini di una divisione corazzata
canadese fino all'ultimo sangue. Al termine della battaglia agli uomini
della Nembo, gli fu concesso da parte del nemico- amico, l'onore delle
armi.
Durante la notte ed il giorno successivo infuriò la battaglia e dal
piccolo borgo aspromontano di Cosoleto, sono transitati i camion della
Croce Rossa. Passarono anche, diretti alla battaglia, autocarri carichi di
soldati con la mitragliatrice sistemata sulla cabina che cantavano a
squarciagola. Ritti assiepati, con i fucili tra le braccia, cantando rossi
in viso, i capelli al vento. Erano truppe che andavamo di rincalzo sul
fronte in Aspromonte. Si sono fermati sulla Piazza del paese e cui le
donne hanno dato da bere del vino e anche qualche pagnotta di pane nero,
di quello che passava il convento. Quei ragazzi non li abbiamo più rivisti
ritornare indietro. Quella doveva essere una compagnia di riserva che
erano accampati sotto le ombrose piante d'ulivo alla periferia del borgo e
in tutta la Piana di Giaia Tauro.
Sarebbe stato sufficiente un semplice apparecchio telefonico per evitare
la sanguinosa battaglia del " Silandro" sui piani dell'Aspromonte, ma dopo
il caos dell'8 settembre, tutti i reparti dell'Esercito italiano, sono
rimasti senza direttive e conoscenze dell'avvenuto trattato di pace con
gli Alleati.
La storia ci racconta che dopo lo sbarco alleato in Sicilia, il 25 luglio
1943 Vittorio Emanuele III destituì Mussolini e nominò a capo del Governo
il Maresciallo Badoglio. L'8 settembre del 1943, dopo l'annuncio
dell'armistizio con gli Alleati, il Re Vittorio Emanuele III e Badoglio
lasciarono Roma e, a bordo di una nave da guerra, da Pescara raggiunsero
Brindisi, nella zona già occupata dagli angloamericani. Al Sud il governo
capeggiato dal Maresciallo Pietro Badoglio mantenne la struttura
costituzionale del Regno d'Italia, con capitale prima a Brindisi e poi a
Salerno. Il re lo annuncerà la sera del 10 settembre a radio Bari: "Per il
supremo bene della patria che è sempre stato il mio primo pensiero e lo
scopo della mia vita, e nell'intento di evitare più gravi sofferenze e
maggiori sacrifici, ho autorizzato la richiesta di armistizio. Italiani,
per la salvezza della capitale e per potere pienamente assolvere i miei
doveri di re, col governo e con le autorità militari mi sono trasferito in
altro punto del sacro e libero suolo nazionale...".
Il primo atto politico del governo del Sud fu la dichiarazione di guerra
alla Germania. Il re e Badoglio speravano che con tale gesto l'Italia
avrebbe potuto evitare le clausole severe della resa incondizionata e
magari ottenere la qualifica di alleata. Speranza vana: alla fine gli
Alleati, pur mantenendo i diritti acquisiti alla firma dell'armistizio,
accettarono la partecipazione dell'Italia alla guerra, ma come semplice
cobelligerante. Così, l'Italia del Sud entrava in guerra contro la
Germania. Era il 13 ottobre 1943. Per la verità fra il Regno del Sud e la
Germania la guerra già esisteva di fatto. In molte località del
Centro-Nord soldati italiani combattevano o avevano combattuto contro i
tedeschi. La dichiarazione ufficiale era tuttavia indispensabile per poter
inviare al fronte, al fianco degli Alleati, i primi raggruppamenti
dell'esercito regolare nonché per consentire all'aeronautica e alla marina
di battersi sotto le insegne nazionali. Ma va soprattutto sottolineato che
la necessità di ufficializzare l'ingresso italiano nel conflitto era anche
dettata da una motivazione profondamente umana. Come si è già detto, l'8
settembre erano stati deportati nei lager tedeschi oltre 700.000 soldati
italiani i quali, nonostante le minacce, avevano orgogliosamente rifiutato
di aderire alla Repubblica sociale e, di conseguenza, di ritornare nelle
loro case. Quale sarebbe stata la loro sorte se non fosse stato
riconosciuto lo status di prigionieri di guerra? Il timore che i tedeschi
potessero considerarli traditori passibili di fucilazione era più che
fondato.
In seguito i soldati italiani schierati al fianco degli Alleati
costituiranno i quattro gruppi di combattimento, Cremona, Friuli, Legnano
e Folgore, che saranno poi riuniti nel corpo italiano di liberazione(CLN).
Ergo Sum.
Oggi viviamo in un'altra epoca, la nostra epoca, si sa, è caratterizzata
se non identificata dalla ricerca scientifica e tecnica, e da un
susseguirsi incalzante di applicazioni tecnologiche. Alla progressiva
rapida domanda di informazione e comunicazione, si risponde con uno
sviluppo altrettanto rapido degli strumenti necessari a soddisfarla. Dopo
l'avvento dirompente e rivoluzionario della televisione ( pari, forse,
solo all'invenzione dei caratteri a stampa di Gutemberg, nel XV secolo),
oggi i simboli di questo nuovissimo approccio al comunicare è la "rete
delle reti", Internet, uno strumento che più di ogni altro si è diffuso
con rapidità e consente a milioni di persone sparse in ogni parte del
mondo di informarsi e comunicare in tempi estremamente brevi, con la
possibilità di attingere a enormi risorse di conoscenze per la prima volta
disponibili a tutti.
Si, proprio del telefono cellulare, che in questo momento sta squillando
sul mio tavolo di lavoro, che voglio brevemente soffermarmi. Questo nuovo
mezzo di comunicazione è anch'esso armai diffuso nel mondo in numero di
centinaia di milioni, è il rovescio della stessa medaglia tecnologica, che
ci impone di comunicare sempre, dovunque, con la massima rapidità. Ma
questi preziosi congegni fatti di piastrine, fili e microchip, oltre a
costituire un indubbio avanzamento di civiltà, hanno ricadute
socioeconomiche e culturali che vanno ben al di là della semplice attività
del comunicare. Non possiamo certo approfondire qui, ma sociologi e
psicologi sociali se ne stanno interessando da un pezzo, in quanto è
accertato che i media sono capaci di modificare permanentemente i nostri
comportamenti, il nostro approccio alla vita di relazione e ai consumi.
Tra l'altro Internet, scusate se è poco, ha da un giorno all'altro
virtualmente reso globale la chance d'impresa, indipendente dal luogo di
dimora. Quelle che fino ad ieri erano periferia del mondo, ad esempio le
alte valli delle Alpi, delle Dolomiti e degli Appennini Calabresi, come le
Gambarie e i piani dell'Aspromonte, dove non esisteva neppure un semplice
apparecchio telefonico per comunicare una notizia o inviare un ordine
militare, evitando così quella disastrosa battaglia, possono essere oggi
per la prima volta la chiave di volta. Il telefono consente, infatti, il
disbrigo di funzioni sempre più importanti stando in sedi de localizzate,
non necessariamente all'ombra della Madonnina o del Colosseo. A questa
deregulation telematica, diciamo strutturale, si è accompagnata negli
ultimi decenni una costante evoluzione delle tecniche e dei modi dei media
tradizionali, carta stampata, pubblicità, radiotelevisione. Il linguaggio
pubblico, come scrive Pier Giorgio Olivetti, sostiene la politica o la
cultura, mentre viceversa, il lessico scientifico o tecnico sospinge le
vendite di largo consumo. Talvolta anche " la montagna", intesa come
semplice fondale filmico, appare negli spot o per suggerire sentimenti
positivi di vita familiare o amicale, o per ospitare sfide verticali
sempre da vincere o per confezionare thriller di 20 secondi, della serie "
scampato pericolo ": Se possiamo parlare di " civiltà dell'informazione".
E' perché o mass media non sono più solo il " quarto potere" ma anche, a
causa della loro universalità e velocizzazione, i reali poteri
condizionanti le cose del mondo al pari dell'economia. Si, è proprio così,
la rapidità di nuovi mezzi spinge poi tutti a canalizzare l'attenzione nel
presente, spingendoci a "dimenticare" il nostro bagaglio di conoscenze
consolidato, senza lasciarci il tempo di un confronto critico basato
sull'esperienza e la cultura. Il risultato così è spesso la banalizzazione
di tutta, l'omologazione di ogni argomento, la confusione tra messaggio,
strumento di comunicazione e contenuto. Qui la responsabilità dei media è
enorme. La domanda che ci facciamo ora è: in una società in overdose da
comunicazione e stimoli, schiacciata sull'attimo e sul gusto del veloce o
" fast", può essere ragionevolmente possibile e non illusorio comunicare
il fascino delle culture alpine, le ragioni dell'"andare per monti", in
gita turistica come stiamo facendo noi sui sentieri dolomitici, o il
contributo di civiltà delle popolazioni montane o delle città da visitare?
Si possono comunicare qui ed ora e a questa media, temi come l'etica dello
escursionismo, dell'alpinismo oppure, che so, la lentezza positiva, quello
"slow" che da sempre si accompagna alla scoperta di una località, di una
città e della montagna?
John Updike, così scriveva: " Ovunque egli si trovi e per quanta
illuminazione ci sia intorno, comunicare con gli altri è veramente
difficile". Oggi, grazie alle nuove tecnologie, non è proprio così.
Viviamo proprio in un altro mondo, in un mondo nuovo, nel mondo della
nostra epoca tecnologica.
Lasciamo questo sincretismo, questa fusione di principi e dottrine
filosofiche o religiose, queste riflessioni del nostro tempo, e
continuiamo a parlare dei nostri ricordi del passato prossimo, quando
ragazzi abbiamo assistito senza volerlo alla distruzione del nostro
meraviglioso Paese. Si, abbiamo visto che cosa è la comunicazione oggi e
quella che è mancata ieri ai nostri militari sull'Aspromonte. A loro è
mancata proprio la comunicazione dei cambiamenti di un regime e l'annuncio
dell'armistizio con gli Alleati, ma non è mancato il coraggio.
Chi ritornò dopo la battaglia nei silenziosi e magnifici piani
dell'Aspromonte, da dove lo sguardo spazia sullo Stretto di Messina e di
tutta la Sicilia, ripensa a quegli anni con fiero orgoglio, forse
nostalgico, come erano nostalgiche lassù le canzoni di guerra. Oggi il
turista che si trova a passare in quei luoghi, oltre al cippo che ricorda
l'impresa garibaldina, poco più avanti può leggere su di un altro cippo
quasi dimenticato, l'eccelsa impresa da leggenda dagli uomini della
Divisione Nembo.
Dalle Dolomiti alla Sicilia
Dalla lussureggiante Valle Padana, il più esteso bassopiano della regione.
Incluso nell'ampia curva segnata dalle pendici scoscese del sistema
alpino, i monti Lessini, il gruppo montuoso calcareo del Veneto, tra le
valli e dell'Astico, con le sue vallate così belle che possono essere
definite paesaggio pittura, si stagliano gli arditi profili Dolomitici,
rocce articolate, creste bizzarramente sagomate e frastagliate che
risultano ovunque in primo piano assumendo l'incantevole aspetto di una
fiabesca e capricciosa ricostruzione. Molto complesso sarebbe definire la
struttura geologica in cui la Terra si è modificata fino ad assumere il
suo aspetto attuale.
Il loro nome è legato al famoso geologo Dèadat de Dolomieu che nel 1789
analizzò per prima tale composizione. La geologia, scienza che ricostruì
il passato della Terra, ci dice che circa settanta milioni di anni fa, le
Dolomiti emersero dai flutti di un profondo mare sotto forma di un
fantastico paesaggio chiazzato di scuro e di verde.
Oggi le loro superbe e rosee vette puntano dritte al cielo e sembrano poi
veleggiare nell'aria pura di un silenzioso ed infinito spazio. Questi
meravigliosi tesori creati dalla madre natura, che nel corso dei secoli,
hanno sfidato disastrose guerre e tempeste, sono state definite da Tiziano
Mellarini, Assessore Al. Turismo della provincia di Trento, le "Dolomiti
di Pace", una manifestazione che si ripete quest'anno, dopo una prima
edizione che ha richiamato sui prati, nelle conche e sulle rocce del
Trentino, teatro di scontri e battaglie durante la Grande Guerra, un
pubblico numeroso, appassionato e impegnato a partecipare, dialogare,
capire. Un percorso dedicato alla pace, oltre che all'escursionismo, che
quest'anno si arricchisce abbinando agli incontri e alle riflessioni anche
appuntamenti musicali. I luoghi e gli scenari che abbiamo in passato molto
amato e ammirato, oggi accolgono questo progetto sono quelli del Sentiero
della Pace, un itinerario di 350 chilometri che unisce tutti i fronti
trentini del conflitto del 1915-1918 e, come sempre, centro ideale di
questa grande area della Marmolada all'Adamello, dal Pasubio al Passo
dello Stelvio è la Campana dei Caduti di Rovereto che da ottanta anni
lancia ogni sera il suo messaggio di fratellanza al mondo con cento
rintocchi a significare che la pace è una conquista continua. Così negli
otto incontri che quest'anno caratterizzano Dolomiti di Pace ci si
interroga su come costruire la pace, su cosa si può fare nella vita di
tutti i giorni per capire e risolvere problemi come la povertà, la fame,
la salute, l'ambiente, la convivenza tra popoli e culture.
La vacanza e l'escursionismo diventa in questo modo un momento di
arricchimento, riflessione e confronto che rigenera anche lo spirito oltre
che il fisico.
Quindi un sentiero della memoria alla scoperta dei forti, delle trincee,
dei capisaldi, delle strade e delle cittadelle militari dove dal 1915 al
1918 si dettero battaglia gli eserciti italiano e austroungarico. Un
percorso di pace per riflettere sulla follia della guerra, di tutte le
guerre, e riconciliarsi con una natura straordinaria, allora violata. Oggi
tutelato nella sua bellezza e nella sua serena forza rigeneratrice.
Dal Passo del Tonale a Riva del Garda, da Mori a Rovereto, dal Pian delle
Fugazze a Caldonazzo alla Marmolada: trentatré tappe da affrontare a
piedi, in alcuni tratti anche in mountain bike, senza affanno e
indipendentemente una dall'altra, con il passo misurato e pacifico del
trekking di montagna. Guidati e accompagnati dal simbolo di una colomba,
giallo quando è disegnato sulla roccia, bianco se inciso sul legno.
Un'occasione per arricchire la vacanza di stimoli nuovi, ambientali. Un
motivo in più per ritrovare lungo quei chilometri, passo dopo passo, la
serenità del corpo e dello spirito. E la speranza in un mondo che, come è
avvenuto in Trentino, sappia sostituire i fronti della guerra con
altrettanti Sentieri di Pace.
Dalle superbe cime dolomitiche ai sentieri che videro passare la guerra,
15/18, seguendo lo stivale d'Italia eccoti giunti sull'Etna, l'Isola
nell'isola, il grande vulcano che domina tutto il paesaggio della Sicilia
orientale. E' la montagna - vulcano più spettacolare d'Europa e decima per
latitudine sull'intero pianeta con i suoi 3323 metri sul livello del mare.
Le colate succedutasi con continuità, hanno creato col tempo un immenso
cavo del diametro di quaranta chilometri delimitato da una cerchia di
paesi bellissimi barbicati sulle pendici scoscese. In questi ultimi tempi
abbiamo avuto il modo di osservare, per mezzo della grande finestra che è
la televisione, l'immenso torrente di magma fluido raggiungere campi e
villaggi. In tempi lontani raggiunse anche la città di Catania
seppellendone una buona parte. Ginestre, astrogoli e licheni assieme ad
altre piante pioniere colonizzano le pendici della grande montagna. Più in
basso, invece, una vegetazione in grado di sfruttare l'elevata acidità del
suolo cresce florida e cinge la montagna, biancheggiante di neve con le
alte creste bizzarramente sagomate e frastagliate delle Dolomiti.
Diversi tratti della lunga e contorta costa siciliana si affacciano al
mare con dirupi rocciosi, capi e promontori come quello di Capo Cafano e
di S. Vito al Capo, poco ad est di Trapani e delle sue famose saline.
Altri litorali ancora sono quelli di bianche spiagge o di pittoresche
lagune come quelle di Tindari, nel golfo di Patti. Altre ancora, a
terrazze vertiginose qual è quella di Eraclea Minoa dove il teatro greco e
le fondamenta di case e strade si affacciano a strapiombo su una costa
mozzafiato, dietro la fioritura solenne delle agavi. Trattasi di una
pianta succulenta del Messico, diffusa nei climi tropicali e mediterranei,
ha la foglia carnosa a rosette, spinose all'apice, aculeate ai margini,
produce fiori verdastri in grappoli molto belli.
Nel nostro itinerario abbiamo potuto osservare che i suoi paesaggi sono
per lo più nudi e di pietra, come quelli dell'antica necropoli di
Pantolica con le miriadi di grotte scavate nella roccia della valle dell'Onapo.
Ma vi sono anche aree densamente coltivate, soprattutto i celebrati e
meravigliosi agrumeti e i mandorli, i carrubi, talvolta le viti.
Ci è stato riferito che più in basso, a poca distanza da Siracusa, si
specchiano nella cristallina acqua sorgiva del fiume Ciane addirittura gli
steli eleganti del papiro. E' una pianta erbacea perenne, rizomatosa,
originaria della Siria e dell'Egitto e diffusa nelle zone umide e paludose
della Palestina nell'Africa tropicale e meridionale ed appunto anche in
Sicilia.
La natura non è solo motivo per visitare la Sicilia e le sue coste, ma
l'occasione per conoscere il suo passato. Un passato ricco di tracce
preistoriche, costituito da templi e da antichissime grotte scavate nella
roccia vulcanica, che fungevano da abitazioni e da tombe allo stesso
tempo. L'inverno fugge via, rimane soltanto il ricordo dei grandi paesaggi
lunari della Lessinia e delle Dolomiti, di quello scenario e solenne
austerità che ha conquistato il cuore dell'uomo, mentre un sole tiepido e
piacevole va e viene; l'abbiamo atteso per troppo tempo ed ora non
dobbiamo sprecarlo perché è il migliore, quello più salutare per il nostro
fisico ed il nostro spirito. Noi italiani siamo talmente abituati a
muoverci tra tesori artistici ed archeologici, tra panorami di eccezionale
bellezza, che quasi guardiamo senza vedere. Accade così che mentre noi
siamo attratti da mete lontane ed esotiche, dimentichiamo di visitare
luoghi italiani unici al mondo. L'Italia vista dal mare è stupenda ed
irripetibile: una vera e propria scoperta. A volte bastano poche centinaia
di metri, per scoprire nuovi orizzonti che consentono gite meravigliose,
lontane dal chiasso e dall'affollamento delle spiagge.
Le nostre isole sono così diverse e così ricche di antiche vestigia, che
nemmeno l'era del consumismo e le colate di cemento sono riuscite a
modificare: anzi tanti punti del sud e delle isole sono ancora veri e
propri paradisi terrestri.
Niente strade, niente automobili che con i loro gas velenosi inquinano
l'atmosfera in cui viviamo e Linosa, Procida, Capri in cui si vive la vera
pace, fatta di albe e tramonti, e atmosfere di altri tempi, che sono
valide alternative al ritmo frenetico di altre località alla moda. Abbiamo
citato l'isola di Capri, pur non essendo quella dell'Ottocento che
incontrò scrittori e poeti, conserva sempre una certa magia. Senza parlare
dell'Elba e delle miriadi di isolette che la circondano, è tutto in
inneggiare alle memorie napoleoniche: ville, cimeli, stampe, articoli e
libri che ricordano quel grande condottiero, " quel grande corso".
Ricordiamo l'isolotto di Strombolicchio, nelle Eolie, definito da qualcuno
capriccio di lava pietrificata in isola, l'impervia Caprera che racconta
del grande condottiero dei due mondi, Giuseppe Garibaldi, l'isola di
Giannutri, sepolta nella macchia che tanto sa di Maremma, le tradizionali
case di Salina col pergolato rubato alla roccia vulcanica, il vino
Malvasia, le pianticelle di capperi che spuntano nei piccoli anfratti di
quella roccia grigia e porosa della costa. Come non parlare dello stretto
di Messina, la stupenda costa Viola, Scilla e Carriddi, antico mostro
marino, divoratore di naviganti, che abitava la costa Calabra dello
stretto di fronte a Carriddi. La leggenda dice che era idealmente una
ninfa, trasformato in mostro da Circe, gelosa dell'amore che Clauco
nutriva per lei.
Una descrizione sintetica ma calda di viva simpatia, ne fece Paolo Orsini,
l'insigne archeologo, che percorse la My Old Calabria per ragione di
studio: " La Calabria, lunga ed angusta lingua di terra, protesa con le
sue montagne centrali, tra due mari, quasi a stendere la mano alla
Sicilia, appunto per questa sua peculiare configurazione, presenta, come
regioni d'Italia, panorami di un'incomparabile bellezza e vastità.
Nell'interno, a brevi passi della costa, s'ergono ripidi monti con
carattere alpestre, con dense e cupe selve; Clima rigido d'inverno,
freschissimo d'estate: lungo le coste, invece, clima e flora assolutamente
meridionali, e uguali, soprattutto nella metà inferiore della penisola, a
quelli della Sicilia".
Le valli di erosione che si dipartono del crinale appenninico, per lo più
brevi ed anguste, aprono al turista panorami di suggestiva bellezza,
soprattutto negli sbocchi al mare visti dall'alto.
Dalla divina vallata del Crati a Reggio è tutta una sequenza, una
fantasmagoria di marine, di colli, di monti, di costiere, che s'immergono
nel glauco mare, in quel mare di colore non definito tra l'azzurro e il
verde e anche tra il verde ed il grigio, e nelle quali sono qui e là
incastonate, gemme preziose, le reliquie di grandi e illustri Città
greche, che resero famosa la nostra bellissima Italia antichissima. Questa
regione fu definita dall'Orsini, " regione benedetta".
La bellissima città di Reggio, le cui antichissime origini si perdono
nella notte dei tempi e sono ancora argomento di disputa. Si presenta
bianca lungo la spiaggia, fra giardini di aranci e di bergamotti, sulle
rive di un mare più limpido e azzurro del cielo, di fronte a Messina, da
cui nelle calme estive riceve gli incanti, come dice una vecchia leggenda,
dalla Fata Morgana. Una fata della mitologia Celtica.
La città di Reggio, che è posta, lungo lo stretto, che fu chiamata non
senza ragione il Bosfero d'Italia, fra l'Etna bianca di neve a sinistra, i
monti Peloritani di fronte, e, alle quale, le amene colline che scendono
dolcemente a terrazze dall'Aspromonte, con i suoi verdi uliveti che
avvolgono il piccolo borgo natio di Cosoleto.
Concluderlo con una s'intasi non è facile. Come tutte le cose veramente
forti e pure. La nostra è una terra di meditazione, si apre intera con le
sue albe, i suoi tramonti e le sue luci abbaglianti e le sue cupe ombre al
turista silenzioso e pensoso della bellezza. Il suo fascino è lento, ma
duraturo, è come quei profumi, che sembra debbono subito svanire, eppure
resistono al tempo e penetrano di sé ogni cosa.
E' GIA SERA.
Me ne sto occupato nel nulla sul confine
Del mondo ad osservare il cielo e le nuvole.
E qualche volta sorrido alla serenità delle.
Creature che mi circondano.
Il giorno e la notte vengono e se ne vanno.
Le stagioni trascorrono e noi viaggiatori dell'infinito.
A volte ci domandiamo il perché della vita.
La risposta al perché si può leggere nei piccoli.
Occhi di un passero.
Un viaggio in Umbria sul cammino di San Francesco.
Racconto di viaggio
Il mattino del 20 ottobre 2006, siamo partiti da Campitello di Mantova: un
piccolo borgo di sapore medioevale dove il tempo sembra che si è fermato.
Erano le ore antilucane, quando abbiamo chiuso il cancelletto della nostra
casa. Le strade, la Piazza del paese e il nuovo viale che porta al sagrato
della Chiesa, era immerso in un'ovattata e fredda nebbia autunnale che
copriva e nello stesso tempo annullava ogni cosa, ma ben presto è
scomparsa la nebbia ed è incominciato a cadere una leggera e fastidiosa
pioggerellina Poco prima delle 5, è giunto puntualissimo il pesante
pullman, che ci ha portati nella magnifica Valle Reatina, per visitare i
sentieri del cammino di San Francesco. Verso le ore 9 circa, il nostro
torpedone stava percorrendo il litorale del Lago Transimeno, che era
illuminato da un pallido sole autunnale. Essendo l'ora del caffè, di
questa aromatica bevanda che tanto piace a noi italiani, e soprattutto per
sgranchirci le gambe, dopo di essere stati a lungo seduti, il pullman si è
accostato nella piazzetta panoramica del delizioso borgo di Passignano sul
Lago. Nel piccolo Bar, parlando con il barista, ci ha raccontato del borgo
di Torale, che fa risalire le sue origini sin dalla fine del 1600, ed in
evoluzione sino alla metà del 1800. Questo borgo antico, come gli altri
borghi dell'Umbria ha la sua storia, sembra che le prime notizie su di lui
pervengono da un atto notarile datato 9 maggio 1687 con il quale la nobile
famiglia dei marchesi Bourbon di Sorbello acquistò da Francesca Sassi il
vocabolo (casa) di Torale con il podere annesso.
E' altresì probabile, che in epoca ancora più remota, nella zona di Torale
avvennero degli scontri tra le forze d'Annibale e i Romani in concomitanza
della storica battaglia del Trasimeno, con la sconfitta di questi ultimi
nel 217 a.c. Parlando della famosa battaglia, la storia ci racconta
inoltre, che l'imperatore romano che comandava le legioni di Roma, per non
essere fatto prigioniero d'Annibile, con la sua biga "d'oro" e trainata da
quattro cavalli bianchi, preferì allontanarsi in mezzo alle gelide acque
del lago annegando.
Per festeggiare il compleanno di Adriana, non c'era di meglio che
trascorrere un bellissimo week-end nella verde e bellissima Umbria, che da
molto tempo avevamo pensato di effettuare un fine settimana sui sentieri
percorsi da San Francesco. Ne abbiamo subito approfittato dell'occasione,
per vivere questo Week-end in sintonia con la meravigliosa natura, ma
soprattutto nei luoghi della spiritualità. E' ancora uguale il paesaggio
natura ed armonia con i boschi ombrosi e le acque pure e trasparenti.
Abbiamo potuto inoltre constatare che é ancora forte il messaggio d'amore,
d'armonia, semplicità e umiltà.
L' Umbria é una delle regioni più piccole d'Italia, per di più divisa in
senso longitudinale da un fiume: il Tevere. Un popolo da una parte, un
popolo dall'altra: gli etruschi e gli umbri. Un fiume che non solo ha
diviso, ma ha facilitato i contatti e gli scambi anche con gli altri
popoli che si affacciavano sul Mediterraneo: i fenici, gli egiziani, i
greci. La storia è proseguita, con l'impero bizantino e il regno
longobardo, inglobato poi dallo Stato della Chiesa fino al 1860, alla
nascita dello Stato unitario d'Italia. Nell'Umbria perciò si condensano e
si intrecciano molte storie, dando vita ad un "sentire" che non è locale
ma nazionale, profondamente italiano. Nel Medioevo, le città dell'Umbria
conobbero un momento di forte progettualità istituzionale, politica,
artistica ed economica: ogni borgo elaborò una propria identità ben
definita. E tutto questo il portale "Medioevo in Umbria" racconta.
Atmosfere che oggi riviviamo, in modo giocoso, negli spettacoli e feste
che nel corso dell'anno, allietano quasi tutte le cittadine dell'Umbria.
Nel Medioevo gli scontri tra le diverse città furono cruenti e feroci,
nonostante ciò qui trovò spazio l'esperienza unica, straordinaria ed
affascinante di un ragazzo di nome Francesco e poi di Chiara. E' nella
terra d'Umbria che si affaccia in modo dolce e poetico la Lingua Italiana,
con il "Cantico delle Creature" scritto da Francesco di Pietro Bernardone,
il giullare di Dio.
Camminando attraverso l'Umbria, non si incontra soltanto la storia
medioevale, i sentieri di San Francesco, ma anche l'azzurro e limpido lago
Transimeno, la spettacolare cascata delle Marmore, la lussureggiata Val
Narina, ma il nostro itinerario ci conduce nel cuore di questa regione che
vanta una natura incontaminata, un passato ricco di storia, d'arte, di
tradizioni, oltre che un fiorente artigianato e una gastronomia genuina,
il che non guasta ad ogni viaggiatore o escursionista come lo vogliamo
chiamare.
Alle ore 10.30 siamo arrivati alle porte di Todi. Agli occhi di chi arriva
in prossimità di questa antica città umbra, si presenta uno scenario
indimenticabile: la cittadina medioevale domina silenziosa e maestosa
dall'alto del suo colle illuminato da un meraviglioso e caldo sole
autunnale.
Alle ore 11 circa, la comitiva di Campitello, è giunta al Santuario di
Collevalenza: Qui a Collevalenza, su un colle di uno dei paesaggi più
belli dell'Umbria, forse il più verde, in un'unità e continuità
architettonica e spirituale con il Santuario dell'Amore Misericordioso, è
stata realizzata questa Casa, che accoglie quanti qui giungono pellegrini,
isolati o in gruppi, per un soggiorno di tranquilla parentesi di pace e
serenità, di meditazione e riflessione a diretto contatto di questa natura
così mistica che tanto aiuta ad un incontro personale con Dio.
Entrando in questo moderno e avveniristico Santuario si legge: " Anche un
giorno di silenzio e di meditazione in questa oasi di spiritualità ti
potranno ridare il senso dell'amore di Dio per te e per il mondo in cui
viviamo troppo immersi. Una sosta in questa pace favorirà l'unione più
intima e affettuosa della tua anima con Dio"
In cima a questa verde e bellissima collina, immersa fra i boschi e gli
ulivi, fin da lontano si ammira un piccolo villaggio antico, che altro non
è che un grumo di modeste case agricole, che sorge di fronte della
splendida cittadina di Todi, in una posizione ideale per una visita alle
più importanti località di interesse storico, naturalistico e spirituale
di cui l'Umbria è ricca nel raggio di 50 chilometri è possibile visitare
mete di grande interesse quali Spoleto, Perugia, Assisi, Orvieto, le
Cascate delle Marmore e molto altro ancora. Dopo l'accoglienza nel
monastero, ci è stato spiegata la storia del Santuario dove " Dio Amore
Misericordioso aspetta l'uomo". Qui il pellegrino trova un annuncio e una
testimonianza di misericordia nel Crocifisso dell'amore Misericordioso. A
Collevalenza un boschetto, dove era impiantato un roccolo per prendere gli
uccelli, è trasformato in roccolo dell'Amore Misericordioso attraverso
l'opera di una suora chiamata madre Speranza( n. nel 1893 in Spagna -
deceduta nel 1983 a Collevalenza), fondatrice della famiglia religiosa
dell'Amore Misericordia e morta in concetto di santità. Il suo corpo
riposa nella cripta del Santuario. Nei giorni della nostra sosta abbiamo
avuto modo di capire e approfondire la spiritualità di questa suora e
ammirare l'ampiezza di questo complesso costituito dalla chiesa -
santuario, casa delle suore ancelle, casa del pellegrino, piscine per le
abluzioni e i bagni (come a Lourdes).
Alle ore 11.00, abbiamo assistito alla celebrazione della Santa Messa nel
Santuario. Ore 13: 00, ci è stato servito il pranzo presso la Casa del
pellegrino, dove è avvenuta anche l'assegnazione delle stanze.
Alle ore 15, accompagnati dalla simpatica e bravissima guida (Alfredo
Paciarone), abbiamo raggiunto il centro medioevale di Sangemini (Duomo,
Palazzo del podestà. Oratorio di San Carlo, dove abbiamo ammirato inoltre
gli affreschi del 300, nella Chiesa di stile gotico- romano di San
Francesco). Dopo la visita di questo bellissimo borgo medioevale, immerso
nel verde degli ulivi, siamo ripartiti per incontrare i tesori artistici
dell'antica cittadina di Todi, il cui hanno fasciato medioevale é rimasto
intatto, ricco di chiese e monumenti meritevoli di interesse, a partire
dal tempio di S. Maria della Consolazione, il monumento a Jacopone da
Todi, di cui si ricorda in tutto il mondo il Pianto della Madonna e lo
Stabat Mater, il tempio di S. Fortunato, la Piazza Grande, o Maggiore,
fulcro del centro storico
Todi, città d'arte e di cultura è rivestita di un fascino unico con le sue
bellezze architettoniche. Ma fulcro del centro storico è la stupenda
Piazza del Popolo che, per la sua grandezza e per i monumenti che vi si
affacciano, è considerata tra le più belle d'Italia.
La storia elegia in ogni dove e il nome di Jacopone con le sue Laudi
riecheggia nella mente dei visitatori e ci riporta indietro nel tempo,
quando sui vecchi banchi di scuola ci erano insegnati la sua Laude. E' in
questo luogo a dir poco incantevole e di grande suggestione che si respira
in pieno il profumo più autentico dell'Umbria, che come abbiamo detto
sopra è una terra antichissima ricca di bellezze naturali e di famosi
centri storico-artistici.
Alcuni anni fa l'Università del Kentucky elesse TODI " Città Ideale",
luogo dove natura e uomo; storia e tradizione costituivano un punto di
eccellenza Mondiale. Todi divenne, d'improvviso, la città " vivibile" del
mondo. Nel nostro giro turistico attraverso la città medioevale di Todi,
siamo transitati per la Piazza del Popolo, abbiano visto il Palazzo del
Capitano, la pinacoteca, il palazzo dei Priori, il Duomo che sia stato del
XII secolo, S. Maria della Consolazione che costruita su progetto del
Bramante del 1500. Nel tardo pomeriggio, siamo ritornati alla Casa del
pellegrino di Collevalenza, per la cena. La serata doveva proseguire con
la proiezione da Vidio sulla spiritualità di Collevalenza di madre
Speranza, ma per motivi tecnici non è stato proiettato il Vidio.
La Valle Reatina.
Sabato 21 ott. '06
La giornata è stata dedicata alla Valle Reatina dove abbiamo fatto tappa
ai conventi fondati da San Francesco. Il Santuario di Fonte Colombo, ha
avuto un grande impatto di spiritualità sulla squadra dei Campitellesi,
oltre che per il luogo del silenzio, scelto da Santo, per la sua
meravigliosa bellezza paesaggistica e soprattutto per la fitta e
rigogliosa vegetazione che lo circonda. Questo luogo dista pochi
chilometri da Rieti, ed è un luogo soprattutto di preghiera per i
pellegrini che come noi, giungono da paesi lontani. Il suo nome deriva da
una sorgente, vista da S. Francesco nel 1217, mentre dalle bianche colombe
si abbeveravano: ciò gli suggerì il nome di Fons columbarum. Il fraticello
che ci guidava per la visita dei luoghi, ci diceva che qui il Santo
scrisse la Regola definitiva, approvata da papa Onorio III nell'autunno
del 1223, qui subì la dolorosa operazione agli occhi nel 1225, qui si
trova il Sacro Speco dove il Santo si ritirò per quaranta giorni per
scrivere la Regola e qui è il ceppo dell'alce dove sarebbe apparso Cristo
Nostro Signore. All'arrivo di Francesco vi era solo la Cappella della
Madonna con il romitorio, appartenente all'Abbazia di Farfa. La piccola
cappella custodisce il Tau, simbolo della Croce di Cristo. Molti vogliono
sia opera di S. Francesco, che scelse questa lettera come suo simbolo.
Nella piccola abside, abbiamo ammirato con molto interesse affreschi di
scuola bizantina, ai lati altri affreschi del 300 e del 600. La Chiesa,
dedicata ai SS. Francesco e Bernardino da Siena, è all'insegna della
semplicità francescana, fu consacrata nel 1450.
All'interno abbiamo osservato delle vetrate istoriate novecentesche, e un
altorilievo di legno, ricordo dell'apparizione di Gesù Cristo quando ha
dettato la Regola al Santo. A questo punto è doveroso spiegare il
significato del Tau. Il Tau è una lettera dell'alfabeto ebraico e di
quello greco, che corrisponde alla lettera "T" del nostro alfabeto. Quale
origine ha questa devozione al Tau in S. Francesco? Prima di tutto deriva
dalla Bibbia e in particolare da Ez 9,4 " Passa in mezzo alla città, in
mezzo a Gerusalemme e segna un Tau sulla fronte degli uomini che sospirano
e piangono per tutti gli abitanti che vi si compiono". Per essere salvati
è necessario essere battezzati nel sangue di Cristo, sparso sulla croce.
La spiritualità del Tau è la spiritualità della croce di Cristo. Dobbiamo
portare ogni giorno la santa croce del Signore.
La frase di Gesù: " Se qualcuno vuole venire dietro di me, rinneghi se
stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mt 17,24), ebbe un seguito tutto
particolare nella vita di S. Francesco. Egli portò ogni giorno la Croce di
Cristo, con lei segnava il luogo dove riposava, la sua fronte: per
arrivare a presentarsi, alla fine dell'esistenza terrena, davanti al trono
dell'Altissimo, come gli eletti dell'Apocalisse, che portavano sulla testa
il sigillo dell'Agnello.
Dopo la visita di questo luogo Santo, Il nostro viaggio è proseguito fino
a Greccio, Santuario aggrappato sul versante roccioso ( tipo la Verna) da
cui si gode una vista straordinaria sulla Valle Reatina. A quest'Eramo è
legata la prima rappresentazione vivente della Natività ( nella notte del
24 dicembre 1223), da cui si deriva la tradizione natalizia del Presepe.
Il nucleo originario del Santuario include, oltre alla cappella, anche il
Refettorio, il Dormitorio e la Cella rocciosa di San Francesco. Ore 11
Celebrazione della Santa Messa. Ore 13 pranzo presso il ristorante "
Belvedere" - pranzo tipico della Valle Reatina) in posizione panoramica
sulla Valle Reatina. Ore 14: 30 Santa Maria della Foresta dove la
tradizione dice che qui San Francesco iniziò a comporre il famoso "
Cantico delle Creature" e compì il miracolo dell'uva dalla quale sgorgò
abbondante vino. Ore 16: 30 arrivo a Poggio Bustone dove la tradizione
vuole che qui il Santo ricevesse la conferma della remissione dei peccati
per mezzo di una visione angelica.
Il Santuario di Greccio dista 17 Km da Rieti, appare agli occhi del
pellegrino imponente come se fuoriuscisse dalla montagna; è stato
costruito in momenti diversi su arditi pilastri di roccia. S. Francesco
giunse a Greccio una prima volta nel 1209, rimanendo affascinato dal luogo
e dalla devozione degli abitanti. Nel 1223 dopo aver chiesto il permesso a
papa Onorio III, volle rappresentare, per la prima volta, la "Natività di
Gesù Bambino", aiutato dal Velita, feudatario del posto. Fulcro del
santuario à la "Cappella del Presepe", costruita dopo la morte del Santo e
dedicata a S. Lucia. Fu edificata sul luogo della rievocazione ed è
mirabile l'affresco di scuola grottesca del'400 che rappresenta la
natività di Betlemme e quella di Greccio. Proseguendo sono visibili il
refettorio, il dormitorio con la piccola cella dove il Santo riposava,
seduto e non disteso, sulla nuda roccia. Attraverso una stretta scala si
arriva al "dormitorio ligneo di S. Bonaventura" (1260-70), alla piccola
chiesa dedicata al Santo che conserva ancora intatti i severi stalli; il
leggio ed il supporto girevole per sostenere il libro corale e la
lanterna. La copertura della chiesa è a botte caratterizzata da stelle e
dall'immagine dell'Agnello Pasquale; sulle pareti un affresco trecentesco
del Santo con l'angelo che annunziava la remissione dei peccati; un tondo
della "Vergine con il Bambino", opera di Biagio d'Antonio, discepolo del
Ghirlandaio ed una "Deposizione tra i santi" del XIV sec. posta al di
sopra dell'altare. Di lato, l'"oratorio" di S. Francesco conserva il
"ritratto del Santo". Usciti sul piazzale, oltre a godere del magnifico
panorama, si può entrare nella "nuova chiesa", costruita nel 1959, la
quale custodisce una mostra permanente di presepi. Girovagando per le vie
del mondo, non abbiamo mai visto e ammirato tanti presepi come quelli che
abbiamo visto nello Speco di Greccio. Sono tutti piccole opere d'arte, che
richiamano la Notte di Natale in ogni latitudine del mondo. Alla fine
della presentazione di questa grande opera rupestre da parte di un frate
francescano, si era fatta l'ora di pranzo ed egli ci ha detto: " Fratelli,
dopo la mistica viene la mastica ed io mi devo avvicinare al refettorio,
perché sono atteso per il pranzo dai fratelli. Anche noi, dopo la visita
al Sacro Speco, eravamo attesi in un noto ristorante, dove ci attendeva
una montagna di tagliatelle fumante al ragù, innaffiata da un ottimo vino
della Valle Reatina.
San Francesco amò profondamente la Valle Reatina. Qui trovò rifugio dalla
vanità del mondo, trovò gente semplice e vicina al suo messaggio, trovò
una natura dolce e rigogliosa.
San Francesco fece della Valle Reatina, accanto ad Assisi e la Verna, una
delle sue tre patrie. Così questa splendida pianura, circondata da colline
e monti, fu da allora chiamata Valle Santa.
San Francesco scelse la Valle Santa per compiere tre gesti fondamentali
della sua vita e della sua spiritualità: nel 1223 volle il primo Presepio
della Cristianità, lo stesso anno scrisse la Regola definitiva dell'Ordine
e, probabilmente, quel inno tenerissimo che è il Cantico delle Creature.
Il Cammino di Francesco è il percorso che il Santo compì nella Valle
Santa. Unendoti al Cammino ripercorrerai i sentieri e le strade che San
Francesco amò. T'immergerai nella stessa natura spettacolare che avvolse
Francesco. Vivrai un'esperienza unica di spiritualità e purezza, come
quella che abbiamo vissuto noi Campitellesi, in questo pellegrinaggio.
Le tappe del Cammino ci hanno portato nella Rieti medievale, con i suoi
palazzi e le sue chiese, nei Santuari di Greccio, La Foresta, Poggio
Bustone e Fontecolombo, incastonati nel verde dei boschi, nel bosco del
Faggio di San Francesco a Rivodutri, nell'antico borgo di Posta, perla
della Valle del Velino, e sulle vette del Terminillo.
Lungo il Cammino di Francesco è presente la segnaletica di legno e, nei
centri abitati, le frecce direzionali sulla pavimentazione, che ti
accompagneranno e guideranno lungo i sentieri del cammino indicandoti le
direzioni e le varie tappe.
Puoi scegliere il modo che preferisci per fare il tuo Cammino: a piedi, in
mountain bike, a cavallo, in automobile (questa modalità è stata resa
possibile per tutti coloro che hanno difficoltà motorie). Troverai
sentieri e strade di rara bellezza. Gli escursionisti Campitellesi, con
capo Don Enrico Castiglioni e la guida locale, abbiamo raggiunto questi
luoghi santi a bordo del moderno e comodo pullman, perché i partecipanti a
questo pellegrinaggio" Sui sentieri della fede francescana", non sono più
tanto giovani, per effettuare un'escursione a piedi.
CHE COSA SI VEDE.
Percorrendo questo itinerario umbro che conduce in una zona collinare
intorno a Terni, che è fuori delle normali correnti turistiche, sul
suggestivo lago di Piediluco e, soprattutto, ci permette di scoprire
l'incanto della Cascata delle Marmore, uno spettacolo che da 22 secoli
incanta poeti e artisti, specialmente in questo periodo autunnale, quando
la natura si trasforma in un mare di colori che rendono quel bellissimo
paesaggio, un paesaggio metafisico. La base di partenza è l'angolo verde
di San Gemini Fonte dove, dentro un folto parco, sgorga la celebre acqua
minerale.
Si arriva qua dalla statale 3 Bis uscendo, appunto, a San Gemini che è una
deliziosa cittadina medioevale tutta da vedere e da scoprire, con i suoi
vicoli, le antiche chiese ( S. Francesco, il Duomo, S. Nicolò il cui
portone originale si trova al Metropolitan Museum di New York ed è stato
sostituito da una copia) A tre chilometri da San Gemine si possono
visitare anche gli scavi archeologici di Garsulae sull'antica Via
Flaminia, situata in un luogo verdissimo ricordato anche da Plinio il
Giovane. Da San Gemini, percorrendo l'originaria 3 Bis attraverso il passo
d'Amelia si accede a Narni, antica città romana con uno stupendo Duomo, un
bellissimo Palazzo del Podestà, la deliziosa chiesa di S. Maria in Pensole
e S. Domenico con il suo museo ricco di numerose opere d'arte. Sul punto
più alto della cittadina c'è la Rocca di cui si gode tutto lo
straordinario panorama sulla valle e, vicino, sgorga la famosa Fonte
Ferocia. Da Narni, si può compiere una bellissima passeggiata distensiva
al Ponte di Augusto, di cui resta in piedi una sola arcata, allo Speco di
S. Francesco, fra i verdissimi boschi di lecci e di castagni che sono in
questo periodo colorato con i colori bellissimi dell'autunno, fondato dal
santo nel 1213, a Calvi dell'Umbria e a Visciano.
Proseguendo sulla statale 205 si raggiunge poi Amelia, una cittadina
antichissima, come testimoniano le sue mura " micenee", formate da blocchi
colossali uniti fra loro ad incastro. Amelia va assolutamente vista a
piedi, passeggiando nei suoi vicoli ombrosi, oppure sulla stretta via
fuori delle mura, nella parte alta, da dove si domina la campagna
sottostante. Da vedere il Duomo, la chiesetta romanica gotica di S.
Agostino con i suoi affreschi e il Palazzo Comunale, in Piazza Matteotti,
nel cui cortile sono avanzi di monumenti romani e medioevali, ma noi
turisti da strapazzo, spesso sorvoliamo tutti questi particolari e non ci
diamo molta importanza, mentre i veri turisti tedeschi, giapponesi e
inglesi, si fermano per scoprire ogni piccola cosa che fa parte integrante
della storia del passato.
Da Amelia si possono fare rilassanti passeggiate al Parco della
Cavallerizza, dove c'è anche un ippodromo, al Convento dei Cappuccini e a
S. Maria delle Cinque pochi minuti a piedi oltre la Porta Romana) dove
sorge la deliziosa chiesetta " ad quinque fontes" che ricorda la
predicazione di S. Francesco.
Da Amelia si raggiunge poi Terni, si sfiora la città e s'imbocca la
statale 209 dove, dopo pochi minuti, ci si trova sul grande spiazzo
proprio sotto
La Cascata delle Marmore che con il suo dislivello complessivo di 165
metri è la più alta d'Italia. La cascata, formata artificialmente dalle
acque del Velino che ripiomba nel Nera, si può vedere solamente secondo un
orario preciso perché, normalmente, l'acqua è utilizzata per scopi
industriali.
Dopo lo spettacolo delle acque della cascata, si continua fino ad Arrone,
si attraversa il parco naturale della Forca d'Arrone e si scende al lago
di Piediluco, tutto incorniciato da fittissimi boschi. Da Piediluco si
raggiunge facilmente ( 4 chilometri) la zona delle cascate delle Marmore
per vedere con calma le splendide grotte sotterranee chiamate "Colonne". "
Condotta" e " Trilussa" costellate di meravigliose stalattiti e di
concrezioni multicolori.
LA STORIA DELLE CASCATE DELLE MARMORE.
Ogni fiume ha la sua storia, ma una storia così complessa come quella
delle Cascate delle Marmore non l'avevamo ancora mai sentita. Questa
storia è incominciata dal tempo dei Romani e si è conclusa con
l'intervento del Papa Clemente VIII.
Nel ritorno, abbiamo effettuato una sosta alle Cascate delle Marmore, che
é inserita stupendamente in uno straordinario scenario naturale. Abbiamo
assistito allo stupendo spettacolo della cascata alle ultime luci del
giorno. Dal balcone panoramico, costituito da una torretta arcata e
coperta a mo di campanile, infatti, abbiamo ammirato tutta la sua
meravigliosa e fantasmagorica bellezza, grazie ai potenti riflettori, che
inquadravano la cascata di notte. Sicuramente, è stato uno spettacolo
eccezionale e meraviglioso. Uno spettacolo così non l'abbiamo mai visto
prima.
La Cascata è un'opera artificiale dovuta ai Romani, le cui acque sono
utilizzate da oltre 50 anni per alimentare centrale idroelettrica. Nella
zona, negli ultimi anni si sono sviluppate molte attività sportive legate
alla cascata ed al fiume: l'arrampicata, al rafting, dalla canoa al
trekking; i vari sentieri turistici di vari gradi di difficoltà consentono
di conoscere da vicino angoli naturali di bellezze L'aspetto attuale della
Cascata delle Marmore è frutto delle indotte dell'uomo nel corso dei
secoli sull'ambiente naturale del Velino depositandosi costituivano una
barriera per la base. Ciò ne provocava, specie nel periodo di piena lo
straripamento conseguente impaludamento di ampi aree della pianura. Per
opera del console Manlio Curio Dentato bonificò i terreni circostanti
costruendo un canale che partiva dal punto più profondo della palude e
fino al ciglione di Marmore, da dove ancora oggi precipitano. Ma
l'obbiettivo propostosi da Curio Dentato non risultò sufficiente alle
acque del Velino nei periodi di piena. I reatini proposero la costruzione
del canale per evitare lo straripamento del fiume, l'opera cui temevano
inondazioni del loro territorio. Ciò diede luogo a una classifica, a
lunghi contenziosi tra i due municipi.
Tra lo XIV e lo XV secolo, l'innalzamento del fondo del canale da parte di
Curio Dentato provocò dai depositi calcarei delle acque del Velino fino al
punto che lo scolo delle acque da rendere drammatica la situazione e lo
scontro tra i reatini e ternani. Nel 1417 iniziò l'escavazione del canale
denominato Reatino, che nonostante i successivi, rimaneggiamenti operati
sotto il pontificato di Gregorio XIII ( 1572. 1585), non funzionò mai
bene. Nel dicembre 1545 Paolo III incaricò allora Antonio Sangallo il
Giovane di costruire un nuovo canale, ultimato nel 1546 e denominato
Paolino, ma neanche questo riuscì a evitare l'impaludamento della pianta
del Velino. Nel 1596 papa Clemente VIII affidò a Giovanni Fontana di Meli
la riattivazione del canale d'età romana. Questi rese il canale più
profondo, ne aumentò la pendenza, ne rettificò il percorso e costruì un
Ponte Regolatore che avrebbe dovuto consentire i passaggio solo d'una
determinata quantità d'acqua. Tutti questi lavori furono ultimati nel 1601
e il nuovo canale denominato Clementino. Nonostante il funzionamento del
Ponte Regolatore fosse tutto altro che efficace, il nuovo canale risolse
il problema principale: l'impaludamento della piana reatina. Restava
invece irrisolto un altro problema: quando il Velino in piena precipitava
nel Nera, l'acqua tracimava per oltre 7 chilometri nella Valnerina.
Occorreranno molteplici studi e numerosi interventi anteriormente che
l'architetto ternano Andrea Vici nel 1787 - 1788 trovò la soluzione: un
taglio diagonale sul secondo balzo che deviava parte dell'acqua in caduta,
consentendo un migliore deflusso del Nera. Questo intervento diede alla
Cascata il suo aspetto definitivo, quello che noi oggi avemmo ammirato
nella sua meravigliosa bellezza scenografica.
Prima di rientrare nel Convento di Collevalenza, abbiamo avuto anche tempo
per visita all'Abbazia di San Pietro in Valle ( a Forentillo): convento
Benedettino, medioevale con affreschi capolavoro della pittura Romanica.
Siamo giunti a Collevalenza per l'ora della cena.
Il giorno successivo, dopo la colazione dalle ore 7 alle ore 8: 30, tutti
nel Santuario a Collevalenza, per ascoltare la Santa Messa domenicale.
Subito dopo siamo partiti per visitare lo Speco di San Urbano di Narni ( (conventino
francescano gioiello) Tra i molti Santuari che abbiamo visitato in questo
nostro itinerario e resi celebri dalla presenza più o meno prolungata del
Poverello di Assisi, lo Speco di Narni è forse il meno noto.
All'inizio della città di Narni, una delle più belle città dell'epoca
romana, dove ci attendeva la nostra simpatica guida, che ci ha illustrato
in ogni particolare questa bellissima e antica città Romana, attraversata
dalla Via Flaminia.
L'immagine di Terni è legata sia a bellezze paesaggistiche e culturali sia
a ricchezze industriali. Terni è, infatti, nota per le sue industrie
metallurgiche e siderurgiche, ma è anche nota per le sue chiese: S.
Francesco (conserva la cappella Paradisi affrescata nel Quattrocento), S.
Salvatore ed il Santuario di S. Valentino. Quest'ultimo è il più famoso,
patrono degli innamorati, è stato anche vescovo di Terni Attrattiva
naturale che simboleggia la città, e la Cascata delle Marmore. Fu
costruita dai Romani per proteggere la pianura di Rieti dalle frequenti
inondazioni (300 a.C. circa). All'imbocco della Valnerina si erge Narni
con il suo Ponte d'Augusto, le strade medievali, la Piazza dei Priori dove
protagonista è il Palazzo del Podestà (1200), il Duomo, la Rocca
perfettamente restaurata e le sue chiese. Importante S.Maria in Pensole e
S.Agostino, ma maggiormente nota è quella di S.Francesco sorta su un
oratorio istituito dal Santo stesso. Infine, immersa nel verde, vi è
l'abbazia di S. Cassiano. Da non trascurare è la visita ad Amelia. Si
narra che sia la città umbra più antica (12 a.C.). Teatro di lotte tra
guelfi e ghibellini, conserva ancora le mura (la parte più antica risale
al 6 a. C.).
Romanica è la cattedrale, ricostruita nel 17 sec. al lato della cattedrale
si erge la torre ( XI sec.). Gioiello della provincia ternana è Orvieto,
centro etrusco, conserva estese necropoli. Conosciuta ovunque per il suo
Duomo (iniziato nel 1290), con la cappella dipinta prima dal Beato
Angelico e Benozzo Gozzoli, poi dal Cortonese Luca Signorelli (è una delle
sue opere più importanti). Della profondità di 61,32 m è il pozzo di S.
Patrizio, attorno alla sua parte cilindrica sorgono due scale parallele e
concentriche. Anticamente utilizzate una per scendere e l'altra per
salire. Simbolo della città è anche la Campana di Maurizio.
Al termine della visita turistica della città di Narni, abbiamo
costeggiato il lago artificiale che sorge all'entrata di Narni,
proseguendo per San Urbano. Situato a 560 metri sul livello del mare,
annidato, per non usare la parola abbarbicata, fra le rocce e gli aceri
del monte Bandita, lo Speco di Narni è il luogo francescano più antico di
tutta la Valnerina.
Lo storico Paul Sabatier, passando in rassegna i più pittoreschi e
caratteristici conventi francescani sparsi qua e là per la Toscana,
l'Umbria e la Sabina, non dubita di annoverare tra loro anche l'Eramo di
San'Urbano definendolo: " Uno dei tipici più pittoreschi e significativi
che questa sorta di case". E' veramente un luogo come lo intendeva S.
Francesco; lontano dai rumori delle vie di transito, immerso nella natura
ridente e serena, il Santo vi si ritirava volentieri in silenzio e in
preghiera, meditando a lungo la passione del Signore. Ci ha accolti lassù
il saluto di frate Francesco: " il Signore ti dia pace". Questo luogo
sacro, infatti, ha offerto anche a noi l'occasione di incontrare il
silenzio, la pace e la serenità che stavamo cercando e che solo il Signore
Gesù può darci.
La storia ci racconta che Francesco arrivò quassù nel 1213. Veniva da
Nardi, da dove siamo giunti allo Speco, con un moderno pullman, mentre il
Poverello, a piedi, con pochi suoi compagni, dopo di una delle sue prime
missioni apostoliche. Egli fu un grande ricercatore di luoghi solitari
adatti alla preghiera e quel luogo doveva essergli stato segnalato nella
zona. Le origini dell'eremitaggio risalgono intorno al Mille. Dipendeva
dai benedettini di S. Benedetto in Fundis di Stroncone e comprendeva le
varie grotte sotto la scogliera e l'oratorio di S. Silvestro con la
cisterna attigua.
Il piccolo villaggio di San'Urbano, adagiato sul colle, ha dato il
primitivo nome allo Speco. Questo per Francesco e i primi biografi fu
l'eremita di S. Urbano, il deserto di S. Urbano.
Quando vanno per il mondo,
I miei frati siano miti,
Mansueti e umili,
Parlando onestamente con tutti.
Francesco, Regola bollata III 85.
In questo nostro lungo pellegrinaggio" Dopo la mistica, cari fratelli,
viene la mastica e, adesso, vi prego. Anche noi siamo andati a pranzare
presso la trattoria " Tiberina" - pranzo con sapori tipici umbri).
La Città di Orvieto
Nel pomeriggio, sulla via del ritorno seguendo l'Autostrada del Sole, ci
siamo fermati nella città stupenda di Orvieto. Orvieto è arroccata su di
un altopiano a 300 metri d'altezza, si affaccia, dal suo sito
privilegiato, su una pianura coperta di vigneti ed è meravigliosa da ogni
lato. Tutti i turisti come noi, si recano nella cittadina per ammirare il
duomo, una tra le cattedrali romanico-gotiche più grandi d'Italia. La
chiesetta del XIII secolo di San Lorenzo in Aria, in fondo a Via Scalza,
ha pareti affrescate con immagini del martirio del santo cui è dedicata.
L'altare è stato ricavato da un originaria ara sacrificale etrusca. Via
Malabranca porta a San Giovenale. La chiesa, situata all'estremità
occidentale di Orvieto, è ricoperta quasi interamente da affreschi del XV
e XVI secolo e offre una vista spettacolare. San Andrea, in Piazza della
Repubblica, è caratterizzata da un singolare campanile a 12 facce, parte
dell'edificio originale del XII secolo.
Il Duomo di Orvieto, come abbiamo detto sopra, è una delle più grandi
cattedrali d'Italia, la storia ci racconta che il Duomo di Orvieto ha
richiesto quasi 300 anni di lavori ( iniziati nel 1290). Fu eretto in
onore del miracolo di Bolsena per il quale del sangue stillò da un'ostia
versandosi sui paramenti dell'altare di una chiesa di Bolsena. Nel Duomo,
ci siamo fermati a lungo e nella navata di destra, abbiamo ammirato, con
molta curiosità, esposto in una teca una bellissima riproduzione del Duomo
in un'opera orafa di un grande incisore fiorentino, e sulla sinistra, un
bellissimo quadro del VI cento di autore ignoto, che rappresenta la
vergine dei raccomandati. Il sacrestano che ci accompagnava nella visita
del Duomo, ci ha detto che ogni volta che il Senatore Giulio Andreotti, si
recava nel tempio, si fermava sempre di fronte a questo quadro. Forse
rammentava le migliaia di persone che aveva raccomandato nel corso della
sua vita di Ministro? Non lo sappiamo, e forse non lo sapremo mai.
Nel pomeriggio di Domenica, con la visita al Duomo (romano - gotico- del
XIV secolo) di Orvieto, famoso in tutto il mondo per le sue bellezze
artistiche, dove si trova custodita la reliquia del Miracolo Eucaristico
di Bolsena possiamo dire che la nostra escursione nell'Umbria, "sui
sentieri di San Francesco", era da ritenersi terminata.
Nel nostro viaggio di ritorno, abbiamo ripercorso a ritroso l'autostrada
del Sole, che ci ha portati nella verde e bellissima Umbria, facendoci
riammirare e assimilare l'essenza di quell'antica terra, dove si fondono
leggenda, storia e tradizione. Abbiamo percorso un itinerario per sentirci
in sintonia con ciò che ci circonda: i santuari Francescani, l'arte, i
piccoli borghi medioevali barbicati sulle colline, ma soprattutto quella
fonte inesauribile di sorprese che è il meraviglioso paesaggio della
coloratissima e indimenticabile Umbria. Lasciando questo incantevole
paesaggio, il nostro viaggio non è finito lì, ma è proseguito, entrando
nel cuore e nello scenario del paesaggio altrettanto bello delle colline
della vecchia e a noi altresì cara Toscana. Superato la città di Siena,
siamo entrati nel cuore delle colline vinicole del Chianti classico di
Monteriggioni e del suo castello fortificato da una possente cerchia di
mura medioevali munite da
14 torri, ispiratore di Dante ( Inferno canto XXXI). Dopo Castellina,
l'autostrada del Sole si addentra nel vero cuore del Chianti, con le sue
celebre cantini medioevali. Più avanti, ecco venirci incontro seppure in
lontananza i castelli chiantigiani che ci offrono un eccezionale colpo
d'occhio, che poi si perde nell'orizzonte delle colline mammellate della
fertilissima campagna toscana. Fra queste basse colline, di tanto in
tanto, come d'incanto, ci appare un suggestivo angolo di paese con le
vecchie case rustiche piene dell'antico. I vigneti colorati, i filari di
viti ben ordinati e in profondità le cime delle alte torri di San
Giminiano, completano il paesaggio.
Con il calare della luce del sole, l'area fresca della sera, ci porta i
balsamici profumi del mosto e della vendemmia di questa terra antica e
bellissima, dove il tempo sembra che si è fermato, ma il tempo non si
ferma mai. Il suo fascino, lontano dai soliti allettamenti preparati in
altri luoghi, è lento ma duraturo; è come quei profumi del mosto, che
sembra debbono subito svanire, eppure resistono al tempo e penetrano di sé
ogni
Il vostro segreto scorrerà in torrenti
A cercare il fiume della vita.
E il fiume avvolgerà il vostro segreto
E lo condurrà verso il grande mare.
Ricordatevi che la vita è una sola:
Assaporatela con gusto.
Fibra Kahlil Gibran
Una giornata di sole a Folgaria.
Domenica 19 febbraio 2007
Ormai la gita sulle piste innevate di Folgraria è diventata, per noi
campitellesi, un’escursione tradizionale. Da alcuni anni, il nostro
parroco don Enrico Castiglione, per concludere i festeggiamenti del
Carnevale, organizza una giornata di svago sulla neve con tutti i bambini
dell’oratorio, accompagnati dalle relative mamme. Anche quest’anno, si è
ripetuta questa bellissima giornata di allegria e di divertimento. Questi
sono luoghi bellissimi, luoghi ideali che sono entrati a far parte delle
abitudini delle famiglie, per trascorrere una giornata fuori casa con i
propri bambini al cospetto della madre natura.
Questa stupenda Valle è
giustamente celebre per i suoi numerosi castelli e fortezze militari che
punteggiano i passi e i punti strategici di quelle vallate meravigliose.
Anche oggi, che stiamo percorrendo l’ampia Valle dell’Adige o Vallagarina
come dir si voglia, con i suoi contrafforti di arenaria quasi brulli e
leggermente macchiati da una vegetazione bassa e poco significativa, che
scendono quasi a picco dalle pendici del Monte Baldo, gareggia in bellezza
con la Valle d’Aosta, con la quale ha tratti in comune: un ampio solco
longitudinale scavato dai ghiacci nel cuore di maestose montagne
dolomitiche, dalle quali scendono splendide vallate laterali, un clima
caldo e asciutto e una cornice naturale tipica delle valli alpine. Ultima
analogia i castelli: arroccati su alture strategiche o adagiati nel
fondovalle, ridotte a pittoresche rovine o perfettamente restaurati, sono
parte integrante del paesaggio. Subito appena entrati in quest’ampia Valle
dove scorre il fiume Adige, e che prende il suo nome, basta guardarsi
attorno per accorgersi di questi vecchi forti militari, costruiti dagli
austriaci e che delimitavano i confini del nostro Paese. Più a monte,
sorge Rovereto, che fu teatro di feroci scontri durante la grande Guerra,
dopo la quale il castello veneziano (1416) che domina la città fu
trasformato nel Museo Storico della Guerra. L’esposizione presenta
numerosi punti di interesse, tra i quali sezioni dedicate all’umorismo dei
tempi della guerra, allo spionaggio e alla propaganda. Foto d’epoca
illustrano con dovizia di particolari la storia delle due guerre mondiali.
Vicino all’entrata del museo, una scalinata porta al tetto del castello,
dal quale è possibile vedere la Campana dei Caduti, una delle più grandi
campane in Italia, plasmata nel metallo di cannoni della Seconda Guerra
Mondiale, e poi innalza in un edificio simile ad un tempietto, dal quale
si ha una splendida vista sulle valli circostanti. Sotto il Museo della
Guerra si trova il Museo Civico, che alloggia collezioni d’arte,
archeologiche, storiche e folcloristiche. Nei dintorni, a 8 chilometri a
nord di Rovereto si innalza il Castel Beseno, sito su una collina a est
della strada. Questo immenso castello, il più grande della regione, fu
costruito nel XII secolo e poi ricostruito varie volte fino al XVIII
secolo. Era il punto di controllo delle tre valli confluenti. Le rovine
sono sotto restauro e oggi si possono vedere dagli affreschi seicenteschi.
A sud di Rovereto, la strada principale passa attraverso una vallata
costellata da grandi massi trascinati da frane. Questi massi sono chiamati
Ruina Dantesca, poiché sono menzionati nell’Inferno ( ZII,4-9) di Dante.
Alle nove di questa
mattina 19 febbraio, queste brulle montagne del Baldo erano baciati dai
primi raggi del sole. Nella Bassa padana, come pure nel resto del nostro
Paese, l’inverno è stato lungo e freddo. La neve è scarseggiata sia a nord
che a sud, causando gravi disagi alle lunghe schiere di sciatori e alle
organizzazioni turistiche sia del trentino che dagli altri centri
sciistici del nostro Paese, Ma grazie alla neve artificiale, prodotta con
gli sparaneve, la grande massa degli sciatori, hanno potuto dare sfogo
alla loro grande passione che è lo sci.
Il grosso torpedone sta
percorrendo la grande Val d’Adige, mezza in ombra e innevata, mentre
l’altra metà é illuminata da un sole tiepido e primaverile. Percorrere e
ammirare questo paesaggio fatato e metafisico, dall’impressione di
ammirare uno di quei paesaggi fantastici che il grande pittore Giorgio De
Chirico, era solito dipingere, dove il fatto interiore, nel quale emergono
sensazione, vita remota e vita attuale tentano di uguagliarsi nel sogno.
In quei paesaggi si poteva intravedere l’invenzione fantastica, una favola
letteralmente affascinante; sicché si può parlare di una “poesia
pittorica”, dall’atmosfera e dal ritmo intraducibili, in cui si concretano
“melanconie”, “ricordi”, meditazioni sospese in uno spazio e in un tempo
mitici. Quindi, quelle stupende opere metafisiche, dipinte dal grande
pittore erano assolutamente paesaggi astratti e privi di aderenza con la
realtà, mentre questi che stiamo ammirando, in questa giornata bellissima,
rischiarati da un tiepido sole, sono paesaggi reali, bellissimi, sono come
le ha creati la Madre natura milioni di anni fa.
Al Casello Autostradale
di Rovereto Sud, il grosso torpedone ha lasciato l’autostrada del Brennero
e si è immesso nella provinciale che porta a Folgaria. Subito dopo il
piccolo borgo antico di Villa Vallagarina, da dove si ammira un bellissimo
paesaggio collinare coltivato a vigneto, la strada s’inoltra in una forra,
un profondo dirupo fra i monti e prodotta nei millenni dall’acqua del
torrente. Il cima alla compagna che separa la vallata dalla forra, sorge
un vecchio forte difensivo austriaco, fatto costruire da Francesco
Giuseppe nel 1800, che aveva il compito di fermare il nemico che veniva da
sud. La strada segue una serie di strettoie, piccole gallerie scavate
nella roccia calcarea e di piccoli tornanti prima di entrare in un vero e
proprio canyon, che ricrea un ambiente dolomitico orientato verso il
basso. Sul fondo della gola, muraglie rovesciate di calcare alte oltre 900
metri e che culminano in vette surreali e metafisiche attraversate da
nuvole bianche e da piccole strisce di neve bianchissima e azzurre dei
canaloni e le fontane di ghiaccio che bucano dalle fessure della grande
montagna.
Il torpedone fa fatica a
salire quella rampa di strada tortuosa, dove le pareti sono tagliate in
verticale per decine e decine di metri nel punto più profondo del
canalone. Le curve sono sempre più strette, con piccoli tornanti e sopra
la muraglia di pietre crescono e germogliano sparuti abeti. Una lunga coda
di macchine ci segue lungo il costone nella attesa di trovare un varco per
superarci. A metà percorso, incontriamo due piccoli villaggi montani, le
cui case sono state costruite quasi a picco sul profondo canalone. Piccoli
fazzoletti terrazzati, rubati alla montagna e coltivati a vigneto. A
fianco alle case piccoli orti secchi e scoscesi, dove germogliano sparute
piante antropiche e dove in primavera i contadini montanari coltivano le
patate, cipolle e qualche ciuffo di lattuga o di altra verdura. Quando
siamo transitati noi, quei piccoli ritagli di terra erano completamente
brulli e non si vedeva neppure il minimo segno di neve, creando un
paesaggio da presepe o da cartolina illustrata. Si, è proprio così, quel
angolo di paese agreste, con la piccola chiesa e a fianco alla quale la
fontana e il piccolo cimitero fra le case, creavano un paesaggio
fantastico, dove regna tanta pace e serenità.
Raggiunto l’altopiano
tutto è ritornato alla normalità. La strada era più ampia e scorrevole
come pure il paesaggio brullo e bruciato dal sole, tanto che ti dava la
sensazione di trovarci nel cuore dell’autunno inoltrato e di fronte la
grande montagna che sembrava riccamente incorniciata come un quadro
d’autore. Superiamo il centro abitato di Folgaria, con i suoi alberghi e
le infrastrutture turistiche, il nostro torpedone si è fermato
nell’apposito parcheggio riservato ai torpedoni nel Fondo Grande, dove si
trovano gli impianti sciistici e le piste da sci. Ci sembrava che non ci
fosse nessuno o perlomeno pochi turisti, ma sia il parcheggio delle
autovetture quanto quello dei mezzi pesanti, fossero stati completamenti
esauriti. Centinaia di persone invadevano le piste sciistiche innevate
artificialmente e i locali pubblici. Questa volta non abbiamo dovuto fare
la coda per sorbire un caffè caldo al Bar del centro sportivo, prima di
tutto perché è un giorno settimanale e c’era poca folla, ma era l’ultimo
giorno di Carnevale e gli appassionati della montagna cerano lo stesso,
poi dicono che c’è carestia nel nostro Paese! Quale carestia?
I ragazzi dell’oratorio,
appena scesi dal pullman si sono dispersi per i campi innevati con gli
slittini presi a noleggio. Si vedeva nei loro occhi che erano veramente
felici di trascorrere una giornata sulla neve, lontani da casa e
soprattutto dai compiti scolastici. Li abbiamo rivista al termine della
lunga giornata stanchi e felici. Si aggiravano vicino al torpedone nella
attesa che il parroco dessi loro le “lattughe”: un dolce di carnevale, che
Don Enrico aveva fatto sistemare nel bagagliaio dell’automezzo. Si vedeva
che erano tutti stanchi e sudati ma felici di aver trascorso un’intera
giornata sui campi di innevati. Quest’anno, sui campi innevati sono
successi molti incidenti sulla neve artificiale e si sono pure verificati
7 decessi. Anche oggi un nostro conoscente in una caduta ha riportato
contusioni al ginocchio, mentre un ragazzo facente parte della nostra
comitiva è stato trasporto con l’autolettiga al pronto soccorso di
Rovereto e trattenuto, a causa di una brutta caduta che ha battuto la
testa. Al momento non abbiamo notizie, ma speriamo che non sia nulla di
grave.
Dopo di aver sorbito un
caldo e ottimo caffè in quel bar poco affollato di turisti, con Adriana
mia moglie, Pino e altri amici, ci siamo avviati sulla strada asfaltata
detta della Via Crucis, perché sul lato sinistro vi sono tante piccole
cappelle in muratura contenenti le bellissime sculture di legno, che sono
delle vere e proprie opere d’arte, che rappresentano le varie stazioni del
supplizio, della flagellazione e della morte di Gesù Cristo, che lo
portarono sulla piccola altura del calvario, presso Gerusalemme, sulla
quale fu crocifisso. Quella strada con il fondo stradale asciutto, ci ha
portati in poco tempo al Santuario della Madonna delle Grazie: una
località bellissima, ma mancava qualche cosa, mancava la neve. Prima di
iniziare la nostra breve passeggiata sui campi brulli, doverosamente ci
siamo soffermati reverenti a piegare il ginocchio nel tempio della Madonna
dispensatrice di grazie.
Vicino alla porta
laterale della chiesa è stata posta una lapide dedicata a Papa Giovanni
XXIII. Il papa Pio XII in 31 gennaio 1954, dichiarò la Madonna di Folgaria
“ Patrona degli sciatori d’Italia” e fece incoronare l’immagine, dandone
l’incarico al Patriarca di Venezia Angelo Giuseppe Roncalli. Questi compì
il solenne rito il primo agosto di quel anno. Una lapide all’esterno del
santuario dice: “ Giovanni XXIII Sommo Pontefice, Cardinale Patriarca di
Venezia pellegrinò a questo santuario il primo agosto 1954, incoronò
solennemente la Madonna, ne cantò le glorie, ne implorò gli auspici, donò
a tutti i presenti il profumo e il soave ricordo della sua santità”.
Oggi il santuario – come
si esprime il rettore don Olindo Cuel – “è un centro di spiritualità in
cui si prega e ci si forma sulla scuola del Vangelo. Continuamente
visitato da chi è ospite dell’Altipiano per periodi di riposo e per corsi
di esercizi spirituali, è soprattutto metà di gruppi di preghiera. Nel
solo 1987 ha visto ben 47 pellegrinaggi e circa 350.000 fedeli.
La festa patronale è
celebrata l’8 settembre, con grande solennità-. L’inno del santuario dice:
“
Sorreggi la vita, conforta il dolore, sereno ogni cuore, o Madre d’Amor”.
Stando fermi davanti al
Santuario, si può ammirare un paesaggio stupendo, un paesaggio pittura,
immerso fra boschi di alte conifere e meravigliose montagne senza la neve.
Abbiamo seguito un lungo sentiero che dopo un giro vizioso ci porta nel
bosco e fa ritorno nei pressi del Santuario. Quel sentiero è chiamato dai
“cavalli”, perché una slitta trainata appunto da due cavalli fa la spola
dal centro abitato di Folgaria al Santuario e viceversa. E’ stata una
passeggiata molto distensiva e soprattutto salutare, lontano dal rumore e
dal fumo prodotto delle autovetture.
Quello è un paesaggio
pianeggiante, chiamato la torbiera e d’estate è un vero giardino botanico.
E’ un sentiero fatto apposta per chi non vuole fare molta fatica e
desidera godersi una giornata di sole all’aria aperta, senza problemi e
soprattutto senza quella folla opprimente e chiassosa. L’aria era secca,
frizzante pulita, ma il sole era meraviglioso e valeva la pena essere
saliti fin lassù. Tutti i turisti erano concentrati a valle, dove sorgono
gli impianti sciistici e per via dei moltissimi automezzi, sembrava una
camera a gas.
Il resto della giornata
lo abbiamo trascorso, dopo la pausa pranzo in un piccolo locale tipico di
nostra conoscenza, sul costone che si trova a ridosso del paese e degli
impianti sciistici, un luogo bellissimo e soleggiato, dove tantissimi
bambini con i loro genitori, si divertivamo a sciare nel fondovalle con lo
slittino, e poi c’erano per i più piccini nel campo giochi i cui impianti
si trovavano al bordo delle piste, con le giostre e gli scivoli.
Il grande
scrittore e storico romano Plinio il giovane, ammirando gli ultimi raggi
del sole che stava per tramontare dietro la grande montagna dipinta di
rosso del meraviglioso Vesuvio, come del resto stavamo facendo anche noi
oggi che siamo seduti su di un muretto a fumare la pipa in tranquillità e
non stiamo facendo altro che ammirare questo meraviglioso tramonto dietro
la grande montagna dolomitica, egli così faceva a scrivere nel suo
taccuino di viaggio:
“ Carpe diem:
coglie l’attimo fuggente che si dilegua rapido e veloce come la vita
nell’immensità!”. Oh si, com’è straordinaria la
vita! I fenomeni celesti che ci circondano e ruotano intorno a noi da
miliardi di anni, con il loro ritmo incessante e i loro segreti, che poi
non sono altro che i segreti della creazione e della vita. Ammirare nel
tramonto infuocato quel dardo che in un baleno divampa e precipita in quel
attimo fuggente di eternità che ci offre la quiete e l’abbandono dello
spirito”, sono attimi grandiosi del mistero della vita, che ci lasciano
meravigliati, attoniti; sorpresi e increduli allo stesso tempo.
Concludiamo questo nostro itinerario in un paesaggio bellissimo senza neve
di Folgaria, con questa riflessione che abbiamo letto in una piccola targa
posta all’interno del parco della torbiera di Lilli Dariguzzi, alla quale
porgiamo le nostre più sentite congratulazioni. Ella così faceva a
scrivere:
“Riflesso”
I nuovi innesti abbracciano le fronde,
E accarezzate dal vento
Ne riflettono i movimenti
Moltiplicandone l’esistenza
Una breve riflessione del nostro tempo.
Senza dubbio, fra gli aspetti della vita attuale, s'impone all'attenzione di
tutti gli enormi progressi scientifici e tecnico che si è realizzato dopo
l'ultimo conflitto mondiale.
L'uomo inventa macchine sempre più perfezionate e sofisticate e sembra non
volersi arrestare un momento: perfino il cosmo gli è ormai accessibile e fra non
molto potrà forse conoscere mondi diversi del nostro.
Altra cosa colpisce e che colpisce tristemente è che, nonostante tutte queste
meravigliose scoperte scientifiche, sulla terra la vita non è poi molto
cambiata. Ci sarà, è vero, un miglioramento del tenore generale di vita,
specialmente, in alcuni paesi; ma basta aprire il giornale il mattino per vedere
che esistono sempre la guerra, la paura, la fame, l'ingiustizia, la violenza
privata, il malcostume, l'indifferenza e l'ignoranza.
Di fronte a questo stato di cose l'enorme progresso tecnologico non perde certo
la sua importanza, ma non appare da solo, tale da poter conciliare radicalmente
in meglio tanti aspetti tristi della vita, tale, in una parola, da poter dare la
felicità all'uomo.
In questi ultimi tempi, e non solo nel nostro Paese, i fenomeni di delinquenza
organizzata e di criminalità stanno diffondendosi a macchia d'olio. Queste forme
delinquenziali stanno toccando il limite estremo, ove violenza chiama violenza.
Giorno dopo giorno, le forze dell'ordine nel campo nazionale, sono impegnate a
sostenere una dura lotta, direi che sono sul sentiero, di guerra per combattere
una battaglia senza fine. Non è sempre facile assicurare alla Giustizia tutti
coloro che trasgrediscono ed infrangono le leggi; ma nel complesso, a volte a
caro prezzo, si riesce sempre a fare trionfare la Giustizia. I cittadini, sia
delle grandi città che dei piccoli villaggi come il nostro, vivono continuamente
allarmati e nello stesso tempo preoccupati del dilagare di questi fenomeni
criminosi.
E' da molto tempo che il mondo tende ad una giustizia migliore, nella quale
l'uomo, ogni uomo, e tutti gli uomini, possa pienamente sentire e vivere la sua
dignità di sempre, in questo mondo, direi corrotto nel vizio e nella morale. Mi
ritengo, e non sono il solo a pensarla così che questa esigenza di rinnovamento
non potrà comprendersi che nella completa libertà dei popoli, condizione
necessaria per l'affermazione della persona umana e il suo integrale
perfezionamento: nonché per un autentico progresso sociale.
Il bene comune, oggi più che mai, anche in ordine all'auspicato rinnovamento
giuridico, politico e sociale si può promuovere e consolidare soltanto
garantendo l'autentica maturità di noi tutti: che a mio modesto parere sembra
alquanto prematuro. A ciò siamo tutti chiamati, in questo delicato momento, con
coscienza illuminata e responsabile, per assicurare quel progresso
politico-sociale di pace e di benessere. Soprattutto come cittadini di un paese
democratico come il nostro, siamo chiamati a collaborare con la Giustizia ed al
rispetto delle leggi e delle istituzioni, condizione indispensabile perché si
possa avanzare, nello spirito della giustizia e della fraternità verso un
avvenire migliore.
La prima escursione in Val di Fiemme 2007.
Come passa veloce il tempo, sembra ieri che eravamo su queste meravigliose
montagne del Trentino, ma è già passato un anno. Un anno di avvenimenti
tragici e meno tragici, un anno da dimenticare e d'archiviare, ma con il
trascorrere del tempo anche la vita passa e và. Ma ci domandiamo che cos'è
questo benedetto tempo? Se lo ha chiesto anche Sant'Agostino, Egli quindi
aggiunge: " Se nessuno me lo chiede, lo so, ma se dovessi spiegarlo a chi
me lo chiede, finirei col non saperlo".
E il presente? Esiste sul serio il Presente? Se è vero che il Passato non
esiste, perché non è più e se è altrettanto vero che il Futuro non esiste,
perché non è ancora, come fa il Presente a esistere, quando è solo una
separazione tra due cose che non esistono? Può esistere solo in qualcosa"
dice Sant'Agostino " la cui condizione d'esistenza è quella di essere
d'esistere? Parlando del tempo, il filosofo Luciano De Crescenzo, ci da
una sua definizione che noi l'abbiamo definita filosofica. " E' indubbio
che ci sono due concetti di tempo: quello fisico ( tempo esterno), che
dovrebbe essere uguale per tutti, e quello psichico (tempo interno), che è
diverso da persona a persona e che varia col variare degli avvenimenti. Il
tempo psichico è un connotato personale, come il colore trasparente di
queste meravigliose montagne, delle sue vallate e del cielo azzurro, come
pure degli occhi o dei capelli, ma è anche una grandezza accidentale:
basta confrontare la giornata di un venditore di detersivi a domicilio con
quella di un ergastolano per capire come possa variare il tempo. Sant'Agostino
lo definisce " un'estensione dell'animo umano". Oggi, il nostro animo è
triste, perché il tempo e le stagioni non procedono allo stesso modo. Il
nuovo anno che entrasse da pochi giorni, è stato definito dai metereologi
un inverno anomalo. Se andiamo ad esaminare questo fenomeno e vedendo come
si presentano le giornate di quest'inverno, dovremmo dire che, più che il
cuore dell'inverno ci sembra la primavera avanzata. Nel nostro giardino
sono rifiorite le primule, come pure sui sentieri di questa bellissima
vallata del Trentino, dove oggi siamo giunti con i nostri amici dell'APAM
di Mantova. Siamo partiti con la gioia nel cuore, per trascorrere una
giornata sulla neve, ma la neve si trova sulle alte cime e quella sulle
piste da sci è artificiale, sparata con i cannoncini da neve. Quest'anno è
il Sud a vincere la prima tappa della stagione invernale. Le montagne
dello stivale sembrano, infatti, essersi capovolte e se quest'anno la neve
ha, di fatto, snobbato le tradizionali perle delle Alpi, dove si scia solo
in alta quota o grazie all'innevamento artificiale, abbondanti
precipitazioni si sono avute sulle cime della Calabria e della Sila. E il
quadro si fa ancora più nero per il centro dove ad Abruzzo e Molise non
resta che sperare in un miracolo del cielo.
Nello specifico in Piemonte, grazie ai cannoni e alle nevicate di questa
settimana si sono chiuse con un risultato soddisfacente, e con un
incremento rispetto allo scorso anno, le vacanze del lungo periodo
natalizio sulle montagne Olimpiche che nelle altre località sciistiche
della regione. Gli oltre 200 chilometri di piste servite dai 38 impianti
del comprensorio della Via lattea sono stati invasi da turisti italiani e
stranieri che, secondo le prime stime hanno raggiunto almeno quota 30 mila
con tiket venduti per circa 3 milioni di euro.
Boom di presenze e tutto esaurito anche qui nel Trentino, che grazie agli
sparaneve ha superato alla grande il momento difficile, sorpassando
addirittura i numeri dell'anno scorso, come sottolinea Natale Rigotti,
presidente dell'Associazione albergatori della provincia di Trento, che,
però non nasconde preoccupazioni per la fase due della stagione - ha
spiegato - il rischio di un forte rallentamento è concreto. Le
preoccupazioni maggiori le abbiamo registrate nelle Valli di Non, e qui
nelle Valli di Fassa e di Fiemme. In queste bellissime vallate si viene
per sciare, è oltretutto, con queste temperature che abbiamo trovato, non
è solo costoso per gli operatori, ma addirittura impossibile produrre
neve, si vedono già le gemme fiorite ed in via di sviluppo. Malgrado ciò,
in Alto Adige, come apprendiamo, si ostenta ottimismo. Se qui al Nord c'è
bisogno della neve artificiale, in Sicilia sono bastate le condizioni
meteo a consentire il perfetto innevamento delle piste. Le abbondanti
nevicate di metà settimana hanno completamente imbiancato l'Etna, su cui
la stagione sciistica si è aperta ufficialmente con il nuovo anno.
Percorrendo queste bellissime vallate, abbiamo ammirato un paesaggio
metafisico, un paesaggio chiazzato a macchia di leopardo, da piccole
chiazze bianche di neve e di verde dei boschi, che ci ha dato la
sensazione di rivivere la stagione autunnale.
Siamo d'accordo che alla maggior parte dei partecipanti a questa
escursione in montagna non importa che ci sia o non ci sia la neve, anzi
preferiscono fare quattro passi senza la neve, perché è più comodo
camminare senza la paura che cadere, perché la maggior parte di loro sono
anziani e con qualche acciacco dovuto all'età. Anche noi facciamo parte
della categoria degli anziani o della Terza età, come dir si vuole, ma
sentiamo ancora dentro di noi l'amore per la montagna e per la
meravigliosa natura che ci circonda. A loro interessa la grande buffata,
vengono a posta, per mettere i piedi sotto il tavolo nel ristorante. Però
se andiamo ad analizzare più a fondo il loro stato d'animo, la condizione
fisica, psichica, spirituale o economica in cui molti di loro versano,
comprendiamo che hanno ragione, perché la solitudine, lo stato di chi sta
o vive solo, è una cosa molto triste e uscire, stare per un giorno fuori
di casa, assieme alla gente è come rinascere. Ma la vita è fatta anche di
questi momenti culinari e poi, tra un bicchiere e l'altro, si ritrova
l'allegria e la gioia di vivere fra i vecchi amici e conoscenti. Si, è
proprio giusta l'affermazione del Papa Benedetto XVI, nel dire che: "
L'amicizia significa comunanza nel pensare e nel vedere. E questa
comunione di pensiero non è una cosa solamente intellettuale ma é
comunanza dei sentimenti e del volere, e quindi anche dell'agire".
Partecipare a questi convivi ci fa capire com'è dolce anche l'autunno
della vita.
Se ci fosse stata la neve la festa sarebbe stata più completa, perché
l'occhio vuole anche la sua parte, perché non si vive di solo cibo, ma di
ammirare questi stupendi paesaggi unici al mondo e senza la neve non sono
gli stessi.
Quest'anno, gli organizzatori dell'APAM, come è successo alcuni anni fa,
per la tradizionale gita invernale hanno scelto la Val di Fiemme, e il
grosso torpedone si é fermato nella periferia della linda cittadina di
Cavalese che è il capoluogo della Valle. Adagiata sulla parte terminale
del terrazzo fluvio-glaciale che caratterizza il cuore della Valle di
Fiemme, ne rappresenta il centro storico e culturale. E' sede della
Magnifica Comunità, del Comprensorio e degli Uffici Provinciali.
La storia di Cavalese, che risale ad epoche antichissime, ci racconta le
prime tracce del passaggio dell'uomo (riscontrabili in particolar modo
sulla Catena del Lagorai) sono attribuibili all'uomo mesolitico. Vi sono
inoltre segni dell'età del ferro (dos Zelo) e del periodo tardo romano
(Parco della Pieve). Vi è poi un documento dell'epoca barbarica nella
necropoli ritrovata in Via Pasquali (IV sec.). I primi insediamenti
abitativi si svilupparono lungo il rio Gambis, le cui piene furono la
causa della distruzione di quello che, nel XII sec, aveva il nome di
Cadrubio. Verso la metà del 1500 fu iniziata l'opera di contenimento del
rio con solidi e pittoreschi argini. Lungo il rio sorsero così mulini,
officine da fabbro e per la lavorazione del rame, tintorie, concerie e
segherie. Governatori vescovili e famiglie borghesi trovarono dimora in
Cavalese, contribuendo a rendere il paese centro economico e politico
della Valle. Nel Settecento fu centro culturale di notevole interesse
soprattutto per la presenza della scuola pittorica di Giuseppe Alberti
(1640-1716) nella quale appresero l'arte, fra gli altri, Michelangelo e
Francesco Unterberger, iniziatori della famiglia dei pittori cavalesani.
L'evoluzione in senso moderno di Cavalese, che nel 1899 ebbe
l'illuminazione elettrica, cominciò verso la metà dell'800 a seguito della
costruzione della nuova strada commerciale di Fiemme che attraversava il
centro abitato sostituendo il vecchio tracciato medioevale che veniva dal
dosso di S. Valerio.
CENTRO STORICO
Una breve passeggiata su per Villa - La parte alta di Cavalese, che si
allinea sulle due sponde del Gambis ed è indicativa dell'assetto
morfologico, urbanistico e edilizio della Cavalese antica, si possono
scoprire alcune tracce del suo passato che fanno parte della sua storia
medioevale. Sulla sponda destra, vi sono alcuni edifici che conservano
elementi medioevali e soluzioni lignee quali le chiavi di legno nelle
murature. Sulla sinistra del Gambis le caratteristiche Via Montebello e
Sara: in cima a quest'ultima, addossata alla rupe boscosa, la casa Rizzoli,
autorevole esempio di residenza fiemmese del XVIII sec. il prospetto è
decorato da un affresco sacro fatto fare né 1796 da Paolo Antonio de
Rizzoli. La Piazza Scopoli è sede del Municipio, il palazzo fu ricostruito
sulla vecchia caserma austriaca. Zo per Villa - La parte vecchia al di
sotto della Piazza conserva le movenze cavalesane passate. All'inizio di
Via Ress c'è l'edificio della canonica (notare l'acuto tetto ricoperto di
scandole e le inferriate sulle finestre) antica sede del parroco di Fiemme.
In P.za Ress, la casa della famiglia omonima. Numerose poi altre case
della tradizione fiemmese.
All'interno del centro si snoda un percorso che tocca una serie di
attività artigianali e commerciali, particolarmente significative,
permettendo di scoprire angoli suggestivi e costruzioni tipiche.
Il parco della Pieve è costituito da una suggestiva area verde con tigli
secolari. Rappresentava il centro della vita comunitaria della Valle: era,
infatti, sede delle riunioni generali, della chiesa, delle manifestazioni
popolari e delle fiere. All'interno del Parco il "Banco della Resòn":
elemento unico in tutta Italia rappresentava il luogo nel quale si riuniva
l'assemblea della Comunità. Nella parte più elevata del parco sorge invece
la Chiesa dell'Assunta, il Santuario dell'Addolorata ed il vecchio
cimitero: ciò rappresenta indubbiamente il più significativo complesso
storico monumentale della Valle.
Cavalese, che é una località turistica e sciistica molto rinomata in tutto
il mondo ed è un piccolo centro che sorge sulle rive del torrente che
attraversa la grande e bellissima Val di Fiemme. Proseguendo nella
magnifica valle si incontra la cittadina di Predazzo che è denominata, per
la sua ricchezza dei fenomeni naturali della zona, il " giardino geologico
delle Alpi", la cittadina ospita un ricco museo geologico, mineralogico e
paletnologico sistemato, con altre collezioni, nella casa del Turismo e
dell'Artigianato. La chiesa di San Nicolò ( di origine tardo-gotica), nel
cimitero, conserva resti di affreschi cinquecenteschi di grande valore
artistico.
Bellamonte, è una frazione di Predazzo dove è presente una scuola alpina
della Guardia di Finanza. Inoltre, vi sono degli impianti di risalita che
conducono ai campi di Pampeago e di Obereggen. Predazzo (TN) -1018 metri
Zona sciabile: 1372-2415. Per arrivare fin qui a Cavalese, il nostro
pullman, ha percorso: l'Autostrada A22 Brennero - Modena, uscita di Egna -
Ora. A est di Trento e di Bolzano, dove esiste una fitta rete di strade
che consente di addentrarsi in ampie vallate dominate dalle più famose
vette e catene dolomitiche: i Lagorai, le Pale di San Martino e quelle,
meno note ma altrettanto suggestive, di San Lucano, il Catenaccio, il
Sasso Lungo, il Sella, le Tofane. E anche di percorrere valichi altissimi,
dai nome quasi leggendari: Pordoi, Sella, Falzarego. E' quasi una
cavalcata nel cuore di un complesso di montagne unico al mondo, paradiso
per scalatori, escursionisti e sciatori di discesa e di fondo, ma anche
ricco di memorie artistiche e culturali. Infine, si segue la SS48, che ci
ha portato, dritto alla stupenda e soleggiata cittadina di sapore
medievale di Cavalese.
Non è la prima escursione che effettuiamo con questo sodalizio, anzi,
abbiamo partecipato a diverse gite culturali. La prima gita che abbiamo
effettuato con l'APAM di Mantova, siamo sbarcati in questi magnifici
luoghi, dove la vita ha un altro significato di essere vissuta fino
infondo, al cospetto della Madre natura. Quella volta non ci siamo
appoggiati ad alcun ristorante della zona per il pranzo sociale, ma
l'organizzazione ha provveduto ad istallare una vera tendopoli con tutti i
confort al centro del campo sportivo di Predazzo. I soci del CRAL dell'APAM,
si sono trasformati in cuochi, camerieri e intrattenitori. Ti dava la
sensazione di vivere una giornata di festa di paese. Ricordo che c'era
anche il conforto della musica leggera che ha allietato la scampagnata.
Molte coppie, giovani e anziani, si sono cimentati con il ballo liscio,
mentre gli appassionati della neve, abbiamo raggiunto i campi di sci.
Quella meravigliosa festa popolare è rimasta impressa dentro di noi.
LA VAL DI FIEMME.
E' una località indiscussa per la sua meravigliosa bellezza paesaggistica,
dove ci sono oltre 60 milioni di alberi. Ogni albero è bello ed utile ma
ce ne sono di straordinari. Per la loro altezza, le dimensioni del fusto,
le forme singolari, l'età, sono dei veri monumenti naturali e meritano di
essere scoperti, conosciuti, ammirati.
Essi non ci forniscono solamente ossigeno, ci lasciano stupefatti. Con le
forme dei tronchi, dei rami, della chioma, raccontano storie
plurisecolari, ci parlano del tempo e di un ambiente che condividono con
noi. Basta andar loro incontro, osservare e stare ad ascoltare. Ogni
foresta di Fiemme custodisce al suo interno qualche albero monumentale da
rispettare e custodire gelosamente sempre anche quando muore e crolla a
terra. Leggiamo in una pubblicazione che ne descrivono 14 fra i più
maestosi e caratteristici ma ce ne sono molti altri sparsi in tutto il
territorio della vallata che ognuno potrà scoprire di persona con comode
passeggiate nel mondo del bosco. A ciascuno è stato dato un nome che ne
rispecchia le caratteristiche peculiari, ne richiama l'ambiente di
crescita e magari il rapporto con persone del luogo. Alcuni sono molto
vicini ai paesi e alle strade e si possono raggiungere con brevi
passeggiate, fuori porta. Altri vegetano in siti più lontani, nel cuore
del bosco o in prossimità delle cime. Per arrivare da loro occorre
percorrere i sentieri di montagna, alcuni realizzati proprio per
consentire di conoscere questi monumenti verdi e provare le emozioni che
essi sanno trasmettere. Non è la prima volta che noi giungiamo fin quassù,
ma con i nostri amici del CAI di Mantova, ci siamo venuti più volte ed
ogni volta ci è sembrata la prima volta, perché ogni volta scopri sempre
qualche angolo diverso d'ammirare, da soprattutto e d'amare.
Di chi sono questi meravigliosi alberi monumentali?
Dei proprietari dei boschi della vallata e quindi della Magnifica Comunità
di Fiemme, dei Comuni, Provincia, Regione e anche di singoli privati.
Vorremmo dire però che essi appartengono a tutti coloro che sanno
apprezzare queste presenze straordinarie del mondo del bosco e della
montagna. Il settore mediano della valle percorsa dall'Avisio prende il
nome di Val di Fiemme: i suoi limiti sono il Lago di Stramentizzo a valle
e Moena a monte: più oltre si apre la Val di Fassa. Estesi pascoli
terrazzati, vasti prati e un patrimonio forestale d'eccezione
costituiscono gli elementi fondamentali del paesaggio, dominato a sud da
una delle più solitarie catene dolomitiche, quella dei Lagorai. La storia
di questa valle è esemplare per quel che concerne la gestione
dell'ambiente. La storia ci racconta che nel 1110, con riconoscimento
vescovile, era sancito l'atto costitutivo della Magnifica Comunità della
Val di Fiemme. Con quel documento gran parte dei boschi e delle foreste
diventavano di proprietà collettiva: da allora ogni prelievo di legname è
stato accortamente calibrato per consentire il naturale rinnovamento del
manto forestale, primaria fonte di reddito per le popolazioni locali.
I CAMPI DI SCII
Il gruppetto dei Campitellesi, amanti della montagna e dei campi innevati,
era composto di diversi amici che ci incontravamo tutti i giorni e ci
conoscevamo da oltre vent'anni, perché nei piccoli paesi come il nostro
della Val Padana, ci si conosci tutti, uno per uno. La piccola squadra era
capeggiata dal sottoscritto e seguita da Pierino Ghizzi, nonché dalle
nostre signore e molti altri amici, insomma, un piccolo nucleo di 10
vecchi amici desiderosi di trascorrere una giornata di completa serenità,
al cospetto della madre natura, all'aria aperta sotto i caldi raggi di uno
splendido sole, fra quella folla festante di sciatori .
Dai giardini del parco di Cavalese, una moderna e funzionale ovovia, che
in pochi minuti raggiunge il vertice della grande montagna del Cermis,
dove sono funzionanti le piste innevate artificialmente. Lassù, era un
altro mondo, un mondo senza un briciolo di neve, un paesaggio brullo e
bruciato dal sole. Se la valle era quasi morta, sulle piste sciistiche vi
abbiamo trovato una miriade di sciatori, anziani, giovani e bambini, che
si divertivano a sciare. Il Bar-Ristorante, era affollatissimo e si faceva
persino fatica a conquistare un posto per sorbire una tazza di te fumante
o un caldo e aromatico caffè. Era meraviglioso vedere quella folla
omogenea, con le tute variopinte, sciare o sostare ai margini delle piste
o seduti al bar. Anche il cielo si era imbronciato, tanto che il sole si
faceva vedere a sprazzi e l'aria era alquanto fresca. La squadra dei
Campitellesi, uno dopo l'altro, in fila indiana, siamo risaliti sui
vagoncini dell'ovovia, che in pochi minuti ci hanno riportati sul luogo di
partenza, dove eravamo attesi per il pranzo sociale, che si è svolto nel
ristorante "La Stella", che sorge al vertice della storica cittadina di
Cavalese. Abbiamo attraversato dei magnifici boschi dove filtravano i
raggi del sole, creando una scenografia da quinta teatrale. Abbiamo visto
alberi altissimi e mastodontici. Un vecchio e saggio montanaro, con il
quale abbiamo conversato parlando di questi monumenti della foresta, ci ha
parlato della Regina del Feudo, che si trova nei boschi del Comune di
Pedrazzo.
LA REGINA DEL FEUDO.
Egli ha proseguito dicendo: "L'albero, segnalato da un cartello, è a una
ventina di metri da un tornante della strada. Non si nota facilmente
questo abete camminando da quelle parti. La sua chioma profonda nasconde
il fusto e apparentemente ne riduce la statura. Solo se si percorre il
sentiero che gli passa accanto si rimane colpiti da quel tronco enorme con
robuste costolature che spunta da una pietraia. Una pianta regina
indubbiamente. Segno che sotto quei sassi c'è del terreno nascosto che
offre acqua e nutriente in abbondanza. Lei, "La Regina" ha deciso di
stabilire lì la sua fissa dimora, in posizione panoramica, baciata tutto
il giorno dal sole, da dove tutto vede e controlla. Da vera regina degli
alberi sfoggia un mantello verdissimo, lungo fino ai piedi, perfetto, il
più bello del reame. A stare sotto quella chioma folta e profonda con i
rami tutti ripiegati all'ingiù è come trovarsi in una casa accogliente; si
gode l'ombra d'estate e il tepore d'inverno. Lo sanno i cervi e i caprioli
che hanno eletto quel abete a loro rifugio preferito. In passato, in
un'escursione con gli amici del CAI di Mantova, in località Casaia del
Comune di Cavalese a 1290 metri, di quota, abbiamo ammirato le " Colonne
della Casaia".
LE COLONNE DELLA CASAIA
Ricordo che ci siamo arrivati da Cavalese, da dove si sale con la
cabinovia fino alla stazione intermedia del Cermis proseguendo poi su una
comoda strada di bosco dapprima pianeggiante e poi in leggera salita per
ca 1,8 km. E' possibile anche salire da Salanzada con un percorso a piedi
dopo questa località di ca. 2,5 km. "Gli alberi sono le colonne che
sostengono il cielo" dicono gli Indiani d'America e poi saggiamente
aggiungono ".Se cadono loro anche il cielo ci cadrà addosso.". riflettendo
sui tanti valori del bosco e sul fatto che se non ci fossero gli alberi
non ci sarebbe possibilità di vita nemmeno per noi umani. Questi due
abeti, affiancati a ciglio strada, sono davvero colonne lunghe e diritte
con la chioma che si innesta sul fusto molto in alto, ad oltre 30 metri.
Nella città degli alberi loro "le Colonne" sono i grattacieli, sicuramente
sono da annoverare fra gli abeti più alti della Val di Fiemme e di tutto
l'arco alpino. Nelle vicinanze ci sono altri alberi molto alti che
emergono da un fitto bosco di giovani abeti, ma loro hanno spinto la
chioma più in alto di tutti di un paio di metri e possono permettersi di
guardare i vicini e tutti i viventi dall'alto al basso.
Questi stupendi abeti che bucano il cielo, li abbiamo definiti i gendarmi
buoni della grande e meravigliosa montagna, che vigilano in continuazione
le valli sottostanti. Oltre che vigilare, rappresentano per
l'escursionista un punto di orientamento, ma soprattutto di riferimento.
E, infine, mai perdere la speranza! Un miracolo può sempre esserci. E'
tante volte c'è e come se c'è. Noi, l'abbiamo scoperto, salendo fin lassù,
dove il sole splendeva in quel paradiso bianco di neve, dove regnava una
pace celestiale. Ricordiamoci che il sole nasce ogni mattina e ogni sera
possiamo ammirare il meraviglioso tramonto pieno di luci e di colori. Non
bisogna mai perdere la speranza, perché la vita è piena di fragole buone
da gustare! Sempre e in ogni circostanza. Il poeta così scriveva del
tramontar del sole.
Il tramonto del sole
La sera cala silenziosa tra i monti.
I boschi d'abeti diventano neri, l'aria
Ed il cielo cambiano anch'essi colore,
Quasi per preparare una stupenda
Cornice all'Alpe che sta
Raccogliendo l'ultimo bacio del sole.
Concludiamo questo nostro viaggio, che più che un viaggio è una cavalcata
sulle bianche cime di questi favolosi giganti della montagna dolomitica,
dove il silenzio comincia col far chiudere le labbra e poi penetra fino al
profondo dell'anima, in queste regioni inaccessibili, dove Dio riposa con
noi in un alone di purezza.
Lassù al Cermis.
L'aria di gennaio era rarefatta,
I prati secchi e i larici malati,
Ma mancava qualche cosa lassù,
Mancava la neve!
Sul sentiero non sentivo più come un tempo.
Sotto i miei stanchi passi
Lo scricchiolio della neve gelata,
Ma per fortuna filtrava dai rami
Dei boschi un raggio di sole
Da quel lembo di cielo che scende verso l'uomo,
Che poi non è altro che l'essenza della vita.
Lungo week-end al Canyon del Verdon
Escursionismo
Il Drago Verde, quando la terra gioca. Pareti che si avvicinano tra loro
fino a toccarsi. Imponenti muraglie di roccia. Questo é il Gran Canyon du
Verdon.
Il mattino del 23 aprile 1995, nelle ore antelucane che precedono le prime
luci del giorno, la grande Valle Padana era immersa in una nebbia bassa
che offuscava, livellava e diminuiva la luminosità, la trasparenza di
quella luce chiara che precedeva l'aurora. I contrafforti del Passo del
Turchino non erano di meno. Sulla Valle Padana stagnava quella noiosa e
fastidiosa nebbia bassa, le balze dell'Appennino Ligure erano coperti di
nuvole nembi, basse e grigie, che coprivano inesorabilmente tutta la
regione e che non prometteva nulla di buono.
L'autostrada dei Fiori corre lungo le creste che si affacciano su vallate
scoscese, montagne quasi brulle, paesini arroccati sulle alture, che di
tanto in tanto, erano illuminati dai pochi raggi di sole che riusciva a
bucare le spesse nuvolaglie. Avevamo da poco superato i confini d'Italia e
delle alture di Eze, un villaggio medioevale arroccato su di una rupe, a
nord est della Costa Monegasca, il sole era alto nel cielo e illuminava la
città sottostante di Nizza; davanti a noi si apriva un paesaggio
suggestivo e meraviglioso. Quella splendida città è l'antica Nicarea,
fondata forse dai Focesi di Marsiglia tra il V e il III secolo a.C.
Occupata dai Romani (150 a.C) seguì le sorti della Provenza e fu occupata
dagli Arabi nel X secolo. Dal 1388 appartenne alla Casa Savoia.
La storia racconta che questa antica e bellissima città, fu saccheggiata
dai Turchi nel 1543, occupata dalla Francia nel 1792, ritornò a Vittorio
Emanuele I nel 1815 e fu ceduta alla Francia nel 1880.
Siamo giunti alle falde delle Alpi, passando per la città di Nizza,
inoltrandoci in quel entroterra ( che il termine francese di "
erriere-pays" rende meglio il senso di reame nascosto) spopolato,
roccioso, battuto dal vento pervaso anche di mille profumi e di incanti,
aspri e pure capaci d'improvvise dolcezze, che si chiama Provenza. La
strada risale un tavolato di calcare appena affiorante tra cespugli di
macchia mediterranea, uliveti, piante antropiche e ginestre fiorite.
Una prima sosta nella cittadina medioevale di Vance, per la colazione del
mattino, al sacco naturalmente. Dopo una breve visita al borgo antico e
alla sua chiesa romanica del XII secolo, il torpedone ha proseguito verso
Tourette sur loup, altro borgo medioevale barbicato su di un costone
roccioso. Subito dopo di questo piccolo ma caratteristico borgo,
raggiungiamo la cittadina di Grasse, che sorge sulle pendici. Delle Alpi
Marittime, la famosa città dei profumi.
Anche qui come negli altri villaggi che avevamo appena superati, ci siamo
fermati per una breve escursione alla cittadina. Abbiamo potuto ammirare
il museo dei profumi e la bellissima Cattedrale di stile gotico, del XIII
secolo, che conserva due meravigliose pale d'altare del Rubens
raffiguranti la deposizione di Cristo. Da Grasse, sotto un sole
splendente, la strada risale una collina con vegetazione lussureggiante e
rigogliosa di splendidi uliveti, ma ben presto questa vegetazione scopare,
per lasciare il posto ad un paesaggio brullo, un tavolato di calcare
appena affiorante tra cespugli di macchia mediterranea e di lavanda, e
poco dopo, raggiungiamo un altro bellissimo borgo antico di sapore
romanico, Castellane, seguendo le indicazioni per la " Corniche e la Palus",
eccoti al belvedere della rivelazione.
La porta d'ingresso del Verdon non poteva che chiamarsi Point Sublime e
manteneva le promesse. Da qui si vede il fiume scomparire in una gola
selvaggia, tuffandosi con un rombo di tuono nel primo dei 21 chilometri
delle gole. Castellane: antica città della tribù dei Suetri, poi gallo
romana, Castellane divenne nel V secolo, la sede di un vescovato. Nel IX
secolo le invasioni barbariche obbligarono gli abitanti a fortificare la
rocca ed a fondere " Pietra Castellana". Nel XIV secolo, per proteggersi
dai " Rutiers" briganti che saccheggiarono la Provenza, Castellane si
rinchiuse entro nuove mura.
Nel XVI secolo, le guerre di religione causarono nuovi disordini, tra
l'altro l'assedio da parte di Lestinguieres, nel gennaio 1586. In questa
cittadina piena di storia, abbiamo potuto visitare alcune vestigia molto
interessanti: La chiesa Sant-Victor ( monumento storico del XII secolo)
con campanile di stile lombardo. Il torrione pentagonale ( XIV secolo)
vestigio degli antichi baluardi. La torre campanaria dell'Orologio, a
bulbo, la fontana dei leoni e il ponte della rupe, a dosso, del XV secolo.
E' caratteristica la rupe che sovrasta la cittadina medioevale: un'enorme
roccia, sulla quale è costruita la cappella di Nostra Signora della Rupe,
domina la cittadina ed è visibile dall'altopiano della palude e dai
costoni del Verdon.
La storia di questa cittadina ci racconta, che la cappella, sormontata da
una grande statua, fu eretta nel 1703. Ai lati del Couloir Samson, le
pareti sono tagliate in verticale per centinaia di metri (80 nel punto più
profondo) e si avvicinano tra loro fino a 6 metri nella buia fenditura
dello " Stige". "Sembra che proprio qui", scrisse il geografo Reclus, "
Rolando abbia tagliato la montagna con la sua spada". Si può continuare
lungo la " Corniche, ma per ritrovare la vista del fiume bisogna fermarsi,
affacciarsi sul ciglio delle rocce, vincendo il senso di vuoto e la
vertigine.
Seguendo il percorso sulla nostra cartina geografica, ci accorgiamo che il
Verdon nasconde la propria identità sotto di quella di un anonimo fiume
prealpino. Misura solo 170 chilometri, dalle sorgenti del Col d'Allos alla
confluenza con la Durance, nel massiccio del Sestriere a 2150 metri.
Trattenuto dapprima dalle dighe idroelettriche di Castillon e Chandanne,
esso s'inabissa inseguito nelle gole fantastiche scavate nei calcari
giurassici attraverso preesistenti fenditure. Il tratto più spettacolare
è, appunto, situato tra Castellane e Maustiers Sante Maria là dove, quale
enorme sega, esso traccia i piani di Canyuers, offrendo un sito unico in
Europa, come affermano gli studiosi di geologia. Sulle sue pareti di
calcare, i geologi leggono tutta la storia delle Alpi. La roccia bianca,
nata dell'accumolo di miliardi di organismi marini e gusci calcarei,
costituiva 150 milioni di anni fa, nell'era dei dinosauri del Giurassico,
il fondo della
Teite, un antico mare Mediterraneo esteso dall'Europa al Tibet.
Apprendiamo dalla geologia che la pressione dell'Africa e della penisola
indiana, in deriva verso nord alla velocità di 5 chilometri l'anno, lo
strinsero in una morsa titanica, facendo affiorare a banchi rocciosi e
spingendoli sempre verso più verso l'alto, a formare intorno a 40 milioni
di anni fa l'Himalaya e le Alpi. Mentre l'altopiano della Provenza, dove
noi oggi ci troviamo, aveva sollevato, i corsi d'acqua erano costretti ad
approfondire sempre più il proprio alveo per continuare a scorrere.
La glacializzazione del Quaternario corazzarono di ghiaccio le rocce
alpine, ma i successivi disgeli incisero sempre di più con lo scalpello
dell'erosione. Nel caso del Verdon, alcuni geologi ritengono che le
alluvioni post glaciali, culminante due mila anni fa con il definitivo
ritiro dei grandi ghiacciai, abbiano completato l'opera di cesello. Il
budello inciso sul fondo delle gole del Verdon sarebbe stato, infatti,
approfondito dal crollo delle caverne che inghiottirono per un certo
periodo il corso del fiume.
Ne resta un esempio significativo nel ribollire sotterraneo dell'Imbut,
una strozzatura delle gole dove il Verdon ancora oggi si apre un varco a
fatica tra ciclopici massi crollati. Leggiamo su di una rivista illustrata
del Cai francese, un articolo su questo fiume, dove tra l'altro,
l'articolista così scrive: " Il Verdon si è guadagnato negli ultimi anni
un altro dei suoi primati. E' diventato il paradiso sportivo per gli
appassionati di Trekking, kayak e parapendio. Gli sport più spettacolari e
moderni trovano nel microcosmo rovesciato del Verdon un concentrato di
condizioni estreme. Sprofondati nelle rapide vorticose si cimentano
canoisti in cerca di emozioni e di brivido".
E' d'obbligo il paragone con il Gran Canyon, ma non gli rende del tutto
giustizia. Perché se non può rivaleggiare con il capolavoro geologico del
Colorado per misure e varietà di stratificazione, il Canyon più
spettacolare e profondo delle Alpi vanta molti altri primati. Il colore
del fiume che lo ha creato innanzitutto un mix unico di giada, smeraldo e
acquamarina che i francesi hanno tradotto in un nome semplice ma
eloquente: Verdon. E poi, quella sorprendente miscela di contraddizioni e
di stimoli che, a due passi della Costa Azzurra e del profondo del mare
portato dal mistral, vento e anima della Provenza, crea un ambiente
Dolomitico orientato verso il basso.
Sul fondo delle gole del Verdon, abbiamo visto, oltre alle meraviglie
rovesciate di calcare alte oltre 700 metri, che culminano in vette
surreali attraversate da nuvole di spuma vaporizzata e da squarci
verdi-azzurri, una vegetazione lussureggiante e una flora meravigliosa.
Un paesaggio lunare, irreale, forme tormentate, gole profonde.
Dal borgo medioevale di Castellane, raggiungiamo la baita della Maline,
punto di partenza o d'arrivo del sentiero Martel, attraversando
l'altopiano de la Palud coperta dalla macchia mediterranea, da campi di
lavanda: è una pianta selvaggia ci cresce rigogliosa nelle montagne
provenzali. Sembra che dall'inizio del nostro secolo essa è coltivata
sugli altopiani in sostituzione delle culture cerealiere.
In questa località di altura, si apre il Canyon del Verdon. Il tratto più
emozionante, per noi " caini" mantovani, inizia dalla baita delle Maline.
In questo rifugio siamo stati ospiti dal Cai Francese, per il nostro
Week-end a cavallo della festa della liberazione. Alle ore 8 del 24
aprile, abbiamo iniziato la nostra lunga escursione nel grande Canyon del
Verdon. Il sentiero scende rapido a tornanti al di sotto della baita della
Maline e passa il precipizio di Charencon. Una scalinata ci permette di
oltrepassare la barra rocciosa del Passo d'Issane. Da questo punto si può
godere una vista notevole sul passo dell'Estelliè. Dopo un cumulo di rocce
franate ed un boschetto di querce e bossi, abbiamo raggiunto il fondo
della gola, a circa 40 metri al disotto del Verdon. Risaliamo il fiume,
percorrendo un sentiero che costeggia il fondo delle gole: A tratti, il
paesaggio è ristretto ed impressionante, è dominato da falesie di 300
metri. La gola s'allarga ed il sentiero srotola verso la scarpata sino
all'enorme Grotta dei Buoi ( ideale per un bivacco). Proseguiamo la nostra
escursione sul greto del grande fiume, seguiti a vista, ora da Carletto
Borghi, ora da Missora e nella parte finale dal nostro presidente Sandro
Zanellini, che scorre tra le pareti rocciose delle sfumature grigio e ocra
dove si aprono grotte immense come la Baume aux Boeufs. Verso la Mescola
l'Artuby mischia le sue acque con quelle del Verdon, attorno alla parete
della forma di dinosauro, regno dei falchi pellegrini, aquile reali,
scoiattoli. Dopo di aver superato una serie di scale metalliche molto
pericolose, situate in un canalone a strapiombo, di 252 gradini dalle
rapide Brache Imbut ritorniamo sulla riva del Canyon. Dopo questo
tragitto, veramente notevole, il sentiero penetra in una lunga fila di
grotte selvagge ove, pare, si rifugiavano tipi poco raccomandabili. Dopo
la grotta delle rondini, incontriamo quella del cane, dove la pista
costeggia la via d'acqua del Verdon. Dopo 2 chilometri di foresta
verdeggiante, siamo giunti al Chaos di Trescare, dominato da due torri di
aspetto dolomitico. Il sentiero giunge ai due tunnel. All'uscita del
primo, detto di trescare che è lungo 100 metri, s'intravede il
restringimento delle gole formanti il canalone Sanson. Nel seguente, il
tunnel del Baou lungo 670 metri, numerose aperture offrono una vista a
strapiombo sul Canalone Samson. Dalla prima apertura scendeva una
scalinata sino alla grotta dei Piccioni. Le pareti verticali del canalone
ricordano le gigantesche colonne del Tempio che Sansone distrusse grazie
alla forza della sua capigliatura.
All'uscita del tunnel del Boau una scalinata scende al Verdon: Vi si trova
a sinistra il sentiero del Baou che risale la sponda destra del torrente,
per mezzo del quale abbiamo raggiunto la strada della Palud ( la D. 955)
Dopo la passerella, abbiamo superato un leggero pendio che porta al punto
d'arrivo del Belvedere Samson. Su questo balcone panoramico, doveva
esserci ad attenderci il nostro pullman, ma siamo arrivati prima noi. Dopo
8 ore di marcia, la comitiva dei caini mantovani, emergeva dal labirinto
del Verdon, " il più americano dei Canyon del vecchio continente".
E' un monumento alla storia geologica dell'Europa e della catena alpina,
le gole del Verdon conservano però tracce di un passato storico più
recente. Nelle numerose grotte, che abbiamo incontrato nel corso del
nostro itinerario, affacciate sul corso del fiume si stanziarono per primi
i cacciatori del Mesolitico, antenati dei Liguri e dei Reii, di ernia
celtica, che dalla capitale di Riez governavano la Provenza secoli prima
che i Romani fondassero Salinae, l'antica Castellane.
Per il mattino di lunedì vi era in programma un'altra escursione: il
percorso alpinistico del secondo tratto del Canyon denominato "Imbut",
riservato ai più esperti. L'Imbut è il sentiero più emozionante, preferito
dagli avventurosi. Uno dei punti più spettacolari è l'arrivo, un canyon
angusto in cui il fiume si inoltra, sotto il sentiero scavato nella
roccia. Superato lo Stige, appare l'Imbut, (imbuto) la Cattedrale del
Verdon: il fiume gonfio scompare sotto enormi blocchi di pietra.
Questa escursione, dato il cattivo tempo, non è stata effettuata, è
rimasta soltanto scritta sul programma e soprattutto nel cuore degli amici
che avrebbero voluto cimentarsi in questa difficile, emozionante e
pericolosa escursione. Questo nostro Week-end primaverile ci ha portati in
quel mondo fantastico del Canyon del Drago Verde, ove sfumano i confini
tra la realtà e l'immaginazione. Lo scrittore francese Joan Giano, così
scriveva del Verdon:
"Nulla di più romantico dell'armonia di queste rocce ed abissi, di queste
acque verdi ed ombre di porpora, del cielo comparabile al mare omerico e
di questo vento che parla con la voce della divinità morte….".
LA PROVENZA
La partenza per il ritorno a Mantova è stata anticipata. Siamo partiti
dalla Baita della Maline, alle ore 10 circa, puntando dritti verso la
città di Grasse. Abbiamo attraversato la Provenza, una regione bellissima
della Francia sud orientale compresa tra il Delfinato, il Rodano, le Alpi
e il mare Mediterraneo. E' distinta in Alta e Bassa Provenza e Provenza
Cristallina. E' una regione montuosa, è poco fertile e coperta in
prevalenza da pascoli. Il territorio è attraversato da corsi d'acqua che
formano profonde e aride gole come il Gran Canyon del Verdon, che abbiamo
appena percorso in tutto la sua selvaggia bellezza, sono presenti rocce
vulcaniche che formano il gruppo dell'Esterel. Da Grasse percorriamo la
S.P. 85, che in breve tempo, ci porta alla bellissima città di Cannes,
sulla Costa Azzurra. La città dove si svolge l'annuale festival del
cinema, centro climatico e balneare internazionale.
Il litorale, specie oggi, che è illuminato da un sole primaverile,
splendente, dove è fiorente la coltivazione dei fiori, si produce l'uva e
l'ulivo. La storia racconta che questa regione in epoche preistoriche fu
colonizzata dai Fenici e dai Greci verso il VII secolo a.C. e fu occupata
dai Romani nel 122 a.C. e fu da loro chiamata " Provenza" in senso lato e
durante l'epoca imperiale appartenne alla Gallia Nardonensis. Fu invasa
dai Visigoti, Brugonoli e Ostrogoti ai quali succedettero i Franchi. Più
volte insidiata sulla costa dagli arabi. Passò quindi al Sacro Romano
Impero nell'XI secolo, infine alla Corona di Francia nel 1486.
Dal secolo XI al XIII vi affiora la letteratura in lingua d'oc, quando la
crociata degli Albigesi segnò la decadenza economica e amministrativa
della regione.
Questa lingua comprendi dialetti della Provenza, della Linguadoca, della
Guascogna, del Parigar, del Limosino e dall'Avernia, oggi sopraffatti
dalla diffusione del francese. Come lingua letteraria il provenzale è
documentato dall'inizio del XII secolo. Dopo due secoli di grande
splendore, soprattutto per la poesia trovadorica, con il secolo XIV il
provenzale comincia a essere sostituito, come lingua letteraria, culturale
e poi anche amministrativa, dal francese, ne segna la definitiva
decadenza. Dalla letteratura provenzale fiorita come poesia dai trovatori,
rimangono documenti letterari e musicali. La poesia provenzale ebbe vasta
diffusione nelle varie nazioni d'Europa, e specialmente in Italia, dove le
Corti del Monferrato, di Savoia, di Lunigiana, di Ferrara, di Verona, di
Padova, di Mantova, e altre ancora, accolsero i trovatori e li protessero.
Furono numerosi i trovatori italiani nel secolo XIII: il più famoso, anche
per merito dell'episodio dantesco ( Purgatorio, VI), è Bordello, accanto
al quale hanno posto Lanfranco Cigala, Percivalle Doria, Rambertino
Buvolelli. Tutte queste divagazioni, non sono altro che reminiscenze
scolastiche, che richiamano alla nostra mente cose che parevano
completamente cancellate, ma che ancora sono presenti nella nostra
memoria. Lasciamo la storia e la letteratura del passato, che sono la luce
del nostro presente, e ritorniamo ai nostri giorni, alle nostre escursioni
con gli amici del Cai, per noi che amiamo profondamente la natura e le
nostre meravigliose montagne, che è qualcosa di indispensabile.
Esso, infatti, tra l'altro, crea cultura e consente uno scambio tra uomini
che altrimenti non si conoscerebbero e diffondere in tale modo uno stile
di vita. Chi ha tendenza verso la natura attraverso il Cai riesce ad avere
canali unici per conoscere individui che hanno la medesima tendenza.
Camminando ci siamo accorti che, indipendentemente dalla professione che
ciascuno svolge, si hanno gli stessi sentimenti, si hanno delle comunanze
tematiche. E poi il Cai non è come le tipiche associazioni culturali dove
si va ad ascoltare conferenze e tutto, in pratica, finisce l'. Abbiamo
compreso che con questo sodalizio camminasse, si suda, si dorme nei rifugi
senza alcuna comodità, come in quello della "Baita della Maline"- dove la
comitiva ha dormito in promiscuità su di un grande tavolaccio e un panino
si divide in tante porzioni, si sta con i giovani. Non c'è differenza tra
vecchi, giovani ed anziani. Si vive un'atmosfera che consente all'anziano
di vivere i tempi lontani ed al giovane di stare con l'anziano e già
prefigurarsi il suo futuro.
Tutto questo affina lo spirito ed abitua u giovani ad avere sempre il
culto della natura. Questo lungo e faticoso itinerario, storico, culturale
e soprattutto naturalistico, sia pure per un Week-end, ci ha messo in
contatto immediato con quella natura aspra, selvaggia e meravigliosa, in
quella antica terra che si chiama Provenza, dove germoglia la lavanda: una
pianta selvaggia che cresce spontanea sulla montagne. Dall'inizio del
nostro secolo essa è coltivata sugli altipiani in sostituzione delle
culture cerealicole. Oggigiorno numerosi coltivatori s'orientano verso la
cultura delle nuove ibride, più redditizio, il " lavandin", una pianta
molto profumata e dell'industria é ricercata.
APRILE.
Sulle montagne provenzale,
In questa nicchia ecologica
Fioriscono le lavande profumate
Le rose e le mimose.
E il folletto se ne va per la montagna
Sulle sue pupille porta l'amore
come
L'azzurro porta il cielo.
E intanto che sgroppa dal monte
La valanga
E che s'imperla il ghiaccio
Di gocce, di mille gocce
Che fanno i fiotti
E poi i torrenti
Via tra sbalzi
E un fluir
Di strani scrosci,
Tornando ognora più limpide
Al gioco tra il sasso
Sulla lucente vernice
Della primavera,
Quando gli versa
Il pianto del monte
Che dà più smania
Alla ninfa della valle.
Corsa intrepida io sono:
Ti apro il ciel
Al pianto
Delle stelle;
Il cielo ti sospendo al fiore.
All'acqua fino in fondo,
Al pane che rompi in mano,
All'occhio che vede più lontano.
E intanto che par che tu dorma,
Or sento che ora della veglia)
Faccio che il gallo
Empia d'orgoglio
Il suo canto.
Or già sì presto
Pur tu mi vai cercando?
Statua più bella giammai non sei:
Via sui piedi i ginocchi e gli omeri,
Arcuando le braccia,
Più in alto le mani,
Le dita più in ancor.
Ma pur la mia sorgente
È più grossa il mattino:
Ti riempio la tua brocca;
Al più piccino intanto
Affonda la culla
Che sia più morbida,
Mentre il Verdon
S'ingrossa e nella montagna che
Sempre più sprofonda.
Ecologia e ambiente: Ricordi della verde età
Alcuni anni fa ho letto sulla rivista " Il Carabiniere", un articolo molto
bello e significativo sullo stato attuale dell'ecologia e dell'ambiente.
Un articolo che mi ha fatto riflettere e nello stesso tempo mi ha
riportato indietro nel tempo, nell'età della mia fanciullezza.
L'articolista denunciava l'era consumistica, il miracolo economico e
l'evento delle macchine, dei mangimi, dei diserbanti e quindi delle grandi
fabbriche, le condizioni dei quartieri intorno al cuore delle grandi
città. Possiamo dire che da quel tempo ad oggi, non è cambiato nulla,
anzi, possiamo affermare che è tutto peggiorato.
Abbiamo creduto molto nel benessere, si, siamo convinti che il meglio lo
avremmo avuto dell'industria, dell'urbanizzazione, dall'automobile,
affidando la terra, la vecchia terra, la cara sorella terra alla
tecnologia e alla chimica. Ma lungo il percorso ci siamo accorti che il
nostro efficientissimo tecnologico partoriva altre forme di disagio e di
inquietudine: aria tossica ed irrespirabili, case come prigioni, traffico
caotico, acqua inquinata, fiumi e mare allo stremo della vivibilità. Con
l'andare del tempo, in questo nostro mondo consumistico, abbiamo creato
benessere, ma anche montagne di rifiuti non distruttibili e sempre più
pericolosi, insomma a nostre spese ci siamo accorti che stiamo uccidendo
l'ambiente, la qualità della nostra stessa vita.
L'articolo incomincia con queste parole: " Chi, cosa ci sta rubando, una
ad una l'immagine concreta del nostro ieri?".
La domanda mi porta indietro nella mia verde età e mi fa rivivere gli anni
più belli della mia fanciullezza, trascorsi nel piccolo e meraviglioso
borgo aspromontano. Ricordo che la fauna di quella regione era un binomio
perfetto in relazione all'ambiente e quindi in equilibrio con le
condizioni fisiche e naturali che regolano la vita umana. All'estremità
meridionale dell'Appennino calabrese, a quota 400 metri sul livello del
mare, prospiciente il Golfo di Gioia Tauro, alle pendici dei piani
dell'Aspromonte, sorge il paese dove sono nato. In questa, chiamiamola
così, piccola penisola o se vogliamo prolungamento di un dosso o piccolo
piano che emerge sulla zona circostante, affascinante per la bellezza dei
luoghi, che sembra un grandioso e meraviglioso parco naturale, percorso
dalla SS. Nr 28 delle Gambarie, fra una rigogliosa e lussureggiante
vegetazione di uliveti, boschi, castagneti cedui, vigneti e mastodontiche
querce, è ubicato il piccolo e pittoresco villaggio aspromontano che si
chiama appunto Cosoleto.
E' un paese prettamente agricolo, che in fondo non è che una strada, tutta
una lunga strada ordinata e abbellita di qualche palazzotto di nobile
casato e di tante dignitose casette a schiera, un'attaccata all'altra che
formano la continuità della strada, interrotte di tanto in tanto dalle
stradine o dai vicoli laterali.
Si apriva, il nostro paese, per chi giungeva dalla SS. Nr, 28 dalle
Gambarie, proveniente da Bagnara, quest'ultima amena località turistica,
posta sulla riva di quel meraviglioso mare chiamato della " costa viola",
per la trasparenza e limpidezza del suo mare magnifico, alla "Fontanina"
da dove aveva inizio quella lunga strada che era il Corso Garibaldi e
portava al centro del borgo, mentre sulla sinistra, aveva inizio la
Provinciale che portava nella grande pianura della " Piana", quindi nel
Golfo di Gioia Tauro.
La Statale nr, 28 delle Gambarie, prosegue per il paese di Delianova e
quindi, dopo aver superato l'Appennino, discende verso il mare Ionio.
Quella strada lunga che attraversava, anzi tagliava in due il paese, era
il corso, che finiva in fondo al paese stesso nella bella Piazza Toselli,
con il municipio, il monumento ai caduti e sul lato sinistro, in principio
della Piazza, la bella fontana di marmo bianco di Carrara, in stile
barocco, che è un vero monumento, oltre che una fontana che fornisce
l'acqua corrente al paese e fa dissetare i viandanti.
Il paese termina più a valle, in un agglomerato di modeste casette, in
fondo si trova il rione delle case popolari e quindi gli orti che scendono
gradatamente verso il pendio, fino a raggiungere il torrente.
Il mio ricordo va, oltre che il paese in se stesso, che ho appena
descritto a grandi linee, alla meravigliosa fontana- monumento, perché era
realtà quella acqua cristallina che sgorgava fresca, gorgogliante, come
quella delle altre fontane dei rioni. Filtrava tra le dita, mentre noi
bambini imbevevamo nel cavo delle mani, gli occhi socchiusi, tutti i sensi
sospesi a quel momento liquido di goloso piacere.
Ricordo inoltre che noi ragazzi, specie nel periodo estivo, camminavamo
lungo il torrente "Mundo" che scorreva a valle del paese e bello era
specchiarsi nelle sue acque limpide, il senso del solenne del suo cammino
dove la luce scherzava nel guizzo rapido di pesci.
Il paese era immerso nei boschi. C'era l'ombra verde, amica di secolari e
mastodontici castagni e uliveti, piantagioni di ficheti e il concerto
allegro delle cicale e delle raganelle, oppure l'altra più soffice,
profumata sui corridoi misteriosi delle abetaie dell'Aspromonte, che ad un
tratto s'aprivano sulla pianura, anzi sull'altopiano delle Gambarie,
ondeggiante delle spighe di segale, dal fusto lungo e sottile, agli
immensi campi coltivati a patate. Ovunque fossi andato, sia in collina che
in montagna, trovavi sempre colori, odori, sapori di una natura materna,
quel senso di meraviglia e di armonia d'innanzi al rosso dei campi di
papaveri. Percorrevi pochi chilometri e raggiungevi la costa Viola, ove
potevi ammirare l'azzurro del mare e il tenero bianco di spiaggette
limpide bagnate da acque di smeraldo.
Era una vera festa, quando nevicava, specie per noi ragazzi, come del
resto lo è tuttora. Allora la neve era bianca e la pioggia solo acqua
piovana che faceva bene alla terra e spesso nelle piccole pozze in mezzo
ai campi, uomini ed animali ne approfittavano per dissetarsi.
Non ho più mangiato quella neve bianca nel bicchiere, come la mangiavo
allora. Oggi tutto questo è un sogno. La pioggia è diventata acida e fa
seccare le piante e gli uomini e gli animali non possono più dissetarsi
nelle piccole pozze in mezzo ai campi perché rischiano di rimanere
intossicati. Siamo perfettamente convinti che tutto questo stato di cose
offende la natura, il nostro ambiente, umilia la vita e non lascia spazio
al domani. Sono in pericolo tutto specie quelle cose che sino a ieri
chiamavamo "sorelle", ma gli ecologisti e gli ambientalisti affermano che
siamo ancora in tempo per riportare tutto alle nostre dimensioni di
uomini.
Addio piccolo borgo Aspromontano, addio aria pura che ho respirato a pieni
polmoni, all'acqua cristallina che sgorgava fresca, gorgogliante dalle tue
fontane e fontanelle. Se vogliamo salvare quello che ancora c'è da
salvare, l'imperativo è categorico, non esclude nessuno e il lavoro è
tanto, così dicono le associazioni ambientaliste, ma possiamo aspettare
oltre, se vogliamo che anche i nostri nipoti, i figli dei nostri figli e
le generazioni future vedano e raccolgono margherite nei campi di grano,
che fiumi e mari vivono, che uccelli volino e che si possa chiamare
"madre" la Terra.
Speriamo che tutto questo non sia soltanto pura immaginazione, un sogno
utopistico. Il resto è solo un ricordo della verde età.
TERRA, PROSA E POESIA.
Una cosa il dirla perché si sa;
Un'altra il dirla perché si fa.
La prima è l'imbuto,
Una fiasca è l'altra
Che tiene il vino
E lo rinserra.
Questa è la terra che rifiuta la guerra
Senza tutta la carta straccia
Che critica e scarta,
Così come la prosa,
Infedele sua sposa.
La poesia è la terra
Senza la melma e senza
La carta che critica e scarta,
Così come la prosa,
Infedele sua sposa.
La poesia è la terra,
La madre terra che dà quello che ha
E far male mai non sa.
Non si mette il cappello, perché è
Nata nel fiore che nel sole cerca l'amore.
"Mi faccio piccolina:
Sono nata bambina, non so chiacchierona,
Nemmeno una burlona,
Non mi cresce il baffo né so dare lo schiaffo.
Perché tanta insolenza?
Prosa povera sposa,
Troppo fai la volgare
In quel tuo parlare".
Il viaggio nel Lago d'Iseo.
Lasciamo la brumosa Valle Padana, che non è la regione dei colori velati dalla
nebbia, ma è un susseguirsi di panorami incantevoli e sensazioni suggestive,
quasi al limite dell'irreale e ci avviciniamo tra le colline moreniche e i
verdeggianti vigneti della Franciacorta, dove si erge nella sua grandiosa
bellezza Palazzolo Torri splendida dimora fortificata del Seicento, che per la
prima volta apre i propri battenti al pubblico dopo importanti lavori di
restauro che hanno restituito all'antico splendore gli interni del palazzo e lo
scenografico salone di rappresentanza. La residenza dei Torri, restaurata da
Alessandro Torri, fu denominata "Villa di delizie", in quanto sul finire
dell'Ottocento fu sede di uno dei circoli letterari e artistici più attivi del
bresciano. Frequentatori di questo importante cenacolo culturale furono
scrittori e poeti come Antonio Fogazzaro, Giovanni Pascoli e Giosuè Carducci,
l'editore Zanichelli, lo scultore Trantacoste, i pittori Michetti, Haberman e
Lembach, il Vescovo Bonomelli e quasi tutti gli uomini di cultura del tempo. Nel
giardino che circonda la villa si possono ammirare piante plurisecolari come lo
splendido cedro del Libano, per riposare poi lo sguardo sulla sconfinata
campagna ricca di vigneti che circonda questo antico palazzo ricco di storia e
tradizione. Palazzo Torri è ancora oggi centro di attività culturali grazie
all'iniziativa dell'Associazione Culturale Cortefranca.
Basta che attraversi la lunga galleria stradale che attraversa le colline
moreniche, lasciando alle spalle le valli brumose bresciane, con i lunghi filari
dei vigneti, dove si produce il prezioso nettare della " Franciacorta" e ti
accorgi subito che stai entrando in un'altra dimensione che si chiama paradiso
terrestre. Appena uscito dalla galleria, una luce splendente e quasi accecante,
ha investito i nostri occhi e ci è apparso un mondo diverso, un mondo bellissimo
fatto di colori meravigliosi. Gli argentei ulivi, le magnolie, le rose confusi
in un insieme di sublime bellezza, offrono al Lago d'Iseo un incomparabile
spettacolo. Giungendovi per la prima volta, si ha l'impressione di essere
elevati in un mondo dove non regna che la poesia. Quasi senza avvedersene sale
dal cuore alle labbra una parola che è ringraziamento e preghiera:
ringraziamento al Divino Artista per la dolce profusione dei migliori tesori
della Sua tavolozza, preghiera a Lui perché eterni nell'anima il ricordo della
grandiosa visione.
Il pesante torpedone che trasporta l'allegra brigata degli escursionisti del CAI
di Mantova, attraversa una parte del lungo lago e si va a fermare nell'apposito
parcheggio che è vicino all'imbarcadero dove ci imbarchiamo sul traghetto per
Montisola. Questa grande isola in mezzo al lago è considerata la perla del lago
d'Iseo. Uno dei luoghi più ambiti e frequentati del lago durante i mesi estivi.
E' la più grande isola lacustre d'Europa. I collegamenti sono assicurati
giornalmente da tutte le altre località del lago. Ai turisti è consentita solo
la circolazione con biciclette o a piedi. Noi del CAI non abbiamo bisogno di
altri mezzi di locomozione oltre alle nostre gambe. Appena sbarcati, dopo la
pausa caffè nei piccoli Bar del borgo antico, inizia la nostra lunga e
meravigliosa passeggiata lungo la strada asfaltata, con la quale si può
effettuare il periplo di Montisola. Ad un certo punto, abbiamo lasciato la
strada comunale e su di un comodo sentiero abbiamo iniziato la nostra escursione
verso la cima. La massima altitudine di questa isola-montagna che sorge rocciosa
dalle acque per culminare con il santuario della Seriola, splendido punto
panoramico per la veduta del lago e delle Prealpi bergamasche. Di lassù si
ammira un paesaggio grandioso e bellissimo, dove l'occhio si perde fra lo
scenario delle bellissime montagne che delimitano il lago. Questo Santuario, è
meta di un continuo pellegrinaggio di fedeli, ma anche di escursionisti che si
vogliono misurare con la ripida e faticosa salita che conduce appunto alla cima
dove sorge la piccola e bianca chiesetta.
A Montisola, con Adriana mia moglie, ci siamo ritornati più volte, per godere di
quello stupendo paesaggio e passo dopo passo, siamo anche arrivati fino alla
cima. Non eravamo da soli, perché a Montisola, per la sua meravigliosa bellezza
non si è mai soli, vi è un continuo via vai di turisti, per ammirare e godere di
quella bellezza paesaggistica e soprattutto del suo dolce clima lacustre.
Dopo di aver scoperto Montisola, abbiamo scoperto anche le crociere sul Lago
d'Iseo che ci hanno fatto vivere momenti indimenticabili con
il Tour delle tre Isole che ci hanno condotti, in meno di due ore, alla scoperta
del fascino nascosto delle tre isole del Sebino: Montisola, Isola di S. Paolo ed
Isola di Loreto. Ricordo che con la "Crociere del Giovedì" abbiamo trascorso
un'intera giornata sul lago fra ampi panorami, acqua e sole. Una simpatica guida
ci ha accompagnato nella visita dei borghi più belli, alla ricerca degli angoli
più suggestivi; abbiamo anche curiosare fra le bancarelle di un mercato
all'aperto e abbiamo gustato i piatti tipici di un ristorante convenzionato.
La Riserva Naturale delle Torbiere del Sebino.
In quella occasione, sulla sponda meridionale del lago ci siamo fermati a
visitare la riserva naturale che ha un'estensione di 360 ettari. Quelle è
appunto la Riserva naturale delle Torbiere del Sebino, una zona umida, composta
di canneti e specchi d'acqua, raggiungibile da Iseo seguendo la provinciale per
Provaglio. Una visita a questo luogo è d'obbligo, naturalmente facendo ben
attenzione a non spaventare gli animali, che qua vivono in assoluta libertà.
L'area è considerata uno dei più importanti paradisi europei del bird-watching,
infatti, come ci ha spiegato la nostra guida, vi nidificano 17 specie di
uccelli, come la cannaiola, il cannareccio, il tuffetto, il tarabusino, il
porciglione, il migliarino di palude, la cannaiola verdognola, la salciaiola, la
marzaiola, il voltolino, il cuculo, la forapaglie, il pendolino, la folaga, il
germano reale, la gallinella d'acqua, l'usignolo di fiume ed altre specie
migratori. In questi ultimi anni, si sono visti anche i gabbiani e gli
aironi grigi.
Nelle acque delle torbiere del sebino sono presenti i lucci, il pesce gatto,
l'anguilla, il persico reale, la carpa, la tinca, l'arborella ecc.ecc. Nella
torbiera è notevole la vegetazione: sulla riva abbondano i canneti, i giunchi di
palude e le cannucce, non mancano grandi alberi come il pioppo o gli ontani.
Sugli specchi d'acqua, invece, galleggiano le bellissime ninfee. Da notare
all'ingresso del parco una fontana del XVII secolo, nei lontani tempi era
utilizzata come lavatoio pubblico. Da lei sgorga acqua freschissima proveniente
dalla rupe della Madonna del Corno. A poche centinaia di metri, in posizione
dominante le torbiere si trova il Monastero di S. Pietro in Lamosa dell'XI
secolo, al cui interno vi sono affreschi del XIV, XV, XUI secolo.
Il nostro è stato un viaggio nel cielo, voli di folaghe e gabbiani grigi dal
becco rosso, come quelli che abbiamo visto volare sul mare di Portofino.
Nell'acqua, carpe tra le ninfee. Gli abitanti del luogo, lo chiamano " il
paesaggio delle torbiere dei mille stagni" delle meraviglie naturali nel cuore
del lago d'Iseo. Da quel punto, inizia il lungo percorso del fiume Oglio che
attraversa una parte della Pianura Padana e dopo di aver bagnato il borgo antico
di Gazzuolo, si getta nel grande fiume Po.
La parte dello stagno dove inizia il fiume Oglio, è un vero paradiso esplorato
dagli uccelli. Al sole di giugno, pigola, scintilla… D'improvviso si sentono
gracchiare i gabbiani infuriati che straziano il cielo con continui richiami.
Dopo l'inferno, ritorna la pace. Ci incamminiamo sul piccolo sentiero che sfiora
la palude e più avanti, vediamo accucciato sulla tela cerata dell'appostamento,
probabilmente di un cacciatore di frodo, un pescatore di lucci e di carpe che si
lascia portare dolcemente alla deriva, come un invisibile mostro in mezzo alle
ninfee, le canne e le salicali. Appiattito sul ventre, immerso fino a quasi
confondersi con la vegetazione palustre, vicino a un turbinio di bolle
nell'acqua fetida dove sfiorano squadriglie di uccelli acquatici, una di loro,
ebbra di gioia o forse spaventata, si lancia pedalando con tutta la sua agilità
tanto che sembra un fuoribordo. Il pescatore così nascosto raggiunge infine il
centro della palude, dove è concentrata la fitta vegetazione, le fortezze erbose
dei gabbiani grigi dal becco rosso. Più avanti una famiglia di folaghe e
gallinelle d'acqua, nuotano in fila indiana. Visti da vicino, con il loro
piumaggio color caffè, delicatamente sfumata, Sopra il mio naso, alcuni uccelli
acquatici mi sorvolano senza notarmi, mostrando le zampe scarlatte. Quasi in
fondo alla Torbiera, si notano tracce di antiche e rustiche costruzioni,
probabilmente lasciati dai frati del vicino Monastero di S. Pietro in Lumosa,
che durante la Quaresima questi buon gustai e i loro fedeli amavano mangiare del
buon pesce fresco. Sicuramente erano delle rudimentali vasche, dove entravano i
girini dei lucci e delle carpe e presto diventavano adulti e pronti ad essere
cucinati e serviti ai confratelli del Monastero.
Lasciamo la Torbiera con gli stagni, che tutto l'insieme che formano il paradiso
terrestre delle meraviglie naturali e veniamo a parlare della sua storia. Il
lago d'Iseo è collocato nella zona di cerniera tra la pianura padana e le Alpi
Meridionali (o Prealpi). I rilievi maggiori sono il monte Bronzone (1334 m), i
monti Guglielmo (1949 m) e Punta Almana (1391 ). Le rocce che affiorano sul
territorio sono in prevalenze sedimentarie e la maggior parte sono di ambiente
marino o di ambiente di transizione tra mare e terra. Solo un paio di formazioni
più antiche mostrano un'origine continentale.
Il solco della Valcamonica, che si prolunga nella conca del Sebino, seziona
questi affioramenti mettendoli a nudo: quelli paleozoici presenti nella parte
settentrionale del lago, a Rogno ed a Pisogne, quelli mesozoici in
corrispondenza delle più basse increspature montuose del bacino.
Il settore sebino delle Alpi Meridionali presenta una sequenza di pieghe dove
gli strati rocciosi appaiono alternativamente piegati verso l'alto (pieghe
anticlinali) e verso il basso (pieghe sinclinali). Gli stessi sforzi tettonici
che hanno generato le pieghe hanno in alcuni casi determinato sovrascorrimenti
di giganteschi pacchi di strati i cui esempi più eloquenti si possono osservare
nel M.Bronzone e nei Vasti di Predore.
Nel Miocene si è avuta la fase più intensa dell'orogenesi alpina che ha
determinato l'assetto dei rilievi del Sebino, definendo le sue montagne e le sue
valli più importanti.
Nel Pliocene, 5-6 milioni di anni or sono, il livello del Mediterraneo si
abbassò di 2-3 km, a causa dell'interruzione del collegamento con l'Atlantico.
In conseguenza di ciò i fiumi alpini vennero a trovarsi ad un livello più alto
rispetto al mare e quindi accrebbero la loro attività erosiva; anche l'Oglio
cominciò ad approfondire il suo letto. Ristabilito il collegamento, il mare
tornò a salire di livello e ad avanzare trasformando il territorio del Sebino in
un profondo "fiordo". L'Oglio, col continuo apporto di detriti, iniziò a colmare
il profondo solco vallivo con centinaia di metri di sedimenti alluvionali.
Anche l'escavazione glaciale ha contribuito alla formazione del lago. In
particolare l'ultima lingua glaciale camuna, ancora presente diecimila anni or
sono, ha prodotto l'abrasione delle rocce, il trasporto e la sedimentazione di
depositi grossolani e di massi erratici ed ha levigato e assottigliato i fianchi
rocciosi. In seguito a quest'ultima azione le valli laterali sono rimaste
"sospese" sulla valle principale, tanto che le loro acque giungono dritte al
lago attraverso cascate.
I ghiacciai depositavano sulle pendici meno impervie del bacino lacustre enormi
quantità di detriti particolarmente evidenti sul versante bresciano del Sebino,
tra Sale Marasino ed Iseo, dove tali depositi furono conformati in balze. Sulla
fronte del ghiacciaio i detriti si disponevano in cordoni ed archi morenici come
fu particolarmente evidente nella zona chiamata Franciacorta.
Con il ritiro dei ghiacci, in prossimità del lago si sono formate estese paludi
ricche di vita biologica che erano ancora presenti in età preistorica. Quegli
ambienti umidi sono oggi conosciuti come le "Torbiere del Sebino".
L'azione carsica ha agito e continua ad agire sulla forma dei rilievi. Le acque
meteoriche hanno aggredito chimicamente le rocce prevalentemente carbonatiche
delle montagne formando doline, inghiottitoi e sprofondamenti. I fenomeni
carsici agiscono anche in profondità creando e ampliando numerose grotte su
entrambe le sponde del lago. L'acqua ha modellato anche la superficie delle
rocce, creando un fantasioso campionario di forme erosive come le piramidi di
erosione più note come fate di pietra che caratterizzano il paesaggio naturale
del paese di Zone. Questo é uno dei luoghi più ambiti e frequentanti del lago
durante i mesi estivi, è una tappa per i visitatori sul lago d'Iseo, lo
spettacolo è unico e vanta pochi esempi al mondo. In località Cislano di Zone,
raggiungibili da Marone, l'azione corrosiva dell'acqua a contatto col terreno
morenico della montagna, ha modellato questo territorio creando delle piramidi
sulle cui sommità sono poggiati.
Il lago d'Iseo con i suoi 62 chilometri quadrati d'estensione offre al
visitatore paesaggi estremamente variati: le sue rive scendono, fiorite di
ridenti paesi in un'idillica vegetazione oppure si ergono in aspri desolati
strapiombi di rocce; la georgica serenità di taluni villaggi che paiono creati
per apparire al turista aescursionista un tranquillo e raccolto asilo in riva al
lago, trova contrasto nell'intenso traffico che dirama dai vari borghi
industriali siti sulle sue rive. Concludendo diciamo, che il Lago d'Iseo ha una
bellezza tutta sua, pensosa e romantica. Il Garda ti rapisce e quasi ti annulla
nel dominio della sua sovrana bellezza; il lago d'Iseo ti accoglie, nei più
vicini richiami della sue rive, in un'intimità di aspetti che assumono il colore
e la poesia della tua anima. Dolce e fresco come un'egloga virgiliana, fu detto
dalla Sand e, infatti, la serena, leggiadra riviera bresciana da Iseo a Marone e
le spiagge romite di Montisola, scendenti nelle acque cogli ulivi protesi alla
luce, allacciati dai pampini e dalle edere e certe case antiche, aperte al sole
colla paesana architettura dei portici e delle logge, recano alle nostalgie del
cuore il senso di una pace che sembra di altri tempi. Ma sopra Marone le
montagne si adergono con uno slancio maestoso di linee e l'egloga si muta in una
poesia austera di nude cime, assorte nel cielo in vigile silenzio. Nel centro
delle acque, come abbiamo detto sopra, è l'isola più grande dei laghi italiani,
dispiegata in ubertosi declivi a contemplare la cangiante visione del lago.
Sopra un certo poggio è una rocca cinquecentesca; sulla cima una chiesetta
bianca, come perduta nell'azzurro. In quella chiesetta, Adriana ed io, ci siamo
entrati ed abbiamo piegato riverente il ginocchio in devozione della Madonna,
dispensatrice di grazie.
In questa nostra escursione, in questo luogo incantato e da favola, dove regna
il silenzio e soprattutto la poesia, ci ha fatto vivere una bellissima
esperienza all'insegna dell'amicizia con i nostri amici escursionistici. In
questi luoghi stupendi ci siamo più volte ritornati, ma questa volta non in
veste di escursionista ma armati di tele, cavalletto e cassetta dei colori, per
ritrarre gli angoli più belli che questo paesaggio pittura possa offrire al
pittore della domenica. Ogni angolo, ogni scorcio panoramico, ogni insenatura
del lago è un vero capolavoro creato milioni di anni fa dalla madre natura.
Oggi, è diventato il paradisio dei pittori, dei pescatori e degli appassionati
di turismo e del tempo libero, ma soprattutto è l'angolo da dove sprigiona la
gioia di vivere e soprattutto la poesia.
Il mio gigante fumante.
La giornata era stata, dall'inizio alla fine, superba. Fin dal mattino, appena
Adriana aperte le persiane del nostro alloggio turistico, sito sull'altopiano
della "Mungiata", lo spazio e il tempo avevano assunto una sorta di trasparenza.
Per uno di quei meccanismi pieni di evidenza e di mistero, un cielo privo di
nubi prometteva felicità. Gli escursionisti mantovani in fila indiana, ancora
quasi addormentati, incominciavano ad avviarsi verso il porto della linda e
bellissima città di Lipari, che dall'alto della collina si poteva ammirare nella
sua meravigliosa bellezza, illuminata dai primi raggi del sole. Lipari è la più
grande e popolosa isola dell'arcipelago. La sua cittadina si estende ai piedi
della imponente rocca del Castello, l'antica acropoli greca, e lungo le
insenature, a Nord e a Sud, di Marina Corta e di Marina Lunga. Le abitazioni si
arrampicano fin sotto i bastioni e la Via Garibaldi ne segue l'andamento
circolare, da Piazza Mazzini alla deliziosa Marina Corta. Quest'ultima è il
luogo di ritrovo abituale, animato dai sempre affollatissimi bar - gelaterie,
con i tavoli all'aperto e i coreografici grandi ombrelloni. Marina Corta è
collegata con un estimo ad una penisola dove sorge la chiesetta delle Anime del
Purgatorio e dove giungono gli aliscafi. A protezione dell'approdo, sono stati
costruiti dei moli che hanno un po' cambiato l'aspetto naturale del luogo.
Comunque, conserva ancora, specialmente fuori stagione, il fascino del borgo di
pescatori immigrati ad inizio secolo sulla piazza e le reti da riparare nei
momenti di sosta. La statua di San Bortolo, patrono di Lipari, dal benvenuto ai
turisti che, appena arrivati, sono attorniati da negozi molto colorati che
offrono guide, cartoline e souvenir.
Il sentiero scendeva quasi ripido, attraversando gli orti e i giardini fino alle
prime case di fronte al mare. Gia dalla ultima propaggine del sentiero, giungeva
l'aromatico e inebriante profumo del caffè e delle brioche appena sfornate. In
quella lunga fila di case basse e colorate che costeggiano il lungo mare,
sorgevano due minuscoli bar, uno vicino all'altro. Erano talmente piccoli, che
perfino potevano accedere ai massimi tre o quattro persone. Molti dei nostri
amici erano seduti fuori che ci stavano attendendo per fare la prima colazione.
Il grosso della squadra, di solito raggiungeva la Piazzetta delle Arti e dei
Mestieri con le sue realistiche pitture murali, dove vi erano, un attaccato
all'altro, diversi e caratteristici bar. Dopo una breve sosta a Marina Corta, si
andava alla scoperta dei tanti angoli suggestivi di Lipari.
Sulla sinistra svetta il campanile della chiesa di San Giuseppe, cui si arriva
dalla salita omonima, passando davanti alle bellissime ceramiche della bottega
artigianale, alla Chitarra bar, al Centro Nautico. Alle ore 8 precise, eravamo
tutti al porto nella attesa del veliero che ci avrebbe portato fino all'isola di
Stromboli. Francesco, la nostra guida ufficiale, con il nostromo "don" Luigi, un
vecchio lupo di mare e grande fumatore di pipa, che per molti anni aveva
navigato nei mari venezuelani e del Sud America ma colto dalla nostalgia della
sua terra, era ritornato nella sua Lipari,e con la ciurma al completo ed i tre
alberi, l'ora stabilita era pronto al molo nella attesa della partenza. Il mare
era calmo e bellissimo, non spirava un filo di vento e quindi la navigazione
verso l'isola di Stromboli procedeva nel migliore dei modi. Sulla barca regnava
tanta euforia. Eravamo tutti felici di navigare in quel mare bellissimo, senza
vento ma accompagnato da una brezza deliziosa. Fin dalla partenza, una
squadriglia di gabbiani dal becco e le zampe rosse, ci seguivano chiassosi lungo
la navigazione. Il nostromo, prima di prendere il largo, ha voluto fare il giro
della più grande e storica isola dell'arcipelago, mentre Francesco, si
soffermava a commentare e a spiegare gli angoli più caratteristici,
significativi e panoramici di Lipari. Al termine del periplo, il veliero ha
puntato la prua dritta verso la meravigliosa isola di Stromboli.
"IL GIGANTE FUMANTE"
Dopo due ore di navigazione con il vento in poppa, da lontano s'incominciava a
vedere, sebbene confuso " il mio gigante fumante", che si stagliava in tutta la
sua superba imponenza sul mare blu intensissimo. Il mio vecchio sogno si stava
avverando. Tirai fuori della sua custodia il vecchio binocolo giapponese e lo
posizionai al collo, al posto della macchina fotografica e lo puntai in
direzione del "gigante nero". Non volevo perdermi neppure la minima visione di
quello che fu nella mia fanciullezza il misterioso "gigante fumante", il cui
ricordo si perde nel tempo. Ricordo che moltissimi anni fa, dal balcone
panoramico della casa della zia Francesca, che abitava nella città di Palmi, la
cui vista si perdeva tra cielo e mare, abbracciando una vasta striscia di mare
della meravigliosa Costa Viola e sul lato destro della Punta di Cariddi, in
lontananza spuntava una piccola isola fumante. Incuriosito di tale scoperta,
chiesi alla zia che cosa fosse, ella mi risposi che si trattava del "gigante
fumante". Con Adriana mia moglie, abbiamo intrapreso questo viaggio, in
compagnia degli amici del CAI di Mantova, per scoprire tutte le isole
dell'arcipelago delle Eolie, ma soprattutto per vedere da vicino il "gigante
fumante" della mia fanciullezza. Tutto ciò mi stava davanti agli occhi come un
bel sogno che portava la realizzazione di un desiderio per lungo tempo custodito
e mi riempiva di un indescrivibile e piacevolissimo sentimento di appagamento.
Come un bambino che la notte di Natale ricevi ricchi doni, e che fin dal
risveglio non sa aspettare il momento di toccare e guardare di nuovo le cose
magnifiche a lui destinate davanti al presepe, così mi ero portato sulla tolda
del veliero per deliziare la mia vista con il nuovo scenario e per assicurarmi
che fosse realmente lo Stromboli. L'imbarcazione scivolava velocemente su quel
mare azzurro e quanto non si diceva, attraccava al molo del piccolo porticciolo.
La comitiva, in testa Francesco, raggiungemmo il centro abitato di Stromboli, da
dove si ammirava un paesaggio bellissimo, tra cielo e mare. Inutilmente cercai
nella mia memoria un angolo del mondo cui paragonare quello spettacolo visivo,
ma qui non è riconoscibile né un carattere italiano, né del deserto americano,
né asiatico. Stromboli è particolarmente interessante proprio per il fatto di
essere simile solo a se stessa. Dalla Piazzetta, all'ombra del glicine
profumato, osservavo quel paesaggio strano, diverso dal Gran Canyon, dal
Monument Valley e del Verdon, per il semplice fatto di essere simile solo a se
stesso. Il maestoso vulcano si innalza ripido dal mare fino a un'altezza di
quasi tremila metri e, per un perimetro di circa tredici miglia, è accessibile
soltanto per un breve tratto sul versante nord- occidentale. Qui la sua base si
allunga in una superficie inclinata che termina alla riva, di fronte allo
scoglio chiamato Strombolicchio.
Eccolo lì, che da millenni il cono vulcanico con il pennacchio ed i suoi
"scatti", come sono chiamati i rimbombi delle esplosioni, è come un faro per i
naviganti. Lo Stromboli, chiamato ancora oggi dai suoi abitanti "Strogyle",
come un tempo dagli antichi, appare, visto da lontano, perfettamente conico,
come indica il nome greco dell'isola.
A coloro che si avvicinano all'isola, appena l'oriente comincia a scurirsi,
diventa visibile la fiamma del vulcano ad intervalli regolari di 15/20 minuti.
Incute un timoroso rispetto questo giovanissimo vulcano di 100. 000 anni, forse
unico al mondo per le sue tre bocche in perenne attività esplosiva; tra i più
alti in Europa, 2400 metri tra cono e fondale. E' stato definito: "Un vulcano
a 5 stelle", con le sue spiaggette nere, che più che una spiaggia
dell'Adriatico, ci ha dato l'impressione, se non fosse per le barche allineate,
che fosse un deposito di carbone fossile.
Stromboli ha tre villaggi o "contrade", come qui sono chiamate, una serie di
casupole singole ed al centro sorge la chiesa, visto che di una strada o di
poche abitazioni poste a fianco non si può parlare. Ogni casa sta per conto suo,
ha un tetto piatto, senza finestre e consiste di una singola stanza. Le finestre
e un secondo piano sono legati al concetto di palazzo e tali costruzioni, come
per esempio la villa sicuramente di un notabile, si trovano un po' distante dal
centro della contrada. A nessuna di queste modeste e linde casette manca una
pergola coperta di canne o una loggia, che si allunga su di uno spazio
lastricato con grandi pietre laviche per procurare agli abitanti un po' d'ombra,
visto che gli alberi mancano del tutto. Sul terreno formato da lava e cenere, si
possono vedere, infatti, solo cespugli e piante ornamentali come rose, salvia e
rosmarino, nonché cespugli spinosi di pomodori selvatici, che sono chiamate
"tossiche" a causa della loro proprietà velenose. In genere le pergole, nelle
villette di nuova costruzione, poggiano su due o più pilastrini rotondi, che
architettonicamente richiamano ad un certo periodo storico, che hanno una certa
attinenza con le casette che abbiamo ammirato nelle isole greche nel mare Egeo,
che sorgono attorno all'isola di Rodi, che abbiamo visto e fotografato l'estate
scorsa nel corso delle nostre vacanze estive. Se andiamo a sfogliare le vecchie
pagine della storia, in tutti i villaggi e paesi dell'Arcipelago delle Eolie,
troviamo tracce degli antichi popoli della Magna Grecia. Quindi, possiamo
benissimo affermare, che quella è un'arte antica che si tramanda nel tempo.
Dopo l'esplorazione dell'isola via mare e via terra, sulla Piazzetta davanti al
bar, fremevano i preparativi per l'esplorazione dello Stromboli. Le due guide
locali avevano distribuito gli elmetti e le canne che servivano da bastoncini,
per agevolare la salita e una bottiglia d'acqua. Il sole stava declinando verso
ovest, mentre la comitiva dei "caini" mantovani, in fila indiana incominciavano
ad incamminarsi verso il vertice della montagna fumante. Prima che noi lo
prevedemmo, la notte incominciò ad allungare su di noi la sua ala e diede
occasione al maestro Stromboli di offrirci una serie di stupende immagini. La
salita si faceva sempre più ripida e scivolosa per via della cenere vulcanica e
alcuni di noi desistettero nel continuare oltre. Anche noi, Adriana ed io, come
fecero gli altri amici, ci fermammo in una piazzola panoramica a poco meno di
trecento metri del vertice della montagna, da dove potevamo vedere chiaramente
come esso buttasse fuori, ogni dieci minuti, quindici minuti, pietre infuocate
che in raggi divergenti in parte ricadevano nel cratere da cui erano uscite, e
in parte cadevano in mare. Ogni eruzione era accompagnata dall'accendersi di una
scarica fiammeggiante, che a volte durava alcuni minuti, altre volte si spegneva
di nuovo improvvisamente. Dalla nostra postazione di avvistamento si sentiva
sempre un rombo cupo, non dissimile dell'esplosione di una lontana cava di
pietre, ma soltanto un po' dopo l'eruzione e sembrava del tutto indipendente da
lei. Peccato che la nostra escursione si stava svolgendo d'estate, perché come
ci diceva un giovane del luogo che si era fermato con noi. " Le eruzioni devono
essere osservate d'inverno, col cattivo tempo, molto più importanti che non
d'estate, col cielo tranquillo e sereno". La storia ci racconta che nei tempi
lontani, i poeti facevano di questa montagna eruttante fuoco la dimora di Eolo,
il vulcano serviva da barometro agli abitanti, poiché, secondo la sua attività e
la direzione del fumo che si innalzava da lui, essi profetizzavano quale vento
avrebbe soffiato e annunciavano, come dice Solino ( cap XII) ogni imminente
cambiamento di tempo con tre giorni di anticipo:
" Strongyle Aeoli domus vergit as solis exortus minime angolosa, quale
flemmis liguidioribus differì a caeteris: bec causa bic efficit, quod ejus fumo
potentissima incolae praesentiunt, quidam flatus in triduo ortendantur, qutum,
uti Aeolus rex ventorum crederetur".
Plinio dice la stessa cosa con parole simili; Diodoro afferma inoltre che Eolo
ha in ciò una grande esperienza e che le sue profezie sui venti hanno dato
motivo di supporre che egli li domini come re: " Aeolus ex aeris prodigiis
diligenter obseratis, qui venti ingruituri essent incolsi certo praedicebat,
unde ventorum promus a fabula declaratus est".
Un vecchio pescatore che interpretava con i suoi oracoli, le evoluzioni del
vulcano, ha profetizzato un gran bel tempo per il giorno seguente.
Si era alzata la luna e le stelle brillavano nel cielo, quando poco prima della
mezzanotte facemmo ritorno sulla barca che era ormeggiata nel piccolo porto di
Stromboli. Quando tutti eravamo a bordo si è allontanata e si è posizionata di
fronte alla "sciara di fuoco" dello Stromboli. Il nostromo, che oltre ad essere
un bravo pilota era anche un ottimo chef. Abbiamo trovato la tavola bandita e
gli spaghetti allo scoglio fumanti che ci attendevano, mentre il vecchio vulcano
continuava a deliziarci con suoi lanci, tanto che ci sembrava di essere nel
ristorante di " Zii Teresa", che sorge in Via Caracciolo, proprio di fronte al
golfo di Napoli, mentre dal Castello dell'Ovo, continuavano a salire e a
scoppiare nel cielo i fantastici fuochi d'artificio sul mare davanti a
Margellina nella festa di Piedigrotta, che si svolge nel mese di (settembre) una
popolarissima festa in onore della Madonna. Quello che era stato il sogno di un
bambino si era trasformato in una realtà. Il vecchio saggio diceva, mai perdere
la speranza! Un miracolo può sempre esserci. E tante volte c'è e come se c'é.
Quello era il Gigante fumante della nostra fanciullezza.
Un viaggio tra la marina e
l'Aspromonte
sulle tracce di due scrittori
Racconto.
Il nostro ricordo dell’antica terra delle
Langhe si perde nel tempo. Sono già trascorsi oltre cinquanta anni. In
quel tempo, per motivi istituzionali, prestavamo servizio nella bella
città di Alba, che la sua storia si perdeva nella notte dei tempi. E’ una
terra generosa, dove si producono i migliori vini del mondo e poi, è
famosa pere i suoi tartufi, che sono esportati in tutto il mondo.
Il mese di novembre è un mese che è un trionfo dei
colori e dei sapori dell'autunno, tra castagne, vino e tartufi. Ed è un mese che
ha molte rimembranze celtiche: il primo giorno di novembre si festeggiava il
Capodanno celtico e nei primi due giorni del mese si onoravano tutti i dei,
grandi e piccoli, le magiche creature in cui la gente credeva, le fate, i
folletti, gli spiriti dei boschi. Ma le antiche tradizioni celtiche, anche se
trasformate in cristiane, sono rimaste e in molti luoghi è tradizione la sera
del primo novembre lasciare sul tavolo un po' di cibo per le anime che tornano
nei luoghi a loro cari.
Anche San Martino ha influenze celtiche ed è in
realtà un dio cavaliere che torna ogni anno per garantire il rinnovarsi della
vita. E si riallaccia al capodanno celtico agricolo. In molte regioni, infatti,
l'11 novembre scadono i contratti agrari e "fare San Martino" significa
traslocare. L'estate di San Martino è la promessa celtica del rinnovarsi della
vita. In molti paesi italiani si festeggia San Martino con feste e sagre. I
racconti di Franco Piccinelli, un figlio prediletto della “Langa”, spesso ci
parlano di questa terra, di questi paesi barbicati sui cucuzzoli delle verdi
colline, dove la vita è fatta di cose semplici, “dove il popolo canta
siedi pur tranquillo ché il cuore malvagio non ha canzoni”. “C’è un
paese come ce ne sono tanti in Italia, fatto di gente felice d’essere al mondo e
così ricco di sentimenti da non considerare forestiero chiunque vi giunge,
accogliendolo anzi, con le guardinghe, studiate attenzioni che la civiltà
contadina trasmise a chi fu di quella pasta, plasmandolo fino a creare dei cloni
che si ripetono all’infinito l’anima che li rende vitali. A ben guardare la vera
clonazione genetica è questa: prese le mosse dai ceppi delle viti ( grignolini e
barbere) bene allineati sui costoni di collina, identici l’unaltro anche nei
grappoli che dall’estate all’autunno si trasformano assieme e sono immagini dei
cicli esistenziali voluti dal Fattore. Identico è il volto delle persone: le
guardi e capisci che non potrebbe appartenere ad altra genia. Si, certo. Tra
giovani e vecchi, tra famiglie e contrade riscontri le differenti
identificazioni somatiche. Ma i tratti dei volti non ingannino, sai persino
collocarli nelle borgate donde provengono. Le vedi procedere, le persone, simili
nella camminata, nella scelta dei luoghi ove forse sosta, nell’educazione dei
saluti bene auguranti per il tempo a venire, nella voglia di godere il bello e
il buono del creato, in qualche rimpianto di occasioni perdute. C’è un paese
come S.Stefano Belbo dove nacque lo scrittore Cesare
Pavese, una delle voci più originali della letteratura novecentesca. Il
paesaggio di S. Stefano Belbo con le colline circostanti assume nella sua opera
un'importanza decisiva come luogo della nostalgia, dei ritorni e del mito.
Oltre
alla casa natale sono visitabili molti dei suoi luoghi, indicati da apposita
segnaletica La falegnameria dell'amico Pinolo Scaglione, il Nuto de "La luna e i
falò" è diventata un museo di memorie pavesiane. Ci sono le tradizioni, i vini,
la gastronomia, la cultura e l’affascinante paesaggio collinare che sono da
sempre le principali caratteristiche di S. Stefano Belbo. Gli abitanti di Santo
Stefano sono poco più di 4000, divisi in circa 1300 famiglie, per una densità di
171 abitanti per kmq.
L'abitato si compone di tre grandi zone urbanistiche: il centro storico, che
sorge sul lato destro del Torrente Belbo; i nuovi insediamenti, costruiti sul
alto sinistro e collegati al concentrico dal ponte stradale, il borgo della
stazione posta in zona nord-est rispetto al centro. Questo è il paese dove nasce
il grande scrittore Cesare Pavese il 9 settembre 1908. Un paesino delle Langhe
in provincia di Cuneo, dove il padre, cancelliere del tribunale di Torino, aveva
un podere. Ben presto la famiglia si trasferisce a Torino, anche se le colline
del suo paese rimarranno per sempre impresse nella mente dello scrittore e si
fonderanno pascolianamente con l’idea mitica dell’infanzia e della nostalgia. Il
padre di Cesare muore quasi subito: questo episodio inciderà molto sull’indole
del ragazzo, già di per sé scontroso e introverso.
Molti si sono occupati
dell’adolescenza di Cesare, di questo ragazzo timido, amante dei libri, della
natura e sempre pronto ad isolarsi dagli altri, a nascondersi, a inseguire
farfalle e uccelli, a sondare il mistero dei boschi.
La storia letteraria
ci racconta che Davide Laiolo, suo grande amico, in un libro intitolato
Il vizio assurdo
tende a evidenziare due elementi fondamentali: la
morte del padre e il conseguente irrigidirsi della madre che, con la sua
freddezza e il suo riserbo, attuerà un sistema educativo più da padre asciutto e
aspro che non da madre affettuosa e dolce. L’altro elemento è la tendenza al
«vizio assurdo», la vocazione suicida. Ritroviamo, infatti, sempre un accenno
alla mania suicida in tutte le lettere del periodo liceale, soprattutto quelle
dirette all’amico Mario Sturani.
Questo mondo
adolescente di Cesare, così difficile, così traboccante di solitudine e di
isolamento per Monti sarebbe invece il risultato della introversione tipica
della adolescenza, per Fernandez la risultante di traumi infantili (morte del
padre e mondo femminile in cui è allevato, desiderio inconscio di
autopunizione). Per altri ancora invece il dramma della impotenza sessuale,
indimostrabile forse, ma a momenti rintracciabile in alcune pagine de
Il mestiere di vivere.
Qualunque sia l’interpretazione che si vuole dare
a questi primi anni, non si può negare che si profila subito in loro la storia
di un destino tragico e amaro, evidenziato da un disperato bisogno d’amore, da
una ricerca di apertura verso gli altri, verso il mondo, verso le relazioni
interpersonali, destino di solitudine, di amarezza, di disperata sconfitta. Una
grande dicotomia tra l’attrazione per la solitudine e il bisogno di non essere
solo.
Dibattuto tra gli
estremi di un’orgogliosa affermazione di sé e della constatazione di una sua
inadattabilità alla vita, Pavese sceglie fin da ragazzo la letteratura «come
schermo metaforico della sua condizione esistenziale» (Venturi), in lei cercando
la risoluzione dei suoi conflitti interiori.
Studia nell’Istituto
Sociale dei Gesuiti e nel Ginnasio moderno, quindi passa al Liceo D’Azeglio,
dove avrà come professore un maestro d’umanità, Augusto Monti, al quale molti
intellettuali torinesi di quegli anni devono tanto. L’ingresso al liceo D’Azeglioè
di somma importanza per la vita di Cesare, il quale tra il 1923 e il 1926
partecipa a quel rinnovamento delle coscienze che non solo esercitava l’azione
educatrice di Monti ma che trovava concretezza e palpabilità nell’opera di
Gramsci e Gobetti. Dapprima Pavese è assai riluttante a impegnarsi attivamente
nella lotta politica, verso la quale egli non nutre grande interesse, anche
perché tende a fondere sempre il motivo politico con quello più propriamente
letterario. E’, però attratto dai giovani che seguono Monti: Leone Ginzburg,
Norberto Bobbio, Tullio Pinelli, Massimo Mila, i quali non aderiscono né al
movimento di Strapaese (legato al fascismo) né a quello di Stracittà (movimento
apparentemente progressivo ma in realtà anch’esso trincerato dietro lo scudo
fascista), in opposizione ai quali essi coniano la sigla Strabarriera.
Durante la nostra
permanenza a S. Stefano Belbo, oltre di aver letto tutte le opere dello
scrittore, ci fermavamo spesso e parlando con la gente comune e quelle di una
certa cultura, come il farmacista, il medico condotto, il parroco ecc. Da tutte
queste conversazioni abbiamo appreso che Cesare trovava gusto nelle discussioni,
si trovava a suo agio nelle trattorie, assieme agli operai, ai venditori
ambulanti, alla gente qualunque: molti di questi saranno un giorno protagonista
dei suoi romanzi. Ha la sensazione di essere giovane, rinato e, negli ultimi
anni dell’Università, nella sua vita privata entra colei che sarà al centro
della sua anima, «la donna dalla voce rauca». Cesare appare addirittura
trasformato: per tutto il tempo durante il quale ha la sensazione che questa
donna gli sia vicina, diventa cordiale, umano, affettuoso, aperto al colloquio
con gli altri. Quella donna gli riporta l’incanto dell’infanzia, il suo viso,
quando non la sente sua non è più il mattino chiaro, è una nube, ma una nube
dolcissima e, anche se vive altrove, gli riflette sempre «lo sfondo antico».
Quelle colline e quel cielo tornano ancora umanissimi come il «dolce incavo
della sua bocca».
Nel 1930 (a soli
ventidue anni) si laurea con una tesi Sulla interpretazione della poesia di
Walt Whitman e comincia a lavorare alla rivista «La cultura», insegnando in
scuole serali e private, dedicandosi alla traduzione della letteratura inglese e
americana nella quale acquisisce ben presto fama e notorietà. Gli anni del liceo
e poi dell’università portano nella vita del ragazzo solitario il suggello
dell’amicizia: tutto contribuisce ad umanizzare le sue rabbiose letture: le
dispute letterarie, l’eccitante accostamento al mondo vietato della politica, i
caffè concerto, i miti sfolgoranti dell’industria cinematografica, le marce in
collina, le vogate sul Po che rinvigoriscono il suo corpo, precocemente
squassato dall’asma. In confronto al paese, la città si presenta come una grande
fiera, come una festa continua. Di giorno la vita è piena, i negozi sono tanti,
i tram sferragliano e dovunque si ascolta musica.
Nel 1931 muore la
madre, pochi mesi dopo la laurea: per l’ammirazione mai manifestata e per il
rimorso di non aver mai saputo dimostrare il suo affetto e la sua tenerezza per
lei, la sua morte segna un altro solco amaro nella vita dello scrittore. Rimasto
solo, si trasferisce nell’abitazione della sorella Maria, presso la quale
resterà fino alla morte.
Intanto sempre nel
1931 è stampata a Firenze la sua prima traduzione: Il nostro signor Wrenn
di Sinclair Lewis. Il mestiere di traduttore ha tale importanza non solo nella
vita di Pavese ma per tutta la cultura, da aprire uno spiraglio a un periodo
nuovo nella narrativa italiana. Con le sue traduzioni, egli dà la misura di
quanto è grande la sua ansia di libertà, la sua esigenza di rompere lo schema
delle retoriche nazionalistiche e aprire a sé e agli altri nuovi orizzonti
culturali, capaci di smuovere quelle incrostazioni vecchie e nuove che avevano
fatto ammalare la società italiana. Egli vuole presentare coscientemente «il
gigantesco teatro dove, con maggior franchezza che altrove, era recitato il
dramma di tutti». Il fascismo negava ogni iniziativa alle grandi masse,
condannava e impediva gli scioperi, mentre in quei romanzi americani si leggeva
la possibilità di creare nuovi rapporti sociali.
Contro la monotonia
della prosa d’arte e diversamente dall’Ermetismo, Pavese dimostrava come il
contatto con le grandi masse americane attraverso quei romanzi vivificasse anche
il linguaggio, con l’inserimento della parlata popolare, sì da renderlo
congeniale con i nuovi contenuti. Di tutti, quello che diventa la coscienza del
suo destino è Peter Mathiessen (lo scrittore della Natura: Il leopardo delle
nevi, L’albero dove è nato l’uomo, Il silenzio africano NdR.), per la comune
ricerca del linguaggio, per il senso tragico e per il considerare inutile la
vita, nonché per l’estremo gesto si toglie la vita.
Nel 1933 sorge la
casa editrice Einaudi al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo per
l’amicizia che lo lega a Giulio Einaudi: questi sono gli anni dei suoi momenti
migliori con «la donna dalla voce rauca», un’intellettuale laureata in
matematica e fortemente impegnata nella lotta antifascista: Cesare accetta di
far giungere al proprio domicilio lettere fortemente compromettenti sul piano
politico: scoperto, non fa il nome della donna e il 15 maggio 1935 è condannato
per sospetto antifascismo a tre anni di confino da scontare a Brancaleone
Calabro. Tre anni che si ridurranno poi a meno di uno, per richiesta di grazia:
torna infatti dal confino nel marzo del 1936 ma questo ritorno coincide con
un’amara delusione: l’abbandono della donna e il matrimonio di lei con un altro.
L’esperienza (che sarà il soggetto del suo primo romanzo,
Il carcere),
e la delusione giocano insieme per farlo sprofondare in una crisi grave e
profonda, che per anni lo terrà avvinto alla tentazione dolorosa e sempre
presente del suicidio.
Si richiude in un
isolamento forse peggiore di quello adolescenziale, ma ancora una volta a
salvarlo è la letteratura, il suo «valere alla penna».
Nel 1936 compare a
Firenze, per le edizioni Solaria, la prima raccolta di poesie Lavorare stanca
che comprendeva le poesie scritte dal 1931 al 1935 e che fu letta da pochi. Una
seconda edizione, comprendente anche le poesie scritte fino al 1940, fu
pubblicata nel 1942 da Einaudi. In quegli anni scrive ancora racconti, romanzi
brevi, saggi. Esce nel 1941 la sua prima opera narrativa,
Paesi tuoi,
«ambientata in quelle colline e vigne delle Langhe, che accanto alla Torino dei
viali e dei caffè, dei fiumi e delle osterie, costituisce l'altro grande luogo
mitico della poetica pavesiana» (Emilio Cecchi). Sembra aver riacquistato la
fiducia in se stesso e nella vita e, soprattutto frequentando gli intellettuali
antifascisti della sua città, pare aver maturato anche una coscienza politica.
Tuttavia non partecipa né alla guerra né alla Resistenza: chiamato alle armi, è
dimesso perché malato di asma.
Destinato a Roma per
aprire una sede della Einaudi, si trova isolato e in lui prevale la ripugnanza
fisica per la violenza, per gli orrori che la guerra comporta e si rifugia nel
Monferrato presso la sorella, dove vivrà per due anni «recluso tra le colline»
con un accenno di crisi religiosa e soprattutto con la certezza di essere
diverso, di non sapere partecipare alla vita, di non riuscire a essere attivo e
presente, di non essere capace di avere ideali concreti per vivere (motivi che
ritorneranno nel Corrado de
La casa in collina
).
La
casa in collina.
Pubblicato nel 1949, lo stesso anno
de “Il carcere”, “La casa in collina” è forse l’opera più autobiografica di
Pavese. Romanzo sulla guerra, che distrugge e che finisce solo per chi muore,
perché “se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si
arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è
qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a
questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante.
Non sono più faccende altrui, non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha
l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei morti tenga
noialtri inchiodati a vederli e a riempircene gli occhi.”.
Corrado è professore di scienze,
sfugge alla guerra rifugiandosi in collina, perché la collina è un aspetto delle
cose, un modo di vivere. Qui è ospite d’Elvira, che lo ama segretamente e non
corrisposta; Corrado, addirittura, la disprezza e, appena può, si reca
all’osteria “Alle Fontane”, dove incontra molti sfollati, giovani e vecchi, tra
cui Cate, la donna che ha amato da ragazzo ed abbandonato ingiustamente.
Ritrovarla ora, forte, determinata antifascista, madre di un ragazzo, Dino, che
potrebbe essere suo figlio, turba profondamente Corrado. Il giovane incarna
tutto quello che lui poté essere; ora vorrebbe occuparsene, essere l’uomo e il
padre che non è stato: ma Cate cadrà prigioniera dei tedeschi e Dino fuggirà,
preso dalla smania della guerra e dell’azione, destinato a perdersi nel nulla. E
Corrado non si salverà dalla propria inettitudine.
Dopo la fine della
guerra si iscrive al Partito comunista ma anche questa scelta, come la crisi
religiosa, altro non era se non un ennesimo equivoco, una nuova maniera di
prendere in giro se stesso, di illudersi di possedere quella capacità di
aderenza alle cose, alle scelte, all’impegno che invece gli mancavano. La sua
probabilmente era una sorta di tentativo di riparazione, di voglia di mettere a
posto la coscienza e del resto ancora il suo impegno è sempre letterario: scrive
articoli e saggi di ispirazione etico-civile, riprende il suo lavoro editoriale,
riorganizzando la casa editrice Einaudi, si interessa di mitologia e di
etnologia, elaborando la sua teoria sul mito, concretizzata nei
Dialoghi con Leucò.
Recatosi a Roma per
lavoro (dove soggiornerà per un periodo stabilmente, a parte qualche periodica
evasione nelle Langhe) conosce una giovane attrice: Constance Dowling. È di
nuovo l’amore. La giovane con le sue efelidi rosse e forse in qualche modo con
una sincera ammirazione per un uomo ormai famoso e noto, ricco di intelletto e
capace di una forte emotività, accende ancora una volta Cesare, ma poi va via,
lo abbandona. Costance torna in America e Pavese scrive
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…
A questo secondo
abbandono, alle crisi politiche e religiose che riprendono a sconvolgerlo, allo
sgomento e all’angoscia che lo assalgono nonostante i successi letterari (nel
1938 Il compagno vince il premio Salento, nel 1949 La bella estate
ottiene il premio Strega; pubblica
La luna e i falò,
considerato il suo miglior racconto) alla nuova ondata di solitudine e di senso
di vuoto non riesce più a reagire. Logorato, stanco, ma in fondo perfettamente
lucido, si toglie la vita in una camera dell’albergo Roma di Torino ingoiando
una forte dose di barbiturici. È il 27 agosto del 1950. Solo un'annotazione,
sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, sul comodino della stanza
«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.».Aveva
solo 42 anni. A cura della
Redazione Virtuale)
TRA
ALVARO E PAVESE
L’INUTILE MARE.
Il giornalista Lorenzo Mondo nel
maggio 2002, ha ripercorso a ritroso nel tempo i luoghi dell’esilio di Cesare
Pavesi, in un paesino della Costa Ionica, raccontandoci le sue impressioni sul
magnifico paesaggio e sul tempo trascorso dallo scrittore. Egli così incomincia
il suo reportage: “Brancaleone, a noi due. Ripeto non un’ombra di sorriso
l’apostrofe alla Balzac. Da quaranta anni rimandavo l’appuntamento con il paese
in cui Cesare Pavese fu inviato al confino di polizia, dall’agosto del 1935 alla
metà di marzo del 1936. E’ curiosa, al limite del bizzarro, l’occasione che mi è
stata offerta: un convegno di studi organizzato dalla Fondazione Corrado Alvaro
e dalla comunità di Mappano Torinese, dove esiste una vivace diaspora calabrese;
con reciproci scambi culturali, con la benedizione del Centro Studi di Cesare
Pavese di Santo Stefano Belbo e il contributo di studiosi del Nord e del Sud.
Vedete un po’, Mappano, Santo Stefano, Brancaleone, San Luca, Marina di Gioiosa
Jonica: a metterli insieme, un piccolo miracolo. Il convegno era spartito tra
Pavese e Alvaro, tra il diverso esilio di due scrittori, in Calabria e dalla
Calabria. E’ consente di scendere dalle pagine dei libri nella realtà che li ha
ispirati, in quella almeno che ne rimane.
E’ così che mi aggiro per
Brancaleone, rimasticandomi qualche verso di Lavorare stanca: “ Uomo solo
d’innanzi all’inutile mare/ attendendo la sera, attendendo il mattino”, “ Le
ragazze al crepuscolo scendono in acqua/ Quando il mare svanisce, disteso”. Ma
due file ininterrotte di case chiudono la vista, e non ci sono ragazze sulla
spiaggia, lambita da acque che sospetto inquinate. Resiste la suggestione delle
poche rocce rotolate nel mare per qualche terremoto, le stesse che il poeta vidi
rosseggiare sotto la luna. In realtà, il mare largo e vibrante di Pavese bisogna
cercarlo nelle coste che si dilungano solitarie e custodiscono la loro afflitta
magia fuori degli abitati coatici e depressivi, nel percorso che va da Reggio
Calabria alla Locride. Troppo tempo è passato, troppi mutamenti, non sempre
vantaggiosi, si sono verificati anche quaggiù. Labili sono ormai le tracce di
Pavese a Brancaleone. Anonimo il Bar Roma, che ti dicono tale e quale, dove il
confinato andava a leggere il giornale e a conversare con qualche conoscente. Ti
conducono con malcelata fierezza ed esuberante cordialità alla povera casa in
cui abitò. Non c’è targa o iscrizione che lo ricordi, i testimoni stentano a
individuare la sua stanza, che lo scrittore descrive angusta e sofferente,
riscaldata d’inverno da un asfittico braciere. Inutile cercare la finestra,
penetrata dall’illusoria libertà del mare. Il piccolo giardino, rincivilito, è
chiuso da una siepe di fichidindia, forse il solo superstite profilo di allora.
Aldilà corre, parallela alla costa, la strada ferrata che torturava Cesare con
morsi di nostalgia.
Più seducente si rivela la
salita a Brancaleone superiore, tra gialli calanchi che fanno venire in mente
l’alta Langa. L’antico paese, dove era confinato un anarchico, è rievocato nel
romanzo Il carcere: “ Il poggio era un vero Monte Oliveto, cenerognolo e riarso.
Quand’era stato in cima Stefano aveva guardato il mare e le case lontane. Per
tutto il giorno s’era isolato come fuori del tempo soffermandosi a guardare le
viuzze aperte nel cielo. C’erano donne e vecchie lassù, fra quelle muraglie
scolorite e calcinate, che non erano mai usciti dalla piazzetta silenziosa dalle
viuzze”. Ma una disastrosa alluvione, e un progressivo disamore, hanno spinto
gli abitanti verso il mare. Il paese abbandonato e depredato di ogni vestigio si
è ridotto a muri crollati, si sgretola al sole, tra guizzi di lucertole, nel
profumo del finocchio selvatico. Frammenti di lapidi sepolcrali, una grotta
poggiante su una colonna che allude all’albero della vita… Un eco appena della
cultura brasiliana – i monaci venuti dall’Oriente – che fecondò queste terre
impervie. Fuori, la vista è superba, ma non basta a rasserenare lo spirito.
Quando si pensa che gli uomini non hanno saputo mostrarsi più pietosi dei
ricorrenti cataclismi naturali.
A pochi chilometri si raggiunge
San Luca, il paese natale di Alvaro. Le case piantate nella pietra si inerpicano
strette sulla montagna. La casa dello scrittore, che è sede della Fondazione
Alvaro, custodisce un sobrio, ordinato museo: ritratti, foto d’epoca,
suppellettili, libri, documenti. A fianco del duomo sopravvive il pretenzioso
portale del Palazzo Mezzatesta, i signori del luogo con i quali si confrontano,
nel loro elementare senso di giustizia, i pastori di Gente in Aspromonte.
Vicolo archivolti, fontane, tradiscono l’abbandono, non ancora irrimediabile
decadenza. Restano aggrappati alla banale insolenza del paese nuovo, marchiato
da torbide fortune ( certe case – mi dicono – sono assegnabili al bottino dei
sequestri di persona). L’abitato originario respira l’aria che Alvaro, transfuga
verso un destino di scrittore europeo, consegnò ai suoi libri con nostalgia
ritrosa. Per questi uomini della Fondazione Alvaro ( in primo luogo Fortunato
Nocera e Aldo Maria Morace) si adoperano con generosità impaziente, contro ogni
colpevole inerzia, perché sia sottratto allo sfacelo.
San Luca è la porta
dell’Aspromonte, cuore selvaggio della Calabria, Per capire, bisogna andare al
santuario di Polsi, un’ora e mezza di strada sterrata. In un paesaggio di
sconvolgente bellezza, ammantato di foreste, solcato da pietrose e rabbiose
fiumare, vigilato da giganteschi monoliti. E’ con noi Mario Pondero, maestro
della fotografia, che non ti lascia andare avanti. Salta dal fuoristrada come un
furetto, centra con l’obbiettivo un albero sventrato dal fulmine, un macigno
corroso, una lapide in memoria di un prete ammazzato, una pletorica famiglia di
porcelli che sì in frasca. Il santuario si trova in una vallicella, rivestito di
decoro neoclassico esibisce la gloria del millenario campanile a pigna. E’
dedicato alla Vergine della Montagna, metamorfosi cristiana di qualche oscura
divinità terrestre. La leggenda racconta di un conte Ruggero che, stando alla
caccia, fu tratto dai suoi levrieri sul luogo dove un giovane, inginocchiato,
frugava col muso la terra. Là fu trovata una croce greca e là sorse il
santuario. Dove si strinsero, fino a tempi recenti, patti di sangue e dove
ancora oggi, per la Madonna di settembre, salgono a migliaia i pellegrini.
Dal pellegrinaggio di Polsi,
fulcro della pietà popolare e del folclore calabrese, parla più volte Alvaro.
Sognatamene nelle prime pagine di Gente in Aspromonte: “ il vinattiere
costruisce la sua capanna di frasche presso la sorgente dell’acqua, e la notte,
per illuminare la strada, si appicca il fuoco agli alberi secchi. Gli innamorati
girano tra la folla per vedere l’innamorata, i cani arrabbiati, vendicatori,
latitanti e ubriachi che rotolano per i pendii come pietre. Allora vive la
montagna, e da tutte le parti il cielo è seminato dei fuochi dei razzi…”
Noi che nasciamo in un piccolo
borgo aspromontano, nel cuore ubertoso dell’Aspromonte, a Brancaleone non
eravamo mai stati, eppure non distava molto da Cosoleto, ma eravamo transitati
più volte proveniente da Bari e per Bari, dove nel 1947, avevamo frequentato la
Scuola allievi carabinieri. Molti anni prima che il giornalista Lorenzo Mondo,
aveva scoperto il paese in cui Cesare Pavese fu assegnato al domicilio coatto,
provvedimento di pubblica sicurezza e conoscendo la storia dello scrittore
piemontese, abbiamo voluto visitare quei luoghi ed un bel giorno con Francesco,
un mio carissimo amico, siamo a Brancaleone, che gode dall’alto del suo colle un
ampio e splendido panorama sul mare e sui campi circostanti. Nel borgo
superiore, sorge l’antico paese, attorniato da calanchi bianchi che splendevano
al sole autunnale, dove vi soggiornò Pavese. Di lassù del poggio si ammira un
paesaggio bellissimo tra cielo e mare. Non abbiamo trovato alcuna traccia che ci
potesse indicare il passaggio di Pavese, solo le viuzze che portano all’umile
abitazione e la piazzetta dove sedevano un gruppetto di anziani, fra quelle mura
scoloriti del tempo, che non si erano allontanati mai di quel grumo di case che
guardano il mare. Abbiamo chiesto se ricordassero dell’anarchico piemontese
esiliato dal regime, ma nel loro racconto non è emerso nulla d’importante ma
piccoli ricordi sfumati di quei tempi lontani. Oltre Brancaleone la strada
ritorna presso il mare e prosegue verso il Capo Spartivento, doppiato il quale.
Attraversa la fiumara Spropoli. Di là da un promontorio rupestre appare Bova
Marina, adagiata nella pianura alluvionale. Nell’interno a 928 metri è Bova
Superore e da qui proseguito per il santuario di Polsi, su di una strada
sterrata, dopo pochi chilometri abbiamo raggiunto San Luca, il paese natale di
Alvaro, un piccolo paese piantato sulla roccia, dove come negli altri borghi si
inerpicano strette viuzze che portano verso la montagna. Abbiamo visto
esteriormente la casa di Corrado Alvaro, (oggi museo) perché chiusa ai
visitatori. Il nostro viaggio è proseguito verso l’altopiano dell’Aspromonte,
circondato da una natura incorrotta, che suggerisce una possibile via di
lenimento e di sviluppo per la povertà della Calabria. Il discorso vale per i
magnifici monti abbandonati e la costa dirupata, per i villaggi rupestri. Chissà
se nell’avvenire ci saranno abbastanza forze da raccogliere il segnale, per
scuotere il lungo sonno di questa meravigliosa e antica terra.
Di questi ricordi recenti e
lontani, la Calabria è fiera; e con ragione, perché dimostrano quale rapporto di
alta spiritualità in tutti i tempi e in tutti i campi essa ha dato alla patria
comune. Ma è anche fiera della sua bellezza paesistica, che pochi conoscono.
“Siamo in fondo allo stivale, nel più del paese del mondo” scriveva Luigi Paolo
Courier, che vi era giunto con l’esercito napoleonico del generale Regnier. “E’
contrada ricchissima di meravigliosi spettacoli della natura” scrisse un altro
francese, il Leonormant, nella sua celebre opera “ La Magna Grecia”. Ed invero
quei pochi che si sono indotti a percorrere la costa tirrena sino a Reggio e a
penetrare nell’interno, come spesso abbiamo fatto noi nella verde età, ne sono
tornati entusiasti come della scoperta di un mondo nuovo pieno d’incanti. Che
cosa è questa bellezza, non è facile dire. Certo dipende in gran parte dallo
spiccato contrasto fra monti e marine, dall’alternarsi di vallate ubertose e
cime granitiche arse dal sole, dalla lieta improvvisa apparizione di un
paesaggio pieno di luce all’oscura ombra di foreste impenetrabili, dagli ampi
orizzonti aperti sui mari alle numerose gole alpestre, sonore di acque correnti.
E qui termina il fugace viaggio.
Concluderlo in una sintesi non è facile. Come del resto sono tutte le cose
veramente forti e pure, la Calabria ha bisogno di spiriti profondi per essere
compresa e di anime vergini per essere amata. Terra di meditazione, si apre
intera con le sue luci abbaglianti e le sue cupe ombre ai pellegrini silenziosi
e pensosi dalla bellezza. Il suo fascino, lontano dai soliti allettamenti
preparati in altri luoghi, è lento ma duraturo; è come quei profumi, che sembra
debbano subito svanire, eppure resistono al tempo e penetrano di sé ogni casa.
Il presepe.
Racconto
Betlemme e Greccio sono due nomi inseparabili nei ricordi natalizi
di ogni anno poiché, se a Betlemme si operò il mistero della divina incarnazione
del Salvatore del Mondo, a Greccio, per la pietà di San Francesco di Assisi,
ebbe inizio, in forma del tutto nuova, la sua mistica rievocazione. Ogni anno,
il Natale stabilisce un ponte che congiunge il Cielo alla Terra. Entrando le
nuvole di apprensione, angustia e tristezza che avvolgono il nostro povero
mondo, la gioia celeste si diffonde per ogni luogo e rende più generosi e felici
i cuori.
L'autunno scorso, in una giornata bellissima e rischiarata da un pallido sole,
siamo saliti al Santuario di Greccio. I luoghi sono molto angusti e richiedono
da parte dei visitatori, un attento silenzio. Abbiamo potuto constatare che in
poco spazio sono racchiusi e conservati, come per miracolo, le vestigia
autentiche di più epoche storiche della vita francescana. Dalla terrazza
dell'eremo raggiungiamo la cappella edificata nella grotta dove si svolsero le
famose scene natalizie. La parte più antica, in fondo, nella cavità della
roccia, fu sistemata nel 1228, anno della canonizzazione di san Francesco;
l'altare, posto dove era stata messa la mangiatoia, è il primo ad essere stato
dedicato al Santo. Sopra l'altare, si ammira ancora un affresco, che emana una
sensazione di grande tenerezza; opera di uno sconosciuto maestro ( della scuola
di Giotto) e databile intorno al XIV. XV secolo. Ci mostra la scena liturgica
del 24 dicembre: Francesco porta la dalmatica del diacono, la Vergine allatta.
Non si può che essere commossi da tanta semplicità. Nella parte moderna, l'urna
funeraria contiene i resti dell'amico di Francesco, Giovanni da Velita.
Si penetra poi nell'eremo originario, costruito lungo la roccia. Troviamo il
refettorio con le sue tavole rustiche, la cucina con il camino e l'acquaio; gli
affreschi sono del XVI secolo. Segue il dormitorio dei frati e, in fondo, la
roccia dove san Francesco riposava ( qui è situato l'episodio del guanciale di
piume che gli impediva di dormire.
Salendo la scala, da notare la " cantina" ( in realtà dispensa). Ed eccoti
arrivati al dormitorio, tutto in legno, detto di san Bonaventura, con le sue
piccole celle, edificato probabilmente tra il 1260 e il 1270: sicuramente
databile del XIII secolo. La nostra visita all'eremo di Greccio sta per
terminare, ma ci rimane ancora da visitare i locali dove sono situati i
moltissimi presepi che rispecchiano l'iconografia popolare di ogni parte del
mondo: c'è quello cinese, quello del Polo Nord in mezzo ai ghiacci, quello
giapponese situato in una pagoda e tantissimi altri. Ci sono quelli quasi a
grandezza naturale e quelli microscopici, ma il significato è sempre quello: la
nascita di Gesù Bambino.
La nostra visita all'eremo francescano, termina con la chiesa moderna, dedicata
alla Vergine Immacolata, costruita nel 1959 per raccogliere i numerosi gruppi
che giungono dal vicino borgo medioevale di Greccio. Un'opera recente per
onorare il mistero del Figlio di Dio fatto uomo e della sua povera Madre.
Nella terza domenica di Avvento, le parole di Benedetto XVI, che hanno preceduto
la recita dell'Angelus, sono state improntate all'attesa del Natale e alla
preparazione del presepe nelle famiglie. Migliaia di bambini erano presenti in
Piazza San Pietro con i loro "bambinelli", per essere benedetti dal Papa,
secondo una consolidata tradizione, iniziata da Giovanni Paolo II.
Il Santo Padre, riferendosi alla festa dell'Immacolata, ha invitato a mettersi
in sintonia spirituale con la Vergine Maria che, per prima, ha atteso la nascita
di Gesù. Il clima suggestivo della preparazione al Natale, rischia oggi - ha
detto il Papa - di essere inquinato, nell'odierna società dei consumi: " Un
inquinamento commerciale che rischia di alterare l'autentico spirito del Natale,
caratterizzato dal raccoglimento, dalla sobrietà e da una gioia non esteriore ma
intima".
" E' provvidenziale - ha proseguito il Pontefice- che, quasi come una porta
d'ingresso al Natale, vi è stato la festa di Colei che è la Madre di Gesù, e che
meglio di chiunque altro può giudicarci e conoscere, panare, adorare il Figlio
di Dio fatto uomo. Lasciamo dunque che sia Lei ad accompagnarci; siano i suoi
sentimenti ad animarci, perché ci predisponiamo con sincerità di cuore e
apertura di spirito a riconoscere nel Bambino di Betlemme il Figlio di Dio
venuto sulla terra per la nostra redenzione. Camminiamo con Lei nella preghiera,
e accogliamo il ripetuto invito che la liturgia dell'Avvento ci rivolge a
restare nell'attesa, un'attesa vigilante e gioiosa perché il signore non
tarderà: Egli viene a liberare il suo popolo dal peccato".
Benedetto XVI ha dedicato la seconda parte della sua riflessione, quasi
interamente, al vero significato del Natale cristiano, ricordando in particolare
lo spirito con il quale Francesco d'Assisi vuole, per la prima volta, realizzare
a Greccio il suo presepe vivente. Quella di preparare nelle case il Presepe,
subito dopo la festa dell'Immacolata, è "una bella e consolante tradizione,
quasi per rivivere, insieme a Maria, quei giorni pieni di trepidazione, che
precedettero la nascita di Gesù".
Per il Papa non è soltanto questo l'aspetto positivo della realizzazione del
presepe. Vi è anche un significato molto pedagogico, in quanto favorisce la
trasmissione della fede alle giovani generazioni: " Costruire il Presepe in casa
può rivelarsi un modo semplice ma efficace di presentare la fede per
trasmetterla a sua volta ai propri figli. Il Presepe ci aiuta a contemplare il
mistero dell'amore di Dio che si è rivelato nella povertà e nella semplicità
della grotta di Betlemme".
Riferendosi, poi, a San Francesco d'Assisi, che ha dato inizio alla tradizione
del presepe, il Papa ha insistito sul valore di una bella tradizione popolare
che - ha detto - "ancora oggi mantiene il suo valore per l'evangelizzazione. Il
Presepe può, infatti, aiutarci a capire il segreto del vero Natale, perché parla
dell'umiltà e della bontà misericordiosa di Cristo, il quale da ricco che
era, si è fatto povero per noi. La sua povertà arricchisce chi
l'abbraccia e il Natale reca gioia e pace a coloro che, come i pastori a
Betlemme, accolgono le parole dell'angelo: "Questo per voi il segno: un
bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia". Questo rimane il
segno, anche per noi, uomini e donne del Duemila. Non c'è altro Natale.
Nel nostro pellegrinaggio di Greccio, ci siamo soffermati davanti ad ogni
presepe che abbiamo incontrato lungo la nostra visita nell'eremo francescano,
dove è nata appunto la tradizione del presepio con San Francesco. Il paesaggio è
rappresentato con la neve, il freddo e i panni del bambino Gesù asciugati al
fuoco. Infatti, il Santo dei poveri abitava in questa regione molto fredda
d'inverno, con la neve e i lupi affamati e la carestia, la penuria drammatica di
viveri che aveva in quel tempo investito l'intera popolazione dei villaggi
dell'Umbria, perciò la rappresentazione non poteva discostarsi dalla visione
quotidiana dei suoi concittadini per non disorientarli. Ammirando quei piccoli
gioielli in miniatura, ci hanno riportato indietro nel tempo, quando bambini,
nella ricorrenza del S. Natale, ci apprestavamo a preparare il presepe in un
angolo della nostra modesta casa. Ma ai bambini della mia generazione, bastava
poco per fare un presepe. Oggi le statuine sono di plastica e si trovano
facilmente sul mercato. A noi erano sufficienti le tre statuine, che ognuno si
costruiva da se. A me e a mio fratello Rosario, per esempio, ci era sufficiente
un po' d'argilla per plasmare le figurine dei pastori e i Re Magi per il
presepe. I manufatti si lasciavano asciugare e poi si facevano cuocere nella
fornace dei mattoni. Ognuno di questi passaggi è fondamentale per la buona
riuscita: il modellato, la cottura, l'innesto degli occhi, la pittura, la
vestizione sono tutte fasi che esigono capacità, pazienza, talento e passione,
tutte qualità presenti nel laboratorio dello zio Domenico, che era un bravo
scultore. Bastava un po' di muschio e un po' di fantasia e il nostro presepio
era pronto per la notte di Natale.
Anche il nostro parroco di Campitello, don Enrico Castiglioni, come del resto
credo che anche altri parroci della diocesi di Mantova, nell'Omelia della messa
grande, come riferisce il giornalista Gustavo Savio, in un suo articolo del
Santo Natale sulla Voce di Mantova, sottolineando nel suo articolo che nelle
famiglie si sta perdendo la buona abitudine di fare il presepe, come succedeva
una volta, lanciando un messaggio anche agli assenti. Qui al Nord, da molti
anni, si è praticamente perso l'abitudine di fare il presepio come una volta,
dedicandosi per lo più a fare l'albero nel giardino davanti a casa con la stella
e le luminarie.
Egli prosegue dicendo, nel suo bellissimo articolo, che per non diventare
effimero lo facciamo rivivere nelle nostre pagine: "Ma a voi, gente del 21 esimo
secolo, possono bastare anche le tre statuine. Non importa la collocazione
storica di dove è nato e quando è nato, se allora facesse caldo o meno e le
grotte fossero le case dei pastori, abituati a vivere, fianco a fianco con gli
armenti, ciò che conta e che ancora una volta, nonostante tutto, vi ricordiate
con il presepio che é Natale. E non soltanto che puntualmente arriva perché sul
calendario è segnato così, ma sia il presepio a richiamarvi al mistero di Gesù.
Quella immagine di bambino, in un angolo della vostra casa, contribuisca a
riportarvi a meditare il messaggio del perché il figlio di Dio si è fatto uomo.
Soffermatevi un attimo sui profondi mutamenti che ha conosciuto, che so, negli
ultimi tre lustri, un paese di antica presenza cattolica come la nostra Italia.
Le settimane dell'avvento sono diventate corsa febbrile all'acquisto, i negozi
pieni di tutto e di più, certo i regali sono una cosa da apprezzare, ma non è
che hanno sottratto quasi tutto il tempo a disposizione e non ne è rimasto per
fare il presepio? Perché se così, si potrebbe avere pure smarrito la memoria
della dimensione del mistero della fede, dell'attesa del ritorno glorioso di
Gesù e il Natale diventare una semplice festa consumistica. Il Natale è festa e
basta, il pranzo, gli zampognari, le luminarie, un po' di generosità verso chi
ha meno, un po' più di tenerezza verso i bambini, accorgendosi, tutto d'un
tratto che ci sono anche loro. Allora ci si faccia aiutare dal presepio, si
provi a vedere se questa è l'occasione per riaccendere la festa, per parlare un
contenuto reale, quale la speranza per tutti che Dio non è lontano dall'umanità.
Riaffermi il Natale la memoria liturgica del mistero dell'incarnazione, cioè del
" farsi uomo" di Dio, del suo assumere in tutta la nostra condizione umana, il
suo divenire " uno di noi", minacciato come noi, solidale con gli affetti e le
sconfitte di tutti gli uomini. Insomma si provi a pensare che il Natale
ritornassi ad essere cattolico, senza se e senza ma e il presepio la sua
testimonianza, approdando a fare festa perché si è riscoperto Dio. Indichi il
presepio, la via per riscoprire le radici cristiane, le sole in grado di
produrre la forza di arrestare il degrado, capaci di affermare la demolizione
sistematica dei valori forti ed insostituibili per l'Umanità, quali la vita e
l'amore, Siamo diventati una Società dove nascono sempre meno bambini, dove la
loro nascita segue spesso le stesse dinamiche della fabbrica, le nascite
programmate, non sempre, ma sovente, legate alle possibilità finanziarie della
famiglia, l'aspetto più appariscente dell'attesa non sarebbe più lo stesso,
sicuramente interiormente cambiato e più accettabile. Pure se quest'anno le
luminarie e la frenesia potranno sembrare più vistose nonostante, con il cuore
cambiato, riusciremmo a scambiarci il regalo più ambito, quello della serenità,
quello della pace vera e non minacciata, dell'uno contro l'altro".
Mancano pochi giorni alla grande festa di Natale, ma sembra che quest'anno manca
qualcos'altro per dare il vero significato alla festa, manca la neve che stenta
ad arrivare ed il Natale senza la neve non sembra neppure Natale. I bambini,
sicuramente rimarranno delusi senza vedere scendere la notte Santa, lentamente
dal cielo la candida neve. Rimarranno delusi anche gli operatori turistici, ma
anche e soprattutto gli appassionati dello sci e quelli come noi, che amiamo
molto camminare sui campi innevati delle bellissime montagne dolomitiche. Non
possiamo neppure cantare allegramente quella bellissima strofa che fa così:
"Tu, neve scendi ancor, lenta, per dar la gioia ad ogni cuor…"
Edizione straordinaria del telegiornale: i morti dell'attentato alle Twin Towers
non si contano più… "…è Natale ancora la grande festa che sa tutti conquistar…"
Kabul a ferro e fuoco: colpito un deposito della Croce Rossa… "…e viene giù dal
ciel, lieve, per dolcemente sussurrar…" …nuove lettere contenenti antrace sono
state rinvenute a Washington … "…è Natale spera anche tu, è Natale non soffrire
più!"… si moltiplicano i morti rinvenuti nel tunnel del Gottardo, e la storia
continua con gli attentati da parte dei kamikaze e degli eccidi di Bagdad, i
nostri morti di Nassyria e quelli di Kabul e la storia continua nella Palestina,
nella striscia di Gaza e forse anche a Betlemme, nei luoghi della natività di
Dio.
All'improvviso una musica dolce e lenta si diffonde per le strade di tutto
mondo, attraverso gli oceani, le pianure sconfinate e le aspre valli a coprire
gli orrori della guerra e delle tragedie. Tutti accorrono in strada ammaliati
dal seducente suono, mentre comincia a scendere dal cielo una soffice neve dal
Polo Nord al Giappone, dal Madagascar al Messico.
I popoli di tutte le nazioni, uniti in una sol voce intonano il canto, mentre le
mani si uniscono in segno di pace, amore e fratellanza.
Niente più etnie, niente più religioni, niente più discriminazioni, niente più
guerre, ma solo uomini che guardano ad altri uomini non più come nemici, ma come
fratelli.
Oggi 25 dicembre il mondo è in pace, oggi 25 dicembre l'unica notizia annunciata
al telegiornale è: "L'amore domina il mondo!" Oggi è il 25 dicembre di un anno
molto lontano, di un anno desiderato, agognato, ricercato, di un anno utopistico
in un futuro che tutti ci auguriamo.
Ma il vero Natale non è solo una data, non è solo una ricorrenza esteriore. Il
Natale deve divenire innanzitutto un modo di essere, un modo di pensare, un modo
di amare, perché il Natale non è nient'altro che questo…donare amore! E non
potrà mai esistere questo tanto sospirato mondo migliore se noi non impareremo a
vivere questo sentimento ogni giorno nella nostra quotidianità, senza aspettare
che arrivi un giorno prestabilito per dimostrare il nostro affetto a chi ci sta
intorno.
Ecco, è questa la mia favola, è questo il mio desiderio per un mondo migliore, e
scusate se è poco. Per impreziosire il nostro racconto, inseriamo questa breve
ma significativa favola che rispecchia il S. Natale, della poetessa Mariella da
Mondovi, alla quale chiediamo umilmente scusa.
LA FIABA DELL'INVERNO
Ha un gran barbone bianco
E il manto d'armellino
Ed ha l'aspetto stanco
Di chi è sempre in cammino.
E' grinzoso e vegliardo
E più curvo del nonno;
Trasparente ha lo sguardo
E un sorriso di sonno.
Porta alla nuda siepe
Il fior di biancospino
E i Re Magi e il presepe
Ad ogni bravo bambino.
Porta la tramontana
Che gela ogni mattina
L'acqua della fontana.
E il fuso alla vecchina.
Il lungo viaggio verso Napoli.
Racconto
Dopo la liberazione della Sicilia, le truppe Alleati sono sbarcate a Reggio
Calabria e sull'Altopiano dell'Aspromonte, un reparto canadese ha incontrato un
accanita resistenza dagli uomini della Divisione Nembo.I combattimenti sono
durati alcuni giorni, mentre il grosso delle truppe d'occupazione hanno seguito
l'avanzata l'ungo il litorale del Tirreno, senza incontrare alcuna resistenza.
Liberata la città di Palmi e attraversato il Petraie, si sono diretti verso
Salerno. La città di Salerno, da giorni era sotto i continui bombardamenti,
mentre dal mare l'8 settembre, una poderosa forza navale alleata puntava
minacciosa verso il golfo salernitano. Salerno, quel giorno, era stata colpita
dall'ennesimo bombardamento. Da molte settimane subiva continue incursioni aeree
ed era ormai ridotta a un cumulo di rovine.
La gente bivaccava nelle gallerie e nelle cantine, affamata e senza speranza. Ma
improvvisamente, alle 19.45, anche fra la popolazione di Salerno giunse la voce
del maresciallo Badoglio che annunciava l'armistizio. La guerra era dunque
finita? La gente pensò che fosse così e usci dai rifugi. L'illusione durò poco:
la comparsa delle navi all'orizzonte spinse i salernitani a rintanarsi di nuovo.
A bordo delle 463 unità che erano salpate dai porti dell'Algeria e della Sicilia
i 100.000 soldati inglesi e i 70.000 americani che componevano il corpo da
sbarco affidato al comando del generale americano Mark Clark vivevano le ore di
tensione che sempre precedevano l'inizio delle operazioni.
Tutti a bordo, compreso gli ufficiali, erano completamente all'oscuro di quanto
era accaduto in quei giorni. Ignoravano che l'armistizio con l'Italia fosse
stato segretamente firmato il 3 settembre, e ignoravano che sarebbe stato reso
pubbliche entro poche ore. Erano tutti convinti che lo sbarco avrebbe incontrato
la tenace resistenza degli italiani e dei tedeschi. Ma, improvvisamente, la
tensione che regnava a bordo fu infranta da una comunicazione radiofonica. Alle
18,30, mentre l'operazione "Avalanche" è in pieno svolgimento con i convogli
alleati in vista di Salerno (da una settimana la costa campana è sottoposta ad
intensi attacchi in preparazione della invasione), da Algeri il gen. Eisenhower
comunica la notizia dell'armistizio intervenuto tra gli Alleati e gli italiani.
Ecco il testo del breve annuncio: "Qui è il gen. Eisenhower. Il governo italiano
si è arreso incondizionatamente a queste forze armate. Le ostilità tra le forze
armate delle Nazioni Unite e quelle dell'Italia cessano all'istante. Tutti gli
italiani che ci aiuteranno a cacciare il tedesco aggressore dal suolo italiano
avranno l'assistenza e l'appoggio delle nazioni alleate
Un analogo annuncio è fatto alla radio italiana alle 19.45 dal capo del governo
maresciallo Pietro Badoglio. Il messaggio al popolo italiano cosi si conclude:
"...Esse [le forze armate italiane] però reagiranno ad eventuali attacchi di
qualsiasi altra provenienza".
La notizia, del tutto inattesa, provocò grandi manifestazioni di gioia. I
soldati esultanti ballavano sui ponti. La guerra con l'Italia era finita!
Nessuno pensava più ai pericoli. Tutti erano convinti che, invece di una
battaglia, a Salerno ci sarebbe stata ad attenderli una folla in festa.
Alle 3.30 di mattina del 9 settembre il gen. Mark Clark diede il via
all'operazione "Avalanche". La 1^ divisione aerotrasportata si impadronì di
Taranto senza incontrare resistenza.
Intanto 55.000 uomini delle truppe anglo-americane sbarcarono nel Golfo di
Salerno, coperti da una forza navale che disponeva complessivamente di 4
corazzate, 7 portaerei, 11 incrociatori e alcune decine di caccia, oltre ad
unità di scorta e minori. I soldati presero terra con relativa facilità e senza
contrasti, ma improvvisamente, con loro grande sorpresa, incontrarono la
reazione tedesca.
Nelle 48 ore seguite allo sbarco, gli Alleati riuscirono a travolgere le difese
germaniche e a spingersi verso l'interno. La resistenza tedesca era stata
debole, il generale Clark poteva essere soddisfatto. Il suo ottimismo forse
eccessivo riguardo allo sbarco ora si rafforzava perché gli avvenimenti
sembravano giustificarlo. Le navi potevano tranquillamente scaricare carri
armati e automezzi. I rinforzi riuscivano ad affluire regolarmente sulla
spiaggia.
Intanto l'artiglieria tedesca taceva e la Luftwaffe sembrava essere scomparsa.
Proseguendo l'avanzata, gli Alleati occuparono l'aeroporto di Montecorvino e
provvidero a riattivare la pista.
. La battaglia sembrava ormai vinta. I tedeschi si ritiravano o si arrendevano.
A tre giorni dallo sbarco gli Alleati controllavano una testa di ponte lunga 100
chilometri e profonda 10. Ma improvvisamente, la mattina dei 12 settembre, la
situazione registrò un drammatico mutamento: i tedeschi scatenarono il
contrattacco. Truppe fresche e bene armate attaccarono di sorpresa il settore
Nord travolgendo i presidi dei commando britannici. Poche ore dopo, la
controffensiva, condotta con estrema violenza, si estese a tutto l'arco del
fronte. Le truppe tedesche giunte di rinforzo erano le divisioni che Kesselring
era stato costretto a trattenere a Roma in vista di un secondo sbarco e per
superare l'accanita, ma non coordinata resistenza delle truppe italiane a Porta
S. Paolo. Ora che si era assicurato il completo controllo della capitale
italiana, poteva scaraventarle contro le truppe alleate.
Sotto l'urto delle forze tedesche, l'intero schieramento anglo-americano
vacillò. La ritirata fu generale. Molti reparti si sbandarono. Molti prigionieri
furono catturati. Posizioni strategiche importanti come Battipaglia e Altavilla
furono riconquistate. Durante questa controffensiva i tedeschi si sentirono
molto vicini alla vittoria. Intanto la situazione si era fatta disperata. Il
generale Clark aveva ormai perduto il suo ottimismo, e insistette per l'invio di
rinforzi. A questo punto, per contrastare l'avanzata tedesca fu deciso l'impiego
della divisione paracadutisti Airborne. Si trattava dei paracadutisti americani
che dovevano essere lanciati su Roma. Rimasti inoperosi all'aeroporto di Licata,
essi furono ora lanciati nelle retrovie per colpire e disorganizzare i movimenti
del nemico. Ma neppure l'intervento dei paracadutisti modificò la situazione: i
tedeschi continuarono vittoriosamente l'avanzata e le loro avanguardie giunsero
in vista del mare. Fu a questo punto che il maresciallo Alexander, comandante in
capo delle forze alleate del Mediterraneo, decise di risolvere la drammatica
situazione ordinando l'intervento della squadra navale. Per la prima volta la
marina fu impegnata in una battaglia campale. Il 14 settembre una potente
squadra da battaglia lasciò Malta diretta verso Salerno. Ne facevano parte anche
le corazzate Warspite, Valiant, Nelson e Rodneu armate con cannoni da 381 mm.
Contemporaneamente, stormi di bombardieri pesanti furono lanciati sulla costa
salernitana a seminare rovina e distruzione nelle retrovie tedesche.
Questo attacco segnò l'inizio della controffensiva alleata. I danni furono
enormi. Anche per la popolazione civile che da una settimana si trovava
costretta a vivere in prima linea. Ma ai fini della battaglia fu soprattutto
decisivo il bombardamento navale. Spingendosi quasi al limitare della costa, le
navi assolsero il compito che normalmente competeva alle artiglierie. Il loro
tiro era estremamente preciso. Le loro bordate distrussero ora postazioni
tedesche, ora interi centri di abitazioni civili. Una vera valanga di fuoco si
abbatté sul Salernitano. Grazie a un nuovo sistema di segnalazione, le truppe
alleate potevano chiedere direttamente l'appoggio dell'artiglieria navale come
se si trattasse di batterie terrestri. Le postazioni tedesche furono centrate a
una a una.
Due giorni dopo, il 16, Kesselring ordinò alle sue truppe di ritirarsi verso
nord "per sottrarsi all'efficace bombardamento da parte delle navi da guerra".
Per gli anglo-americani la via di Napoli era aperta. "Se a Salerno" commenterà
Alexander a operazione conclusa "la marina e l'esercito non avessero potuto
disporre della superiorità, lo sbarco sarebbe fallito " Avalanche fu dal punto
di vista militare un successo, anche se politicamente e strategicamente non
raggiunse gli obiettivi che erano stati prefissati, ossia l'immediata
liberazione di Napoli e la rapida avanzata su Roma. Per liberare Roma occorrerà
aspettare circa nove mesi e per percorrere i 54 km che dividono Salerno da
Napoli gli Alleati impiegheranno ventidue giorni.
Con lo sbarco a Salerno e la conquista della città di Napoli, le città del Sud,
come la Sicilia e la Calabria, era ritornata alla normalità. Nel Porto di Villa
San Giovanni e quello di Reggio Calabria, notte e giorno, continuavano a
sbarcare le autocolonne militari Alleati, diretti verso la Campania. Dopo
qualche mese dell'occupazione, anche nel nostro piccolo paese, sono giunti i
primi aiuti alimentari americani con i sacchetti di farina bianca. I negozi
avevano riaperto i battenti e così pure i forni avevano ripreso a panificare.
Insomma, la vita piano piano, incominciava a ritornare alla normalità. In quei
tempi tristi e bui del nostro Paese, quando si è visto nelle scansie dei negozi
il pane quotidiano appena sfornato, ci sembrava un vero miracolo. Mai perdere la
pazienza e la speranza! Un miracolo può sempre esserci. E quella volta si era
verificato. Noi, l'abbiamo scoperto tanti anni fa, in un mattino limpido e
tiepido di primavera. Con l'arrivo della farina bianca, era arrivata la gioia di
vivere e di ricominciare.
Con l'arrivo della primavera e dell'estate, anche noi ragazzi cresciuti nel
corso della guerra, si smaniava nell'eterno ozio e si sognava di evadere, di
andare lontano, per conoscere la vita. Parlo di quei momenti irresponsabili nei
quali i giovani sono propensi a commettere atti inconsulti. "Uno chiude dietro
di sé il piccolo cancello della mera fanciullezza ed entra in un giardino
incantato. Là perfino le ombre splendono di promesse. Ogni svolta del sentiero
ha una sua seduzione. E non perché sia una terra ignota. Si sa bene che tutta
l'umanità ha percorso quella strada. Ma si è attratti dall'incanto
dell'esperienza universale da cui si attende di trovare una sensazione singolare
o personale: un po' di se stessi. Si va avanti, allegri e frementi, riconoscendo
le orme di chi ci ha preceduto, accogliendo il bene e il male insieme- le rose e
le spine, come si dice - la variopinta sorte comune che offre tante possibilità
a chi la merita o, forse a chi ha fortuna. Sì. Uno va avanti. E pure il tempo va
avanti, finché ci si scorge di fronte una linea d'ombra che ci avverte di dover
lasciare alle spalle anche la ragione della prima gioventù, come scriveva il
grande scrittore Joseph Conrad.
Una sera, passeggiando sulla Piazza del Paese, Giovanni, Francesco ed io,
pensammo di rompere il guscio e di evadere dal piccolo borgo aspromontano, per
incontrare il nostro destino. Altri nostri coetanei, prima di noi, avevano fatto
la stessa esperienza, erano partiti verso la città di Napoli, e non erano ancora
ritornati. Così, abbiamo voluto imitarli e decidemmo di partire anche noi.
Partenza per Napoli. Era ancora buio, quando eravamo fermi davanti alla stazione
ferroviaria di Reggio Calabria. Il treno era ancora vuoto. In poco tempo il
vagone si riempi. Parte con due ore di ritardo, perché dicono che devono
cambiare il locomotore. Siamo oltre quaranta persone costrette in uno spazio
abitualmente riservato a 10. Parecchi siedono sul porta bagagli. Tutti gli
sportelli sono chiusi. Sul treno c'era gente che viaggiava seduta sulle soglie
degli sportelli, le gambe pendoloni, tenendosi con un braccio alle maniglie. Noi
siamo stati fortunati, a fatica, ci siamo conquistato un posto a sedere, mentre
il piccolo bagaglio lo abbiamo sistemato sotto il sedile. Non avevamo molto
bagaglio, soltanto una latta dal peso di 10 chilogrammi di olio di oliva, che
portavamo per poi venderlo a Napoli, per finanziarci il viaggio. Giovanni, in un
tascapane militare, aveva sistemato un pane casereccio, del formaggio di capra e
un salame per il viaggio, mentre Francesco, oltre ai dolcetti calabresi, che
aveva preparato la sua mamma, aveva nello zainetto anche della frutta secca e
una fiasca di vino.
Una lunga fermata alla stazione di Sant'Eufemia, aspettando il locomotore da
Cosenza. Era sera e la luna tranquillissima che illuminava e tetti e le terrazze
della cittadina. Le cannonate della battaglia del "Silandro" e dello sbarco
sulle coste della Calabria, come sembravano irrimediabilmente lontane! Ora,
davvero, è successo qualche cosa. Luna. Silenzio. Dolcezza. Ma sappiamo,
sentiamo: tutto è diverso. I tedeschi che facevano da padroni, dopo lo sbarco di
Salerno, erano lontani. Si erano, con una testa di ponte, sistemati sulle
montagne di Monte Lungo e nell'abbazia di Mantecassimo, dove il cannone
continuava a tuonare.
Scendiamo dal treno e mangiamo un'arancia e una fetta di pane con formaggio,
seduti a terra, vicino alla stazione. Dall' ufficio del capostazione, dietro una
tenda che chiude l'ingresso, odo delle voci: parlano della prossima partenza
verso Battipaglia. Trascorriamo la notte nella stazione quasi devastata. Alcuni
giovani, che pressappoco avevano la nostra stessa età, stavano dormendo tra il
muro e la banchina. Con posa perfetta. Brillante nella sporcizia. Ragazzi
cenciosi dormono spossati contro il muro. Un poco distante, fuori della
stazione, in un binario morto ci giunge un suono di fisarmonica.
La notte è trascorsa in silenzio, perché il suono della fisarmonica era cessato
verso le due della notte. Giuseppe ha detto: Quel maledetto treno non parte mai.
Vicino ad una casa bombardata, qualcuno ha acceso un falò. Ci siamo seduti tutti
attorno al fuoco per scaldarci. Un ragazzino, ha tirato fuori l'armonica a bocca
e sì e messo a suonare un motivetto a noi noto e familiare. Il motivetto era
quello della " Calabresella mia". Nella tristezza, avevamo trovato un attimo di
serenità. Forse saranno state le melodiose note di quella canzone, che ci
rammentava giorni meno tristi e ci ricordava soprattutto il nostro paese.
Verso le ore 9 circa, mentre il sole stava illuminando un paesaggio bellissimo e
le case diroccate, finalmente il treno si muove: così carico che non si può fare
più di trenta chilometri l'ora. Dopo un paio d'ore, in mezzo alla campagna, a
pochi chilometri di un piccolo paese che sorge di fronte al mare, il treno si
ferma. Molti viaggiatori approfittano dell'improvvisa fermata per fare i loro
bisogni personali e soprattutto per sgranchirsi le gambe. Al fischio del treno,
senza affrettarsi, risalgono tranquillamente sul treno in moto. Verso
mezzogiorno, il treno si è fermato nella stazione di Battipaglia. Scendiamo
tutti i viaggiatori, perché bisogna cambiare treno e ciò è previsto per il
pomeriggio. Fuori della stazione, in un viale quasi deserto, notiamo un
gruppetto di persone, ci avviciniamo. Tre signore erano vicino ai fornelli che
preparavano il pranzo. Ci hanno invitati a sedersi, dicendoci che fra non molto,
la minestra di pasta con i fagioli era pronta. Ci sediamo ad uno dei tavolini
sistemati sotto un platano e subito dopo ci è servita la minestra fumante. Ci
fermiamo a conversare con gli altri viaggiatori, che come noi dovevano ripartire
con i treni diretti a Salerno. Quando il convoglio si è fermato nella stazione
di Salerno, abbiamo potuto constatare che in seguito ai continui bombardamenti
subiti dagli aerei e dalle navi, la città era ormai ridotta ad un cumulo di
rovine. Scendiamo dal convoglio, per riempire la borraccia d'acqua, facciamo la
coda per avere un caffè caldo dal venditore ambulante, comperiamo all'edicola la
settimana enigmistica e ritorniamo ad occupare il nostro posto sul vagone
diretto a Napoli.
Il treno diretto a Napoli, costeggia i paesi della costa Amalfitana, che rivela
paesaggi di incomparabile bellezza, mentre oltre la penisola Sorrentina e lungo
la costa del Cilento il mare è irresistibile, così come Capri, Ischia e Procida,
che sono le isole del golfo di Napoli, che negli anni Settanta, con Adriana mia
moglie, nel viaggio di nozze abbiamo visitato soggiornandovi. Superiamo l'antica
città di Pompei, che sorge ai piedi del Vesuvio, che fu completamente distrutta
in seguito alla famosa eruzione del vulcano avvenuta nel 79 d.C. Giacque
sommersa da ceneri e massi di pomice fino al 1748, anno in cui gli scavi
portarono alla luce la città " congelata" dalla catastrofe. Furono, infatti,
rinvenuti edifici, statue, strade, sculture e dipinti completamente intatti.
Lasciamo la storia e riprendiamo il nostro viaggio verso la città di Napoli, che
ormai siamo giunti alle sue porte. Nella luce del tramonto, scorrono ora i verdi
prati e i campi e le colorate masserie. Di fronte a noi si eleva imponente la
montagna fumante del Vesuvio con il suo splendido golfo illuminato dai caldi
colori del tramonto. La città era bellissima, sembrava che fosse uscita indenni
dalla guerra, ma non era così. Bastava percorrere il centro della città per
rendersi conto delle macerie, dei palazzi sventrati e delle case distrutte.
Il treno, dopo due giorni di viaggio, finalmente si è fermato sotto la pensilina
della stazione Centrale di Napoli. Prendiamo i nostri poveri bagagli e usciamo
dalla stazione. Sulla grande Piazza Garibaldi, vi erano una fila di taxi, alcune
carrozzelle e molti facchini, nella attesa di portare i bagagli dei viaggiatori.
Vicino all'uscita, vi era una signora di mezza età con un carrettino spinto a
mano. Si è avvicinata e ci ha offerto i suoi servigi. Ci ha detto inoltre, che
se avessimo bisogno di una camera per il nostro soggiorno, era lieta di
ospitarci. Abbiamo caricato i pochi bagagli sul carrettino e ci siamo avviati
verso l'abitazione della signora Concettina. L'appartamento era subito lì
vicino, bastava attraversare la Piazza Garibaldi, imboccare Via Spaventa, e dopo
cinquanta metri eravamo giunti al nr. 18 dello stabile dove abitava la signora.
Era un modesto appartamentino con due camere e i servizi. Per tutto il periodo
del nostro breve soggiorno a Napoli, siamo rimasti nella casa della signora
Concettina. Oltre a lavarci la biancheria personale, la signora ci preparava
anche la cena. Nei giorni che hanno seguito, abbiamo incontrato altri giovani
del nostro paese, con i quali abbiamo trovato lavoro presso il grande Porto,
occupato dalle navi americane. Il nostro lavoro consisteva nel sistemare nei
grandi magazzini militari i rifornimenti che giornalmente giungevano dagli Stati
Uniti d'America.
Nella città di Napoli, siamo rimasti tre mesi circa. In questo nostro soggiorno,
abbiamo avuto il tempo di visitare le bellezze naturali ed artistiche della
grande città partenopea.
Conosciamo tre soldati americani simpaticissimi: uno che a casa faceva il
farmacista e qui è addetto al Pronto Soccorso dell'Infermeria militare, un altro
che faceva il portalettere e a Napoli, era addetto ai magazzini militari e il
terzo era sempre ubriaco, il quale spesso era venduto dagli scugnizzi napoletani
ad altri ragazzi. Insomma, il mattino faceva spesso rientro in sede tutto
spogliato e senza un dollaro in tasca. Il farmacista si chiamava Jon Romero ed
era nativo di Sant Luis, Misuri. Il portalettere Robert, era di Pittisburg,
Pennsylvania. Erano buoni, gentili e umani. Personaggi vivi di un film di Will
Rogers. Bastava guardare il viso di Roberts, il suo sorriso candido e cordiale,
per capire la grandezza dell'America, la forza morale e religiosa dell'America.
Se gli americani sono tutti così, le nostre speranze sicuramente non andranno
deluse.
Alcuni giorni prima della nostra partenza, in una serata bellissima, con una
luna splendida che si specchiava nella baia di Marcellina, Concettina, aveva
deciso di offrire una cena ai nostri tre amici americani. Per quella occasione
sul terrazzino della sua casa, aveva preparato tutto a puntino. C'erano anche le
candele accese sul tavolo. E' stata una cena a base di pesce e spaghetti con il
pomodoro. Chiasso, risate, vino e grappa,(we have a reakky good ti-me) e che
tradotto in italiano significa: Noi abbiamo in realtà buon tempo) e speriamo
molto. Che cosa speriamo? Non lo sappiamo neanche. Ma speriamo. Basta. E' quasi
la felicità.
Ci mancava ancora di effettuare un'escursione nella città di Caserta, per
visitare la bellissima e famosa Regia. Ci ha pensato Jon Romero. Ha procurato
una Jeep militare e tutti a bordo abbiamo raggiunto, in un pomeriggio splendido
di sole, la Città di Caserta dominata dal prestigioso e imponente Palazzo reale,
la cui struttura si avvicina a quella della reggia di Versailles, L'edificio
voluto da Carlo III di Borbone, vanta più di 10000 stanze, grandi scalinate e
numerosi appartamenti reali riccamente decorati. Fu iniziato a partire dal 1752
sotto la direzione dell'architetto Luigi Vanvitelli. Incantevole è il
grandissimo parco ricco di vasche, fontane, cascate e gruppi scultorei.
La nostra esperienza nella grande città di Napoli, si concluse positivamente.
Siamo ritornati al nostro piccolo paesello, più ricchi dentro. Quello che
vogliamo sottolineare di questa nostra esperienza napoletana è che bisogna
prendere le cose con filosofia, e che per i napoletani è una tradizione, oltre
che una necessità. A Napoli la filosofia è dappertutto, come nelle città
dell'antica Grecia, dove si filosofava passeggiando. Non c'è dunque ragione di
stupirsi se ogni napoletano, concittadino di Giambattista Vico, di Benedetto
Croce e di Gennaro Bellavista, intraprendere le cose della vita di tutti i
giorni, in quel caos generale che il corso della guerra aveva lasciato la Città
di Napoli. Se non c'era stato il mito della filosofia spicciola, che regna da
sempre fra i napoletani, non so come avrebbero fatto a sopravvivere e ritornare
alla normalità. La città, in un certo senso, era invasa dagli americani, ma
quella invasione ha portato a un certo benessere economico e commerciale. Sulle
bancarelle di Via Prè e di tutti i vicoli del centro storico, si trovava di
tutto, dal cioccolato, alle uniformi militari, alle sigarette, alle radioline e
a tutto quello che occorreva per sopravvivere. I Bar, i Ristorantini, le
Pizzerie e le sale da ballo, avevano riaperto i battenti. Le belle e brune
ragazze napoletane costituivano l'attrazione più importante, specialmente per i
militari americani e costituivano inoltre, la fonte principale del benessere
delle famiglie. La Città partenopea, in quel tempo e anche oggi, è carente nel
fornire un posto di lavoro ai giovani e spesso, sono costretti a vendere
qualsiasi cosa per le strade, come le sigarette americane ed altri oggetti
provenienti dal porto. Oggi è tutto cambiato, quelli che la fanno da padroni
sono i camorristi e spacciatori, i rapinatori dalla pistola facile. In quei
tempi ai quali ci riferivamo, per i caratteristici e pittoreschi vicoli si
poteva camminare senza essere importunati, mentre oggi anche i turisti sovente
sono scippati e malmenati. Insomma, vedendo come vanne le cose oggi a Napoli,
possiamo dire che la città era più vivibile e le persone erano più rispettate.
E' proprio vero, i tempi cambiano e pure la vita cambia. Se si continua di
questo passo, non si sa dove si va a finire, sicuramente in un cul di sacco.
Napoli, è oggi una città caotica ma spettacolare. Affacciata sul celebre golfo
omonimo si estende nella fertile piana campana e occupa alture e conche
derivanti da antichi crateri vulcanici. Con il Vesuvio a lato e le isole di
Capri, Ischia e Procida di fronte, offre incantevoli panorami. Pompei e Ercolano,
all'ombra del vulcano che le ha distrutte, contengono le più eloquenti rovine
dell'era romana in Italia. Per secoli Napoli ha dominato il sud d'Italia.
Il grande scrittore e amico carissimo Mario Soldati, che seguiva passo passo,
l'avanzata degli Alleati dal Sud al Nord, ha scritto moltissimi articoli e libri
della liberazione di Salerno di Napoli e di Roma Riportiamo qui di seguito una
sua significativa poesia dedicata a Napoli.
NAPOLI 1944.
Fischia il vento al Colascione
Tra le case diroccate:
Siamo cinque o sei persone
Mal nutriti mal pagate.
Fischia il vento: E' già Domenica:
L'avanzata come va?
Sono fermi. E' ancor Domenica:
Roma sempre sta di là
Il valore della memoria
C'è un paese come ce ne sono tanti in Italia, fatto di gente felice d'essere al
mondo e così ricco di sentimenti da non considerare forestiero chiunque vi
giunge, accogliendolo anzi, con le guardinghe, studiate attenzioni che la
civiltà contadina trasmise a chi fu di quella pasta, plasmandolo fino a creare
dei cloni che ripetono all'infinito l'anima che li rendi vitali. A ben guardare,
la vera clonazione genetica è questa: prese le mosse dai ceppi secolari degli
antichi ulivi che portarono gli antichi Greci e trapiantarono nelle pianure,
nelle colline e nei costoni identici uno all'altro e in perfetto allineamento
come soldati. Oh si, i soldati. Essi sostarono a lungo sotto le fresche fronde
di questi altissimi e fruttiferi alberi dell'amicizia.
La nostra memoria ci porta a ritroso nel tempo e ci fa rivivere la tragedia
dell'ultima grande guerra mondiale. Ricordo che gli ultimi reparti del nostro
Esercito, che costituivano la retroguardia in Calabria, si stavano ritirando
verso Salerno, dove, con i tedeschi, stavano costituendo la testa di ponte per
contrastare lo sbarco dell'Anglo-Americani.
Sulle alture del nostro piccolo paese esisteva un posto d'avvistamento aereo
costituito da un plotone di "camice" nere volontari, nativi e residenti a
Cosoleto, ma un bel mattino anche loro, alla chetichella, avevano abbandonato la
postazione, le armi e i razzi di segnalazione. Avevano disattivato soltanto la
linea telefonica che li collegava alla contraerea di Reggio Calabria, mentre dai
Piani dell'Aspromonte, dopo la cruenta battaglia sostenuta dagli uomini della
Divisione Nembo, contro l'avanzata di un reparto della Quinta Armata canadese
che dopo lo sbarco si erano spinti fino ai Piani dell'Aspromonte. Il nostro
piccolo borgo aspromontano, era diventato improvvisamente, per la sua posizione
collinare e quindi ricco di vegetazione di piante di alto fusto, un centro
strategicamente importante, per il transito delle truppe corazzate tedesche e
italiane, che si ritiravano verso nord e che grazie a questa lussureggiante
vegetazione, permetteva loro di defilarsi alla vista degli aerei nemici.
A questo punto é doverosa una breve citazione storica di questo simpatico borgo,
barbicato su di una splendida e panoramica collina, immerso nel verde dei suoi
secolari uliveti e castagneti. Cosoleto, detto anche "Cusuleto", fu feudo dei
principi Ruffo- Tranfo. Fu quasi interamente raso al suolo dal sisma del 1787,
che distrusse il vecchio castello e il Monastero, fondato da padre Beneventura,
cui era annessa la Chiesa di San Nicolò.
I cittadini, sostenuti dai Principi, lo ricostruirono in un luogo sicuro e
riparato, appunto su di una collina. Così ebbe luce il piccolo paese, dal
sottosuolo roccioso, dal clima mite e dalle fresche e pure acque, noto per la
ricchezza dei suoi oliveti e dei suoi castagneti. Divenne Comune nel 1806. Fu
patria di combattenti durante la prima e la seconda guerra mondiale. Fra i tanti
ricordiamo: Francesco Battista, decorato di medaglia d'oro alla memoria, e il
cavaliere Francesco Carrozza, medico. Cosoleto si divide in due borgate:
Sitizano, sede patrizia dei marchesi e dei conti Taccone; Acquaro dove è sito il
Santuario di San Rocco, meta di continui pellegrinaggi da parte dei fedeli.
Questi accorrono soprattutto il 15, il 16 agosto e il primo novembre. Grazie
alla sua posizione (440 metri sul livello del mare) domina tutti i paesi della
Piana, con la possibilità per il turista di ammirare un suggestivo panorama, che
comprende il Golfo di Gioia Tauro e Punta Vaticano.
Avviata la zootecnia. Per il resto l'economia è essenzialmente agricola, ed è
basata sulla produzione di cereali, vino, castagne, patate e olio.
Grande impulso ha ancora oggi l'artigianato dell'ebanistica e del ferro. Il 20
gennaio festa del patrono San Sebastiano. Vi nacque Giorgio Ruffo, vescovo (
XVI-XVII secolo). Per noi, ha un significato molto speciale, quello di averci
dati, molti anni fa i natali. Quindi, siamo nati e cresciti in questo simpatico
paese. Dopo la Prima Guerra Mondiale molti giovani abbandonarono il paese natio
in cerca di fortuna in Argentina o negli Stati Uniti. Con la fine della Seconda
Guerra, della quale ci riferiamo in questo nostro racconto, ancora molti furono
costretti ad emigrare per la mancanza di lavoro in un periodo di grande
incertezza politica ed economica.
Alla partenza dalla stazione Marittima di Napoli dei grandi transatlantici per
l'Australia si assisteva a scene commoventi, le mamme in lacrime salutavano i
loro figli con la speranza che sarebbero ritornati presto, dopo un breve periodo
di lavoro, per svolgere qualche attività in proprio.
Ciò purtroppo è stato possibile a pochi, molti sono rimasti in Australia, Canadà,
Stati Uniti, Argentina, Brasile, Sud America. Ritornarono ogni tanto da turisti
nel paese natio per rivedere parenti e amici. Dopo quest'inciso, ritorniamo a
parlare dei giorni tristi dopo l'8 settembre 1943.
A quella epoca noi eravamo poco più che ragazzi e come i ragazzi di tutte le
epoche, spesso anno commesso delle sciocchezze. La stessa cosa è successa anche
a noi. Dopo la battaglia del " Silandro", ( che in italiano significa
pungitopo), che si trovava appunto sui Piani dell'Aspromonte, dove le truppe
canadesi, giorno dopo giorno, stavano occupando i paesi aspromontani, mentre
sulla litoranea che da Gioia Tauro porta verso Salerno, transitavano notte e
giorno le colonne militari degli Alleati inseguendo il nemico e dirigendosi
verso Salerno. Da qualche settimana il posto d'avvistamento che sorgeva sulla
collina del paese, era stata abbandonata. A questo punto, la curiosità di noi
ragazzi era tanta, e senza pensarci due volte, siamo saliti fin lassù e abbiamo
rovistato negli alloggiamenti degli uomini della milizia fascista, abbiamo
trovato nella rastrelliera i moschetti e nell'armadietto i pacchetti delle
munizioni. Ci siamo impossessati delle armi e abbiamo raggiunto il punto
d'avvistamento dove si trovava istallata la piccola base di lancio dei razzi di
segnalazione. Il sole era tramontato da un pezzo e il cielo era ancora tinto di
rosso e si stava progressivamente oscurandosi, quando avevamo acceso la miccia
ed era partito il primo razzo. Il gioco ci appassionava e ne sono seguiti una
serie di questi lanci, uno dopo l'altro, senza renderci conto di quello che
stavamo commettendo. Alla fine dei lanci di tutti i razzi che si trovavano nella
rastrelliera, che a noi sembravano dei semplici razzi d'artificio, quelli che si
lanciano nel corso della festa del paese. Sicuramente, per noi è stata una
bellissima e divertente dimostrazione di bravura ma quella dimostrazione
pirotecnica fuori programma, ha rischiato di provocare una vera e propria
tragedia per il paese.
Le bellezze del Parco faunistico dell'Aspromonte
Infatti, le truppe Anglo- Americane, che erano accampate lungo la linea
litoranea, nei pressi del Ponte di Petrace, hanno registrato quella serie di
segnalazioni e l'hanno comunicato, via radio, alla loro base. Mezz'ora più
tardi, giungevano sulla Piazza di Cosoleto, in avanscoperta due motociclisti,
seguiti da un'autoblindo e una Jeep americana, per accertarsi se sulle colline
circostanti vi erano delle sacche di resistenza nemica. I carabinieri della
locale stazione, assicurarono i militari Alleati, che non c'erano dei tedeschi
nei dintorni e così hanno fatto ritorno alla loro base. Il giorno seguente,
accompagnati dai nostri rispettivi genitori, abbiamo consegnato ai militari
dell'Arma, i moschetti 91/38, con il munizionamento di dotazione dei moschetti,
che avevano sottratto nella casermetta abbandonata dei militi. Lo scampato
pericolo, per fortuna è terminato senza conseguenze, ma a noi ragazzi per
punizione ci è stata fatta una ramanzina dal tono paternalistico del Comandante
della locale Stazione dei Carabinieri.
Lo scrittore Joseph Conrad, così scrive dei giovani: " Solo i giovani hanno di
questi momenti. Non parlo dai giovanissimi. No. I giovanissimi, per essere
esatti, non hanno momenti. E' privilegio della prima gioventù di avere in
anticipo sui propri giorni, in tutta una bella continuità di speranze che non
conosce né introspezioni e sono senza carattere introspettivo.
Questo è il periodo della vita che può portare i momenti ai quali ho accennato,
di quei momenti causati dallo sconvolgimento di quella disastrosa guerra. Quali
momenti? Momenti di tedio, di stanchezza, di scontento. Momenti d'irriflessioni.
Parlo di quei momenti nei quali i giovani sono propensi a commettere atti
inconsulti come quelli ai quali ci riferiamo.
Quella sera c'era un bellissimo chiaro di luna che illuminava il piccolo borgo
apromontano. Il gestore della rivendita di pane e di vino, parlando con gli
astanti diceva che bombardavano verso Briatico, e ci indica lontano, nel cielo,
dei punti luminosi e mobili.
Il bombardamento cessa verso la mezzanotte. Egli rientra in casa. Restiamo sulla
Piazza del Municipio una diecina di ragazzi ed alcuni adulti e continuiamo a
passeggiare e parlare della guerra e dei continui bombardamenti. Prima di
rientrare in casa, mi fermo a guardare. Ascolto. La notte. La luna. La quiete
profonda. Un grillo continua a cantare sulla pianta di melograni nel giardino di
fronte alla mia casa.
E come sempre le notti lunari che illuminano la campagna circostante ed il
paese, sentendomi smarrire rimormoro, quasi una preghiera, quasi una
giaculatoria come diceva sempre mio cugino don Rocco, parroco del borgo, che in
qualche modo contenga l'angoscia e nello stesso tempo il mistero della vita. "
Dolce e chiara è la notte senza vento.
Non riuscivo a dormire quella notte e pensavo sempre a quella nostra piccola
vicenda del lancio dei razzi di segnalazione. E nell'angoscia, nella dolcezza,
nella pace misteriosa della notte, anche questa volta, il senso di vita mi
sembra più vicino a una spiegazione che non nei colori e nei motivi degli
avvenimenti.
Il mio pensiero, in un certo senso, corrisponde al pensiero del grande scrittore
Mario Soldati, quando scriveva: " E questi avvenimenti stessi, per quanto
tremendi, e le sciagure stesse, della nostra Patria, mi sembrano più vicine a
una spiegazione non se penso alle colpe di alcuni uomini o ai meriti di altri,
se non penso a governi, a guerre, a lotte di classi o di popoli, ma se contemplo
l'immobile quiete della luna, la notte, il cielo immenso, se sento su di me il
soffio della brezza e il dolore della morte e della vita, che sono unite, per
sempre, dentro di me e infinitamente intorno e sopra di me".
Il mattino seguente, si sentiva nel cielo il rombo degli aerei che sorvolavano
la Piana di Giaia Tauro. Erano due aerei, un caccia tedesco e un ricognitore
canadese. Uno inseguiva l'altro, mentre crepitavano le mitragliere di entrambi i
velivoli. Dall'alto della collina, assistemmo al duello e alle continue
evoluzioni, alle picchiate degli aerei, ma ad un tratto, il piccolo ricognitore
si è avvitato ed è precipitato fra gli uliveti a pochi chilometri da noi
infilandosi dritto dritto nel terreno. Dagli uliveti si levò una colonna di fumo
nero, mentre il caccia tedesco si allontanò velocemente verso nord. In poco
tempo, oltre alle Autorità del paese, è giunta molta gente, per vedere e
soprattutto per curiosare. Non c'era nulla da vedere, soltanto un mucchio di
rottami di ferro e di alluminio. Il motore era completamente sprofondato nel
terreno, mentre da quello che doveva essere la carlinga, fu estratto il pilota
completamente carbonizzato. Dai documenti rinvenuti, si è appreso che era un
pilota canadese e che al suo paese aveva lasciato la moglie e due bambini in
tenera età. E sì, il tempo non scorre sempre allo stesso ritmo. Ci sono delle
lunghe sere d'estate o d'autunno in cui sembra quasi immobili. Ci sono degli
istanti di felicità che svaniscono così in fretta che sembrano appena sfiorati
dalla sua corsa ansimante. Gli ultimi istanti di quel pilota, sicuramente
passarono nel terrore con la visione della morte negli occhi.
Che cosa sia stata la grande guerra 15/18, il massacro più formidabile dopo il
diluvio e la grande peste, dopo la carestia della Cina e dell'India e le
campagne Napoleoniche, che cosa sia stata quella guerra, prova generale molto
puntuale di ciò che sarebbe accaduto, per completare l'opera, appena vent'anni
dopo, non ho bisogno di raccontarvelo. Lo sapete tutti a menadito. La seconda
guerra mondiale, alla quale ci riferiamo, è stata una macchia nera e rossa che
si estendeva all'infinito prima di restringersi, una ferita che si apre prima di
chiudersi, un flusso seguito da un riflusso. La Prima fu un corpo a corpo che
trova il suo punto d'equilibrio, s'affossa nelle trincee e non la smette più di
uccidere nell'immobilità. La vittoria rimane continuamente sul filo del rasoio.
Più volte basta un nonnulla perché il campo dei vinti divenga il campo dei
vincitori. La storia ci racconta che all'inizio dell'estate del 1918, alla
domanda se sia sicuro della vittoria, Ludendolrff dichiara ancora: "Rispondo con
un sì categorico". Una delle spiegazioni della Seconda Guerra mondiale è che la
Prima è stata vinta solo per fortuna, quasi per caso, comunque sul filo di lana.
Nessuno dei due eserciti è inferiore all'altro. La sanguinosa partita a scacchi,
il braccio di ferro strategico sarebbe potuto essere vinto da qualsiasi
contendente aggrappato alle proprie trincee e ai propri reticolati. Tra valore
ed ostentazione uguali, più d'una volta è stato il cieco destino a creare la
differenza.
Probabilmente per piacere a quelli che se ne fanno gli apologeti, la guerra come
sempre, contribuisce potentemente al progresso delle tecniche. Indubbiamente
l'elettricità, il telefono, l'automobile, l'aviazione esistono prima del 14, ma
è la guerra che li fa progredire formidabilmente e li proietta nel futuro. I
secoli hanno sempre un poco più o un poco meno di cento anni. Il Settecento è
breve: si apre con la morte di Luigi XIV, nel 1715 e si chiude il 14 luglio 1789
con la presa della Pastiglia. Dopo un intersecolo di venticinque anni, che non
appartiene né al piacere di vivere né alle agognate imprese, né ai filosofi né
ai romanici, l'Ottocento incomincia a Waterloo il 18 giugno 1815 con la caduta
di Napoleone e si conclude nell'agosto 1914. La Prima guerra mondiale apre, con
grandi squilli di trombe, il secolo della Seconda e della paura della Terza. E
lo fa entrare in un mondo nuovo in cui i discorsi di quello vecchio sono coperti
dalle bombe.
La guerra, barbaro strumento di progresso scientifico e tecnico, manifesta anche
delle capacità di fusione che la pace non ha. Di tutto questo, nella nostra
nuova epoca consumistica e tecnologica, ce ne siamo resi perfettamente conto, ma
abbiamo visto anche che le classi sociali si ignorano e si mescolano nella
stessa fornace.
Un vecchio saggio così ci ha detto: "Ricordiamoci che il sole nasce ogni mattina
e ogni sera possiamo ammirare il meraviglioso tramonto pieno di luci e di
colori. Ricordiamoci inoltre, che la vita è piena di fragole buone da gustare!
Sempre ed in ogni circostanza.
IL SOLE
Se il sole splende
Non guardare
L'ombra dell'albero,
Ma la sua cima.
E se il sole muore
Non pensare
Che tutto è finito,
Risorgerà domani
Per chiederti conto
Di quella pace
E di quel riposo
Che la notte
Ti ha dato.
L'avvicendamento.
Racconto
Ormea è una ridente cittadina dell'alta Val Tanaro, che sorge in una conca ai
piedi del pizzo d'Ormea, alla sinistra dell'alta valle del fiume Tanaro,
denominata Ulmea e Ulmeta nell'alto medioevo, fu possedimento saraceno nel corso
dei sec. X-XI. Passata prima ai conti d'Albe, quindi ai marchesi di Ceva, fu
fortificata nel XIII secolo, fu sottoposta a varie signorie ( fra cui i Visconti
nel XIV sec. I re di Francia, gli Asburgo, la repubblica di Genova); nel 1722 fu
eretta in marchesato dai Savoia ai quali era passata nel 1665. Devastata dai
Francesi e dai Genovesi durante il periodo rivoluzionario alla fine del XVIII
secolo. Per il suo passato storico fu denominata città e dista pochi chilometri
da Ceva e da Mondovì. In questo ridente paese, molti anni fa un giovane
carabiniere fu trasferito per servizio dalla bella città di Alessandria In
questo paese della Val Tanaro, c'erano un mucchio di belle ragazze che per
giunta, avevano una speciale predilezione per gli appartenenti all'Arma
Benemerita. Era il mese di agosto ed i primi colori di una precoce estate
cominciavano a farsi sentire. La sera, verso le ore 20, frotte di ( tuse),
signorine per chi non é stato in Ormea, sciamavano puntualmente, come soldati in
libera uscita, dalle tante viuzze del borgo montano, riversandosi sul lungo
fiume Tanaro per la consueta passeggiata. Per tre ore di seguito, fino verso le
23, centinaia di persone, in gran parte appartenenti al gentil sesso,
percorrevano senza sosta, avanti e indietro e tenendosi a braccetto in fila di
3-4, un breve tratto di strada costeggiante il fiume che, quasi timidamente al
cospetto di tanta grazia, faceva udire il suo lieve mormorio, frangendosi contro
le rocce su cui la strada poggiava.
Il nuovo militare, nuovo del luogo e delle usanze, passeggiavo stupito con il
suo collega Guerci, ne ricorda ancora il nome, che più anziano di lui di qualche
mese appena, lo aveva preceduto appunto da qualche mese solo dalla Legione
Allievi di Torino a quella di Alessandria. Si dava l'aria di vecchio volpone lui
ed alle sue esclamazioni di meraviglia nel vedere un sì fatto andirivieni di
giulive, quasi invitanti, signorine, rispondeva lui pugliese, il che era tutto
dire…. Con certa sufficienza. Eh, caro, come si vede che non ti sei mai mosso
dal tuo piccolo paesello calabrese, qui è così, questa sera, forse perché soffia
un po' di brezza il passeggio è meno affollato dal solito. " Ma dimmi un po'"
facevo lui, com'era che gli uomini sono pochi e le donne tante. Ti ho già detto
che tutte queste ragazze sono la maggior parte villeggianti. Eppure ci sarebbe
tanto da dire su queste ragazze. Ma non vedi che portamento, che, carnagione
soda, abbronzata, che gambe che… fianchi perfetti, e che busti, che capelli
folti, lucenti quasi resi vivi dalla bella aria montana? Te l'ho già detto.
Questo è un paese, anzi un paradiso terrestre. Io non so da dove incominciare.
Ho due o tre ragazze per le mani, una é più bella dell'altra, devi sapere….
Scusami - l'interruppi il nuovo giunto - conosci per caso questa bella bruna con
gli occhi azzurri che viene verso di noi? Ecco questa in mezzo. Guarda che
sembra una santa: che occhi, un'immagine. Ah. Si. L'ho vista qualche volta a
passeggio. Mi pare che abiti là in Via Nazionale Monte, in quel albergo che
adesso è chiuso per fine gestione, a fianco di quella villa bombardata, la vedo
quasi tutte le mattine che fa pulizia alle camere. Ritengo che sia una ragazza
seria.
Rientrato in caserma quella prima sera di permanenza ormegese, con la testa
confusa e con cuore un qualcosa di indefinito. Si coricò non ne valeva la pena,
dato che era comandato di servizio (0-4) con un appuntato piemontese di cui
ancora ricordo il nome, un certo Rossi Giovanni, il quale gli disse - Diego- lui
ci teneva al servizio e lo faceva a puntino. Si svesti e lentamente e indossa
l'uniforme di perlustrazione. Poi siccome mancava parecchio alla mezzanotte, si
affacciò alla finestra della sua camera che dava sul fiume Armella, affluente
del Tanaro.
In quel momento la luna spuntava dietro le montagne dentellate del massiccio. I
primi raggi riflettevano e filtravano attraverso gli olmi che si riflettevano a
sua volta nell'Armella muta e pur viva che, increspandosi leggermente pareva
solleticata dall'insolito chiarore. Anche i tetti della piccola cittadina
incorniciavano a rischiararsi ed a formare zone di pallida ombra. Il suo
sguardo, ancora inesperto dell'ubicazione cittadina, vagava verso l'agglomerato
urbano e cercava quella tale villa bombardata.
Stava per orizzontarsi e già la sua mente fantasticava su ciò che il quel
momento stavo facendo colei che lo aveva colpito. Mi avrà notato? Penserà a me?-
diceva. Come corrono gli innamorati! Quando il campanello della caserma squillò
secco, facendolo quasi sobbalzare. Era l'appuntato che, puntualissimo, giungeva
per intraprendere il servizio. Indossò la bandoliera, misi il berretto in testa,
afferrò il moschetto e di corsa é sceso le scale.
Comandi capo- feci presentandosi al superiore. Durante le quattro ore che a lui
apparvero assai lunghe, il graduato parlò molto del servizio e delle mancanze da
cui doveva rifuggire, prima fra tutte le relazioni amorose. Ma chi ascoltava i
saggi consigli di un vecchio appuntato? Feci anzi di tutto per avvicinare, nei
giorni successivi, la dea fatata e riuscì ad iniziare con lei una relazione
amorosa che, pur rendendolo follemente felice, lo faceva vivere in ansia
continua logorandolo piacevolmente ma inflessibilmente. Tale era il tormento
causatogli della relazione peraltro non consentita a lui giovane carabiniere,
che poco o nulla si avvedeva dalle attrattive e delle comodità che Ormea
offriva: clima magnifico, territorio molto vasto, montagnoso e pittoresco, in
una posizione direi felice, negozi di ogni genere, superiori molto bravi,
colleghi fra cui regnava un'armonia individuale, popolazione progredita,
affabile ed ospitale. Ma lui nulla gustava e vedeva all'infuori di quella
ragazza bruna con gli occhi verdi, che con la sua femminilità spiccata, gli
procurava, insieme, momenti di soave ebbrezza e sofferenze non comuni. Confessa
che la sua rete incominciava ad essergli di qualche impiccio, ma come rinunciare
alle calde braccia di una sì bella creatura? Quasi ogni sera la vedeva e certi
suoi modi di fare, certi suoi gesti, il suo sguardo ancora li ha presenti.
Il comandante della stazione - Rossi Roberto - che non era un fesso, seguiva il
suo comportamento ed un bel giorno, lo invitò nel suo ufficio e senza tanti
preamboli le disse che non potevo più rimanere ad Ormea e che dovevo " cambiare
aria" e, forse, essere punito. Intanto non doveva più fruire della libera uscita
ed era consegnato in caserma fino a nuovo ordine. Gli spiaceva perderlo in
quanto aveva compreso che era - lo diceva lui - un ragazzo intelligente e che,
mettendo la testa a posto, sarebbe potuto diventare un bravo carabiniere e nel
tempo un ottimo sottufficiale. Doveva però constatare che la strada su cui si
era incamminato appena all'inizio della sua carriera era del tutto errata. Non
si scoraggiò, comunque, e riprendessi la retta via. Egli taceva schiantato dalla
verità del diretto superiore e dell'idea di dover lasciare dopo due anni la
bella cittadina di Ormea alla quale si sentiva gia tanto… E dove lo avrebbero
mandato?
Una settimana dopo saliva in treno diretto a Ceva. Sbuffando il convoglio si
mosse e lui col cuore straziato dalla pena, diedi un ultimo saluto d'addio ai
colleghi che lo avevano accompagnato alla stazione e partì. Quando il treno si
era allontanato parecchio, volsi tristemente lo sguardo alla cittadina. Il bel
campanile medioevale sembrava lo fissasse, con sguardo maternamente severo, il
quale campanile era sito sopra la chiesa posta sulla sommità che copriva tutta
un'erta collina spinta a mò di penisola, alla destra del fiume Tanaro azzurro. A
Ceva cambiò treno e salì su quello che lo portò a Genova Principe, dove nel
grande Porto, c'era la nave della linea dei "Poeti", che lo portò ad Alghero,
nella meravigliosa isola della Sardegna. Una sgangherata e vecchia corriera,
probabilmente un residuato bellico della seconda guerra mondiale, lo portò nella
Città di Nuoro, la città capoluogo dell'intera regione, situata ai piedi dei
monti di Oliena, ai confini della Barbagia di Ollolai, della Baronia e del
Goceano. Il mattino successivo dalla città di Nuoro, con la stessa vecchia
corriera, anno raggiunto il cuore della Barbagia, che è una vasta regione
montuosa al centro della Sardegna, intorno al massiccio del Gennargentu. La
vecchia e sgangherata corriera si fermò nel paese di Oliena, che sorse a 378
metri d'altezza, nella valle mediana del Cedrino, ai piedi delle scoscese
Sopramonte, dove si producono vini pregiati, olio, frutta e frumento. Intenso
l'allevamento di bestiame. Vario l'artigianato. Al centro del paese sorge la
Secentesca parrocchiale eretta per i gesuiti e chiesa gotica di Santa Maria ( XV
secolo), proprio al centro di una piccola piazza poco illuminata e poco
frequentata. In poche parole era vuota. Il fattorino lo aiutò a scaricare il
bagaglio e poi la corriera ripartì per il villaggio di Bitti. Girò lo sguardo
d'intorno: non un segno di vita. Un senso di tristezza e di scoraggiamento gli
strinse la gola ed avrebbe voluto urlare tutta la sua pena, avrebbe voluto
battersi e punire così la sua leggerezza. Ma era un carabiniere e non doveva
piangere, né imprecare, doveva contenere e reprimere il suo dolore. Come nelle
fiabe vidi ad una certa distanza il fioco chiarore di un lampione. Laggiù in
fondo, all'angolo estremo della piccola piazza, c'era un ragazzo fermo sotto il
lampione. Altra sorpresa, non sapeva parlare l'italiano e si esprimeva in un
dialetto sardo molto astruso.
Bella Ormea, col suo dolce idioma piemontese misto, io t'ò perduta e per colpa
mia! Oh sciocco che sono stato! A stento riuscì a farsi capire che doveva
raggiungere la caserma dei carabinieri e avevo necessità di essere aiutato a
trasportare fin lì il suo pesante bagaglio. Due grosse e pesanti valige. Il
giovanotto, si tolse la cinghia dei pantaloni, la passò fra le maniglie delle
valige, fece come un vecchio porta bagagli, uno di quelli che spesso si vedono
nelle grandi stazioni ferroviarie, lo aiutò e se le misi una davanti e una di
dietro a cavallo alla spalla destra, mentre lui, oltre al moschetto d'ordinanza,
portavo il resto dei bagagli. Lasciarono la piccola piazzetta, fiocamente
illuminata e si avviarono attraverso una strada molto stretta ed angusta, tanto
che gli sembrava un vecchio carruggio, uno di quei carruggi che s'incontrano nei
borghi marinari della bella Liguria. Dopo circa una ventina di minuti, sono
giunti davanti al portone della caserma. A furia di parlare con il ragazzo,
finalmente ha capito che si chiamava Savino Liturgiu, e che di mestiere faceva
il pastore sulle montagne brulle e selvagge. Spesso, era costretto a viveva da
solo con le pecore nell'ovile ma quel giorno, volontariamente si era allontanato
e girovagava nei pressi del paese. Ringraziò il ragazzo, gli misi alcuni
spiccioli in mano e lo licenziò. Se ne andò guardandolo come se fossi stato una
bestia rara. Si, perché egli a furia di stare da solo fra quelle montagne a
guardare le pecore, si era quasi inselvatichito, ma infondo ha compreso che
fosse un ragazzo di animo buono. In seguito rividi Liturgio, e oltre a diventare
amici, è diventato uno dei suoi preziosi confidenti.
Premette il campanello e poco dopo la porta si aprì. Apparve un carabiniere
tozzo e robusto, rosso in faccia e gioviale, vestito in tenuta di campagna. Le
tesi la mano, la sua franca manata e facendogli segno di entrare, gli chiesi,
forse incredulo, nel vedere il suo aspetto mingherlino ed imberbe, chi aveva
trasportato il bagaglio in caserma. Egli rispose che era stato aiutato da un
ragazzo molto taciturno di nome Liturgiu. Ah, si, quel ragazzo che fa il garzone
e che vive da sempre con le pecore, quel mezzo selvaggio? Si, proprio lui, quel
bravo ragazzo. Lo guardò con attenzione e, senza pronunciare verbo le diedi una
manata sulla spalla, sospingendolo verso la mensa dove erano riuniti, in quel
momento, i componenti della stazione: quattro in tutto, compreso il brigadiere.
Il comandante e gli altri gli diedero il benvenuto e fattolo sedere lo fecero
partecipare alla loro cena.
E così viene da Ormea, riepilogò il brigadiere - Bella Ormea, Ceva e Mondovì, e
ancora più belle le sue donne; ci sono stato molti anni fa a Mondavi e anche al
Colle di Nava e….lasciamo andare ( seppi dopo che anche lui era stato trasferito
per lo stesso motivo, sì per lo stesso motivo amoroso).
Qui è tutta altra cosa, caro ragazzo, - continuò - qui il territorio è vasto e
montagnoso. Bisogna avere gambe e polmoni di ferro. I tuoi colleghi ti
spiegheranno e tu stesso constaterai come qui, a differenza della bella Val
Tanaro, sia necessario compiere lunghe e faticose camminate e spesso pernottare
negli stazzi e mangiare con il pastore e dormire con le pecore. Ora vai a
riposare, perché immagino che ne avrai bisogno e domattina presentati nel mio
ufficio.
Dormì la notte, a come dormì! Alzandosi il suo primo pensiero fu quello di
affacciarsi alla finestra per rendersi conto del paesaggio. Senza dubbio era un
paesaggio bellissimo. Si trovò in un altopiano di montagne brulle: montagne
dappertutto, da destra a sinistra, a Nord e a Sud, sono altresì famose, per i
vari conflitti a fuoco tra i carabinieri e i banditi sardi. I reati principali
che erano e sono perseguiti anche oggi sono l'abigeato e anche la rapina. La
popolazione, dedita in massima parte alla pastorizia transumante ( produzione di
lana e formaggi), serba intatte le antiche usanze e i costumi tradizionali (
bellissimi quelli femminili). Nel territorio sono sparsi parecchi nuraghi, domus
de janas e altri resti preistorici e romani. Oggi, con l'istituzione del nuovo
Parco, gran parte della Barbagia è compresa nel Parco Nazionale del Golfo di
Orosei, Gennarcentu e Asinara.
In questa bella cittadina incominciò l'espiazione - fece tra se - per la
leggerezza dimostrata a Ormea. Che sciocco sono stato a giocarmi una così bella
e molto tranquilla residenza e una bellissima creatura, forse anche la mia
carriera, per il solo fatto di essermi fatto vedere una volta a spasso con la
ragazza. Non avrei dovuto perdere la testa per una ragazza sia pure bella come
era bella la mia. Ora, poiché sono lontano, posso chiamarla mia? Certamente sì
per il semplice motivo che le volevo molto bene, a chissà, quando la rivedrò?
Forse mai più? Due volte sciocco e ragazzo con poca esperienza. Le lacrime
volevano imperiosamente uscire dai suoi occhi, ma lui le ricacciò dentro anche
perché non voleva concedersi neppure lo sfogo con il pianto gli avrebbe
procurato.
Il suo pensiero corse ad Ormea, alla sua posizione incantevole, alla sua aria di
cittadina, anche se di città aveva soltanto il nome scritto sulla targa
segnaletica stradale, alle sue colline, alle sue ragazze, ebbene si, anche alle
sue ragazze e alla ormai non più ragazza, causa di tutti i presenti guai, ma un
bel giorno quella ragazzina di Ormea, ci ha voltato le spalle e si è innamorata
di un altro suo coetaneo e non ha mantenuto la sua promessa.
Cominciò la sua nuova vita fatta di lunghissime perlustrazioni fra le montagne
brulle della Sardegna, come aveva detto il brigadiere, di notte e di giorno fra
gente che vedevano nel carabiniere il nemico da battere, l'uomo che
rappresentava la legge. Anche le ragazze sarde, specialmente nei primi tempi ti
incontravano si coprivano il volto con lo scialle nero e non ti degnavano
neppure di uno sguardo. Nei primi tempi non capiva di tanta ostilità, di tanto
distacco e indifferenza e questo succedeva non solo con le donne, ma anche con
gli uomini. Tutto questo era dovuto alla poca conoscenza delle persone, ma una
volta conosciute le cose cambiavano totalmente I sardi sono brava gente, ma
bisogna conoscerli e una volta conosciute, sono delle persone molto cordiali e
se possono ti danno anche il cuore.
I suoi compagni, bravi ragazzi, di poche parole e solidi come i monti che
scalavano, percorrevamo allegramente lunghi tragitti senza accusare il minimo
segno di stanchezza. I soli conforti alla loro fatica oltre alla coscienza di
aver compiuto il loro dovere, erano " bacco" al quale in verità facevano grande
onore e d'interminabili partite alle carte nella sala di riunione, perché in
quel paese non esisteva neppure il cinematografo Egli, che specie nei primi
tempi facevo gran fatica a tener loro dietro, passava le sue ore di libertà a
leggere le riviste del Carabiniere o qualche buon libro che si era portato
dietro dal continente.
A pochi chilometri da Oliena, ai piedi del Supramonte, da dove uno spacco nella
montagna affiora un fiume sotterraneo dalle acque gelide, che tra salici e
platani si congiunge al Cadrino, importante fiume che sbocca nella baia di
Orosei. Non distante sorge il paesino di Oliena, il cui nome è famoso per il
robusto vino e per l'originale maniera di cucinare i porcellini.
A mano a mano che i giorni passavano il nostro carabiniere si andava però
abituando al nuovo genere di vita, e dopo alcuni mesi, si accorse, con sua
sorpresa, di aver subito una vera metamorfosi fisica e morale. I suoi muscoli si
erano irrobustiti e gareggiavano brillantemente con i suoi colleghi nel
percorrere ogni giorno chilometri e chilometri di strade montane. Il suo
carattere si andava adeguando ai luoghi e a differenza di prima, vedeva che le
montagne della Barbagia avevano un loro fascino particolare e che meritavano di
essere scalate e percorse. " Non tutti i mali a volte vengono per nuocere" si
diceva accorgendosi che solo allora stava diventando un vero carabiniere, capace
di affrontare ogni fatica e soprattutto ogni pericolo. Negli anni successivi, fu
assegnato ad una delle squadre dei "baschi rossi", che in sella a
magnifici cavalli bai, si era impegnati per l'intera settimana sulle montagne,
alla ricerca di latitanti e alla repressione del banditismo sardo, che spesso,
oltre che commettere il reato di abigeato, taglieggiavano i pastori che vivevano
negli stazzi con il loro bestiame. Più di una volta, si sono trovati a dover
affrontarli e con loro ingaggiare dei veri conflitti a fuoco. Un giorno il loro
itinerario li ha portati sull'altopiano del Golgo, un luogo bellissimo nella sua
selvaggia bellezza, dove i pastori vivono in simbiosi con la Madre natura. Quel
giorno, dopo una lunga perlustrazione, in sella ai loro magnifici bai destrieri,
si fermarono nello stazzo del pastore Mariano Sorgiu, sito in mezzo alla
selvaggia brughiera, dove trovarono ospitalità per trascorrere la notte. Mentre
il pastore, per festeggiare e confermare la sua amicizia, si stava accingendo a
fare cuocere nel grande focolare un piccolo maialino da latte. All'imbrunire,
mentre le ombre lunghe della sera si confondevano al resto del paesaggio, videro
che dalla prateria si stava avvicinando a gran galoppo un cavaliere vestito di
nero. Chi era quel cavaliere si sono domandati i militari? Quando è giunto allo
stazzo, scese da cavallo, e si è scoperto che quel baldo cavaliere era Maria:
una giovane e bellissima donna figlia prediletta di Mariano, che una volta la
settimana andava a trovare suo padre allo stazzo. Per il nostro giovane
carabiniere, fu come un colpo di fulmine, si innamora immediatamente di Maria, e
ne fu corrisposto. Si, è stato proprio così. In mezzo alla selvaggia brughiera
dell'altopiano del Golgo, era nato un grande amore, un amore vero non una
semplice infatuazione come spesso succede, quando un ragazzo s'innamora per la
prima volta. I due giovani, quella notte, si fecero un giuramento d'amore e di
reciproca fedeltà. Ma che cos'é il giuramento? Mantenere il giuramento e la
parola data è un principio universale che troviamo in tutte le società e in
tutte le culture. Noi lo riceviamo dalla tradizione romana. Il mito racconta che
il console Attilio Regolo, fatto prigioniero dai cartaginesi, è mandato a Roma
dopo aver promesso che sarebbe tornato. E ha rispettato il patto, anche se
sapeva che lo attendeva una morte atroce. Il principio è stato confermato
dall'etica cristiana ed è stato fondamentalmente per lo sviluppo del sistema
creditizio ed economico europeo. Per secoli sono bastati semplici lettere
private in cui uno si impegnava a dare e l'altro a restituire enorme somme di
denaro senza che ci fosse una legge o uno Stato a farle rispettare, ma solo la
fiducia reciproca. Nel nostro mondo contadino le transazioni si facevano sulla
parola, con una stretta di mano. Era un principio che si insegnava fin da
bambini: le promesse vanno mantenute. Chi è cresciuto in questa atmosfera
morale, quando incontra gente che si comporta diversamente ha un trauma
psicologico. L'amico è quello in cui hai fiducia. Anzi l'essenza dell'amicizia è
proprio la fiducia. E già così nei bambini. L'amore è sempre rischio, la
ragazzina che ti piace può sempre voltarti le spalle e dare la mano ad un altro.
A lui può confidare un segreto sicuro che non va a dirlo a nessuno, non fa
nemmeno la spia alla tua mamma o alla insegnante. L'amicizia è sempre stata così
anche in passato, lo ricordano Cicerone, Montagne e Voltaire. E' questo il
motivo perciò quando l'amico ti tradisce provi un trauma spaventoso, che non
potrai più dimenticare. Nessuna società riuscirà mai a vivere e prosperare se il
principio di mantenere la parola data non è ribadito dalla legge e dalla morale,
insegnato fin dall'infanzia e scolpito nel cuore degli uomini in modo che sia
applicato in tutti i campi dell'esistenza. Questo non è stato il caso del nostro
personaggio. Egli ha mantenuto quella parola data alla sua innamorata, in quella
notte rischiarata da una pallida luna nel mezzo della brughiera dell'altopiano
del Golgo.
Dopo una lunga permanenza in Barbagia, come è successo in Piemonte, a malincuore
fece ritorno in continente, come dicevano gli abitanti della Sardegna. Tutto
questo peregrinare e avvenuto solamente perché quel giovane e imberbe
carabiniere si era innamorato, prima di una bella ragazza piemontese e dopo da
una bellissima cavallerizza sarda. Oggi, quel vecchio Regolamento Generale
dell'Arma, dopo 191 anni di storia, è stato riveduto e corretto e non esistono
più i trasferimenti per opportunità o per meglio dire, per amoreggiamento. Con
le nuove disposizioni di legge, i giovani carabinieri che incontrano una
relazione amorosa nella stessa sede di servizio, posso sposarsi e rimanere nello
stesso comune e continuare a svolgere il proprio servizio presso il comando di
Stazione o altro reparto dell'Arma.
Si, è proprio così, i tempi cambiano e pure l'Arma Benemerita é cambiata, non è
più legata al cordone ombelicale con lo Stato Maggiore dell'Esercito, ma è
diventata un Corpo d'Armata autonoma e moderna, al servizio del Paese.
La Libertà
Non potrai essere
Veramente libero
Fino a quando
In tutta la terra
Vi sarà un uomo
Tenuto prigioniero
In una cella o in una grotta.
Non potrai essere
Veramente felice,
Fino a quando
Nel giorno che muore
Un solo uomo
In tutto il mondo,
Verserà in silenzio
Le lacrime amare
Della solitudine.
La grande storia d'amore di Isaia
Racconto
Parlando di Alessandria, così scriveva il grande scrittore e amico
carissimo Mario Soldati, da pochi anni scomparso: "Chi, là dove la Bormida
si getta nel Tanaro arriva per la prima volta ad Alessandria una delle sei
province piemontesi, non è nemmeno sfiorato dal pensiero di Alessandria
d'Egitto".
Ci sono ritornato dopo moltissimi anni, in questa bellissima città
piemontese. Posso benissimo dire, che per ragione del mio servizio, vi ho
trascorso una parte della mia vita. Tutto sommato, ne valeva veramente la
pena. Vedendo come oggi, in questa nostra Italia martoriata, vanno in
malora le cose, capisco di non aver sbagliato scelta. Almeno per noi
dell'Arma questa uniforme ha ancora un significato. Ho continuato fino al
raggiungimento della pensione, feci il mio dovere in una società che
cambia, in questa società sempre meno integra, sempre meno virtuosa. Tanto
per cominciare, quella splendida mattina di maggio, uscendo dalla stazione
ferroviaria, ho rivisto i meravigliosi giardini di Alessandria inondati di
luci e di colori. Ho rivisto l'immensa piazza che è dedicata a Giuseppe
Garibaldi, il quale nacque a Nizza Marittima, sulla meravigliosa Costa
Azzurra. E, in fondo a quella piazza, attorniata da bellissimi portici in
stile neoclassico, vi è la vecchia Via Cavour, una traversale che
praticamente taglia in due il centro storico. Al principio di Via Cavour,
c'è un albergo chiamato "Ai due buoi rossi", dove l'unica sala
terrena, amplissima e luminosa, di un elegante liberty, non potrebbe mai
essere scambiata per una trattoria né tanto meno per un'osteria, ma
soltanto per un lussuoso ristorante parigino, ma mancavano le Blue bel. de
Mullen Ruge.
Qui, da Giovanni, parlando della bellissima Liguria, e in particolare di
Alassio e Andora, Isaia Colombo ed io abbiamo fatto colazione. " Si, hai
ragione, "disse Isaia", si, hai ragione, la Liguria è proprio così:
purtroppo io non saprei dirlo e non so spiegarlo. Ho soltanto fatto
l'esperienza, una dolce, bellissima esperienza ad Alassio, tanti, tanti
anni fa. Quelli erano gli anni della mia giovinezza. Erano gli anni in cui
avvennero i primi innamoramenti e le prime delusioni. " Parlava tra un
bicchiere e l'altro di splendente e fiammeggiante brachetto rosso delle
Langhe, prodotto in quelle splendide colline calcaree marnose del vecchio
Piemonte, comprese fra le valli del Tanaro e del Bormida, patria, appunto,
di ricchi vigneti da cui si ricavano vini famosi e generosi, come quello
che stavamo sorseggiando.
Sarà stato l'euforia di quel nettare, la gioia che deriva da quella
sensazione di benessere generale, fisico; di quello stato di contentezza e
di ottimismo nel ritrovamento di due vecchi amici che si ritrovano dopo
molti anni? Non sono in grado di stabilirlo. Il fatto età, che l'amico
Isaia, il vecchio e bravissimo maestro paesaggista, non volendo, mi
raccontò brevemente, forse sotto l'azione dei fumi dell'alcool, una pagina
della sua vita. Dopo l'ultimo saluto, Isaia Colombo, non aveva fatto che
sperare. E nell'accarezzare il morbido e ingannevole crine di quella
meravigliosa speranza egli soffriva più di quanto uomo innamorato poté
soffrire. Si erano incontrati e conosciuti in una bellissima cittadina
della Riviera Ligure, verso gli ultimi giorni del mese di agosto; erano
rimasti insieme solo pochissimi giorni, ma ciò erano bastati perché il
nostro protagonista si innamorasse piuttosto seriamente.
Isaia, d'altronde non era che un giovane pittore, un giovane ancora
inesperto del mondo, perché quell'improvviso amore non lo incoraggiasse al
primo sbalzo verso la grande platea di tutte le delusioni. Ben lungi era
della sua ingenua delusione ed immaginazione di pensiero che Verich Karol,
così aveva detto di chiamarsi, un'avvenente fanciulla del Germania
meridionale dagli occhi pieni di fascino e di dolcezza come i laghi e le
valli del suo Paese, altro non cercasse che di vivere il più intensamente
possibile la sua meravigliosa avventura. Perché non dimenticate quella
donna? Ormai sono trascorsi due mesi da, quando ella è andata via. " Non
prendetevela a cuore. Le donne, qualunque cosa esse dicono in quell'attimo
di peccaminosa fragilità, dimenticano presto", andava dicendo la signora
Valeria, una vecchia ballerina ungherese che da qualche tempo ormai
conosceva il giovane pittore, amandolo come quando si può amare una parte
animata del proprio sangue.
Pensate al dolore che darete a vostra madre; pensate alla vostra arte, a
che cosa direbbero i professori del Liceo delle Belle Arti se sapessero
che per una donna, della quale, per giunta, non siete sicuro nemmeno del
nome. Non si gettano così dalla finestra i sacrifici di tanti anni di
studio dedicato all'arte; non si scacciano i sogni di tutta una vita
proprio, quando stanno per diventare qualche cosa. Rientrate in voi e
convincetevi che solo l'arte sarà la vostra sposa fedele ed ideale, la
divina creatura che darà anima e corpo alla vostra gloria. Ero agli inizi
della mia carriera, prese a raccontare la donna mettendosi a sedere ed
accarezzandogli dolcemente i capelli, quando, giunta qui in Italia, i miei
occhi di zingara ammaliatrice, come scrivevano i giornali del tempo, si
incontravano con quelli di un bruno stridente calabrese; Pietro Leone, mi
innamorai e lo amai talmente forte che nemmeno io riuscivo più a
convincermi se lo avessi conosciuto un giorno prima o se la conoscenza
risalisse alla nostra infanzia. Anche il suo amore…. Ma un giorno mi
accorsi di essere rimasta solo in compagnia del suo ricordo. E furono
lacrime sinceramente versate, e idee le più terribili che in tutti i
palpiti della mia vita passassero sconvolgendomi la mente e offuscandomi
il domani. Col passar dei giorni finalmente mi convinsi che un uomo non
meritava tutte le mie lacrime e ritornai all'arte.
Dopo di lui, anche un giovane miliardario argentino mi offrì il suo cuore.
Un giorno mentre mi imbarcavo per ritornare nella nostra bella Europa,
Pablito mi si gettò ai piedi, supplicandomi di rimanere vicino a lui.
Rimanendo, forse, mi avrebbe fatto sua sposa, e come donna, sicuramente,
ne sarei stata felice, ma come artista non potevo staccarmi dal mio caro
pubblico, sottrarmi al dovere di continuare a creare delle oasi di pace
nell'afoso deserto in cui l'umanità si muoveva sotto l'imperio di una
forza occulta.
Ritornate anche voi al vostro lavoro; riprendete a lasciare nelle immense
sale d'esposizioni l'impronta della vostra nobile arte espressiva, che
scaturisce dal vostro animo di artista e vedrete che dimenticare un
fuggente attimo della vita non sarà cosa difficile. Dimenticate! E come è
possibile dimenticare, allontanare dagli occhi la sempre più cara visione
di colei che nel poco mi ha dato più di quanto meritassi? Così rispondeva
Isaia, quasi macchinalmente, piantando i gomiti sul tavolo e fissando la
padrona di casa negli occhi, lasciando momentaneamente la tavolozza ed i
numerosi pennelli che teneva in mano, mentre con la sua fantasia cercava
di rappresentare sulla tela l'immagine di colei che l'aveva fatto felice.
La mia arte, ripeteva come parlando a se stesso, il mio domani nel mondo
non valgono la sua bellezza, l'armonia delle sue forme, il fascino dei
suoi capelli biondi, sparsi sulle spalle, dagli occhi lievemente macchiati
di celeste. Ma quando non si è innamorati certe cose non si vedono e ciò
che non si vede non si può né comprendere, né valutare. Io solo ho veduto
lei sorridere, ed il mare e la terra impallidire, umiliarsi e gioire al
suo cospetto. Anche il fragore delle onde, che da secoli immemori
lambiscono i rudi e levigati scogli su cui noi passammo molte delle nostre
ore comuni, taceva perché nessun sacrilegio si compisse. Ed io stesso la
guardavo, l'ascoltavo e mi dolevo, quando il mio respiro commetteva il
peccato che altri commetteva in omaggio della sublimità delle sue umane
armonie. Era giunta la sera e ritornando nel vecchio borgo marinaro, lungo
il tranquillo sentiero degli ulivi argentati, guardavo lei e guardavo il
cielo, così ricco di stelle, e non sapevo, non riuscivo a comprendere se
fosse il suo sorriso o la luce delle stelle che obbligava le ombre a
rimanere prigioniere nel fondo delle valli.
Quanti giorni e quante notti inutilmente perdute, io credevo di entrare
nel magico mondo delle armonie, mentre … le vere armonie sono quelle che
in nome dell'arte noi lasciamo alle nostre spalle. " Ho, signore Iddio",
sospirò la donna, vorrei solo sapere in che cosa più sperate se non nella
vostra nobile arte.
" Nel suo ritorno!" rispose Isaia a mezza voce. Mentre versavo nel
bicchiere di Isaia, l'ultimo nettare, che era rimasto nella bottiglia
dell'ottimo brachetto, mi sono accorto che una grossa lacrima stava
solcando il suo rugoso e stanco volto. Egli stava piangendo.
Speranza e desiderio:
Cadono le mie speranze, ma i miei desideri di nuovo cercano in tumulto
dove restare, invano. Batte così dal mare il flutto di contro alla riva
che lo respinge ed esso torna di nuovo a lei. La poetessa Mariella da
Mondovì, così scriveva la sua breve poesia di quella che è rimasto di
quell'amore ardente e pazzo:
RICORDI:
Ricordi:
Questo è rimasto
Di quell'amore
Ardente e pazzo.
Polvere:
Questo è avanzato
Delle illusioni
Che ci ha lasciato.
Lieve sfiorite
Di sogni lontani
Ogni chimera
È passeggera. La Panoramica Passeggiata di Nervi
Il tempo passa e pure la vita passa, ma i nostri ricordi sono rimasti sul
filo della memoria a rammentarci dei tempi lontani, dei tempi vissuti in
luoghi che potremmo definirli da favola. Sulla scia dei ricordi, oggi ci
vogliamo soffermare in una località bellissima, in una località da sogno,
dove la fantasia lascia il posto alla realtà. Lasciata Genova, Quarto e
Quinto, ecco il lungo delle favole: La graziosa Nervi, popolata di
stranieri che vi gustano la dolcezza del clima, il soave profumo dei
giardini lussureggianti di vegetazione mediterranea. E poi Bogliasco, bei
villini, profonda valle di Sessarego, case raggruppate sotto il ponte e
panorami ammirevoli sul mare. La Pieve e Sori, silenziose; cupi
valloncelli, colli coperti di limoni, d'aranci, di fichi e su in alto
montagne nude. Indi Recco gaia, con ridosso colline vagamente profilate,
formanti il lungo promontorio di Portofino, che, ammantato di
caratteristica vegetazione, corre ai golfi di Paragi, si spiega alla
Cervara, digrada in ponticelli presso Portofino, Olivetta, per poi
tuffarsi nell'onde con le rupi dette dell'inferno.
Se si desidera viaggiare in treno, s'incontrano gallerie e paesetti che
s'inseguono in fantastica visione man mano che la ferrovia ora s'immerge
nelle rocce ed ora costeggia qualche piccola insenatura. Sono: Camogli con
il suo celeste porticciolo, S. Margherita, dominata da un fertile colle,
su cui sorge imponente il vetusto palazzo dei Centurioni. Qui pure si ha
una vista incantevole. Giù il mare graziosamente incurvato riflette
nell'onda le case della città, mentre lo sguardo riposa sulle splendide
ville che adornano la costa. Non andiamo oltre, ma ci fermiamo qui, perché
fin qui si protraeva la nostra escursione festiva con la nostra minuscola
famiglia, ma di solito si trascorrevano lunghi pomeriggi primaverili e
autunnali nella bellissima e affollata passeggiata di Nervi, dove si
sentiva soltanto il mormorio del mare che s'infrangeva contro gli scogli
rossi, con il profilo lontano della Riviera di Levante.
Nervi, come abbiamo avuto modo di scrivere sopra, è un centro della
Liguria, incorporato ( dal 1926) nel comune di Genova, 11 chilometri circa
a est del capoluogo, sulla Riviera di Levante, a 37 metri d'altezza.
Situata in posizione riparata, tra le colline ( Santo Ilario) e la costa,
è antica (1936) e frequentata stazione climatica invernale e balneare
estiva. Celebre è la passeggiata a mare, lungo circa due chilometri,
interamente scavata nella scogliera. Una piccola insenatura, a ovest del
centro, racchiude il porticciolo per imbarcazioni da turismo. Scalo della
navigazione costiera. Pesca. Scuola di caccia subacquea. Notevole sono il
parco municipale ( vegetazione subtropicale) di villa grappolo e villa
Serra, nella quale si trova la Civica galleria d'arte moderna, e il Museo
Giannettino Luxoro ( oggetti d'arte varia). Annuale esposizione
internazionale canina in primavera; Festival gastronomico in giugno) Nel
territorio circostante, oggi è fiorente anche la floricoltura. Oltre che
un'insenatura fantastica, è la patria dei pittori estemporanei della
domenica, che armati di cavalletto e anche dalla lunga canna da pesca, si
divertono a ritrarre quel paesaggio bellissimo, e quando il sole tende a
calare verso ponente, lanciano l'esca per pescare i saporiti cefali che
s'aggirano fra gli scogli.
In quel tempo, che cerchiamo di rievocare sul filo della memoria,
svolgevamo servizio presso il II Btg CC, di Genova, con sede nel forte di
San Giuliano, che sorgeva a picco sul mare a due chilometri del grande
Porto Commerciale e del centro storico di Genova, con i suoi
caratteristici carruggi. Dalla Piazza d'armi del forte si gode un
paesaggio mozzafiato che abbraccia tutta la città e le montagne che la
circondano. In quel periodo, abitavamo in un grosso e moderno condominio
di Quezzi, a poca distanza del Campo Sportivo di Marassi. Nelle rare
domeniche libere, che si contavano sulla punta delle dita, il filobus nr.
8, da Quezzi, in poco tempo, ci portava fino a Nervi. La nostra piccola "
principessa" Tiziana, amava moltissimo quella bellissima passeggiata
panoramica di, quel luogo incantato, dove regnava tanta pace. In quel
grande Parco verde, i bambini trovavano i loro giochi preferiti, senza il
rischio di essere investiti dalle autovetture. Quando ci era concesso,
trascorrevamo lunghi pomeriggi in quel paradiso terrestre, fra cielo,
scogli e il profumo del mare. Spesso, anch'io, davo sfogo al mio hobby
della pittura. Ogni angolo era quello giusto, per riportare sulla tela
l'immagine di quel meraviglioso paesaggio, fatto di sfumature e di
profondità in una prospettiva perfetta. Dipingere sotto il sole o magari
sotto l'ombrellone, è il massimo che un pittore della domenica può
desiderare. E poi, quelli sono luoghi dove l'ispirazione ce lai di fronte,
non c'è bisogno di spremersi le meningi per immaginare un paesaggio.
Su questi scogli e su questi sentieri della passeggiata più bella del
mondo, sembra che si siano ispirati diversi poeti e scrittori
dell'ottocento e del Novecento, come la celebre scrittrice Gorge Sand, che
dalla prima produzione romantica- sentimentale ( Valentina, Lelia) passò
al romanzo umanitario e sociale ( Consuelo) per approdare infine ai
racconti rustici (La pozza del diavolo) ecc. ecc. Chissà quante pagine dei
suoi libri sono state ispirata stando seduta fra quelle rocce di fronte al
mare azzurro della baia di Nervi. Non solo la Sand, ma sembra che anche il
filosofo e pensatore Nietizsche F. W, si sia ispirato a questi luoghi, le
pagine del suo pensiero che è un'esaltazione dei valori vitali contro ogni
forma di trascendentismo; come la morale del super uomo e della volontà di
potenza, che rovesciò tutti i valori tradizionali, soprattutto dell'etica
cristiana. Superò le interpretazioni tradizionali del mondo greco
additando nell'apollineo e nel dionisiaco gli elementi vitali dell'anima
ellenica.
Nei giardini del Parco di Nervi, fra le aiuole di fiori, vi è una piccola
targa che ricorda il passaggio del grande poeta inglese Gorge Gordon Byron,
che s'ispirò per scrivere i versi delle sue poesie, passeggiando lungo la
panoramica e splendida passeggiata. Egli era solito soggiornare nel Borgo
Marinaro di Portovenere, dove gli è dedicata una targa sulle vecchie mura
che portano alla Chiesa di San Pietro.
La Baia di Nervi, è sicuramente un luogo incantato e soprattutto un luogo
dove si sono ispirato poeti e scrittori, ma è anche dove regna una pace
celestiale, dove i grandi pensatori si sono recati nel tempo per esternare
sulle pagine dei loro poemi il loro sentimento ed il loro pensiero poetico
e letterario.
Fra le cose dei ricordi, abbiamo trovato un brano di una semplice poesia
di versi baciati, che la nostra piccola "principessa", stando seduta di
fronte al meraviglioso mare, aveva scritto con mano tremante questa breve
ma significativa poesia, forse è stata la prima composizione poetica della
sua fanciullezza. Forse questi semplici versi, sono stati il preludio di
un segno premonitore del suo presente poetico: " E' sera. Oh mare
silente e onde tremanti/ dove appaiono e poi scompaiono/ le conchiglie e i
sassi bianchi/ minuti, sfumati e tondeggianti, / che le onde rotolando
portano via/ mentre mi coglie la malinconia/ del sole che a momenti scappa
via". Da quella breve poesia, Tiziana ne ha fatta di strada con le sue
liriche e componimenti poetici, nelle quali l'autrice esprime i suoi
affetti, i suoi ideali, le sue aspirazioni. Leggendo ogni mattina i
commenti e le nuove poesie sul sito " Poetare", ci siamo resi conto che
una larga fascia d'intellettuali si dedica proprio alla poesia, per
esprimere con i versi la propria gioia di vivere in sintonia con la natura
ed il resto del mondo. Riportiamo qui di seguito uno dei tantissimi
commenti, che ogni giorno leggiamo sul sito " Poetare". Il poeta e fine
scrittore Patrizio Spinelli, così scrive:
"Ottobre. Tempo di vendemmia, di vino novello, di funghi e degli ultimi
sottili profumi del sottobosco. In questo contesto bucolico e corroborante
è piacevole assaporare "chicche" di poesia come quello che trovo oggi su
Poetare. Su questo benemerito Sito pubblicano tanti bravi poeti e
scrittori, e mi dispiace solo di non avere il tempo per dedicarmi alla
quotidiana e attenta lettura come davvero meriterebbero quelle "pagine
blu". Oggi in particolare ho apprezzato la poesia "Noi" di Renzo
Montagnoli che in una brevità epigrammatica tocca e sfiora e dipana
magistralmente il "mistero dell'esistenza". Altrettanto devo dire di
Tiziana Cocolo con "Labbra di Nuvole". Nel suo breve idillio si condensa
l'universo"
Un giorno di festa, dell'autunno di molti anni fa, come del resto
succedeva tutte le domeniche pomeriggio, camminavamo lungo la bellissima
Passeggiata di Nervi, quando abbiamo visto, seduti in una panchina, tre o
quattro anziani signori, uno dei quali dall'aspetto gioviale e
dall'abbigliamento molto estroso, tanto che sembrava un clochard, uno di
quegli artisti di strada che s'incontrano lungo la Senna a Parigi, che ha
attirato la nostra attenzione. Ci siamo avvicinati e dopo una breve
conversazione, ha voluto ritrarre la piccola Tiziana. Non era un pittore,
non aveva ne pennelli e neppure le matite colorate, come spesso succede
lungo le spiagge o nelle fiere o mercati nei paesi, ma i suoi attrezzi
erano costituiti da un semplice paio di forbici e da un cartoncino di
colore nero. In pochi minuti ha fatto il ritratto di Tiziana, poi quello
di Adriana e naturalmente anche il mio. Era un vero artista, uno di quegli
artisti che non erano capiti e che le persone non si fermano neppure a
curiosare. Su quella passeggiata s'incontrava di tutto, dal classico
cinese poco invadete, che ti invitava a comperare le sue "clavatte"
colorate, al venditore di giocattoli per i bambini, ma in quei tempi non
c'erano ancora " i vu cumprà", che se ti fermavano non ti mollavano fino
a, quando non ti decidevi di comprare qualche cosa. Si, è vero, erano
altri tempi, quando le persone erano rispettate e non si vedevano i
drogati e le prostitute sui viali e nei giardini, come succede oggi. Era
meraviglioso vedere correre e giocare i bambini e le persone a prendere il
sole e a fare il bagno o a leggere il giornale in completa serenità.
Mentre penso al passato, continuo con il ricordo a scendere lungo i
vialetti della deliziosa costiera dai sassi rossi, lambita dalle onde del
mare azzurro. Nelle piccole insenature e nelle spiaggette di quel mare
pulito, si potevano ammirare i sassi bianchi tondeggianti, portati da chi
sa dove dal mare che tutto trascina. Parlando con il mare, un bel giorno
mi ha detto: Ricorda sempre che, anche nella mia giovinezza, già avevo un
briciolo di vecchiaia; ora conservo l'entusiasmo di quei giorni, ma a loro
aggiungo la saggezza e l'esperienza che solo la maturità può dare.
Questo è il segreto dell'esistenza che allontana dalla vecchiaia. " Sapere
invecchiare è il capolavoro della vita, è un frutto della sapienza e della
bontà che siamo stati capaci di raccogliere lungo il tragitto del nostro
essere mortali.
" Il segreto è non spegnere gli entusiasmi, il sorriso, l'attenzione per
ciò che ci circonda, l'amore per l'umanità e per la natura. Gli anziani
sono bambini che crescono all'indietro e ogni uomo è un mondo meraviglioso
che ha conosciuto la luce della vita e illumina coloro che lo circondano.
Non esiste altra luce nell'universo che brilli come la sua, neanche quella
delle stelle o di altri pianeti lontani, dove regna soltanto il silenzio
che altro non è che un lembo di cielo che scende verso l'uomo, e poi
penetra fino al profondo dell'anima, nelle regioni inaccessibili, dove Dio
riposa in noi.
Il volo dei gabbiani
sulla Scogliera di Portofino.
-Racconto -
La giornata era stata, dall'inizio alla fine, superba. Fin dal mattino,
appena aperte le persiane del piccolo alberghetto che da stupenda baia di
Portofino, lo spazio e il tempo avevano assunto una sorta di trasparenza.
Per uno di quei meccanismi pieni di evidenza e di mistero, un cielo privo
di nubi prometteva felicità e gioia di vivere. Una coppia di grigi e
chiassosi gabbiani dal becco rosso, come quelli che abbiamo ammirati
questa primavera nell'isola di Montecristo, ci hanno dato il benvenuto
sulla riva del porticciolo. Ho allungato la mano aperta con gli avanzi
della broscia e subito uno di loro si è tuffato e con molta delicatezza,
ha prelevato la sua razione. Il secondo gabbiano fece la stessa manovra e
poi entrambi si sono allontanati, posandosi sullo scoglio in mezzo al mare
azzurro e trasparente.
PORTOFINO.
Portofino, è un piccolo borgo marinaro da tempo rinomato centro turistico,
è disposto in una profonda insenatura all'estremità nord-orientale del
promontorio omonimo, protetta a S da una penisola rocciosa e a NO da una
cerchia di monti che presentano una ricca e lussureggiante vegetazione a
culture promiscue. Ovunque si può constatare che, come nelle altre
località della Liguria, germoglia l'ulivo, la pianta di limoni e gli
agrumi in generale, nonché, per il suo microclima si coltivano le rose e i
fiori in particolare anche nel periodo invernale. Non è la prima volta che
veniamo a Portofino, consociato questi luoghi felici da molto tempo e ogni
volta che vogliamo trascorrere qualche giorno di serenità, con Adriana mia
moglie, ci ritorniamo volentieri. Così è successo anche questa volta, in
questi giorni bellissimi di ottobre, non eccessivamente caldi e neppure
freddi, ma con una temperatura di mezza stagione e quindi vivibile.
Incominciamo a dire, che l'antico "Portus Delfini" ricordato da Plinio, ha
origini molto remote, legate presumibilmente al suo a approdo per le navi
di rotta lungo la Costa Ligure. La storia ci racconta che nel X secolo,
con diploma dell'imperatrice Adelaide vedova di Ottone I divenne proprietà
dell'abbazia di S. Fruttuoso, sottraendosene poi nel secolo XII. Si pose
quindi sotto la giurisdizione di Rapallo e, direttamente, della Repubblica
di Genova alla quale da allora la sua storia fu strettamente connessa.
Il nucleo principale dell'abitato, dove noi oggi in questa giornata
splendida d'autunno ci troviamo a diporto, sorse presso la Chiesa di S.
Martino e si ampliò successivamente intorno alla baia e, verso
l'entroterra, lungo l'attuale Via Roma. Tra la fine dell'800 e l'inizio
del 900, con il primo sviluppo del turismo cominciò per opera della
borghesia genovese, l'insediamento di ville nelle immediate vicinanze del
centro storico e lungo il pendio collinare. Nonostante gli sventramenti
attuati nella zona a monte con l'apertura della Piazza dove era il
parcheggio, Portofino rimase nella struttura urbana e nella tipologia
edilizia, oltre che nell'equilibrato rapporto con il paesaggio
circostante, un pregevole esempio di borgo costiero, scarsamente alterato:
l'estinzione pressoché totale delle tradizionali attività marinare e
agricole, soppiantate dal sofisticato milieu turistico elitario che da
tempo vi ha preso radici, gli conferisce tuttavia un'atmosfera di grande
artificiosità.
Dalla Piazza della Libertà, da dove si innesta la strada per Santa
Margherita, si scende verso il mare per Via Roma, asse principale di
sviluppo dell'abitato, su cui prospettano belle ville e palazzine che
danno al paesaggio una nota di colore e di bellezza.
Come in genere fanno i vecchi alpinisti del CAI di Mantova, con il quale
partecipiamo spesso alle escursioni montane, anche oggi, zaino a spalla, e
un passo dopo l'altro senza tanta fretta, accompagnati da Adriana, il fido
scudiero seguiamo un comodo sentiero, che dopo una mezzora circa di
passeggiata, giungiamo sulla scogliera di Levante della meravigliosa Costa
di Portofino, per prima cosa, abbiamo tirato fuori dello zainetto la
cassetta dei colori e sistemato il cavalletto, per dipingere uno scorcio
bellissimo, in una prospettiva sfuggente, tra rocce bruciate dal sole, un
cielo stupendo e un mare meraviglioso. Adriana si era fermata in una
piccola insenatura vicino al mare per prendere gli ultimi sprazzi di sole
di una stazione che era quasi finita quasi finita. La scogliera di
Portofino il mattino è una cosa meravigliosa, è un angolo bellissimo
illuminato dai primi raggi del sole, mentre il mare, assumendo quel colore
azzurro celestino, si stava preparando a partire per i suoi normali
viaggetti. Ci lascia all'asciutto, e gli scogli grandi e piccoli, secchi e
puntiti, aspettano che ritorni. Siamo, loro, i gabbiani Adriana ed io. Non
siamo completamente soli, ci sono i ciarlieri gabbiani e il mare che va e
viene con il suo mormorio. Oh, sì, i gabbiani, gli abitatori degli scogli,
che con il loro gracchiare ci fanno capire che ci sono ancora. Li abbiamo
ritrovati dove li lasciammo qualche anno fa, quando ci siamo venuti per
l'ennesima volta. Eravamo entusiasti di rivederli, perché sulla costa
bellissima di Faliraki, non li abbiamo visti, come pure nel periplo
dell'isola di Rodi. Non so perché, nell'intera isola non abbiamo visto
neppure un gabbiano, e una costa senza gabbiani non ti sembra neppure una
località marina. Qualche tempo fa, sfogliando le pagine del sito "
Poetare", abbiamo letto una meravigliosa poesia del poeta Nino Silenzi,
che parla appunto del ritorno dei gabbiani/ dai loro lunghi voli/ dai loro
misteriosi viaggi.
Siamo ormai abituati a questi piccoli viaggetti che ogni tanto anche il
mare fa. Dove va, non lo so. Noi non vediamo più in là dalla lunga linea
grigia dell'orizzonte che costituisce tutt'intorno al limite della nostra
vista e dove sembra unirsi mare, terra e cielo; si allarga tanto più
quanto più alto è il nostro punto di osservazione. Dai suoi viaggetti di
tramontana anche il mare ritorna sempre, a volte tutto contento e allegro,
a volte furibondo che un subitaneo libeccio lo rimandi a casa, e allora
rotola la sua ira sulla scogliera con onde fragorose e salatissime e la
sua vaporosa brezza si deposita sul nostro viso, quasi per accarezzarlo.
Anche io mi arrabbio e lo tratto male, e lui tratta male me, e spesso
litighiamo come due vecchi amici bizzarri, poi facciamo delle paci
celestiali, e lui mi racconta che vanno al di là dell'orizzonte e che solo
un poeta potrebbe ripetere senza sciuparle. Mentre osservavo il paesaggio,
per cogliere qualche particolare importante da riportare sulla tela, più
volte mi sono detto: " Avrei una voglia matta di chiudermi lassù in una
stanza all'ultimo piano di quel castello medioevale, che è posto sulla mia
destra, e che da molti, da moltissimi anni è deserto, senza telefono,
senza campanello, senza voci di bambini, senza televisione, senza nessuno,
senza scampanare di chiese, e vedere che cosa succede. Sono sicuro che non
succederà nulla, vivrò nella solitudine, lontano da ogni cosa, lontano
dalle brutture della vita che ci circondano, in questo nostro mondo
corrotto. Cercherò di immaginare una corte gaudente e magnifica, con belle
donne e briosi cavalieri e artisti di fama. Più volte ho letto, nelle
vecchie cronache, il racconto di fastosi conviti e allegre adunate nella
Rocca. Con interesse e amore storico o con nostalgica curiosità cercherò
di frugare nei tempi andati, senza soffermarmi con prolissità a seguire
date su date unendo anello ad anello in una catena ininterrotta di
avvenimenti, scoprire con appassionato interesse i ricordi salienti che
illustrano questo storico monumento. Fra le vecchie mura di questo grande
Castello forse giovane donne e gioiosi cavalieri, freschi paggi e
adolescenti avranno celatamente raccolto qualche raggio di sole, ma la
grave oppressione della dispotica tirannia del signore inquieto ed
ambizioso ha velato cupamente questi lunghi anni. Così un poeta innamorato
di questo castello scrisse in una notte di plenilunio sognando nel
suggestivo bosco delle annose querce, pini marittimi, ginestre profumate
che crebbero spontanee ai piedi della Rocca di Portofino, rievocando con
il felice aiuto della fantasia, della leggenda e della storia, figure di
ben note personalità del tempo che fu, che nella Rocca, hanno lasciato il
ricordo della loro vita tormentosa di passioni e di rinunce, di odi e di
prepotenze, di dolcezze e di crudeltà. Nel mio sogno mi attarderò
nell'elegante cortile e nelle austere sale che ricordano splendori o
tediose malinconie. Lascio questi pensieri di sogno, scaturiti dalla mia
fantasia, dalla facoltà immaginativa e ritorno al mio quadro, agli scogli
di natura trachitica, che è una roccia eruttiva, derivante da magmi
sienitici. Con struttura porfirica e si presenta ruvida al tatto per la
presenza di vacuoli. Questi grossi massi sporgenti da una grande parete
ripida e levigata di colore chiaro con striature che vanno dal grigio al
giallo, caratteristico per la forma. Da qualche minuto sto osservando le
piccole pietre che rotolano fra la sabbia della piccola spiaggetta e le
terre rosse, biancastre della dorsale appenninica, qui ogni cosa è
anfratto, i pianori delle colline, ogni collina con il suo nome e il suo
posto, compaiono nella mia mente in una successione di calde immagini. E'
sera, il mare si è placato e anche la sua ira è cessata contro la
scogliera rachitica e granitica. Ora tutto è calmo intorno a me. Ho fatto
la pace con le onde spumose del mare, la sua fresca brezza dolcemente mi
avvolge come una carezza. Nella mia osservazione, mi sono accorto che
stava succedendo la stessa cosa con i gabbiani. Essi come il mare, come le
nuvole biancastre, vanno e vengono dai loro lunghi e corti viaggi dentro
il mare. Dove vanno nessuno lo sa, sicuramente vanno a pescare il cibo per
i loro piccoli che li attendono impazienti negli anfratti della scogliera.
Questo è un paradiso esplorativo per questi bellissimi uccelli grigi. Al
sole di ottobre, pigola e scintilla … D'improvviso si sentono arrivare,
sono vicini, sono sopra di noi, migliaia di gabbiani infuriati che
straziano il cielo, con improvvisi richiami dai loro pulcini che stanno
fra le rocce appunti con la bocca aperta per ricevere il pane della vita.
Visti da vicino il loro piumaggio grigio, delicatamente sfumato. Sopra il
mio naso, al loro passaggio posso notare le loro zampe scarlatte. Alla
fine, esausti, i genitori si riprendono, vomitano degli appiccicosi
insetti o interi pesci pescati nel loro lungo viaggio fra le onde del
mare, per poi decollare di nuovo, iniziare un nuovo viaggio nel cielo.
Questi gabbiani, si distinguono per il colore rosso corallo del becco e
per le zampe grigie. Questo gabbiano si riproduce nella colonia di Capo
Corse in Corsica, a Portofino e sulle coste del Mediterraneo centrale. Si
nutre generalmente di pesce che pescano nel mare aperto.
.Questo luogo paradisiaco, fatto di cielo, terra e mare confusi in un
insieme di sublime bellezza, offrono a Portofino un incomparabile
spettacolo. Quante volte siamo venuti in questo luogo di serenità e di
pace con Adriana e la nostra piccola principessa Tiziana ma ogni volta ci
è sembrata la prima volta. Il viaggiatore o il semplice escursionista, che
vi giunge per la prima volta, ha l'impressione di essere elevati in un
mondo dove non regna che la poesia. Quasi senza avvedersene sale dal cuore
alle labbra una parola che è ringraziamento e preghiera: ringraziamento al
Divino Artista per la dolce profusione dei migliori tesori della Sua
tavolozza, preghiera a Lui perché eterni nell'anima il ricordo della
grandiosa visione. Gli scrittori Onorio ed Eugenio Muraglia, figli
prediletti della meravigliosa Liguria, hanno scritto a quattro mani un
bellissimo libro, dove hanno cantato le meraviglie di questa terra aspra e
generosa. Scrivendo di Portofino, hanno detto che è disposto in cerchio e
che le carezze del mare ai suoi piedi, sopra i tetti il sorriso delle
fronde, che la terra del monte alimenta. Tra le fronde, per un tratto,
qualche casa; poi la cima del monte esuberante di verde. Intorno alle sue
origini, da noi tanto lontane, mistero. Si chiamò Porto Delfino un tempo,
per l'abbondanza dei delfini che popolavano il suo mare; mutò poi il nome
in quello attuale. Fu sotto il dominio romano prima, dei PP, Benedettini
poi, della Repubblica di Genova a partire dal 1414. Teatro di guerre tra
coloro che, attraverso i secoli, lottavano per non perdere e per
accrescere la propria potenza; subì in tempi più vicini a noi la
dominazione dei Francesi, degli Inglesi, degli Spagnoli e degli Austriaci.
Nel 1815 entrò a far parte del regno del Piemonte e Sardegna. Tra le
opere, rimaste a testimoniare l'asprezza degli avvenimenti del tempo
trascorso, va ricordato il forte S. Giorgio, situato su di un colle a
difesa del golfo. Già esistente nel 1425, successivamente restaurato e
reso più possente, in varie occasioni assolse egregiamente il compito suo,
impedendo al nemico l'entrata nel paese ed evitandone il saccheggio e la
distruzione. Le ultime armi vi furono collocate da Napoleone I quando nel
1800 unì la Liguria al suo Impero
Anche noi come il poeta, siamo ritornati fra questi scogli e queste
insenature alla ricerca di noi stessi, alla ricerca del cibo dell'anima e
dell'amore, dove tutto é emozione vibrante, poesia. Le differenze fra
visione e paesaggio, spazio e figura si stemperano sotto l'effetto di
un'aria trasparente e vaporosa dalla brezza marina, dove tutto diventa
atmosfera e si trasforma in realtà nelle dimensioni del pittorico, dove
ogni cosa si manifesta come in un'apparizione, come una rivelazione della
natura nella sua assenza spirituale, nella sua sostanza originale.
Con il tramontare del sole, come da una legge prestabilita, anche le onde
del mare si sono lentamente placate, il vento quasi all'improvviso è
cessato, come pure le ultime brezze marine, anche l'ultimo gabbiano è
ritornato dal suo lungo viaggio e si è appollaiato sopra lo scoglio
solitario lambito dal mare.
Il grande disco infuocato del sole, sembrava legato ad un filo di lana e
da un momento all'altro sarebbe precipitato nell'altra parte del mondo,
mentre l'orizzonte si era tinto di rosso. Il poeta così faceva a scrivere
del tramonto del sole. " La sera cala silenziosa sulle onde umide del
mare. I pini marittimi, gli uliveti e i giardini di rose diventano neri,
l'aria ed il cielo cambiano anch'essi colore, quasi per preparare una
stupenda cornice all'Appennino Ligure che sta raccogliendo l'ultimo bacio
del sole.
Per concludere questo nostro brano sulla costa di Portofino, non c'era
altra poesia più appropriata che quella scritta dal poeta Nino Silenzi,
che parla dei lunghi viaggi dei gabbiani, dalla quale ne abbiamo tratto il
primo brano, per completare il nostro pensiero sulla scogliera dei
gabbiani. Di questo, chiediamo umilmente scusa all'autore dei magnifici
versi, con il quale ci congratuliamo.
"Viaggi
Son tornati i gabbiani
Dai loro lunghi voli,
Dai loro misteriosi viaggi.
Ed ora popolano il cielo,
Bianchi tra le felici nuvole diradate,
Alla ricerca di cibo e d'amore.
Anch'io son tornato
Dal faticoso viaggio della mia breve esistenza.
E volo con le ali stanche
Alla ricerca del cibo dell'anima: l'amore
Quell'amore che mi fa salire
Al di là delle tristi nubi sfilacciate,
Dove c'è solo pace,
Più vicino al sole,
A godere della luce e del calore."
Il battesimo del fuoco
Che cos'è la paura? Noi non siamo biologi, e non conosciamo neppure le
trasformazioni fisiologiche che intervengono, quando un organismo
percepisce il pericolo. Sappiamo soltanto che l'adrenalina invade la
corteccia cerebrale, aumentando il ritmo cardiaco e ordinando al cervello
di fare la scelta più antica e intuitiva: prendere parte ad un'operazione
è come il soldato nella trincea, combattere il nemico che ti sta davanti o
fuggire e spesso l'istinto suggerisce di fuggire, ma noi non eravamo al
fronte, quello era il nostro compito di assicurare ad ogni costo alla
Giustizia un latitante, da molto tempo ricercato e quindi la ragione ci
diceva che eravamo legati a quell'operazione, e che comunque bisognava,
paura permettendo, portare a termine nel migliore dei modi.
Il maresciallo comandante di una stazione carabinieri, è come il cronista,
entrambi sono sempre in prima linea, con il bello e col cattivo tempo, in
guerra e in pace, in ogni disastro o calamità naturale, dove urge la sua
presenza. I militari dell'Arma o le altre forze di polizia, devono portare
soccorso, aiutare i bisognosi e informare le Autorità degli avvenimenti,
ma anche il giornalista o il corrispondente deve cercare di raccontare i
fatti di cronaca, per informare i cittadini. In quarantuno anni di
attività nell'Arma, ho sempre trovato sul posto degli avvenimenti, il
cronista o il corrispondente della stampa. Nei limiti del possibile, senza
rivelare le notizie di carattere riservate, senza intaccare il segreto
istruttorio, ho cercato sempre di collaborare con loro, fornendo le
informazioni necessarie del caso. Mi diceva un vecchio corrispondente, nei
vari momenti di pausa del nostro duro e disagiato lavoro in Barbagia o in
un'altra località del continente: "E sempre, ogni volta, quella domanda
che torna a occupare i pochi momenti di ristoro, e che mi riesce a
raggiungere " la" risposta. Quel perché s'è scelta questa professione che
ci spinge anche a viaggiare sulle strade, nei paesi lontani, sui luoghi
degli incidenti, delle battaglie, è solamente per l'informazione diretta,
mentre voi al par di noi cronisti, siete sempre sul piede di guerra e non
sapete neanche che cosa sia la paura. Conoscete solo il coraggio, ma il
coraggio non è una mancanza di paura. La paura è dentro di ognuno di noi.
Quella notte fredda e buia, sulle pendici del "Sopramonte", eravamo nella
attesa del passaggio del fuorilegge. L'unico riparo era quella massa di
calcarea appuntita che sorgeva all'apice del costone, sotto di noi
scorreva il fiume " Su cologone" a pochi chilometri da Oliena, ai piedi
del Sopramonte e da uno spacco nella montagna affiora un fiume sotterraneo
dalle acque gelide, che tra salici e platani si congiunge al Cadrino,
importante fiume che sbocca nella baia di Orosei. Quello era un vecchio
stazzo abbandonato da molto tempo da un vecchio pastore sardo. Vicino allo
stazzo, in una grotta, abbiamo legato i cavalli. Era il punto ideale
d'avvistamento per dominare la vallata del canalone e soprattutto di
sapere attendere, perché da un momento all'altro, come da nostre
informazioni, il latitante Giuseppe Congiu, con i suoi gregari che
ricercavamo da qualche tempo, da lì prima o poi dovevano passare. Quello
era il posto ideale. La squadra dai caschi rossi, composta di quattro
militari dell'Arma, al comando del comandante della Stazione e dal
sottoscritto, che ero da poco giunto in Sardegna dalla verde Lombardia e
conoscevo poco di quelle aspre montagne della Sardegna, ci eravamo
appostati a ventaglio, tenendo sotto costante controllo il costone e il
sentiero che seguiva il fiume.
Era una notte buia e fredda, ma di tanto in tanto, faceva capolino da
dietro le nuvole basse e biancastre che scendevano dalla grande e brulla
montagna la selenica luna. Sulla strada che corre sul costone di fronte,
un'autovettura Fiat 1100, trasformata a furgoncino e alquanto malandata,
forse un relitto o un residuato bellico dell'ultimo conflitto mondiale,
arrancava ansimante sulla salita che da Santa Maria Navarrese portava a
Nuoro. Per essere più precisi, la macchina procedeva con i fari spenti, e
questo particolare ci ha insospettiti ed ha attratto maggiormente la
nostra attenzione. Con il vecchio binocolo che avevamo in dotazione,
seguivamo il suo avvicinamento alquanto confuso. Dopo un quarto d'ora
circa, il furgone si è fermato nell'ampia piazzola, dove germogliano alte
e bellissime piante di eucalipto, genere di alte piante che possono
raggiungere anche cento metri di altezza: queste sono piante rare in
Sardegna, messe a dimora nel periodo del regime fascista attorno al
piazzale, sotto la quale, da una grossa rupe sgorga la sorgente, che
fornisce l'acqua potabile alla città di Nuoro. L'uomo che era alla guida
del mezzo, è sceso e dopo di essersi guardato attorno, con la pila ha
fatto tre lampeggi intermittenti di poca durata, segnalando probabilmente
ai banditi il suo arrivo. Il nostro collaboratore e guida locale, che
conosceva perfettamente la montagna come le sue tasche, si è avvicinato e
ci ha comunicato sottovoce, che sul sentiero che scendeva dalla montagna
del Supramonte, probabilmente stavano scendendo le persone che da tempo
stavamo cercando. Quelli erano momenti di spasmodica attesa e anche,
specialmente nei più giovani, di un certo senso di paura frammisto alla
grande attenzione della lunga attesa. Insomma, quello è stato il momento
che l'adrenalina stava invadendo la corteccia celebrale, facendo aumentare
il ritmo cardiaco.
Lasciamo per un momento il nostro racconto e veniamo a spiegare "L'urlo"
di Munch, che è il più celebre dipinto dell'artista norvegese è
giustamente divenuto uno dei simboli della pittura espressionista europea
e del disagio esistenziale contemporaneo. In lui le paure e l'inquietudine
del pittore sono trasformate attraverso l'allucinata fusione delle linee e
la violenza cromatica. Alla base dell'opera è tutta via mantenuta una
logica compositiva di matrice razionale: il protagonista posto in primo
piano al centro della tela, una strada vista di scorcio con due figure che
si allontanano, lo spazio aperto a destra su un paesaggio. Su questo
impianto tradizionale Munch interviene con quella che si definisce la
"linea- forza", cioè l'uso del segno pittorico in funzione espressiva. La
definizione delle forme, disegnate per mezzo di una pennellata avvolgente
e continua, comunica una sensazione di angoscia e tormento, che potremmo
definirla vera e propria paura. La figura umana perde i propri connotati
trasformandosi in un'immagine spettrale confusa, la cui sagoma sembra
risucchiata nel movimento vorticoso del paesaggio. In questo non è più
possibile distinguere il cielo dalla terra o individuare con certezza la
linea dell'orizzonte: i colori sono usati in funzione antinaturalistica.
La superficie è in realtà il campo dell'espressione di una realtà
allucinata - riflesso sulla tela del mondo interiore del protagonista del
quadro - ottenuta attraverso l'uso del colore, privato di qualsiasi
effetto decorativo.
Dopo quest'inciso, dall'urlo di Panch, ritorniamo a parlare della paura.
Gli esempi di paure tipicamente innate nell'uomo sono molte. In genere vi
é la paura degli estranei, del buio, la paura per certi animali (ragni e
serpenti), il terrore alla vista di parti anatomiche umane amputate, ma
anche e soprattutto nel sapere che da un momento all'altro ci puoi
lasciare anche la pelle, ma in genere a tutto questo non ci pensi quasi
mai e attendi solo il momento che l'operazione ha inizio.
Improvvisamente, non si capisce per quale motivo, uno dei cavalli che in
precedenza erano stati defilati nei pressi della grotta, si è messo ad
emettere alcuni nitriti. Fu allora che i banditi, compresero di essere
braccati e si misero a sparare alla rinfusa. Ne é nato un vero conflitto,
nel corso del quale sono rimasti feriti due cavalli e tre banditi, mentre
un quarto bandito è riuscito a fare perdere le sue tracce. Ad operazione
terminata, con l'arresto di quattro malfattori, compreso il bandito Congiu,
ho accusato un calore nella regione inquinale sinistra, proprio vicino al
testicolo, mi sono sbottonato i pantaloni e mi sono accorto che perdevo
sangue. Con molta calma e sangue freddo, alla bella meglio, abbiamo
cercato di tamponare la ferita. Appena giunti in caserma, il medico
condotto, ha potuto constatare che una pallottola nemica aveva raggiunto
la ragione inguinale, fuoriuscendo dalla parte opposta, senza ledere o
causare nessuna lesione. Sono stati sufficienti pochi giorni di riposo,
perché tutto è ritornato alla normalità. E' stato allora, quando ero
seduto nell'ufficio e pensando a quei momenti che hanno determinato il
conflitto a fuco, che sono stato colto da una specie di panico ed il ritmo
cardiaco è aumentato notevolmente, ristabilendosi definitivamente dopo
solo pochi minuti. Quello è stato un fatto naturale, uno stimolo che
deriva da esperienze dirette e che si sono dimostrate penose e pericolose.
Il meccanismo universale responsabile dell'acquisizione di paure apprese è
definito condizionamento, che può trasformare un qualunque stimolo neutro
in stimolo fobico, mediante la pura associazione per vicinanza spaziale e
temporale ad uno stimolo originariamente fonte di paura. Il coraggio non è
una mancanza di paura.
Con questo termine si identificano stati di diversa intensità emotiva che
vanno da una polarità fisiologica come il timore, l'apprensione, la
preoccupazione, l'inquietudine o l'esitazione sino ad una polarità
patologica come l'ansia, il terrore, la fobia o il panico. Il termine
paura è quindi utilizzato per esprimere sia un'emozione attuale che
un'emozione prevista nel futuro, oppure una condizione pervasivi ed
imprevista, o un semplice stato di preoccupazione e di incertezza.
L'esperienza soggettiva, il vissuto fenomenico della paura è rappresentata
da un senso di forte spiacevolezza e da un intenso desiderio di esitamento
nei confronti di un oggetto o situazione giudicata pericolosa. Altre
costanti dell'esperienza della paura sono la tensione che può arrivare
sino alla immobilità (l'essere paralizzati dalla paura) e la selettività
dell'attenzione ad una ristretta porzione dell'esperienza. Questa
focalizzazione della coscienza non riguarda solo il campo percettivo
esterno ma anche quello interiore dei pensieri che risultano statici,
quasi perseveranti. La tonalità affettiva predominante nell'insieme
risulta essere negativa, pervasa dall'insicurezza e dal desiderio di fuga.
Ci siamo più volte domandati da dove nasce la paura? Dai risultati di
molte ricerche empiriche, siamo giunti alla conclusione che potenzialmente
qualsiasi oggetto, persona o evento può essere vissuto come pericoloso e
quindi indurre un'emozione di paura. La variabilità è assoluta,
addirittura la minaccia può generarsi dall'assenza di un evento atteso e
può variare da momento a momento anche per lo stesso individuo
Essenzialmente la paura può essere di natura innata oppure appresa. I
fattori fondamentali risultano comunque essere la percezione e la
valutazione dello stimolo come pericoloso o meno
Qualche tempo dopo, abbia chiesto al nostro medico di fiducia, come il
corpo manifesta la paura? Egli così ci ha risposto: "La faccia della
paura" si manifesta in un modo molto caratteristico, occhi sbarrati, bocca
semi aperta, sopracciglia avvicinate, fronte aggrottata. Questo stato di
tensione dei muscoli del viso rappresenta l'espressione della paura che è
ben riconoscibile anche in età precoce e nelle diverse culture. Le
alterazioni psicofisiologiche sembrano differenziarsi fra quelle che si
associano a stati di paura intensi, come il panico e la fobia, e quelle
invece concomitanti alla preoccupazione e all'ansia. Precisamente, uno
stato di paura acuta ed improvvisa caratteristica del panico e della
fobia, si accompagna ad un'attivazione del sistema nervoso autonomo
parasimpatico, si ha quindi un abbassamento della pressione del sangue e
della temperatura corporea, diminuzione del battito cardiaco e della
tensione muscolare, abbondante sudorazione e dilatazione della pupilla. Il
risultato di tale attivazione è una sorta di paralisi, ossia l'incapacità
di reagire in modo attivo con la fuga o l'attacco. La funzione di questa
staticità indotta dallo stimolo fobico sembra quella di difendere
l'individuo dai comportamenti aggressivi d'attacco scatenati dalla fuga e
dal movimento. Paradossalmente, in casi estremi, tale reazione
parasimpatica può condurre alla morte per collasso cardiocircolatorio.
Stati di paura meno intensi invece attivano il sistema nervoso simpatico,
quindi i peli si rizzano, ai muscoli affluisce maggior sangue e la
tensione muscolare ed il battito cardiaco aumentano; il corpo è così
pronto all'azione finalizzata all'attacco oppure alla fuga.
Quali sono le funzioni della paura? Sicuramente, la paura ha una
funzione positiva, così come il dolore fisico, di segnalare uno stato di
emergenza ed allarme, preparando la mente il corpo alla reazione che si
manifesta come comportamento di attacco o di fuga. Inoltre, in tutte le
specie studiate l'espressione della paura svolge la funzione di avvertire
gli altri membri del gruppo circa la presenza di un pericolo e quindi di
richiedere un aiuto e soccorso. Dal punto di vista biologico -
evoluzionista sia il vissuto soggettivo, attraverso i processi di memoria
e di apprendimento, sia le manifestazioni comportamentali,
indifferentemente fuga, paralisi o attacco, che le modificazioni
psicofisiologiche (attivazione parasimpatica o attivazione simpatica)
tendono verso la conservazione e la sopravvivenza dell'individuo e della
specie. Ovviamente, se la paura è estremizzata e resa eccessivamente
intensa, diventando quindi ansia, fobia o panico, perde la funzione
fondamentale e si converte in sintomo psicopatologico.
Come guarire dalla paura? La paura, come abbiamo detto, ha un alto valore
funzionale, finalizzato alla sopravvivenza. Per esempio, ricordarsi che
quel tipo di animale rappresenta un pericolo perché aggressivo e feroce
oppure velenoso, costituisce un innegabile vantaggio. Oppure, preparare il
proprio corpo ad un furioso attacco o ad una repentina fuga può in certi
casi garantire la sopravvivenza. Infine, anche uno stato di "paralisi da
paura" può salvarci dall'attacco di un feroce aggressore che non attende
altro che una nostra minima reazione. Quindi le cure contro la paura si
rivolgono solo a quei casi in cui essa rappresenta uno stato patologico,
come ad esempio attacchi di panico o di ansia di fronte ad uno stimolo
assolutamente non pericoloso.
Nel corso della nostra lunga carriera militare, ci siamo più volte trovati
in casi del genere, ma abbiamo sempre mantenuto un comportamento di
freddezza e di calma. Solo così si riesce a vincere la paura. Non sappiamo
che cosa sia il panico, perché in certe situazioni non cera tempo per
pensare al panico o alla paura, bisogna soltanto agire con determinazione
se si vuole portare a casa la pelle. Come abbiamo detto sopra, una specie
di paura può venire dopo, quando tutto è terminato e pensi a quello che
sarebbe potuto succedere, ma ormai è tutto passato e dopo la tempesta
ritorna sempre il sereno.
Dopo l'elencazione di questa lunga e forse noiosa casistica sul fattore
paura, ritorniamo alla nostra permanenza e alle lunghe perlustrazioni a
cavallo sui sentieri aspri e selvaggi in quella Sardegna dalle spiagge di
sabbia impalpabile o dai bianchi sassi levigati da un'acqua cristallina, o
dagli scogli contro i quali s'infrangono spumeggianti onde e c'è una
Sardegna meno conosciuta, diversa da quella che conoscevamo, ma
altrettanto bella. E' quella delle bianche strade che a volte seguono il
tracciato delle antenate romane, quella dei sentieri dei carbonai che, tra
i cespugli di cisto e mirto, si inerpicano inesorabilmente sino alla cima
dei monti. Svela i suoi tesori solo a chi sa conquistarli faticosamente,
appagato dagli esaltanti profumi e colori del rosmarino, della menta, del
cisto, della rosa canina, dell'ellebero, del finocchio, della digitale,
della peonia e da una serie di altri fiori. Quando ci s'addentra nel
territorio che da lontano sembrano solo un largo manto verde punteggiato
spesso dal rosso e giallo delle euforbie, si scoprono giganteschi e
secolari olivastri, nodosi ginepri, querce da sughero, corbezzoli,
stupendi lecci, ornelli, fichi, maestosi oleandri e prati di felci.
Insolita e stupefacente la convivenza di varie piante radicate su di uno
stesso masso, ogni piccolo anfratto di roccia non ospita soltanto
latitanti e malfattori, ma ospita alberelli e fiori rari dal profumo
penetrante.
Si può sostare alla grotta del vento " Sa Oche", inoltrarsi nella gola del
Gorroppu, creata dal Flumineddu nel corso di milioni di anni e lì fermarsi
ad osservare i balestrucci che vanno e vengono incessantemente dai loro
nidi. Ci si può tuffare nelle acque del Flumineddu dopo un giorno di
cammino, restando in sella ad un cavallo stanco sotto il peso del
cavaliere e dalle bisacce zavorrate dal sacco a pelo, da alcuni litri di
indispensabile acqua e dai generi di conforto. E bello fermarsi in uno
stazzo, conversare con il pastore e gustare una cena a base di porcellino
o capretto servito su un letto di foglie di mirto, perché non tutti i
pastori sono nemici della legge, ma spesso sono degli ottimi collaboratori
e confidenti. Spesso tra il carabiniere e il pastore, nasceva quell'amicizia
e quella confidenza che li legava per la vita.
Quando si usciva con la squadriglia in perlustrazione, fra quelle montagne
aspre e selvagge, prima di una settimana non si faceva ritorno alla base.
In questo nostro peregrinare a volte si può avere la fortuna di vedere
l'aquila che vola alta nel cielo e sentirsi in quel momento libero come
lei, e quando a S'Archideddu Lupino si vede il mare attraverso il foro
della roccia, si ha la sensazione che qui cielo, terra e mare vivono in
simbiosi.
Si può sentire il canto della civetta e quello dell'assiolo notturno,
sotto un cielo stellato. Prima di tuffarsi per un bagno corroborante a
Cala Sisine, s'incontrano ovili abbandonati e s'ammira l'opera del pastore
che, con massi, tronchi e rami contorti di ginepro, ha saputo creare un
piccolo capolavoro d'architettura.
Non si può dimenticare " Olobissi" dove, all'ombra di un grande olivastro,
su piatti di pane carasau si gustava una favolosa ricotta freschissima,
ancora calda, con miele ed innaffiata da un ottimo vino Cannonau. Quando
si arriva a Golgo ed appare la bianca e candida chiesetta di S. Pietro con
i suoi caratteristici ricoveri per i pellegrini, il forno e i maestosi
olivastri, si respira misticismo e pace. Però non spiace interrompere
l'atmosfera con una gustosissima pecora cucinata con patate, verdure e
accompagnata da buon vino locale, finendo come il solito, con uno
spiritoso mirto. La nostra permanenza in Sardegna è durata oltre tre anni,
poi a malincuore, ma nello stesso tempo felici, di fare ritorno nella
brumosa e bellissima Lombardia dai colori velati dalla nebbia, ma è un
susseguirsi di panorami incantevoli e sensazioni suggestivi, quasi al
limite dell'irreale, ma la Sardegna è un'altra cosa.
Dopo tanto tempo, ci siamo ritornati più volte in qualità di turisti e
anche di escursionisti con gli amici del Cai di Mantova, è abbiamo
ripercorso quei vecchi sentieri di nostra conoscenza. Abbiamo riammirato
quel paesaggio unico nel suo genere e assaporato lassù sul Golgo, il
porceddu arrostito sulle braci, bevuto il famoso vino "Cannonau", e
abbiamo fatto festa con gli amici della Coop Colorizé.
Nel nostro itinerario, ci siamo soffermati ad ammirare quella vista
mozzafiato che si gode dall'alto con la guglia di Punta Colorizé che ti fa
sentire all'unison con questo maestoso paesaggio roccioso.
Tiziana Viviani, ha così scritto in un suo articolo: "Alla fine del
trekking, dopo sette giorni di cammino, quando si lascia l'imponente
guglia di Pedra Longa emergente dal mare, si ha la netta sensazione di
tuffarsi nel solito mondo di tanti problemi, ma si è consapevoli di aver
vissuto un'indimenticabile vacanza con i cari vecchi e nuovi amici del Cai.
Ad ogni tappa percorsa si è sempre più grati alla Coop. Coloritzé del
Golgo, a questo gruppo di intraprendenti ragazzi che, sicuramente tra
tante difficoltà, ti ha fatto vivere una simile esperienza. Da non
dimenticare: Mariano Lai, Antonio Cabras, Gino, l'altro Mariano e tutti
gli altri che una presenza mai invadente e tanta competenza, hanno
condotto per sentieri, illustrato l'ambiente dal punto di vista storico,
naturale, archeologico, hanno fatto gustare i loro eccellenti piatti
tipici ed hanno accomunato due regioni di diversa tradizione con la
possibilità di potersi capire meglio. Si lasciano con la chiara intenzione
di estendere agli amici di tutto il Cai, che non hanno ancora vissuto
questa esperienza, l'invito di rivolgersi a loro ed avvalersi della gran
competenza dimostrata, per vivere l'arricchente avventura dei " Caini" di
Mantova.
Ormai, con Adriana mia moglie, siamo di casa sulla meravigliosa Costa di
Santa Maria Navarrese e sull'altopiano del Golgo. Lungo la spiaggia e le
stupende insenature si possono ammirare l'antica torre e la gigantesca
Perda Longa. Arbatax e alcuni chilometri più a sud col suo porticciolo e
le possenti Rocce Rosse in eterna lotta con i flutti.
Al carabiniere
A chi ti chiede
Chi sei?
Da dove vieni?
Dove vai?
Così rispondi:
Il mio passato
E ch'io sono stato
L'ho già dimenticato.
Il mio futuro?
Credo ci sia nessuno
Capace di vedere oltre quel muro.
Del nuovo presente
Mi spiace tanto
Sono in servizio
Non posso dirti niente.
Il periplo dell'isola di Rodi
Ero da poco entrato dal giardino dove spirava un venticello fresco che ti
accarezzava il viso. Nell'attesa che scendeva dall'appartamento Adriana
mia moglie, per la cena mi ero seduto nell'ampio salotto dell'Hotel
Pegasos. Tra una pipata e l'altra, il profumo aromatico del tabacco si
diffondeva nell'ambiente. Il fumo biancastro che usciva dalla pipa, a
piccoli cerchi concentrici s'innalzavano nel locale. Nell'isola di Rodi,
come in tutta la Grecia, non era in vigore il divieto di fumare e quindi
nessuno si lamentava per il fumo che fuoriusciva dalla mia elegante pipa
di schiuma, che avevo acquistato in un piccolo laboratorio artigianale,
gestito da un bravissimo artigiano turco da molti anni trapiantato a Rodi.
E' molto interessante assistere alla lavorazione del minerale che i sub
raccolgono nel fondo del mare Egeo, che l'artista trasforma con i suoi
bisturi e piccoli torni rudimentali in piccoli capolavori artigianali.
Secondo una tradizione più antica, sembra che la Dea Afrodite, la Dea
dell'amore, della bellezza e della fecondità, venerata in tutto il mondo
greco sotto aspetti che riflettevano l'influsso della fenicia Astante e
collegata con il culto di Adone, si ritiene che la sua nascita sia
collegata con la schiuma del mare, con quel materiale che l'artigiano di
Rodi, scolpiva veri e propri capolavori d'arte.
Nell'ampio atrio della reception del grande complesso alberghiero
dell'Hotel Pegasos di Faliraki, oltre alle belle ragazze che stavano tutto
il giorno dietro il grande bancone, fa bella mostra di se una bellissima
copia della Dea Afrodite. In fondo al locale vi erano altri due simpatiche
hostess che sostavano nei rispettivi uffici: una era l'addetta al
Turperetur Mediterraneo, con il quale siamo giunti a Rodi, mentre la
seconda; una simpatica e bella ragazza greca dagli occhi scuri,
s'interessava al noleggio delle autovetture e dei ciclomotori. In quel
momento è entrato nel locale Giovanni, l'amico pensionato delle Ferrovie
dello Stato, il quale mi ha prospettato di effettuare una lunga escursione
a largo raggio dell'isola di Rodi e quindi, abbiamo chiesto informazioni
alla ragazza dagli occhi scuri, per noleggiare per il giorno successivo
una delle autovetture del parco macchine. In un certo senso, siamo come
San Tommaso, non ci accontentiamo dal sentito dire, ma vogliamo
constatarlo di persona, perché la nostra è una deformazione professionale,
un atteggiamento tipico di chi conserva, anche al di fuori del proprio
lavoro, lo stesso modo di pensare e di agire relativo a quella che fu la
nostra attività professionale, solo così facendo possiamo vedere per poi
raccontarlo nei minimi particolari ciò che abbiamo visto nel Paese che ci
ha ospitati per le nostre vacanze estive.
Gli ospiti dell'Hotel si stavano avviando verso il ristorante per la cena,
anche Adriana e la signora di Giovanni, procedevano a lenti passi,
lasciando dietro di loro una scia deliziosa di profumo. Spensi la pipa, la
deposi nell'apposito astuccio e con l'amico abbiamo raggiunto le nostre
signore e ci siamo diretti anche noi verso la sala da pranzo per la cena.
Negli alberghi come sulle navi, i pasti costituiscono una cerimonia
rituale strettamente codificata. E' uno spettacolo affascinante, e spesso
desolante, vedere quelle coppie e quelle famiglie ingerire in silenzio,
con gesti forzati, su tovaglie impeccabili, un cibo universale, da cui è
stato accuratamente bandito tutto ciò che può rammentare una regione o una
stagione. La grandiosa sala da pranzo del Pegasos, più che una sala da
pranzo da grande Hotel, sembrava una grande sala da mensa aziendale, con
servizio di self-service, dove ognuno di noi si poteva servire
direttamente, senza l'ausilio del cameriere. Non esisteva nessun ordine
prestabilito, il primo che arrivava poteva occupare il tavolo che
desiderava, oppure aspettava che si rendesse libero un tavolo, per il
resto ci pensavano i solerti e bravissimi camerieri. In genere con
Adriana, occupavamo un tavolo d'angolo dell'immenso salone da pranzo da
cui si godeva di una celebre vista sul mare con l'immenso giardino fiorito
Il servizio era eccellente come pure l'organizzazione del complesso
turistico- alberghiero. Possiamo definirlo, senza tema di essere smentiti,
che la cucina era ogni giorno variegato e rispecchiava a quella
mediterranea e soprattutto era dietetica. Nel self-service, non mancavano
mai gli spaghetti con il ragù o al pomodoro, come pure il pesce o la
carne. Insomma, ci sembrava proprio di essere a casa nostra.
Il mattino, dopo la prima colazione, a bordo di una Fiat uno ultimo tipo,
siamo partiti dal piazzale del Pegasos e ci siamo diretti verso il sud
dell'isola. Adriana e la signora Maria, avevano preso posto nel sedile
posteriore, mentre l'amico Giovanni, si poneva alla guida
dell'autovettura. Dopo appena mezz'ora dalla partenza, ho abbassato
leggermente il finestrino e un messaggero di un piacevole tepore
ventilato, emanazione di un accecante biancore calcinato di muri, foriero
di odori di erbe secche e riarse, il raggio di una luce inconfondibile e
assoluta: la luce del villaggio di Arcangrlos. Una luce che non trova
ostacoli lungo il brullo e pianeggiante profilo dell'isola e si irradia
diffusa, riflessa dal mare, dalle case, dalla limpidezza adamantina del
cielo, una luce senz'ombra, neppure minimamente intaccata nella sua
purezza dalle mille macchie di colore delle bougainville, dei gerani,
delle bignonie, un genere di rampicante ornamentale con grandi fiori rossi
a imbuto, non scalfita dai blu, dai verdi, dai rossi delle finestre, delle
porte e delle ringhiere delle case. La campagna era arsa e secca, ma la
macchia della piantagione degli ulivi e le basse colline macchiate di
verde, la rendeva caratteristica. La natura è affascinante: spiagge
dorate, come quella di Tsambika, all'ombra dell'impervia roccia con il
monastero della Madonna. Ed ancora Stegnà, un pittoresco borgo di
villeggiatura nei pressi di Arcagelos, e Haraki, un piccolo golfo
idilliaco, dove si trovano i resti di una fortezza medioevale di Faralòs.
Proseguendo sulla strada provinciale, all'interno della valle del fiume
Naithonas, nascosti tra gli aranceti e gli uliveti, sono i villaggi di
Malano e Massari, i villaggi costruiti dai coloni italiani, che fecero di
quella zona un vero giardino.
Proseguendo sulla costa, dopo qualche ora di strada, ci appare come
d'incanto la baia e il promontorio di Londos, con il villaggio dipinto di
bianco. A Lindos, eravamo stati una settimane prima e passeggiare ancora
tra le strette vie lastricate con piccole pietre arrotondate e rese
sdrucciolevole dal passaggio dei turisti nel tempo, abbiamo ammirato quei
piccoli e caratteristici dedali tappezzati da magliette, tovaglie ed altri
oggetti, dove i turisti erano alla ricerca del souvenir per portare agli
amici. Ci fermiamo ad ammirare le case dei piccoli carruggi con fughe
imbiancate del borgo antico (Hora) significa scoprire che la spessa mano
di calce con cui prima di ogni estate gli abitanti ripassano i muri delle
case e delle chiese disseminate nel borgo che fa acquisire alle cose
morbidezza e intensità nuove, ne addolcisce gli spigoli ed i profili nella
luce violetta di un tramonto ormai quasi spento nella quale le guardo.
Percorriamo il labirinto intreccio di strade e vicoli che s'intrecciano
fra loro in modo da far perdere facilmente l'orientamento a chi li
percorre dove nella escursione precedente avevamo imparato a destreggiarci
ritorna impraticabile così come doveva apparire agli invasori che nei
secoli hanno tentato di impadronirsi dell'antica città di Lindos, presto
smarriti e dispersi tra la folla e le sue case, imprigionati da una rete
che divide in piccoli refoli anche le potenti folate del maltempo, il
forte vento del nord che nei mesi estivi spazza via dall'afa e dalla
calura. Perdersi nel dedalo di viuzze del centro è un'esperienza unica che
consente di scoprire il disperdibile fascino e la suggestione di molti
angoli per nulla offuscati dagli eccessi del turismo di massa; talvolta il
groviglio delle strade si discioglie improvvisamente in uno slargo con un
albero, spesso un platano o un eucalipto, al centro: intorno ai richiami
delle piccole botteghe di artigiani, ristoranti per tutte le esigenze e
negozi di souvenir, chioschi in una miscela disordinata ma unica e
irresistibile. Nella piccola piazza dove si ferma la navetta che fa la
spola con il piazzale delle corriere, una stradella con una serie di
gradoni porta al porto e alle piccole insenature e alle spiaggette
solitarie, sbocco delle principali vie del centro storico, invaso da una
miriade di anonimi turisti.
Lindos, nel tempo conobbe un notevole sviluppo culturale e nell'ambito
della marineria. Fu Patria del saggio tiranno Cleobulo, protetta da una
potente acropoli, fu ammirata per la sua prosperità, la sua bellezza ed
anche la sua posizione strategica. La fortezza fu potenziata durante
l'epoca cavalleresca, mentre l'importanza marittima di questo centro
continuò fino al XIX secolo. E' stata anche terra di pirati dediti a
sanguinose scorribande per le Cicladi e il Dodecaneso, ma che era popolata
da devoti fedeli che sentivano costantemente la necessità di erigere
luoghi di culto ai Santi protettori ed alla Vergine Maria, punto cruciale
di traffici mercantili sulle rotte tra le isole ma anche approdo
privilegiato per i vicini villaggi dell'estremità sud- orientale
dell'arcipelago greco.
.
Verso le ore 11 circa, abbiamo lasciato la città antica di Lindos e
abbiamo raggiunto la località di Pefkos, un idillico ambiente naturale, un
borgo marinaro, immerso nella verde pianura, con una bellissima spiaggia
di sabbia dorata. Dopo un piccolo rinfresco, abbiamo proseguito per il
monastero della Erma, dove sorge il monastero dell'Arcangelo Michele. Vale
la pena di visitare questo bel monastero, costruito nel mezzo di un bosco,
per ammirare i begli affreschi del XII e XVI secolo e per seguire la
messa, che è celebrata dai monaci con devozione bizantina.
Il nostro viaggio esplorativo nella parte Meridionale dell'isola di Rodi,
una località molto interessante e lontana dallo stress delle città e dei
luoghi di villeggiatura. In questi villaggi la vita scorre con ritmi
propri dandoci la sensazione che il tempo si sia fermato. Questi sono
villaggi costruiti per la maggior parte durante il medioevo o ancora
prima, hanno conservato inalterato il loro carattere tradizionale:
Asklipios con la sua fortezza bizantina, Gennai e Lahania con le loro
sasette bianche, Kattavia, il villaggio più meridionale dell'isola
dall'antichissima storia, dove ci fermiamo in un piccolo bar con i
tavolini all'aperto sotto l'ombra di due grossi alberi, dove ci è servito
un ottimo te con dolcetti tradizionali della casa, è gente molto cordiale
e rispettosa. Attraversiamo diversi villaggi, come Arnitha, Apolakia col
monastero della Madonna Skiadenì, Vati e Massanagros, Istrios e Profylia,
villaggi rurali i cui abitanti, nonostante il duro lavoro quotidiano,
sanno godersi la vita con gioia e semplicità, ma anche preservare le loro
abitudini come un prezioso tesoro.
Il Dodecaneso è sempre stato, durante la sua lunga e tormentata storia, un
ponte tra Occidente ed Oriente. Pur avendo assorbito elementi di molte
culture differenti, esso ha sempre conservato intatto il suo carattere
greco. Risalendo la costa verso la città di Rodi, sulla nostra sinistra
vediamo in lontananza l'isola Halki illuminata dal sole calante e leggiamo
su di un depliant che questa piccola isola e centro tradizionalmente
dedito alla pesca delle spugne e che è stata duramente colpita dalla crisi
economica degli inizi del 1900 ed è perciò decaduta, come molte altre
piccole isole del Dodecanneso. Negli ultimi tempi, tuttavia, lo sviluppo
del turismo sembra aver ridato vita all'isola.
Il nostro viaggio prosegue sulla costa litoranea e il primo villaggio che
incontriamo è Skala Kameirou, un villaggio dedicato agli amanti del relax.
E' un porticciolo invitante, un tempo a uso dell'antica Kameiros.
Proseguendo sulla Strada Provinciale che porta a Rodi, incontriamo
l'antica Kameiros e ammiriamo le incredibili vestigia di questa città
dorica un tempo fiorente, includono un Tempio di Atena Polias dell'Atena
Polis del VI secolo a.C. Il nostro viaggio attraverso l'isola di Rodi, è
prossimo al termine, ci mancano pochi chilometri per giungere a Rodi e
proseguire per Kalitheas e Faleraki.
Abbiamo ancora negli occhi la Sequenza di spiagge e promontori, baie e
calette, disseminate lungo la costa dove famose località spesso caotiche
ed affollate si alternano con altri angoli più autenticamente paradisiaci
dove sono il vento ed il sole a farla da padroni indiscussi. Risalendo la
costa ovest si diramano tre direttrici principali, assistite da una fitta
rete di strette strade delimitate da muri a secco che rendono cieca ogni
curva Poco prima del tramonto, poi, da quel mare riscaldato da ore e ore
di sole, si libra, indistinto e indistinguibile ma persistente e
sorprendente, come trasportato dal vento che accarezza il pelo dell'acqua,
l'intenso profumo del mare, fresco e fiorito come un campo che fa
schiudere le sue mille corolle, spaziato e fragrante come l'aroma della
pelle, dolce e vellutato come un frutto maturo, scopriamo che nella luce
della sera, con le botteghe ed i locali chiusi, con i soli autoctoni in
giro per le strade, le metafisiche architetture senza tempo del centro
sono, se possibile, ancora più belle e che quelle case che si
sovrappongono l'una sull'altra, quelle ringhiere, scale e balconi colorati
e lanciati verso il cielo sono fatte della stessa materia che qui forgia
spiagge e rocce, alberi e mare, e tutto è aria e luce. Bellissimi
tramonti, spiagge da sogno, paesi di case bianche, cieli e mari blu: mai
visti così tanti luoghi comuni, così tante frasi fatte, slogan da
catalogo, promesse effimere diventare così stupefacentemente vere. Ma le
nostre vacanze sono appena cominciati e altri tramonti e villaggi ci
aspettano per essere ammirati, come la cittadina di Lindos, con le sue
case bianche barbicate sulla montagna scoscesa che degrada nella stupenda
baia degli dei. A sera, dopo il tramonto, senza malinconia e rimpianto:
solo per scoprire che, anche senza la luce del sole, immersa nel chiarore
di una notte di quasi plenilunio Faliraki è pur sempre straordinariamente
bella.
Festa grande a Campitello.
Domenica 10 Settembre 2006 ( ore 17.30)Per l’inaugurazione del viale che
conduce alla chiesa e del sagrato, Campitello di Marcarla ha vissuto due
giornate veramente memorabili. Due giornate (9 e 10 settembre) “ di festa
sentita e gustata”, come le definisce il parroco don Enrico Castiglioni.
Sicuramente queste due giornate passeranno alla storia del paese. La
benedizione e l’inaugurazione del viale-sagrato, si è svolta alla presenza
delle Autorità religiose, provinciali e comunale. La Piazza era affollata
dalla cittadinanza e al suono della banda di Moglia, il nostro parroco don
Enrico Castiglioni, ha illustrato il senso della manifestazione e
rivolgendosi agli astanti ivi convenuti, leggendo il suo discorso, che lo
riportiamo qui di seguito”“Siamo riuniti come figli di Dio per ritrovare
la gioia di sostare in uno spazio e in un luogo dove la gente cammina e si
incontra. E’ uno spazio costituito da un viale simbolo del cammino che
conduce al Signore. E’ uno spazio costituito da un sagrato simbolo
dell’accoglienza e dell’incontro fraterno.E’ uno spazio aperto e
introdotto da una piccola fontana o fonte a otto lati che richiama il
Battistero, dove si rinasce a vita nuova.E’ dunque spazio Sacro: ecco
perché siamo riuniti in preghiera per la benedizione.Grazie a te, o Dio
nostro Padre, / Che nell’acqua, tua creatura, / Ci hai aperto il grembo
della vita; / Grazie a te, per l’onda che irriga, / Il lavacro che
purifica, / La bevanda che disseta, /Il fonte della nostra rinascita
Cristo tuo Figlio./ Fa, o Signore, / Che ogni uomo possa sempre godere/Di
questo refrigerio/E conservando limpida e casta/L’opera della creazione,
/Vada in lei il riverbero della tua bontà/E un invito costante/Alla
purezza del corpo e dell’anima./ Per Cristo nostro Signore. Amen”. Dopo la
benedizione della fontana e del Viale- Sagrato, la banda ha eseguito
l’inno nazionale ed ha fatto seguito un lungo e caloroso applauso da parte
del pubblico presente ed è stato a questo punto che ha preso la parola il
presidente della Provincia di Mantova prof. Maurizio Fontanile e
successivamente dal sindaco di Marcaria Carlo Orlandini, entrambi, hanno
sottolineato i grandi sforzi sostenuti dalla comunità Parrocchia, per la
realizzazione dell’intera opera iniziata sei mesi fa, permettendo così
l’unificazione con la nuova Piazza, voluta e realizzata tre anni fa
dall’uscente Amministrazione Comunale, con il sindaco Zani dott.Ezio. Il
prof Fontanile, nel suo breve ma significativo discorso, ha spiegato il
significato della Piazza del paese, dicendo che la Piazza, significa luogo
d’incontro fra i cittadini di un borgo o di una città, dove le persone
possono incontrarsi e socializzare con gli altri.Per capire meglio il
senso ed il significato della “Piazza”, il filosofo Luciano De Crescenzo,
ci invita a riflettere su un verbo, esistente nella lingua greca, che, non
avendo corrispettivi in nessuna altra lingua, è di fatto intraducibile, a
meno che non si vuole ricorrere a delle frasi complesse. Questo verbo. “
ogorazein”. “Agorazein” vuol dire “ recarsi in piazza per vedere che si
dice” e quindi parlare, comprare, vendere e incontrare gli amici;
significa però anche uscire di casa senza un’idea precisa, gironzolare al
sole nella attesa che si faccia ora di pranzo, in altre parole “intalliare”,
come si dice dalle nostre parti, cioè nel Meridione d’Italia, partendo
dalla Campania e terminando in Sicilia, ovvero attardarsi fino a diventare
parte integrante di un magma umano fatto di gesti, di sguardi e di rumori.
“ Agorazonta”, in particolare, è il participio di questo verbo e descrive
il modo di camminare di colui che pratica l’“agorozein” e cioè il
procedere lento, con le mani dietro la schiena e su un percorso quasi mai
rettilineo. Lo straniero che, per motivi di lavoro o di turismo, si
trovasse di passaggio in un paese greco, sia esso Corinto o Pozzuoli,
resterebbe molto stupito nel vedere un così folto numero di cittadini
camminare su e giù per la strada, fermarsi ogni tre passi, discutere ad
alta voce e ripartire per poi fermarsi di nuovo. Egli sarebbe portato a
credere di essere capitato in un particolare giorno di festa, laddove
invece assiste ad una comune scena di “ ogorazein”. Ebbene, la filosofia
greca deve molto a questa abitudine peripatetica di noi meridionali?“ Caro
Fedro, ” dice Socrate “ dove vai e da dove viene?”. “Ero con Lisia, il
figlio di Cefalo, o Socrate, ” risponde Fedro” e ora me ne vado a spasso
fuori le mura. Così, un consiglio all’amico comune Acumino, faccio i miei
quattro passi all’aria aperta, perché, dice, rinvigoriscono più che
passeggiare sotto i portici.”. Ecco come incomincia uno dei più bei
dialoghi di Platone: il Fedro. La verità è che questi ateniesi non
facevano niente di produttivo, facevano tutto quello che facciamo noi
pensionati, specialmente il giorno di mercato nella nostra bella Piazza
Garibaldi: passeggiavano, conversavano, si chiedevano cosa fosse il Bene e
il Male, ma quanto a lavorare, a costruire qualcosa di pratico da poter
vedere o usare, come il bellissimo viale del sacrato della Chiesa di
Campitello, neanche a parlarne. Ma, per fortuna, è arrivato un piccolo e
grande prete, che ha rivoluzionato ogni cosa con la sua creatività, tanto
che si è prefisso di costruire un bel viale con la “fontana”, e senza una
lira in tasca e guarda caso, ci è riuscito ed oggi, in questo giorno di
festa, attorniato dalle massime autorità della Provincia e del Comune, in
un abbraccio di fedeli, ha benedetto il suo sogno.Parlando della
filosofia, diremo che è una pratica indispensabile fra vivere umano, utile
ad affrontare i problemi spiccioli di ogni giorno. Ma ch’è questa
filosofia? Bè, così su due piedi non è poi tanto facile darne una
definizione. L’uomo ha raggiunto le più alte vette di civiltà attraverso
due discipline fondamentali: la scienza e la religione. Ora, mentre la
scienza, facendo ricorso alla ragione, studia i fenomeni della natura, la
religione, soddisfacendo un intimo bisogno dell’animo umano, cerca
qualcosa di assoluto, qualcosa che superi la capacità di conoscere
attraverso i sensi e l’intelletto. Ebbene, la filosofia è una cosa che sta
a mezza strada tra la scienza e la religione, più vicina all’una o
all’altra a seconda che si abbia a che fare con i filosofi cosiddetti
razionalisti, o con quelli più inclini a una visione mistica delle cose.
Per Bertrand Russell filosofo inglese di scuola razionalista, la filosofia
è una specie di Terra di Nessuno, tra la Scienza e la Teologia, ed esposta
agli attacchi di entrambi. Noi non ci intendiamo molto di Scienza, di
Teologia e di filosofia, ma facciamo parte della categoria delle persone
semplici e ci limitiamo soltanto a recepire, a capire e comprendere le
cose giuste e quelle meno giuste. Siamo nell’epoca moderna, ma immaginiamo
di essere nell’epoca del Paleolitico superiore, quando Huno quella notte
era felice, tutto gli era andato secondo i suoi desideri: era riuscito a
catturare un giovane capriolo, tenero e bene in carne, lo aveva squartato
con la sua scaglia di selce e lo aveva arrostito lentamente sul fuoco.
Quella sera faceva molto caldo e non aveva sonno. Si era sdraiato lungo
lungo sull’erba e si era messo a guardare il cielo stellato. Era una notte
d’agosto senza luna. Migliaia e migliaia di puntini luminosi gli
brillavano nella testa. Cos’erano quei fuochi? Si chiesi Hanu. Chi li
aveva accesi lassù nel cielo? Un immenso gigante? Un Dio? Ecco nascere
insieme la religione e la scienza, la paura dell’ignoto e la curiosità del
sapere, e quindi la filosofia. Per noi di Campitello, quel cielo tinto di
rosso e scoppiettante di mille luci ci stava ad indicare che era nata una
congiunzione tra la Piazza Comunale e il sacrato della Chiesa, che collega
il sacro al profano Parlando del sagrato, Don Enrico, così scrive: “La
storia ci suggerisce che il sagrato di una Chiesa è l’erede, pur in forme
molto diverse, dell’antico atrio antistante le Basiliche Paleocristiane,
quasi uno spazio di rispetto davanti al luogo sacro, al punto di
partecipare di questa sacralità, da cui il nome di sagrato. Il più delle
volte compariva anche l’elemento “acqua”, che scaturiva da una fontana,
ristoro per i pellegrini, ma anche evidente allusione al Sacramento del
Battesimo.Anche presso i luoghi di culto di altre religioni si ritrovano
frequentemente degli spazi sacri con la medesima funzione spirituale di
introduzione al tempio vero e proprio e con la presenza dell’acqua
circostante, simbolo della vita.Per progettare un sagrato l’architetto
progettista deve uniformarsi ai criteri contenuti nella nota Pastorale
della C:E:I ( Conferenza Episcopale Italiana) “ L’adeguamento delle Chiese
secondo la riforma Liturgica”, del 3 Maggio 1996 ( N. 35). “ La cura del
sagrato, del viale e della Piazza ad esso eventualmente collegati, è segno
della disponibilità all’accoglienza che caratterizza la comunità cristiana
in tutti i suoi gesti e quindi, a maggior ragione, in occasione delle
celebrazioni Liturgiche: Chi si presenta alle porte delle Chiese deve
sentirsi ospite gradito e atteso. Perciò, già a partire dal sagrato e
dalla piazza, è necessario rendere le Chiese accessibili a tutti,
accoglienti, nitide e ordinate, dotate di tutto quanto rende gradevole la
permanenza. I sagrati antistanti o circostanti le Chiese devono essere
conservati, ben tenuti e non destinati ad altri usi. Se necessario, sono
recuperati al pieno uso Ecclesiale e, comunque, debitamente tutelati e
restaurati. I sagrati, infatti, sono spazi ideali per la preparazione e lo
svolgimento di alcune Celebrazioni ( Processioni, accoglienza, Riti del
Lucernario nella Veglia Pasquale). Risultano adatti anche per
l’ambientazione e la conclusione delle riunioni Pastorali più frequenti,
oltre per l’incontro e per il dialogo quotidiano”.Tutti questi elementi
compariranno nell’esecuzione del progetto relativo alla riqualificazione
del sagrato e viale d’accesso alla Chiesa. Queste saranno le
caratteristiche fondamentali.Il fedele, il turista o il pellegrino che
giunge da lontano o dal paese, all’inizio del viale ( cioè sulla linea di
confine tra la proprietà comunale e quella parrocchiale) troverà istallata
una fontana con un unico zampillo d’acqua( illuminato di sera). La fontana
è stata ricavata da un blocco unico di marmo “ Trani” o “ Biancone”a forma
ottagonale ( otto lati come i primi Battisteri della Chiesa dei primi
secoli simbolo dell’ottavo giorno con evidenti allusioni alla Vita
Eterna). La fontana sta all’inizio del viale perché introduce allo spazio
del Sacro per aiutare i fedeli a capire che l’acqua del Battesimo conduce
all’incontro con Dio nella sua Chiesa ( la Chiesa). La fontana allora
assolve il compito di distinzione e separazione dei due spazi costituenti
il tessuto storico e quotidiano della nostra esistenza: da una parte la
competizione, il frastuono, la piazza, il mercato, l’aspetto profano;
dall’altra la quiete, la spiritualità, l’ascesi, la pace, il
pellegrinaggio.Dalla fontana si procede camminando come abbiamo fatto noi
oggi, su di una guida – tappeto di “ marmo biancone rullato” al centro
dell’intero tragitto del viale sino all’inizio del sagrato. Il viale è
piastrellato con cubetti di porfido che prosegue quindi il disegno della
piazza comunale dove tutte le domeniche si svolge il mercato settimanale,
quasi a fare intendere che la vita quotidiana dell’uomo “ mercante” sfocia
necessariamente nella Vita Spirituale con Dio, dove trova la sua massima
realizzazione e pienezza. Si comprende allora come il viale, con il
relativo sagrato, aiuti a comprendere una verità essenziale: l’uomo per
accedere all’incontro col suo Dio ha bisogno di una separazione, di un
momento di distacco, di silenzio, di purificazione ( vedi fontana simbolo
dell’acqua Battesimale che segna il passaggio ad una vita nuova
spirituale).Il viale è abbellito dalla posa di nuove piante di “ Rovere” a
forma piramidale, ( per cogliere “ in Toto) la prospettiva del complesso
architettonico della facciata settecentesca della Chiesa), di aiuole, con
piante di rose bianche e rosse, di un impianto nuovo d’illuminazione (
tipico dei centri storici) Il collegamento dei fili elettrici sono
interamente interrate per non disturbare l’armonia dell’insieme. Tutto il
complesso richiama così il giardino della vita, il trionfo della luce, il
luogo della pace, che si fa lasciare i rumori e le distrazioni alle
spalle. Cosi mentre procedi nel tuo peregrinare verso il Tempio, avverti
che la vita è un cammino, una corsa verso Dio, un pellegrinaggio sereno e
gioioso verso la casa del Padre.Giunto così al sagrato antistante la
facciata della Chiesa ti vedrai accolto da uno spazio costituito da un
sottofondo di lastre di marmo “ biancone rullato” che a forma di
ventaglio, conduce pian piano all’ingresso; così capirai che il sagrato è
il luogo del silenzio e della preparazione ultima con Dio ( tutto converge
a Lui) da qui l’idea del sagrato a forma di ventaglio o conchiglia marina
che raccoglie “ in unum” i credenti per condurli all’unico Dio. Sarà
oltretutto un ingresso facilitato a tutti, specialmente ai disabili, ai
portatori di handicap, alle carrozzelle dei bambini piccoli, agli anziani
perché le barriere architettoniche cioè ( i tre scalini) sono stati
eliminati.Come abbiamo detto precedentemente il sagrato è il luogo Sacro
del silenzio e della pace, ma una volta, usciti dal Tempio, si trasforma
in luogo dell’incontro tra fedeli, il luogo dello scambio di parole, dei
saluti, il luogo privilegiato della carità fraterna e dell’accoglienza e
non dei pettegolezzi e delle vuote chiacchiere, peggio ancora delle
volgarità: tanto meno il luogo destinano a parcheggio selvaggio e sosta
dei banchi del mercato.Se vogliamo ridare al viale d’accesso della Chiesa
con annesso sagrato il suo significato originario occorre che pian piano
ci confrontiamo con questi suddetti principi che, una volta attuati,
aiuteranno ancora una volta tutti coloro che si incammineranno verso la
Chiesa e provare ancora una certa “emozione” che si potrà portare dentro
anche una volta usciti di Chiesa, dopo aver sentito le parole del
celebrante “ Ite Missa Est” ( La messa è finita andate in Pace):
ritornerai così allo spazio del mercato e della vita quotidiana donando a
loro un volto e un significato nuovi di amore, fraternità e pace. La
grande festa, è iniziata il giorno precedente sul sagrato della Chiesa,
con la rappresentazione dell’opera “ La Cavalleria rusticana”, dramma di
Giovanni Verga derivato da un’omonima novella della raccolta Vita dei
campi. Turiddu, tornato da soldato, trova la sua promessa, Lola, sposa a
compare Alfio. Si fidanza allora con Santuzza, ma intreccia nello stesso
tempo una relazione con Lola. Santuzza, per vendicarsi, svela la tresca a
compare Alfio, che uccide in duello il rivale. Al Verga s’ispirò il
libretto di Cavalleria rusticana di Menasci e Targioni Tozzetti, musicato
da Pietro Mascagni e rappresentato per la prima volta al teatro Costanzi
di Roma nel 1890. La sera del 9 settembre, proprio sul sagrato della
chiesa parrocchiale, intitolata a san Celestino I papa dal 422 al 432, la
cui immagine campeggia sulla facciata. L’esterno dell’edificio – un bel
Settecento – ha fatto da fondale alla rappresentazione della Cavalleria
rusticana. L’opera è stata proposta dall’orchestra e dal coro del Teatro “
Verdi” di Buscoldo, diretti dal maestro Daniele Anselmi. Il pubblico
composto di circa 400 persone, ha applaudito a lungo i complessi e i
solisti: Isabella Comand, Scilla Cristiano, Lee Dong Myung, Chio Jin Soo e
Silvia Paccini.La rappresentazione in Campitello, ha riscosso grandi
consensi da un pubblico eterogeneo e da veri appassionati della lirica.Il
giorno successivo, domenica 10, nel pomeriggio, un maggior numero di
partecipanti ( erano 500) ha voluto essere presente all’inaugurazione del
viale e del sagrato. Alle ore 17: 30, eravamo tutti assiepati attorno alla
piccola fontana, che delimita il viale della chiesa da Piazza Garibaldi,
ove ogni domenica si svolge il mercato. Qui è avvenuto il taglio del
nastro da parte del presidente della Provincia Maurizio Fontanili e dalle
altre autorità locali, come abbiamo indicato al principio di questo
reportage. Ha chiudere la manifestazione, ci ha pensato il meraviglioso
spettacolo pirotecnico, facendo tingere il cielo di mille luci
fantasmagoriche, tanto che ci ha fatto stare con la testa in aria per
circa 20 minuti, mentre, sul nuovo Viale della Chiesa, si è continuato a
far festa fino a notte fonda, mangiando panini col salame nostrano e
bevendo vino a volontà dei colli Morenici. Insomma, i festeggiamenti sul
sagrato della Chiesa, sono terminati in grande allegria fino a notte
fonda. Questi sono stati momenti da ricordare e che sicuramente passeranno
agli annali della storia del borgo di sapore medioevale.
Escursione nell'antica e storica città di Lindos.
Dopo qualche giorno dall'escursione nella città di Rodi, con la stessa
comitiva dei mantovani, ci siamo prenotati per l'escursione nella
cittadina storica di Lindos, che è tra le mete più frequentate dagli
escursionisti internazionali. Alle ore 8 del mattino del 25 luglio, il
grosso torpedone si è fermato nel piazzale antistante l'Hotel Pegasos e
subito dopo siamo partiti diretti a Lindos. Abbiamo attraversato un
paesaggio diverso di quello di Faliraki, un paesaggio brullo e bruciato
dal sole, e per questo reso più caratteristico per via delle basse colline
rocciose di colore ocra. L'entroterra della Costa, sebbene sia comunque
vicino al mare, appare come un mondo lontano, selvaggio e dimenticato
dall'uomo, in cui la natura ha ancora il sopravvento. La strada
provinciale che conduce ad Arcangelos, un villaggio sperduto e proprio per
questo estremamente affascinante, è un serpente d'asfalto che disegna
tante curve per poi arrampicarsi in un caratteristico paesaggio
punteggiato da bassi uliveti. Nel corso del nostro itinerario, abbiamo
incontrato inoltre asciutti torrenti e campi coltivati a oliveti bassi e
carichi di frutti, piccoli a lindi villaggi costituiti da poche case su di
una collina, dove la vita procede con molta lentezza. Di tanto in tanto,
la strada provinciale costeggiava le alture della bellissima costa, dove
potevamo ammirare piccoli scorci panoramici, con caratteristiche
insenature bagnati da un mare fantastico e metafisico. Lasciamo la costa e
la provinciale attraversa una bellissima pianura con delle colline
colorate d'azzurro. La nostra guida, che si esprimeva in un italiano quasi
perfetto, ci ha annunciato che stavamo per giungere nel borgo agricolo di
Archangelos. Attraversiamo un viale di alte piante di eucalipto, genere di
grandi piante che possono raggiungere anche i cento metri di altezza:
originarie dall'Australia, sono oggi coltivate in molte regioni, poiché da
loro si ricava un olio usato in medicina come antisettico ma quelle piante
furono messi a dimora dai coloni italiani, non per produrre l'antisettico,
ma per debellare le zanzare, perché sembra che quelle piante con il loro
profumo contribuiscono notevolmente a debellare quegli insetti che
infastidiscono altre che gli uomini anche gli animali domestici. Dopo di
aver bonificato quella grande valle brulla e bruciata dal sole, hanno
creato un vero giardino, con gli aranceti, i limoni, gli ortaggi e altre
piante da frutta. Per ottenere tutto quello, hanno dovuto perforare la
montagna, creando una lunga galleria, per mezzo della quale hanno
incanalato un fiume che ha permesso loro di coltivare tutta la zona. Lungo
quel viale, abbiamo visto alcune case coloniche ristrutturate, dove
abitarono i nostri connazionali, fino il giorno in cui lasciarono
definitivamente l'isola di Rodi, per fare ritorno in Patria.
Archagelos, sorge al centro dell'omonimo comune ed é il maggior villaggio
di Rodi, che fu costruito durante il Medioevo, lontano dalla sua
originaria posizione sulla costa, per timore delle incursioni dei pirati,
e fu dotato di una fortezza dai Cavalieri dell'Ordine di San Giovanni. La
natura è affascinante: spiagge dorate, come quella di Tsambika,
valorizzata turisticamente, all'ombra dell'impervia roccia con il
monastero della Madonna, attorniata da una grande piantagione di grigio
verde degli oliveti. Più all'interno, nella valle dove scorre il fiume
Naithonas, nascosti fra gli aranceti sono i villaggi di Malona e Massari,
dove vivevano i coloni italiani, Nella parte settentrionale del comune, la
natura rodia offre generosa le sue bellezze. Subito fuori il villaggio di
Archangelos, abbiamo effettuato una sosta, dove sorge un piccolo
laboratorio dove è plasmata l'argilla e dove i vasai della zona erano
famosi fin dal passato tanto che alcuni fonti riferiscono che mattoni di
argilla furono trasportati da qui a Costantinopoli per costruire la cupola
della chiesa di Santa Sofia. I moderni vasai di Archangelos lavorano la
terracotta con gli stessi metodi dei loro avi, realizzando vari e propri
capolavori di arte popolare. E' inoltre fiorente l'industria della
produzione di tappeti lavorati a mano.
Il viaggio prosegue in un paesaggio metafisico e lunale, brullo e bruciato
dal sole, un paesaggio di sassi e piccole colline, dove germogliano le
piccole piante d'ulivo. Per un momento ci sembrava di percorrere quel
paesaggio secco e colorato dell'interno della Tunisia, dove i raggi del
sole facevano da padrone, sgretolando i sassi facendoli diventare sabbia e
piccoli ciottoli. Di tanto in tanto la strada provinciale lasciava
l'interno con le secche fiumare e ritornava a percorrere il costone, sotto
il quale le onde del mare andavano a infrangersi contro gli scogli. La
vastità del mare e la bellezza della costa scorreva davanti ai nostri
occhi come i fotogrammi di un film e in lontananza si poteva ammirare,
quasi sfocata, la meravigliosa acropoli che troneggiava su di una
scogliera sopra il centro abitato. La cittadina sorge a trenta chilometri
circa da Faliraki, incastonata in un bellissimo golf riparato dai venti
grecali che ha le stesse caratteristiche delle nostre stupende Cinque
Terre. La storia ci racconta che gli scavi hanno portato alla luce reperti
dell'epoca Neolitica. Molti degli oggetti ritrovati appartengono all'era
del rame e a quella Micenea e comunque dal 1500 a. C. in poi. Gli antichi
Achei dopo Creta occuparono anche Rodi dando a Ialissos il nome di Achaia,
nome che mantenne per un lungo periodo. I vari ritrovamenti Micenei,
dimostrano che la civiltà Egea rimase inalterata fin dai tempi storici.
Sotto la rupe dell'Acropoli, in un costone pietroso e scosceso che scende
fino al mare, improvvisamente ci appare il villaggio bianco e lineare di
Lindos, "come pecore pascenti" di manzoniana memoria, protetto da quella
potente acropoli, che fu ammirata per la sua prosperità, la sua bellezza
ed anche la sua straordinaria posizione strategica. Chi arrivi a Lindos
dovrà ammirare da lontano il panorama offerto dal villaggio colorato di
bianco e di azzurro, come abbiamo fatto noi, anche se si ha un'immagine
altrettanto affascinante anche dal mare, se si visita la città in barca,
partendo dal porto di Mandraki a Rodi.
L'insediamento tradizionale, con le sue case bianchissime, le residenze
dei capitani, le chiese bizantine e le stradine acciottolate, si adagia ai
piedi della rocca dell'acropoli. Se si percorre il sentiero che attraversa
il villaggio: un grumo di case colorate in un dedalo di stradine
acciottolate, potrà osservare una caratteristica inaspettata. Tutte le
stradine che attraversano questo grumo di case, sono tappezzate in
permanenza da mercanzie: magliette, camicie, tovaglie, tappeti e oggetti
da regalo, e sulle piccole porte dei negozietti, stazionano in permanenza
i commercianti, che cercano di catturare i turisti che transitano per
raggiungere l'acropoli. Se non si desidera salire all'antica acropoli, che
s'innalza maestosa, circondata da potentissime mura a piedi, un passo dopo
l'altro, si può prendere in affitto un asinello in Piazza, per la modica
spesa di 5 Euro. Una volta raggiunta il vertice della rocca, ti si accorge
che a creare un ambiente magico sono i monumenti antichi, bizantini e
cavallereschi che vi si trovano, ma anche e soprattutto, la magnifica
vista sul mare e sulla sottostante cittadina. Ammirando i resti di
capitelli ammucchiati, pezzi di colonne doriche spezzate, lapidi di marmo
bianco anneriti dal tempo, che raccontano la storia dell'antica Grecia.
Vedendo i resti di quei monumenti quasi frantumati e sgretolati dal tempo
e dagli agenti atmosferici, ci inducevano a pensare con la fantasia e di
ricostruire e mettere insieme i pezzi di meravigliosi mosaici, che
descrivevano le bellezze di quel tempo lontano, ma noi non siamo
archeologi ma semplici ed appassionati di questa scienza che studia le
civiltà antiche, attraverso l'esame di monumenti e resti d'ogni genere
giunti fino a noi o portati alla luce mediante scavi, come è successo qui
nel tempio di Lindos.
Oh si, la storia! La storia è come un paesaggio attraversato in macchina o
sorvolato in aereo, come del resto è successo a noi in questo nostro
viaggio nell'isola di Rodi. E' possibile passare velocissimi, correre in
poche ore da un capo all'altro di un continente, indovinare sotto i nostri
occhi lo stivale d'Italia, la verde Valle padana, la punta della Florida,
la massa ostile e superba del deserto del Sahara, delle Alpi, dell'Himalaya
o l'isola di Rodi. E' possibile anche fermarsi ad ogni passo, prendere dei
sentieri che si aprono sulla nostra destra e alla nostra sinistra,
bighellonare nei campi, nei prati, nei boschi, sulla spiaggia o
sull'Acropoli di Lindos, o magari nella città di Rodi. C'è continuità dal
quadrifoglio che attira il nostro sguardo in mezzo all'erba, dalla tavola
della cucina in cui consumiamo i nostri pasti fino al pianeta e oltre.
Possiamo adottare l'andatura che più ci piace, possiamo insediarci ad ogni
piano dell'edificio dello spazio e del tempo. Possiamo vedere sfilare
molto velocemente gli avvenimenti e gli uomini, i paesaggi, i secoli e gli
oceani. Possiamo anche scendere ai dettagli più minuscoli, alle pieghe più
segrete e meglio dissimulate delle valli e dei cuori. E' tutta una
questione di scale. Certe volte mi sembra addirittura che questa nozione
di soglia o di scale sia uno dei nodi nascosti della metafisica.
Se siete un poco stanco del nostro procedere, volete che andiamo un po'
più in fretta, che saltiamo a piè pari paesi, villaggi, secoli e millenni?
Eccoti catapultati nel tempo e nello spazio con la millenaria storia
dell'Acropoli di Lindos, che sorge appunto in cima al precipizio
spaventoso a 125 metri sopra il villaggio, l'acropoli è dominata dal
Tempio di Atene di Lindos datato IV secolo a. C: le colonne ancora
esistenti si stagliano all'orizzonte. Il tempio era tra i luoghi più sacri
dell'antichità, frequentato da Alessandro il Grande e forse da Elena di
Troia ed Eracle. Nel 1200, i Cavalieri Ospedalieri di San Giovanni
fortificarono la cittadella con bastioni più elevati delle mura
originarie. In questa nostra escursione, oltre ad aver scoperto
un'acropoli fortificata, abbiamo visto che nei dintorni della minuscola
spiaggia di Pallas, oggi molto in voga, è collegata al lido principale di
Lindos da un passaggio pedonale. I turisti s'incamminano verso il
promontorio, verso la più esclusiva Baia di San Paolo, dove l'apostolo
giunse nel 43 d.C. introducendosi a Rodi il cristianesimo. Una cala
paradisiaca, vanta acque turchesi e una cappella intitolata a San Paolo,
festeggiato il 28 giugno. Anche se denominato la Tomba di Kleobuulos, il
monumento di pietra sull'altura a nord delle spiagge principali della baia
di Lindos non ha nulla a che fare con l'illustre tiranno di Rodi. Il
mausoleo rotondo fatto di enormi blocchi di pietra risale, probabilmente,
al primo secolo a, C: circa parecchi centinaia di anni dopo la sua
scomparsa. Agli albori del cristianesimo, la tomba fu convertita nella
chiesa di Agios Aimilianos, benché chi fosse sepolto qui in origine resta
un mistero.
Girovagando per questi luoghi storici, non possiamo fare a meno che
soffermarci a parlare della storia antica della grande Grecia, dove sono
nati i più grandi filosofi del mondo allora conosciuti. La storia ci
racconta che i Dori con l'occupazione della Grecia, invasero Rodi
suddividendola in tre dipartimenti amministrativi con Ialissos, Lindos e
Camiros capoluoghi. Queste tre città insieme a Coo, Kindos ed Alikarnassos
formarono una federazione (Exapolis - sei città) per difendersi dagli
abitanti dell'Asia Minore. La prima parte della storia di queste città,
presenta un'intensa attività commerciale ed una sostenuta espansione come
è stato appurato dai ricchi ritrovamenti delle tombe di Camiros.
Nel 412 a.C. i Rodensi, approfittando della debolezza che attraversava la
Polis Ateniense, si rivoltarono formando nell'isola il loro quartier
generale per le operazioni della loro flotta, richiamando dall'esilio
Doriea, figlio di Diagora ed amico degli Spartani. Quattro anni più tardi,
gli abitanti delle tre grandi città, decisero di fondare una nuova grande
città, scegliendo per questo scopo una magnifica località nell'estremità
nordoccidentale che chiamarono Rodi, costruita sui piani elaborati
dall'architetto Milesio Ippodamo. Il suo sviluppo fu rapidissimo e presto
assunse un'importanza notevole attraendo e controllando gran parte del
commercio di questa parte dell'Egeo. E' talmente forte e prosperosa che da
allora la sua storia s'identifica isolata governata dal suo Parlamento e
dall'Ecclesia, ma per i problemi interni rimase sotto il controllo
Parlamentare delle tre città che la fondarono.
Da sempre gli abitanti dimostrarono un grande amore per le lettere e le
arti. Famosi poeti e scultori raggiunsero l'isola all'apice della loro
creatività, come Fidia, scultore ateniese e importante esponente dello
stile classico, lo scultore Policleto, Pissandro da Camires, Aristomene,
Evagora, Apollonio di Rodi, Kleovulos da Lindo che fu uno dei sette saggi
dell'Antica Grecia e tanti altri. Lo sviluppo della scultura a Rodi risale
alla metà del IV secolo a. C, e tra i più noti scultori spicca Chares da
Lindo, autore del famoso Colosso di Rodi e di Ilio Sole.
Sembra che i famosi bronzi di Riace del (VI e V secolo a. C), conservate
nel Museo nazionale della Magna Grecia, di Reggio Calabria, tra i suoi
tesori principali sono appunto i bronzi greci, le due grandi statue di
guerrieri recuperate in mare al largo di Riace marina nel 1972, da cui
prendono nome. La statua A (460 a.C.) si ritiene sia opera di Fidia
scultore ateniese e importante esponente dello stile classico. Si
tratterebbe quindi di un esemplare raro, poiché le opere di questo
artista, assai ammirate dagli scrittori antichi, erano finora giunti a noi
esclusivamente sotto forma di copie romane. La B (430 a.C.) è stata
attribuita allo scultore Policleto. Probabilmente in origine si trovavano
entrambe nel tempio di Delfi, monumento ateniese alla vittoria di
Maratona. Molti anni fa, in una gita nei luoghi della memoria della My Old
Calabria, con Adriana mia moglie e la principessa Tiziana, abbiamo
soggiornato a Reggio Calabria, e nel visitare i monumenti della città, ci
siamo soffermati a lungo nel Museo nazionale della Magna Grecia, e fra
l'altro, abbiamo potuto ammirare per la prima volta da vicino i famosi
bronzi di Riace.
Dopo un'intera giornata trascorsa a Lindos, tra colonne, bassorilievi e
capitelli, che testimoniano il lungo potere e la ricchezza dell'Acropoli,
su quella sommità, con l'azzurro del cielo come sfondo, dove si trovano i
resti del tempio di Athena Lidia, da dove l'occhio spazia da quel luogo
incantato e che guarda sul mare azzurro. A sera quando abbiamo fatto
ritorno nel villaggio di Faleraki, il sole stava per tramontare su quel
mare turchese e bellissimo, mentre dalle colline spirava un venticello
ristoratore, mentre dentro di noi, come fotogrammi di un film,
continuavano a scorrere quelle visioni storiche e quei villaggi dipinti di
bianco e d'azzurro. Eravamo tutti felici di aver trascorso una bella
giornata tra passato e presente, tra la storia e la realtà di tutti i
giorni. A tutte queste scene del passato che si animavano per noi che ci
trovavo sulla rocca dell'acropoli, che andavamo cercando l'angolazione
giusta per fotografare la bellezza del colonnato che fu costruito in epoca
ellenica, intorno al 200 a.C.i monumenti antichi, bizantini e
cavallereschi che vi si trovano sulla rocca, ma anche e soprattutto la
magnifica vista sul mare e sulla cittadina sottostante che ancora oggi
sono lì a testimoniare e a sfidare le intemperie e la storia. Non credevo
affatto che il passato bastassi per comprendere il futuro. Arrivo fino a
pensare la tanta diffusa convinzione che lo illumini e lo spieghi non
significa gran che. Quel che è vero fino all'evidenza è che il passato
costruisce il basamento su cui s'innalza il presente, che esso accumula le
condizioni di ogni storia passata, presente e futura. La vita ha questo di
caratteristico, che viene fuori spontaneamente. E' sempre l'inatteso ad
avere le maggiori probabilità di sopravvenire. Ma anzitutto deve partire
dall'esistente. E ciò che non ci si aspetta deve venire fuori di ciò che
si conosce. La storia, l'arte, la filosofia e la letteratura, sono la
costruzione della vita. Il passato è ciò che impedisce che l'avvenire sia
una cosa qualsiasi.
Alcuni giorni dopo questa bellissima esperienza escursionistica
nell'antica e storica Città di Lindos, si è concluso il nostro soggiorno
nell'isola incantata di Rodi. E' stato tutto bello, secondo le nostre
aspettative, con un mare splendido e un clima vivibile, fresco e
ventilato. A contribuire a tutto questo vi è stata la cordialità degli
abitanti e soprattutto del personale dell'Hotel Pegassos, però, dobbiamo
sottolineare che ci è mancato moltissimo il nettare degli dei dell'era
moderna: il caffè, quella bevanda aromatica, di sapore amaro di cui noi
italiani non possiamo fare a meno specialmente dopo il pranzo e nei
momenti di pausa durante la giornata. All'interno dell'Hotel Pegasos, nel
bar del gazebo con vista panoramica sul mare, a prepararci un buon caffè
dopo il pranzo, ci pensava l'amico "Kirios", che tradotto nella nostra
lingua voleva dire signore, l'amico Basilio, un simpatico barman dai modi
cortesi e molto gentili che si esprimeva molto bene nella nostra lingua,
ma fuori del Pegasos, il caffè era imbevibile. Nella vita non si può avere
tutto secondo i nostri gusti e bisogna anche sapersi accontentare.
" C'è un vecchio manifesto pubblicitario conservato come un cimelio al
London Museum che esalta inequivocabilmente le qualità nobili e curative
del caffè: Ravviva lo spirito e alleggerisce il cuore".
Dato che abbiamo accennato al caffè, ci vogliamo soffermare e ad indicare
qui di seguito tutti i segreti di questa nobile bevanda aromatica che
tanto piace a noi italiani: il "Caffè". Sono davvero pochi, quei
coraggiosi che vanno fieri della loro candida scelta di vita al grido "
non bevo caffè". La bevanda nera, dell'Oriente all'Occidente, è la
compagna fedele delle nostre giornate da mattina a sera: da soli, o in
compagnia, è sempre un piacere irrinunciabile.
La storia ci racconta che dallo sbarco dei marinai sulle coste di Moka
nello Yemen, alle leggende su Maometto, è indubbio che il caffè abbia
origini orientali. Le prime storie narrano di un monaco dello Yemen che
usava le bacche di gahwah per restare sveglio più a lungo e pregare di
più, dopo aver saputo da un pastore che queste bacche avevano effetti
miracolosi sulle sue pecore e cammelli.
Le tradizioni religiose raccontano che fu addirittura l'Arcangelo
Gabriele, per volere di Allah, a porgere la bevanda nera ( non a caso
dello stesso colore della pietra della Mecca) a Maometto per dargli forza
ed energia nelle sue battaglie.
E, ancora i racconti tradizionali perlano di un leggendario viaggio verso
la città di Moka, in cui lo sceicco Ali Ben Omar, giunto a destinazione,
scoprì la pianta del caffè e le sue proprietà energetiche.
Basti pensare che fino a 200 anni fa, la maggior parte del caffè che si
consumava in Europa, proveniva proprio da questa città: la parola " moka"
è ancora oggi usata per indicare il caffè. Sempre legata alla città di
Moka, la tradizione narra che lo stesso sceicco usava offrire la bevanda
ai marinai portoghesi di passaggio e quindi il caffè arrivò in Europa
attraverso il Portogallo.
Storicamente, sembra più attendibile la tesi secondo cui il caffè sia
entrato in Europa attraverso le porte di Vienna, poiché l'impero ottomano
si estendeva fino alla frontiera della capitale austriaca.
Leggende a parte, sembra che la scoperta del caffè risalga al XIV -XV
secolo in Oriente e sola da un paio di secoli, questa tradizione sia stata
diffusa in Europa e in Italia, in un primo momento a Venezia. Le prime
"botteghe del caffè" a Vienna divennero subito luogo di incontro per i
nobili e gli intellettuali dell'epoca, e, pian piano, proliferarono in
tutta l'Europa.
Con il tempo si esaltarono addirittura le qualità nobili e curative della
bevanda, tanto che un vecchio manifesto pubblicitario, oggi esposto a
London Museum, recitava a proposito del caffè: " Ravviva lo spirito e
alleggerisce il cuore…"; Bach gli dedicò addirittura la " Cantata del
caffè, mentre Luigi XIV, il Re Sole, lo amava particolarmente e usava
prepararlo personalmente anche per offrirlo ai suoi ospiti. Napoleone ne
consumava grandi quantità per essere sempre sveglio ed energico durante le
sue battaglie. A proposito di battaglie, sembra che il cuoco personale di
Napoleone, il mattino che precedette la grande battaglia di Waterloo (18
giugno (1815), nel preparare il caffè alla turca in un paiolo da campo,
per gli ufficiali dello stato maggiore, che erano a rapporto da Napoleone,
lo fece molto lungo e per ovviare all'imprevisto, lo addizionò con alcune
bottiglie di Cognac. Nacque così il caffè corretto.
L'aneddoto più curioso ci arriva invece dalla Svezia del XVIII secolo: nel
tentativo di determinare quale fosse la bevanda più nobile tra il the e il
caffè, fu ordinato che due gemelli condannati a morte bevessero
rispettivamente solo the e solo caffè, in modo da verificare chi sarebbe
vissuto più a lungo. Paradossalmente, i giudici della singolare gara e il
re che aveva ordinato l'esperimento, morirono prima dei condannati, i
quali arrivarono rispettivamente alla veneranda età di 83 anni bevendo
soltanto the, e oltre 100 anni bevendo caffè.
Per concludere in bellezza il nostro viaggio di ritorno da Rodi a Orio al
Serio, ci ha pensato un grosso temporale che stava imperversando sulla
Città di Pescara e si stendeva fino al Golfo di Napoli, mentre
l'aeromobile volava a 12 mila metri di quota e mentre l'hostess ci stava
servendo il caffè caldo, il comandate dell'aereo ci comunicava tutto
questo, dicendoci: " Adesso spegniamo le luci di bordo, così dagli oblò,
potete ammirare lo spettacolo più bello del mondo, che si sta svolgendo
sotto di noi. Infatti, oltre che ammirare un cielo meraviglioso, dove
splendevano una miriade di stelle, oltre tre mila metri sotto di noi,
abbiamo assistito ad uno spettacolo pirotecnico senza precedenti, prodotto
appunto dalla natura. Nuvole bianche e colorate si alternavano in un
caleidoscopio di luci e di colori e in contemporanea si formavano figure e
immagine diverse, creando uno spettacolo senza pari. Quello era un
paesaggio astratto e metafisico e quindi fuori della realtà e della
immaginazione umana che sfiorava la fantasia. Ecco perché era bello,
perché nessuno di noi che stavamo viaggiando a quell'altezza, non aveva
mai osservato e visto uno spettacolo paradisiaco così bello offertaci
dalla madre natura.
L'Apocalisse: La resa dei conti tra cielo e terra.
Per chi viveva sulle sponde del Mediterraneo nel I secolo dopo Cristo - ad
Alessandria, Efeso, Atene: pagani, ebrei, cristiani - dire o scrivere che
una stella fosse un angelo un'allegoria: era, insieme, una verità
religiosa e un'ipotesi scientifica largamente condivisa. I profani
pensavano che le stelle, fisse o vaganti, fossero entità spirituali. Gli
ebrei e i cristiani che furono angeli ribelli a Dio, condannati da Dio.
Gelosi dell'uomo ( come i Giganti della Cnosi), illudendolo con miracoli
falsi, i ribelli tramavano incessantemente la sua rovina. La loro
influenza era limitata da Dio - che di tutto possedeva le chiavi: del
cielo e dell'abisso - ma poteva produrre catastrofi nel cosmo: grandine,
tuoni, grandi sismi. Nell'anima dell'uomo suscitava il male: la perfidia
velenosa del potere, la perdizione dei sensi, l'idolatria.
Per rimanere tra cielo e terra, lasciamo il racconto biblico
dell'apocalisse di Giovanni e veniamo al grosso temporale che stava
imperversando sotto i nostri piedi, che stavamo volando a 12 mila metri di
quota, nel viaggio di ritorno dall'isola di Rodi verso Orio al Serio. In
quel momento un grosso temporale che stava imperversando sulla Città di
Pescara e si stendeva fino al Golfo di Napoli, mentre volava a 12 mila
metri di quota e la simpatica hostess ci stava servendo il caffè caldo, il
comandate dell'aereo ci comunicava tutto questo, dicendoci: " Adesso
spegniamo le luci di bordo, così dagli oblò, potete ammirare lo spettacolo
più bello del mondo, che si sta svolgendo sotto di noi, infatti, oltre che
ammirare un cielo meraviglioso, dove splendevano una miriade di stelle,
oltre tre mila metri sotto di noi, abbiamo assistito ad uno spettacolo
pirotecnico senza precedenti, prodotto appunto dalla natura. Nuvole
bianche e colorate si alternavano in un caleidoscopio di luci e di colori
e in contemporanea si formavano figure e immagine diverse, creando uno
spettacolo senza pari. Quello era un paesaggio astratto e metafisico e
quindi fuori della realtà e della immaginazione umana che sfiorava la
fantasia. Ecco perché era bello, perché nessuno di noi che stavamo
viaggiando a quell'altezza, non aveva mai osservato o visto uno spettacolo
così bello offertaci dalla madre natura. Per un momento mi è sembrato di
ammirare l'incisione di Gustave Doré nel Giudizio finale o il diluvio
universale di Michelangelo Buonarroti, che alcuni anni fa avevamo ammirato
nella Cappella Sistina.
Nelle ore antilucane,quando siamo sbarcati all'aeroporto di Orio al Serio,
abbiamo assaporato la brezza del mattino di casa nostra e tutto ci è
sembrato come un sogno. Il poeta così immortala questo momento catartico
di vita fuggente:
"Bacio con la brezza
del mattino,
il sorriso di un bambino,
con le gote rosse
e gli occhi del mare,
freschi pensieri,
una carezza
e l'attesa che germogli
il senso della vita.
Escursione lungo il fiume Mincio.
Domenica
Giove Pluvio, anche oggi, non ha avuto neppure la minima compassione di
noi poveri escursionisti Campitellesi, con capo il presidente dell'Ente
Valle, Salardi dott.Franco, promotore dell'escursione mandando dal cielo,
dove stava presidiando il concilio degli dei, la pioggia scrosciante sulle
nostre teste canute e le membra stanche. Pioggia e non pioggia, il
catamarano "Virgilio", l'ora stabilita ha lasciato la panchina, che sorge
sulla riva del Lago inferiore di Mantova, proprio di fronte al
meraviglioso Castello dei signori Gonzaga, la cui progettazione si deve al
maestro lombardo, Bartolino da Novara, nel 1386, (come pure quello del
Castello Estense ( 1385) lato destro del Ponte di San Giorgio. Prima
d'iniziare la navigazione vera e propria sul Fiume Mincio, il Capitano del
battello, ha voluto attraversare il Ponte di San Giorgio, facendoci
osservare dal Lago di mezzo, la prospettiva della città di Mantova, con le
sue torri, i campanili e la cupola di San Lorenzo.
Solo chi entra in città da oriente o da settentrione per le porte di San
Giorgio attraversa il lungo terrapieno, sigillo tombale d'antico ponte
medioevale ivi sotto da non molto sepolto, o di Mulina percorrendo il
caratteristico ponte impostato su di una diga millenaria, sol chi entra in
città da queste due direzioni proveniente dal Veneto o da Brescia, ha
l'esatta sensazione di Mantova. Stando in piedi sulla tolda del battello,
si ammira un profilo basso, allungato, solo segnato dall'elevarsi d'alcune
torri che si rinserrano quasi a protezione dell'alta cupola centrale che
tutto domina; non colori vivaci colpiscono la nostra debole vista: un
sottile velo di vapore ricopre tutto il panorama ed attenua e smorza ogni
vivacità di tinta; il grigio domina su tutto, ma un grigio fatto di
chiarezza, di trasparenza; la diresti una città d'argento, ma a
contribuire a tutto questo ci ha pensato Giove Pluvio, con la sottile
pioggerellina che cadeva lentamente sulla superficie del Lago, sulla città
e sugli argini che circondano i tre Laghi. Un profilo basso, allungato,
appoggiato su di un tappeto di tenere canne il cui verde subito sfuma in
giallo mollemente aurato, tappeto verde e filari di pioppi cui fan corona
l'acque del Mincio che talvolta nel colore si rammentano d'essere state
Garda, ma che più spesso hanno la notevole luce dell'acciaio. Visione
eminentemente virgiliana; e se volgi lo sguardo a mezzogiorno, e di là
vedi alzarsi timidi svettanti per l'aria i vecchi pioppi del lucus
Virgilianuus creatovi nel bimillenario di sua nascita, vai ripensando i
versi del poeta:
"….primus Idumeas referam tibi, Manta, palmas
Et viridi in campo templum de marmore ponom
Propter aquam, tardis ingens ubi flexibus errat
Mincius, et tenera praetexit harundine ripas"
La storia ci dice che quel tempio ch'egli aveva sognato per Augusto, fu
invece eretto alla sua memoria; un tempio silvano le cui colonne son gli
alti fusti dei pioppi e volte la verde ramaglia. Modo più degno non poteva
trovar Mantova per ricordare il suo Vate. E se non poche sono le
attestazioni d'affetto tributatagli dai suoi concittadini, dai busti
romani ai simulacri del medioevo, al monumento a Feltrami, pur tuttavia
un'ultima prova vollero dargliela consacrandogli questo bosco che in sé
racchiude lo spirito virgiliano di questa industre popolazione che dai
campi trae la ragione di vita.
Mantova è stata definita città di sogno e di leggenda; anche la sua
origine è avvolta nei misteriosi veli della leggenda, e se pur ebbe tempi
di splendore, conobbe anche ore di profonda miseria; ma pur nella sventura
mai non venne meno quella georgica serenità di spirito che fece sbocciare
dal suo seno dolci poeti, da Virgilio giù giù fino ai più scuri tempi del
medioevo. E proprio Mantova, prima ancora che alla corte di Federico, si
va poetando d'amore in quella lingua che non è più latino e presto sarà il
bellissimo idioma italico.
Mentre il catamarano è ritornato sui suoi passi e stava attraversando il
Lago inferiore per poi navigare al centro del Fiume Mincio, ci voltiamo in
dietro e ammiriamo la città bellissima di Mantova, che come gran dama
decaduta, conserva ancora le sue bellezze di cento e cento anni or sono;
l'ossatura della città è ancor quella che vollero creata i suoi magnifici
signori. Rivediamo per l'ennesima volta Chiese romaniche,alte torri che
bucano il cielo, palazzi cinquecenteschi, sontuose dimore barocche che la
inanellano: nomi di artisti calibri si alternano nella nostra mente con
nomi di patrizi fastosi. Questi signori che amavano circondarsi dei geni
più eletti ( Guido ospitò il Tetrarca; Gian Francesco accolse il Pisanello;
Mantenga più che padovano può dirsi mantovano per il lungo soggiorno fatto
alla corte dei Gonzaga; Alberti fu intimo di Lodovico; famose sono le
relazioni di Isabella con tutti i più grandi artisti del suo tempo;
Federico chiamò Giulio Romano; il Rubens fu il consigliere di Vincenzo, e
questo sol per dir dei maggiori), questi signori con il volger dei secoli
seppero crearsi una regia a null'altra seconda in Italia, se si eccettua
la dimora vaticana. La barca lentamente scivola sulla superficie del lento
Fiume e a questo punto è stata sufficiente un'ansa del Fiume, per fare
sparire la visione della Reggia dei Gonzaga, fastosa dimora dei più
fastosi principi, dedalo intrico di costruzioni sorte in quattro secoli,
palestra di tutti gli artisti convenuti a Mantova nelle più varie epoche,
fulcro intorno a cui gravitarono le cupide brame di soldatesche
predatrici, asilo e rifugio del Tasso cacciato da Ferrara, ultima tappa
del calvario dei Martiri di Belfiore innanzi di salir la passione costante
e tenace d'è suoi custodi, chi non vorrà scendere a' tuoi cancelli per
visitarti? E chi non vorrà far quattro passi fuor della Pustella per
soffermarsi a quella villa in mezzo al folto di secolari platani dallo
strano nome del Te, villa che fu casino di piaceri principeschi dopo che
fu resa splendida dal genio pagano di Giulio Romano?
Viaggiando lungo il fiume e sul fiume Mincio, di uomini se ne incontrano
sempre parecchi. Ma si tratta, in genere, di persone che con il fiume non
hanno molto da spartire. Sono ben pochi, quelli nati sulle sue sponde:
anche fra loro, quasi nessuno v'e l'ha più nel sangue, sia il fiume Olio
come pure il Po. Come si faccia a essere innamorati di un fiume così, a
sentirselo scorrere nelle vene, e poi, è una osa difficile da capire.
Siamo troppo abituati a seguire i richiami di una vita convulsa e diverso
senso, per poter amare la quiete semplice del fiume, amari magari anche i
suoi lati negativi, le zanzare che si levano dagli stagni, le nebbie
persistenti e le piogge d'autunno, il limo vischioso lasciato dalle piene.
Anche i figli degli ultimi fumarli la pensano così, in gran parte; e
lavorano magari in una fabbrica o in uno stabilimento del Petrolchimico
della città di Mantova, che abbiamo appena lasciato alle nostre spalle, o
fanno i camerieri a Milano.
Mentre stavamo navigando nel cuore del parco del Mincio, il parco più
bello del mondo, le due hostess del catamarano, si succedevano nel
raccontarci la storia di Mantova e nell'illustrarci le bellezze del Parco,
mentre una miriade di uccelli rari volavano da una pianta all'altra liberi
e felici di vivere nel loro ambiente naturale. Sulla riva del fiume, di
tanto in tanto, si vedevano i pescatori della domenica che attendevano che
il pesce abboccasse. Guardando a destra e a manca, ovunque fosse bellezza
di fertili campi ben ravviati al par di giardini e subito si scorge come
l'agricoltura sia la principale fonte del benessere; ma qua e l'è sono
sparse anche l'opera dell'umano ingegno, e su questo ci soffermeremo in
breve. Mentre la pioggia continuava a scendere con una certa intensità,
eccoci giunti a Governalo con le secentesche chiuse del Mincio; ecco
l'industriale Ostiglia, che fu patria di Cornelio Nipote. Siamo nell'oltre
Po; nei domini della contessa Matilde. E di lei scorgiamo subito i due
segni caratteristici: l'amore alla sua terra che volle ridenta
dall'invadenza delle acque e dalla sterilità dello sterpeto, e la sua
grande pietà edificatrice dei templi
Superiamo Governalo con la sua chiusa, e raggiungiamo la grande foce dove
il Mincio diventa Po. Guardando quell'acqua limacciosa che scorreva pigra
e fiaccata, tanto che sembra di aver perso le sue forze. Quello è il luogo
dell'incontro di due fiumi, é il luogo dove il cielo si fonde con il fiume
ed il fiume si fonde con il cielo, ma soprattutto ti dà la sensazione di
ammirare un paesaggio astratto e metafisico
A questo punto, il capitano dell'imbarcazione ci comunica che non è più
possibile proseguire la navigazione lungo il fiume Po, poiché a causa
delle continue piogge, il fiume ha raggiunto quattro metri d'altezza e
quindi era pericoloso proseguire fino a Ferrara, a causa anche del
galleggiamento in superficie di tronchi e alberi. Il catamarano, ha
effettuato un largo giro nel centro della foce del grande fiume Po ed ha
invertito la rotta, facendo ritorno nel piccolo porticciolo di Governalo,
dove sull'argine il nostro pullman era nell'attesa, per proseguire il
nostro viaggio fino alla città di Ferrara. Peccato di questa interruzione
fuori programma, ma è stato necessario questo cambiamento di rotta, per
garantire l'incolumità di noi turisti e del natante. Possiamo essere
altresì contenti, perché non è stato tutto perduto. Abbiamo navigato nelle
acque del vecchio fiume Mincio, in quello che nel medioevo era stato
definito l'autostrada fluviale che collegava Mantova a Ferrara. Siamo
transitati in mezzo a quel meraviglioso parco, in quell'incantevole luogo
dove regna il silenzio, la bellezza, la fauna, la flora e la poesia dove
il paesaggio si fa aperto e desolato, gli alberi cedono a un'immensa
campagna piatta, emergono dopo l'argine le cuspidi dei campanili, le
facciate delle chiese, le case e le corte sparse di mattoni rossi lungo il
fiume, i piccoli orti, i cortili con il forno a legna ed i filari di viti
carichi d'uva pronta per essere vendemmiata, mentre i pescatori continuano
pazientemente a pescare quel pesce che non abbocca mai.
Mano mano che ci si avvicina al delta, aumentano i luoghi degni di una
visita più approfondita, e magari di una visita non affrettata, ma
attenta: di conseguenza, aumenta anche il tempo che bisognerebbe dedicare
all'itinerario, possibilmente in una giornata splendida di sole e non come
quella di oggi, sotto un cielo plumbeo, grigio e piovoso. Magari solo a
Mantova e dintorni, infatti, anche a prescindere dai valori architettonici
e storici che in apertura abbiamo citato della città - che sono molti- la
bellezza dei famosi laghi, che questa mattina abbiamo ammirato nella loro
stupenda bellezza, il corso e la foce del Mincio, già da soli giustificano
abbondantemente una giornata di vagabondaggi per la pianura.
Arrivando poi fino ad Ostiglia, un appassionato naturalista non può
lasciarsi sfuggire all'occasione di visitare, finché resiste, quell'ultimo
splendido frammento delle antiche foreste padane, che è costituito
dall'isola Boschina. Si, è vero, occorre la barca, naturalmente, ma può
essere noleggiata sul luogo. Un lungo ponte collega Ostiglia con Revere,
sulla sponda opposta, antichissima cittadina che risale all'epoca etrusca,
e che nel suo pregevole palazzo ducale ospita il Museo del Po.
Da Ostiglia si può ritornare verso Mantova in sponda destra, per Pieve di
Coriano, Quincetole, San Benedetto Po. Oppure, per la splendida vista sul
fiume e sui terreni golenali, di percorrere verso valle l'argine sinistro
del Po, che venendo da Ostiglia si può imboccare prima di Melara,
continuare di qui fino a Bergantino e Castelmassa, spingendosi magari fino
allo storico paese di Ficarolo, dove avvenne una delle più tremende rotte
del Po. In quell'ultima escursione, che abbiamo effettuato molti anni fa,
ci è rimasto impresso il grande campanile di Ficarolo che domina fin da
lontano la campagna, con la sua caratteristica siluette inclinata come la
torre pendente di Pisa.
Sono passati i tempi del mulino del Po, sono praticamente scomparsi i
traghetti con la fune tesa da una sponda all'altra, anche gli ultimi ponti
di barche sono ormai rimpiazzati da alti ponti di cemento armato con le
loro campate proiettate a sfuggire al fiume, come per paura di bagnarsi i
piloni. Così accade, invece, che due o più persone come noi vadano in
cerca proprio di un ponte di barche, col lanternino, e dopo di averne
trovato uno. Senza fare tanta strada, ne troviamo uno proprio a due passi
da Capitello, dietro casa nostra, sul fiume Oglio e allora, siamo tutti
felici come bambini sulle giostre. Poco tempo fa, le autorità locali e
provinciali, hanno minacciato di fare sparire anche questo, come è
successo con gli altri ponti e i mulini del Po.
VERSO LA CITTA' DI FERRARA.
Lasciamo le rimembranze e ritorniamo al nostro viaggio verso la bellissima
città di Ferrara. Il nostro torpedone procedeva a velocità di crociera,
accompagnato da una pioggia continua e scrosciante. Le campagne della
grande pianura ferrarese zuppe di pioggia, all'orizzonte lunghi filari di
frutteti e pioppeti che facevano da cornice ai lindi villaggi immersi e
sperduti nell'immensa pianura, che sfilavano davanti ai nostri occhi come
fotogrammi di una pellicola cinematografica in bianco e nero o sbiadita
dal tempo. Nel cielo dominava il grigio e annullava le sue bellezze
coloristiche di quest'estate che sembrava terminata. Ma quella è stata
solo una pausa metereologica, che ha impedito a milioni di viaggiatori di
godere della pausa festiva. Dalle insegne stradali abbiamo compreso di
essere giunti nella città di Ferrara. Girando a destra e a manca,
finalmente, abbiamo imboccato la via giusta per raggiungere il Ristorante,
dove eravamo attesi per il pranzo. Il Ristorante Pizzeria, denominato "
L'Archibugio", era ubicato nella periferia della città e precisamente in
Via Darsena, al numero 24/26.
Dopo gira e volta, finalmente il grosso torpedone, si è fermato davanti al
locale e sotto la pioggia battente, abbiamo raggiunto l'interno del
Ristorante, che era affollato da un esercito di ex bersaglieri, che
proprio quel giorno, festeggiavano il loro raduno interprovinciale. In
merito a tutto ciò, il nostro gruppo è stato diviso in due tronconi: metà
degli escursionisti abbiamo preso posto all'interno del locale, mentre il
rimanente è stato sistemato sotto un grande tendone, sistemato
nell'interno del cortile. In un'escursione che si rispetti, non c'é
momento più bello, che quello della sosta per il pranzo. La filosofia
significa amicizia, socializzazione e soprattutto sviluppare rapporti
interpersonali in modo costruttivo con gli altri, e dove meglio del
ristorante "l'Archibigio di Ferrara, poteva ospitare tante persone
gioiose, tante persone in festa, seduti all'interno e all'esterno del
locale, anche se all'esterno continuava a piovere, ma dentro di ognuno di
noi, sono sicuro che nasca qualche cosa di diverso, era nata e consolidata
la vecchia amicizia. "Un bicchiere dopo l'altro per festeggiare", come
diceva sempre il grande scrittore e carissimo amico Mario Soldati, è
quello che ci vuole, come del resto è successo a noi in quell'affollato,
ma ordinato e funzionale locale di periferia.
Dopo la pausa pranzo, abbiamo raggiunto il centro storico della città
degli Estensi, e proprio di fronte al suggestivo medioevale Castello
Estense, vi era nella attesa la nostra simpatica guida locale, signorina
Cinzia Soffritti, che ci ha dato il benvenuto sotto un diluvio di pioggia
scrosciante. Un vecchio proverbio dice: "Sposa bagnata sposa fortunata",
nel nostro caso, squadra bagnata, squadra incavolata.
Nel nostro giro escursionistico, attraversando bellissime Piazze, carruggi
e viali, abbiamo potuto constatare che la dinastia d'Este ha lasciato
un'impronta indelebile sulla città, che con le sue fortificazioni è una
delle più belle della regione. La famiglia prese il potere della città nel
tardo XII secolo con Nicolò II e lo mantenne fino al 1598, quando fu
costretta dal Papato a trasferirsi a Modena. Come abbiamo accennato sopra,
per primo abbiamo visitato il suggestivo medioevale Castello. Al maestro
lombardo, Bartolino da Novara, si deve il progetto del Castello Estense (
1385), nel cui interno sono notevoli la sala dei giochi e la cappella di
Renata di Francia. Allo stesso progettista, l'anno successivo, gli è stato
dato l'incarico di costruire il Castello di Mantova, che differenzia da
quello di Ferrara, per le tre torri che culminano il Castello, che fu
residenza della signoria, iniziata nel 1385, con i suoi fossati, le torri
e le merlature incombe sul centro della città, Ferrante Giulio d'Este
furono incarcerati nelle sue segrete, accusati di aver tramato per
spodestare Alfonso I d'Este, Parisina d'Este, moglie di Nicolò III, fu
giustiziata qui, colpevole di adulterio con Ugo, il suo figliastro.
La storia ci racconta che nel medioevo, culmine dello splendore della
signoria, la corte degli Este era tra le più importanti d'Europa e il
signore era insieme despota sanguinario e illuminato mecenate
rinascimentale. Nicolò III, per esempio, fece uccidere brutalmente sua
moglie e l'amante. Alfonso I (1503-34) sposò Lucrezia Borgia, discendente
di una nota dinastia italiana; Ercole I ( 1407- 1505) tentò di avvelenare
il nipote che aveva cercato di usurpare il trono ( e alla fine lo
giustiziò). Ma allo stesso tempo la corte degli Este, come fecero i
signori Gonzaga di Mantova, attirò scrittori come Tetrarca, Tasso e
Ariosto e pittori come Mantenga, Tiziano e Bellini. Ercole I inoltre,
ricostruì Ferrara, facendone una delle città più belle del rinascimento.
A bordo del nostro torpedone, la signorina Cinzia Soffritti, ci ha fatto
conoscere i palazzi rinascimentali, il Palazzo dei Diamanti, che prende il
nome dal rivestimento bugnato a punta di diamante della facciata che oggi
occupa una galleria d'arte moderna, il museo del risorgimento e la
Pinacoteca Nazionale, che contiene opere degli esponenti principali del
rinascimento delle scuole di Ferrara e Bologna. In passato, pochi anni or
sono, siamo stati al Palazzo dei Diamanti, per visitare la mostra degli
impressionisti francesi e successivamente la Pinacoteca Nazionale ed il
Museo del risorgimento. In altra occasione, abbiamo avuto modo di visitare
il Palazzo Schifanoia, che fu il ritiro estivo della famiglia d'Este,
iniziato nel 1385, è famoso per il suo Salone dei Mesi, le cui pareti sono
affrescate con allegorie dei mesi, opera di Tura e di altri artisti
ferraresi. Furono commissionati da Borso d'Este, che compariva in molti
pannelli.
Il Palazzo del Comune, lo abbiamo ammirato stando riparati dalla pioggia
sotto il portico, che da appunto sul cortile e sulla facciata
dell'edificio. Come ci ha spiegato la signorina Cinzia, é un palazzo
medioevale, iniziato nel 1243, è adornato con le statue di bronzo di
Nicolò III e Borso d'Este, uno dei presunti 27 figli di Nicolò. Entrambe
sono copie delle originali ( XV secolo) di Leon Battista Alberti. Voltando
le spalle a questo importante Palazzo, potevamo ammirare la facciata del
Duomo di Ferrara, del XII secolo, è un insieme di gotico e romanico,
progettato da Wiligelmus. Il cuore urbano di Ferrara si configurò nel XII
secolo intorno al Duomo, iniziato nel 1135 da maestranze lombarde, con
l'agile di archi correnti sui fianchi e anche sulla fronte, cui fu
sovrapposta, alla fine del XIII secolo, l'attuale facciata gotica
tricuspidata; il campanile fu costruito nel XV secolo, su disegno di
Giovan Battista Alberti.
I rilievi sulla facciata rappresentano scene del Giudizio Universale.
Anche se la pioggia cadeva copiosa, ci siamo fatti coraggio, forniti dai
fragili ombrellini, abbiamo raggiunto il Duomo, che era appena stato
aperto ai fedeli e al pubblico turistico. All'interno abbiamo ammirato i
preziosi stucchi romanici, il grande quadro che riproduce il martirio di
San Girolamo Savonarola, un figlio prediletto della città di Ferrara.
Camminando sempre sotto la pioggia, abbiamo raggiunto il punto d'arrivo e
di partenza, cioè, il Castello medievale della bellissima città di
Ferrara, dove abbiamo atteso l'arrivo del nostro torpedone, per fare
ritorno a Mantova. In questa nostra escursione- culturale - paesaggistica,
oltre ad aver navigato lungo il Mincio e di aver ammirato le bellezze
dell'ultimo lembo della verde Lombardia, che non è soltanto la regione dei
colori velati dalla nebbia, ma è un susseguirsi di panorami incantevoli e
sensazioni suggestive, quasi al limite dell'irreale, ma quello che conta,
pioggia e non pioggia, abbiamo scoperta una città meravigliosa, una città
che con le sue meravigliose opere artistiche, fece grande il nostro Paese.
Noi diremo soltanto garanzie Ferrara! Siamo ritornati al nostro piccolo
borgo di sapore medioevale, più acculturati dentro e soprattutto con la
gioia nel cuore, per aver visitato una città gioiello dell'arte e della
bellezza.
Il poeta pensando al grande fiume, sicuramente, nel comporre la sua
lirica, l'avrebbe incominciata così:
O VAGO PO
Improvvisamente il cielo si tuffo
Nel fiume e il fiume limaccioso
Si tuffò nel cielo,
Nuvole sbiancaste e basse.
Nuvole cariche di pioggia
Si fusero
In un abbraccio sconvolto e
Atterrito di paure represse.
Acque che vi allargate fra le rive
Come un occhio stupito
Aspettando e sognando
Il ritorno del sole sull'onda riflesso
Sulle acque limpide e serene.
Che fanno sognare nella dolcezza
Delle notti estive.
A quando a quando
Oh! Nostalgiche acque di sorgiva,
Acque piemontesi e lombarde.
Addio Facchetti.
Addio Facchetti, sei stato definito oltre che un grande giocatore
"Un hombre vertical, una bandiera, un gentiluomo. Giocava in difesa, ma
attaccava appena poteva e segnava". Sei stato il gigante buono che amavi
fare gol come Errera e tenevi un diario: sulla prima pagina una frase di
Tolstoj. Una sola espulsione in tutta la tua carriera. Noi ti vogliamo
ricordare così, semplice e generoso, come milione di tifosi. Non ti
avevo mai visto così da vicino come in una serata dedicata in tuo onore
negli anni 70, presso il ristorante il " Gallo d'oro" di Caravaggio.
Ricordo che quella sera, i club dell'Inter di Treviglio e Caravaggio, ti
hanno voluto festeggiare per i tuoi successi calcistici. Quella fu una
serata indimenticabile dove parteciparono i dirigenti del calcio Regionale
e provinciali e le autorità civili e militari del territorio. In quel
tempo ero comandante della locale Stazione Carabinieri di Caravaggio, e
come le altre autorità presenti, mi è giunto inaspettato l'invito a quella
bellissima festa. Ero veramente felice di poter stringere la mano di un
grandissimo campione come te.
Il passato e il presente sono annullati con il ricordo del più grande
calciatore di tutti i tempi. Si, perché tu Giacinto Facchetti, sei stato e
sarai sempre per milioni di tifosi, non solo dell'Inter, ma dell'intero
calcio italiano, un grandissimo campione. Negli anni che hanno seguito
della mia permanenza a Caravaggio e Treviglio, più volte, come migliaia di
tifosi, siamo venuti allo stadio Meazza di Milano, per vederti giocare e
soprattutto per applaudirti, perché tu hai rappresentato per la tifoseria
e non solo, un esempio: " Un hombre verticale, una bandiera, un
gentiluomo, ma soprattutto un grande atleta che la storia ricordi. Io
non sono mai stato un grande tifoso, ma solo un semplice appassionato del
cacio, quello giocato con il cuore come lo praticavi tu. Quando eravamo di
stanza a Genova, nel II Battaglione mobile dei Carabinieri spesso, per non
dire tutte le domeniche, eravamo lì allo stadio di Marassi, per servizio
d'ordine pubblico. In quel campo ti ho visto giocare più volte, ma non
potevo seguire le tue prodezze e le tue azioni da grande e insuperabile
campione, ma ero lì per vigilare e per garantire l'Ordine pubblico. La
cronaca della partita la leggevo il mattino del giorno successivo.
La notizia della tua scomparsa l'abbiamo appresa all'apertura del
telegiornale dalle 13,30 di Rai Uno. Dopo l'annuncio della speaker il
giornalista sportivo. La Sorsa, ne ha fatto una rievocazione, ricordando i
momenti più significativi del gigante buono che amava far gol come il
grande Errera.
Il giorno dopo le testate di tutti i quotidiani e di quelli sportivi,
hanno riportato la tua e improvvisa e prematura scomparsa, rendendo
omaggio al più grande calciatore buono di tutti i tempi del calcio
italiano. Cliccando sul sito del Corriere della Sera, abbiamo letto un
bellissimo articolo, e per non farlo diventare effimero, lo riproponiamo
in questo nostro articolo, affinché continuasse ad essere letto dagli
eventuali lettori che seguono il sito "Poetare".
" QUANDO muore uno come Giacinto Facchetti (un hombre vertical, un
campione, una bandiera) ci si sente un po' più poveri. Non solo gli
interisti, ovviamente: Facchetti è stato il capitano della nazionale per
94 partite, quando nessuno chiedeva ai calciatori di cantare l'inno, ma a
vederli allineati, impalati si era certi che avrebbero dato tutto e che il
primo a rimproverare chi sgarrava sarebbe stato lui, il capitano. Perché
Facchetti, lo dico per chi non lo vedeva giocare, nel calcio significava
correttezza, serietà, lealtà, anche potenza, cattiveria mai.
Una sola espulsione in tutta la carriera, per proteste. Un gigante buono,
come John Charles. Ma Charles era attaccante, Facchetti difensore. Si può
paragonare a Scirea, semmai Facchetti era un difensore che attaccava,
appena poteva. Il verbo fluidificare non era ancora entrato in un calcio
più semplice e chiaro (più umano, vorrei aggiungere): difesa, attacco,
avanti, indietro. In un'Inter (e un'Italia) sotto l'accusa costante di
protervia catenacciara, Facchetti era la smentita vivente. Di un
terzino-attaccante avevo già sentito parlare dai colleghi più anziani, era
Virgilio Moroso.
E nella Vicenza avevo visto Giulio Savoini. Facchetti era più alto (1.88).
E biondo. Scopigno diceva che in campo i biondi si notavano di più, in
Italia, e a quei tempi era vero, come oggi nella Svezia o nell'Ucraina si
notato di più i bruni. Facchetti giocava in difesa già da ragazzo e già da
ragazzo avanzava cercando il gol, a Treviglio. Ultimo di sette figli
(cinque femmine e due maschi), figlio di Felice (ferroviere, come il padre
di Rivera) ed Elvira, un personale di 8"9 sugli 80 metri a 17 anni, quando
primatista era Ottolina con 8"8. Lo voleva l'Atalanta, quando Giacinto
aveva 14 anni, ma la famiglia s'oppose: troppo giovane per andare a vivere
in una città tentacolare come Bergamo. Più in là, scattò il sì all'Inter.
Una vita all'Inter, solo una parentesi dirigenziale all'Atalanta, e una
morte da presidente dell'Inter"El pica mia, l'è trop bù", non picchia, è
troppo buono diceva suo padre agli amici, all'osteria del Colleoni, e di
questo non picchiare Facchetti figlio ha fatto una sorta di comandamento.
Sembrerà strano, oggi che ogni palla alta contesa vale una gomitata
all'avversario, ma c'era più correttezza nel calcio senza moviole. Nel
senso che potevano esserci entrate terribili, ma non sistematiche, solo in
situazioni estreme. Oggi riescono a ricostruire un ginocchio sfasciato
(vedi Tommasi), allora si smetteva di giocare per un semplice menisco
(vedi Radice). E questa precarietà del lavoro (credo, ma è da dimostrare)
influiva sul rispetto degli avversari: non fare agli altri quello che non
vorresti fosse fatto a te. Facchetti conservava una foto del padre, con la
squadra di calcio allestita sotto la naja. Per ognuno c'è scritto un
soprannome e quello di Felice Facchetti era Ammazzacristiani. C'entra
Freud? Non lo so Ho trovato questo particolare mese fa, leggendo "Ribot e
il menalatte" di Andrea Maietti, sottotitolo "Viaggio intorno a Giacinto
Facchetti". Perché Facchetti una sua biografia non l'aveva mai voluta, lui
che era finito sulla copertina di "Azzurro tenebra" di Giovanni Arpino, e
ne era protagonista mestamente positivo. Maietti, lodigiano e interista,
incassato il rituale "no, grazie, meglio di no", ha scelto per il titolo
un'immagine breriana, quella del purosangue umiliato a tirare il carretto
del lattaio, ovvero del centravanti potenziale ("il mio centravanti
privato") stretto nei panni del difensore di fascia. Giuseppe Meazza
spediva il giovanissimo Facchetti nell'area avversaria, quando il
risultato era contrario, nell'ultimo quarto d'ora (buttarla in mezzo,
qualcosa succederà) e oggi si fa ancora così, ma il bello di Facchetti è
che molti gol li ha segnati su azione manovrata, non da palla inattiva, e
forse il più bello resta il 3-0 al Liverpool, su apertura di Corso, con
Mazzola lanciato sulla destra. Maggio 1965 Facchetti, si direbbe ora,
attaccava lo spazio. A me faceva venire in mente l'arrivano i nostri del
Settimo Cavalleggeri. Prima ancora, Garrone. Oppure, sarà stato l'effetto
di un padre carabiniere e interista, Salvo D'Acquisto. Uno che si prendeva
le sue responsabilità e anche quelle degli altri. Uno che non portava per
caso la fascia da capitano, e la portava come uno sceriffo la stella. Uno
che avuto in regalo una palla (non un pallone) la mattina di Natale del
'52, è uscito a giocarci e dopo mezzora era bucata, contro un fil di
ferro. Uno che, come Helenio Herrera, maestro mai rinnegato, teneva dal
'77 una specie di diario e sulla prima pagina aveva messo una frase di
Tolstoj: "Più crederemo dipendere solo da noi l'esito delle nostre
azioni, più questo sarà possibile".
Uno capace di dire "no, grazie, meglio di no" a Bearzot che lo avrebbe
portato volentieri nel '78 in Argentina, ma lui non si sentiva
all'altezza, dopo un pesante infortunio. Paradossalmente, ma solo
inizialmente) a non percepire la profonda serietà di Facchetti fu
Giovanna, sua moglie. Si erano conosciuti in una balera a Rivolta d'Adda
(lei è di Spino), suonava Fausto Papetti. Appuntamento a Milano, dopo
qualche giorno. Lui è puntuale, lei non si fa vedere: può essere serio un
calciatore di serie A? Cinque anni di fidanzamento le hanno fatto poi
cambiare idea. Due bambine, quindi due maschi. Uno ha provato a fare il
portiere, adesso è attore, l'altro gioca in attacco. Una delle ultime
annotazioni sul diario di Facchetti, autunno scorso: "Bisogna fare in modo
che gli ideali sportivi ed etici abbiano sempre la meglio su
considerazioni puramente finanziarie". Quando avevo scritto il suo nome,
con pochi altri, indicandolo come buon presidente federale, mi aveva
telefonato per ringraziare, cosa che non usa più. Altre volte, da
presidente dell'Inter e con molto garbo, per dirmi che sono andato giù
troppo duro con uno dei loro (fosse Materazzi o Recoba, o Adriano o
Stankovic). Per me era facile replicare: tu una cosa del genere non
l'avresti mai fatta. E lui: "Sì, ma bisogna capirli, non sono più i nostri
tempi. Ti ricordi? Ci giravano intorno così pochi giornalisti che con
qualcuno c'era il tempo di fare amicizia. E i divi erano alla tv o al
cinema. Adesso è più facile montarsi la testa. Ai nostri tempi andare in
prima pagina sulla Gazzetta era un evento per pochi, da festeggiare,
adesso bastano due gol o una cavolata, devi tenerne conto". Ne tengo
conto, ma non posso impedirmi di risentire il profumo di pane di certe
chiacchierate di allora, senza barriere né addetti-stampa, e di fare
paragoni. Facchetti diceva che certe regole (e il loro rispetto)
s'insegnavano all'oratorio, e poi tutto è conseguente, quasi un'abitudine
all'onestà Era un caso ma quei difensori rocciosi portavano i nomi di
un'altra Italia (e anche i valori, temo). Tarcisio, Aristide, Armando,
GiacintoCapitano di pulizia e di forza, capitano sempre a testa alta,
capitano onesto e chiaro, capitano senza arroganza, voglio salutarti con
un silenzio più lungo d'un minuto. E la promessa di tener conto (stavolta
sì, prometto) del fatto che con gli innamorati del calcio in cui credevi
ti piangeranno i coccodrilli, i topacci, i simulatori, gli imbroglioni, i
trafficoni, gli squali, i camaleonti, i ladri, i bari, tutti quelli che
hanno ridotto il calcio così com'è, quelli che ai nostri tempi si
vergognarono a uscire di casa e adesso dettano legge e morale. Farò finta
di non sentirli, capitano, è il solo regalo che ormai posso farti (5
settembre 2006)
Facchetti, in migliaia per l'ultimo saluto.
Lungo serpentone di folla davanti a SanAmbrogio, dove alle 14.45
saranno celebrati i funerali del capitano e presidente nerazzurro.
Più di diecimila persone hanno portato l'ultimo saluto a Giacinto
Facchetti, il presidente dell'Inter morto lunedì a 64 anni dopo
una lunga malattia. Presenti tra gli altri Massimo Moratti, Cesare Maldini,
Michel Platini, Franco Baresi, Candido Cannavò e Armando Cossutta. La
camera ardente è stata allestita nella cappella di San Sigismondo, attigua
alla basilica di Sant'Ambrogio dove alle 14.45 saranno celebrate le
esequie. Un serpentone di gente, formato da tifosi e non solo, si è
ordinata in una fila composta e silenziosa. Questa mattina un lungo
applauso aveva salutato l'arrivo del feretro a Sant'Ambrogio.
Sulla bara due maglie: quella nerazzurra e quella della Nazionale
italiana. Le sue, quelle degli anni Sessanta. Nella cappella di San
Sigismondo i familiari di Facchetti hanno voluto allestire così la camera
ardente. Due foto di Giacinto, una da giocatore e l'altra da presidente,
il gonfalone dell'Inter in un angolo listato a lutto; i fiori bianchi.
Molti milanesi sono arrivati con un fazzoletto dell'Inter. Tra i primi ad
arrivare c'è stato Cesare Maldini, capitano del Milan degli anni '60 ed ex
commissario tecnico della Nazionale. Presente anche il senatore Armando
Cossutta. "Da molti anni - ha detto - mi telefonava il giorno del mio
compleanno. È triste dirlo, ma quest'anno non ha potuto farmeli. Mi
mancherà la sua gentilezza, la sua onestà, cose purtroppo sempre più
rare". A montare il picchetto d'onore alcuni ragazzi della Primavera
nerazzurra. Davanti alla basilica di Sant'Ambrogio uno striscione: "Grazie
Facchetti per aver onorato l'Inter e tutti noi", sono le parole scritte
dal patron Massimo Moratti per l'addio al capitano-presidente. I funerali
saranno celebrati da monsignor Merisi, amico d'infanzia di Facchetti.
Tra i tanti personaggi che hanno voluto rendere omaggio a Facchetti,
anche l'ex presidente della Federcalcio Franco Carraro e l'ex numero due
della Figc, Giancarlo Abete. A Milano sono arrivati anche l'ex dirigente
Uefa Gerard Aigner, Dino Zoff, l'ex bomber nerazzurro Karl Heinz
Rummenigge, Stefano Eranio e i cantanti Enrico Ruggeri e Elio. A fare
l'ultima visita alla salma anche la segretaria storica dei nerazzurri,
Ileana Aimonti. In testa il patron Massimo Moratti, il tecnico Roberto
Mancini e i dirigenti Lele Oriali e Marco Branca, anche la squadra dell'Inter
è arrivata al gran completo alla cappella di San Sigismondo
Il presidente del Consiglio Prodi in un messaggio alla vedova di
Facchetti ha scritto che "la scomparsa di Giacinto Facchetti è un dolore
per l'Italia intera. Per un Paese che ama lo sport con il suo valore forte
di passione e gioia, per generazioni di giovani ed ex giovani che ne
ricordano lo stile dentro e fuori del campo, per chi oggi si avvicina al
calcio, confuso da facili sogni e pericolose scorciatoie, e adesso sa a
chi ispirarsi veramente. Oggi, nel giorno del saluto terreno voglio
porgere a
Lei, signora Giovanna, ai suoi figli e a tutti coloro che hanno avuto il
privilegio di conoscerlo, l'omaggio mio e del Governo a un italiano
speciale". "Il mio pensiero - prosegue Prodi nel messaggio - va ai tanti
momenti di dialogo e incontro avuti con Giacinto, al suo non sapersi e
volersi piegare all'idea di uno sport mercenario e privo di regole, alla
moralità che lo accompagnava nel rettangolo di gioco, alla scrivania della
sua Inter e tra le braccia della famiglia. Piangerlo è inevitabile,
sottolinearne il valore doveroso. Le sono vicino, come lo è tutta
l'Italia, per un giorno stretta in un'unica curva per salutarlo".
"Esprimiamo grandissimo affetto alla famiglia per la perdita di un uomo
vero". Così il presidente della Juventus, Giovanni Cobolli Gigli, ha
ricordato Giacinto Facchetti. Dopo la scomparsa del presidente nerazzurro,
Cobolli ha detto che "tutti dobbiamo cercare di comportarci molto meglio e
di essere uomini veri come lo era lui". Anche Rosella Sensi ha voluto
ricordarlo: "lo conoscevo da poco - ha spiegato la vice presidente della
Lega - mi ha sempre rassicurato la sua tranquillità, ci ha lasciato una
grande capacità di poter competere e anche di saper perdere, qualità che
mancano a molti".Apparso sul Corriere.
Noi semplici pensionati, che viviamo dei ricordi del nostro passato
prossimo, non possiamo fare altro che associarci al cordoglio di migliaia
di tifosi, per esprimere grandissimo affetto alla famiglia per la
prematura dipartita del grande capitano dell'Inter. Noi viviamo il
presente per ricordare il nostro passato prossimo (che poi si chiama
"memoria"), e in questo nostro ricordo rivediamo Giacinto Facchetti, nel
grande salone del Ristorante il " Gallo d'oro" di Caravaggio, in quella
serata dedicata ad un grande campione, quando con tanta timidezza, al
termine della festa, si congedò stringendoci la mano. Quella calorosa
stretta di mano, significava soltanto amicizia. Oggi, non posso fare altro
che dirti soltanto addio caro Giacinto. Il tuo ricordo rimarrà indelebile
nel cuore di ogni tifoso di quel calcio vero, del tuo calcio, amico
Falchetti. In questi ultimi tempi sono venuti fuori i ladri, i bari, tutti
quelli che hanno ridotto il calcio così com'è oggi, chiamata calciopoli.
Peccato, dove è andato a finire il bel calcio dei nostri tempi? Non c'è
più, ma questa è un'altra vergogna del nostro Bel Paese.
Uscimmo a rivedere le stelle
" Uscimmo a rivedere le stelle". I versi che concludono l'Inferno dantesco ben
si addicono alle nostre passeggiate serali e notturne sulla silenziosa e grande
spiaggia di Faliraki, illuminata dalle costellazioni celesti, quel
raggruppamento di stelle che appaiono vicine fra loro e disegnano nel cielo,
approssimativamente, varie figure mitologiche dove primeggia Urano, che nella
mitologia greca, è il dio che rappresenta il Cielo stellato. Secondo la teogonia
di Esiodo, dal Caos primigenio emersero Urano e Gea, la Terra della loro unione
ebbe origine il mondo, ma la continua attività generatrice di Urano rendeva
impossibile lo stabilirsi di un ordine fra le cose; pertanto Gea convinse il
figlio Crono (latino Saturno) a evitare il padre per succedergli nel dominio del
mondo. Lasciamo per un momento la mitologia greca e restiamo con i piedi ben
saldi sulla vecchia terra, continuando le nostre lunghe e romantiche passeggiate
al chiaro della luna e delle stelle, dove si sentiva soltanto il silenzioso
rumore delle piccole onde del mare che si spegnevano lungo il tratto di spiaggia
lambito dal mare. Oltre al rumore delle piccole onde, giungeva a noi dolcemente
gradevole quel venticello fresco della sera e le note, melodiche e soavi del
pianobar, che ci giungevano dal terrazzo dell'Hotel, che tutte le sere allietava
i turisti del Pegasos.
Forse sarà stato quel venticello, che unito alla fresca brezza del mare, che mi
ha riportato a quei ricordi lontani, di giorni pieni di felicità, ma anche di
forti emozioni. Essi mi rimarranno sempre incisi nella memoria come i momenti in
cui, forse, ho sfiorato Dio nella sua grandezza, nella Sua immensità. Ho provato
il contatto con la natura forte e aggressiva, che conserva in sé il misterioso
messaggio primordiale.
Adriana, transitando nel giardino del parco, ha colto un piccolo fiore su di una
siepe che delimita del grande giardino dalla spiaggia, un fiore azzurro come il
cielo e il mare e profumato di aria. Un piccolo saluto in questo mondo
incontaminato e lontano dai rumori del traffico delle grandi città del nostro
Paese.
Durante una delle solite passeggiate serali lungo il viale che porta al borgo di
Faliraki, ammirammo un prato di fiori bianchi e blu nati fra le piante profumate
di eucalipto. Quella visione mi ispirò un pensiero poetico:
C'è un posto vicino al mare, tra fiori
Bianchi e blu, dove si vede il mare brillare.
Sotto i pallidi raggi della luna nella sera.
Che muore.
Odori di erbe aromatiche
E di eucalipto, risvegliano i sensi e i ricordi della gioventù.
E' un posto dove tutto è poesia, musica
Spensieratezza e allegria.
Sembra di essere ritornato ragazzo, a giocare.
Fra le cose perdute nel tempo.
E' un posto di fronte al mare tra i fiori bianchi e amaranto.
Nell'aria fresca della sera, ritrovi il dolce incanto.
Di una felicità che credevi perduta.
La vita ha questo di caratteristico, che viene fuori spontaneamente e a volte
basta un piccolo fiore profumato dalla brezza e della salsedine del mare per
renderti felice. E' sempre l'inatteso ad avere le maggiori probabilità di
sopravvivere. Ma soprattutto deve partire dall'esistente. E ciò che non ci si
aspetta deve venire fuori di ciò che si conosce. La storia di ognuno di noi è la
costrizione della vita. Il passato è ciò che impedisce che l'avvenire sia una
cosa qualsiasi, ma noi oggi siamo qui, nel mondo indiscusso degli dei, in questo
paradiso terrestre fra cielo e mare, per rivivere un momento del nostro passato
prossimo, che per motivi istituzionali non abbiamo potuto vivere secondo il
nostro volere. Si, è proprio così. Il tempo non scorre sempre allo stesso ritmo.
Ci sono delle lunghe sere d'estate o d'autunno in cui sembra quasi immobile. Ci
sono degli istanti di felicità come questi che svaniscono così in fretta che
sembrano appena sfiorati dalla sua corsa ansimante. Noi stiamo vivendo gli
ultimi e meravigliosi anni della nostra vita e ci sembra che il tempo, per un
attimo si sia fermato, ma ci accorgiamo che passa inesorabilmente come un sogno.
Questa è per eccellenza la terra dei sogni e soprattutto delle favole omeriche e
degli dei. Fin da ragazzi, siamo stati plasmati con l'esempio e con
l'insegnamento di questi favolosi personaggi, che con le loro imprese
leggendarie ci hanno aperto gli orizzonti del sapere e della conoscenza.
Durante il nostro soggiorno a Faliraki, oltre a crogiolarci su quelle spiagge
molto accoglienti, sufficientemente ventilate e con un mare azzurro e splendido,
dove l'occhio si perde nell'infinito orizzonte, tra cielo, terra e mare. Le
lunghe passeggiate lungo la battigia in quella sabbia chiara, punteggiata da
piccoli sassolini che rendevano più caratteristico il luogo, con i panorami
incantevoli che circondano la baia di Kaliheas e Faliraki, tanto che ci dava la
sensazione di trovarci sulle bellissime, riposanti e quasi desertiche spiagge
della Tunisia, solo che qui gli arenili non sono per nulla deserti ma ben
organizzate. Quello, di cui ci siamo accorti che mancavano in quel mare così
bello, erano i grigi e chiassosi gabbiani dal becco rosso, ma al posto dei
gabbiani, svolazzavano da qui e di lì i minuti passerotti in cerca di briciole
sotto gli ombrelloni. Oltre ai tanti bagni in quel mare azzurro, pulito e
profondo, restando all'ombra dei caratteristici ombrelloni, costruiti a mo
d'imbuto o di cono rovesciato con i rami delle palme, di fronte l'immenso e
verde mare, abbiamo avuto il tempo di leggere in santa pace alcuni libri che ci
siamo portati da casa, qualche quotidiano con le notizie del giorno precedente,
perché dato la notevole distanza dal nostro Paese, giungevano il mattino
successivo. Abbiamo avuto anche il tempo di tracciare sulla nostra vecchia
agenda di viaggio le nostre impressioni dei luoghi, ma soprattutto, abbiamo
avuto anche modo di documentarci sulla località di Faliraki, sulla città di Rodi
e delle altre località turistiche dell'isola di Rodi. In questa nostra piccola
ricerca, abbiamo appreso che la città di Rodi, è una delle più belle città
dell'isola e forse anche della Grecia, situata all'estremità settentrionale
dell'isola, é capoluogo del Dodecaneso.
Pensando al passato, la storia ci racconta che un tempo vi era numerosa la
comunità ebraica, che oggi non esiste più perché deportata e sterminata nei
lager dai Tedeschi, durante la seconda guerra mondiale, dopo l'8 settembre 1943.
A testimonianza di quel passato tragico, ancora oggi, per non dimenticare,
esistono ancora lungo la costa, come all'interno dell'isola, i bunker e i
fortini militari, costruiti probabilmente dalle Forze armate italiane, per la
difesa contro il nemico. La città di Rodi, è costituita da due parti distinte:
la città antica, cinta tuttora dalle belle mura erette dai Cavalieri, in cui si
trovano i principali edifici, e la città moderna, sviluppatasi soprattutto dopo
il 1912, sotto l'amministrazione italiana, con belle ville e alberghi. Grazie al
suo porto, Rodi è un centro commerciale molto attivo; inoltre le bellezze
naturali e artistiche unite a varie manifestazioni d'arte ne fanno un centro di
grande attrazione storica e artistica, nonché turistica e culturale
LAOCOONTE.
Con una sola escursione si possono visitare pochi siti e vedere poche cose della
città. Ci siamo recati più volte nella città di Rodi, grazie ai mezzi di
comunicazione che sono molto efficienti. Ogni ora, dal Piazzale dell'Hotel
Pegasos, parte un torpedone che in poco meno di un'ora si ferma nel piazzale del
porto di Mandrake, pagando la modica spesa di due Euro. Grazie a questi
collegamenti, ci siamo recati più volte, è abbiamo avuto modo di visitare con
più comodità il Palazzo dei gran Maestri: "Una fortezza nella fortezza", centro
nevralgico del Collachium, il quartiere dei Cavalieri, nonché estremo rifugio
per il popolo in momenti di pericolo. Sorto nel 1300, restò indenne a terremoti
e assedi, ma saltò in aria per un'esplosione accidentale nel 1856. Negli anni
30, su ordine di Mussolini e del re Vittorio Emanuele III, gli italiani lo
restaurarono. Al suo interno sono conservati inestimabili mosaici dei siti
archeologici di Kos, che danno nome ad alcune sale. Il palazzo è inoltre sede
delle mostre " Rodi antica e medioevale". In una di queste stanze si trova la
Sala di Laocoonte, dove troneggia una copia della scultura della sua morte con i
figli. Nel Museo Archeologico è stata allestito nell'edificio dell'Ospedale dei
Cavalieri. Tra i pezzi in esposizione sono la celebre stele funeraria di
Kalliarista e la meravigliosa statua marmorea di Afrodite, in greco Aphrodité.
Mitologia greca Dea dell'amore, della bellezza e della fecondità, venerata in
tutto il mondo greco e sotto aspetti che riflettevano l'influsso della fenicia.
Astante e collegata con il culto di Adone. Secondo una tradizione più antica la
sua nascita era collegata con la schiuma del mare, da cui sarebbe emersa, ma
dalla poesia epica fu considerata figlia di Zeus e di Dione, moglie di Efesto e
amante di Ares. Le furono attribuiti rapporti anche con altre divinità e con
l'eroe Anchise, da cui ebbe Enea. Parecchi appellativi si accompagnano al suo
nome o sez'altro la designarono alcuni tratti dal luogo dove era venerata (
Ciprigna, da Cipro; Cnidia, da Cnido; Citeria, da Citera, ecc). Afrodite, La
"Vergine di Milo" attenuò nel tempo il suo carattere violento per divenire
l'incantevole dea che si aggirava nel mondo della natura e tra gli uomini
suscitando con spensierata letizia l'eterna vicenda d'amore. Un calco di gesso
di Afrodite, fa bella mostra di se nell'entrata dell'Hotel Pegasos.
In quella occasione, abbiamo saputo che la statua originale di Leocoonte, che è
del I secolo a. C., capolavoro della scuola di Rodi di Atanadoro, Agesandro e
Polidoro, si trova custodita a Roma, nel Museo del Vaticano. Ma ci viene da
domandarci, chi era effettivamente Laoconte? Negli appunti di viaggio dello
studioso Francesco Grossi, apprendiamo che il sacerdote Laocoonte fu l'unico ad
opporsi a fare entrare nella città di Troia il cavallo di legno del leggendario
Ulisse. Di Laocoonte ci parla Virgilio nel libro secondo dell'Eneide: Enea, nel
suo viaggio verso l'Italia approda alla corte di Didone. Silenti ed attenti gli
ascoltatori, racconta alla regina l'indicibile fine di Troia. Egli riferisce
che, dopo dieci anni di assedio, una mattina i Troiani videro che i Greci erano
nottetempo partiti, lasciando sulla spiaggia un enorme cavallo di legno (Il
Cavallo di Troia).
Prima di accettare il regalo che poi rappresentò la distruzione completa di
Troia, Laocoonte, sacerdote di Nettuno, tentò di avvertire i Troiani che si
erano divisi in due fazioni, quelli che credevano al regalo e quelli che invece
erano scettici. E per rafforzare il proprio scetticismo lanciò verso il ventre
del cavallo una lancia che vi si conficcò con cupo rimbombo. I Troiani esitavano
ancora, nel dubbio che il cavallo potesse costituire un presagio favorevole,
quando due terribili serpenti marini uscirono dal mare avvolgendo nella loro
stretta mortale i figli di Laocoonte, con cui egli perì cercando invano di
salvarli. I Troiani, convinti che quello fosse un segno del cielo, non
ascoltarono il consiglio di Laocoonte e introdussero il cavallo in città,
contribuendo così alla propria distruzione. Seguiamo il brano che narra
l'ammonimento fino al lancio che colpisce il Cavallo
Stava tra questi due contrari in forse
in due parti diviso il volgo incerto;
quando con gran caterva e con gran furia
da la rocca discese, e di lontano gridò
Laocoonte: "O ciechi, o folli,
o sfortunati! Agli nemici, a' Greci
date credenza? A lor credete voi
che sian partiti? E sarà mai che doni
siano i lor doni, e non piú tosto inganni?
Cosí v'è noto Ulisse? O in questo legno
sono i Greci rinchiusi, o questa è macchina
contra alle nostre mura, o spia per entro
ai nostri alberghi, o scala o torre o ponte
per di sopra assalirne. E che sia,
certo o vi cova o vi si ordisce inganno,
ché d'e' Pelasgi e d'e' nemici è 'l dono".
Ciò detto, con gran forza una grand'asta
avventogli, e colpillo, ove tremante
stette altamente infra due coste infissa:
e 'l destrier, come fosse e vivo e fiero,
fieramente da spron punto cotale,
sì storcé, si crollò, tonogli il ventre,
e rintonâr le sue cave caverne.
Lo studioso Francesco Grossi, continua dicendo: "Che analogia può avere
l'ammonimento di Laocoonte che esorta a non accettare i falsi doni dei Greci?
Nell'agosto del 1991 a Milk Hill vicino Alton Barnes (Wiltshire, UK), fu trovata
un'iscrizione nel campo, un crop anomalo: Di quell'iscrizione furono proposte
almeno tre decodifiche, e forse la più suggestiva fu quella di Gerald Hawkins
che portava al latino OPPONO ASTOS, cioè "mi oppongo agli imbrogli" We oppose
DECEPTION, "ci opponiamo all'inganno"). In latino la parola "astos" fu usata per
descrivere il dono del Cavallo di Troia, fatto dai Greci ai Troiani.
La nuova formazione con il volto dell'alieno è, secondo la nostra modesta
interpretazione, un piccolo capolavoro artistico intriso di raffinatezze, di
citazioni, di informazioni codificate, in sostanza una favolosa meta-opera.
Un'opera che appartiene a un "mito nuovo" e contemporaneamente cita un "mito
storico", un'opera che soltanto "apparendo" cita sé stessa affondando le sue
radici nella mitologia, perché? Perché l'autore, o meglio gli autori, hanno
consegnato ai terrestri (che si sono divisi in due fazioni: quelli che credono
ai crops e quelli che invece sono scettici) una formazione "Cavallo di Troia",
in cui compare l'ammonimento di Laocoonte a rimanere scettici. Che messaggio
sibillino e strano da parte di una civiltà aliena, che cosa ci vuole dire?
Perché inizia con un ammonimento? Perché dovremmo fare attenzione ai portatori
di falsi doni ? E poi, chi sono questi portatori?
La mitologia greca contiene un importante riferimento che potrebbe aiutarci in
quest'opera di analisi: l'ammonimento di Laocoonte. Accetteranno i terrestri
questo "Cavallo di Troia" donato degli alieni?
IL COLOSSO di RODI
Lasciamo il Palazzo-Museo del Gran Maestro, l'edificio più importante della
Città Vecchia e percorriamo la via dei Cavalieri, la strada principale e più
interessante del .Kollakion, dove si trova il Consolato italiano e raggiungiamo
Mandraki che era in passato uno dei cinque porti dell'antica Rodi. Il porto
moderno accoglie quotidianamente decine di imbarcazioni e da cui partono le
escursioni giornaliere per Lindos e Symi. L'impressionante complesso della Nea
Agorà ( il nuovo Mercato) finge oggi da centro commerciale.
Nella nostra escursione organizzata nella Città di Rodi, giunti nella zona del
vecchio porto commerciale, fra noi escursionisti c'era qualcuno che non
conoscendo la storia della città o per lo meno non si era sufficientemente
documentato, voleva visitare il monumento più importante di Rodi: il Colosso di
Rodi, (che in greco Kolossos significa statua di gigantesche dimensioni) che è
ricordato come una delle sette meraviglie del mondo antico. Ma evidentemente il
Colosso che fu posto a cavalcioni dell'imboccatura del porto fu distrutto da un
catastrofico terremoto nel 226 a. C, ma naturalmente l'amico turista, questo non
lo sapeva e quindi è rimasto al quanto male. Cose del genere succedono sovente
nelle gite organizzate.
La storia ci racconta che per il Colosso di Rodi occorsero ben 12 anni di lavoro
per completare i 31 mt. di altezza di bronzo. Si dice che quando vinsero
Demetrio, i Rodensi vendettero le loro macchine belliche e con il ricavato
commissionarono il mastodontico monumento. Secondo la spiegazione della guida
locale Dimitris Salahouris, sembra che la mastodontica statua del Colosso di
Rodi, non si trovava all'entrata del Porto, ma all'entrata della città-
fortezza. Dimitris, prosegui dicendo, che nell'antichità, furono trovati i resti
del Colosso di Rodi, sepolti sotto le macerie di una delle porte , per mezzo
delle quale si accede alla Città Vecchia, ma la storia e i racconti popolani lo
hanno collocato nell'entrata del Porto. Oggi all'entrata del Porto, si elevano
verso il cielo due colonne di arenaria, sormontate da un capitello dorico dove
fanno bella mostra di sé due superbi cervi con le corna ramificate.
Nei primi secoli del periodo medievale, Rodi continuò ad essere la capitale
dell'isola diventando la capitale dei Ciberiotti, quando i Bizantini la divisero
in "Temata" (Province). La fine dell'espansione, arrivò nel 515 d.C, quando il
grande terremoto la rase al suolo e nonostante le cospicue somme di denaro
dall'Imperatore Anastasio, la città non ritrovò più il suo splendore.
Agli inizi del VII secolo la città fu continuamente attaccata dai Persiani in
guerra con l'Imperatore Eraclio che la conquistarono nel 620. Dal 653 e per
cinque anni la occuparono gli Arabi di Moabia e nel 717/718 passò ai Saraceni.
Nel 807 il Califfo Harun Al Rashid occupa l'isola per un breve periodo. Nel
tempo dell'Imperatore Alessio, fu attaccata dai pirati, e fu occupata da loro
stessi. Nel 1097, occupata dai Crociati divenne il pomo della discordia tra
Pisani, Genovesi e Veneziani che ne disputarono il possesso. Durante la caduta
di Costantinopoli per mano dei Franchi, nel 1204, l'ex Governatore di Rodi,
Leone Gavala si dichiarò Principe Ereditario (Cesare), alternando una posizione
indipendente ad una di alleanza con il Bisanzio. Dal 1261, Rodi teoricamente
faceva parte dell'Impero Bizantino, ma in realtà era governata da ammiragli
Genovesi che nel 1306 per opera dell'ammiraglio in carica, Viniolo, fu ceduta ai
Cavalieri di San Giovanni che la dominarono per tre secoli sotto la guida di un
Gran Maestro. La Città fu dominata dai Romani, dai Turchi Ottomani ed in fine
dagli italiani, che lasciarono tracce evidenti della loro presenza.
Quando abbiamo lasciato l'antica Città di Rodi, il sole incominciava a declinare
verso ponente, preparando i presupposti di un bellissimo tramonto colorato e
bellissimo. Il mare di fronte a Faliraki, era increspato dalle piccole onde
cangianti, mentre all'orizzonte tra cielo e mare gli ultimi raggi del sole
stavano progressivamente cancellando le scene paesaggistiche della stupenda
costa.
Il poeta cosi scriveva:
Me ne sto occupato nel nulla sul confine.
Del mondo ad osservare il cielo e le nuvole.
E qualche volta sorrido alla serenità
Delle creature che mi circondano. Il giorno
E la notte vengono e se ne vanno,
Le stagioni trascorrono e noi viaggiatori dell'infinito.
A volte ci domandiamo il perché della vita.
La risposta al perché si può leggere
Nei piccoli occhi di un passero.
Le confidenze di un genitore durante la pausa
caffè
Racconto
Questo nostro nuovo racconto, che cerca di
raccontare le confidenze di un genitore, lo abbiamo scritto sulle spiagge
fresche, ventilate e silenziose di Faliraki, di fronte a quel mare
azzurro, limpido e trasparente, dove tutto è bellezza e gioia di vivere,
in un tardo pomeriggio di luglio, tra un bagno e l’altro, tra la lettura
di un buon libro e quattro chiacchiere con il vicino dell’ombrellone, sia
tedesco o mantovano, ma quando giunge l’ora stabilita ti assilla un
piacere così forte che non puoi fare a meno di alzarti e farti quattro
passi nel parco oppure una breve passeggiata sulla battigia e poi,
dritto-dritto, raggiunge il Bar-gazebo, che è immerso nel verde del parco
del Pegasos, fra le aiuole profumate di gelsomino, dove trovi il barman
Basilio, un verace rodino e molto amico degli italiani, nonché sfegatato
tifoso della Juventus, si, perché, i giovani dell’isola di Rodi, seguono
molto il calcio italiano e conoscono tutti i giocatori per nome, che ti
saluta con molta cordialità. “Ciao “kirios” Diego, ti sei stufato del sole
cocente della spiaggia? Accomodati, che ti preparo una buona tazza di
caffè all’italiana, di quella bevanda aromatica che a te piace tanto.”.
Si, una tazza di espresso ben preparato,
come lo preparava Basilio, non è facile trovarla nei Bar dell’isola.
Perché il caffè è uno degli stimolanti più potenti dei nostri sensi: il
colore caldo della crema, la fragranza intensa, la consistenza vellutata,
il gusto forte e persistente donano piacere agli occhi, al naso e alla
bocca. Soltanto l'udito sembra essere estraneo a quest'esperienza
multisensoriale. È difficile credere che un piacere così coinvolgente
possa essere trasmesso da appena 30 millilitri di un liquido, contenente
non più di 1,5 grammi di sostanza solubile dispersa, e senza nessun
contenuto calorico. Il caffè all’interno del complesso di Pegasos, costa
il doppio dei nostri Bar, ma quando il caffè è veramente eccellente come
quello che ci serviva l’amico Basilio, non c’è prezzo. Ma, come diceva lo
scomparso Nino Manfredi, “ se non è buono, che caffè è? Egli aveva
veramente ragione.
Nel
solito Bar nel parco, incontravo quasi sempre il signor Giovanni, un
simpatico e gioviale pensionato delle Ferrovie dello Stato, che faceva
parte della comitiva dei mantovani. Fra i tanti discorsi, un bel giorno ha
voluto dare sfogo al suo cruccio che si portava dentro da molto tempo e lo
ha fatto con me, mi ha parlato del loro menage familiare e soprattutto
della loro unica figlia laureata in lettere e insegnate di liceo,
divorziata da parecchi anni, ma al momento conviveva con un altro giovane,
però segretamente s’incontra con un altro suo coetaneo dal quale si era
pazzamente innamorata.
Un mattino, come il
solito, quando ha aperto il suo personal computer per visionare la posta
in arrivo, tutto si sarebbe aspettato di trovare, ma non di leggere le
espressioni dalla figlia Maria, così cariche di rancore personali contro
la madre, contro di colei che le ha dato il bene più prezioso che è la
vita. Egli così le risponde: “Non mi risulta che ella ti abbia mai
aggredita con i suoi discorsi, ma più che aggredirti ha cercato sempre di
darti dei buoni consigli e di indirizzarti su la strada più giusta da
seguire senza ledere la tua sensibilità. Una madre cerca sempre il bene
dei propri figli, specialmente, quando è chiamata ad assistere a certe
situazioni, che li definirei molto imbarazzanti ed ambigui, come il tuo
menage famigliare.
Sicuramente non si pò
tenere un piede in due scarpe, bisogna saper decidere quale via scegliere.
Lo so che non è una cosa facile e per questo ti sei confidata con la
mamma, raccontandole tutto quello che ti sta succedendo nella tua vita
sentimentale. Lei non intendeva dire di buttare fuori Giovanni e mandare
al diavolo Luigi, ma ha inteso darti un suggerimento di comportamento da
persona adulta e intelligente che tu sei. Era solo un modo di dire. Perché
in questi casi nessuno è in grado di dare dei consigli. In questi casi è
l’interessata a saper decidere cosa fare in certe situazioni: Si, è
proprio così, spetta a te e solamente a te prenderli. Noi siamo semplici
spettatori, ma soprattutto rimaniamo sempre i tuoi genitori che ti abbiamo
messo al mondo, educata, seguita e cresciuta secondo i dettami della
morale e della coscienza e le nostre possibilità familiari.
Cara Maria, ti devo dire
che ti sei fatta un brutto concetto di tua madre, forse perché ancora,
dopo tanti anni non sei riuscita a conoscere veramente a fondo il suo
carattere. Giorno dopo giorno non fa altro che parlare di te, della tua
salute, del tuo lavoro, del tuo vivere quotidiano. Tutti abbiamo i nostri
difetti nella vita, ma il suo difetto è soltanto quello di essere sempre
in apprensione per la sua Maria. Ovunque si trova, a casa o un altro
luogo, con il suo telefonino non fa altro che cercare di rintracciarti per
sapere come stai, come stai trascorrendo la tua giornata, ma da quando hai
deciso di chiudere ogni comunicazione, lei è rimasta molto male. La vedo
che è sempre triste per non essere stata compresa, ma deve sapere che ti
ama moltissimo.
Tutti cerchiamo di
sopravvivere giorno dopo giorno, nella speranza di un domani migliore, per
vederti sistemata in una vita stabile che non hai mai avuto. E per questo
che viviamo in apprensione. Luigi, Romano o Giovanni, non ha nessuna
importanza, l’importante è che tu possa trovare il tuo compagno giusto, il
resto non conta. Noi siamo avanti negli anni, e prima dell’ultimo sospiro
vorremmo vederti sistemata una volta per sempre, il resto non conta. Cerca
di essere più obiettiva e di trovare la giusta serenità per continuare la
tua strada. Noi siamo qui, la tua famiglia siamo noi. La porta di casa è
sempre aperta. Ogni volta che varchi la soglia di questa casa, per noi è
una festa, non sappiamo più che cosa farti. Lo dico sempre, quando arrivi:
“Oggi si fa festa, perché è ritornato il figliolo
prodigo”.
Il grande attore Peppino
de Filippo, diceva sempre che i figli “sono nu pezzo e core”
Ciao a presto, Mamma è
papà”.
Lasciamo la tristezza di
quel padre, che non può fare nulla per lenire, alleviare o mitigare, la
mancata realizzazione dei sogni della sua “ principessa”, ma la vita è
fatta anche di questi problemi, tristi e meno tristi, che bisogna saperli
affrontare da soli e senza intermediari.
“ In conclusione: “ I
genitori italiano e di tutto il mondo, oggi raramente riconoscono il
valore dell’infanzia. Il bambino vale non per quello che è in questo
momento, ma per quello che sarà domani, se ha la fortuna di realizzare il
suo sogno. Mamma e papà lo coccolano, lo proteggono, lo educano con un
solo fine: prepararlo a essere in futuro come noi. Invece i bambini hanno
diritti e aspirazioni che vanno soddisfatte oggi, senza secondi fini. Se
avranno un’infanzia felice, diventeranno persone serene e creative”.
Soprattutto saranno adulti.
Si
vede proprio che i tempi, in questi ultimi trenta anni, sono proprio
cambiati. Ai nostri tempi, fare il padre e la madre, insomma i genitori,
non era completamente facile, ma neppure tanto difficile, perché in seno
alla famiglia esisteva l’affetto, l’armonia e l’unità famigliare, ma
soprattutto la gioia di vivere, di crescere e di diventare uomini in grado
di affrontare la vita, ma anche una maggiore severità educativa. Fare il
papà e la mamma è sempre stato un mestiere difficile. Ma sembra che in
questi ultimi anni lo sia diventato molto di più. C’è chi ha parlato
addirittura, come leggiamo in un articolo di Notorio Mantoni, apparso su
“Presenza Cristiana” di “ catastrofe educativa” causata da genitori ex
sessantottini troppo antiautoritari o dal fatto che molte più madri oggi
lavorano. Altri accusano il decadimento dei valori e l’invadenza della
televisione, di internet e dei videogiochi. Anche sui possibili rimedi c’è
confusione: a chi invoca un ritorno a una maggiore severità educativa si
contrappone chi mette in guardia contro la carenza di affetto in famiglia.
Quello che è certo è che
essere genitori vuol dire prendere ogni giorno innumerevoli decisioni,
alcuni importanti, altri solo apparentemente banali. E questo pone di
fronte a continui, difficili, dilemmi. Che cosa fare quando tua figlia di
3 anni non vuole mangiare o vestirsi e fa di tutto per farti saltare i
nervi? Come reagire di fronte al figlio quattordicenne che va male a
scuola e rifiuta qualsiasi aiuto, qualsiasi sollecitazione, e magari
diventa aggressivo? Oggi è come ieri, come oggi, come domani. C’è sempre
stata la pecora nera in mezzo ad un gregge. “ Molti genitori si disperano
perché non riescono a farsi obbedire. In casa devono alzare la voce per
ottenere qualsiasi cosa. Altri passano poco tempo con i figli e si sentono
in colpa. Poi oscillano tra due estremi: negare ostinatamente o concedere
tutto. Altri ancora hanno abdicato, autogiustificandosi con la scusa che,
come sostengono alcune teorie l’impegno dei genitori conta poco: a essere
determinante sarebbe solo la genetica. Per tutti, comunque, vale una
domanda: è proprio inevitabilmente che educare i figli sia un succedersi
infinito di urla, imprecazioni, sfinimenti, frustrazioni?
Dice bene Notario Mantoni,
che la risposta è No. “ Nuovi studi per capire se e come i genitori
influenzano i figli hanno provato che:
a) Diversamente da quanto
sostenuto negli ultimi tempi in nome della genetica, i genitori hanno
un’enorme influenza sullo sviluppo dei figli. Uno studio francese ha per
esempio provato che i bambini con un’infanzia difficile inseriti in una
famiglia armonica hanno aumentato il loro quoziente di intelligenza di ben
19 punti.
b) Si può stabilire in
che cosa consiste un’educazione efficace e verificare “sperimentalmente”
che cosa è giusto e che cosa è sbagliato.
c) I genitori possono
imparare e diventare educatori più bravi ed efficaci.
Ai miei tempi, ahimè
molto lontani, quando eravamo ancora bambini, prima di tutto la mamma
faceva la mamma a tempo pieno ed era considerata la regina del focolare,
ma anche e soprattutto la prima educatrice per eccellenza dei propri
figli. Certo, educare i figli non è mai stato facile e non lo sarà mai,
anche se oggi esistono sistemi educativi che funzionano, tecniche che
consentono di affrontare con successo i momenti più difficili della vita
quotidiana con i figli, esperti pronti a dare i consigli giusti e nuovi
corsi per genitori che, testati scientificamente per la prima volta, hanno
dato ottimi risultati. In conclusione: papà e mamme non devono sentirsi
abbandonati. E non devono vergognarsi di chiedere aiuto. Sarò retrogrado,
e sicuramente lo sono, ma il metodo empirico, come lo vogliamo chiamare,
adottato dalle nostre madri, non aveva bisogno di fare dei corsi o di
chiedere aiuto agli psicologi, ma si trovava inserito nel loro Dna e
funzionava molto bene. Ricordo che quando mia madre ci dava un ordine era
eseguito senza “mugugnare”, senza esitare o ritardare. In poche parole,
era come l’ordine dato dal Maresciallo, ai loro dipendenti. Le mamme di
oggi hanno poco polso e direi anche poco carattere. Per ogni piccola cosa
si rivolgono ai consigli del psicologo e questo secondo me, che non sono
psicologo, è veramente sbagliato. Gli insegnamenti nascono dal cuore e
soprattutto dall’anima di ogni madre.
Oggi quei bambini di ieri,
sono diventati adulti e molto più intelligenti, ciò é dovuto
all’evoluzione, alla trasformazione, allo svolgimento graduale verso un
livello superiore più complesso ma quest’evoluzione non ha influito
positivamente sui nostri figli, la maggior parte di loro, sono rimasti
ancorati al nucleo famigliare, in poche parole sono diventati dei
“mammoni”, ciò ha dovuto perché hanno paura di affrontare la vita. Quando
decidono di tagliare definitivamente il cordone ombelicale che li tiene
legati al nucleo familiare e vanno a cercare spesso l’aspetto esteriore di
un giovane, senza tener conto del suo grado d’istruzione o della sua
posizione sociale, che in fin dei conti, sono quelli che contano nella
vita. Gli occhi verdi o il colore dei capelli non danno alcuna garanzia di
continuazione. In questi casi che cosa devono fare i genitori? Devono
cercare di dare, come sempre, dei buoni consigli. Spesso succede, che
questi consigli non sono recepiti nel modo giusto e allora sono tacciati,
accusati o incolpati di essere gelosi dei loro successi amorosi. Non ci
sono genitori gelosi negli affari di cuore, ma si cerca sembra di
suggerire, quando è possibile, la via giusta da seguire. L‘attrazione
fisica, spesso non ha mai dato ottimi risulti, quindi, bisogna ponderare e
scavare a fondo nella personalità di cui si è invaghiti. Lo so, che non è
facile tutto questo, ma non bisogna demordere e continuare ad approfondire
le conoscenze sulla personalità del pseudo innamorato.
Quel pomeriggio in cui
l’aria sapeva di mare, sotto quel cielo infuocato, dopo quella lunga
chiacchierata con l’amico Giovanni sotto il gazebo del parco, ci siamo
avviati lungo la battigia che porta al villaggio di Faliraki, mentre una
leggera brezza ristoratrice spirava da dietro la collina dove germogliano
gli ulivi dell’amicizia e dove si ammirano meravigliosi tramonti,
spiagge da sogno, paesi di case bianche, cieli e mari blu: mai visti così
tanti luoghi comuni, così tante frasi fatte, slogan da catalogo, promesse
effimere diventare così stupefacentemente vere. Ma le nostre vacanze sono
appena cominciati e altri tramonti e villaggi ci aspettano per essere
ammirati, come la città di Rodi, dove c’è quella
luce che non trova ostacoli lungo il
brullo e pianeggiante profilo dell'isola e si irradia diffusa, riflessa
dal mare, dalle case, dalla limpidezza adamantina del cielo, una luce
senz'ombra, neppure minimamente intaccata nella sua purezza dalle mille
macchie di colore delle bougainville, dei gerani, delle bignonie, non
scalfita dai blu, dai verdi, dai rossi delle finestre, delle porte e delle
ringhiere delle case. La stessa cosa potremmo dire di Lindos, con le sue
case bianche barbicate sulla montagna scoscesa dove l’acropoli troneggia
da una scogliera sopra il centro abitato.
Qui a sera, dopo il tramonto, senza malinconia e rimpianto, e bellissimo
passeggiare, solo per scoprire che, anche senza la luce del sole, immersa
nel chiarore di una notte di quasi plenilunio Faliraki è pur sempre
straordinariamente bella.
Il sole stava tramontando
dietro le basse e verdi colline di Faleraki, quando con l’amico Giovanni
stavamo entrando nel grande atrio dell’Hotel Pegasos, e gli ospiti si
stavano avviando verso il ristorante per la cena e nel salutare l’amico
gli ho detto: “ Oggi, mio caro amico, con i tempi che corrono, è veramente
difficile fare il mestiere del genitore. Ciao, arrivederci a dopo”.
Di luglio
Quando su ci si butta lei,
si fa d'un triste colore di rosa
il bel fogliame.
Strugge forre, beve fiumi,
macina scogli, splende,
è furia che s'ostina, è l'implacabile,
sparge spazio, acceca mete,
è l'estate e nei secoli
con i suoi occhi calcinanti
va della terra spogliando lo scheletro.
Giuseppe Ungaretti
Racconto di viaggio nella città
di Rodi.
Davanti al nostro moderno, grandioso Hotel Pegasos, c'è la fermata degli
autobus di linea, che ogni ora collegava Faliraki alla città di Rodi e
alle altre cittadine rivierasche. Dopo una settimana di permanenza sulle
stupende spiagge degli dei, dove forse, nei tempi antichi è passato anche
il leggendario Ulisse, con una squadra di amici mantovani, abbiamo deciso
di effettuare un'escursione a Rodi, celebre per il suo Colosso, ( una
statua che era alta circa 32 metri e che fu distrutta da un terremoto nel
226 a, C, ) sia per il Museo Archeologico, che contiene la maggior parte
dei reperti più significativi per le isole del Dodecanneso: il Museo
d'Arte Bizantina, nell'imponente chiesa della Vergine del Castello (Panagia
Tou Kastrou) offre un'interessante panoramica di questo periodo
storico-artistico. Per renderci conto personalmente delle sue bellezze,
dei monumenti e della sua storia, che tanto ci aveva parlato e illustrato
l'hostess al nostro arrivo a Faliraki. In questa nostra escursione,
seguendo la Strada Statale che porta alla città di Rodi, abbiamo ammirato
la bellissima e frastagliata costa di Kalithea, con le sue rinomate fonti
termali, con le numerose insenature, verdi pinete, qualche villa isolata
dove in passato abitavano gli ufficiali italiani e dove oggi sorgono
moderni e splendidi alberghi. Superata la punta Reni, s'intravedono le
prime case della città di Rodos, con il suo stupendo porto e le antiche
mura medioevali. Ancora pochi chilometri ed eccoti nella capitale
dell'isola del sole. Nei pressi del porto di Mandraki, subito dopo Via
Prateria Ippokratous, nella Piazza centrale davanti alla porta della
Marina, dove oltre alla chiesa dello Evangelismos, costruita sulla
distrutta chiesa cavalleresca di San Giovanni e davanti a questa chiesa,
sorge una fontana medioevale, costruita dagli italiani, è una copia della
fontana che sorge nel centro storico di Perugia. In quel luogo stava nella
attesa del nostro arrivo la guida turistica locale, il " Khirios Dimitris
Salahouris, che ci ha accompagnati nel Partendone di Giove e nei siti
archeologici e storici dell'antica e bellissima città di Rodi. Il molo di
Mandraki sta proprio in centro della città, tra le destinazioni turistiche
greche più importanti. In via dei Carabinieri, che sorge subito dopo il
porto di Mandrake: una delle vie centrali, sorgono una fila di bellissimi
edifici in stile Impero, che contraddistingue la creazione di quell'epoca
coloniale. Per primo vediamo l'elegante edificio della Prefettura,
costruito nel dicembre 1920 come palazzo del governatore italiano, fanno
seguito, uno dopo l'altro, il Comando dei Carabinieri, la Questura, il
Palazzo di Giustizia e la Banca d'Italia. Oggi, hanno sede le stesse
istituzioni politiche e militari greche. Proseguendo oltre, i due grossi
pullman, hanno raggiunto la collina che domina la città, dove sorge il
Partendone e i resti di quello che fu il più prestigioso monumento storico
di Rodi.
Il simpatico e gioviale Dimitris Salahouris, ci ha raccontato che secondo
un antico mito, quando gli dei si spartirono il mondo tra loro, il Sole,
affascinato, vide emergere dalle profondità del mare un'isola talmente
bella che chiese immediatamente a Zeus che toccasse a lui quella parte.
Rodi era un'isola che come un delfino viaggiava, ed ancora oggi viaggia,
tra le acque diafane dell'Egeo sud- orientale, là dove l'Occidente si
incontra con l'Oriente e dove si fusero i destini dei popoli mediterranei.
Ricca di spiagge dorate, prospera di verdissime colline e pianure, bagnata
dalla luce del Sole, il suo antico dio protettore, decise che in quell'altura
doveva costruire la sua suntuosa casa. Così fu, Zeus scelse la bellissima
collina di Santo Stefano ( o Monte Smit), dove fece costruire l'Acropoli
dell'antica Rodi, il tempio più bello dedicandolo al dio Sole, che si
trova all'interno del parco archeologico, attrezzato e ricco di verde.
Oggi, in quel luogo tanto amato dagli dei, di quello che fu il tempio di
Apollo Pizio, protettore della città. Da questo punto si gode una veduta
panoramica a 390 gradi sulla città e sul mare ed il tramonto è ricco di
fascino.
Rimangono sulla collina degli dei, soltanto a sfidare il tempo e la storia
antica le tre colonne altissime di arenaria, sormontate dai relativi
capitelli dorici.
Rodi fu abitata fin dall'epoca preistorica, e ben presto si sviluppò,
divenendo un importante bacino economico, culturale e commerciale del
mondo greco. Le bellezze naturali dei luoghi, la ricchezza e la posizione
strategica permisero ai Rodii di godere di grande prosperità ed allo
stesso tempo attrassero i potenti di ogni epoca, desiderosi di
impadronirsi dell'isola mediterranea. Sembra che per primi giungano i
Romani, i Cavalieri dell'Ordine di San Giovanni, i Turchi Ottomani ed
infine gli Italiani che hanno lasciato nel loro passaggio tracce evidenti
della loro presenza, senza tuttavia riuscire ad alterare la grecità
dell'isola, la quale fu unificata alla Grecia dopo la Seconda guerra
mondiale.
Nel passaggio di alcuni questi popoli, oltre a portare un certo benessere,
la spogliarono delle più belle opere d'arte, devastando il tempio di Zeus,
tanto che oggi sono rimasti le tre semplici colonne che si alzano dritti e
maestosi verso il cielo a testimonianza della sua meravigliosa bellezza
artistica Negli anni in cui hanno dominato gli Italiani, hanno messo un
po' d'ordine, specialmente nei siti archeologici, restaurando tutto quello
che c'era da restaurare e portando un certo benessere economico, culturale
e una ventata di modernità.
Proseguendo nel nostro itinerario escursionistico, accompagnati da Kirios
Dimitris, sempre restando all'interno del parco archeologico, attrezzato e
ricco di verde si conserva lo stadio ellenistico del III secolo a.C. nel
quale si svolgevano le competizioni atletiche degli Alioi, la principale
festa degli antichi Rodii in onore del dio Sole. Accanto allo stadio è un
piccolo Teatro di marmo, restaurato dagli italiani, nel quale ancora oggi,
così come durante l'antichità, si svolgono rappresentazioni musicali.
In questa esperienza escursionistica, abbiamo compreso che la cittadina di
Rodi, oltre che turistica è una città d'arte, dove sono conservate opere
molto importanti e significative del passato, per esempio, del periodo dei
Cavalieri ( secolo XIV - XVI e in particolare al tempo del gran maestro
Pierre d'Aubusson, la città si arricchì di architetture di stile tardo
gotico francese, catalano e aragonese. Sul Collachio, il nucleo della
città murata raggruppato alla cittadella classica, sorsero gli edifici
principali, tra cui l'ospedale dei Cavalieri ( fine del XV sec.), il
palazzo del Gran Maestro (XIV sec) e i vari " alberghi delle Lingue" o
residenze ufficiali delle rappresentanze delle varie nazioni. Sempre entro
la città murata, non meno interessante è l'antico quartiere turco, con
tipiche case e moschee, dall'area che si respira, immersi in quelle
stradine molto affollate dai turisti, ti portano dritto nei paesi
orientali, con i loro usi, costumi, musica e colori sgargianti. Mentre la
maggior parte degli edifici antichi è stata restaurata dagli italiani.
Archeologia. L'antico centro di Rodi digrada con una serie di
terrazzamenti artificiali dal monte Santo Stefano alle insenature naturali
che, fortificate e attrezzate, costituiscono i tre porti della città.
L'impianto urbanistico è rigorosamente ortogonale. Sono stati messi in
luce tratti della cinta muraria che circondava l'area urbana e resti delle
torri di guardia. I maggiori ritrovamenti sono comunque localizzati
nell'acropoli, dove é stato riconosciuto, al centro di un complesso
monumentale, il tempio di Atena e Zeus, periptero dorico, di età
ellenistica. Sono stati identificati altri luoghi di culto, tra cui il
dorico tempio di Apollo e una serie di cavità sotterranee dedicate alle
ninfe; inoltre lo stadio, l'odeon e la palestra del ginnasio. Interessanti
da visitare sono le necropoli, che noi per mancanza di tempo non abbiamo
potuto visitare.
Storia. I Turchi tennero Rodi fino al maggio del 1912, quando gli
Italiani, nel corso della guerra itala - turca, la occuparono insieme con
altre isole dell'Egeo. Il complesso dei possedimenti italiani di cui Rodi
era centro, che come abbiamo accennato praora, passò alla Grecia in
seguito al trattato di pace di Parigi ( 1947). Quindi, ci siamo trovati in
uno dei tanti possedimenti amministrati dal nostro Paese. Passeggiando in
quelle Piazze, in quei vicoli caratteristici, con le case colorate di
bianco e d'azzurro, ancora oggi ci sono i segni del nostro passato.
Ovunque fossimo, nei Bar, nei Bazar, nelle botteghe artigiane, siamo stati
accolti con molto riguardo e soprattutto con la nostra lingua.
Specialmente fra gli anziani come noi, è ancora vivo il ricordo degli
italiani che vi hanno lasciato segni del loro passaggio, della loro storia
e della loro genialità. In un certo senso, ci ha dato l'impressione di
essere in una città del Sud Italia.
La storia ci racconta che i vasi di Rodi furono sopraffatti dalla
produzione Attica e scomparvero nella prima metà del VI secolo a, C.
Mentre la pittura locale sembrò unicamente affidata al nome di Protogene,
una scuola rodia di scultura che fiorì in età ellenistica, distruggendosi
per peculiari caratteri di enfasi e di accentuato patetismo, resi
nell'espressione dei volti, nella vivacità dei gesti, nel panneggio mosso
o aderente, ricco di straordinari effetti luministici. Sorta per influenza
di Lisippo, che operò nell'isola, e del suo discepolo Carete di Lindo, la
scultura rodica conobbe il suo periodo più splendido nel II secolo a. C,
con una ricchissima produzione di statue, spesso di proporzioni colossali.
Le opere, prevalentemente in bronzo anche per la scarsità di marmo locale,
e la cui esistenza ci è nota attraverso iscrizioni e fonti letterarie,
sono in parte da attribuire a scuole di vari centri asiatici insulari, che
ebbero Rodi come ideale luogo di convergenza artistica. Assai scarsi sono
gli esemplari a noi giunti, ma alcuni risultano di grande suggestione,
quali la famosa Nikedi Samotracia, e i gruppi di virtuosismo veristico
come il Leocoonte e la rappresentazione del supplizio di Dirce, a noi
pervenuta attraverso la copia romana detta Toro Fornese; notevoli infine
le statue della casa di Cleopatra a Delo ( 139 a.C.
Il Palazzo - Museo dei Gran Maestri
La nostra simpatica guida Dimitris, nel visitare le varie sale del grande
Palazzo-Museo dei Gran Maestri, dove ogni statua, ogni vaso e ogni
cimelio, parla della mitologia greca, dell'arte e della storia antica
della Grecia, ma anche e soprattutto della storia e dell'arte di Omero.
Quasi in tutte le opere, sia quelle esposte nelle teche quanto quelle
esposte nelle sale o nei corridoi, ci raccontano le imprese dei greci
nella famosa battaglia di Troia, che è durata circa 10 anni. Ognuna di
queste opere rispecchia l'arte nel racconto di Omero. La storia ci dice
che egli fu uno dei più grandi scrittori del passato per la sua grande
abilità narrativa che introduce subito nel vivo dell'azione, per spiegarne
poi gli antefatti e giungere alla conclusione con una dosata sequenza di
vividi episodi. Strumenti mirabili ne sono la lingua ionica, ricca nel
lessico e duttile di forme, e il vero esametro che con armoniosa fluidità
si adegua ai vari stati d'animo e alla diversa materia trattata. La
fantasia, che abbraccia la terra e il mare, il cielo e l'oltretomba, ci
spiega la sua potenza creatrice in rappresentazioni chiare e concrete
degli ambienti e del paesaggio e modella i protagonisti delle splendide
avventure, gli dei allo stesso modo degli uomini, con caratteri precisi e
vivi, che resteranno pressoché immutati nella tradizione posteriore.
L'apparente obbiettività della narrazione permeata da una profonda e
particolare sensibilità per il mondo della natura nelle sue manifestazioni
animate e inanimate e per la sorte e le vicende della vita, colta negli
aspetti più vari e segreti. Vivamente suggestiva è poi la naturalezza con
cui il divino si mescola all'umano, il reale al fantastico, non meno che
l'uso frequente delle ingegnose e realistiche similitudini, che animano i
illuminano il racconto. Grande fu la fortuna di Omero, a cominciare dai
tempi antichi, anche se non mancarono fin d'allora detrattori e critici.
Già popolare nel mondo greco durante il VII secolo a.C. il poeta nel
secolo seguente era letto pubblicamente ad Atene durante le feste
panatenee.
Ritornando in dietro nel tempo, veniamo senza volerlo, catapultati
nuovamente sui vecchi banchi di scuola, quando l'insegnante di storia ci
spiegava i vari passaggi della storia omerica con grande maestria. Anche
oggi, che ci aggiriamo quasi confusi e smarriti per i grandi saloni di
questo antico Palazzo Museo, rivediamo le raffigurazioni sui vasi
policromi dei famosi personaggi della storia di Omero.
Stavamo dando uno sguardo retrospettivo alla storia della Grecia. Si, è
proprio così, Adriana ed io, stavamo osservando con molto interesse una
mostra retrospettiva, che ci ha illustrato i momenti più importanti
dell'attività di molti artisti o di un'epoca a noi molto lontana, ma nello
stesso tempo vicina e familiare. Stavamo ammirando le opere dei più grandi
artisti epici dell'antica Grecia. Ad un certo punto, Giovanni, un nostro
amico mantovano, mi ha chiesto: "Ma chi era, in effetti, Omero?" In greco
Hòmèros. Era il primo e il più grande dei poeti epici dell'antica Grecia.
La storia di questo strano personaggio ci racconta che tutto è incerto su
di lui: l'origine del nome, la patria, il tempo e l'autenticità delle
opere.
Leggiamo che per alcuni il suo nome, di etimologia non greca,
significherebbe "ostaggio", per altri " cieco" e per altri ancora
"raccoglitore", ovviamente di canti. Quanto alla patria sette città nella
tradizione ( ma in realtà molte di più) Chio, Colofonie, Itaca, Pilo, Argo
e Atene. La scelta, difficile per gli antichi, rimane tale anche per i
moderni che propendono per lo più per Smirne. Per l'età in cui visse le
date oscillano tra il XII e il VI secolo a C, con la probabilità che la
più attendibile sia quella che lo colloca nel IX secolo. Le vicende della
sua vita, esposte in otto biografie di epoca tarda, sono invenzione di
eruditi fantasiosi. Fu opinione comune nel mondo antico fino all'età
ellenistica che Omero era realmente vissuto e aveva composto, se non
altro, l'Iliade e l'Odissea, quei due poemi etici che il nostro insegnante
moltissimi anni fa, ci spiegava all'ombra di una mastodontica e secolare
pianta di ulivi, per via dei bombardamenti degli aerei degli alleati nella
Seconda guerra mondiale. Noi non siamo naturalmente storici o grandi
letterati ma semplici cultori dell'arte, della letteratura e quindi i
nostri ricordi scolastici sul grande poeta di tutti i tempi, si fermano
qui, possiamo dire che nel campo della cultura ben presto assurse a
simbolo dell'unità etnica e spirituale dell'Ellade e fu considerato il
maestro per eccellenza e il creatore di ogni genere di poesia.
Lasciamo il grande Palazzo Museo, è ritorniamo alla nostra escursione
nella città di Rodi, abbiamo visitato, oltre la città nuova, alcuni angoli
caratteristici e contrade della città vecchia, abitate da pescatori,
artigiani e ambulanti. Abbiamo appreso che il primo centro urbano fu
edificato appunto nella città vecchia nel 4008 a.C. e quando nel 1309 vi
giunsero i Cavalieri di san Giovanni, che innalzarono la loro cittadella
su quelle vestigia antiche. La fortificazione medioevale dei Cavalieri,
dominata dalle torri del Palazzo dei Gran Maestri, rappresenta il cuore
della città vecchia. I rioni nuovi si estendono fuori delle mura. Dalle 11
porte delle mura, la Koskinoù ( di San Giovanni), che porta nel quartiere
Bourg, offre la vista migliore delle difese cittadine. Quelle stradine
affollate e con i coloratissimi bazar, ci ha dato l'impressione di
rivedere il grande mercato della Medina di Tunisi, con le sue eleganti
Moschee, dove si concentra tutto il commercio e soprattutto la folla
rutilante dei turisti stranieri in cerca dei souvenir da portare agli
amici. Era uno spettacolo sfavillante che dal brutto si confondeva con il
chic. La stessa cosa si potrebbe dire per alcune opere d'arte. Da notare
che il cosiddetto "bello di natura", con cui si designano persone, cose,
luoghi, che per i loro effetti sugli animi sono accostate alla pittura e
alle altre arti, non sono arte, perché non sono l'opera di un uomo per
un'altro uomo o meglio non sono l'interpretazione che un uomo ha dato di
quelle cose.
Se per esempio una vetta rocciosa e innevata ci comunica una forte
sensazione, questo è solo un caso, quella montagna non è certo nata per
darci sensazioni; questa sua caratteristica però può essere sfruttata da
un artista, il quale sceglie un punto di vista per lui ottimale, la luce
giusta, quindi la dipinge o la fotografa: il risultato è un prodotto
artistico, dove l'artista si è risparmiato di immaginare tutta la scena,
ma avendo scelto le inquadrature, dando un significato al soggetto, ha
compiuto un processo artistico, usando come tecnica la pittura (più
flessibile per modificare ciò che si vede) o la fotografia (dove l'arte si
concentra esclusivamente nella scelta di luci ed inquadrature).
Leggermente diverso è il caso di belle donne, specialmente quelle greche,
con il loro caratteristico profilo o visi espressivi, in quanto le forme
umane esercitano sugli umani un effetto comunicativo non casuale: ad
esempio le donne, non solo quelle greche, che abbiamo incontrato nella
nostra escursione, ma in generale sono dotate di forme sinuose proprio per
attrarre gli uomini, e il viso di un bambino ispira tenerezza in modo che
siano protetti.
Queste relazioni tra forme umane ed emozioni hanno voluto esplicitamente
dalla natura, in ogni caso una bella donna in se non è arte, finché un
artista non la dipinge, o fotografa, e così via. Quindi, in entrambi i
casi, abbiamo delle "bellezze naturali" che esercitano sugli uomini un
effetto emotivo: non si tratta di arte, ma l'artista può approfittarne per
capire la causa di tali effetti e riprodurre tali cause in un'opera d'arte
al fine di comunicare qualcosa. A noi, per esempio, che ci interessiamo
dell'arte pittorica, nello specifico della pittura in generale, quel
paesaggio, quei colori bianchi e azzurri degli edifici dei villaggi, che
punteggiano le coste dell'isola, quei vicoli che abbiamo definito
carruggi, le persone che abbiamo incontrato e poi il meraviglioso mare, ci
hanno suscitato oltre che grande ammirazione, gioia e bellezza.
Dopo questa pausa di riflessione, sulla bellezza dei luoghi e delle
persone che abbiamo incontrato lungo le nostre escursioni nel centro
antico e soprattutto storico della vecchia città di Rodi, ritorniamo a
parlare dell'antica città di Rodi. Secondo la tradizione, Rodi aveva
diversi nomi: fu chiamata Etrea, Colimbria, Asteria, Ataviria, Macaria,
Oloessa, Ofiussa, Pelaghia, Piliessa, Stadia e Telchinia
Per quanto riguarda quest'ultimo nome, la mitologia greca ci dice che
Nettuno s'innamorò di Alia, sorella degli abitanti dell'isola Telchinon ed
ebbe con lei una figlia chiamata Rodi. Essa si sposò con Ilios (Sole) e
diede il suo nome all'isola. Per questo si narra che dopo i Telchini, Rodi
fu abitata dai figli di lios che erano intrepidi marinai. Poco prima della
guerra di Troia, Tiptolemo, figlio di lios, occupa l'isola consegnandola a
Vutis di Argo che insieme con gli altri Greci partì per Troia.
Questo spiegherebbe il dominio dei Dori. I toponimi ed i reperti
archeologici dimostrano che la Storia di Rodi si perde nei secoli. Alcuni
di questi toponimi sono più antichi dei reperti archeologici finora
trovati, perché risalgono ad un'epoca antecedente ai primi Greci ed
appartengono ad un popolo dell'Asia Minore. Questi sono i nomi odierni di
Ialissos, Lindos, Camiros, Lardana, Ataviris e Lorima. A sera inoltrata,
siamo ritornati nella cittadina rivierasca di Faliraki, dove spirava un
venticello fresco che ci accarezzava il viso. Seduti sotto una fresca
pianta del parco dell'Hotel Pegasos, allo sfondo quella striscia azzurra
del mare degli antichi Achei, nella attesa che ci fosse servita la cena e
ripensando alla bellissima all'escursione a Rodi, abbiamo compreso che
ritornassimo più ricchi dentro.
L’ozio e le
vacanze nell’isola di Rodi
In passato, ci siamo soffermati sulla parola ozio, sull’amicizia e
sulla creatività. Il dizionario della lingua italiana “De agostani”, nella
voce “Ozio” ci da questa spiegazione: “ Stare senza far nulla: vivere,
poltrire nell’ozio: stare in ozio dalla mattina alla sera, mentre un
proverbio popolare lo definisce: l’ozio è il padrone dei vizi, perché non
essendo la mente attiva, la volontà impigrisce e l’uomo, in questa
condizione, è più facilmente indotto a tentazioni o comportamenti
riprovevoli. Noi, che non siamo scienziati ma semplici appassionati della
letteratura e della scienza, riteniamo che non è proprio così. I
biologi,gli studiosi di biologia,che studiano i processi sui quali si basa
la vita, i filosofi e gli psicologi, definiscono l’ozio creativo, perché
stando in ozio non solo il cervello si riposa, ma continua a pensare a
creare. La biologia che studia questo fenomeno, ci dice che la parte
sinistra dell’emisfero cerebrale e sempre in attività. Stando in questo
stato di quiete che i grandi pensatori, gli scrittori, i poeti e i
pittori, pensano come creare le loro nuove opere senza rendersene conto.
L'introspezione, non é
altro che l'analisi, l'esame del proprio intimo, della propria coscienza,
che poi non é altro che un'indagine psicologica di ognuno di noi. In tutto
questo fa parte l'amicizia, il gioco, la creatività, la convivialità, la
socializzazione con gli altri. Tutte queste cose fanno parte dell'ozio
creativo, del tempo libero, specialmente durante le vacanze. Ormai, le
nostre vacanze non hanno confini e limiti di tempo, per noi l'ozio non é
il padrone dei vizi, come si vuol dire, ma un momento di riflessione e di
creatività.
Nell’eterno e dolce far
niente di queste nostre vacanze marine, abbiamo approfittato di questa
stasi per recuperare l'essenza naturale della vita, che i ritmi frenetici
della nostra società stanno seriamente compromettendo. Un filosofo, di cui
non ricordo il nome, ha detto: “Viaggiando, oltre a conoscere il mondo,
conosci gli uomini". Giovanni Iacomini, ci suggerisce come individuare il
miglior modo di impiegare il tempo libero in questo mese che, per la
maggior parte di noi, costituisce l'unica lunga interruzione dell'anno
lavorativo. Per noi, che facciamo parte della “Terza età”, non interrompe
nulla, anzi ci da l'occasione di viaggiare e di oziare nelle località più
belle del mondo e del nostro meraviglioso Paese.
Di solito, nel periodo
estivo e vacanziero ci piace moltissimo camminare sui sentieri dolomitici
in compagnia dei nostri ami del CAI di Mantova, per ammirare le bellezze
naturali e gli infiniti orizzonti, ma oggi non stiamo percorrendo una
delle stupende località montane, un impervio sentiero appenninico o una
cima innevata delle stupende Dolomiti, ma come è successo l’anno scorso,
che siamo sbarcati sulle coste della bella Tunisia, con le sue spiagge
infinite e i tramonti macchiati di rosso e i deserti del Sahara infuocati
dal sole, con i suoi orizzonti senza tempo e dipinti di giallo. Anche
quest’anno con Adriana mia moglie, abbiamo inteso evadere nuovamente,
andando a conoscere un altro Paese, che sorge nel cuore del Mediterraneo,
non perché siamo diventati improvvisamente esterofili, ma soltanto per
conoscere altri lidi, altre persone, altre località, per noi vicini e
anche lontani dal nostro meraviglioso Paese. Nel mese di luglio siamo
sbarcati nell’isola di Rodi, nell’isola più bella e bagnata da quel che
era chiamato il “Mare Nostrum”, il mare degli dei, in quella terra dove si
sono incrociati i destini di diversi popoli mediterranei.
Fin da bambini, abbiamo
sentito parlare di questa località prediletta dal regime fascista in tutte
le manifestazioni importanti che si svolgevano periodicamente sulle Piazze
del nostro Paese. Di quel periodo nostalgico del nostro passato prossimo,
in quella piccola e storica isola bruciata dal sole, oltre ad una rete
stradale ancora in ottime condizioni, alla bonifica di alcune località
malsane, alla cultura e ad un certo benessere sociale, sono rimasti
palazzi prestigiosi che testimoniano la creatività delle nostre maestranze
e il passaggio del regime mussoliniano. Nei momenti d’ozio creativo,
stando sdraiati sotto i caratteristici ombrelloni, costruiti con i rami
delle palme a forma di cono rovesciato, oltre a riordinare gli appunti
sulla nostra vecchia agenda di viaggio, relativi alle nostre escursioni
sull’isola, abbiamo letto gli unici libri che ci siamo portati dietro,
scritti dal giovane scrittore americano Dan Brown, che il pubblico di
tutto il mondo ha consacrato come una delle rivelazioni della prosa
contemporanea. Dan Brown, 42 anni, nato a Exeter nel sud della New
Hampshire, studioso di storia dell’arte e docente di inglese, ma anche
(non tutti lo sanno) pianista e cantante mancato, ha venduto milioni di
copie del suo romanzo più famoso, tradotto in 40 lingue. Fra le polemiche
della critica e degli storici e gli astrali del Vaticano, fa la critica
letteraria più apprezzata degli ultimi anni ha fatto parlare di sé a non
finire. E naturalmente, inevitabilmente, la carta si è fatta celluloide.
Il bravo regista Bon Hard, adolescente un pò imbranato della serie
televisiva Happy daus, che come un vino di qualità sembra migliorare
invecchiando, ha messo in scena la storia con grande maestria e notevole
impiego di risorse, fino a renderla un prodotto di largo consumo che sta
letteralmente spopolando nelle sale cinematografiche in ogni angolo del
pianeta.
Noi non abbiamo ancora
visto il film, ma ne abbiamo letto a suo tempo la critica sui settimanali
e sui quotidiani di quelli che hanno visto la pellicola in anteprima a
Cannes, ma come scrive il corrispondente della “Voce di Mantova”, Paolo
Zelati, sembra che è tutto fumo e niente arrosto. L’attesissimo
adattamento cinematografico del famoso romanzo di Dan Brown da tutti i
punti di vista Ron Howard si sforza di condensare più fedelmente possibile
tutto il contenuto del libro in due ore e mezza di film, ma il risultato
non è all’altezza delle aspettative: piatta, didascalica e quasi mai
emozionante. La pellicola diretta dall’ex Ricky Cunninghan è completamente
scevra da quel respiro classico che pervadeva, per esempio, anche il suo
ultimo film Cinderella Mam, Molto probabilmente, poi, gli attori reclutati
siano di prima scelta. Tom Hanks, Jean Reno e la splendida Audry Tatou si
aggirano spaesati tra Parigi e Londra, risolvendo un enigma ogni dieci
minuti e tentando, inutilmente, di conferire spessore a personaggi da
fumetto. Non è facile, infatti, fornire delle interpretazioni adeguate
quando il personaggio che si è chiamati ad interpretare ha una vita
unicamente “funzionale”, solo il grandissimo Ian McKellen, complice il suo
innato carisma, riesce nell’impresa di risultare interessante.
Per quanto riguarda le
polemiche a sfondo religioso che hanno accompagnato tutta le gestione del
film, di una cosa possiamo essere certi: in Vaticano continueranno a
dormire sonni tranquilli. Il Codice da Vinci, infatti ( prima il libro e
ora il film) non attacca mai il cuore delle istituzioni ( Chiesa Cattolica
o Opus Dei che sia): sono sempre “ alcuni uomini cattivi” ad inquinare un
sistema altrimenti senza macchia. La storia inventata da Dan Brown rimane
curiosa e forse anche accattivante ( soprattutto) leggendola) ma non è in
alcun modo oltraggiosa o tantomeno rivelatrice ( la teoria su Maria
Maddalena, per altro, è da tempo materia di studio universitario); si
limita solamente ad iscenare un fumettone spionistico che, però,
trasportato su pellicola, si sfalda come neve al sole. E se pensate che
l’assunto sul quale si basa la storia sia affascinante – tutta la storia è
la diffusione del Cristianesimo si basa su una grossa menzogna –
recuperatevi, piuttosto, Il signore del male di John Carpenter: avrete
pane per i vostri denti.
Ma per i tanti che
abbiamo letto soltanto il libro, sicuramente il film rischia di apparire
come una ripetizione che in molte scene ha un retrogusto di déjà-vu, come
scrive il giornalista Roberto Riccardi, sulla Rivista “Il Carabiniere”,
del mese di luglio, che noi abbiamo appena letto, ha scritto un bellissimo
articolo sul libro“ Il codice Da Vinci”. Egli così continua dicendo: “
Analizzando i singoli “ingredienti” che hanno trasformato il romanzo dello
scrittore americano, e il successivo film di Rom Howard, in un successo a
livello planetario Egli ha fatto inoltre una bella e simpatica
similitudine, scrivendo: “ In cucina mescolare sapientemente gli
ingredienti è la base per una ricetta di successo. Un insieme di sostanze,
spezie e aromi profumati, un pizzico di sale, e il gioco è fatto”.
“ Da qualche tempo a
questa parte sembra che la letteratura obbedisca in qualche misura allo
stesso meccanismo della gastronomia. Né è un tipico esempio il best
–seller americano Il Codice da Vinci, del giovane scrittore che il
pubblico di tutto il mondo ha consacrato come una delle rivelazioni della
prosa contemporanea”.
Dopo la lettura di
questo romanzo “Il Codice da Vinci” e successivamente “ La Verità del
ghiaccio” dello stesso autore, nel nostro girovagare per le vie di Rodi e
di Lindos, abbiamo visitato oltre ai siti archeologici, le città e i
bianchi villaggi barbicati lungo le coste e ovunque abbiamo conversato con
i cittadini del luogo, che ci hanno dimostrato, dopo 60 anni, il loro
attaccamento per il nostro Paese. Abbiamo scoperto che è ancora vivo il
ricordo del passaggio degli italiani nell’isola di Rodi. Il Kirios
Giovanni, che gestisce a Faliraki un esercizio commerciale, di
abbigliamento e souvenir, che giungono direttamente dall’Italia, ci ha
detto: “Rodi è stata sotto il regime l’ultima provincia italiana e ancora
adesso continua ad esserla dentro di noi isolani”.
Elogio dell’ozio
“L’ozio è tornato di moda. Anzi, per meglio
dire, impazza il "tempo libero" nel quale l’ozio trova fertile spazio. Il
che induce ad affiancare alle varie iniziative per riempire il tempo
libero - per esempio le vacanze organizzate - un’approfondita discussione
tendente a teorizzare i pericoli, ma anche i benefici effetti dell’ozio.
Il giornalista del Mattino di Napoli,
Gianfranco Dioguardi, parlando di questo problema antico, ci dice che
Armando torno ci ricorda Qohélet che nella Bibbia esplorava il tempo per
assegnargli un ruolo per ogni cosa. Celebre è il De Otio di Seneca
e poi Epitteto, che nel suo Manuale si intrattiene sull’argomento
come del resto hanno fatto tanti altri importanti autori, fino ad arrivare
a epoche recenti: Bertrand Russel scrisse un Elogio dell’ozio, e
Mimmo De Masi, nei nostri giorni, discute questo stato dell’essere nel suo
colloquio con Maria Serana Palieri
he lo pubblica in un libro dal titolo eloquente, Ozio Creativo.
Ancora, De Masi compie un’intelligente operazione culturale facendo
rivisitare la grande Enciclopedia di Diderot e d’Alembet in
ventisei voci "riscritte per il Duemila", fra le quali inserisce la parola
"ozio". Gli enciclopedisti ne davano un significato non esaltante: "L’ozio
indica la mancanza di un’occupazione utile e onesta (...) Ci sono (...)
uomini (...) del tutto inutili e passano la loro giornata a fare nulla.
... Visto che lo spirito dell’uomo è portato per sua natura all’attività,
qualora esso non sia impegnato in qualcosa di utile finisce
inevitabilmente per volgersi verso il male. ...) È vergognoso riposare
prima di aver lavorato".
Così, è facile per Armando Torno costruire
nel suo ultimo libro Le virtù dell’ozio (Mondadori, pagg. 131, lire
26mila), una "biblioteca degli oziosi, mentre "riflette su Babele" e sul
fatto che "l’ozio è un lusso (più che un vizio) imbarazzante per chi non
sa apprezzarlo". Perciò, si rifà agli antichi romani per i quali "Otium"
era una "parola molto radicata" nella loro coscienza individuale e
collettiva. La biblioteca si rende necessaria perché "l’ozio, il lavoro e
il tempo dedicati all’uno o all’altro mutano di significato a seconda
delle epoche".
Nel ripercorrere i sentieri del tempo Torno
può rivalutare il significato di ozio dandogli la connotazione positiva di
ricerca del piacere all’interno del difficile mestiere di vivere. Proprio
lo stato di ozio riesce a sollecitare meditazioni con le quali è possibile
dar corpo alle idee, elementi del pensiero così sfuggenti, ma anche così
ricchi di concreti spunti culturali, tanto da poter essere assunti come
espressioni di uno stato di vera e propria libertà intellettuale. Torno
giustamente si sofferma sul fatto che "la libertà è figlia anche
dell’ozio", invitandoci a non dimenticare che "il buon utilizzo dell’ozio
diminuisce anche i vizi. E si rassicurino i politici: nessun dittatore ha
mai amato gli ozi, e nessun ozioso ha mai preso una dittatura sul serio".
Il discorso ritorna sul buon uso del tempo,
un problema che si ripropone drammaticamente nell’epoca della rivoluzione
informatica e della posta elettronica. Ecco allora che Torno rilegge,
dalla sua biblioteca, All’ombra delle fanciulle in fiore di Marcel
Proust e ricorda: "Il tempo che abbiamo quotidianamente a nostra
disposizione è elastico: le passioni che sentiamo lo espandono, quelle che
ispiriamo lo contraggono; e l’abitudine riempie quello che rimane". Così,
può affermare: "Essere bombardati con sessanta o settanta lettere
elettroniche al giorno, come capita ormai a molta gente, equivale a
stritolare la propria giornata con un lavoro in più che produce poco o
niente per noi. Il tempo se ne va e nessuno lo restituisce". Per questo,
nella sua biblioteca ideale, un posto è riservato ai Ricordi
scritti nel 1528 da Francesco Guicciardini, dove si legge: "Abbiate per
certo che, benché la vita degli uomini sia breve, pure a chi sa fare
capitale del tempo e non lo consuma vanamente, avanza tempo assai". Che
poi è più o meno quanto afferma Leon Battista Alberti, il grande
genio dell’umanesimo, che insegnava: "Perdersi adunque il tempo nollo
adoperando, e di colui sarà il tempo che saprà adoperarlo". E Armando
Torno in proposito commenta: "Il buon uso del tempo è dunque uno dei
problemi fondamentali dell’uomo (...).
Naturalmente, parlando di "ozio" non si può
fare a meno di soffermarsi sul suo contrario, il "lavoro". Un capitolo è
significativamente intitolato "Quella gioia chiamata lavoro", ed ecco che
l’autore ripercorre il pensiero dei grandi esploratori di quel modo di
essere nell’esistenza. Si rivisitano Marx e gli utopisti, fra cui Pierre-
Joseph Proudhom ; si incontrano Adam Smith e FredericK W. Taylor, i cui
studi portarono alla realizzazione della fabbrica fordista, tempio
dell’alienazione in grado di annullare la personalità umana. Quella
personalità che potrà ritrovare se stessa proprio attraverso
un’intelligente frequentazione dell’ozio creativo.
Armando Torno con questo divertente,
interessante saggio su Le virtù dell’ozio continua il viaggio lungo
i suoi personali sentieri tracciati nel mondo delle idee. Già si era
interessato di fede e di Dio, aveva esplorato l’infelicità e l’amore, si
era intrattenuto sul tempo e sulla sua storia. Questo suo ultimo libro si
conclude citando L’arte di conversare dell’abate André Morellet, un
tipico esponente del mondo del Settecento. È un’arte che certamente Torno
sa esercitare in maniera davvero brillante, e che costantemente sa
riproporre
Nell’udienza del 20 agosto c.m. da Piazza
San Pietro, il Papa Benedetto XVI, parlando ai fedeli ha lanciato un
monito: “ Non si deve lavorare troppo, perché l’eccesso di attività
conduce alla “ durezza del cuore”, non ha fatto cenno
all’ozio creativo, ma sicuramente era sottinteso. Il Papa ha parlato di
troppo lavoro, non di una normale e anche impegnativa attività lavorativa.
Quello che offre all’uomo dignità e capacità di governo della vita terrena
“ non sono altro che sofferenza dello spirito, smarrimento della
intelligenza, dispersione della grazia”.
Appunti di viaggio dell'isola di Rodi.
Nel pomeriggio del 15 di luglio, sotto un sole caldo, afoso e opprimente,
che persino ti portava via il respiro, quando siamo giunti nel piazzale
Mondatori, che sorge al limite dei verdi e bellissimo giardini della città
d'arte di Mantova, dove gli amici vacanzieri erano nella attesa di
partire, con borse e bagagli, all'ombra degli alti e profumati tigli. Non
so perché, ma quando si parte per le sospirate vacanze si è sempre più
felici, allegri, sereni e gioviali con tutti. Si sa, le vacanze vengono
una volta l'anno e per quella occasione si dimenticano tutti i problemi e
gli acciacchi che ci riserva la vita di ogni giorno. Finalmente è giunto
il pesante torpedone e come spesso succede, tutti ci siamo dati da fare
per occupare i primi posti a sedere. Dal momento della partenza si vedeva
che il nostro viaggio era iniziato bene e sotto i buoni auspici: il cielo
era sereno ed il sole picchiava ancora inesorabilmente. Lasciata la città
di Mantova, con le sue strada, incroci e rotonde intricati e difficili a
percorrerli, il pullman ha imboccato la statale. 10, diretto verso
Cremona, per poi proseguire verso l'aeroporto di Orio Al Serio.
In estate si sa, la campagna padana è meravigliosa e lussureggiante, con i
caratteristici filari di pioppi lungo i fossati, il famoso "mare d'erba"
di manzoniana memoria della campagna lombarda ci fa ricordare che non è
soltanto la regione dai colori velati dalla nebbia, ma è un susseguirsi di
panorami incantevoli e sensazioni suggestive, quasi al limite
dell'irreale. Il paesaggio scorreva davanti ai nostri occhi, come pure i
villaggi e i cascinali isolati con i mattoni rossi dove emergono i valori
fondamentali e semplici di un popolo contadino, quelli che ti stavano
attaccati per sempre. Crescere tra il verde te le fa respirare fin da
piccolo e te li trovi senza che tu possa farci niente, ne devi prendere
atto e basta. Noi non siamo nati in Val padana, ma dopo 50 anni e come se
fossimo, perché abbiamo assimilato nozioni, usi e costumi di questa antica
terra.
Così, il piccolo giardino che circonda quelle case è diventato l'ospitale
dimora di alcuni tipi di piante che si decidono a spuntare nella verde
pianura, un pò si lascia loro lo spazio per crescere ed un po' si modella
e si sceglie secondo un principio di naturalismo ben temperato, ben
giudicato, secondo il loro gusto che è di accoglienza e di ammirazione per
ciò che la natura sa ogni volta riproporre. Anche nel nostro piccolo
giardino attorno alla nostra modesta villetta, al posto di molte piante da
frutta ormai diventate vecchie, è nato un bellissimo angolo di giardino
all'italiana, che Adriana coltiva con tanto amore.
Abbiamo oltrepassato la città di Cremona, posta nel centro della pianura
col contorno lontano delle Alpi e degli Appennini che serve a fondere
insensibilmente l'immensità verde del piano con l'immensità azzurra del
cielo, era paragonata dagli antichi ad una grande nave che solcava un mare
di smeraldo, ed il paragone era suggerito dalla forma oblunga della città,
delineata da forti bastioni, con centro il grande albero del Torrazzo, che
in questo momento è illuminato dai raggi del sole calante. Prima di
svoltare verso destra, ammiriamo la sua meravigliosa bellezza che si
staglia verso il cielo.
La campagna bergamasca non differisce di molto da quella cremonese e
mantovana, ma nelle distesa lombarda appaiono paesi e campagne e
sperdentesi nella grigia lontananza gli argentei nastri dei due fiumi
orobici, il Serio e il Grembo, che recano alla pianura tributi di fertili
acque dalle industriali valli omonime rinchiuse fra la chiostra dei monti
che salgono formando corona alla città verso l'erta catena delle Prealpi.
In mezzo a questa vallata dove scorre il fiume Serio, sorge il
modernissimo aeroporto che si confonde con l'immensa pianura da dove,
questa sera, un volo charter ci porterà nell'isola di Rodi. Quindi,
possiamo dire, se Dio lo vorrà, da questa bellissima Valle padana
infuocata e afosa di questo luglio anomalo, da questo mare d'erba che
ondeggia ad ogni soffio di vento e nei giorni limpidi come oggi, volgendo
lo sguardo a mezzogiorno, l'Appennino si disegna domestico e quasi confuso
sulla linea dell'immensa pianura, di questa lussureggiante Valle padana,
raggiungeremo il sospirato mare azzurro delle isole del Dodecaneso, per
goderci il nostro breve soggiorno sulle spiagge di Faliraki.
Era già buio, quando era decollato il nostro Aerobus. Appena il velivolo
ha preso quota, ha fatto una virata verso destra, sorvolando gli Appennini
parmensi, la città di Rimini, quella di Ancona e la punta di Santa Maria
di Leuca, puntando dritto verso l'isola di Rodi. Dopo tre ore circa di
volo siamo sbarcati nell'isola di Rodi, dove nel passato si sono
incrociati i destini e la storia dei popoli mediterranei. Questo,
sicuramente, é un Paese, diverso dal nostro, per cultura, lingua e clima,
ma soprattutto dove la mitologia greca la indica come la dimora del dio
sole. Noi siamo giunti fin qui, appunto, per trovare il sole, la frescura
del mare e soprattutto un po' di tranquillità, per riposare le nostre
membra stanche. Ne abbiamo veramente bisogno. A tutto questo, ci ha
pensato il CRAL delle Poste di Mantova.
Nel nostro breve soggiorno, abbiamo notatore che il territorio dell'isola
di Rodi, è costituito da coste molto variegate con lunghe spiagge sabbiose
e tante cale, insenature e calette, dove gli antichi dall'Olimpo,
scendevano per trastullarsi fra le fresche onde del mare azzurro. Oltre a
tutto questo, abbiamo ammirato numerosi monumenti che sfidano il tempo e
rimangono a testimonianza della sua antica e millenaria storia, dove si
incrociano tradizioni millenarie.
Abbiamo lasciato la grande Pianura mantovana, con i suoi ombreggianti e
freschi fiumi e i suoi riposanti laghi di virgiliana memoria, e in poche
ore siamo stati catapultati in un altro mondo, nel mondo indiscusso degli
dei e delle favole omeriche, ma soprattutto sulle spiagge bellissime del
litorale di Faleraki, dove il mare azzurro con la sua superba bellezza
domina su ogni casa e poi a sera, quando il cielo si tinge di rosso, ti
regala l'incanto dei suoi magnifici tramonti.
Oh sì il mare, il mare da sempre ha rappresentato per gli uomini di tutte
le epoche e di tutti i continenti il simbolo della libertà per eccellenza.
MARE SILENZIOSO
"Mare silenzioso
E ombre rosse nella notte,
L'aria pesta di odori
Silenzi lezzo di fiume colori.
Il risveglio della carne
Violento e leggero".
Dopo tre ore circa di volo dall'aeroporto di Orio al Serio, il nostro
aereo si stava preparando ad iniziato la manovra d'atterraggio sulla pista
nell'aeroporto di Rodi, ma prima d'atterrare l'aereo ha invertito la
direzione di rotta virando verso destra ed effettuando così un semicerchio
sulla città, abbassandosi notevolmente e posizionandosi sulla linea
orizzontale della pista e dolcemente è atterrato. Fra i passeggeri vi è
stato un evviva, accompagnato da uno scrosciante battito di mani, rivolto
al comandante del velivolo, il quale ha subito ringraziato.
Subito dopo lo sbarco nel moderno aeroporto di Rodi, un moderno pullman a
due piani era nella attesa fuori del complesso aeroportuale, per
trasportare la squadra dei turisti mantovani nella bellissima località di
Faliraki, dove abbiamo trovato bellissime spiagge di sabbia fine,
frammista a piccoli sassi bianchi a breve distanza del nostro hotel
Pegasos Beach. E' un hotel confortevole di recente ristrutturato di sette
piani, circondato da un bellissimo parco verde e aiuole di fiori. Al
centro del quale fa bella mostra di se una grossa piscine olimpionica e
con buone infrastrutture per praticare vari sport, ma quello che conta, è
che vi abbiamo trovato un mare fantastico ed un clima caldo e
sufficientemente ventilato, che potremmo definirlo quasi come quello di
Mahdia Beach, che sorge sulla costa orientale della Tunisia. Anche qui a
Faliraki, come è successo in Tunisia, siamo stati accolti molto bene nel
complesso turistico alberghiero, come pure dal personale dell'Hotel
Pegasos Beach, che sono stati solerti nello scaricare i nostri bagagli e
sistemarli nelle camere assegnateci. Anche gli operatori turistici sono
stati con noi molto gentili e soprattutto premurosi.
Il grosso torpedone, ha lasciato la statale che dall'aeroporto di Rodi
porta dritto nel villaggio di Faliraki. Subito dopo aver superato questa
località, ha svoltato a destra e si è andato a fermare nel grande piazzale
antistante l'albergo Pegasos. Al centro del quale, sorge un grande
monumento a mo di scoglio d'arenaria, sormontato da una bellissima
scultura bianca, probabilmente in marmo, riproducente il cavallo alato di
Pegasos della mitologia greca, mentre della sommità fuoriescono alcune
fontane zampillanti, che alimentano l'acqua nella vasca sottostante dove
nuotano indisturbate le piccole tartarughe, che attirano l'attenzione
soprattutto dei bambini. Di fronte al monumento, in un cippo a forma di
quadrilatero, riporta in diverse lingue, la storia del cavallo alato. Si,
non poteva essere diversamente, essendo l'isola di Rodi una località della
Grecia, il luogo della narrazione favolosa che riguardava gli dei, gli
eroi e l'origine degli antichi popoli mediterranei. Oggi, appunto, ci
troviamo in una terra antica dove si sono incrociati i destini di molti
popoli mediterranei. E' senza dubbio é la terra dove è nata la vera
democrazia, ma soprattutto la filosofia e dove fiorirono le arti ed è
ancora vivo il mito degli dei e degli eroi omerici.
Appena messo piede nel grande piazzale e ammirando prima di ogni cosa il
grande monumento dedicato a Pegasos, ci siamo domandati, e come noi,
sicuramente altri turisti che giungono per la prima volta in questa
bellissima località marina e soggiornano nell'albergo Pegasos, hanno
ammirato il cavallo alato di Pegasos, di cui parla la mitologia greca. Ne
abbiamo letto la storia di questo favoloso cavallo alato. Secondo la
tradizione, sembra che Pegasos, nacque dal cadavere della Gorgonia Medusa,
uccisa da Perseo. Catturato da Bellerofonte mentre si abbeverava alla
fonte Pirene, gli servì come cavalcatura nella lotta contro la Chimera, le
Amazzoni e i Solimi ( Lici). Ma quando l'eroe volle con lui salire fino
all'Olimpo, punto da un tafano lo disarcionò facendolo precipitare. In
seguito fu da Zeus adibito al trasporto dei fulmini. Secondo la tradizione
numerose sorgenti, fra cui la fonte Ippocrene sull'Elicona, erano sgorgate
da un colpo del suo zoccolo sul terreno.
La simpatica e gentile dhespisis Alessandra, che nella nostra lingua
significa signorina, che era di turno alla Reception dell'Hotel Pegasos,
su nostra richiesta, gentilmente ci ha fornito una copia della storia del
cavallo alato di cui prende nome appunto l'hotel stesso.
Nelle nostre ricerche, abbiamo appreso che, con il nome in latino Pegasus,
sta a significare la costellazione boreale, prossima al polo e legata al
mito di Andromeda e Perseo visibili nella stessa zona celeste. Non molto
dissimile come aspetto delle due Orse, ma molto più dissimile come aspetto
delle due Orse, ma molto più estesa di entrambe, è caratterizzata dal
grande Quadrato di Pegaso formato dalle quattro stelle brillanti Markab a
Pegasi), Scheat (B), Algenib (y) e Sirrah, quest'ultima è, in realtà,
Andromedae e pertanto non appartiene alla costellazione. Markan e Scheat
tracciano qui esattamente il cerchio orario di ascensioneretta 23/h. A est
della costellazione si trova l'ammasso globulare catalogato da Messier col
numero 15.", ma questa è un'altra cosa.
Incominciamo con il dire, che oltre alla cordialità dei rodensi, che in
fondo possiamo definirli amici da sempre e lontanissimi parenti, per via
della Magna Grecia, il cibo era più che buono, direi ottimo, c'era
soltanto l'imbarazzo della scelta. Molti cibi contenuti nella tavola calda
- grill, erano di nostro gusto e taluni, come gli spaghetti con il
pomodoro o al ragù, potevano in un certo senso, essere quasi equiparati a
quelli serviti nei nostri ristoranti, ma spesso si notava la grande
differenza nel sapore: mancava il formaggio reggiano, che dal tocco finale
al piatto tradizionale di noi italiani. Con questo non vuol dire che sul
tavolo mancasse il formaggio, anzi ce nera a sufficienza ed era ottimo e
di loro produzione. Nella colazione del mattino, altre ai dolci greci,
quello che era veramente speciale era lo yogurt fresco, confezionato con
il latte di capra. La "mussata agli spiedini": il famoso piatto
tradizionale greco, che altro non è che la carne di capra allo spiedo,
erano veramente ottimi, come pure gli spiedini di maiale o di tacchino.
Quasi tutte le sere, c'era lo chef che preparava il pesce alla griglia,
che era pescato durante la notte e quindi era freschissimo. Insomma, non
possiamo lamentarci. Si è notata una grande differenza con la cucina
dell'albergo di Mahdia Beach della Tunisia. Nella cucina di Pegasos,
abbiamo riscontrato che ha una grande affinità con la vera cucina
"mediterranea", la stessa cucina che si pratica da sempre nel Sud del
nostro Paese, e che oggi, va molto di moda ed è consigliata dagli
specialisti della nutrizione umana. Insomma, il cibo che consumavamo
nell'Hotel, potremmo definirlo dietetico su ogni punto di vista.
La piastra, dove erano cotti gli spiedini o il pesce era situata a fianco
al bancone della tavola calda e il profumo olezzante si diffondeva nella
sala da pranzo Quel profumo così caratteristico, mi ha fatto ritornare
indietro nel tempo, e mi ha fatto rivivere la bellissima esperienza
escursionistica sull'altopiano impervio e selvaggio del Golgo, dove gli
amici sardi facevano arrostire la capra e il "porceddu" allo spiedo che
profumava di mirto e di erbe aromatiche. Quel luogo solitario e
misterioso, circondato da mastodontici olivastri, dove nei tempi lontani e
bui della storia, sorgevano i famosi nuraghi, che probabilmente furono
costruiti dagli antichi greci, mentre qui sulle colline che sovrastano la
costa stupenda di Rodi, non ci sono i nuraghi, ma é punteggiata dai famosi
mulini a vento, naturalmente non si tratta di quelli che Don Chisciotte de
la Mancia, li aveva scambiato per giganti e li combatteva con la spada
tratta in sella al suo destriero e seguito dal suo fedele scudiero Sancio
Panza, ma dei veri mulini a vento che oltre nel porto di Rodi, sorgono
anche sulle alture del porto di Lindos, e sul mar Egeo.
Ritornando a parlare della Sardegna, diremo che quella del Golgo, é la
montagna incantata che sovrasta il piccolo borgo marinaro di Baunei di
Santa Maria Navarrese con il suo mare azzurro e profondo. Sembra che
Baunei, primitivo centro di pastori, deve probabilmente il suo nome al
greco Baynos, che significa fornace per fondere i metalli, dall'uso che di
queste si faceva nella zona. La toponomastica laicale è, infatti, ricca di
rimandi etimologici alle fornaci (es Ferrola), e non è improbabile
che le stesse " piscine" di Golgo prima che una funzione religiosa ebbero
un impiego come vasche di raffreddamento del metallo fuso, che vi era
immerso utilizzando la rampa in pietra ancora oggi riconoscibile, dove
vanno ad abbeverarsi gli asinelli selvatici, le capre e i maiali allo
stato brado. Secondo il Lilliu nella zona sembra confermata l'esistenza di
una o più officine artigianali di fusione e di modellazione del bronzo, ad
un livello tecnico elevato praticato dagli antichi artigiani greci.
L'accesso naturale dal retroterra alla valle di Golgo avviene attraverso
Genna Arramene (Porta del rame), e può essere non casuale
l'attinenza con un componente del bronzo, anche se non è da scartare
l'interpretazione secondo cui il rame cui si riferisce il toponimo sia il
colore assunto dai monti al tramonto (in analogia con la Serr'e lattone).
In bronzo, comunque, erano alcune fra le più famose sculture della cultura
nuragica (Arcieri in riposo, Soldato con scudo sulle spalle e stocco in
mano. Lampada con scimitarra nel piattello e manico di protone bovina.
Navicella con protone bovina), tutte rinvenute nella Piana di Golgo, e
ancora di recente non del tutto infrequenti sono i ritrovamenti casuali di
manufatti per uso muliebre sempre di bronzo. Le sculture votive di Golgo
sembrerebbero inserire l'area baunese all'interno di movimenti culturali
di scambio avvenuti fra sardi e gli antichi tirreni, probabilmente
attraverso l'accesso a mare di Portu Sisini (l'attuale Cala Giunone).
Quindi e non v'è dubbio, che sulla piana di Golgo, operarono tecnici
specializzati greci per la fusione del bronzo. Quindi, per risolvere
l'enigma di chi abbia inventato per primo la famosa "mussada" greca o il "porceddu"
arrosto sardo. Sono stati i greci che hanno introdotto in Sardegna questo
gustosissimo piatto, oppure i greci l'anno asportato al loro paese di
provenienza? Il fatto sta, che il procedimento è lo stesso, come pure la
bontà e il gusto del piatto. Le tradizioni, sono il ricordo vivo di fatti,
di valori culturali e di usanze antiche, tramandate di generazione in
generazione fino a mantenersi inalterati ai nostri giorni. Nel fresco
della sera, stare seduti di fronte a quel meraviglioso mare degli dei che
sembrava un dono del cielo, quando improvvisamente la luna e le stelle
tempestarono il buio della notte di mille luci scintillanti, sembrava di
ascoltare una musica celestiale portata dal susseguirsi delle lente e
fresche onde del mare, rivolgendomi a Adriana mia moglie, che era seduta
accanto a me, le dissi: La senti anche tu questa musica!
Quella notte placida e serena, un legno con la vela bianca solcava
lentamente il mare. Vedendo quel legno spinto dal vento mi è venuto in
mente Ulisse: l'eroe omerico che faceva ritorno nell'antica isola ionica
di Itaca, il regno dell'eroe. Il poeta Lucio Toma, nella sua poesia "La
Vela Bianca", parlando dell'eroe omerico così faceva a scrivere:
Una vela bianca sul mare
….C'era una torre sul mare,
e un serpente spaventato
che disse: " Ulisse tornerà
con la sua nave senza schiavi,
per mettere sul trono
il figlio, e lui, accompagnato
da un fischio grave
e allegro di flauto,
scomparirà tra i sassi
bianchi delle sue collie….".
(Lucio Toma).
Dopo questa semplice divagazione storica, ritorniamo a parlare del borgo
di Faliraki, che si potrebbe definire il tempio del divertimento, questo
splendido villaggio marinaro dalle case colorate di bianco e d'azzurro
come il mare, offre una vita notturna e sport acquatici di ogni tipo; è
pertanto prediletto dai giovani. All'interno dell'Hotel Pegasos Beach, vi
era una squadra di bravissimi animatori, che si esprimevano anche nella
nostra lingua, che ci facevano trascorre in allegria le lunghe e fresche
serate nel parco dell'albergo dove si trovano le bellissime piscine. Il
Bar ristorante, che sorge nel centro del parco, da dove con lo sguardo si
abbracciava l'intero golfo azzurro di Faliraki, era il luogo ideale che
Adriana ed io, preferivamo sostare. Era il nostro angolo preferito, dove
il barista Kirios Basilio, ogni giorno dopo il pranzo, ci serviva una
buona tazza di caffè all'italiana. Dobbiamo dire che oltre all'amico
Basilio, anche il resto del personale era gentile e cortese con noi
italiani. Per quindici giorni, tanto è durato il nostro soggiorno
all'Hotel Pegasos, devo affermare con grande piacere di esserci trovati
come a casa nostra, perché in quel luogo del silenzio e della bellezza,
regnava soprattutto l'amicizia. Anche la sera, nelle nostre lunghe
passeggiate, abbiamo incontrato molte persone del luogo, con i quali ci
siamo a lungo intrattenuti e da quegli incontri, abbiamo compreso che gli
italiani fossero ancora amati e rispettati dal nobile popolo greco e nello
specifico di quello della magnifica costa che comprende il golfo di
Faliraki. Un signore anziano del luogo, con il quale abbiamo fatto quattro
chiacchiere davanti al suo negozio d'abbigliamento, che parlava molto bene
la nostra lingua, ci ha detto: " Noi eravamo l'ultima provincia d'Italia
nel vecchio regime, oggi non è cambiato nulla. Nella mia abitazione, come
in tante altre del paese, conserviamo il tricolore e seguiamo tutti gli
avvenimenti sportivi e tifiamo per la Juventus, anche se oggi è stata
retrocessa in serie B. Siamo contenti quando vediamo dei turisti italiani
nel nostro Paese". Grazie amico! Chissà se avremo modo di rivederci nel
prossimo futuro.
La nostra hostess, che rappresentava la Compagnia Turistica
"Mediterraneo", che ci attendeva nel grande atrio dell'Hotel Pegasos, ci
ha parlato a lungo sulle escursioni nell'isola di Rodi, dicendo che la
zona della città è la più divertente ed animata, con numerose taverne e
ristoranti tipici del luogo dove ascoltare musica greca o per trovare
informazioni sulle discoteche più vivaci e frequentate, nel capoluogo che
è ricco di fascino, la città vecchia, il palazzo dei Grandi Maestri, la
fortezza dei Cavalieri dell'Oriente di San Giovanni, i bei palazzi
medievali e quelli fatti erigere dal regime mussuliniano, o ancora la
città nuova fino al porto di Mandraki, dove nell'antichità fu eretto il
Colosso di Rodi in onore del dio sole, sono mete da non perdere se
intendete effettuare qualche escursione a Rodi. Se poi volete andare
nell'entroterra la valle delle farfalle e i monasteri di Tsambika sono
tappe irrinunciabili. Assolutamente da non perdere il pittoresco villaggio
di Lindos, dove troverete resti dell'Acropoli; famose sono le ceramiche
prodotte artigianalmente, come anche i merletti, le tuniche e i vestiti
ricamati, i tipici tappeti di Afandou, i lavori di legno d'ulivo e i
monili d'oro. Una gita a Rodi è ideali per assaporare la bellezza della
natura, posso consigliare un soggiorno a Lindos, uno dei luoghi più
suggestivi dell'Egeo, a circa 50 km da Rodi. Nei ristoranti e taverne
tipici potrete gustare le specialità della cucina greca, dalla famosa
moussaka agli spiedini, ai dolci ricchi di miele e mandorle. Se vi
fermerete a Rodi e siete un amanti del buon vino provate lo Ymettos di
Lindos e il Vino dei Cavalieri. Le principali località turistiche sono
collegate a Rodi da un efficiente servizio di autobus. Infine non
stupitevi se sentirete parlare spesso la nostra lingua, poiché molti tra i
meno giovani l'hanno imparata a conoscere durante il trentennale periodo
di dominazione italiana. Si, è vero, l'hostess aveva veramente ragione
nell'indicarci i luoghi più belli che questa terra antica e meravigliosa.
Senza renderci conto, siamo sbarcati nel tempio della mitologia greca.
Noi dell'Hotel, continua l'hostess, vi possiamo offrire numerosissime
escursioni sull'isola e nei suoi dintorni. Tra queste una di particolare
interesse è quella sull'isola di Symi, soprannominata perla dell'Egeo
(l'escursione prende una giornata intera). In circa due ore di navigazione
in battello si raggiunge l'isola di Symi, isola greca dei pescatori di
spugne naturali. Dopo lo sbarco si farà visita ad un antico monastero
ortodosso, per poi proseguire verso il capoluogo dell'isola, incantevole
paesino che si affaccia su un piccolo porticciolo. A questo punto potrete
decidere se rilassarvi in una delle calette rocciose e immergervi in acque
limpidissime, oppure assaggiare in una delle taverne del paese i
gustosissimi gamberetti di Symi
Durante le nostre vacanze avevamo solo l'imbarazzo della scelta su quale
tipo di vacanza preferivamo trascorrere, le possibilità sono state
innumerevoli a partire da un soggiorno all'insegna del relax di giorno e
del divertimento sfrenato nei locali notturni, oppure potrete scegliere
tra le numerose escursioni sull'isola e nei suoi dintorni. Le nostre
vacanze nell'isola di Rodi, hanno fatto del nostro soggiorno un'esperienza
indimenticabile. Come abbiamo avuto modo di scrivere, siamo sbarcati qui
in questa antica terra di Grecia, dove fiorirono le lettere, le arti e la
filosofia, ma soprattutto è la terra della mitologia e della moderna "
Democrazia", ma è anche la terra del leggendario Ulisse che fu Re di Itaca
ed eroe del ciclo troiano. Il condottiero Ulisse appare come l'eroe più
umano della mitologia greca, in quanto dotato delle qualità peculiari
dell'uomo: l'intelligenza, la curiosità, l'abilità, la sopportazione, la
prudenza, la spregiudicatezza nell'azione e nello stesso tempo l'amore
della patria e della casa e l'ardore del sapere. Per queste sue grandi
qualità, il grande poeta Dante Alighieri, lo immortalò nel XXVI esimo
Canto dell'Inferno.
"Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza"
Si racconta che la bellissima Penelope, la moglie di Ulisse, per la sua
bellezza fu paragonata alla Dea Afrodite, la Divinità dell'amore e della
bellezza, emersa, secondo una tradizione antichissima, dalla spuma del
mare. Ebbe santuari famosi a Cipro e Citera. Simboleggiò per i Greci anche
la fecondità (come già la dea "Istar" per i babilonesi e la dea "Astarte"
per i fenici) e, secondo un'interpretazione più tarda, l'amore sensuale.
Afrodite è simbolo della bellezza muliebre. Presso i Romani, Afrodite fu
identificata con la dea Venere.
Nel corso delle nostre vacanze sulle spiagge di Faliraki, abbiamo
effettuato quasi tutte le escursioni che ci aveva indicato l'Hostess. Per
primo, abbiamo visitato la cittadina di Lindos e successivamente la città
bellissima di Rodi, e per finire, la valle delle farfalle. Questa
località conserva ancora oggi il suo tradizionale carattere rurale.
L'attrazione più celebre della zona è però la Valle di Petaloudes, detta
appunto delle farfalle, famosa per la sua singolare flora e fauna, è senza
dubbio un raro ambiente naturale in cui si riproduce la farfalla
Panaria Quadripunctaria. In quel luogo ameno, di grande gradevolezza e
serenità, abbiamo trovato moltissimi turisti da ogni parte dell'Europa,
che come noi hanno goduto delle sue rare bellezze, percorrendo sentieri
creati appositamente tra la fitta vegetazione ed accanto ai queruli
ruscelli, dove svolazzavano le farfalle colorate. Percorrendo quei freschi
sentieri, ci sembrava di percorrere uno degli angoli più belli dell'Umbria
o della verde Toscana, che come questa valle delle farfalle, vantarono una
natura incontaminata, un passato ricco di storia, d'arte, oltre che un
fiorente artigianato.
Di ognuna di queste splendide località visitate, cercheremo di riportare
in un altro capitolo le nostre impressioni.
Per il momento mi fermo qui, tra cielo e terra, ma vorrei tenere in mano
una coppa di cristallo vicino alla tiepida luce di'una candela, per
rivedere in ogni momento ogni angolo di questa meravigliosa isola che
Zeus, non a torto l'ha definita l'isola del sole.
I mondiali di calcio.
L'identità del calcio italiano, è ritornato a far parte della cultura del
nostro Paese. Dopo 24 anni, gli azzurri sono risaliti trionfatori sul
podio più alto del proscenio del grande, meraviglioso e storico "Olympiastadion"
di Berlino, fatto costruire da Hitler nel 1936, dove si sono svolte
Olimpiade, volute appunto dal dittatore nazifascista, per dimostrare al
resto dell'Europa la sua grandezza politica. Dopo 70 anni, il vecchio e
glorioso stadio è stato restaurato ed ha accolto in un tripudio di folla,
di colori e di bandiere gli Azzurri: la nazionale italiana e quella
francese, per disputare il più grande incontro calcistico della storia del
calcio italiano ricordi. E' stata un'apoteosi, un avvenimento senza
precedenti, una gioia e una felicità immensa che tutti gli sportivi e non
solo, abbiamo provato nel fischio finale del grande e indimenticabile
incontro calcistico dei mondiali di Berlino.
Adriana ed io, come milioni e milioni d'italiani, siamo rimasti a casa ed
abbiamo seguito il grande incontro davanti al televisore domestico. Tutti
gli italiani eravamo tutti titubanti di fronte al televisore ed ai
maxischermi istallati in tutte le piazze delle grandi città, come Roma,
Torino, Milano, Trieste, Palermo e anche nelle piccole città, come la
nostra bella Mantova e nei paesi e nei borghi sperduti d'Italia. Abbiamo
molto sofferto e nello stesso tempo abbiamo anche gioito, urlato e
imprecato contro quel pallone che non voleva entrare nella rete. Alla
fine, abbiamo detto Grazie, ancora grazie, per sempre grazie ragazzi,
siete stati Mitici. "Non abbiamo parole, non ne abbiamo più e se non ci
tornassero per il resto della nostra vita poco ci importerebbe. Siamo
pazzi di gioia dopo un'attesa infinita: ventiquattro anni e tre giorni,
centoventi minuti e cinque calci di rigore perfetti. Pirlo, Materazzi, De
Rossi, Del Piero e Fabio Grasso, che è stato definito dai critici l'uomo
della provvidenza, il ragazzo che non ha paura mai, il gregario che già ci
aveva salvato con l'Australia e lanciato nell'ultimo minuto del secondo
supplementare davanti alla Germania. E' stato Grosso a tirare per ultimo,
lui a regalarci la certezza di essere Campioni del mondo per la quarta
volta, su diciotto, nella storia del calcio. Adesso nell'albo d'oro meglio
dell'Italia c'è solo il Brasile con cinque titoli. Uno ci viene sottratto
proprio dai brasiliani e proprio ai calci di rigore, a Pasadena nel 1994,
che nessuno ha mai dimenticato e sicuramente non dimenticherà mai. Allora
sbagliarono Franco Baresi, Daniele Massaro e Roberto Baggio. Stavolta dei
nostri nessuno Trezeguet per la Francia ( traversa) dopo che i blues
avevano perso per strada due specialisti: Henry, falciato dai crampi e
Zidane, abbattuto da un istinto suicida. Sua immensità, all'ultimo atto
assoluto di una carriera superlativa, si è macchiato di un'infamante
testata a Materazzi. L'arbitro Elizondo, così come aveva fatto per Rooney,
prima di decidere di cacciarlo si è fatto aiutare dalla moviola. Fuori il
capitano, la Francia ha smesso di pensare, ha messo di vivere e
naturalmente di vincere. Seguendo gli ultimi brandelli della partita, ci
sembrava di vedere la squadra "Brancaleone" allo sfascio, era come una
nave in mezzo alla tempesta che stava andando alla deriva. Il resto è
storia, la storia del calcio mondiale che ha visto sul grande podio gioire
gli azzurri e noi con loro, Si, è proprio così, i nostri ragazzi
esultavano e pure la grande folla del vecchio stadio di Berlino, esultava
e gioiva, faceva festa, come pure milioni e milioni di italiani nel suolo
patrio e disseminati in ogni angolo, in ogni borgata, in ogni paese o
città del Mondo. Anche noi, nell'intimo della nostra casa, abbiamo urlato,
gioito e brindato alla grande vittoria degli Azzurri.
Il Capitato Cannavaro.
Questa mattina al nostro solito Bar del paese, sfogliando i vari
quotidiani e quelli sportivi, abbiamo visto che la figura del capitano
Fabio Cannavaro, campeggiava sulla prima pagina di tutti i giornali e non
potrebbe essere diversamente, mentre alza al cielo quella Coppa da tempo
agognata, desiderata, anelata e sognata. Il cronista Giancarlo Padovan,
nel suo editoriale su " Tuttosport", ha fra l'altro così scritto: "Adesso
alzala quella Coppa, capitano. Alzala, Fabio, prima che i tuoi compagni te
la strappino dalle mani. Alzala e farla vedere a tutti. Mostra come un
popolo di pizzaioli e pastasciuttari, emigranti e catenacciari,
cavernicoli e inquisiti ha saputo guadagnare il rispetto del Mondo. Alzala
e farcela toccare, siamo tutti lì ed è impossibile che non ci senti, che
non ci sentiate. Vi stiamo premendo, vi stiamo tutti addosso. Siamo stati
con voi ogni minuto, ogni secondo fino alla fine e adesso non ce ne
vogliamo più andare dal centro dell'universo. Alza quella Coppa, Marcello.
Non sei simpatico e non emani affetto. Però quella Coppa è tua.
Soprattutto tua". Questa è stata una bellissima frase", che come le altre
che abbiamo letto questa mattina, sono uscite dal cuore e dalla penna
dell'opinionista e grande conoscitore del calcio moderno Giancarlo Padovan,
che ha scritto nei confronti del mister.
Nel palco d'onore dell'Olympiastadion, oltre al presidente della
repubblica francese Jacques Chirac, abbiamo visto il nostro Presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano, accompagnato dal ministro dello Sport
Melandri e tanti altre personalità politiche e del calcio nazionale e di
quello mondiale, insomma, c'erano tutti i grandi della Terra, a seguire
quell'incontro che non finiva mai, che ci ha fatto penale e gioire nello
stesso tempo. Il nostro Presidente, appena intervistato dal giornalista
Goria, ha detto: " La Nazionale ha risvegliato in tante persone il gusto
di appartenere all'Italia"
IL GRANDE NONNO.
Il giornalista Marco Sonetto, parlando del Presidente Napolitano, così
scrive:
"In fondo il Grande Nonno della nostra Italia ci ha preso tutti per mano:
cantando la patria, molto più di un inno. Giorgio Napolitano, presidente
in blu di una Repubblica azzurra. Il discorso di partenza - alla Nazionale
e alla nazione - era stato intessuto dopo le 12: sull'erba del tristarello
Momm- senstadion, in periferia, dove gli azzurri avevano appena finito di
corricchiare. Napolitano era decollato da Ciampino con un Falcon da 14
posti dell'Aeronautica militare, accompagnato dal figlio Giulio, dal
ministro dello Sport, Giovanna Melandri e dai suoi più stretti
collaboratori. A Berlino lo attendeva l'ambasciatore Antonio Puri Purini.
E nel pomeriggio un ricevimento all'hotel Intercontinentale, con il
segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan e tutti i capi di
Stato radunati dal pallone. Tra cui il presidente della Repubblica
tedesca, Hoerst Koehler, della Francia, Jacques Chirac e del Sud Africa,
il Paese che ospiterà i Mondiali del 2010. Thabo Mberki. Prima di sedersi,
uno vicino all'altro, in prima fila all'Olympiastadion. Un presidente in
blu: l'abito. Ma nel sole di mezzogiorno si stagliava molto meglio la
cravatta azzurra. E pure la sua gentilezza nel mettersi in posa per i
fotografi, mostrando la maglia che gli aveva regalato Lippi: con scritto
Napolitano, sopra al numero di Totti, il 10. Il commissario federale,
Rossi, e il presidente del Coni, Petrucci, osservavano discreti. La
Melandri era la più allegra. Tra Buffon e Nesta, Napolitano ha trovato
infine la collocazione perfetta: in mano anche un pallone autografato
dagli azzurri. Napolitano, quando ha parlottato col Ct, prima della
partita con i cronisti. Un presidente anche spiritoso. Diplomatico al cubo
sugli scandali. E scaramantico, da buon napoletano. Ma anche arciere
provetto.
Il giornalista Marco Sonetto, tra l'altro, si sofferma sulla personalità
del nostro presidente: un buon napoletano verace, che si ferma a
conversare volentieri con tutti, ma soprattutto è un uomo di spirito.
Attraverso i filmati che ha mandato in onda la televisione, lo abbiamo
visto parlare con gli azzurri, specialmente con Cannavaro che gli ha
chiesto se davvero è di Fuorigrotta, un quartiere che conosce molto bene,
dove per molti anni è stato eletto deputato. Ai giocatori nei spogliatoi,
ha detto loro che sono stati straordinari. Speriamo che la vittoria arrivi
e sia di buon auspicio perché l'Italia vinca anche in altri campionati
molto difficili. Quelli della competitività e del sistema Paese".
DEL PIERO E BUFFON
Ritornando all'incontro calcistico tra gli Azzurri e i francesi, poco
prima del gran finale abbiamo visto Del Piero che si è avvicinato a Buffon,
e sicuramente tutti ci siamo domandati, ma che cosa gli sta domandando?
Oggi, leggendo la Gazzetta dello Sport, fra le righe dell'articolista,
sono venuto a conoscenza che cosa gli ha detto:
" Gigi, abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare. Questa è la storia.
Non potevamo chiederci nulla di più".Diceva il vero: gli azzurri hanno
fatto tutto quello che potevano, fino all'ultimo respiro, nostro e loro,
sì, proprio come ci racconta il cronista Carlo Verdelli. E quando il tiro
di Grosso ha chiuso i conti, e quando Cannavaro, dio lo benedica, ha
alzato la Coppa, chissà quante persone hanno pensato che sì, il calcio può
essere una cosa meravigliosa, una magnifica consolazione. Uno poi si
chiede che cosa è il calcio. "E' un Paese intero unificato come per
incanto: nient'altro, nessun altro potrebbe aspirare a tanto. Puoi
chiamare sport, una cosa così? Puoi dire che infondo è soltanto un gioco?
E perché allora un gioco arriva là dove la passione politica o quella
religiosa, i divi del rock o del cinema né anche si sognano? Una nazione
che si ricorda di soprattutto di essere tale solo grazie alla sua nazione,
agli azzurri di Germania: questi sono uno dei tanti misteri gaudiosi di
questi ore. Godiamocelo come tale, un mistero per una volta senza ombra.
Carlo Verdelli - ha tra l'altro scritto - "Questo mondiale ci ha insegnato
molte cose semplici. Che il Calcio è un gioco di squadra per esempio, e
che undici uomini motivati allo stesso obiettivo e ben assemblati volgendo
al più di undici fuoriclasse che giocano ognuno per conto proprio. Che la
forza di un gruppo si misura anche è soprattutto dalla capacità delle
riserve di non fare casino quando non tocca a loro di essere viceversa
irresistibili appena arriva la chiamata del Ct.
ZIDANE, CHE BRUTTA FINE.
Quasi alla fine dei tempi complementari, abbiamo assistito ad un'azione
non degna di un grande calciatore come è Zidane. L'espulsione nei
supplementari sancisce il triste addio di un genio del calcio mondiale per
una testata rabbiosa a Materazzi, per questo atto scorretto l'arbitro
Horacio Elizondo gli ha sventolato il cartellino rosso a Zinedine Zidane,
quindi è stato espulso e la squadra francese è così rimasta in 10 uomini.
Leggiamo in un articolo di Massimo Franchi, che la gigantografia tornerà
presto a luccicare da un grattacielo sulla Corniche Kennedy di Marsiglia,
non lontano dal Velodrome, E' stata temporaneamente rimossa solo perché il
mistral e la salsedine l'hanno corrosa. Ora è in via di restauro. L'icona
di Zidane è quella di uno dei più grandi giocatori di sempre nella storia
del calcio. Come Pelé, Maratona, Beckenbauer, Platini, Bobby Charlton.
Zozou chiude definitivamente e irrevocabilmente la carriera. Una Coppa del
Mondo l'aveva già conquistata otto anni fa autograffandola con una
doppietta di testa nella finale di Parigi. Ha messo la firma anche ieri
sera all'Olympiastadium di Berlino trafiggendo Buffon con un rigore a
cucchiaio dopo appena 6 minuti di gioco, chi avrebbe osato tanto nella
partita più importante per qualsiasi giocatore? " Zizou Zizou ", urlavano
i fans transalpini. Una partita da leader, da vero capitano, da campion e
a tutto tondo, con Gattuso che ha fatto il possibile per soffocarne gli
estri. Zizou, però macchia la sua prestazione con un'espulsione decretata
appunto dall'arbitro Elizondo per una testata rabbiosa a Materazzo. Quell'atto
così incivile, ha rattristato gli animi di tutti noi telespettatori e dei
presenti nel grande stadio di Berlino. Ci ha lasciati tutti di stucco e
senza fiato, nessuno si sarebbe aspettato da un grande campione come
Zidane, un atto del genere.
CHE COSA GLI AVRA' DETTO?
Navigando in Internet e sfogliando le pagine del " Corriere della Sera",
de "La Stampa di Torino e di Tuttosport, abbiamo appreso molte notizie sul
caso Zidane e Materazzi, un'immagine triste di un finale del Mondiale di
Calcio. La nostra ricerca ha dato questi risultati: "Quale immagine di
questa finale resterà fra vent'anni, quando nelle altre nazioni non
ricorderanno più chi l'aveva vinta e in Francia faranno finta di esserselo
dimenticato?
A) Il "sììììììììììì" squarciagolato dal timido Pirlo, non appena l'ultimo
rigore azzurro gonfia la rete.
B) Il prodigioso materializzarsi di Mastella sul podio della tribuna
d'onore un attimo dopo
C) La testata di Zidane a quel brillante conversatore di Materazzi.
Come capita sempre con le cose brutte, è probabile sia proprio la C) a
passare alla storia. Fin da ieri, non avendo niente di più serio da fare,
il mondo ha preso a interrogarsi su quale provocazione abbia potuto
innescare il germe della follia che abita nel fuoriclasse francese.
Perché, se Zidane non è un santone, neanche Materazzi è un santino. In
Brasile hanno scomodato persino i non udenti per ricostruire attraverso i
"labiali" lo storico incontro, avvenuto nello stadio di Berlino durante i
tempi supplementari. Secondo una prima ricostruzione, attualmente al
vaglio di Dan Brown e dell'intero priorato di Sion, lo stopper interista
avrebbe rivelato all'interlocutore: "Non era Maria Maddalena a lavorare
per strada, ma una tua parente intima". Mamma, moglie o sorella? Qui le
versioni divergono, ma rientrano comunque nella cupa normalità dei
dialoghi fra "sportivi": sembra davvero incredibile che un campione
abituato a solcare i campi e gli insulti di mezzo mondo se ne sia potuto
adontare al punto da perdere la testa fino a farla rimbalzare sul torace
di un avversario. Escluso che Materazzi intende complimentarsi con il
francese per la sua splendida capigliatura, non gode di grande credito
nemmeno la versione ritrovata in alcune intercettazioni telefoniche: "Ma
Moggi non t'aveva detto di sbagliarlo, il rigore?". L'ipotesi più
sconvolgente, e credibile, ha cominciato a circolare durante la serata sui
computer di mezzo mondo. Materazzi avrebbe chiesto a Zidane: "Verresti a
giocare nell'Inter?".
Il fantasista francese, protagonista della testata a Materazzi nel corso
della finale iridata, ha totalizzato 2.012 punti.
MILANO - E così la Fifa ha fatto la sua scelta. Zinedine Zidane è stato
eletto miglior calciatore dei Mondiali di calcio 2006. Nulla da dire sulla
scelta tecnica e sulla personalità del calciatore La testata rifilata
all'italiano Marco Materazzi nel corso nel secondo tempo supplementare
della finale iridata macchia, però, la prova e l'immagine del campioni di
origine algerina
Il ct transalpino Raymond Domenech maledice Materazzi per aver provocato
il suo "eroe" sul campo e il giornale inglese on line "The Guardian"
risponde, non si sa in modo quanto attendibile, alla domanda che tutti si
fanno. Cosa ha detto Materazzi a Zidane prima della testata? Secondo il
quotidiano britannico lo avrebbe definito terrorista (mentre ci sono altre
indiscrezioni giornalistiche che parlano di insulti alla sorella di Zizou).
Ci si chiede, insomma, che senso ha fare una scelta del genere quando
questo doveva essere il Mondiale del fair play e della tolleranza zero
alle reazioni e ai falli sistematici
I NUMERI Il fantasista francese ha totalizzato 2.012 punti e ha preceduto
Fabio Cannavaro (1.977) e Andrea Pirlo (715). Per la cronaca Zidane
succede al portiere tedesco Oliver Kahn per il Mondiale 2002, al
brasiliano Ronaldo (1998), al brasiliano Romario (1994), all'italiano
Schillaci (1990) e a Diego Maradona che si aggiudicò il premio per
l'edizione del 1986.
ALTRI COMMENTI Il presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac, ha
difeso Zidane con parole forti: "Sei un virtuoso - gli ha detto -, un
genio del calcio mondiale e sei anche un uomo di cuore, di impegno, di
profonde convinzioni. Per questo la Francia ti ammira e ti ama Per
L'agente di Zidane "Materazzi lo ha insultato molto seriamente. Gli ha
detto qualcosa di serio, ma non ha voluto dirmi che cosa, Zidane comunque
ne parlerà tra un paio di giorni".
I FESTEGGIAMENTI DEGLI AZZURRI
10 luglio 2006
Italia campione! Il presidente del Consiglio, Romano Prodi prima ha
festeggiato sventolando il tricolore dalla finestra della sua abitazione
di Via Gerusalemme a Bologna poi, verso le 23,30, è sceso per fare un
rapido giro in Piazza Santo Stefano insieme ai familiari e agli amici. È
stato inneggiato da diversi ragazzi, mentre rientrava in casa ha gridato
"Forza Italia" a un gruppo di tifosi che gridavano il suo nome, davanti a
un'osteria che sta di fianco all'ingresso della sua casa.
"Una grandissima emozione, una lotta all'ultimo sangue", è stato il
commento a caldo del premier dopo la vittoria ai rigori della Nazionale ai
danni della Francia. "A momenti ci moriamo dentro - commenta poi il
presidente del Consiglio - pensate un finale così per il campionato del
Mondo Primo tempo nostro, direi, il secondo loro. Abbiamo vinto per un
palo, un palo ha fatto la differenza. Ci sono delle competizioni - ha
sorriso - in cui si vince così...".
Una festa senza precedenti: migliaia di persone hanno partecipato
all'abbraccio dell'Italia ai Campioni del Mondo. Alle 18.36 l'aereo che
trasporta la nazionale, di ritorno dalla Germania, atterra a Pratica di
Mare. Il primo a scendere dalla scaletta dell'Airbus A320 è capitan
Cannavaro, che stringe tra le mani la Coppa dorata e la mostra ai tifosi.
Poi la tappa a Palazzo Chigi, dove gli azzurri vengono ricevuti dal
premier Prodi. Che rivolto alla squadra dice: "Grazie per averci unito".
L'Italia abbraccia i Campioni del mondo
Avremmo voluto esserci anche noi fra quella folla festante ma é stato
meglio così, perché anche da casa abbiamo partecipato con il cuore a
quella grande e meravigliosa festa. E' stata una festa senza precedenti:
migliaia di persone hanno partecipato all'abbraccio dell'Italia ai
Campioni del Mondo. Alle 18.36 l'aereo che trasporta la nazionale, di
ritorno dalla Germania, atterra a Pratica di Mare. Il primo a scendere
dalla scaletta dell'Airbus A320 è capitan Cannavaro, che stringe tra le
mani la Coppa dorata e la mostra ai tifosi. Poi la tappa a Palazzo Chigi,
dove gli azzurri vengono ricevuti dal premier Prodi. Che rivolto alla
squadra dice: "Grazie per averci unito".
L'apotesosi dei Campioni del Mondo raggiunge il culmine subito dopo, sul
bus scoperto per le vie di Roma a salutare una folla indescrivibile e
infine nell'ultimo atto al Circo Massimo colmo di migliaia di tifosi
festanti.
L'ARRIVO Un'accoglienza trionfale quella riservata ai campionissimi
all'aeroporto militare di Pratica di Mare e arricchita anche dalle
evoluzioni delle Frecce Tricolori, che hanno dedicato una nuova figura
agli azzurri, denominata "Berlino 2006". Quando si apre il portello il
primo giocatore ad apparire sulla scaletta è capitan Cannavaro, con la
Coppa, accanto a lui Marcello Lippi e il capo delegazione, Giancarlo
Abete. Poi via via tutti gli altri. Giocatori mischiati a dirigenti, mogli
e fidanzate. Buffon, giudicato il miglior portiere del Mondiale, con
occhialoni da sole. Quindi Zambrotta, e poi ancora Gattuso che sfoggia un
nuovo taglio di capelli alla marines. Rasato a zero è anche De Rossi. Un
sorridente Del Piero è tra i primi a fermarsi a parlare con i giornalisti:
"È un grande emozione, ora vogliamo festeggiare". Totti si abbraccia con
il sindaco di Roma Veltroni, accompagnato dal coro-tormentone po-po-po,
che diventerà per sempre l'inno della straordinaria cavalcata di Germania
2006. "Era un sogno, ma ora è una bella realtà - spiega orgoglioso
Cannavaro -. Festeggiare le cento presenze con una vittoria così
importante è una grande soddisfazione per me. Abbiamo visto le immagini in
tv, l'Italia è impazzita, ci siamo resi conto di aver compiuto un'impresa
storica". I tifosi festanti, a migliaia si sono assiepati dietro le
transenne ai lati della piazzola di parcheggio dove si è fermato l'aereo
proveniente da Dortmund.
PRODI ALZA LA COPPA
- Il pullman con la nazionale entra successivamente nella zona del centro
di Roma dirigendosi tra due ali di folla in festa verso Palazzo Chigi dove
a ricevere la squadra è il premier Prodi. Il Professore accoglie gli
azzurri in piazza Colonna, con lui ci sono tra gli altri i vicepremier D'Alema
e Rutelli e il ministro per lo sport Melandri. Il premier va quindi
incontro a Cannavaro e insieme a lui alza la Coppa al cielo. Entusiasmo
indescrivibile tra i presenti: giornalisti, dipendenti, visitatori,
autorità. Poi, nel cortile del palazzo, la banda dei carabinieri attacca
l'inno di Mameli e i calciatori iniziano a cantare. La piccola folla
presente si unisce, ne nasce un momento emozionante. "Avete ridato al
calcio la dignità che merita", è un passaggio del breve discorso di Prodi,
che in cambio riceve in dono dallo staff azzurro un maglia speciale con il
numero 4, come i titoli vinti dal calcio italiano nella storia.
LA PARATA
- Dopo la tappa "governativa" comincia il tour sui due bus scoperti che
fanno il giro delle principali strade del centro storico di Roma. Un lungo
e lentissimo torpedone. Una marcia a passo d'uomo. L'approdo è il Circo
Massimo, per l'apoteosi finale. Migliaia di tricolori riempiono la storica
arena della capitale. Tutto il catino in prossimità del palco, ricoperto
da un tappetone azzurro, è gremito dalla folla che non risparmia il fiato
per osannare la vittoria contro la Francia. Un solo grido "campioni del
mondo" e l' immancabile "chi non salta della Francia è" ritma la festa nel
cuore di Roma. I tifosi danno sfogo alla fantasia con divertenti
striscioni, da "santi subito", o ancora "noi al Circo Massimo, voi al
massimo al circo". A Zidane fischiano le orecchie.
I "PREMI" DEL QUIRINALE
- Intanto anche il presidente Napolitano, che ha assistito dalla tribuna
alla vittoria contro la Francia, premia gli azzurri conferendo a tutti,
giocatori, allenatore e staff, onorificenze dell'Ordine al Merito della
Repubblica "in segno di riconoscimento dei valori sportivi e dello spirito
nazionale che hanno animato, ieri a Berlino, la vittoria italiana al
Campionato mondiale di calcio". Le insegne dell'Ordine saranno consegnate
in un'apposita cerimonia al Palazzo del Quirinale
L'ARRIVO AL CIRCO MASSIMO
-Tutta l'Italia, ha assistito a quel boato che accoglie l'arrivo
dell'autobus della nazionale al Circo massimo. Si leva un corale "Alé-oh-oh".
"Eccoli, sono tutti vostri", urla al microfono Carlo Verdone. Poi Tiberio
Timperi chiama uno a uno tutti gli azzurri sul palco. "Campioni del
Mondo!!". Quindi, parte la canzone dei Queen "We are the champions" e
mentre è chiamato Marcello Lippi Cannavaro alza la Coppa al cielo.
L'atmosfera di gioia e felicità è totale. Totti ha in testa un cappello
giallorosso, ma il più scatenato è Alex Del Piero, che si toglie la
camicia, resto a petto nudo e si mette a fare il frontman cantando in
playback la canzone dei Queen. Subito dopo è la volta dell'inno di Mameli,
cantato in coro da tutti. Tutto questo ormai, é passato alla storia, alla
storia del calcio italiano. La grande festa si é conclusa con il messaggio
del Presidente della Repubblica Napolitano.
Il messaggio del capo dello Stato Napolitano é stato letto da Abete, capo
delegazione : "È stato per me un privilegio vivere con voi, a Berlino,
fino all'ultimo minuto, la trepidazione e l'ansia della prova più
difficile nell'incontro finale del Mondiale di Calcio. L'intera vostra
partecipazione al Campionato ha portato il segno non solo della vostra
straordinaria bravura e professionalità, ma della determinazione e
dell'alto senso nazionale con cui avete perseguito l'obbiettivo della
vittoria. Sotto la guida di Marcello Lippi vi siete battuti con forte
spirito agonistico e lealtà ai valori sportivi, anche con la volontà di
riscattare vicende oscure che hanno purtroppo investito il mondo del
calcio italiano. Di più e di meglio non potevate fare. Ve ne sono grato,
come lo sono tutti gli italiani. È con lo stesso spirito di squadra e
amore per l'Italia di cui avete dato prova sui campi del Mondiale che il
nostro Paese potrà affrontare le sfide che lo attendono"
FINALE "AZZURRO"- Poi sono ancora i giocatori che conquistano il
microfono, Gattuso sulle note di Bella Ciao cerca di intonare un "chi non
salta è un francese". Poco dopo è capitan Cannavaro a lanciare un coro da
stadio per Gianluca Pessotto. "I ragazzi hanno sofferto, hanno lottato
perchè nello sporto non è che tutto è facile Sono stati fantastici e
doveva per forza finire così" dice Lippi al microfono. "La sensazione
quando abbiamo toccato la coppa? Eravamo fuori di testa". La festa, breve
dopo una lunga estenuante giornata, si chiude con la voce di celentano che
canta "Azzurro" e i giocatori sul palco che ballano.
Il Golfo dei poeti e Portovenere Escursionismo
"La passione per la montagna è stata generata, il più delle volte, della
fascinazione esercitata da luoghi struggenti. Molti di noi, soprattutto in
tenera età, sono stati "stregati" nella mente e nel cuore da piccoli
scampoli di natura ( un bosco, una cascata, un laghetto, un prato o
pascolo, ma anche e soprattutto da una località marina) la cui forza di
seduzione non può essere spiegata con le categorie classificate dalla
scienza e dalla ragione. Angoli di natura diventano intraducibili nelle
forme del linguaggio ordinario, manufatti costruiti da uomini in continuo
rapporto dialogico con le forze naturali sembrano costituire una cosa sola
con l'ambiente. Noi del CAI di Mantova, la prima escursione, di solito,
una volta l'anno, si svolge in primavera, sui sentieri scoscesi e
meravigliosi della vecchia e cara Liguria, nella regione delle "Cinque
Terre"
Oggi, in questa giornata molto calda e afosa di questo giugno anomalo,
sfogliando la nostra vecchia agenda di viaggio, abbiamo trovato degli
appunti molto interessanti e relativi al Golfo dei Poeti, che ci hanno
riportato indietro nel tempo e precisamente alla primavera di alcuni anni
fa, quando con gli amici del CAI di Mantova, in una mattina serena
dell'incipiente primavera, siamo partiti alla volta della vecchia e a noi
cara Liguria, che ha un significato particolare, tanto che l'abbiamo
definita la nostra seconda Patria. Si può dire che, per il nostro servizio
istituzionale, conosciamo ogni città, ogni angolo, ogni borgo marinaro di
questo micron cosmo che sa di sapore antico ma ogni volta che ci facciamo
ritorno, ci ritorniamo con molto piacere. Quel mattino, appena lasciato il
paesaggio allo sfondo le Alpi Apuane, siamo entrati in un paesaggio
diverso, in un paesaggio verde di uliveti e punteggiato da casette rosa,
al vertice della collina il vecchio e antico forte di Sarzanello, fatto
erigere da Castruccio Castracani nel 1322, mentre a sud si trovano le
rovine dell'antica città di Luni.
Da quella località, scende un sentiero tra le rocce, gli ulivi e piccoli
appezzamenti o strette fasce, coltivati a vigneto. Sotto di noi, in un
nirvana, che nella religione buddista, lo stato di imperturbabilità e
beatitudine interiore, di quasi totale annullamento di sé, raggiunto
attraverso il progressivo distacco dei desideri terreni, sorge Tellaro tra
mare e cielo, tra le rocce e le montagne verdi, altissima, fino alle
casette antiche che colorate che sbocciano dagli ulivi e si staccano
sull'azzurro del cielo": nelle parole del grande scrittore e amico
carissimo Mario Soldati c'è tutto l'amore del regista per Tellaro, che ha
scoperto l'incanto di questo antico borgo marinaro alla fine degli anni
sessanta. Quando vi era giunto alla ricerca di un manoscritto dello
scrittore inglese Conrad Lawrence, che aveva soggiornato agli inizi del
Novecento a Fiascherino. Località nei pressi di Tellaro. Soldati non
riuscì a trovare il manoscritto, ma s'innamorò del luogo che sorgeva nei
pressi di Lerici, dove scelse di vivere in una villa proprio sul mare, che
l'abbiamo definito un balcone panoramico, dove l'occhio si perde nel
grande e profondo orizzonte.
E' un fazzoletto di paese costruito sulla roccia: un abbraccio di case
stinte dagli intensi colori pastello, di cortili invasi da azalee,
rosmarino e salvia, di caratteristici e contorti carruggi e strette
scalinate che scendono al mare. Tutti i borghi marinari della costa, in un
certo senso si rassomigliano, le stesse case colorate, le stesse
scalinate, gli stessi caratteristici affacci, le vie strette e gli antichi
carruggi. Sembra un paesaggio astratto e metafisico, un paesaggio pittura,
dove trovano aspirazione i poeti e i pittori della domenica. Abbiamo
ammirato molto quel paesaggio incantato, stando seduti su di un muretto
antico a riposare le nostre stanche membra, che sorge di fronte alla
chiesetta a pelo d'acqua, che è come una nave statica che non si evolve;
immobile da centinaia di anni, aspettando i pochi fedeli del borgo o
qualche pellegrino come noi. Le spiaggette sono lì sotto di noi, dove le
piccole onde vanno e vengono, una dopo l'altra, a infrangersi contro gli
scogli, la più bella, come ci diceva il signor Baciccia, un vecchio
pescatore dalla pelle indurita dal sole e dalla salsedine, che come noi,
imperterrito continuava a fumare la sua pipa da vecchio lupo di mare: "La
più bella spiaggetta è quella di Fiascherino, situata in una baia
silenziosa tra il verde degli ulivi e i profumi della macchia
mediterranea"
Dopo quel meritato riposo al cospetto del meraviglioso mare azzurro,
salutiamo il vecchio marinaio e proseguiamo lungo la strabella che in poco
meno di mezzora di cammino, raggiungiamo il Golfo dei Poeti.
La storia della cittadina di Lerici si perde nella notte dei tempi, non
sappiamo con precisione l'anno della sua fondazione, ma lo studio del suo
antico nome "portus íliycis" che potrebbe derivare dal greco "Iliakos'
(iliaco, troiano), ci induce a favoleggiare che la sua fondazione derivi
da un gruppo di esuli della guerra di Troia.
"E non potrebbe essere altrimenti perché il territorio presenta numerose
analogie con le coste greche e una bellezza dei luoghi degna di Venere,
cui è dedicata una delle sue baie, chiamata Venere Azzurra. Lerici fu
porto di approdo dei traffici greci e fenici, e la sua storia non ebbe mai
momenti bui, semmai periodi ancora avvolti in un affascinante mistero. Lo
stesso mistero che avvolge le origini del popolo etrusco cui Lerici fu
particolarmente legata per la sua vicinanza a Luni.
Attingiamo dalla storia antica che nel VII sec. a.C. il Golfo fu occupato
dagli Etruschi che spaziarono da Pisa a Capo Mesco fondando la città di
Luni cui Lerici per molti secoli legherà la sua storia. A tale proposito
proponiamo alcune brevi righe di Pantero Pantera, sec. XVII (capitano
marittimo autore di un inedito portolano che descrive la lingua attorno al
1620): "Lerice, terra non molto grande circondato da muri. Da questa terra
si nominava anticamente questo Golfo Porto D'Erice, sì come si chiamò
ancora Porto di Luna, da una grande città che vi era dell'ístesso nome.".
Per la sua importanza come porto, Lerici fu conteso dai romani ai liguri e
da loro conquistato e utilizzato a scopo militare e commerciale. Lerici fu
porto importante nel Medioevo, sempre legato al dominio del Vescovo di
Luni: vi approdavano i viandanti, i pellegrini, i mercanti che volevano,
attraverso il nodo nevralgico di Sarzana, raggiungere il nord Italia e il
centro Europa. Una diramazione della Francigena porta a questo importante
Golfo, poiché da Lerici partivano i pellegrini per S. Jacopo di Compostela
e per Roma. A questo proposito da Lerici dipartono ben due vie romane o
romee: una corrispondente all'attuale via che unisce Lerici a Sarzana,
l'altra, che risale al tracciato dell'Aemilia Scauri poi Aurelia, unisce
Tellaro fino a Lerici tramite un bel percorso tra ulivi e macchia
mediterranea che tocchi numerosi siti di importanza storico-archeologica.
Quello è il sentiero che la lunga e rutilante squadra degli escursionisti
del CAI di Mantova, abbiamo percorso per giungere fin qui, in questo
paradiso terrestre.
La storia ci racconta inoltre, che Lerici fu utilizzata dai lucchesi per
il traffico di pelli e stoffe, poi a lungo contesa tra Genova e Pisa nel
periodo delle Repubbliche marinare.
Nel 1241, dopo la battaglia del Giglio, fu occupata dai pisani che
edificarono il Castello e il borgo murato. Dopo quindici anni Genova la
riconquistò e ampliò il Castello. Nel 1528 Lerici fu teatro di un
avvenimento che cambiò le sorti dell'Europa: fu tra le mura di un suo
palazzo che Andrea Doria si rifugiò e decise di passare dalla Francia alla
Spagna, togliendo alla Francia il dominio sul Mediterraneo a favore della
Spagna.
Tra il'600 e il'700 ebbe il massimo sviluppo urbanistico grazie alla
presenza in Lerici di una nobiltà armatoriale che aveva le sue dimore nei
borgo e di cui restano gli antichi palazzi e le ville. Nell'800 scrisse
pagine gloriose della storia risorgimentale, tanto che Garibaldi chiamò la
sua popolazione "la più forte e la più energica d'Italia'. Lo stesso Carlo
Pisacane raccolse in Lerici nel 1857 otto suoi fedeli compagni per la
spedizione di Sapri, ma chi più ne impersonò lo spirito risorgimentale fu
Giuseppe Petriccioli che con Felice Orsini e Carlo Pisacane issò il
tricolore sul Duomo di Milano dopo aver duramente combattuto sulle
barricate delle 'Cinque Giornate".
Lerici, "La Perla del Golfo dei Poeti", situata nella parte estrema di
levante della Regione Liguria, vi saluta con uno scenario caro a poeti e
scrittori: la splendida collina costellata di borghi e di ville, le acque
sempre cangianti e un mare dai mille volti ideale per la vacanza e gli
sport nautici.
Bella da vedere e da scoprire questa cittadina rivierasca e collinare,
tutta un dedalo di piazzette e di viuzze: qui l'antico è riservato, il
nuovo non tende mai alla sopraffazione.
PORTOVENERE.
Nel grande e meraviglioso Golfo di La Spezia, una vela bianca ci
precedeva, spinta da un leggero soffio di vento, lasciando dietro di se
una lunga scia bianca e seguita da uno stormo di gabbiani dal becco rosso.
Il vaporetto sul quale stavamo navigando, si chiamava il "Gabbiano" e
stava dirigendo verso Portovenere.
Il luminoso e panoramico Golfo, è noto da tempo come il Golfo dei Poeti,
perché tuttora meta ispiratrice per fecondi letterati, è un dolce
anfiteatro: a ponente sono Portovenere con le sue isolette ed il
territorio di Tramonti che conduce alle Cinque Terre, voltandoci indietro
verso levante osserviamo l'incantevole Lerici, che abbiamo lasciato da
poco, con i suoi panorami indimenticabili e più oltre le meravigliose e
piccole insenature, che orlano il roccioso promontorio di Montemarcello,
località immersa nel verde dei pini e degli ulivi, molto amata dai grandi
scrittori e poeti come Byron Georg Gondon, Mario Soldati e la scrittrice
francese Gorge Sand. Mentre il vaporetto solcava lentamente le placide
acque azzurre della Baia, uno stormo di gabbiani ci seguivano lungo il
percorso in segno di saluto. Di fronte a noi scorgiamo l'Isola della
Palmaria, che appartiene a Portovenere, che è un grande blocco calcareo
triangolare situato nel lato occidentale del Golfo di La Spezia.
Dopo il periplo di quelle stupende isole, nelle prime ore del pomeriggio
siamo sbarcati sull'isola Palmaria in località Terrizzo, per effettuare
un'escursione nei sentieri della più grande isola della Liguria.
L'escursione prevedeva la salita al
Semaforo, straordinario punto panoramico di osservazione, attraverso
sentieri spettacolari. Adriana ed io, non abbiamo preso parte
all'escursione completa dell'isola e nella attesa del vaporetto che ci ha
traghettato a Portovenere, abbiamo proseguito su di un comodo sentiero
forestale e soprattutto panoramico, da dove si può ammirare un paesaggio
senza pari, la cui vista abbracciava tutto il Golfo dei Poeti e di
Portovenere. Seguendo i tornanti di quel sentiero, immerso nel verde dei
pini, abbiamo visto che nei piccoli orti a fianco alle case, oltre
all'ulivo germogliano rigogliose alcune piante di limoni carichi di
succosi frutti, che impreziosivano quel luogo soleggiato di grande
bellezza paesaggistico.
Il borgo marinaro di Portovenere, che fu definito il luogo dell'amore, non
ha bisogno di essere ulteriormente illustrato, perché le sue bellezze
parlano da sole.
Molto interessante però è la vista di questo caratteristico borgo, una
passeggiata sul promontorio roccioso all'estremità dell'abitato per
visitare, fra vecchie fortificazioni, la chiesa di S. Pietro.
Di fronte alla costa di Portovenere, oltre alla Palmaria si trovano altre
due isole, il Tino e il Tinetto, che sono state incluse nel Patrimonio
Mondiale dell'UNESCO, non solo per la loro bellezza, ma anche perché
vantano numerosi resti di monasteri eretti nei primi secoli del
cristianesimo.
Appena sbarcati, Adriana ed io, dopo un frugale spuntino, una passeggiata
distensiva sulla scogliera da dove si gode una vista stupenda del borgo
marinaro e della bellissima chiesa di San Pietro e dulcis in fundus, un
paesaggio bellissimo delle Cinque Terre.
Prima d'iniziare la lunga scalinata che porta alla chiesa romanica di San
Pietro, sulla destra, dietro la muraglia difensiva, si trova la baia dei
Colombi, dove il poeta romantico Lord Byron, soleva farsi il bagno in
quelle acque fresche, limpide e profonde. Sopra di una di queste finestre
panoramiche attraverso le quali si ammira la famosa baia, è stata posta
una lapide commemorativa dedicata appunto al poeta Byron, dove si legge:
"Grotta di Byron"
Da quella posizione, alcuni anni fa, in occasione d'un'ennesima visita al
borgo antico di Portovenere, armati di cavalletto, colori e pennelli,
abbiamo dipinto un bellissimo scorcio panoramico della baia con lo sfondo
delle Cinque Terre, che conserviamo nel nostro modesto studio.
Il caratteristico ed unico paesaggio della Liguria lungo la Riviera di
Levante, tra le Cinque Terre e Portovenere, ha sempre attratto artisti,
musicisti, scrittori e pittori. Il territorio delle Cinque Terre, che si
estende per circa 15 chilometri da Monterosso al Mare a Portovenere, è
caratterizzato da un profilo costiero aspro e irregolare, che è stato
modellato dall'uomo nel corso dei secoli fino a ottenere un paesaggio
unico. La successione di pendici montuose a picco sul mare, scandite da
una serie di terrazzamenti coltivati, evocano panorami simili a quelli
delle minuscole isole dell'Egeo Oggi, in questa giornata luminosa,
riscaldata da un sole primaverile, con gli amici del Cai, abbiamo ammirato
tutto questo, ma soprattutto l'immensità del mare e le bellezze naturali
dell'isola della Palmaria. A procedere la lunga fila rutilante degli
escursionisti sui ripidi sentieri dell'isola, abbiamo visto una giovane
promessa del CAI, il bravo e baldanzoso Maurizio Turazza, che ha esordito
per la prima volta in un incarico così importante, portando a termine con
tanto impegno il suo difficile compito di aspirante guida del CAI. Bravo
Maurizio! doverosamente ti meritavi questa piccola citazione
"Durante l'attesa degli amici escursionisti, ci siamo concessi una pausa
sugli scogli della Baia di Lord Byron, per ammirare quel paesaggio
infinito, mentre le onde del mare s'infrangevano fra gli scogli dove
eravamo seduti. Mentre ammiravamo le piccole onde spumeggianti che si
infrangevano contro la scogliera, sentivamo il rumore cupo e prolungato
del mare, con il suo caratteristico muggito e il sibilo del vento della
sera. Oh mio dolcissimo mare! Vorrei essere una barca per seguirti oltre
l'orizzonte e sentire ancora la tua voce e il tuo rumore cupo e
prolungato. Mi mancheranno le tue parole, il tuo respiro, il tuo cupo
ruggito, il rumore fresco e spumeggiante delle tue onde, esse sono come le
acque del fiume della vita, sono chiare come all'origine. Il principio e
la fine hanno la stessa luce.
"Parlando del fiume della vita, cosi scriveva Romano Battaglia: "Ricordo
quello che mi dicesti all'inizio: " Nacqui in un giorno di primavera fra
le montagne bianche di neve e il silenzio assoluto delle grandi altezze.
Nella pace della montagna percepivo il respiro del Creatore". Il poeta
Eugenio Montale, un figlio prediletto della vecchia e meravigliosa
Liguria, che conduce i lettori, con i suoi versi che non fanno concessioni
al canto, in un labirinto di sillabe dai suoni aspri e duri, alla ricerca
di un varco nel muro invalicabile di mistero che circonda la nostra
esistenza, così faceva a scrivere a Portovenere questi versi:
Là fuoriesce il Tritone
Dai flutti che lambiscono
Le soglie d'un cristiano
Tempio, ed ogni ora prossima
È antica. Ogni dubbiezza
Si conduce per mano
Luci e colori dell'isola d'Elba
La stagione estiva, in quel tempo, si presentava sotto i migliori auspici.
Quell'anno, come del resto gli anni successivi, nel mese di luglio
facevamo e facciamo tutt'ora le nostre vacanze estive.
Oggi, ahimè, che da molti anni siamo in pensione, Adriana ed io, viviamo
continuamente in vacanza, dopo un lungo periodo della nostra vita dedicata
al servizio della comunità. Allora le nostre ferie erano condizionate alle
esigenze del nostro servizio. In quell'anno, nel quale il nostro
itinerario turistico si svolgeva, per ragioni del nostro lavoro, eravamo
di stanza nel piccolo borgo mantovano di Gazzuolo, posto sulla sponda
destra del Fiume Oglio.
Quel borgo medioevale di Gazzuolo merita una breve illustrazione, sebbene
ne abbiamo parlato più diffusamente nel volume Brani di vita. Questo
simpatico paese del basso mantovano è posto sulla sponda destra
dell'Oglio, a dieci chilometri della sua foce, dove si sposa con il grande
e vecchio fiume Po. Gazzuolo oggi conta seicento abitanti ed è un paese
che in fondo era ed è tutt'oggi una strada, tutta una lunga strada,
ordinata, pulita e fiancheggiata di qualche palazzotto, da nobile
porticato gonzaghesco e tante dignitose casette. In fondo al borgo, nella
zona detta della "Fossa", sorge la Caserma dell'Arma dei Carabinieri, la
quale ci ha ospitati per circa dieci anni, fino al termine della nostra
lunga carriera militare, mentre al principio del paese, sulla sinistra, a
ridosso all'argine, sorge il palazzo d'Arco: una costruzione che risale al
1600, che é sede del Municipio e dell'Ufficio Postale.
Un tempo era terra di fiumi, di stagni e di acquitrini, nonché di
scorrerie di mercenari e sede di Marchesato e lieto soggiorno di un ramo
cadetto dei sig. Gonzaga di Mantova che lo ampliarono, abbellirono e
fortificarono munendolo di una riguardevole rocca, circondata da larga
fossa in modo da rendere inespugnabile il Castello. Oggi quel castello non
esiste più. Grazie alle continue bonifiche e risanamenti, Gazzuolo ora è
una zona salubre sulle ridenti sponde del fiume Oglio, "sotto un cielo
così bello, quando è bello", come diceva Manzoni parlando dei cieli di
Lombardia.". Le golene con i suoi pioppeti, si alzano i canti dell'antica
pazienza, intrecciandosi così qualche nuovo delle prime rivolte degli
scariolanti di un tempo, "così scriveva Nuvoletti altro saggio scrittore -
figlio prediletto di quella terra di paludi e di fiumi.
Appare una campagna immersa in un mare d'erba, con il verde della sua
piantagione, con i suoi lunghi argini, da dove si possono scorgere, nelle
giornate chiare e meno brumose, le montagne dell'arco Alpino che circonda
la grande valle Padana coperte di neve e dipinte d'azzurro e, a sera,
nelle ultime luci del tramonto striato di viola, emerge la grande montagna
posta nel cuore delle Alpi che termina a mo di cono, il monte Baldo.
Quanti ricordi pieni di nostalgia ci tornavano alla mente e ci facevano
rivivere quei lieti momenti, i momenti del passeggio pomeridiano, quando
gli impegni lo consentivano, amavo passeggiare lungo gli argini del fiume,
per contemplare quel paesaggio piatto e silenzioso; mentre il fedele amico
" Lasse" correva libero e felice, annusando fra i piccoli anfratti e i
fossati vicino alla sponda del fiume silenzioso.
Il giorno della partenza per le ferie era arrivato, il Comando Intermedio
aveva dato il suo nulla osta, quindi si poteva partire. Il mattino del
primo luglio del 1979, alle prime luci dell'alba, a bordo della nostra
utilitaria - il Fiat 127 - Adriana era alla guida, mentre io ero l'eterno
navigatore, come del resto continuo a farlo, mentre nel sedile posteriore
aveva preso posto nostra principessa Tiziana. I primi raggi del sole ci
colsero a 1100 metri di quota, sui contrafforti del passo della Cisa, che
metteva in comunicazione la Luneggiana con la Valle del Taro, tra
l'Appennino Ligure e quello Tosco Emiliano.
La nostra meta era l'isola d'Elba.
Dopo l'attraversamento di una delle più lunghe gallerie autostradali,
quella che collega appunto la Val di Taro con l'Appennino Ligure, eccoti
sul versante della Liguria, corrispondente al bacino della Magra. A valle
di questa montagna di boschi cedui, sulla nostra sinistra, fu abitata un
tempo da Liguri - Apuani e conquistata dai Romani nel II secolo. Più
avanti, subito dopo la vallata, scorgiamo il gruppo montuoso delle Apuane,
tra Val di Magra e Val di Serchio, con mille cave "biancheggianti come
pecore pascenti" di manzoniana memoria, da dove le maestranze estraggono i
pregiati marmi di Carrara.
Lungo l'autostrada che costeggia le bellissime spiagge della Versilia, il
nostro viaggio procedeva scorrevole, senza intoppi e a velocità di
crociera fino a Piombino. In questo grosso centro portuale, al molo nr.
10, c'era la nave traghetto che, in poco tempo, ci traghettò a
Portoferraio. Eccomi nell'isola d'Elba. Un tempo chiamata "Trinacria del
Tirreno", con la base orientale verso la costa toscana e il versante verso
la Corsica. Leggiamo su di un depliant e su di una guida turistica che
l'Arcipelago comprende, oltre all'Elba, altre sei isole principali:
Gorgogna, Capraia, Pianosa, Montecristo e Gianutri, nonché altri isolotti
minori che ci riserviamo di visitare in altra data.
L'ubicazione dell'arcipelago toscano è tale da costituire confine tra il
Mare Ligure e il Mar Tirreno, mentre la nave costeggiava Capo Vita, per
raggiungere la rada del porto di Portoferraio, l'isola si presentava alla
nostra vista, sotto l'aspetto collinare, ricca di una vegetazione
mediterranea.
A Portoferraio ci fermammo un paio di giorni, tanto che bastarono per
visitare soltanto gli angoli più belli e caratteristici, nonché suggestivi
della città. Il nucleo più antico che quella bellissima città sul Tirreno,
ma si potrebbe dire mediterranea per le sue caratteristiche climatiche e
paesaggistici è cinto da un sistema di mura e protetta da alcuni fortilizi
fatti innalzare nel secolo XVI da Cosimo de Medici. Il Forte Stella,
eretto nel 1548, si eleva imponente su di uno scoglio roccioso a
strapiombo sul mare ed accanto a questo forte spunta la torre del faro e
attigua, sulla stessa linea possiamo vedere la napoleonica Villa dei
Mulini. Sull'elevazione maggiore della penisola, sorge il forte Falcone.
Il centro storico di Portoferraio ci offre delle visioni di accattivante
semplicità architettonica in vari vicoli angusti e nello stesso tempo
pittoreschi ove la vita segue ancora un suo ritmo direi arcaico, ma tanto
più sereno di quello che giorno dopo giorno, noi viviamo nelle nostre
città caotiche del continente. Fra i monumenti della cittadina marinara,
visitiamo la chiesa Parrocchiale, il Palazzo Comunale, la chiesa del
Sacramento, ove possiamo ammirare il soffitto dipinto da Giovanni Camillo
Sacrestani, mentre nella chiesa della Misericordia che e del XVII secolo,
vi sono conservati cimeli napoleonici.
Sul vertice del colle, la Palazzina dei Mulini, abitazione e oggi museo
Napoleonico. Di lassù si scopre un panorama meraviglioso, riposante e
stupendo, da dove l'occhio spazia e coglie lo scenario naturale della
Rada. Siamo entrati all'interno di quella bellissima Villa, dove abbiamo
constatato che vi sono conservati arredi e mobili in stile Impero. Fra gli
ambienti: lo studio, il salone di ricevimento, con dipinti di Raffaele
Marghen, la camera dei valletti, con pareti ritratti e caricature di
Napoleone, la camera del guardaroba, con la bandiera napoleonica
dell'Elba, rossa con tre api d'oro, l'anticamera, la camera da letto, la
biblioteca con tanti volumi, la galleria ove fa bella mostra di sé il
bozzetto dipinto da Jacques- Lois David figurante Napoleone su di un
cavallo impennato al passo del S. Bernardo, come presago del trionfo di
Magenta.
Scopriamo la statua di Minerva nel giardino della Palazzina, da dove si
gode l'incantevole vista della parte nord- orientale dell'isola, della
costa Toscana e di Populonia. Ritornando in città, ci fermiamo ad ammirare
nella chiesa della Misericordia la maschera di bronzo di Napoleone, ivi
custodita gelosamente. Sullo sfondo del Monte S. Martino, in un luogo
fresco, in quella giornata caldissima, ameno, fra vigneti e boschi sorge
la Villa Napoleonica di S. Martino. E' un edificio con una sola facciata a
un solo piano di ispirazione, di questo non c'è il minimo dubbio,
neoclassica - dorica, fra due brevi ali prospicienti un vero è proprio
museo, con quadri, stampe e mobili dell'epoca.
Dopo la visita alla città, il nostro itinerario si svolge nei dintorni di
Portoferraio. Ammiriamo il golfo che troviamo di grande interesse
paesaggistico e nello stesso tempo di rara bellezza. Una breve diramazione
da questo itinerario ci conduce ai ruderi della Villa romana, ove possiamo
ammirare e fotografare parte della sua decorazione e dei mosaici, che si
presentano in ottime condizioni. Ad occidente di Portoferraio scopriamo
delle bellissime spiagge, con un mare pulito ed invitante, che si
estendono su tutto il litorale biancheggiante del colore del calcare
alberese. Più avanti incontriamo la pittoresca spiaggia dei Prunini, sullo
sfondo del Capo d'Empala. Proseguendo nel nostro itinerario raggiungiamo
la punta d'Acquaviva con la sua meravigliosa spiaggia i campeggi bene
organizzati e la spiaggia del Viticcio, nell'omonimo golfo. Il giorno
successivo raggiungiamo capo d'Ampala, pittoresca penisola di granito
porfiroide, che si estende per circa 800 metri dall'istmo strettissimo
incorniciato dalle più belle spiagge di sabbia dorata e finissima. Ci
fermiamo a Marina di campo, in un albergo vicino alla spiaggia, con
splendidi colpi d'occhio sulle sponde frastagliate e sul sempre più
lontano Capo d'Empala. E' caratteristico e oserei definire bellissimo il
golfo di Procchio. Come si poteva ammirare a sera, nelle balenanti luci
del tramonto e nella trionfale solarità di quell'estate dolce e
bellissima.
Presso la costa sinuosa, verso Marciana Marina, dopo alcune curve, su per
una strada tortuosa, si appare come una visione, uno scoglio dai fianchi
dirupati ma chiomato di arbusti e piccoli alberi di pino curvi per la
costante pressione del vento, che prende nome, secondo una leggenda
locale, dalla famosa e bellissima sorella di Napoleone, che avrebbe fatto
continuamente il bagno in quelle acque profonde e azzurre. In quella
bellissima e amena isola del mare Tirreno e Ligure, la nostra vacanza si è
protratta per tutto il mese di luglio. In tutto quell'arco di tempo, oltre
ad aver fatto molti bagni, in quelle acque pulite e incontaminate, abbiamo
esplorato, per modo di dire, tutti gli angoli più belli e le insenature
più caratteristiche. A Marciano Marina, non si può non soffermarsi a
visitare il famoso quartiere del Cotone, con le sue modeste case basse
munite di scalini esterne, scaglionate su roccia a strapiombo sul mare. Le
sue spiagge sono stupende, con visione di promontori e di scogliere di
dantesca suggestione. Da Marciana Marina, la strada sale negli altopiani
panoramici fino a giungere a Marciana Castello, paesaggi scenografici sul
pendio dei monti, cinti di vigne e frutteti, boschi da castagni e di
lecci, sullo sfondo le granitiche vette del gruppo del Capanne che
raggiunge l'altezza di 1019 metri sul livello del mare, e del monte Giove
che domina il paesaggio. Dalla vetta del monte Capanne si gode il panorama
più bello e più ampio dell'isola d'Elba; l'isola appare nei suoi
meravigliosi profili, mentre all'orizzonte si delinea la Corsica, le isole
dell'arcipelago e la costa Toscana - Laziale. Abbiamo raggiunto tale vetta
con una moderna cabinovia in partenza da Marciana.
Il nostro itinerario ci porta a Marina di Campo. La strada sfiora tanti
altri bellissimi paesi della costa dal profilo antico, con le case
colorate e baciate dal sole, fino a giungere al Colle Orano Pratesi, in
prossimità del bizzarro e caratteristico faraglione detto Sedia di
Napoleone. Eccoti quindi giunti a Pomonte, delle spiagge miste di ghiaia e
scogliera. A Marina di Campo, in prossimità di Cavoli, vi è la " grotta
azzurra". I pescatori del luogo ci dicono che è uno dei gioielli del ricco
patrimonio speleologico dell'Elba, abbiamo verificato che, infatti,
abbiano ragione. Il golfo di Campo è sicuramente, a nostro parere, uno dei
più belli e significativi dell'isola, incorniciato da una spiaggia famosa
per vastità e finezza della sabbia. Abbiamo potuto constatare che nel
retrostante territorio s'estende la più vasta pianura dell'isola, odorante
di resine e di aromi boschivi.
La sua costa è un susseguirsi di incantevoli arenili alternati a variegate
scogliere sulle quali le onde si infrangono rombando. Ci colpiscono il
sorridere dei prati, dei boschi, di cantucci ombrosi e sereni; lo
splendore del sole sulle onde dei colli o il suono lento tuffarsi nel
mare, in un palpitare di luci, di suoni e di colori. Tutto ciò si può
scoprire in questi posti incantati dalla natura ancora selvaggia e
bellissima in cui non è ancora arrivata la colata di cemento.
Da Marina di Campo raggiungiamo il piccolo Golfo Stella, con sosta alla
spiaggia del Lido e poi dritti per Porto Azzurro e successivamente
raggiungiamo Rio Marina.
Dopo un viaggio alquanto disagiato, su per una strada tortuosa, dalla cima
del colle ci appare come una visione la cittadina di Porto Azzurro,
impregnata di colore, con le sue strade strette, che potremmo chiamare
vialetti medioevali in salita, scalinatelle tra piccole facciate in pietra
dalla tinte mutevoli. La piazzetta è a ridosso al piccolo porto di barche,
con le sue casette barbicate sul fianco del colle, come quelle del
presepe, che si specchiano sulle acque cangianti. Alla fonda, nel piccolo
porto marinaro, vi erano tante barche di pescatori appena giuntavi dalla
pesca, con le loro vele ancora sciolte al vento. La piccola insenatura ove
sorge Porto Azzurro s'addentra, restringendosi fra i contorni collinari,
sino a lambire un piccolo pianoro palustre.
Nell'alto del colle si erge gigantesca, al ricordo del passato, la
fortezza di Longone. Fatta costruire da Filippo III di Spagna nel 1600.
Tale fortezza, oggi è adibita a penitenziario, che noi conosciamo molto
bene, per aver proceduto alla traduzione di alcuni detenuti negli anni
Cinquanta. All'interno di lei vi è ubicata una bellissima chiesa di stile
rinascimentale con i sepolcri di alcuni dignitari spagnoli dell'epoca.
Sul colle, che si raggiunge soltanto a piedi su per un sentiero a 125
metri dal livello del mare, visitiamo una chiesetta, vestigio dei tempi
spagnoli, dedicata alla Madonna del Monserrat, come ricordo del famoso
santuario catalano di nostra conoscenza: il paesaggio intorno poté evocare
le rupestri gole del Monserrat, che dista 30 chilometri circa dalla
meravigliosa città di Barcellona. L'immagine della Vergine custodita in
quella chiesetta si ritiene una copia di quella spagnola. Eccoti sulla
strada per Rio Marina, ove visitiamo quel piccolo borgo marinaro, sito
nella plaga mineraria dell'isola.
Nel nostro itinerario, possiamo osservare che sono ancora visibili le
fulve pendici dei monti progressivamente scavati dalle miniere a cielo
aperto, per l'estrazione del ferro. Quella è la località mineraria
dell'isola, scoperta forse dai fenici e sfruttata in parte dai romani e
dagli spagnoli e anche dal regime fascista nel periodo della Seconda
Guerra Mondiale. Da Rio Marina, una strabella scende fino alla spiaggia,
ove nei pressi visitiamo, un complesso di grotte la cui fantasmagorica
bellezza sembra poter rivaleggiare con quella delle famose grotte di
Postumia. Con la meravigliosa visione di quelle grotte bellissime, termina
il nostro itinerario, attraverso l'incantevole isola dell'Elba, con le sue
bellezze, le luci e i meravigliosi colori. La nostra, non è stata soltanto
una semplice escursione attraverso l'isola, ma è stata una vera vacanza
balneare che è durata tutto il mese di luglio. Nel porta bagagli della
nostra utilitaria, oltre alle valigie, vi ha trovato posto anche il
piccolo cavalletto e la cassetta dei colori. Abbiamo dipinto alcune tele e
abbiamo approntato molti bozzetti, che abbiamo ripreso nel nostro studio
di Gazzuolo. Con i quadri dipinti in quell'isola incantata, abbiamo
allestito una mostra personale, riscuotendo ottimi consensi di pubblico e
della stampa. Ancora oggi, nelle pareti del nostro studio, fanno bella
mostra di se alcuni scorci panoramici delle coste, con le caratteristiche
insenature, le cale e le calette dell'Elba. Forse e non v'è dubbio, sono
stati questi quadri a suggerirci di spolverare la vecchia agenda di
viaggio e utilizzare quegli appunti per scrivere, a ritroso nel tempo,
questo capitolo che fa parte dei nostri ricordi.
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